Fine della nostra storia

di Laus

(N.B.: in questa fic contiene alcune scene violente e/o sessualmente esplicite. Inutile dirvi che non dovreste leggerla se non siete maggiorenni)

Attenzione! Questa fic non è completa.
 
Prologo
Parte I
Parte II
Parte III
Parte IV
Parte V
Parte VI
Parte VII
Parte VIII
Parte IX
Parte X
Epilogo
 

Prologo

 

<<We always need to hear both sides of the story.>>, da “Both sides of the story”, Phil Collins[1]

 

<<Buongiorno. Sono il comandante Philippe Leroy. Innanzitutto mi scuso a nome della compagnia per l’inconveniente e il conseguente ritardo. Benvenuti a bordo del volo Air France Tokyo – Parigi. Il volo durerà circa sedici ore e atterreremo a Parigi intorno alle nove della sera, ora francese. Il tempo è sereno e la temperatura esterna buona. Vi ricordo che gli assistenti di volo sono a vostra disposizione per qualunque necessità. Vi auguro un buon volo.>>

<<Posso stringerti la mano, Punma? Quando decollerà…>>

Punma guarda sconvolto Bretagna, seduto accanto a lui, alla sua destra: <<Come, scusa?>>

Punma e Bretagna sono seduti nella fila centrale della Business Class. Io e Albert siamo alla loro sinistra, nella fila laterale. Questo è il nostro viaggio di ritorno verso ovest, dopo la sconfitta dei Fantasmi Neri. Io mi fermerò na Parigi, naturalmente. Gli altri proseguiranno verso le loro destinazioni. Finalmente si torna a casa. Finalmente… solo qualche giorno fa non avrei usato questo termine. Adesso vorrei essere già a Parigi, lontano da qui… soprattutto lontano da lui…

<<Non ho paura di volare.>>, spiega Bretagna <<Sono solo l’atterraggio e il decollo che mi fanno un po’ impressione. Mi basta stringere la mano di qualcuno per sentirmi meglio.>>

<<Ma sentitelo…>>, risponde Punma <<Scordatelo!>>

<<Per favore.>>, implora Bretagna <<Potrei avere un infarto.>>

<<Sì, certo. Come no.>>, continua Punma ironico, con le braccia conserte sul petto.

Io e Albert, seduti nella fila laterale alla loro sinistra

<<Mi sembra plausibile.>>, dico cercando di farli calmare.

<<Mi sembra ridicolo.>>, dice Punma <<Perché non vieni tu a stringergli la mano?>>

<<Perché ormai siamo in fase di decollo.>>, rispondo.

Intanto l’aereo si sta ancora muovendo per l’aeroporto, cercando la sua pista di lancio. Do un’ultima, malinconica, occhiata fuori dal finestrino. E’ sereno fuori, proprio come ha detto poco fa il comandante dell’aereo. Dentro di me la tempesta ha lasciato i suoi segni. Dubito che andranno mai via. E’ stato come svegliarsi da un sogno. Troppo bello per essere vero. Continuo a chiedermi se anch’io abbia avuto delle colpe, se non sia riuscita a cogliere qualche segnale. Ma più ci penso e più mi sembra che tutto sia maturato solo nel corso degli ultimi due giorni. Al momento della verità, il tutto si è sgretolato scivolando in polvere tra le mie dita. Avevo sognato un finale o, meglio, un proseguimento diverso. Forse, eccolo, il mio errore è stato quello di contare troppo sui miei sogni, senza tenere conto dell’altra parte.

Non sono arrabbiata. La rabbia è passata in un attimo. Sono delusa. La delusione è quello che resta. E quello che non andrà mai via.

L’aereo si è fermato e si sente chiaramente il rombo dei motori che aumentano di giri. Mi preparo al decollo, attaccandomi ben bene allo schienale. Effettivamente è un momento abbastanza traumatico anche per me.

L’aereo si muove, con la solita spinta secca, aumentando sempre più di velocità. Mi sento attaccare al sedile e un vuoto allo stomaco quando l’aereo si stacca da terra. Saliamo sempre più su e l’aeroporto, Tokyo diventano sempre più piccole.

<<Addio, Giappone. Mi mancherai un po’.>>, sento dire a Bretagna con voce lamentosa e teatrale.

<<Non sei contento di tornare a Londra?>>, gli chiede Albert <<Dici sempre che ti mancava.>>

<<Sì, ma quando te ne vai da un posto in cui sei stato tanto tempo, la malinconia c’è sempre.>>, risponde l’altro <<E poi è soprattutto per gli amici, voi e gli altri. Probabilmente non ci rivedremo per parecchio tempo.>>

Non posso fare a meno di pensare che Bretagna ha ragione. Passerà molto tempo prima di poterci rivedere. Il pensiero mi fa storcere la bocca.

<<Però almeno noi tre potremo vederci più spesso.>>, propongo <<In fondo Londra, Parigi e...>>, mi fermo perché mi accorgo solo adesso di non sapere dove andrà Albert. Con tutto quello che è successo negli ultimi giorni, non mi è proprio passato per la testa di chiederglielo. Quasi mi sento in colpa <<Tu dove andrai, Albert? Non credo che tornerai a Berlino Est.>>

<<Indovinato. Vado a stare a Monaco.>>, risponde <<Monaco di Baviera, intendo.>>

Ci metto un po’ a capire perché abbia precisato: <<Non c’era bisogno di specificare. Avevo capito, sai?>>

<<Beh, immagino che per voi Monaco sia il Principato.>>, chiarisce lui.

<<Sì, ma era logico che andrai a stare in Germania.>>, dico <<Posso chiederti perché proprio a Monaco?>>

Lui ci pensa un po’: <<Beh, non è proprio Monaco. E’ un posto lì vicino. Un mio vecchio amico fa l’allevatore di pastori tedeschi e mi ha offerto un lavoro per aiutarlo.>>, spiega <<In più mi dà la possibilità di vivere all’allevamento. Quindi ho anche l’alloggio.>>

<<Farai l’allevatore di cani?!>>, chiede Bretagna strabuzzando gli occhi.

<<Ti sembra una cosa tanto strana?>>, chiede Albert <<Sinceramente non vedo l’ora di iniziare. E poi questo mio amico mi ha detto che fra qualche anno vorrebbe ritirarsi. Se il lavoro mi piace, mi ha assicurato che mi cederà l’attività a un buon prezzo.>>

<<Sembra interessante.>>, commento.

<<Se vuoi un cane, non ti resta che farmelo sapere.>>, mi dice sorridendo.

Sospiro: <<Mi piacerebbe, ma non credo che avrò posto per tenerlo. I pastori tedeschi diventano piuttosto grandi quando crescono. Dubito che troverò un appartamento abbastanza grande per un cane di quella stazza.>>, spiego <<E poi… credo che i cani stiano bene quando hanno un posto all’aperto dove scorrazzare, come un giardino.>>

<<E tu compra una casa con giardino.>>, mi propone lui.

<<A Parigi?>>, gli chiedo <<Per una casa con giardino devi andare nei sobborghi residenziali e costano un occhio dalla testa.>>

<<Quindi andrai a stare in città, deduco.>>

Annuisco: <<Cercherò un buon appartamento.>>

<<Comunque hai ragione.>>, interviene Bretagna.

<<Riguardo a cosa?>>, chiedo.

Lui alza le spalle: <<Londra, Parigi e Monaco non sono così lontane. Potremmo vederci, ogni tanto.>>

<<Facciamo che cerchiamo di vederci almeno una volta… ogni due mesi.>>, propongo <<Che ne dite?>>

<<Mi sembra un’ottima idea!>>, esclama Bretagna <<Che ne dici, Albert?>>

<<Che ci stanno prendendo per pazzi.>>, risponde lui.

Io e Bretagna lo guardiamo un po’ perplessi.

<<Un inglese, un tedesco e una francese che sono così amici da fare propositi di vedersi almeno una volta ogni due mesi.>>, spiega <<Ma quando succede?>>

Io e Bretagna cominciamo a ridere. Albert ha detto la verità. I nostri paesi si sono fatti la guerra per secoli e a noi non importa niente di questo. Stiamo bene insieme e siamo degli ottimi amici.

<<Siamo un inno alla pace mondiale!>>, esclama teatralmente Bretagna.

<<Manca il Sud America.>>, gli fa notare Albert.

Bretagna fa il viso un po’ deluso, e questa sua espressione mi fa un po’ ridere. E’ stato un bene aver deciso di fare il viaggio insieme.

<<Tu cosa farai, Punma?>>, gli chiedo accorgendomi che lo stiamo tagliando un po’ fuori col nostro eurocentrismo.

Punma alza le spalle: <<Tornerò in Kenya e cercherò di migliorare la situazione della mia gente. C’è bisogno di molto lavoro laggiù.>>, conclude sbadigliando <<Scusa.>>

<<Sei stanco?>>, gli chiede Bretagna.

Punma si limita a sorridergli: <<Tutta colpa di Jet. Mi ha fatto fare tardi. Ho dormito neanche tre ore stanotte.>>, dice richiudendo gli occhi e appoggiando nuovamente la testa sullo schienale.

<<Aaahhh… i miei vent’anni.>>, sospira Bretagna guardando sognante un qualcosa che riesce a vedere solo lui <<Anch’io una volta facevo le 7 del mattino. Ora è già tanto se arrivo a mezzanotte.>>

<<Povero piccolo.>>, gli dice Albert ironicamente dolce.

<<Guarda che anche tu sei vicino agli “anta”, herr Heinrich.>>, gli ricorda Bretagna.

<<Non è l’età anagrafica che conta.>>, ribatte l’altro.

<<Beh, allora in quel caso sono più  giovane io di tutti voi.>>, continua Bretagna <<E tu sei il più vecchio.>>

<<No. Tu sei solo un bambino non cresciuto.>>, ribatte Albert.

Punma e io assistiamo alla scenetta divertiti, chiedendoci se forse continueranno così per tutto il viaggio.

<<Chi ha i capelli bianchi fra me e te?>>, chiede Bretagna.

Albert ride: <<Beh, io ce li ho i capelli, io.>>

Effettivamente non era la battuta ideale per Bretagna.

Bretagna si volta dall’altra parte:<<Vai al diavolo, vecchiardo.>>

<<Ho vinto io.>>, commenta l’altro.

<<Ma cosa hai vinto? Tu te le sogni le cose che facevo io a vent’anni!>>, riprende Bretagna disintegrando le mie speranza che tutto fosse finito lì.

<<Cosa si faceva a vent’anni nella Londra del 1840?>>, chiede Albert <<O era nel 1740?>>

Bretagna alza gli occhi al cielo mentre io mi metto a ridere. Visto che mi devo sorbire il quadretto, tanto vale goderselo.

<<La verità è semplicemente che quell’età è l’età dell’oro nella vita di una persona. Quella che rimpiangi sempre.>>, dice Bretagna tornando serio, forse perché ha capito che con le battute non la vince oggi <<Dovreste tenerlo a mente voi due, Jet e…>>

Io mi sono già irrigidita, come preparandomi a un colpo. Ma il colpo non arriva. Bretagna rimane in silenzio, col dito puntato in aria. Albert e Punma gli devono aver congelato il nome in bocca con uno sguardo. Mi rilasso, chiudo gli occhi e scuoto la testa. Sono ridicola, e lo sono anche loro. Non è certo così che dimentico o che evito di pensarci. Sì, devo ammettere che la conversazione, i teatrini tra Albert e Bretagna sono riusciti a distrarmi un po’. E forse è per questo che li stanno mettendo su. Cercano di distrarmi il più possibile dai miei problemi sentimentali. Ma non credo che serva veramente.

Riapro gli occhi, e li guardo. Tutti e tre, uno per volta: <<Sentite. Non voglio che stiate sedici ore a pensare “devo stare attento a non dire quel nome sennò povera Françoise”.>>, dico <<Non fatevi questi problemi. Se dovete nominare Joe nominatelo. Per me non è un problema. Non vedo perché lo debba essere per voi.>>

Tutti e tre si guardano tra loro, poi è Albert a prendere la parola: <<Hai ragione, scusaci.>>

Bretagna e Punma si guardano appena un attimo, chiudendosi in un imbarazzato mutismo.

Vorrei stare zitta, a questo punto. Ma le mie labbra sono entrate in una specie di moto per inerzia, e le parole mi escono di bocca da sole, ma un moto di amor proprio ne abbassa la voce al livello del sussurro: <<Non è non parlandone che la cosa scompare. Anzi, forse avrei bisogno del contrario…>>

Finalmente mi fermo. Solo Albert sembra aver sentito, visto che mi guarda con uno sguardo in qualche modo compassionevole. Devo fargli pena.

Mi porto le mani alle tempie, massaggiandole. Non so perché, ma sento che le mie labbra si curvano in una specie di sorriso: <<Scusami… sto lentamente delirando.>>, gli dico.

<<Non hai bisogno di fingere che non soffri, Françoise.>>, mi dice a voce bassa <<Lo sappiamo tutti che per te non è un bel periodo. E… magari sbagliando… cerchiamo di fare del nostro meglio per tirarti su.>>

Rialzo gli occhi e gli sorrido, di gratitudine: <<Tu non sai come sono andate esattamente le cose, vero?>>

<<Françoise, non sei tenuta a dirmi niente.>>, mi dice <<E’ una cosa tua.>>

Annuisco: <<Sì, ma… parlarne forse mi può servire… e poi… forse… non so… forse, come uomo, riesci a comprendere meglio di me cosa sia successo in realtà.>>

Albert riflette silenziosamente sulle mie parole, per qualche istante: <<Françoise, devi fare quello che pensi sia meglio.>>, mi dice <<Tu sai che puoi sempre contare su di me. E’ una tua scelta. Se ritieni che parlarne, sfogarti possa servire… beh… ci sono sedici ore di viaggio per farlo.>>

 

Apro la porta e la richiudo sbattendola dietro di me. Comincio a camminare rabbiosamente e a testa bassa verso le scale che portano alle camere.

<<Joe.>>

Mi volto indietro. Il professor Gilmore è in piedi, sull’entrata del suo studio, con le mani dietro la schiena, e mi guarda.

<<Siamo rimasti solo io e te, eh?>>, dice <<E Ivan.>>

<<Resterò solo qualche giorno…>>

Il professore sorride e fa qualche passo verso di me: <<Oh, anch’io lascerò questa casa tra un po’.>>, dice <<Questa nuova casa mi piace, ma sono troppo vecchio per starci da solo. Un mio vecchio allievo ha un centro di ricerche. Mi ha offerto di andare a vivere là. Credo che accetterò.>>

<<Un centro di ricerche?>>, chiedo <<Non aveva detto che voleva ritirarsi?>>

Gilmore annuisce: <<Sì. Infatti ho specificato che farò solo il pensionato. Il professor Cosmo ha detto che non ci sono problemi e che per lui “è un onore” avermi come ospite.>>, dice <<Ma… parliamo di te. Cosa farai?>>

Lo guardo perplesso. So benissimo che vuole andare a parare da un’altra parte: <<Mi do alle corse. Cosa vuole che faccia.>>, dico seguendolo istintivamente mentre continua a camminare <<Sembra che sia l’unica cosa che mi riesce bene.>>

<<Questo non è vero.>>, dice <<Sei un ragazzo molto intelligente. Se avessi continuato a studiare a quest’ora potresti essere un fisico o chissà cosa…>>

Mi mette un po’ in imbarazzo: <<Lei mi sopravvaluta…>>

<<O sei tu che ti sottovaluti.>>, dice.

Scuoto la testa: <<Professore, a quest’ora, anche ammettendo che avessi scelto di studiare fisica, sarei al massimo all’università.>>

<<Hai ragione anche tu.>>, ammette <<Ma credo che avresti comunque ottimi risultati.>>

Siamo arrivati in sala. Gilmore si mette a sedere sulla sua poltrona preferita e mi invita a fare altrettanto. Visto che non ho molto altro da fare, accetto l’invito a fare un po’ di conversazione. Ma resto in piedi, accanto alla porta. Forse è proprio di parlare che ho bisogno. Chiudermi nella prigione della mia solitudine mi farebbe impazzire.

<<Ho sentito che resterai in Giappone per un po’, e che riprenderai la prossima stagione.>>, mi dice <<Jet mi ha detto che parecchi teams avrebbero mandato i loro brocchi a casa, anche adesso, se tu avessi alzato la mano e avessi detto “ehi, ci sono anch’io”.>>

Sorrido. Glielo può aver detto solo Jet. Solo lui poteva usare quell’espressione ed è la stessa cosa che ha detto a me. La scusa ufficiale è che devo rimettermi in moto, rodarmi, prima di riprendere in mano una Formula Uno. Ma ho mentito, anche a me stesso, anche se non direttamente.

<<Se tu avessi scelto di tornare in Formula Uno, ti sarebbe convenuto andare a vivere in Europa.>>, continuò Gilmore <<E, invece, resti qui.>>

Eccolo il punto. Indirettamente, ma ha centrato in pieno. Dovrei fargli i complimenti. Mi ha messo in difficoltà. Non so proprio cosa rispondere: <<In Formula uno i giochi sono fatti a questo punto della stagione…>>

<<Ci sono tanti altri campionati.>>, ribatte lui

<<Vale lo stesso discorso.>>, dico scuotendo leggermente la testa.

<<Sei uno che a poco più di vent’anni ha rischiato di vincere il campionato del mondo di Formula Uno.>>, dice <<Ti avrebbero fatto i ponti d’oro. Un posto lo trovavi.>>

Sospiro esasperato: <<Professore, per favore. Non potevo fare diversamente…>>

Alla fine ci siamo arrivati. Si volta verso di me incredulo. Io, da parte mia, lo guardo silenzioso. Cosa dovrei dire? Mi studia con i suoi occhi penetranti. E credo di essere come un libro aperto.

<<Come sarebbe a dire?>>, mi chiede aggrottando la fronte.

Distolgo lo sguardo. Il mio mondo, quello che ho cercato di costruire faticosamente uscendo dalla feccia che mi soffocava, è già per metà distrutto dalle mie stesse mani e, non so, ho come l’impressione che mi stia crollando addosso tutto il resto.

Lui continua a guardarmi, pensieroso. Lo guardo appena con la coda dell’occhio. Improvvisamente è come se un lampo gli illuminasse gli occhi. Non avevo notato che avesse un giornale in mano fino al momento in cui non se lo toglie da dietro la schiena e lo apre davanti ai suoi occhi. Mi basta leggere il titolo per capire che ha già compreso tutto, o quantomeno è già molto vicino alla verità. D’altronde è un uomo di un’intelligenza assoluta.

<<Joe, ha a che fare con questa storia?>>, mi chiede ripiegando il giornale e mettendomelo davanti agli occhi.

Non ho bisogno di leggere l’articolo per sapere cosa c’è scritto. So già tutta la storia. Guardo il professore con sguardo accigliato, e annuisco: <<Ha che fare con questa storia.>>

Gilmore cambia espressione, diventando malinconico. Sembra dispiaciuto: <<Capisco. E agli altri hai preferito non dire nulla.>>, dice guardando nuovamente il giornale <<Anche a Françoise.>>

Stavolta scuoto la testa: <<A lei ho quasi detto la verità.>>, rispondo <<Non tutta la verità…>>

<<E’ per questo che è finita?>>, mi chiese con il suo sguardo serio e penetrante.

Mi limito ad annuire.

<<Joe, io lo so che sono fondamentalmente fatti vostri, e se non ne vuoi parlare non sarò certo io a forzarti. Ma…>>, stringe le labbra, forse cercando le parole più adatte <<Per me siete come dei figli e mi fa male vedere due figli che soffrono.>>

<<Può sempre smontarmi pezzo per pezzo, come aveva promesso.>>, propongo[2].

Gilmore sorride: <<Già, lo avevo promesso.>>, dice <<Ma… stai soffrendo come un cane anche tu. Si vede, sai? Ed è questo che non capisco. Voi due vi amate. Lei ti sarebbe stata accanto. Non si sarebbe spaventata di niente pur di stare accanto a te. Questo lo sai, vero?>>

Annuisco… poi scuoto la testa… sono confuso all’inverosimile. La testa mi sembra sul punto di scoppiare: <<Professore, è proprio questo il problema! Io non voglio che lei rimanga coinvolta in questa storia!>>

Gilmore mi guarda con uno sguardo paterno e comprensivo. Aspetta qualche istante: <<Non solo questo, vero?>>

Rimango in silenzio, quasi paralizzato. Non so cosa dire. Sento gli occhi cominciare a bruciare. Cerco di trattenere le lacrime, prima che cadano dai miei occhi. Così li chiudo. Scuoto la testa, passandomi le mani fra i capelli. Cerco di calmarmi: <<Non voglio… non voglio che sappia niente… non voglio che sappia niente.>>, dico dando semplicemente voce all’unico pensiero fisso che ha avuto la mia mente nelle ultime due settimane.

Mi appoggio alla parete, scivolando giù, fino a sedermi per terra. Mi porto le ginocchia al petto, abbracciandole e posandovi sopra la testa. E adesso ecco l’altro pensiero fisso affiorare nella mia mente. Quello che mi accompagnerà, forse, per il resto della mia vita. Tutta quella vita che volevo passare insieme a lei, la passerò invece a tormentarmi su quest’unico pensiero. Batto la testa sulle mie ginocchia al ritmo dell’affiorare di questo pensiero nella mia testa: <<Non volevo perderla… non volevo perderla… Non volevo!>>

Rialzo il mio pugno destro, ancora chiuso, dal buco che ho fatto sul pavimento: <<Oh, cazzo… Mi dispiace, professore.>>

Gilmore scuote la testa, aiutandomi a rialzarmi: <<Non importa, figliolo. Adesso curiamo quella mano e poi… vai a farti una dormita. Ne hai bisogno.>>

Mi accorgo solo adesso che la mia mano sanguina. Ma non per il colpo sul pavimento, ma perché ho strinto il pugno così forte da far entrare le unghie nella carne, o qualunque cosa sia quello che mi riveste adesso.

Continuo a guardare la mia mano: <<Se dormissi sarei assalito dai peggiori incubi.>>, dico a voce bassa <<Professore, vorrebbe ascoltare questa storia? La fine della nostra storia…>>

 

<<If I could, you know I would. If I could, I would let it go. This desperation, dislocation, separation, condemnation, revelation.>>, da “Bad”, U2[3]

 

<<Even left alone one day, ain’t gonna change. It’s not my world. Before me there’s a road I know. The one I choose myself to go.>>, da “Sound of solitude”, Myslowitz[4]

 

Parte I

 

 

<<Joe, non è successo niente.>>

Storsi le labbra e mi chiedevo come faceva a non capire che per me era umiliante. Appoggiai la testa sopra un braccio, messo dietro la nuca e mi voltai verso di lei. Era distesa supina, col mento appoggiato sulle braccia, e mi guardava. Sembrava tranquilla. Come se fosse tutto normale. E per me invece non lo era. Mi sentivo frustrato: <<Appunto. Non è successo niente.>>, dissi piuttosto seccato <<E’ questo che mi rode. Lo capisci?>>

Lei sorrise, e quel suo sorriso mi faceva sentire ancora peggio. Sembrava non dare importanza a quello che per me era una specie di tragedia: <<Ti assicuro che non sei né il primo, né sarai l’ultimo a cui succederà.>>

Mi chiesi se fosse conscia del fatto che cercando di consolarmi non facesse altro che peggiorare la situazione: <<A me non era mai successo.>>

Sorrise un’altra volta. Ma un sorriso più divertito: <<Sì, lo confermo.>>

Restai in silenzio, guardandola probabilmente con l’espressione più idiota che potevo fare. Quella risposta mi aveva un po’ spiazzato. Non tanto la risposta in sé, quanto la sua sicurezza nel darla: <<Con quale sicurezza lo dici.>>, le feci notare <<Che ne sai che non mi sia successo con qualcun’altra?>>

Di nuovo quel sorriso, stranamente sicuro: <<Joe, tu non sei stato con altre donne prima di me.>>

Era vero, ma… : <<E da cosa l’avresti dedotto, scusa?>>

Del sorriso rimase la traccia sulle sue labbra. Mi guardava con gli occhi dell’ovvietà: <<Me ne sono accorta la nostra prima notte. Non è che ci voglia molto.>>, rispose come se fosse la cosa più naturale del mondo.

<<Ho sbagliato forse qualcosa quella notte?>>

Lei scosse la testa: <<No, tu non sbagliasti nulla. Eri solo… come dire… troppo smanioso, all’inizio.>>

<<E se fossi stato semplicemente troppo felice di farlo con te?>>

“Non dire stupidaggini”. Non me lo dice direttamente lei. Me lo dice il suo sguardo. Solo che questo vuol dire anche qualcos’altro. Mi girai su un fianco, guardandola: <<Ci sono stati altri prima di me, vero?>>

Lei restò in silenzio qualche secondo, alzando la testa e appoggiandola su una mano, mentre con l’altra mi accarezzava i capelli: <<Io non ti ho mai detto che tu sia stato il primo.>>, disse.

<<Non mi hai nemmeno mai detto il contrario.>>, le feci notare.

Sorrise un’altra volta, ma stavolta è un sorriso di accondiscendenza, quasi quello che si fa a un bambino: <<Joe, ho un anno e mezzo più di te. Alla nostra età un anno e mezzo di differenza tra donna e uomo è un’enormità.>>, disse continuando ad accarezzarmi i capelli <<E poi è successo molto prima che ti conoscessi. Sarebbe stupido essere gelosi di un mio passato di cui tu non fai parte, non credi?>>

Le posai una mano sull’avambraccio, fermandola dall’accarezzarmi i capelli. So che aveva ragione.  Ma la curiosità, forse un altro modo di chiamare la mia gelosia, è più forte di me: <<Quanti prima di me?>>

Rimase a guardarmi silenziosamente per qualche istante, con uno sguardo tra il perplesso e il divertito. Poi scosse la testa e si mise a ridere in quel suo modo delicato: <<Stai scherzando?>>

<<Quanti?>>, ripetei, in tono più deciso.

Lei smise di ridere, e sembrò pensarci su un attimo, distogliendo gli occhi dai miei: <<Uhm… una ventina.>>

La faccia che mi venne fuori doveva essere terrificante, se ricalcava soltanto minimamente quello che mi provocò dentro quella risposta. Mi lasciò letteralmente senza parole.

Poi, dopo qualche istante, lei si mise nuovamente a ridere: <<Ehi, stavo scherzando.>>

La guardai perplesso qualche secondo prima di chiederle se stesse scherzando veramente.

<<Certo che stavo scherzando!>>, mi disse <<Ti sembro il tipo da cambiare uomini come fazzoletti?>>

Mi misi a sedere, con la schiena appoggiata alla testata del letto e sospirai. Non so se è il sollievo o tutto il respiro trattenuto prima: <<Seriamente, quanti?>>

Lei fece una mezza risata, scuotendo la testa: <<Joe, ma è così importante?>>

<<Quanti?>>

 

Non si arrendeva. Continuavo a chiedermi perché per lui fosse così importante saperlo. In fondo, forse, è che tutti gli uomini sono così. E continuavo a chiedermi perché mi fosse venuto in mente di introdurre l’argomento. Eppure conosco bene la sua gelosia.

<<Tre.>>, confessai girandomi sulla schiena e arrendendomi <<E adesso che lo sai?>>

Mi guardava con una faccia strana, indecifrabile. Non riuscivo a capire quello che gli passava per la testa. Restò qualche istante in silenzio: <<E com’erano?>>

<<Pardon?>>

<<Hai capito benissimo.>>, disse <<Com’erano?>>

Lo guardai perplessa, cercando di capire quale perversa curiosità lo guidasse e quale perversa dea mi avesse ficcato in questo gioco. Forse avevo bevuto un bicchiere di troppo a tavola. Non al punto di essere ubriaca, ma al punto di aver perso un po’ del mio senso del controllo. Decisi di stare al gioco. D’altronde mi ci ero buttata con le mie stesse mani in questo guaio: <<Vediamo… il primo era… il classico primo amore… un mio amico d’infanzia. Aveva un paio di anni più di me… e io pensavo che sarebbe stato l’uomo della mia vita… avevo diciassette anni. In fondo ero solo una ragazzina e facevo sogni da ragazzina.>>, dissiscuotendo la testa, forse ripensando alla mia ingenuità di allora <<La prima volta fu… era molto dolce. Credo che fosse veramente innamorato di me. Io ero… nervosa, credo di essere stata una specie di disastro.>>

<<E perché è finita?>>

Mi stupì un po’ la calma della sua voce: <<Io scoprii di non essere innamorata di lui.>>, risposi <<Gli ho spezzato il cuore. Se ci penso, mi dispiace ancora…>>

<<Non conoscevo questo tuo lato crudele.>>

<<Non fui crudele. Fui sincera.>>, dico <<Ho avuto la colpa di averla portata troppo in là.>>

<<E il secondo?>>

<<Il secondo fu una tragedia.>>, dissi sorridendo amaramente. <<Un borioso pieno di sé che… ancora non riesco a capire cosa ci trovai in lui. Non sapeva baciare e tra le lenzuola era anche peggio.>>

Joe fa una mezza risata: <<E il terzo?>>

<<Il terzo…>>, ripeto annuendo sorridendo <<Il fantomatico terzo uomo. Una sofferenza… Sì… Mi ha fatto soffrire. Un inseguimento continuo… Arrivavo vicinissima, pensavo di essere arrivata e lui scappava di nuovo. Era sempre un passo più in là.>>

<<Alla fine l’hai preso?>>, mi chiese ridendo.

<<Sì, e ne è valsa la pena.>>, risposi <<Un ragazzo fantastico. Dolce, sensibile, premuroso un cucciolo bisognoso di affetto. Un modo di baciare trascinante e… un amante fantastico. Contento?>>, conclusi studiando la sua reazione.

<<Certo.>>, non mi sembrava particolarmente soddisfatto, mentre scivola sotto la coperta <<Immagino che il quarto, in confronto al terzo, sia stata un’esperienza terrificante.>>

Sorrisi. In realtà cercavo di trattenermi dal ridere: <<Ma il quarto non esiste.>>, risposi.

Mi guardò interdetto, come se non avesse afferrato bene: <<Il terzo sarei io?>>

Annuisco sorridendo.

Lui restò fermo qualche istante. Sembrava riflettere su qualcosa. Poi scosse la testa, quasi ridendo: <<Sono uno stupido.>>

Sorrisi, girandomi su un fianco: <<Sai, non credo che il quarto esisterà mai.>>

Joe mi guardò, con un’espressione strana. Quasi malinconica: <<Non credo di essere così speciale come mi descrivi tu. Io a volte penso di non meritarti...>>

Gli appoggiai un dito sulle labbra: <<Non abbiamo ancora molto tempo da passare insieme, Joe.>>

Joe non continuò nel suo discorso, continuando a guardarmi con quel suo sguardo pensieroso per qualche istante.

 

<<A quel punto avrei dovuto continuare da dove mi aveva fermato.>>, dico racconto al professor Gilmore, che mi ascolta in silenzio.

<<Ma non l’hai fatto.>>, continua per me il professore.

Annuisco. Avrei dovuto… Ma non ce l’ho fatta. Non ho avuto il coraggio di dirle quello che pensavo. Quel suo sguardo, la sua mano che scivolava lentamente lungo il mio torace, quelle parole, quel suo ricordarmi che non avevamo ormai molto tempo, ebbero l’effetto di farmi tralasciare cosa fosse più ragionevole fare in quel momento, di oscurare in qualche modo il mio cervello. Certi istinti sono più facili da assecondare, e più facili in generale. Molto più semplice era vivere quel momento, quel poco tempo rimastoci, il più intensamente possibile. Molto più facile rimanere in silenzio, lasciando dentro di me le parole, taglienti come le lame di un coltello. Molto più difficile era guardare oltre quei giorni.

<<Ero come uno che va avanti, camminando all’indietro, perché non vuole vedere dove sta andando.>>, dico dopo un bel po’ di silenzio, guardando le mie mani che si sfregano lentamente tra le mie ginocchia.

Gilmore piega le labbra, secondo la forma della sua perplessità: <<Perché crede di conoscere quello che potrebbe vedere, e ne ha paura.>>

Mi limito a guardarlo, nel più accondiscendente dei silenzi.

 

<<Forse avrei dovuto lasciarlo parlare.>>, dico guardando il manto di nuvole che stiamo sorvolando <<Ma non immaginavo nemmeno quello che gli passava per la testa.>>

Albert ha una specie di sorriso sulle labbra: <<In fondo Joe non è diverso da qualunque altro uomo.>>

<<In che senso?>>

Albert sorride in modo più accentuato, giungendo le mani guantate davanti al suo mento: <<In fondo tutti gli uomini si chiedono con quanti è stata la loro donna  e se sono stati meglio di lui. Non so se mi spiego…>>

Rido: <<Ah, ti spieghi benissimo.>>, dico <<Ma in fondo sono stata io a tirare il sasso.>>

<<Già.>>, dice annuendo <<Credi che sia tutto iniziato da lì? Non pensi che sia qualcosa che si portasse dentro da più tempo?>>

Annuisco: <<Sì… ma… forse già allora avrei potuto capire. E forse si sarebbe potuto salvare qualcosa>>.

 

<<Silence is easy. It just becomes me.>>, da “Silence is easy”, Starsailor[5]

 

<<And now I wish that I could turn back the hours, but I know I just don’t have the power. Could it be any harder to say goodbye, and without you? Could it be any harder to watch you go, to face what’s true? If I only had one more day…>>, da “Could it be any harder?”, The Calling[6]

 

 

 

Parte II

 

 

<<Buongioooooooorno!>>

Jet irruppe euforico nella cucina. Tra tutti quanti, forse era lui il più felice di tornare a casa. Io lo guardavo, appoggiato al bancone della cucina, con la mia tazza di caffè fumante in mano. Anche Albert alza gli occhi su di lui, alzandoli dal giornale che stava leggendo.

<<Ehi, ma ci siete solo voi?>>, chiese guardandosi intorno, nella cucina vuota e avvicinandosi per versarsi una tazza di caffè.

<<E’ una rarità che tu ti alzi così presto.>>, gli fece notare Albert girando pagina.

<<Mamma mia, che faccia che hai, amico!>>, mi disse Jet ignorando l’altro occupante della stanza e le sue osservazioni <<Non hai dormito stanotte.>>

Lo guardai di sbieco, senza rispondere. Non avevo bisogno dei poteri di Ivan per capire a cosa alludeva. E mi sarebbe piaciuto rispondergli che non era solo per quello che pensava lui che avevo dormito poco quella notte.

Visto il mio silenzio, Jet cambiò argomento: <<Cosa farai tu? Con chi correrai?>>

Ci pensai un po’ prima di rispondere. Immaginavo che la mai risposta non gli sarebbe piaciuta: <<Resterò qui e cercherò un ingaggio per la prossima stagione. Ho già alcuni contatti…>>

Lui, che stava per avvicinare la tazza di caffè alla bocca, si ferma come pietrificato: <<Come, scusa?>>

<<Hai capito benissimo.>>

<<Ma ti ha dato di volta il cervello?!>>, disse <<Perché?!>>

Lo guardai impassibile: <<Jet, siamo a campionato iniziato e inoltrato. Nessuno cerca piloti a questo punto dell’anno.>>

<<Balle!>>, ribatté sbattendo la tazza sul bancone <<In Formula Uno ci sono un sacco di brocchi che le loro scuderie caccerebbero volentieri a calci nel culo, se solo tu alzassi la mano per dire “ehi, sono tornato fra voi. Fate la vostra offerta”.>>

<<Jet, sono fermo da un anno.>>, gli feci notare.

<<Avresti potuto fare il collaudatore! Almeno quello!>>

<<Oh, insomma Jet.>>, sbottai innervosito.

<<”Insomma Jet” ‘sto cavolo.>>, dice piuttosto arrabbiato <<Non posso vedere un pilota come te che si spreca in questo modo.>>

<<Forse è una scelta mia, non credi?>>

<<Certo!>>, rispose lui allargando le braccia <<Ma permettimi di dire che è una grossa cazzata!>>

<<E Françoise?>>

Mi voltai verso Albert, che era stato distratto dal suo giornale dal nostro alterco.

Per Jet è altra benzina da buttare sul fuoco: <<Ah, già. Se tu fossi tornato in Formula Uno saresti potuto andare a stare in Europa. Sareste stati più vicini. Non ci hai pensato?>>, mi disse incrociando le braccia sul petto.

Eccome se ci avevo pensato: <<Senti: in Formula Uno, aldilà di quello che tu possa pensare, ora come ora non cercano né piloti né collaudatori. E questo vale per tutti i campionati europei.>>

<<Sì, ma cosa farai con lei?>>, insisté Albert <<Le relazioni a distanza non sono facili, Joe.>>

Non risposi, semplicemente perché non sapevo cosa dire. La verità era un qualcosa che non ero ancora disposto ad ammettere, nemmeno a me stesso.

<<Se tu non puoi andare con lei, chiedile di restare qui.>>, propose Jet.

<<Stai scherzando!?>>, gli dissi guardandolo male <<Non posso fare una cosa del genere!>>

<<Perché no?>>, mi chiese ingenuamente.

<<Perché il suo posto è a Parigi, sul palco dell’Opera.>>, rispondo <<Non posso chiederle di restare qui e rinunciare a tutti i suoi sogni.>>

Albert storse le labbra, perplesso: <<E allora? Finisce qui?>>

Rimasi in silenzio qualche secondo, poi scossi la testa: <<No, il tempo di sistemare tutto. Se la prossima stagione mi riprendono in Formula Uno…>>

Jet e Albert si guardarono non molto convinti. Mi diressi verso l’uscita della cucina. Non credevo di poter sopportare ancora a lungo i loro sguardi inquisitori.

Uscii nel corridoio, andando verso l’esterno. La casa nel quale ci siamo trasferiti dopo la sconfitta dei Fantasmi Neri è molto simile, con la sua posizione a ridosso del mare, su un promontorio, a quella che fu distrutta dagli stessi Fantasmi Neri.

L’aria profumava di mare e il sole era caldo al punto giusto. D’altronde era primavera inoltrata ormai. Non ero il solo ad aver avuto l’idea di uscire a godermi l’aria frizzante del mattino.

Mi fermai a guardarla, ma lei non mi dette il tempo di farlo adeguatamente. Si voltò, accorgendosi inevitabilmente della mia presenza.

 

<<Buongiorno.>>, gli dissi mentre si avvicinava a me.

Lui mi sorrise, fermandosi davanti a me: <<Ce lo siamo già detto stamattina.>>

<<Non ricordavo.>>, gli risposi <<Te ne sei andato via presto. Mi sono appena accorta.>>

Sorrise un’altra volta, guardando verso il mare: <<Non riuscivo più ad addormentarmi. Ho preferito alzarmi.>>

Un gabbiano si abbassa velocemente verso la superficie dell’acqua, sfiorandola appena e tornando subito su dopo aver preso la preda.

<<Sai, ripensavo a quello che mi avevi detto l’altro giorno, riguardo alla tua decisione.>>, gli dissi.

Lui mi guardò in silenzio qualche istante: <<Io non posso fare di più adesso.>>, mi rispose dopo un po’ <<Non me la sento di ricominciare di botto con la Formula Uno e non ci sarebbe nemmeno la possibilità di farlo.>>

<<Sì, non hai bisogno di giustificarti.>>, gli risposi <<Ti capisco perfettamente. Pensavo che potrei…>>

<<Non pensarci nemmeno!>>, mi interruppe lui con lo sguardo accigliato.

Lo guardai perplessa: <<Non sai nemmeno cosa stavo per dire.>>

Lui fece una specie di sorriso: <<Mi stavi dicendo che potresti rimanere qui con me fino a quando non tornerò a correre in Europa. Non voglio.>>, disse scuotendo la testa <<Non voglio che tu sacrifichi i tuoi sogni per me. Non voglio questo peso.>>

Annuii, a labbra strette: <<Sì, va bene. Come vuoi.>>

Un altro gabbiano volò rasente a filo d’acqua, catturando di nuovo la mia attenzione.

<<Potremmo fare un viaggio.>>

Mi voltai, guardandolo in silenzio. Dovevo avere una faccia piuttosto perplessa, da chi non ha capito bene, perché lui ripeté la proposta.

<<Potremmo fare un viaggio, da qualche parte. Prima che tu te ne vada.>>, mi disse con una specie di sorriso sulle labbra <<Insomma. Hai detto tu stessa che non ci rimane molto tempo da passare insieme. Dovremmo sfruttarlo al meglio. Vorrei lasciarti un buon ricordo di noi due.>>

<<Un viaggio…>>, ripeto sorridendo <<E’ un’idea interessante. Ma dove?>>

Joe alzò le ciglia, guardando un attimo verso il mare e tornando poi a guardare verso di me: <<Dove vuoi tu. Magari questo weekend.>>

<<Questo weekend.>>, dissi facendo mente locale su quanto tempo avevamo. Solo una settimana. Un altro gabbiano pesca il suo pasto in mare e si rialza <<Un posto di mare.>>

<<Un posto di mare…>>, ripeté lui <<Va bene… ma perché? C’è un qualche motivo particolare?>>

Mi misi a sedere sull’erba, con gli occhi verso l’oceano: <<Tu sei cresciuto in un posto di mare, vero?>>

Joe si mise a sedere accanto a me, ma dando le spalle all’acqua: <<Sì, si può dire che sia così.>>

Annuii: <<A Parigi non c’è il mare.>>

<<C’è la Senna.>>, mi fece notare lui, un po’ ironico.

Mi strappò una specie di sorriso: <<Sì, ma non è la stessa cosa.>>, risposi <<Forse per uno che è cresciuto vedendo tutti i giorni il mare, è una cosa normale…>>

<<No…>>, mi interruppe scuotendo la testa <<E’ la prima cosa che ti manca quando ne sei lontano.>>

<<Comunque… se dovrò rientrare nel giro… non avrò molto tempo libero, nei prossimi mesi.>>

Lui rimase silenzioso qualche istante, giocando con un filo d’erba che aveva staccato da terra e che adesso si rigirava tra le mani: <<Ci sono parecchi posti di mare qui vicino, a sud soprattutto.>>

<<Uhm… vediamo… fa’ qualche esempio.>>

<<Indonesia, Filippine, Australia, Nuova Zelanda, Okinawa… uhm…>>, scosse la testa.

<<Kyushu.>>, proposi.

Lui mi guardò prima un po’ interdetto, poi sorrise: <<Non ci avevo pensato.>>, disse.

<<Nagasaki.>>, continuai.

Joe mi guardò interdetto: <<Siamo già stati a Nagasaki.>>, mi disse.

<<Sì, e ricordo piuttosto piacevolmente quell’occasione.>>, risposi sorridendo.

Lui si giunse le mani portandosele davanti alla bocca, in un’espressione pensierosa, guardando da un’altra parte: <<Uhm… tanto avevo già programmato di andarci prima o poi.>>

Mi limito a sorridere. Immagino il perché dovesse andarci. Però…

<<E dopo?>>, chiesi quasi materializzando in parole il mio pensiero.

Studiai la reazione di Joe, il suo sguardo perplesso, il suo sorriso subito dopo. Un modo per dirmi di non preoccuparmi.

<<Dopo…>>, disse <<Ne abbiamo già parlato. Per ora…>>

<<Non puoi fare più di così.>>, completai io per lui <<Non sarà facile stare lontana da te così a lungo.>>

 

<<E tu cosa le dicesti, Joe?>>

Il professore mi guarda pensieroso, e si limita quasi unicamente ad ascoltare la mia storia. Senza fare commenti, nemmeno con il volto. Senza lasciar trapelare nulla di quello che pensa, dei sentimenti che la storia gli fa venire fuori. E’ stato il mio silenzio a portarlo a fare la domanda.

Scuoto la testa: <<Niente.>>

<<Niente?>>

<<Qualunque cosa mi venisse in mente, mi sembrava stupida… oppure… mi faceva paura.>>, rispondo.

<<Paura?>>, chiede il professore non comprendendo appieno.

<<Temevo che non le sarebbe piaciuta… e non piaceva nemmeno a me.>>, rispondo <<In quel momento ho pensato solo a rassicurarla. In qualche modo…>>

 

<<Mi ha scavalcato con un braccio e mi ha preso la testa con l’altra mano e…>>

<<E ti ha baciata.>>, conclude Albert <<Romantico. Però non ti ha detto niente.>>

Annuisco sospirando: <<Appunto.>>

<<Avresti dovuto stuzzicarlo un po’ di più.>>, mi dice Albert <<Forse avrebbe tirato fuori qualcosa.>>

Scuoto la testa: <<Tu non hai idea di come baci Joe.>>

Albert ride: <<Oh, non ci tengo nemmeno a saperlo.>>, dice <<Comunque ammetterai che quello era un modo per non dover usare la bocca per parlare.>>

Muovo la testa in un gesto di accondiscendenza: <<Sì, ma rimane uno dei baci migliori della mia vita.>>

Albert mi guarda prima in modo quasi severo, per poi scoppiare a ridere: <<Tu sei malata.>>, dice scuotendo la testa.

Sbuffo col naso, sorridendo amaramente, almeno quanto è amara quella verità: <<Già. Irrimediabilmente.>>

 

<<I’ve found a way to make you smile.>>, da “At my most beautiful”, R.E.M.[7]

 

<<For what it’s worth, I love you. And what it’s worse, I really do.>>, da “For what it’s worth”, Cardigans[8]

 

Parte III

 

 

Arrivammo a Nagasaki verso le sette e mezzo della sera del sabato. Avevamo trovato un bel po’ di traffico, e così avevamo perso almeno mezza giornata. Andammo immediatamente in albergo, per lasciare i bagagli in stanza. Lo stesso albergo di allora e la stessa stanza di allora. L’avevo richiesta espressamente. Aprii la porta e feci entrare Françoise prima di me, che nel momento di varcare la soglia, si girò indietro, guardandomi con uno sguardo del tipo “me lo dovevo aspettare”, sorridendo.

Io mi limitai a rispondere al sorriso, e varcai la soglia a mia volta, chiudendo la porta dietro di me. Mi guardai intorno. Non era cambiato niente. Mi ritrovai a rivivere quella notte nella mia mente. Ogni battuta, ogni gesto, ogni momento. I suoi istinti e i suoi timori, la paura di sbagliare qualcosa. Ancora prima, di dire qualcosa di sbagliato e di perdere un’altra occasione. L’odore del profumo francese che lei usava senza esagerare, ma abitualmente, il suo irrigidirsi quando le aveva cinto la vita, la morbidezza delle sue labbra, il suo lasciarsi andare…

<<Joe!>>

<<Scusa, ero soprappensiero.>>, le dissi scuotendo la testa come per risvegliarmi da un sogno.

<<Mi sono accorta.>>, mi rispose con un sorriso in cui vidi una punta di maliziosità. Ma forse era solo l’eco dei miei ricordi interrotti.

<<Dicevi?>>, le chiesi.

<<Quali sono i programmi della serata?>>

Alzai le ciglia. Proprio non ci avevo pensato. Improvvisai: <<Potremmo andare a mangiare fuori e poi fare una passeggiata.>>, dissi <<E’ di suo gradimento?>>

Lei annuì: <<Può andare, ma quando andrai a…>>

<<Domani.>>, la interruppi, sapendo già a cosa alludeva <<Ormai è troppo tardi.>>

Lei restò in silenzio qualche istante, poi annuì: <<Va bene.>>, disse cominciando a sbottonarsi la camicetta. Ma si fermò guardandomi perplessa, quasi divertita. Solo allora mi accorsi che la stavo guardando fissamente <<Voglio solo farmi una doccia.>>, mi disse.

Feci una mezza risata, distogliendo lo sguardo: <<Credevi che non mi avrebbe fatto alcun effetto?>>, dissi prendendo la mia valigia e aprendola su uno dei due letti, cercandovi dentro qualcosa che non sapevo neppure io cosa fosse.

<<Pensavo ormai ci fossi abituato.>>, disse dirigendosi verso la porta del bagno senza continuare.

<<Sì.>>, rispondo sorridendo <<Di solito quello è il prologo di qualcosa di ben preciso. Un film che ti emoziona sempre come la prima volta.>>

<<Che romantico!>>, commentò quasi ridendo ed entrando in bagno.

<<Dicevo sul serio.>>, dissi a bassa voce, smettendo di rovistare tra la mia roba e sedendomi sul bordo del letto.

Nessuna risposta, se non il rumore dell’acqua scrosciante della doccia.

 

Aprii il getto d’acqua e finii di spogliarmi, sorridendo ancora. Non avevo fatto quel gesto con malizia. Il fatto che avessi suscitato in lui quel tipo di interesse mi lusingava. Sorrisi nuovamente all’idea, mentre andavo sotto il getto di acqua calda.

Applicai un po' di shampo sui capelli. Ero cambiata. Lo stare insieme a lui mi aveva cambiata. Non sapevo spiegarmi. In un certo senso mi sentivo più sicura di me stessa.

Mentre mi risciacquavo la testa, sentii la porta della stanza aprirsi e richiudersi.

<<Joe, cos’hai intenzione di fare?>>

Come avevo immaginato, lo sentii aprire il box e richiudere. Poi le sue mani si posarono sulle mie spalle, scivolando giù, lungo le braccia, lasciando le spalle alle sue labbra.

<<Joe, è già tardi.>>, gli feci notare, fingendomi distaccata.

Lui prese dello shampo e se lo applicò in testa: <<Pensavo a un cambio di programma.>>, disse <<Potremmo ordinare la cena in camera e restare qui. Abbiamo tutto domani per fare un giro in città.>>

Sorrisi, prendendo un flacone di bagnoschiuma: <<Ti lavo la schiena.>>

Joe mi guardò perplesso. Un’espressione che non capii. Più che perplesso sembrava come contrariato, quasi intimorito.

<<Hai paura che ti pianti un coltello nella schiena?>>, gli dissi <<Su, girati.>>

Non risposi alla sua domanda sul cambio di programma, ma l’idea mi piaceva. Quando finalmente si girò di spalle, cominciai ad applicargli il sapone sulla schiena, guardando la schiuma formarsi sotto le mie mani. Lo sentii rigido. Comincia a muovere le mani in una specie di massaggio, che lui sembrò gradire molto.

<<Ne avrei bisogno dopo ogni gara.>>, mi disse in tono rilassato.

<<Per ora ti devi accontentare di questo.>>, gli dissi <<Sono le tante ore di guida a ridurti la schiena in questo stato? Sembri un pezzo di marmo.>>

<<Indovinato… Ahi!>>

<<Scusami.>>, gli dissi, continuando più delicatamente. Gli stavo massaggiando una zona particolarmente contratta, e gli avevo provocato un leggero dolore. Il fatto che fossero fibre muscolari artificiali non lo preservava da quel tipo di problemi… Scossi la testa, scacciando via il pensiero.

<<Cos’è questo silenzio?>>, commentò.

Curvai le labbra in una specie di sorriso: <<Stavo pensando che ti vedo raramente di schiena, e che è un peccato.>>, dissi <<Hai una bella schiena. Grande e definita.>>

<<Grazie.>>, mi rispose.

<<Per così poco?>>

Lui rimase in silenzio qualche secondo, voltandosi appena di qualche grado. Mi sembrò di vedere un sorriso.

<<Nella nostra cultura avere una schiena grande è un segno di virilità.>>

Inclinai il capo per un istante, quasi sottolineando le sue parole: <<Questo non lo sapevo.>>, dissi sinceramente, fermando le mie mani appena sotto le scapole <<Comunque non hai solo la schiena ben fatta. Sembri l’opera di uno scultore.>>

Lui rimase qualche istante in silenzio. Lo sentii sospirare, poi si girò, guardandomi in volto: <<Una volta avevo una cicatrice che mi correva di traverso lungo tutta la schiena.>>, mi disse prendendo il flacone e insaponandosi le mani. Non mi fece girare, ma mi trasse leggermente a sé, in modo da potermi applicare il sapone sulla schiena quasi abbracciandomi.

 

<<Come era successo?>>, mi chiese cominciando a passarmi il bagnoschiuma anche sul torace.

Restai silenzioso per qualche secondo, chiedendomi se avessi dovuto dirglielo. Ma ormai avevo già tirato il sasso: <<Una coltellata. In riformatorio.>>, dissi prendendomi un istante di pausa. Più per prepararmi psicologicamente meglio che per riprendere fiato <<Ci facevano fare la doccia insieme. Io mi voltai solo per regolare meglio l’acqua e mi arrivò il colpo alle spalle.>>

Le sue mani si erano fermate e mi stava guardando, in un misto di incredulità e perplessità. Io mi fermai a mia volta, guardandola in silenzio.

<<Mi dispiace. E’ per quello che non volevi darmi le spalle.>>

<<Già.>>, risposi sforzandomi di sorridere <<Ma è stato un riflesso spontaneo. Da allora cerco di avere sempre di avere il muro alle spalle, quando mi faccio la doccia.>>

Restò in silenzio, riprendendo a muovere le mani insaponate sul mio petto. Mi chiedevo se non avessi fatto meglio a lasciare quel ricordo per me. Sembrava sconvolta, anche se cercava di nasconderlo. E pensare che non era che un piccolo episodio del mio passato. E nemmeno il peggiore. Le cicatrici esterne erano scomparse con la conversione. Ma dentro erano rimaste tutte. Dalla prima all’ultima. Le cicatrici… e ferite ancora aperte. Tante e profonde. Chissà se lei immaginava quante di quelle ferite aveva saputo curare in silenzio, semplicemente standomi accanto. Avrei dovuto fargliele conoscere? Lei lo avrebbe voluto, ne ero convinto. Ma l’avrebbe fatta soffrire, troppo.

 

Tenevo la testa bassa. Mi sentivo in colpa. Pur senza volerlo, gli avevo fatto rivivere un brutto momento della sua vita. Avrei voluto sapere se c’erano state altre cicatrici sul suo corpo. Una curiosità ammutolita da quel lieve e pesante senso di colpa. Raramente mi raccontava del suo passato, solo se lo riteneva necessario. Io avrei voluto sapere tutto di lui. Ma quel poco che sapevo, devo ammetterlo, mi spaventava. Non per quello che era stato. Ma per quello che aveva subito. Per ciò che la vita gli avevo riservato.

Forse il senso di colpa più grande nei suoi confronti era quello di non poter comprendere appieno, per essere stata troppo fortunata. Il fatto stesso di avere potuto contare su una famiglia normale e su tutto il calore che questa può darti mi impediva di immergermi del tutto in quello che era stata la sua realtà. Di capire quello che aveva provato. Potevo vedere la cosa solo in termini negativi, per quello che io avevo avuto, e dato anche per scontato, e che a lui era mancato. Per quanto ci avvicinassimo, per quanti muri fossero crollati, ne trovavo sempre di nuovi a dividerci…

<<Françoise.>>

Alzai finalmente lo sguardo verso il suo volto.

Lui accennò un sorriso: <<Stai piangendo.>>

Rimasi interdetta. Non mi ero nemmeno accorta delle mie lacrime. Erano venute fuori insieme a quel senso di rabbia sorda e impotenza nel mio profondo. Feci per asciugarle: <<E’ soltanto acqua.>>, mentii.

Mi sfiorò una guancia con le labbra, rialzando subito la testa e passandosi la punta della lingua sul labbro inferiore: <<Sono lacrime.>>, ribadì avendone la prova.

Fui per dire qualcosa, ma riuscii solo a scuotere e abbassare la testa e le uniche parole che mi uscirono di bocca furono: <<Mi dispiace, Joe.>>

Lui me la fece rialzare, baciandomi sulla fronte: <<Non c’è niente di cui dispiacerti…>>

<<Ma…>>

<<Sei l’unica che mi abbia amato accettandomi per quello che sono e per quello che sono stato. Riuscendo a farmi accettare anche da me stesso.>>, mi interruppe, prendendomi il viso tra le mani. Le sue mani scivolarono sulle mie spalle <<Sono io che dovrei scusarmi… e dovrei ringraziarti. E invece non lo faccio mai abbastanza, anzi…>>

<<Ringraziarmi di cosa, Joe?>>

Esitò un attimo, poi sorrise, guardandomi negli occhi: <<Di amarmi.>>, disse come se fosse la cosa più naturale del mondo <<Di…>>

Gli posai le punte di due dita sulle labbra. Se avesse continuato a parlare sarei scoppiata in lacrime, e non volevo. Lui rispettò quella mia tacita richiesta. Forse lo lesse nei miei occhi, una richiesta ancora più silenziosa della precedente. Misi le mie braccia attorno al suo collo, mentre mi sentivo spingere verso il limite del box. Le sue labbra erano bagnate, e morbide…

 

Squillò il telefono. Era sul tavolo accanto alla mia poltrona. Alzai la cornetta: <<Pronto.>>

<<Buonasera. Sono il sostituto procuratore Mazuoka. Sto cercando il signor Shimamura.>>

Deglutisco: <<Sono io.>>

<<Ah, buonasera signor Shimamura.>>, mi risponde con fare cordiale <<Vengo al dunque. Volevo solo sapere cosa aveva deciso.>>

Resto qualche secondo in silenzio: <<Io spero che lei si renda conto di quanto mi costi questa cosa.>>

<<Naturalmente, signor Shimamura. La capisco perfettamente.>>

“No, non è solo quello che pensi tu. Non lo puoi capire affatto.” <<Io sono stato un personaggio pubblico,>>, rispondo <<E contavo di tornare a esserlo in tempi brevi.>>

<<Non potrebbe mai rovinare la sua carriera di pilota automobilistico.>>

“Ha già rovinato la mia vita… più di quanto lo fosse già.” <<Non c’è modo che il mio nome rimanga ignoto?>>

<<Gliel’ho già detto, signor Shimamura. Non è possibile.>>, risponde <<E gli ho anche spiegato che per noi lei è fondamentale. E’ la differenza tra vincere e perdere. E se perdiamo…>>

<<Perdo anch’io.>>, completo per lui. Mi ha già ripetuto quella frase almeno cento volte. Sa bene come smuovere il senso di colpa e del dovere di una persona. D’altronde è un avvocato. Chiudo gli occhi, prendendomi il naso tra le due dita. Respiro profondamente, pronto a sentenziare la mia reimmersione nell’inferno: <<Va bene. Testimonierò.>>

 

Albert è andato un attimo in bagno. Non gli ho raccontato tutto quello che è successo in quella doccia. Guardo fuori dal finestrino. Stiamo sorvolando la parte orientale dell’Unione Sovietica. Ivan… Guardo la mia agenda, riposta nella tasca nello schienale del sedile davanti a me… Forse dovrei… No, non posso. Sarebbe dovuto essere lui stesso a darmela. Però...

Prendo l’agenda e ne estraggo la busta, ancora decisa a non aprirla… almeno una parte di me lo è. L’altra vorrebbe aprirla…

<<Rieccomi.>>

Ripongo il tutto al suo posto. Anche l’agenda torna nella tasca: <<Bentornato.>>, dico ad Albert sorridendo.

<<Cos’era?>>, mi chiede indicando la mia agenda.

Deglutisco, esitando un istante di troppo. Poi scuoto la testa: <<Niente di importante.>>

<<Va bene.>>, mi risponde <<Non insisto. Sai, stavo pensando a tutto quello che mi hai detto… Non ci trovo niente di anormale. Voglio dire… Sembra che fra voi due le cose andassero benissimo. Come sono potute cambiare in questo modo nel giro di… un giorno.>>

Annuisco, perché è la verità. Anch’io non avevo preventivato assolutamente niente. Perché sembrava tutto normale. Sembrava tutto assolutamente normale. Forse era tutto troppo perfetto. Era la quiete prima della tempesta.

 

<<Thank you for loving me. For being my eyes, when I couldn’t see. For parting my lips when I couldn’t breathe.>>, da “Thank you for loving me”, Bon Jovi[9]

 

<<Love is a verb. Love is a doing word.>>, da “Teardrop”, Massive Attack[10]

 

 

Parte IV

 

 

Freddo. Sono sudato. Mi fanno male tutti i muscoli del corpo. Mi fa male anche respirare. Sento il sapore del sangue nella mia bocca. Il mio sangue. L’odore misto, insopportabile del mio sangue e del mio sudore. Non riesco ad aprire un occhio. Forse ho qualche costola rotta… ma loro continuano a colpirmi… continuano a darmi calci e sprangate. Forse mi sputano addosso. Non ho nemmeno più la forza di urlare dal dolore.

<<Crepa, maledetto bastardo mezzosangue!>>

Ma quello che mi fa più male sono quelle risate. Quelle che sento in sottofondo. Loro, gli altri, sono lì. Stanno guardando senza muovere un dito. Sono stati loro a organizzare tutto questo. Si limitano a guardare. Non si sporcano le mani. Lo hanno fatto per vendicarsi. Perché non ho ceduto. Perché mi sono ribellato. Ancora una volta...

<<Direi che può bastare.>>

E’ la voce del capo. La più viscida, la più odiosa.

<<Direi che adesso una bella settimana di isolamento sia d’obbligo. Anzi, due. Così il bastardo ha più tempo per pensarci su.>>

E’ sempre la sua voce. Gli altri si limitano a sghignazzare. Riesco a rendermi conto solo di questo, prima di svenire…

Buio. Umido. C’ero solo io in quell’oscurità. Solo voci mi attorniavano. Voci conosciute, voci disperate.

<<Aiutaci… aiutaci… Tu sai quello che è successo… Devi aiutarci.>>

<<Io non posso… non posso…>>

<<Tu devi… devi…>>

Cambio scenario. Luce. Una luce intensa. Troppo forte. Insopportabile. Françoise. E’ davanti a me. Perché siamo vestiti in tenuta da combattimento? Perché… perché mi guarda con quegli occhi? Perché sembra arrabbiata con me? Non ho nemmeno il tempo di chiederlo. La sua mano si muove di scatto, aperta e decisa. Lo schiaffo mi prende in pieno. Fa male.

<<Vigliacco!>>

E’ questo quello che mi ha detto mentre mi colpiva. Lo realizzo mentre vedo le sue lacrime. Solo il tempo di vedere le sue lacrime. Cerco di raggiungerla… vorrei raggiungerla… ma è come se fossi immobilizzato… No, aspetta, non andartene! Non riesco nemmeno a parlare…

<<Françoise!>>

 

<<Sono qui.>>

Joe era seduto, sul letto, accanto a me. Era sudato e stava ansimando. Si voltò verso di me, continuando ad ansimare. Il respiro affannoso gli faceva scuotere tutto il corpo. Ma la cosa più sconcertante erano i suoi occhi… come impauriti. Erano sbarrati.

Gli presi la mano, sperando che servisse a calmarlo. Stava tremando: <<Joe, cosa succede?>>

Mi guardò silenzioso e ansimante ancora per qualche istante. Poi posò gli occhi sulla sua mano nella mia, e la strinse, e tornò a guardarmi. Adesso i suoi occhi sembravano sulla via della normalità. La sua mano smise di tremare. Anche il suo respiro si stava calmando: <<Tu sei… sei qui.>>

Non capii la domanda, ma evidentemente doveva aver avuto un incubo. Un incubo orribile.

<<Sono qui, Joe.>>, gli dissi accarezzandogli una guancia con la mano libera <<Va tutto bene. Sono qui.>>

Il suo respiro tornò quasi normale: <<Ho avuto un incubo…>>, scosse la testa <<Non ci voglio ripensare. Devo… Vado a farmi una doccia veloce. Scusami.>>

Gli lasciai andare la mano e lo guardai alzarsi e muoversi verso il bagno. Non l’avevo mai visto in quello stato. Pallido, tremante, impaurito. Aveva fatto paura anche a me. Sentii lo scroscio dell’acqua riaprirsi.

E’ in momenti come questo che vorrei poter avere i poteri di Ivan. Poter capire cosa gli passava per la testa, cosa lo tormentava. Ma non ho quei poteri. Posso vedere qualunque cosa, ma non posso vedere cosa c’è scritto nel cuore e nella testa delle persone. Posso sentire ogni piccolo rumore, ma non le silenziose richieste d’aiuto a cui la voce non dà forma.

 

Aprii l’acqua calda al massimo e misi la testa sotto il getto, lasciando che l’acqua scivolasse tra i miei capelli. Non so quanto restai in quel modo. Volevo che il sudore scivolasse via dalla mia pelle e dal mio corpo. Non era il sudore che avevo addosso dopo un gran premio, una corsa, un lavoro sotto il caldo torrido dell’estate. Non era quello che potevo avere addosso dopo aver fatto l’amore con lei.

No. Era del tutto diverso. Quel sudore aveva l’odore della paura. Mi ricordava troppo quell’odore rancido di sudore e sangue. Era terrificante, rivoltante, era…

Uscii di corsa dalla doccia al primo spasmo del mio stomaco. Mi chinai sul water e vomitai. L’unica cosa che restò nella mia bocca fu il sapore acido.

Tirai lo sciacquone e ritornai sotto l’acqua, sciacquandomi anche la bocca. Mi lavai. Fino a essere sicuro che quell’odore terribile fosse scomparso dalla mia pelle.

Chiusi l’acqua. Uscii dalla doccia e trovai Françoise, nella sua vestaglia da notte, col mio accappatoio in mano. Già, era rimasto sul pavimento, in camera.

Lo presi dalle sue mani, cercando di sorridere: <<Grazie.>>

Lei sorrise, incrociando le braccia sul petto: <<Tutto a posto? Ho sentito che hai anche dato di stomaco.>>

“Dato di stomaco.”

Mi fece sorridere. Era decisamente da lei. Non “vomitare”. “Dare di stomaco”.

<<Va tutto bene.>>, disse dirigendomi verso il lavandino e prendendo il mio spazzolino e il dentifricio.

Ne misi su una quantità abbondante. Quel sapore non era andato via e io non lo sopportavo. Mi lavai la bocca, restando con la schiuma dentifricia in bocca fino a che non fui sicuro che quel sapore fosse andato via.

Mi sciacquai la bocca, guardando la schiuma scivolare giù per il lavandino.

<<Mi dispiace di averti fatto preoccupare.>>, dissi cercando di controllare il mio tono di voce, che fosse calmo. Rimisi lo spazzolino al suo posto e andai verso di lei, posandole le mani sulle spalle e cercando di sorridere <<E’ stato solo un brutto incubo.>>

 

<<Sicuro?>>

Sembrava veramente tutto passato. Sembrava solo ancora un po’ scosso.

Lui annuì, sorridendo. Sembrava fosse sincero: <<Andiamo.>>

Annuii anch’io, uscendo per prima dal bagno. Mi diressi verso il letto, ma una sua mano sulla spalla mi fermò. Mi voltai, guardandolo sorpresa.

<<Ti dispiace se cambiamo letto?>>

La cosa mi lasciò perplessa, tuttavia alzai le spalle, come a dire che la cosa mi era indifferente: <<Come vuoi.>>

<<Grazie.>>, disse passandomi accanto.

Lo seguii con lo sguardo, stupita e interdetta. Non capii quel suo “grazie”. Ma non gli chiesi il motivo. Mi limitai a infilarmi sotto le lenzuola, accanto a lui, sdraiandomi.

<<Ti sembrerò stupido.>>, mi disse, rimanendo con la schiena appoggiata alla testata.

Io voltai appena il viso verso di lui: <<Ma no… capita.>>, gli risposi <<Immagino che ci fossi anch’io in quell’incubo.>>

Lui restò silenzioso e immobile per qualche istante. Poi annuì: <<Sì, ma preferisco non pensarci. Preferirei dimenticare.>>

<<Ve bene.>>, risposi <<Non parliamone più allora. Prova a dormire. Sembri stanco.>>

Lo vidi chiudere gli occhi, rimanendo sempre in quella posizione. Non era per dormire, voleva semplicemente svuotare la mente. Ormai lo conoscevo. Sapevo i suoi modi di fare. Lo guardai in silenzio per parecchi minuti. Lui non si mosse di un millimetro da quella posizione. Alla fine mi sdraiai su un fianco, chiudendo gli occhi e cercando di riaddormentarmi. Ma dopo un po’ lo sentii muoversi, delicatamente. E altrettanto delicatamente cominciò ad accarezzarmi i capelli. Sarebbe più giusto dire che li sfiorava appena. Aprii gli occhi e li diressi verso di lui. I suoi occhi scintillavano nel buio, come se fossero stati lucidi.

<<Scusa. Non volevo svegliarti.>>, mi disse continuando ad accarezzarmi i capelli <<E’ che… non ho resistito.>>

Scossi la testa: <<Non stavo dormendo.>>, risposi, sorridendo per rassicurarlo.

Sorrise appena. Un sorriso triste, malinconico. Restò qualche istante in silenzio, senza smettere di accarezzare i miei capelli: <<Vorrei fermare il tempo. Rimanere sospeso in quest’attimo, insieme a te.>>

Lo avrei voluto anch’io, ma non era possibile. Il tempo non si preoccupa delle nostre emozioni. Va avanti sempre con il solito passo, attraversando tutto, distruggendo, ricostruendo, dividendo, unendo. Tutto quello che ha potuto fare l’uomo è incapsularlo in unità di misura e inventare strumenti per tenerlo d’occhio. Ma non può fermarlo, non può fare niente per fermarlo.

Noi non potevamo fare niente per fermare il tempo. Potevamo solo sfruttare il poco tempo che ci era rimasto, prima di dividerci.

<<Non so cosa dire.>>, ammisi, sdraiandomi supina <<Io cerco di non pensarci, ma… è un pensiero che rimane sempre. Silenziosamente presente.>>

Restò in silenzio, mentre la sua mano si spostò dai capelli alla mia schiena, scivolando a disegnare la mia spina dorsale, e continuando poi ad accarezzarla.

Rabbrividii: <<Hai la mano fredda.>>, gli dissi, quasi ridendo.

Si abbassò, iniziando a baciarmi la schiena, salendo fino alle spalle: <<Riscaldami.>>, mi sussurrò in un orecchio.

Mi girai, guardandolo negli occhi. Solo qualche minuto prima era sconvolto da un incubo. Adesso… adesso mi guardava con gli occhi… gli stessi occhi con cui mi aveva guardato la prima notte, in quella stessa stanza, quando si era fermato, pensando forse di essersi spinto troppo in là.

<<Lo so che solo un momento fa sembravo un fantasma e… è vero. Sono stanco ma… non ho voglia di dormire. Io…>>, esitò un attimo, raccogliendo un profondo respiro <<Voglio fare l’amore con te.>>

 

<<Non so se fosse un voler fuggire, voler evitare di dormire per non cadere di nuovo in preda ai miei incubi.>>, dico guardando il soffitto sopra la mia poltrona. Poi torno a guardare il professore, che mi fissa sempre colo suo sguardo neutro, non giudicante <<Forse era anche questo. Sicuramente era anche questo. Però non credo di averla mai desiderata come in quel momento. Ma non era solo…>>

Passano alcuni secondi di silenzio: <<Sesso?>>, mi propone Gilmore.

Ci penso su appena un secondo. Poi annuisco: <<Sì, non era solo sesso. Non è mai stato solo sesso. Ma mai come in quel momento io…>>, resto silenzioso qualche altro istante, cercando le parole più opportune <<Mai come in quel momento io mi sono reso conto di… di amarla. E… è questo il punto. Io volevo stare con lei… fare l’amore con lei perché la… perché la amo.>>

 

<<Puoi raccontarmi il resto nei minimi dettagli se vuoi.>>

Mi volto verso Albert. Evidentemente non ho uno sguardo molto conciliante, perché si sbriga a scusarsi.

<<Scusa, sono stato un po’ indelicato.>>

Scuoto la testa: <<No, anzi…>>

Il suo sguardo mi chiede “cosa?”, ma non vuole forzarmi. Tuttavia sento il bisogno di dirglielo. Non gli avrei mai raccontato tante cose se non le avessi ritenute necessarie per comprendere. E’ inutile aver raccontato tutto questo, senza dirgli il perché gliel’ho detto.

<<Non che questa sensazione non l’abbia mai avuta. >>, dico senza nemmeno sapere come dirlo <<Il fatto è che… mai come l’altra notte io ho avuto… mi ha trasmesso la sensazione di essergli necessaria, che lui avesse bisogno di me. E non era solo un discorso fisico… il sesso non c’entrava. Facemmo l’amore per tutta la notte, fino a quando non fummo troppo stanchi e ci addormentammo. Ma non era solo per fare sesso. Né il fatto che sarebbe stata una delle ultime volte. Non era niente di tutto questo. Era…>> alzo le spalle e mi fermo. Ma non perché sono imbarazzata. Gli ho appena detto che io e Joe facemmo l’amore per tutta la notte. E non sento imbarazzo. Credo di sapere il perché. E’ la stessa , semplicissima cosa che completa la frase che ho lasciato incompiuta qualche secondo prima <<Era amore.>>

 

<<I could spend my life in this sweet surrender. I could stay lost in this moment forever. Well, every moment spent with you is a moment I treasure. I don't wanna close my eyes, I don't wanna fall asleep. 'Cause I'd miss you, baby
And I don't wanna miss a thing.>>
da “I don’t wanna miss a thing”, Aerosmith[11]

 

<<It must have been love, but it’s over now. It must have been good, but I lost it somehow.>> da “It must have been love”, Roxette[12]

 

 

Parte V

 

Mi svegliai piuttosto presto. Françoise dormiva tra le mie braccia, dandomi la schiena, usando il mio corpo come una specie di culla, in una via di mezzo tra l’essere sdraiata su un lato e sulla schiena. Stringeva nella sua la mia mano. Quella del braccio che le passava sotto il collo. Era una posizione che mi consentiva di vederle il viso senza muovermi troppo e rischiare di svegliarla. Sentivo la lieve pressione del suo corpo, ad ogni suo respiro. Era una sensazione piacevole. I suoi capelli avevano un buon odore. Le sistemai una ciocca dietro l’orecchio, togliendogliela dalla bocca. Lei dette appena segno di accorgersi, continuando a dormire. La luce del mattino, che filtrava dalla finestra, dava alla stanza una luce in penombra. E io la guardai in questa penombra per parecchio tempo, come incantato. Non mi era mai sembrata così bella.

Avevo dormito pochissimo, forse un paio d’ore. Eppure mi sentivo bene. Non ero stanco. Avevo la mente sgombra, libera. Non mi sentivo così bene da molto tempo.

Quando mi alzai, cercai di non farla svegliare. Mi mossi delicatamente, e la accompagnai fino a che non fu in una posizione stabile. Continuò a dormire, anche se dubito che non si fosse accorta di niente.

Presi la cornetta del telefono e chiamai la reception.

<<Pronto?>>

<<Buongiorno.>>, dissi a bassa voce <<Sono della 480. Potrebbe farmi portare un foglio di carta e una busta? E delle rose. Dodici, rosse.>>

Presi della biancheria e dei vestiti puliti dall’armadio e cercai di prepararmi a uscire facendo meno rumore possibile.

Quindi uscii nel corridoio, aspettando il fattorino. Arrivò dopo qualche secondo. Mi diede quello che avevo chiesto, e gli detti una piccola mancia per il disturbo. Rientrai, presi una penna da una mia valigia e mi misi a scrivere un breve messaggio, per quando si fosse svegliata.

Finito il messaggio vero e proprio, al momento di firmare con una piccola dedica, ebbi una specie di blocco. La penna restò puntata sul foglio a lungo, macchiandolo. Scossi la testa e finii di scrivere. Ripiegai il foglio, e lo riposi nella busta, lasciandola sul mazzo di rose, posato sul tavolo.

Presi le chiavi della macchina e mi avvicinai al letto. Le sfiorai appena le labbra, prima di uscire dalla stanza.

 

Quando mi svegliai, la mattina dopo, prima di aprire gli occhi, tastai per qualche secondo l’altra parte del letto. Quando aprii gli occhi ebbi conferma del fatto che fosse vuota. Anche l’altro letto era vuoto. Sentii l’odore ancora prima di vedere. Sul tavolo c’era un mazzo di rose rosse. Sopra c’era una busta. Sorrisi, ancora mezza addormentata, e mi alzai.

Mi ero accorta che si fosse alzato. Forse mi aveva anche sfiorato le labbra prima di andare via. Ma tutto si era perso nel sonno profondo del quale ero ancora preda.

Presi la busta e la tenni in una mano, mentre con l’altra sfilai una rosa e me la portai al naso, respirandone l’odore.

<<Ahi!>>

Mi ero punta. Come se non lo avessi saputo che le rose hanno le spine. Mi guardai il dito da cui fuoriusciva una gocciolina di sangue pensando a quanto fossi stata poco accorta. Me lo misi in bocca, cercando di fermare quella minuscola emorragia, e posai la rosa dove l’avevo presa.

Adesso la mia attenzione era sulla busta. La rigirai fra le mani. Era una comune busta bianca, col mio nome scritto in bella calligrafia sopra, in caratteri latini. La aprii, e ne presi la busta nascosta all’interno, e la dispiegai.

Era un messaggio di poche righe, stavolta scritto nella sua lingua madre.

 

Buongiorno.

Mi spiace di averti fatto svegliare da sola. Ma volevo passare a trovare mia madre quanto prima. Tornerò appena possibile.

 

Ti amo, Joe

 

Aveva usato una penna stilografica, e il foglio era macchiato proprio in corrispondenza dell’ultima riga. Lo ripiegai e lo rimisi dentro la sua busta.

Immaginavo che fosse andato al cimitero. Era per quello che, probabilmente, voleva venire a Nagasaki. Rieccola. La triste sentenza. Tra me e lui ci sarebbero stati quasi due continenti di lì a poco. Ancora non riuscivo a farmene una ragione.

Mi sdraiai nuovamente, riprendendo la rosa in mano e riodorandola, e stando attenta a non pungermi di nuovo. Mi sorpresi a chiedermi perché non mi avesse chiesto di andare con lui al cimitero, come l’altra volta. Ci rimuginai su qualche istante, facendo battere delicatamente i petali della rosa sul mio mento, quasi ritmicamente.

Poi riposi la rosa sul comodino accanto a me, mettendomi poi a sedere sul bordo del letto e scuotendo la testa. Era normale che volesse andarci da solo. In fondo era una cosa sua. Però…

Mi alzai, prendendo la mia vestaglia e mettendomela indosso. Alzai la cornetta del telefono e chiamai la reception.

<<Pronto?>>

<<Buongiorno. Sono della stanza 480. Vorrei un vaso e dell’acqua… con un po’ di bicarbonato dentro[13].>>

<<Certamente, signorina.>>

Mi vestii e mi misi a posto i capelli. Bussarono alla porta. Aprii. Il fattorino entrò, chiedendomi dove posare il vaso.

<<Sul tavolo. Grazie.>>

Fece come gli avevo chiesto e gli diedi una piccola mancia per il disturbo e gli chiesi di farmi chiamare un taxi. Lui ringraziò per la mancia e annuì, uscendo.

Sistemai le rose nel vaso e finii di prepararmi e uscii anch’io. Scesi le scale e lasciai le chiavi al portiere.

<<Il suo taxi è arrivato, signorina.>>, mi disse.

<<Grazie.>>

Era davanti all’entrata. Il tassista mi aprì la porta e si rimise al posto di guida: <<Dove la posso portare?>>

 

Parcheggiai la macchina e uscii. L’aria di primavera era frizzante e piacevole. I ciliegi, che mi attorniavano, erano già in fiore e una leggera brezza muoveva i loro rami. E’ uno spettacolo, quello dei ciliegi in fiore, che avrò visto chissà quante volte. Ma ogni volta mi rapisce. Restai a guardare qualche minuto. Presi i fiori che avevo comprato e chiusi finalmente la portiera, e mi diressi verso la mia meta.

Varcai la soglia del cimitero. Non era cambiato niente. Tutto sembrava uguale all’ultima volta che c’ero stato. C’erano parecchi visitatori. D’altronde era domenica. Camminai in fretta tra le lapidi, raggiungendo in breve la tomba di mia madre. Stavolta non c’erano né Fukushima, né mio padre.

Mi inginocchiai posando i fiori a terra e prendendo il vaso vuoto. Avrei dovuto decidermi a pagare qualcuno perché mettesse dei fiori freschi ogni settimana. Mi alzai in piedi e mi guardai intorno. Più in là, all’angolo di un incrocio del sentiero che passava tra le file di lapidi, c’era una fontana. Mi avvicinai e sciacquai un paio di volte il vaso prima di riempirlo.

Tornai indietro e rimisi il vaso al suo posto. Aprii la carta di giornale nel quale erano stati avvolti i fiori dal fiorista, e cominciai a togliere le foglie inutili e a tagliare i gambi troppo lunghi con un paio di forbici, e a disporli a uno a uno nel vaso. Una volta finito, appallottolai il giornale con gli scarti dei fiori dentro e guardai il lavoro fatto. Azalee. L’ultima volta, avevo visto che mio padre le aveva portato quei fiori. E mi sembrava di ricordare di aver sentito, forse da Fukushima, che erano quelli preferiti da mia madre.

Guardai la foto sulla tomba. Mia madre era una bella donna. Non faccio fatica a capire perché mio padre si fosse innamorato di lei. Aveva lineamenti fini, capelli neri, lunghi e lucenti, uno sguardo da cerbiatto, e un bellissimo sorriso. In quel volto rivedeva un po’ di quello che vedeva nello specchio ogni mattina. Aveva il suo stesso naso e lo stesso taglio della bocca. Anche i lineamenti erano simili, anche se i suoi erano per forza più occidentali.

“Cosa devo fare? Mai come adesso avrei bisogno dei tuoi consigli. Non voglio che soffra. Se resta con me, soffrirà. E se la lascio, soffre lo stesso. Io non so cosa fare. Ho bisogno di lei. Ma lei ha bisogno di me? A volte mi chiedo come abbia fatto a innamorarsi di uno come me. Siamo così diversi. Eppure… è la cosa migliore che mi sia capitata. In tutta la mia vita. Non so dove sarei a quest’ora, se lei non ci fosse stata. Lei è così… delicata… pura. Proprio per questo io non… non posso… non me la sento di farla passare attraverso il mio inferno. Non posso permetterlo…”

Il vento mi portò un odore fin troppo familiare. Mi voltai e, come mi aspettavo, lei era lì, a qualche metro di distanza.

 

<<Scusa, non volevo disturbarti.>>

Joe si alzò in piedi scuotendo la testa e guardandomi: <<Nessun disturbo. Da quanto sei qui?>>

Alzai le spalle: <<Non lo so. So che avrei dovuto aspettarti, ma…>>

<<Non avevo detto che dovevi aspettarmi. Non volevo svegliarti.>>, mi disse sorridendo.

Sorrisi a mia volta, avvicinandomi a lui: <<Grazie per le rose.>>

<<Prego. Mi fa piacere che ti siano piaciute.>>

<<Quale donna non ama le rose?>>, risposi.

Mi misi davanti alla tomba e chiusi gli occhi, giungendo le mani. Dissi una breve preghiera e chiesi alla madre di Joe di vegliare su di lui nel periodo in cui saremmo stati lontani.

<<A volte mi chiedo se le sarei piaciuta.>>, dissi facendomi il Segno della Croce, finita la mia preghiera.

Joe aggrottò la fronte: <<Certo che le saresti piaciuta.>>, disse guardando la lapide <<Tu non puoi non piacere. Io, piuttosto, mi chiedo se sia soddisfatta di me. In fondo non è che sia stato un esempio di comportamento.>>

<<Joe…>>

Mi guardò con un sorriso amaro sulle labbra: <<E’ la verità.>>, disse raccogliendo la pagina di giornale appallottolata e le forbici e cominciando a camminare verso l’uscita <<Per gran parte della mia vita non ho fatto altro che fare un errore dietro l’altro.>>

Lo seguii, mettendo un braccio sotto il suo e camminando con lui: <<Sei stato solo una vittima delle circostanze.>>

Sorrise, facendosi scappare un piccolo sbuffo: <<Una vittima delle circostanze… Devo dire che le ho aiutate molto. Non ho fatto niente per migliorarle…>>

<<Non mi piace quando fai questi discorsi!>>

Avevo alzato un po’ troppo la voce e alcune anziane donne si voltarono verso di noi, guardandoci in cagnesco.

<<Scusate.>>, dissi abbassando la testa.

Riprendemmo a camminare, restando in silenzio per il resto del tragitto, camminando a testa bassa. Arrivammo al posteggio. Mentre Joe buttava la pagina di giornale e cercava le chiavi, mi fermai a guardarmi intorno. Ecco un’altra cosa che mi sarebbe mancata. La fioritura dei ciliegi. Un qualcosa che si vede solo in Giappone. Il vento ne muoveva i rami, e i petali fluttuavano nell’aria, cadendo poi a terra. Era uno spettacolo rilassante, incantevole.

<<Anch’io non mi stancherei mai di guardarli.>>, disse Joe avvicinandosi e fermandosi accanto a me <<E pensare che è uno spettacolo a cui assisto da quando sono nato.>>

Restammo uno accanto all’altro, a guardare quello spettacolo rosa, per molto tempo. Ascoltando il rumore delle frasche mosse dal vento.

<<Françoise…>>

Mi voltai verso di lui, aspettando che parlasse. Ma lui rimase con la bocca semiaperta per qualche istante, senza che ne uscisse una sola parola.

<<Cosa vuoi dirmi?>>, gli chiesi allora aggrottando la fronte.

Lui chiuse la bocca, rimanendo in silenzio. Poi scosse la testa: <<Niente… niente di importante.>>, disse distogliendo lo sguardo <<Non ho nemmeno fatto colazione… Non hai fame?>>

Nemmeno io avevo fatto colazione e ormai era mezzogiorno passato: <<Pensandoci bene, sì.>>, risposi <<Ho fame.>>

<<Andiamo allora. Non vorrei che il mio stomaco brontolasse e rovinasse tutto questo.>>, disse quasi ridendo e guardandosi intorno.

Risi e feci per avviarmi, ma Joe mi prese per un braccio, costringendomi a voltarmi verso di lui. E mi baciò, senza darmi quasi il tempo di rendermene conto. Dopo un attimo di smarrimento, mi lasciai andare, chiudendo gli occhi e abbracciandogli il collo con le braccia. Sentivo solo i rami dei ciliegi danzare intorno a noi al ritmo dettato loro dal vento, la dolcezza delle sue labbra e l’odore della sua pelle…

 

<<Non le dicesti niente di tutti i tuoi dubbi?>>

Scuoto la testa: <<Quando l’ho chiamata per nome, avrei voluto… ma… quando mi ha guardato negli occhi… tutte le mie intenzioni sono scomparse. Non me la sono sentita di rovinare quel momento.>>, rispondo <<Sa una cosa?>>

Gilmore apre gli occhi, scuotendo la testa: <<Cosa?>>

<<Non l’avevo mai baciata in pubblico.>>

Lui aggrottò la fronte: <<L’hai baciata davanti a noi, una volta… e in luoghi dove potevate essere visti… qui a casa intendo…>>

<<Ma mai in luoghi dove il mondo esterno potesse vederci.>>, spiego, rendendomi che, forse, non ero stato poi così chiaro.

<<Ritieni che sia importante?>>, mi chiede Gilmore, accarezzandosi la barba con la punta delle dita.

Ci penso su un attimo: <<Sono cresciuto in una società che mi ha insegnato che certi… gesti in pubblico non si devono fare. E anche con lei… non ho mai… “trasgredito”… questa “regola”. Non perché volessi… perché ero stato educato così dalla società.>>

<<Quindi?>>

Alzo le spalle: <<E’ che lì non ci ho nemmeno pensato. Ho fatto quello che mi diceva l’istinto, quello che desideravo fare senza starci troppo a pensare. Senza pensare minimamente al fatto che qualcuno potesse vederci e giudicarci. Alcune persone ci hanno visto, e ci hanno anche guardato con gli occhi sbarrati… come se fossimo degli extraterrestri. E a me non fregava niente.>>

Gilmore storse le labbra, aggrottando la fronte: <<Te ne sei… fregato del giudizio degli altri.>>, dice <<Credo di capire cosa vuoi dire. Per tutta la vita sei vissuto pensando a come ti giudicassero gli altri. Cercando di farti accettare dalla tua società. E improvvisamente questo giudizio, quello della tua società, quello degli altri, non aveva più importanza.>>

 

<<Non l’aveva mai fatto.>>

<<Cosa non aveva mai fatto?>>, mi chiede Albert perplesso.

<<Baciarmi in pubblico.>>, spiego <<E comunque… raramente mi faceva qualunque tipo di effusione, in luoghi pubblici.>>

Albert alza le spalle: <<I giapponesi sono piuttosto rigidi in questo. E’ caratteristico della loro cultura.>>

Annuisco, sottolineando quelle parole con un gesto degli occhi: <<Esatto. E lì c’erano persone che ci potevano vedere. E ci hanno visto, delle donne di mezz’età, e ovviamente…>>

<<Erano shockate.>>, mi suggerisce lui.

<<Esatto.>>, rispondo <<E a lui non fregava niente. Le ha guardate e ci ha riso su, mentre andavamo alla macchina.>>

Albert alza le sopracciglia, riflettendo su quelle parole: <<Accidenti. E pensare che era uno terrorizzato da come lo giudicavano gli altri.>>

<<E’ cambiato.>>, commentai guardando le nuvole sotto di noi.

<<Tu lo hai cambiato.>>

 

<<I can’t get out. There’s no way out of here. I can’t get clear.>>, da “Just the way I’m feelin’”, Feeder[14]

 

<<I compare you to a kiss from a rose on the grey.>>, da “Kiss from a rose”, Seal[15]

   

 

Parte VI

 

 

Era stata una bella giornata. Era ormai il tramonto quando ci ritrovammo, di nuovo, al Megane-Bashi, a guardare il suo gioco ottico sull’acqua. L’atmosfera aveva i colori caldi del farsi della sera. Come allora, ci sedemmo sul bordo, a goderci il momento e i colori del tramonto.

<<E’ quasi finita.>>, disse Françoise con uno sguardo malinconico.

Non dissi niente, perché non c’era molto da aggiungere. Il giorno dopo l’aereo che l’avrebbe riportata a Parigi sarebbe partito e l’avrebbe portata via da me. Eppure, qualcosa dentro di me, mi diceva che era meglio così. Anzi che…

<<Farai il viaggio insieme ad Albert, Bretagna e Punma.>>, dissi per non restare zitto.

Lei annuì, mentre una brezza di vento giocava coi suoi capelli: <<Sì. Loro raggiungeranno le loro destinazioni da Parigi. Abbiamo per passare ancora qualche ora insieme.>>, disse portandosi i capelli dietro un orecchio.

<<Non sei contenta di tornare a Parigi?>>, le chiesi guardando il suo profilo <<Voglio dire, non ci sarò io… ma tu ami quella città. E non posso darti torto.>>

Si voltò verso di me, lo sguardo malinconico. Mi sembrava mi dicesse quanto fosse stupida quella domanda. Mi fece salire un groppo alla gola.

<<Perché non vieni con me?>>, mi chiese.

Restai in silenzio qualche istante: <<Te l’ho già detto…>>

Scosse la testa, guardando avanti a sé e sospirando: <<Tu mi hai detto che devi restare qui. Non il perché.>>

Piccolo particolare non privo di importanza. Certo che non le avevo detto il perché. Avevo evitato accuratamente di farlo e avevo sperato, fino all’ultimo, che lei non me lo chiedesse.

<<Devo sbrigare alcune faccende.>>, risposi sbrigativamente.

<<Che tipo di faccende?>>, mi chiese insistente.

Strinsi le labbra, restando in silenzio. Non mi ero preparato una storiella di riserva. E d’altronde non potevo dirle la verità. Dissi la prima cosa che mi venne in mente, e neanche la più intelligente, a pensarci bene: <<Non te lo posso dire, Françoise.>>

Lei corrugò la fronte, guardandomi perplessa: <<Come sarebbe a dire che non puoi dirmelo?>>

Sentii il cuore che cominciava a battere troppo velocemente. Eccolo, il momento della verità cadermi addosso. Mi voltai verso di lei, in silenzio, guardandola e cercando di capire, per l’ennesima volta, se potessi dirle la verità. Il che sarebbe voluto dire doverle raccontare tutto quello che c’era dietro alla verità. Tutto quello che non volevo sapesse di me. Lei lo avrebbe voluto sapere e avrebbe insistito per saperlo.

<<Non posso dirti niente, credimi. E’ meglio così.>>

Lei restò in silenzio pochi secondi, ma non si arrese: <<Cosa stai cercando di nascondermi?>>

<<Non insistere, per favore.>>, dissi con una smorfia. Stavo cominciando a crollare <<Non posso dirti niente. E’ molto meglio che tu non sappia.>>

Non avevo il coraggio di guardarla in faccia. Guardavo le mie mani che si tormentavano l’un l’altra e non avevo il coraggio di guardarla in faccia. Speravo solo che non facesse altre domande. Speravo solo che si accontentasse di quella spiegazione e non mi spingesse oltre. Non mi costringesse a spingermi oltre, verso il punto di rottura.

 

Sentivo qualcosa, montarmi dentro. Una strana sensazione, una brutta sensazione. Per la prima volta, dopo tanto tempo, lo sentivo nuovamente lontano da me anni luce. E non faceva niente per avvicinarsi a me. Anzi, faceva esattamente il contrario. Faceva di tutto per spingermi lontana da lui.

Non sopportavo quell’immobilismo. Non sopportavo che mi nascondesse le cose. Insistere non sarebbe servito a nulla. Stavo scoppiando. Mi alzai prima che potesse succedere, prima di crollare e mi diressi a grandi passi verso le scale che riportavano sopra, sulla strada.

<<Ehi, dove stai andando?>>

Lo ignorai e continuai per la mia strada. Lo sentii raggiungermi alle spalle. Mi prese per una spalla e mi costrinse a girarmi verso di lui, prendendomi per le spalle. Tuttavia cercai di non guardarlo in faccia.

<<Françoise…>>

<<Sincerità, Joe.>>, gli ricordai <<Ricordi? Sincerità. E’ una delle poche cose che ti ho sempre chiesto di darmi.>>

<<Ma…>>

<<Senza ma!>>, lo interruppi <<Odio quando mi nascondi le cose. Quando non dici la verità. Non lo sopporto. E’ come sentirmi sbattuta fuori dal tuo mondo. E non mi piace.>>

Lui rimase in silenzio, con le labbra strette, da cui non uscì una sola parola.

<<Cosa mi stai nascondendo stavolta, Joe?>>, gli chiesi un’altra volta.

Lui scosse la testa, lasciando le mie spalle e voltandosi, mettendosi le mani in faccia e poi passandole tra i capelli: <<Non posso dirtelo.>>, ripeté <<E’ una… una cosa che riguarda il mio passato… che volevo dimenticare…>>

<<Il tuo passato…>>, ripetei <<Una ragazza?>>

 

Avrei potuto risponderle di sì. Farmi odiare definitivamente da lei e finirla lì. Per un attimo considerai seriamente quella possibilità

<<Se è così, dimmelo in faccia.>>

Ecco. Non sarei mai stato capace di dirle una menzogna tanto grossa in faccia. Non sono un attore così bravo.

Mi voltai verso di lei e scossi la testa, mettendomi le mani sui fianchi: <<Non c’è nessuna ragazza, a parte te. Te lo giuro.>>

Lei respirò profondamente, chiudendo gli occhi e riaprendoli lentamente: <<E allora cosa?>>

<<E’ qualcosa che non vorresti sapere.>>, le dissi, nella vana speranza che desistesse.

<<Non c’è niente di te che non voglia sapere.>>, mi rispose <<Io non ti ho mai nascosto niente, Joe. Niente.>>

<<Perché tu non hai niente da nascondere.>>, risposi secco.

Lei mi guardò interdetta: <<Cosa vuoi dire?>>

<<Andiamo Françoise.>>, le dissi. Ormai non avevo più freni. Eravamo arrivati al momento della resa dei conti  <<Io non riesco a capire cosa ci fai con uno come me. Io e te abbiamo avuto due esistenze completamente diverse.>>

 

Cominciava a farmi paura. Le sue parole cominciavano a farmi paura. I miei timori più profondi riguardo a noi due prendevano forma nella mia testa.

<<Che cosa stai cercando di dire? Non… non mi ami più…>>

<<No!>>, mi interruppe riprendendomi per le spalle <<Ogni volta, ogni singola volta che ti ho detto “ti amo” ero sincero.>>

<<Ma adesso non mi ami più…>>

Scosse nuovamente la testa: <<Françoise io ti amo ancora. Ti amo più della mia stessa vita, ma… tu meriti molto più di me.>>

Scossi la testa. Non ci volevo credere: <<Non credi che dovrei essere io a decidere cosa merito o meno?>>

Sospirò abbassando un attimo gli occhi e rialzandoli immediatamente: <<Françoise, tu sei destinata ad essere l’etoile[16] de l’Opera. Io sono un ex-teppista…>>

<<Il tuo passato non mi fa paura…>>

<<E i tuoi genitori? E tuo fratello? Il tuo ambiente… cosa direbbero se venissero a conoscere il mio passato? Se sapessero che stai con uno come me?>>

Sentii le lacrime farsi prepotenti ai miei occhi: <<Non mi importa degli altri! Non l’hai ancora capito?>>

Mi lasciò finalmente le spalle, continuando a guardarmi. La sua espressione non mi piaceva. Mi sembrava di essere stata trascinata in un vortice, di essere cominciata a cadere senza mai trovare terra.

<<Joe, io non so quello che eri. Ma so quello che sei. Sei il ragazzo più dolce e… meraviglioso che abbia mai incontrato. Non mi importa di quello che pensano gli altri. Io ti amo. E’ questa l’unica cosa importante per me…>>, mi presi un attimo di respiro <<Hai appena detto che anche tu mi ami… e allora perché stai cercando di lasciarmi? Se quello che hai detto non era vero, se non mi ami, dimmelo negli occhi!>>

 

Ero sull’orlo del precipizio. In quell’equilibrio instabile che aveva caratterizzato tutta la mia vita. Poteva essere facile. Dirle che in realtà non l’amavo e risolvere così tutta la questione. Ma…

<<Françoise, ci sono cose del mio passato che tu nemmeno riusciresti a immaginare. Io vengo da un mondo che non ha niente a che fare con il tuo. Di cui tu non immagini nemmeno l’esistenza.>> respirai profondamente. Ormai le mie parole erano un flusso di pensieri continuo e disarticolato <<Non posso dirti negli occhi qualcosa che non è vero. Forse con un’altra lo avrei fatto. Sarebbe stato facile, perché non ho mai amato nessuna come amo te. Se riuscissi a mentire e dirti che non ti amo, mi odieresti, scapperesti via da me e tutto sarebbe finito e risolto. Ma non ce la faccio… non con te. Tu sei… sei troppo importante… >>

Lei stava scuotendo la testa, stava piangendo. Stava cercando di frenare le lacrime, senza riuscirci. Ogni sua lacrima era una pugnalata nel cuore. Per un attimo fui sul punto di fermarmi. Di ripensarci e restare sul bordo del precipizio. Ma feci quel passo, quell’ultimo passo, lanciandomi nel vuoto.

<< Io non voglio giustificarmi, non pretendo che tu capisca e che mi perdoni ma…>> 

 

<<… io non posso stare  con te.>>

Quelle parole mi rimbombarono nella testa. Un’eco insopportabile, pugnalate che mi arrivavano dirette al cuore. Che lo spezzavano, lo riducevano in mille pezzi, come se fosse stato di vetro. Non avevo nemmeno la forza di rispondere, di replicare qualunque cosa.

Fuggii. Le mie gambe cominciarono a muoversi da sole, a correre. Lontano da lui, da quello che era stato, da ciò che non sarebbe mai stato. Corsi fino a quando le gambe non mi ressero più. Senza mai guardarmi indietro. Lo sapevo che non mi avrebbe rincorso. Sapevo che non era dietro di me.

 

<<Che cosa facesti, dopo che lei fuggì via?>>, mi chiede Gilmore <<Non la inseguisti?>>

Stringo le labbra. Il ricordo si quella scena mi fa ancora male. Troppo male: <<Non la inseguii. Forse avrei voluto farlo. Ma non lo feci.>>, rispondo <<Tornai in albergo. E aspettai lì.>>

<<Aspettasti?>>

Annuisco. Non sapevo nemmeno se sarebbe tornata. Di certo c’era che le sue cose erano ancora in quella stanza. Ma la aspettai.

<<Aspettai.>>, confermo.

<<E lei tornò?>>, mi chiede Gilmore. Una domanda banale, di cui sa la risposta. Gli serve solo per farmi andare avanti.

<<Aveva ancora le sue cose lì, e io avrei dovuto accompagnarla a casa il giorno dopo.>>, rispondo <<Tutto quello che potevo fare era aspettarla.>>

 

<<Arrivai in un parco. Ero stravolta. Mi misi a sedere su una panchina. E piansi. Piansi fino allo sfinimento. Fino a quando non ebbi più lacrime.>>, mi fermo un attimo. Ricordare è doloroso. Soprattutto adesso, a mente fredda, quando mi è ancora più difficile riuscire a comprendere le sue ragioni <<Poi restai seduta lì, per… non so quanto.>>

Albert è perplesso e visibilmente dispiaciuto: <<Sei tornata in albergo, dopo?>>

<<Mentre ero seduta su quella panchina è arrivato uno. Un idiota. Grande e grosso, tutto muscoli.>>, continuo <<Ha cominciato a ronzarmi intorno e a fare stupide advances.>>

<<E tu cosa hai fatto?>>

<<Prima mi sono alzata e ho cominciato a camminare, ignorandolo. Ma lui continuava a seguirmi e darmi fastidio.>>, rido. Non so se è isteria o perché sono divertita al pensiero di quello che feci dopo <<Io a un certo punto mi stancai e mi voltai. Gli tirai un pugno nel naso e glielo ruppi.>>

Albert sottolineò il suo stupore con un’eloquente espressione del viso.

<<Lui si rialzò, gridandomene di tutti i colori e continuò a seguirmi.>>

<<Immagino con ben altre intenzioni.>>, commentò Albert.

<<Ho aspettato che mi fosse dietro e l’ho atterrato con una mossa da kung-fu. E poi ho infierito. Gli ho dato tre calci al costato. Credo di avergli rotto qualche costola.>>

<<Poveraccio!>>

<<Questo solo per farti capire come mi sentivo… ero furiosa.>>, dico <<Immagineresti mai che io sia una persona da fare una cosa del genere?>>

<<Decisamente no.>>, risponde lui <<Ma è decisamente comprensibile. Avevi bisogno di sfogarti e lui si è solo trovato al posto giusto nel momento sbagliato.>>

Annuisco. E’ proprio quello che volevo capisse.

<<E poi sono tornata in albergo.>>

Albert mi guardò perplesso: <<E lui c’era?>>

 

<<I’m not looking for an absolution. Forgiveness for these things I do. But before you come to any conclusion, try walking in my shoes.>>, da “Walking in my shoes”, Depeche Mode[17]

 

<<When I want sincerità, tell me where else can I turn? Because you are the one I depend upon.>> da “Honesty”, Billy Joel[18]

 

Parte VII

 

 

Chiusi la mia valigia e la riposi in un angolo. Guardai nuovamente l’orologio. Era tardi, quasi mezzanotte, e cominciavo a preoccuparmi. Avevo fatto di tutto per cercare di far passare il tempo. Mi ero fatto una doccia, avevo letto il giornale dalla prima all’ultima pagina, avevo fatto la mia valigia in modo quasi maniacale, cercando di mettere dentro le cose in modo perfetto. Forse sarei dovuto andare a cercarla. Forse era solo un modo per sentirmi meno in colpa. Mi misi a sedere sul bordo del letto… anzi, no. Mi misi a sedere sul bordo del letto, ma mi rialzai subito. Uscii fuori, sul balcone della stanza e mi appoggiai alla ringhiera guardando verso le luci della città e respirando profondamente l’aria. Avevo bisogno di aria fresca. Avevo la testa che mi pulsava, confusa. Ero come in ebollizione.

Mi stirai, alzando le braccia e allungandole in alto, cercando di sciogliere le membra. Ero teso, nervoso e stanco. Mi appoggiai nuovamente alla ringhiera, guardando la città senza vederla veramente, cercando di non pensare a niente. Ovviamente senza riuscirci.

Decisi allora di scendere giù, al bar. Forse era quella stanza che mi opprimeva. Presi le chiavi e uscii in corridoio. Mi diressi verso l’ascensore, ma rimasi fermo davanti alla porta, guardando inerte le porte chiuse.

<<Permesso.>>

Mi voltai alla mia destra. Una signora mi guardava, indicando l’ascensore. Voleva passare e io le ostruivo il passaggio.

<<Oh, mi scusi.>>, dissi sorridendo e scostandomi.

<<Grazie.>>

Lei premette il pulsante di chiamata e dopo qualche istante le porte si aprirono, lasciandola entrare.

<<Lei non viene?>>, mi chiese con le mani già sulla pulsantiera interna.

Scossi la testa: <<No, grazie. Prenderò le scale.>>

<<Come vuole.>>, disse lei premendo un pulsante e scomparendo dietro le porte scorrevoli.

Mi diressi verso le scale e cominciai a scenderle. Dovevo esserle sembrato un imbecille. Ma non volevo stare fermo. Stare fermo in un ascensore mi terrorizzava. Se fossi stato fermo mi sarei messo a pensare. Ed era l’ultima cosa che volevo. Forse non era una buona idea nemmeno sedersi in un bar. Sarei uscito, a fare due passi. Camminare, forse, mi avrebbe schiarito un po’ le idee.

Arrivai nella hall e mi diressi verso la reception. Il portiere non c’era al momento. Lo chiamai con il campanellino sul banco e aspettai. Ne approfittai per guardarmi intorno, forse pensando che fosse lì, da qualche parte. Ma non c’era. C’erano solo poche persone, e nessuna di queste era lei.

<<Mi dica, signore.>>

Mi voltai verso il portiere: <<Volevo lasciarle la chiave della camera. Esco a fare un giro.>>

<<Certo.>>, disse il portiere prendendo la chiave della stanza e mettendola al suo posto.

Mi diressi verso l’uscita a grandi passi.

 

Aspettai che fosse uscito. Forse avevo aspettato tutto quel tempo seduta su quel muretto proprio in attesa di quel momento, senza pensare a cosa avrei fatto se non fosse mai uscito di lì. Sperai che non venisse nella mia direzione e fui esaudita. Si diresse nella direzione opposta e, quando scomparve dietro un angolo, aspettai ancora qualche minuto, per essere sicura che non ci avesse ripensato, e quindi mi diressi verso l’entrata dell’albergo.

La hall era quasi vuota. Il portiere stava controllando qualcosa sul registro.

<<Buonasera.>>, gli dissi sospirando di sollievo quando vidi che Joe aveva lasciato la chiave lì.

L’uomo alzò gli occhi su di me e sorrise: <<Buonasera. La 480, vero?>>

Lo guardai un po’ sorpresa: <<Beh, sì.>>

<<Non si sorprenda.>>, mi disse prendendo la chiave <<Non ci sono molti stranieri in questi periodo e io ho una buona memoria visiva. E poi lei è una ragazza molto bella. Il suo compagno di stanza è appena uscito. Tutto bene?>>

Dovevo avere un aspetto orribile in quel momento, e ne ero consapevole: <<La ringrazio.>>, risposi prendendo la chiave <<Non si preoccupi. Va tutto bene.>>

Presi la chiave e mi diressi verso l’ascensore. Lo chiamai, e quando arrivò dovetti aspettare che uscissero quattro o cinque persone da dentro. Finalmente entrai e premetti il pulsante del mio piano. Quando le porte scorrevoli si chiusero, mi appoggiai con la schiena alla parete, chiudendo gli occhi. Avevo pianto così tanto che mi bruciavano. Sentii le porte aprirsi ed uscii. Anche il corridoio era vuoto. Mi diressi in fretta verso la stanza.

Aprii la porta e accesi la luce. Era tutto in ordine. Chiudendo la porta, notai la sua valigia già pronta in un angolo. Aveva lasciato la porta del balcone aperta e un soffio di vento muoveva le tende.

Appoggiai la chiave della camera sul tavolo, e non potetti fare a meno di accarezzare una delle rose, che erano ancora nel vaso che mi ero fatta portare… solo quella mattina. Forse avrei dovuto buttarle, ma non ne ebbi il coraggio.

Feci mente locale di quello che dovevo fare. Innanzitutto mi sarei fatta una doccia. Ne avevo bisogno. Ero stanca e mi sentivo a pezzi. Poi avrei fatto anch’io le mie valigie.

Mi spogliai e aprii il getto d’acqua al massimo, rimanendo ferma sotto di esso per un’eternità, forse illudendomi che l’acqua lavasse via tutto il dolore e la delusione. Cominciai a ripensare alla sera prima, solo la sera prima. Come poteva essere quello il risultato, solo il giorno dopo? Non riuscivo a capacitarmene. Non riuscivo a capire come tutto potesse essere cambiato, stravolto così in meno di ventiquattro ore. Come non avessi fatto a non accorgermi di niente. E se fosse stato un qualcosa di più lungo e remoto? Se tutto fosse iniziato da molto prima, senza che io me ne sia mai accorta…

Mentre mi insaponavo, ripercorsi con la mente gli ultimi tempi, alla ricerca di qualcosa, di un presagio a quella catastrofe. Trovai solo un uomo che negli ultimi tempi era stato semplicemente adorabile, che aveva fatto di tutto per farmi sentire il centro del suo universo. Avevo collegato quell’atteggiamento al fatto che ci saremmo dovuti dividere per qualche tempo, solo per qualche tempo. Come lui mi aveva detto. Forse mi ero sbagliata. Forse si era comportato così perché aveva già in mente di troncare tutto. Ma allora perché non farlo subito, perché illudermi? Pensava forse di rendere la pillola meno amara, che in questo modo avrei sofferto di meno?

“… Vorrei lasciarti un buon ricordo di noi due.”

Sbarrai gli occhi. Lui avesse già deciso allora, per tutti e due. Chissà da quanto. Mi sciacquai e uscii dalla doccia, ancora con l’eco di quelle parole in testa. Ancora con l’idea, che si accendeva come un’insegna al neon nella mia testa, che lui avesse già deciso tutto, già da molto prima di allora.

Mi misi l’accappatoio addosso e un asciugamano attorno ai capelli. Ritornai in stanza. Lui non era ancora tornato.

Mi sedetti sul bordo di uno dei due letti e presi in mano la cornetta del telefono, chiamando la reception. Aveva parlato del suo passato. Di cose del suo passato che io non avrei voluto sapere, che non riuscivo nemmeno a immaginare. E’ vero. Una gran parte del suo passato mi è oscura. E quell’oscurità mi intimorisce. Da una parte lo vorrei conoscere, dall’altra mi accontentavo di sapere che l’uomo di adesso, quello di cui sono innamorata, stava con me. Che volesse o no raccontarmi il suo passato era una sua scelta. Doveva essere una sua scelta. Ha detto che mi ama, che mi ama ancora. E proprio per questo lui ha scelto di tagliarmi fuori dal suo passato e anche dalla sua vita. Più ci penso e più non riesco a entrare nei meccanismi di questo ragionamento. Mi sembra solo un paradosso…

<<Pronto? Chi è in linea?>>

Mi accorgo che è già la terza volta che mi viene detto “pronto”: <<Mi scusi. E’ la 480. Potrebbe mettermi in linea con l’aeroporto? Dovrei fare un biglietto.>>  

<<Certamente.>>

Sento il segnale di chiamata. Un telefono dall’altra parte del filo sta squillando. Dopo due segnali, mi risponde una voce maschile.

<<Pronto, aeroporto di Nagasaki.>>

<<Buonasera.>>, rispondo <<Senta, devo essere all’aeroporto di Tokyo domattina.>>

<<Certo. Quale?>>

Ah, già. Ci sono due aeroporti. Non mi ricordavo il nome di quello Internazionale. Dalla confusione che avevo in testa: <<L’Internazionale… Non mi ricordo il nome…>>

<<Narita?>>, mi suggerisce lui.

<<Sì, esatto.>>

<<Aspetti…>>, sento digitare qualcosa su una tastiera <<Che ora?>>

Ci pensai su un attimo: <<Mi dica che voli ci sono?>>

<<Uhm… ce n’è uno alle 7.30 del mattino, uno alle 9.30 e un altro alle 12. Vuole anche quelli successivi?>>

<<No, quello delle 7.30 andrà benissimo.>>

<<Va bene. A che nome?>>

<<Françoise Arnoud.>>, dico scandendo bene le lettere, in modo che le capisca.

Sento ancora digitare: <<Bene, potrà ritirare il suo biglietto domattina in aeroporto, presso la JAL[19].>>

<<La ringrazio.>>

<<Prego. Buonanotte.>>

E’ un piccolo gesto di cortesia, magari fatto perché gli hanno detto che a quell’ora deve sempre dare la buonanotte ai clienti, anche se ti hanno svegliato mentre stavi schiacciando un sonnellino e gliene hai dette di tutti i colori nella tua testa. E’ una piccola cortesia, ma in un momento come questo la apprezzo enormemente: <<Buonanotte anche a lei.>>

Riattacco e rialzo, richiamando di nuovo la reception.

<<Pronto?>>

<<Pronto… è sempre la 480.>>

<<Mi dica.>>

Cerco le parole per formulare la domanda: <<Il mio compagno di stanza le ha per caso già dato istruzioni riguardo a eventuali sveglie domattina?>>

<<Mi faccia vedere… sì. Sveglia alle 8.>>

Dovevo immaginarlo: <<Non ha più importanza. Cancelli pure il promemoria.>>

<<Come desidera.>>

 

Quando rientrai in albergo erano le due passate. La hall era completamente deserta, a parte un paio di uomini delle pulizie dalla faccia assonnata. Mi avvicinai alla reception per prendere la chiave, e anche per ricordargli la sveglia la mattina dopo. Il portiere non c’era. Lo stavo per chiamare, quando notai che la chiave non era al suo posto.

<<E’ tornata…>>, pensai ad alta voce.

Corsi verso l’ascensore e lo chiamai. Mi sembrò che ci mettesse un’eternità ad arrivare. Finalmente le porte si aprirono ed entrai già schiacciando il pulsante.

Ci mise un’eternità anche a salire. Quando le porte si riaprirono, corsi per il corridoio e mi fermai davanti alla porta, più precisamente con la mano sopra il pomolo. Non dovevo fare altro che girarlo, ma esitavo.

Lei mi avrebbe voluto vedere?

Sentii il pomolo girare nella mia mano. La porta si aprì e lei mi apparve davanti. Era in accappatoio, e aveva i capelli sciolti e umidi che le ricadevano sulle spalle. Si sentiva ancora l’odore dello shampo. Fu per dire qualcosa, ma non uscì una sola parola dalla sua bocca. Rimanemmo a guardarci in silenzio per qualche istante, lunghissimo. Poi lei si girò, dandomi le spalle e ritornando in stanza. Io, dopo ancora qualche secondo di immobilità, varcai la soglia e chiusi la porta dietro di me, girando la sicura. Camminai lentamente verso l’interno della stanza. Lei stava chiudendo la sua valigia, quando riapparve davanti ai miei occhi. Non mi guardò nemmeno, e la ripose accanto alla mia, in un angolo. Poi cominciò a mettere le ultime cose nel suo beauty case.

Sarei dovuto essere io a non avere il coraggio di guardarla in faccia. Ma pensai che la sua non era mancanza di coraggio o vigliaccheria. Era un semplice ignorarmi, indifferenza. Qualcosa ancora peggio del disprezzo.

<<Françoise… io…>>

Non si voltò, continuando nel suo lavoro.

Mi tolsi la giacca, rimanendo in maniche di camicia, e mi misi a sedere su uno dei due letti, rimanendo fermo e in silenzio a guardarla.

<<Quando inizi qualcosa dovresti portarlo a termine.>>, disse improvvisamente, voltandosi verso di me solo un istante <<Hai iniziato una frase. Continuala.>>

Era quel tono deciso che le era caratteristico, anche se nessuno ci faceva caso. Lei era sempre convinta e sicura di quello che diceva, e di quello che faceva. Non aveva esitazioni. Era così anche nella vita. Se aveva un obiettivo, lo inseguiva, fino a quando non lo aveva raggiunto. E non importava quante fossero le difficoltà e gli ostacoli. Era testarda. E perseverante. Era una perseveranza che ammiravo. Una perseveranza che io non ho.

Presi un profondo respiro: <<So di essere l’ultima persona che volevi vedere…>>

<<No.>>, mi interruppe chiudendo il suo beauty case e scuotendo la testa. Poi si avvicinò e si mise a sedere sull’altro letto, di fronte a me <<Tu sei molte cose per me… potresti essere tante altre. Ma mai l’ultima persona che vorrei vedere. E c’è un’altra cosa.>>

Non le chiesi “cosa?”, ma immagino che si leggesse sul mio volto.

<<Io non potrei mai odiarti.>>, disse <<Qualunque cosa tu mi faccia, io non riuscirei mai ad odiarti. Posso essere infuriata con te, posso non comprenderti, non essere d’accordo… qualunque cosa. Ma non posso riuscire ad odiarti.>>

Lo ripeté scandendo ogni parola fino all’ultima sillaba: <<Sarebbe tutto più semplice se ci riuscissi.>>

<<Non c’è mai stato niente di semplice con te.>>, rispose <<Che degno finale: mi ami, “più della tua stessa vita”, ma mi lasci. Ed è questo che mi fa più male.>>

<<Françoise…>>

Lei si alzò in piedi, cominciando a camminare per la stanza, verso il balcone: <<Se tu mi avessi detto semplicemente “non ti amo più”, me ne sarei fatta una ragione. Avrei capito. Ma così non riesco proprio a capire. E’ un rompicapo che non riesco a risolvere. E’ sempre stato così con te. Mi ero illusa che le cose fossero cambiate. Mi avevi illusa che fosse così.>>

Si fermò, dandomi la schiena, appoggiata al balcone.

Mi alzai anch’io, camminando verso di lei: <<Le cose sono cambiate…>>

<<E allora perché siamo di nuovo al punto di partenza? Anzi…>>, mi chiese voltandosi verso di me. Poi si mise le mani sui fianchi, con un sospiro di esasperazione <<A quel punto di non-partenza a cui siamo stati fermi per un’infinità di tempo. Troppo tempo.>>

Rimango in silenzio. Non so cosa rispondere. A dire il vero, la risposta sarebbe che sono io che devo tornare indietro, e non voglio che lei torni indietro con me. Ma non posso dirglielo.

<<E’ meglio che vada a dormire in un’altra stanza.>>

<<Da quanto avevi deciso tutto questo?>>

La sua domanda mi spiazzò. Molto stupidamente pensai che si riferisse al fatto di dormire in un’altra stanza e stavo anche per rispondere. Poi capii.

Presi un profondo respiro: <<E’ un’idea che mi girava in testa da un paio di settimane.>>

<<Perché?>>

<<Non posso dirti il perché!>>, mi sembra di ripeterlo per la milionesima volta <<Ma riguarda solo ed esclusivamente me. Non te.>>

Scosse la testa: <<Come puoi dire una cosa del genere? Come puoi dire che io non c’entro? Tu hai deciso tutto da solo e non mi hai dato modo di replicare. Mi lasci e mi metti con le spalle al muro, dicendo che mi ami ancora. Tu hai messo la parola fine alla “nostra” storia, e hai il coraggio di dire che non mi riguarda?>>

 

Niente. Non rispose. Non riuscivo a cavargli niente da dentro. Si ostinava a voler tenere tutto per sé. Non avevo preventivato di fare un tentativo di salvare la nostra storia. E’ venuto fuori. Per uno strano istinto di sopravvivenza del mio amore per lui. Ho cercato di attaccarmi a tutto quello che potevo. Ed è stato inutile. Ne ho ricavato solo altro dolore. Mi sentivo stanca, spossata, demoralizzata. Avrei voluto avere una bandiera bianca per dare un segno della mia resa.

E quello che gli ho detto è vero. Anche adesso, anche in quel momento, mentre lui stava zitto, chiuso nel suo ostinato e insopportabile silenzio, sapevo che non sarei mai riuscito ad odiarlo. Che potevo essere infuriata con lui all’inverosimile, per quel tradimento che non comprendevo, ma non potevo odiarlo.

Mi sedetti pesantemente sul letto. Ero distrutta, ma non volevo piangere. Non dovevo piangere. Non volevo dare quell’ennesimo segno di debolezza nei suoi confronti. Mi vennero in mente le parole che una volta mi aveva detto mia madre: <<Vorrei che tuo fratello avesse il tuo carattere. Lui è tanto grande e grosso e in realtà gli basta nulla per crollare e arrendersi. Tu sembri così fragile, eppure non ti arrendi mai.>>

Era stato vero. Se non avessi avuto carattere non sarei mai andata avanti in un mondo come quello della danza classica, pieno di mastini e compagne invidiose del tuo talento e delle tue capacità. Non avrei perseguito i miei sogni con tutte le mie forze. Non avrei sopportato di essere diventata un cyborg, uno strumento di morte. Quando scoprii di essere diventata un cyborg di nome 003 per me, la mia vita, non contava più niente. Tutto era stato spazzato via. Ma non mi ero arresa. Avevo deciso di andare avanti, anche quando sembrava che non ne valesse la pena. Quando sembrava che non ci fossero motivi validi per andare avanti. E li ho trovati. Mano a mano li ho trovati sulla mia strada. E ho trovato delle ragioni per continuare a vivere. Sì, potevo limitarmi ad esistere, ma avevo deciso di vivere. Perché avevo trovato dei compagni e soprattutto degli amici meravigliosi. Perché avevo trovato lui, e grazie a lui avevo riscoperto i miei sentimenti più profondi. La mia capacità di provarli era ancora viva. Io ero ancora viva. Avevo aspettato e sopportato in silenzio. Tutto. La sua indecisione, le sue sbandate, i suoi atteggiamenti scostanti e umorali. Quando finalmente mi aveva detto di amarmi, per me era stato come toccare il cielo con un dito. Pensavo che fosse così, ma in quei pochi mesi passati insieme mi ero veramente resa conto di non aver mai amato nessuno come amavo lui. Non dirò mai che essere diventata un cyborg sia stata una fortuna. Ma aver incontrato lui sì. Lo è stata. E’ la cosa più bella che mi sia capitata. Continuo a esserne convinta. Nonostante tutto, nonostante questo. Nonostante sia finita. 

<<Françoise.>>, si inginocchia davanti a me e cerca i miei occhi. Io lo guardo, quasi impassibile nella tristezza infinita che provo <<Ascoltami. Quando ho detto che non ti riguarda, intendevo dire che non è colpa tua se la nostra storia è finita. E’ solo colpa mia, e della mia vigliaccheria. Non è colpa tua. Tu non hai fatto niente che mi abbia portato a prendere questa decisione. Anzi, sei solo riuscita a farmi innamorare ancora di più. Se restassi insieme a me, soffriresti. Soffriresti troppo. E io non voglio che tu soffra. Non voglio vederti soffrire.>>

Sorrido. E’ un sorriso quasi ironico, di quell’ironia che viene dall’esasperazione. Ironia di me stessa. Non capisce che dicendomi così mi fa soffrire ancora di più?: <<Perché adesso come credi che mi senta?>>, gli rispondo <<Tu mi stai vedendo soffrire, Joe. E come non ho mai sofferto in vita mia.>>

Lui strinse le labbra, respirando profondamente: <<Soffri adesso. Soffrirai domani. Soffrirai per un altro mese, altri due. Ma la vita va avanti. Hai una famiglia che ti aspetta a casa. Degli amici che ti aspettano a casa. Un sogno da realizzare. Hai tutto quello che ti serve.>>

<<Ma non ho te.>>, gli replicai, quasi urlandoglielo.

Esitò un attimo: <<Io non conto niente. Nella tua vita… sarei fuori luogo. Non appartengo al tuo mondo. Non posso appartenerci.>>

Fui per rispondere qualcosa, ma mi accorsi dei suoi occhi. Erano lucidi. Stava cercando di non piangere anche lui.

“Perché dobbiamo soffrire così? Perché non possiamo stare insieme? Perché non vuoi darmi questa risposta e continui a riempire la mia testa di domande? Su una cosa hai ragione. Veramente, se mi avessi detto che non mi amavi più, o che non mi avevi mai amato, sarebbe stato più facile. Ma mi hai lasciato, dicendo che lo fai perché mi ami. Ma facendo così mi hai solo allontanato, tenendomi attaccata a te come con un cordone ombelicale. E io non riesco ad accettarlo, Joe. Ma non ho più la forza di combattere una battaglia di cui tu hai già deciso la conclusione.”

Furono solo pensieri, non presero forma di parole e rimasero dentro di me. Insieme alle mie lacrime.

 

Restammo in silenzio, immobili, guardandoci negli occhi per un tempo che mi sembrò infinito e straziante. Se fossi rimasto ancora così, non sarei più riuscito a trattenere le lacrime, e non volevo piangere davanti a lei. Non perché non volevo che mi vedesse piangere. Temevo che sarei stato troppo debole e fragile avrei finito per raccontarle tutto.

<<<Vado a chiedere se c’è una stanza libera in cui possa passare la notte.>>, dissi rialzandomi in piedi e facendo per andare via.

Ma lei mi prese per una mano, fermandomi. La guardai perplesso, prima lei, poi le nostre mani, l’una nell’altra. Tornai sui miei passi, cercando una spiegazione di quel gesto nel suo viso, nei suoi occhi.

Lei restò in silenzio qualche istante, mordendosi il labbro inferiore: <<Non voglio che tu vada via.>>

<<Dovrei restare a dormire qui?>>, le chiesi corrugando la fronte.

Scosse la testa, quasi stancamente, e lasciò la mia mano, stringendosi nelle spalle: <<Voglio che tu mi ami.>>, disse.

Lo aveva detto con un filo di voce, ma avevo capito benissimo. Quella richiesta mi spiazzò, completamente. Non me l’aspettavo. Tutto mi sarei aspettato che uscisse dalla sua bocca, dalle sue labbra, tranne che quelle parole. Mi aveva come paralizzato, stordito: <<Tu… vuoi… fare l’amore con me? Dopo tutto quello che è successo? Dopo quello che ti ho fatto…>>

Lei annuì, alzandosi in piedi e camminando qualche passo lontano, dandomi la schiena, e poi guardandomi di nuovo in faccia, continuando a stringersi nelle braccia: <<So che ti sembra una richiesta assurda… e puoi rifiutare. Voglio un’ultima notte insieme a te. Voglio sentire ancora il sapore delle tue labbra, il sapore della tua pelle… Voglio…>>, abbassò gli occhi un solo istante, e li rialzò subito, cercando i miei <<Voglio sentirti ancora dentro di me e diventare una sola cosa con te. Un’ultima notte. Un’ultima volta… Un’ultima volta con te. Non ti chiedo altro.>>

Non faceva niente per convincermi. Avrebbe potuto cercare di sedurmi, azionando i miei istinti più profondi. Avrebbe potuto fare qualunque cosa, e sapeva che non le avrei resistito. Non era solo una questione fisica. Io la amavo e la desideravo per questo. Ma lei non fece niente per spingermi dove voleva che arrivassi. Si era limitata a fare la sua richiesta, lasciando solo a me la decisione se accettare o meno, senza cercare di influenzarla in alcun modo.

Stavo per chiederle se era veramente sicura di quello che mi stava chiedendo. Ma le mie labbra si separarono appena, senza però far uscire alcuna parola. Si richiusero e, quasi senza accorgermene, le mie mani cominciarono ad armeggiare i bottoni della mia camicia. Ma ero nervoso, troppo nervoso, e le mie mani tremavano, incespicando.

Lei si avvicinò a me, senza dire niente, prendendomi delicatamente le mani e scostandole, riprendendo dal punto in cui mi aveva fermato.

Prima sul torace, e poi le maniche. Mi aiutò a sfilarla dal mio corpo e cominciò a lavorare sulla cintura, i pantaloni, tutto il resto. Mi inebriavo del suo profumo mentre mi spogliava, come aveva fatto tante altre volte. Eppure sentivo, sapevo che stavolta c’era qualcosa di diverso. Non era come le altre volte. Era il nostro addio.

Quando ebbe finito, solo allora, rialzò gli occhi verso di me, verso i miei. Volevo baciarla, assaporare le sue labbra, ma forse, ancora, non riuscivo a inserirmi in ciò che stavamo facendo. Era giusto che succedesse? Cos’era? Un tentativo di fuga? L’ultimo alito di vita della nostra storia? L’ultimo alito di vita…

Le presi la testa tra le mani e la baciai sulle labbra, dapprima solo sfiorandole, una, due volte. Poi una terza volta più profondamente. Le mie mani scesero lentamente lungo la spugna del suo accappatoio, fino a trovarne la cintura e scioglierla…

 

(DLIN DLON. N.d.Laus: la parte che segue contiene esplicite situazioni sessuali. In gergo, si direbbe che è vietata ai minori di 18 anni. Se preferite evitare, cliccate qui.)

Se non avessi descritto quello che segue, e in particolar modo le loro emozioni in questa scena, mi sarebbe sembrato di lasciare la storia, e i personaggi, incompleti.

Ora sta a voi decidere se continuare o meno. Nel caso potete sempre ciccare qui e arrivare alla fine di questa scena.)

 

Per un istante temetti che ci avesse ripensato. Non l’avrei biasimato. Non sapevo nemmeno io se fosse giusto quello che stavamo facendo. Sapevo solo di volerlo, fortemente. Mi guardava con uno sguardo strano, incerto. Abbassai gli occhi, chiedendomi se non fosse il caso di lasciar perdere. Per il bene di tutti e due. Fu allora che sentii le sue mani alla base delle guance. Rialzò la mia testa verso la sua, e le sue labbra sfiorarono le mie una, due volte, prima di catturarle in un bacio profondo. Quel suo modo di baciarla che l’aveva colpita sin dall’inizio.

Joe stacca le mie labbra dalle sue e mi sorride. E’ sdraiato accanto a me, sotto un albero delle vallate qui intorno. Una foglia cade sulla sua camicia e io la raccolgo, facendola girare tra le mie dita per il gambo.

<<Cos’è che vuoi chiedermi?>>, mi dice prendendo l’altra mia mano nella sua e accarezzandola col pollice.

<<Come fai a sapere che ti voglio chiedere qualcosa?>>

<<Dai tuoi occhi.>>

Lascio cadere la foglia a terra e inizio a disegnare il contorno delle sue labbra con la punta dell’indice: <<Ti ha mai detto nessuna che baci meravigliosamente?>>

Inarca le ciglia quasi sorpreso, e un po’ divertito. Poi ride: <<Certo che detto da una francese è un bel complimento.>>

<<E’ la verità. E guarda che non l’ho mai detto a nessuno.>>, dico girandomi sulla schiena, per distogliere lo sguardo, perché parlarne un po’ mi imbarazza. Ma mi sentivo di dirglielo <<Sei trascinante e irresistibile.>>

Non risponde, ma sento il suo corpo avvicinarsi a me, un breve sguardo di intesa… e le sue labbra…

Avvertii appena scivolarmi l’accappatoio da dosso. Le sue braccia mi strinsero a lui. I nostri due corpi entrarono in contatto, iniziando il loro dialogo silenzioso, fatto delle sensazioni profonde che ognuno suscitava all’altro. Mentre continuava a baciarmi, le sue mani si muovevano sulla mia schiena, per poi spostarsi sui fianchi, fino a raggiungere il seno, accarezzandolo, ascoltando i silenziosi messaggi che il mio corpo gli trasmetteva. Le sue mani risalirono fino alla base del collo.

Cominciai a seguire le linee del suo torace con la punta delle dita, per poi accarezzarlo, dal petto alla schiena, sull’addome…

 

Le sue mani scesero ancora più giù, accarezzandomi appena, quasi per testare i miei tempi. Presi le sue mani tra le mie, e le nostre labbra si separarono. La accompagnai verso il letto e restai in piedi mentre si sdraiava davanti a me, lasciando che le sue mani scivolassero lentamente tra le mie, fino a perderle. Mi riempivo gli occhi della sua bellezza.

Guardo per l’ennesima volta l’orologio, lasciandomi scappare uno sbuffo di impazienza. E’ un quarto d’ora fa mi aveva detto che le mancava un attimo, e io sono ancora qui seduto sul divano ad aspettarla.

<<Si fa desiderare, eh?>>, mi stuzzica Jet guardandosi la partita di baseball in tv.

Già, come se non bastasse, i Giants[20] stanno anche perdendo.

Mi alzo e rifaccio le scale, tornando davanti alla sua stanza. Busso.

<<Avanti.>>

Spingo giù la maniglia, già parlando: <<Ma quanto diavolo…>>

Si sta guardando allo specchio. Indossa un abito da sera, blu mare, che le lascia scoperte le spalle e una parte della schiena. I suoi capelli sono raccolti all’insù, evidenziando la bellezza del suo collo. E’ semplicemente meravigliosa.

<<Non mi sta bene, vero?>>

Non mi ero nemmeno accorta che mi stesse guardando. Mi sembra di riprendere a respirare e richiudo la porta dietro di me.

<<Stai scherzando? Ti sta divinamente.>>

Lei torna a guardarsi nello specchio, non troppo convinta: <<Non ho abbastanza forme per portare questo vestito.>>

Mi avvicino di qualche passo: <<Françoise, ti sta benissimo. Sembra fatto apposta per te. Non lo dico tanto per dire.>>, le dico <<Mette in risalto la tua linea. Io credo che… credo che sarò l’uomo più invidiato in quel teatro, stasera.>>

Lei mi sorride: <<Sei il solito adulatore. Ma vi ho visto, oggi pomeriggio.>>

<<Cosa hai visto?>>, gli chiedo non capendo a cosa si riferisce.

<<Come guardavate quell’attrice, in tv.>>, risponde <<Quella che ha quella specie di balconata al posto del petto. E tutte le rotondità al posto giusto.>>

Rido, scuotendo la testa: <<Andiamo, Françoise. Quella non vale la metà di te. Tu sei molto più bella.>>

<<Certo, certo.>>, dice spruzzandosi un goccio di profumo alla base del collo <<Mi dispiace di avere una misera terza.>>

<<Non mi sembra di aver mai disdegnato il tuo seno, anzi…>>

<<Beh, quello passa in convento…>>

Io, effettivamente, non avevo mai immaginato che cosa celassero i vestiti che portava, fino a quando non l’avevo vista senza di essi. Ma aveva un corpo ben proporzionato, e sinuoso. Praticamente perfetto, come la sua linea. Non capivo perché si facesse tutti quei problemi e perché non volesse credermi.

Mi metto davanti a lei e le metto le mani sulle spalle: <<Françoise, ascoltami. Tu sei bel-lis-si-ma. E non sto scherzando. E se andiamo fuori da questa stanza, vedrai che tutti si gireranno a guardarti e attaccheranno i suoi occhi addosso a te. E stasera, a teatro, gli uomini mi malediranno perché vorrebbero essere al mio posto. Mi credi?>>

Lei esitò un istante, poi annuì, accennando un sorriso: <<Va bene. Andiamo e facciamo morire di invidia sia gli uomini che le donne.>>

Il suo sguardo mi chiedeva di andare da lei. Non c’era nessuna ombra di sorriso sulle sue labbra, stavolta. Solo quello sguardo era uguale a tutte le altre volte. Era una chiamata a cui non sapevo resistere, e a cui non volevo resistere.

Mi misi sul letto, restando alzato sulle mie ginocchia in mezzo alle sue, e cominciai a salire, con le mani, partendo da appena sopra l’inguine, su, fino ad arrivare alle spalle. Seguendo il mio stesso movimento, scendevo verso di lei. Quando le fui a portata di mano, portò le sue mani sul mio addome. Sentivo le sue dita scivolare su, man mano che i nostri corpi si avvicinavano l’uno all’altro. Poi le sue braccia passarono attorno al mio torace, quando fui abbastanza vicino, e le sue mani cominciarono ad accarezzarmi la schiena, mentre io appoggiavo i gomiti sul letto per poterle baciare le labbra.

Mentre la baciavo, sentivo i sui seni a contatto col mio petto. Forse non immaginava nemmeno lei quale sensazione mi provocasse quella sua carezza involontaria. O forse lo sapeva benissimo, se il mio corpo le trasmetteva i miei brividi di piacere come lei mi trasmetteva i suoi.

Staccai le mie labbra dalle sue, iniziando a baciarla sul collo, fino al seno, sfiorandolo soltanto, e scendendo ancora, posai le mie labbra sulla pelle del suo addome, con l’intenzione di scendere ancora. Ma il suo corpo, in qualche modo, mi fece capire che non voleva. Non adesso.

 

Smise di baciarmi le labbra, cominciando a scendere sul collo, sul  seno. Baciando l’uno e l’altro, prima sfiorandoli appena, quasi come se giocasse, poi in modo sempre più profondo. Intanto la sua mano scendeva lungo un lato del mio corpo, così leggera che la avvertivo appena. Le sue labbra scesero ancora, sull’addome, i fianchi. Capii cosa voleva fare, e mi alzai a sedere, inducendolo ad alzare la schiena e a guardarmi in volto. I nostri occhi si incontrarono appena un istante, prima di baciarci di nuovo sulla bocca.

<<Se avessi saputo che mi tenevi il muso non l’avrei fatto.>>, lo sento dire. Ma il suo tono è quasi ironico, sdrammatizzante. Il fatto è che non c’è niente da sdrammatizzare.

Io resto per un po’ sdraiata supina, evitando di guardarlo. Non mi accorgo nemmeno che si avvicina a me, girandomi di scatto quando sento le sue labbra tra le mie scapole.

<<Allora sei viva.>>, mi dice sorridendo quando i nostri occhi si incontrano.

Mi sdraio nuovamente di lato, esattamente come fa lui in modo speculare a me. Restiamo l’uno di fronte all’altro, in silenzio per qualche istante.

<<Lo sai che quello che mi hai fatto è illegale in parecchi stati?>>, gli dico tanto per rompere il ghiaccio dopo tutto quel mio silenzio.

Lui sbarra gli occhi, ma è solo per scherzo, perché poi si mette quasi a ridere: <<Per quel che ne so, qui non lo è.>>, dice <<Non ci vedo niente di male. Per me è solo un modo di amarti. Ma forse tu sì? Ci vedi qualcosa di male se cerco di fare di tutto per soddisfarti? Però mi sembra che ti sia piaciuto, anche se non lo ammetti.>>

Il punto è proprio quello. Ed è anche il motivo per cui sento qualcosa che assomiglia a un senso di colpa. Forse è una questione di cultura…

<<Sì… cioè…>>, mi fermo un attimo. Non so nemmeno io cosa voglio dire, e avverto chiaramente di essere arrossita. Prima di adesso, lo vedevo come qualcosa di… sporco. Ma lui ha detto che è un modo di amarmi, e anch’io non riesco a non accettare questa interpretazione. E’ per questo che mi sento in colpa?

<<Françoise, ho solo voluto….>>, si ferma un attimo e sembra che sia come se un lampo gli fosse passato per la testa <<Non l’ho fatto con l’aspettativa che dopo tu avresti fatto la stessa cosa. Non ti chiederò di fare la stessa cosa a me, se tu non vuoi, non te la senti o altro. Non voglio che tu faccia qualcosa che tu non vuoi fare.>>

Mi sono sdraiata sulla schiena, e tengo le braccia conserte. Lo guardo, ripensando alle sue parole, al fatto che per lui non sia stato che un modo come un altro per amarmi. In fondo è quella la differenza tra fare semplicemente del sesso e fare l’amore. Non ho mai avuto rapporti sessuali con un uomo per cui non avessi almeno l’illusione di provare qualcosa. Ma credo che la differenza sia appunto nel cercare il proprio piacere, oppure cercare di darlo all’altro, prima di tutto. Un modo per amare.

<<A te piacerebbe?>>

Mi fece nuovamente sdraiare, continuando a baciarmi. E mettendosi quasi di fianco a me, restando a contatto col mio corpo. Mentre un braccio era sotto la mia testa, con l’altra mano ricominciò ad accarezzarmi il seno, scendendo sull’addome, proseguendo fino alla gamba, e poi risalendo all’interno di essa, senza fermarsi…

 

Di nuovo la sua mano scese lungo il mio torace, partendo dal petto, riempiendolo di carezza fino all’addome, scendendo ancora, muovendo le mani, entrambe, con seducente maestria, sfidando il mio senso del controllo.

La sentii pronta per me, pronta ad accogliermi. Il suo corpo stava chiamando il mio. Le nostre labbra si separarono e mi spostai sopra di lei. Sentii le sue mani che mi liberarono, risalendo lungo il mio torace, fino alle spalle. La guardai un istante negli occhi e l’ombra del pensiero che sarebbe stata l’ultima volta che sarei entrato dentro di lei mi rattristò. E se avesse trovato qualcuno dopo di me? Qualcuno che l’amasse come meritava? Qualcuno che non ero io. L’idea mi faceva impazzire, non la sopportavo. E cercai di mandarla via. Ormai non potevo tornare indietro. Qualunque fossero le braccia che l’avrebbero strinta dopo le mie, ce l’avevo spinta io. Nessun altro. E l’avevo fatto per il suo bene. Eppure, rieccomi, a fare il controsenso vivente che sono sempre stato. Non voglio che stia con me, e non sopporto la sola idea che stia con qualcuno diverso da me.

<<Ancora?>>, mi dice guardandomi con occhi spalancati e quasi increduli <<Accidenti, Joe. Ti ho detto che sei stato l’uomo migliore della mia vita. Perché insisti?>>

<<Perché sono geloso.>>, rispondo candidamente, guardando l’ennesimo gabbiano che prende la sua preda in mare. E’ la verità. E ne sono consapevole. Non sono di quelli che si nascondono dicendo che loro la gelosia non sanno nemmeno dove sta di casa. Sono geloso e possessivo. D’altronde gliel’ho detto sin dal primo istante. E con quello che mi ha detto ieri sera a letto, ha stuzzicato la mia curiosità e la mia gelosia.

<<Non so quante storie ho avuto oltre a quelle due.>>, risponde sospirando di esasperazione.

<<Non sai quante storie hai avuto?! E quante diavolo devono essere state per non sapere nemmeno quante?>>, esclamo pensando allo stesso tempo a quanto sembro stupido addirittura a me stesso.

Sospira nuovamente: <<Tu quante ne hai avute?>>

<<Che c’entra? Nessuna di loro è stata importante quanto te…>>

Il suo gesto del capo, mentre tiene le braccia conserte, già mi dice quanto sono stupido. Dice: “Quindi? Non ti viene in mente che per me tu sei la stessa identica cosa?”.

Scoppio in una mezza risata, e annuisco: <<Sono uno stupido…>>

<<E allora io sono innamorata di uno stupido. E, quel che è peggio, non ho mai amato nessuno tanto e più di quanto ami lui.>>, dice sorridendo <<Ma a quanto pare non riesco a farglielo capire.>>

Disegnai il suo profilo con la punta dell’indice, fermandomi sul suo mento, mentre entravo lentamente dentro di lei. Lei chiuse gli occhi, lasciandosi sfuggire una lieve smorfia. La baciai sulle labbra, appena sfiorandola, e quando rialzai appena la testa, lei aprì gli occhi.

 

Lo sentii scivolare dentro di me, e chiusi gli occhi per quella piccola punta di dolore che mi provocava ogni volta. Lui lo sapeva bene e, come sempre, si fermò prima di andare avanti. Mi sfiorò sulle labbra, e quando lo sentii rialzare la testa, aprii gli occhi. Fu allora che comincia a sentire il suo movimento dentro di me, lento e profondo. Quasi istintivamente, iniziai ad assecondarlo, stringendolo a me, chiudendo gli occhi e vivendo del suo movimento, del contatto del suo corpo col mio, delle sue labbra con la mia pelle e con la mia bocca, del sapore della sua pelle, dei muscoli delle sua schiena che sentivo in tensione e contrarsi sotto le mie mani, dell’intenso piacere che percorreva tutto il mio corpo.

<<E’ quello il ritmo che vuoi?>>

Sono mezza addormentata. Mi giro nelle sue braccia, sdraiandomi di lato. Lo guardo senza riuscire a capire a cosa si riferisce, e credo che il mio sguardo dica tutto.

<<Quando tu stavi sopra di me… E’ quello il ritmo che vuoi?>>

Spalanco gli occhi, comprendendo a cosa alluda. Ripenso alla notte che stiamo trascorrendo insieme. La prima notte insieme. Arrossisco un po’ al pensiero, ma so bene di cosa sta parlando. Stava andando troppo in fretta. Avevo paura di perderlo…

 

… e fa qualcosa che non mi sarei mai aspettato dalla Françoise che conosco, che avevo conosciuto fino a quel momento. Mi spinge leggermente, inducendomi a sdraiarmi sulla schiena, così da essere sopra di me. La sento rallentare il ritmo, cercare la profondità. E capisco che fa così, perché è così che a lei piace, e piace anche a me. La sento molto di più. La sento veramente mia.

<<E’ quello il ritmo che vuoi?>>, le chiedo dopo, quando è tutto finito.

Lei si gira tra le mie braccia, guardandomi perplessa. Io le riformulo la domanda, cercando di spiegare. La vedo spalancare gli occhi, e anche siamo al buio. So che è arrossita.

<<Stavi andando un po’ troppo velocemente.>>, mi spiega con un filo di veloce <<Non avrei voluto… come dire… arrivare in ritardo. E in questo modo… poi… riesco a sentirti di più.>>

Sentivo il suo corpo inarcarsi sotto il mio, rispondere agli impulsi che le davo. Sentivo chiaramente il mio e il suo respiro, le sue mani sulla schiena, quasi graffiarmi la pelle. Gradualmente il mio ritmo aumentava, senza mai diventare frenetico, e lei si adeguava, seguendo ogni mio movimento, in una sincronia perfetta, come se seguissimo una qualche musica, di cui solo noi due conoscevamo la melodia e il tempo. C’era solo lei. Tutto il resto, la stanza, i rumori della città, tutto era scomparso. C’eravamo solo io e lei. Solo noi.

 

Lo sentii esplodere di piacere insieme a me. Ormai era quasi una consuetudine che arrivassimo insieme alla fine. Ed era una sensazione indescrivibile. Riaprii gli occhi mentre rallentavamo fino a fermarci del tutto. Anche lui aveva gli occhi aperti, e mi guardava senza dire una parola, cercando di normalizzare il respiro, come stavo facendo io. Mosse una mano, scostando una ciocca di capelli dalla mia guancia, e restammo a guardarci, a lungo, senza muoverci.

(Fine della zona rossa)

Era finita. Ecco, adesso la nostra storia era finita. Chissà se anche lui stava pensando alla stessa cosa? E se quello sguardo malinconico con lo quale mi fissava, era dovuto a quello.

Vidi la sua testa abbassarsi su di me, e per un istante pensai che fosse per baciarmi, come faceva sempre appena dopo fatto l’amore. Ma non stavolta. Appoggiò la testa sulla mia spalla, stringendomi a sé. Io lo abbracciai a mia volta, istintivamente, passandogli una mano tra i capelli, senza chiedere niente.

Dopo qualche istante sentii il suo corpo cominciare come a sussultare, non in modo eclatante, ma lievemente. Inizialmente non capii, ma poi il suono divenne impossibile da non riconoscere. Pianse, sulla mia spalla, tra le mie braccia, lasciando cadere ogni controllo che aveva cercato di dare a quelle lacrime. Pianse fino a quando ad addormentarsi, a cadere in un sonno profondo. Restai a guardarlo dormire, accanto a me, per un po’ di tempo.

Poi, quando fui sicura che fosse ben sprofondato nel suo sonno, mi alzai e mi vestii in fretta, cercando di non fare rumore. Presi la valigia e la portai fuori dalla stanza, appoggiandola all’entrata. Poi rientrai. Joe non aveva dato segni di vita. Continuava a dormire, profondamente. Restai a guardarlo. Per un attimo sentii gli occhi bruciarmi, ma ricacciai indietro le lacrime. Presi il mio soprabito e tirai fuori dalla tasca la busta che gli dovevo lasciare. Guardai l’anello un’ultima volta. Poi lo sfilai e lo misi dentro la busta, chiudendola definitivamente. La lasciai lì, sotto il vaso con dentro le rose che mi aveva regalato solo il giorno prima.

Mi voltai verso di lui e restai a guardarlo ancora qualche istante, ancora un po’. Di nuovo quella sensazione di bruciore agli occhi. Feci forza su me stessa e andai verso la porta. La aprii e la richiusi alle mie spalle, cercando di fare il minimo rumore e di rendere quel gesto il meno doloroso possibile. Presi la mia valigia e scesi di corsa al piano terra, prendendo le scale.

Arrivata nella hall, il portiere di notte alzò gli occhi dal suo giornale fresco di stampa e mi guardò, come se fossi un extraterrestre. D’altronde erano le 4 e mezzo di notte. Non potevo biasimarlo. Doveva essere abituato a vedere poca gente a quell’ora. Mi avvicinai alla reception.

<<Buongiorno, signorina.>>, mi disse ripiegando e posando il giornale <<Posso fare qualcosa per lei?>>

<<Buongiorno. Vorrei che mi chiamasse un taxi.>>

<<Certamente.>>, disse prendendo il telefono <<Ci lascia?>>

<<Sì, ma c’è ancora il mio…>> “Già, cosa siamo adesso?”

<<L’uomo che era con lei.>>, mi disse con la cornetta all’orecchio <<Sì, capisco. Lui parte dopo?>>

<<Sì.>>, annuii.

Finalmente qualcuno rispose all’altro capo del filo. Ascoltai la breve conversazione e pochi istanti dopo riattaccò.

<<Il suo taxi arriverà fra pochi minuti.>>, disse <<Se vuole un po’ di caffè posso dargliene del mio. Non è granché, però, come dico io, è sempre caffeina.>>

<<Gradirei molto. Grazie.>>

Il portiere si chinò a prendere un thermos in terra, quindi prese un bicchiere di plastica da qualche parte e vi versò dentro il caffè e me lo porse.

<<Ho anche dello zucchero, se vuole.>>, mi disse

<<La ringrazio.>>, risposi <<Va benissimo così.>>

Bevetti il liquido nero e ormai poco più che tiepido quasi d’un sorso. Effettivamente non era granché, ma almeno mi svegliò un po’. E poi era stato un gesto molto gentile da parte sua. E’ incredibile quanto ogni piccola gentilezza ti sembri enorme quando ti sembra che il mondo ti si rivolti contro.

Vidi il mio taxi fermarsi davanti all’entrata e io porsi il mio bicchiere vuoto al portiere, che si preoccupò di buttarlo via, e feci per prendere la mia valigia.

<<Aspetti, l’accompagno.>>, disse.

<<Non si deve disturbare…>>

<<Insisto.>>, disse uscendo da dietro il bancone e prendendo la mia valigia in mano <<Non ho molto altro da fare qui.>>

Mi accompagnò fino al taxi, e porse la mia valigia all’autista che la infilò dentro la bauliera, richiudendola.

<<La ringrazio.>>, dissi al portiere.

<<E’ stato un piacere.>>, rispose sorridendo <<Faccia buon viaggio.>>

Mi limitai ad annuire e entrai in macchina. Il tassista, un uomo sulla cinquantina, entrò poco dopo di me.

<<Buongiorno. Dove la porto, signorina?>>, mi chiese.

<<Al molo d’imbarco per l’aeroporto.[21]>>, risposi.

<<Va bene.>>

Il tassista ingranò la marcia e la macchina iniziò a muoversi. Non mi guardai indietro, ma silenziosamente le lacrime iniziarono a scendere sulle mie guance mentre attraversavamo le vie deserte della città.

<<Vuole un fazzoletto di carta, signorina?>>, mi chiese il tassista, quando ci fermammo a un semaforo.

<<Sì, la ringrazio. Mi scusi.>>, dissi.

<<Di cosa?>>, mi disse porgendomi un pacchetto di fazzoletti <<Meglio sfogarsi con le lacrime che tenersi tutto il veleno dentro. Pianga pure quanto vuole.>>

Presi un fazzoletto e gli detti il pacchetto indietro, continuando poi a piangere silenziosamente, per il resto del viaggio.

 

<<Joe?... Ehi, Joe!>>

Sobbalzo nella mia poltrona. Il dottor Gilmore è in piedi davanti a me e mi guarda perplesso, con una tazza fumante in mano.

<<Ti ho portato il tuo tè.>>, mi dice porgendomi la tazza.

Prendo la tazza in mano, con un cenno del capo: <<Grazie. Mi scusi. Ero soprappensiero.>>

Il professore si rimette a sedere al suo posto e sorseggia un po’ del suo tè: <<Dovrò portarmi un po’ di tè verde dietro. Come quello giapponese non se ne trova.>>, dice <<Non sei d’accordo?>>

Io mando un paio di sorsi del mio e alzo le spalle: <<Non ho mai assaggiato altro tè verde se non quello giapponese.>>

<<Già.>>, risponde <<Ma dimmi, Joe. Hai poi accettato la sua richiesta?>>

Deglutisco e quasi mi va di traverso la bevanda. Con lui sono arrivato solo al momento in cui Françoise mi aveva fatto quella richiesta. E mentre lui era andato in cucina a fare il tè, la mia mente era già volata molto oltre.

<<Mi sa di sì, vero?>>, mi dice storgendo la bocca.

<<Beh…>>

Sospira, soffiando sul tè e bevendone un altro sorso: <<Joe, il più grande traditore dell’uomo, intendo il maschio, non è se stesso. Ma ciò che c’è sotto i suoi pantaloni.>>

 

<<Come sta Bretagna?>>, chiedo ad Albert mentre risiede accanto a me, dopo aver accompagnato il nostro amico a cercare qualche pasticca per il mal d’aereo.

<<Meglio… credo.>>, risponde alzando le spalle <<E tu?>>

Sorrido: <<Un po’ meglio.>>

<<Perché volevi fare l’amore con lui, nonostante ti avesse lasciato e tutto il resto?>>

Resto in silenzio qualche istante. Non gli ho raccontato tutto. Mi sono limitata a dirgli della mia richiesta e del pianto di Joe. Nient’altro.  Se non fosse stato Albert non avrei avuto nemmeno il coraggio di iniziare a raccontare questa storia.

Scuoto la testa: <<Non c’è un motivo razionale.>>, rispondo <<Forse dovrei dire che ho fatto una cosa stupida, eppure non riesco a esserne pentita.>>

Albert mi guarda perplesso per qualche secondo, poi alza le spalle e fa un mezzo sorriso: <<D’altronde l’amore è la più irrazionale delle cose. E pensare che fa girare il mondo.>>

 

<<Walk on by, walk on through. Walk ‘till you run and don’t look back for here I am. >>, da “The unforgettable fire”, U2[22]

 

<<We’re one, but we’re not the same. We hurt each other, then we do it again. You say love is a temple, love is the higher law. Love is a temple, love is the higher law. You ask me to enter, but then you make me crawl. And I can’t be holding on to what you’ve got, when all you’ve got is hurt.>>, da “One”, U2[23]

 

 

Parte VIII

 

 

Quando mi svegliai, la mattina dopo, lei non c’era più. Mi guardai intorno, solo per vedere che le sue cose erano scomparse. Guardai l’orologio e quando vidi l’ora non ci volli credere. Era quasi mezzogiorno. Da quanto se n’era andata?

Chiamai subito la reception, infuriato.

<<Pronto?>>

<<Sono della 480. Perché non sono stato svegliato stamattina?!>>

<<…. Non saprei… aspetti.>>, sento un fruscio di carte <<Beh, signore, la sua richiesta di essere svegliato alle 8 è stata cancellata.>>

<<Da chi?>>

<<… Non saprei dirle. Io ho preso il mio posto alle 7. Forse è stato il collega del turno notturno. Comunque non cancelliamo mai cose del genere, se non su esplicita richiesta dell’occupante o di uno degli occupanti della stanza.>>

Era stata lei. Improvvisamente capii tutto. Aveva fatto cancellare il promemoria la sera prima, quando io non c’ero, ed era scomparsa chissà quando. Probabilmente all’alba, per essere sicura che non mi svegliassi prima che se ne fosse andata.

<<Signore, è ancora in linea?>>

<<Sì… mi scusi.>>, rispondo massaggiandomi le tempie con il pollice e l’indice della mano libera <<Senta… ci sono messaggi per me?>>

<<Aspetti… no… non mi risulta.>>

<<Capisco…>>

<<Senta, non vorrei metterle fretta. Ma entro mezzogiorno dovrebbe lasciare la stanza.>>

<<Certamente. La ringrazio e scusi la scortesia.>>

<<Si figuri.>>

Mi alzo e mi vesto in fretta, lavandomi la faccia e cercando di darmi un aspetto presentabile. Do un ultima occhiata in giro, prima di lasciare la stanza. Le rose che le avevo regalato il giorno prima erano ancora lì. Le notai solo allora. Mi stupii che non le avesse buttate via già la sera prima. Mi avvicinai, guardandole, e accarezzai i petali di una di esse con le dita di una mano.

“Potrai mai perdonarmi?”

C’era qualcosa sotto il vaso. Lo alzai. Era una busta, in tutto e per tutto uguale a quella che avevo usato io il giorno prima. E sopra c’era scritto il mio nome. La tastai. Oltre alla carta, c’era anche qualcos’altro dentro. Qualcosa di piccolo e duro.

Me la rigirai tra le mani per una ridicola quantità di minuti, senza il coraggio di aprirla. Alla fine me la misi in tasca, e presi la mia roba, uscendo dalla stanza.

Una donna delle pulizie mi vide uscire. Sembrava stesse aspettando solo me. Mi salutò con un gesto del capo, facendomi segno di lasciare aperto e entrando.

Io mi avviai lungo il corridoio, verso l’ascensore.

<<Signore…>>

Mi voltai e vidi la donna delle pulizie guardare nella mia direzione: <<Si è dimenticato le rose.>>

<<Lo so.>>, risposi senza battere ciglio.

<<E allora?>>

Alzai le spalle: <<Le lasci lì, se vuole. Immagino che faranno piacere a chi verrà dopo di noi.>>

<<Come vuole…>>

Aspettai che fosse rientrata e ripresi il mio cammino verso l’ascensore. Scesi fino al pianterreno, dirigendomi verso la reception. Non avevo fretta. Sapevo che il suo aereo sarebbe partito tra meno di un paio di ore. Non l’avrei mai raggiunta, anche se avessi voluto. Forse era meglio così.

Il portiere mi sorrise: <<Mi dica.>>

<<Vorrei pagare il conto. Stanza 480.>>

<<Certo. Aspetti…>>, il portiere digitò qualche cosa sulla tastiera di un terminale. Poi mi dette un foglio stampato, con i dettagli del conto, con tanto di tabulato delle chiamate effettuate. Guardai il totale e gli detti la mia carta di credito. Lui la prese e la fece passare nel lettore di carte.

<<Accidenti… quest’affare si è inceppato un’altra volta. Mi scusi.>>

<<Faccia pure con comodo.>>

L’uomo sparì nel retro. Non sapendo cosa fare mi misi a leggere il foglio che mi aveva dato. Lo rilessi due o tre volte, prima che qualcosa attirasse la mia attenzione: <<Aeroporto?>>

Ecco, avevo saputo anche come se n’era andata. Ma certo. Era la soluzione più logica. E veloce.

Il portiere tornò con la mia carta: <<Tutto a posto, signor Shimamura. Grazie. Speriamo di riaverlo come nostro ospite al più presto.>>, disse <<E io personalmente spero che torni a correre su una pista di Formula Uno anche domani.>>

Sorrisi: <<Lei mi conosce?>>

<<Certo. Sono un appassionato di corse e mia figlia è letteralmente pazza di lei. Ha la stanza tappezzata con i suoi poster.>>

<<E’ più di un anno che non corro…>>

<<Una ragazzina innamorata non bada a queste cose.>>, rispose sorridendo <<Anzi, mi farebbe un autografo? Per lei…>>

<<Certamente.>>

Mi porse un fogli di carta e una penna.

<<Come si chiama sua figlia?>>

<<Ai. Come “amore”.>>

Esito un istante: <<Ai?>>

<<Sì, perché?>>

<<Anche mia madre si chiamava così.>>, rispondo scrivendo la dedica e firmandola.

Porgo il foglio all’uomo, che mi ringrazia di nuovo.

<<Posso fermarmi a mangiare qui?>>, chiedo.

<<Certamente. Si accomodi pure al ristorante.>>

<<Grazie.>>

Mi dirigo verso la sala e un cameriere mi accompagna un tavolo… che conosco fin troppo bene. Cenammo qui, quella sera. Sembra un secolo fa… eppure sono solo pochi mesi. Stavo per chiedere se potevo avere un altro tavolo, ma poi mi dissi che ero ridicolo. Mi misi a sedere, e bevvi un sorso dell’acqua che mi aveva versato il cameriere, prendendo subito un menù. Qualunque cosa pur di non guardare davanti a me, quel posto vuoto, ma pieno della sua memoria.

<<Cose da pazzi.>>, disse un uomo che stava camminando nella mia direzione, con destinazione il tavolo dietro il mio.

<<Cos’è successo?>>, chiese quello che era seduto insieme a lui.

<<Kisaragi, il mio socio, doveva partire per un viaggio d’affari per Parigi tra meno di due ore.>>, rispose l’altro <<Era lui al telefono. Mi ha detto che sul suo aereo è stato riscontrato un grosso guasto a uno dei motori e potrebbero volerci ore prima che parta. E così è bloccato a Narita…>>

<<Sta dicendo sul serio?>>

L’uomo si voltò verso di me, guardandomi perplesso.

<<Veramente l’aereo per Parigi è in ritardo?>>

 

<<Ehi, Françoise. Siamo arrivati.>>

Mi alzai dalla panchina che occupavo ormai da qualche ora. Sarebbe dovuta mancare un’ora e mezzo alla partenza del nostro volo, ma sembrava che ci fosse un guasto piuttosto grave e che ci sarebbero volute ore prima di partire.

I miei amici si avvicinarono a me, con i carrelli pieni di valigie. C’erano tutti. Anche il dottor Gilmore e Ivan, che rimanevano in Giappone. Avevamo deciso di partire più o meno tutti alla stessa ora. Anche Chang, che aveva un viaggio piuttosto breve rispetto al nostro e a quello di Geronimo e Jet.

<<Credo di aver preso tutto.>>, disse Albert, quello a cui avevo chiesto di portare le mie valigie direttamente all’aeroporto <<Controlla però.>>

<<Grazie.>>, gli dissi contando le mie valigie <<Già saputo della bella notizia?>>

<<Sì.>>, rispose Bretagna <<La vostra compagnia di bandiera ce l’ha fatta proprio bella.>>

<<Ho chiesto se ci fossero posti su altri voli diretti verso l’Europa o l’Africa, ma sono tutti pieni. E’ alta stagione per tutti questa.>>

<<Aspetteremo.>>, rispose Punma alzando le spalle.

<<Ma Joe dov’è?>>, chiese Jet guardandosi intorno.

Mi sentii una morsa allo stomaco: <<Tra me e Joe è finita.>>, risposi <<Mi dispiace, ma ho fatto in modo che stamattina non venisse svegliato. Quindi non credo che arriverà in tempo per salutarvi.>>

A dire il vero, non lo speravo proprio.

<<Ehi ehi ehi. Aspetta.>>, disse Jet scuotendo la testa e le mani. Gli altri si limitavano a guardami esterrefatti <<Rewind. Come sarebbe a dire che tra te e Joe è finita!?>>

Lo guardai sospirando: <<Vedo che è una novità anche per te. Quindi non sapevi nemmeno tu delle “sue” decisioni in merito a “noi due”.>>

Jet spalancò gli occhi. Il suo sguardo era una cosa a metà tra il rabbioso e l’incredulo: <<No, non sapevo assolutamente niente. Cado dalle nuvole, e per dirlo io…>>

Ora avevo la conferma che Joe si era tenuto la cosa solo per sé, senza dire alcunché a nessuno. Avevo sperato, non molto a dire il vero, che almeno Jet potesse illuminarmi, darmi, almeno in parte, le risposte che Joe non aveva voluto darmi.

<<In questi ultimi tempi come vi era sembrato?>>, chiesi <<Voglio dire… sono solo io che non mi sono accorta di niente, o qualcuno di voi aveva avvertito qualcosa?>>

I miei amici si guardarono l’un l’altro, consultandosi in silenzio.

<<Era un po’ più nervoso del solito.>>, disse Albert <<Però… non so il perché. Credo non lo sappia nessuno di noi.>>

<<Si può sapere cosa ti ha detto esattamente?>>, chiese Jet, con le braccia incrociate sul petto.

<<Forse saranno fatti loro, non credi?>>, gli fece notare Albert.

Forse è la voglia di non scoppiare che mi porta a rispondere, forse l’esasperazione o la stanchezza. Qualunque forza fosse quella che le muoveva, le parole uscirono dalla mia bocca, di getto <<Mi ha detto che… noi due apparteniamo a due mondi diversi… qualcosa riguardo al fatto che il suo passato mi dovrebbe spaventare in qualche modo… che questa decisione non è frutto di una qualche mia colpa e che…>>

<<Che?>>, mi chiese Jet dopo aver aspettato inutilmente che completassi la frase.

Esito un istante, poi scuoto la testa: <<Niente… Nient’altro.>>

<<Forse…>>

<<Cosa dottore?>>, chiedo al dottor Gilmore senza nemmeno dargli il tempo di continuare la frase.

Gilmore mi fissa con la bocca leggermente aperta, qualche secondo, poi la richiude e scuote la testa: <<Niente… sciocchezze.>>

<<Se lei sa qualcosa me lo deve dire.>>, lo supplicai.

Scosse la testa un’altra volta: <<Non so assolutamente niente, Françoise. Posso solo dirti che mi dispiace. E so che non ti serve a niente.>>

Una voce computerizzata avvisò i passeggeri del volo PanAm per Los Angeles che erano cominciate le procedure di check-in.

<<E’ il nostro volo.>>, disse Geronimo, rivolto a Jet.

<<Già.>>, commentò l’altro <<Sembra proprio che sia venuto il momento dell’addio.>>

<<Io pensavo fosse un arrivederci.>>, disse Albert dandogli una pacca sulla spalla <<Stammi bene, e anche tu Geronimo.>>

<<Stai scherzando.>>, disse Jet <<Non vi voglio vedere per almeno sei mesi. Devo fare disintossicazione da cucina cinese.>>

<<Quando sopravvivrai solo grazie alle scatolette, mi rimpiangerai.>>, disse Chang.

<<Va bene, va bene…>>, sbuffò Jet <<Sentite. Odio gli addii. Quindi niente, abbracci, baci o robe simili. Diciamoci semplicemente “arrivederci” e togliamoci questo peso.>>

<<Come vuoi.>>, rispose Bretagna <<Allora fate buon viaggio.>>

<<Statemi bene.>>, disse Geronimo rivolto un po’ a tutti. Poi il suo sguardo si posò su di me più a lungo del normale e io capii che era un “soprattutto tu, Françoise”, silenzioso e discreto. Nel mio cuore lo ringraziai, e quando mi sorrise, seppi che aveva ricevuto il mio ringraziamento.

Geronimo e Jet si incamminarono con i loro bagagli verso l’area di check-in. Meno due. Quantomeno la loro dipartita aveva distolto l’attenzione degli altri dalla mia situazione sentimentale. Anzi, si misero a parlare fra di loro, e io restai in disparte, senza nemmeno ascoltare.

Ero frustrata. Avevo fatto così tanto per fare in modo che lui non avesse possibilità di essere lì al momento della mia partenza, e adesso… Scossi la testa. Ero paranoica. D’altronde era praticamente impossibile che venisse a sapere di quel ritardo. Non lo avrebbero certo detto al telegiornale o al giornale radio. Ma sarei voluta partire, andarmene al più presto dal Giappone, lontano da lui. E invece ci si metteva anche quell’inconveniente a pararmi la strada.

<<Françoise!>>

<<Scusi.>>, dissi tornando alla realtà <<Mi dica, professore.>>

<<Credo che Ivan abbia bisogno di essere cambiato.>>, disse il professore porgendomi il bambino.

<<Certo, ci penso io.>>, dissi prendendo Ivan in braccio.

<<Ti accompagno.>>, disse Gilmore avviandosi insieme a me.

Attraversammo l’atrio, dirigendoci verso le toilettes. Lì trovammo la nursery.

<<In realtà era solo una scusa per parlare a quattr’occhi con te.>>, svelò il professore una volta entrati. Poi guardò Ivan <<Anzi, a sei.>>

<<Lo avevo immaginato.>>, risposi tenendo Ivan in braccio.

Il professore annuì: <<Già, chi conosce Ivan meglio di te…>>, disse <<Comunque… Io non so niente di certo su quello che sia successo a Joe ultimamente. Di certo c’è, come ha detto Albert, che era più nervoso. E forse con te cercava di nascondere questo suo stato. Ma lo sai meglio di me… tende a tenere tutti i suoi problemi dentro di sé. Se è successo qualcosa, non ha raccontato niente a nessuno. A tutti noi ha detto la stessa identica cosa che ha detto a te: che doveva restare in Giappone per risolvere alcune faccende. Certo, se queste faccende sono così importanti da rimandare ulteriormente il suo ritorno alle corse…>>

Considerai il discorso appena fattomi da Gilmore in ogni sua singola parola: <<Cosa sta cercando di dirmi, professore?>>

Sorrise, come un padre a sua figlia: <<Non lo so nemmeno io esattamente… Io ero felice che almeno voi due… insomma… Sono affranto per come è andata a finire. Ma forse quello che sto cercando di dirti è che… chissà, magari è solo una questione di tempo…>>

Mi lascio scappare una risatina di esasperazione: <<Professore! Tempo… Una questione di tempo? Quanto tempo ancora?>>

Sospirò:  <<Il tempo che risolva queste faccende… il tempo che capisca che il suo passato può forse spaventarti, ma non al punto di essere un buon motivo per cui tu ti allontani da lui. Anzi, semmai è proprio l’opposto.>>, prese un attimo di respiro <<Io non sono uno psicologo, Françoise. Ma credo che se qui c’è qualcuno che ha paura del suo passato, quello sia proprio lui. Joe deve solo capire che quello che è stato non potrà più tornare. Perché quello non era lui. Ma qualcosa plasmato da una società che lo rifiutava e da una vita che non gli era stata di certo clemente. Il Joe di oggi è il ragazzo generoso che noi tutti conosciamo e di cui tu ti sei innamorata. Ma finché non lo avrà capito lui…>>

Restai in silenzio, stringendo Ivan a me, e tenendo gli occhi bassi. Poi li rialzai, incontrando il suo sorriso bonario. Accennai un sorriso anch’io:  <<Sa, professore. Non sono mai stata una persona che si arrende facilmente. Ma stavolta…>>

Sorrise di nuovo: <<Françoise, io credo che fra tutti voi, tu sia quella che ha deciso di non arrendersi prima di tutti.>>, disse <<Forse non avrai le qualità combattive che hanno gli altri, non sarai forte come loro, fisicamente parlando. Sembri la più fragile, perché sei una donna in mezzo a otto uomini. Ma sei più forte di tutti loro messi insieme, caratterialmente. Hai una forza di volontà e una perseveranza che gli altri si sognano. E la tua storia con Joe ne è un esempio. Qualunque cosa ti succeda, tu trovi la forza di andare avanti. E questa è una cosa di cui devi andare fiera.>>

<<Lei mi sopravvaluta…>>

<<Quando ho deciso di unirmi a voi,>> continuò <<dovevo recuperarvi anche dal punto di vista psicologico. Ma come potevo io, rimasto un essere umano, e per di più colui che vi aveva ridotto in quella maniera, dirvi che la vostra vita continuava e che c’è sempre un motivo per andare avanti? Io per primo non vi consideravo altro che il risultato di una sperimentazione, uno strumento per vendicarmi. Tu per prima mi hai fatto comprendere quanto mi fossi sbagliato. E di questo non ti ho mai ringraziato.>>

<<Professore…>>

<<Françoise, tu hai una grande forza. Non dimenticarlo mai.>>, mi disse <<Uno può essere forte come mille uomini, ma se non è capace di rialzarsi dopo ogni caduta, di andare avanti, quella forza di mille uomini non gli serve a niente.>>

 

Non capivo perché stavo correndo come un pazzo sull’autostrada verso Tokyo. Non affrontavo la domanda forse perché non volevo ammettere a me stesso che volevo vederla, magari parlarle un’ultima volta, magari dirle la verità su tutta quella storia.

Correvo, spingendo sull’acceleratore della mia auto come se mi fossi trovato su uno dei lunghi rettilinei di Monza. Spinto solo da una specie di istinto di sopravvivenza che mi diceva che non potevo lasciarla partire così. O più semplicemente, dalla mia coscienza.

Pregavo che quel motore non venisse aggiustato per tempo, maledicevo ogni automobile, rispettosa del codice della strada, che mi si parava davanti sulla mia strada, ogni coda o rallentamento. E mi prendevo i miei bei rischi, a cui ormai sei immunizzato dopo che hai corso a trecento all’ora su una Formula Uno.

<<Maledizione!>>, imprecai sbattendo le mani sul volante.

Un’altra coda. E stavolta c’era anche un bel veicolo della polizia che avvertiva che era causata da un incidente.

Non c’erano altre strade. Eravamo proprio sul ponte che portava in Honshu[24]. Non potevo fare altro che aspettare di uscire da quel macello. E nell’immobilità forzata. Anche se fossi arrivato in tempo, che cosa le avrei detto? Che cosa volevo andare a fare? Cosa volevo dimostrare? Avevo posto fine alla nostra storia, e sapevo che non volevo tornare indietro.

Cominciavo ad avere anche caldo, nonostante avessi l’aria condizionata accesa. Mi tolsi la giacca e la piegai.

Già, me ne ero dimenticato. La busta, la busta che lei mi aveva lasciato, era ancora dentro la tasca della giacca, aspettando di essere aperta. La presi in mano, e la guardai, indeciso se aprirla o meno. Alla fine mi decisi.

Strappai la carta gialla e ne estrassi il foglio. Qualcosa uscì insieme al foglio di carta che c’era dentro, e cadde sulle mie gambe, fermandosi.

Lo presi in mano, sapendo fin troppo bene cos’era. L’anello. L’anello che mio padre non aveva mai dato a mia madre. L’anello che io avevo dato a lei. Una piccola promessa d’amore, che io avevo infranto.

Misi l’anello nella tasca della camicia, e passai la mia attenzione sul foglio di carta. Lo guardai un bel po’ prima di dispiegarlo. Era scritto in francese.

 

Ho perso un sacco di tempo solo a decidere come iniziare questa lettera. Scusa se scrivo nella mia lingua, ma sono i miei pensieri quelli che scrivo e quindi questo non è altro che il loro specchio.

Cosa dire, Joe? Io non riesco ancora a crederci. E’ stato come risvegliarsi da un sogno durato mesi. E’ stata solo un’illusione che non è mai esistita veramente? No. Lo so, lo so bene. Ma preferirei che fosse così. No, non è vero. Questi mesi insieme a te sono stati bellissimi. No, non è vero che vorrei che non ci fossero mai stati. Vorrei che avessero una fine diversa. Vorrei che non ci fosse una fine.

Dopo essere diventata un cyborg, pensavo che non sarei più riuscita a provare… a innamorarmi di qualcuno. Tu non solo sei riuscito a farmi innamorare di te, ma ci sei riuscito come non ci era mai riuscito nessuno. Non ho mai provato un amore del genere per nessun altro. Tu mi hai fatto sentire nuovamente viva. Ti ho amato in silenzio a lungo, vivendo nell’incertezza, nella tua incertezza. Perché io non ho mai avuto un solo dubbio, Joe. Tu invece ti allontanavi e ti avvicinavi a me come l’acqua del mare alla sua riva. Quando arrivavo troppo vicino, ecco che tu scappavi di nuovo. Sempre un passo più in là, lontano da me.

Quando mi hai detto di amarmi è stato come l’avverarsi di un sogno. Non me ne sono rimasti molti, da quando sono un cyborg. Tu eri uno di questi, e finalmente si era realizzato. Finalmente mi permettevi di amarti. E io ce l’ho messa tutta. Ti ho amato con tutta me stessa, e continuo ad amarti allo stesso modo. Anche adesso, anche in questo momento, che tu hai posto fine a questo sogno senza darmi spiegazioni.

Sì, Joe, c’è stato un tempo in cui il tuo passato mi intimoriva. Ma io ti ho conosciuto per quello che sei adesso. Per quello che sei veramente. E’ di quest’uomo che io sono innamorata, perdutamente. E quest’uomo adesso mi allontana da lui, dicendomi che mi ama ancora. Ed è forse questo ciò che mi fa più male. Non sai quanto tu mi faccia male dicendo che mi ami ancora, e allontanandomi da te. Non riesco a capire.

Perché, Joe? Perché mi lasci se mi ami ancora? Perché continui a lasciare che il tuo passato ti tormenti e ci tolga anche quella piccola e insperata possibilità che avevamo di essere felici? Perché?

Io sarei passata in mezzo alle fiamme dell’inferno per te. Avrei sopportato qualunque cosa, pur di starti accanto. Ma tu non me lo hai permesso.

Perché?

 

Per quanto tu cerchi di allontanarmi di te, ricorda che io ti amerò sempre,

Françoise

 

Strinsi le labbra, ripiegando la lettera e rimettendola nella busta. La posai sul sedile del passeggero e appoggiai la testa all’indietro, chiudendo gli occhi.

<<Sono io che non avrei sopportato che tu passassi attraverso tutto questo.>>, dico appena sussurrando <<E forse non volevo che tu sapessi niente. Perdonami, ma io non ho il coraggio di affrontare il mio passato davanti a te. Non ce la farei mai… Non ce la farei mai…>>

I miei occhi si chiudono, ricacciando indietro le lacrime. Non avrei mai immaginato che si potesse soffrire così. Non ho mai sofferto così. Che avessi ragione quando avevo paura di amarla e dell’amore che mi poteva dare? Quando lo rifiutavo, perché ogni persona che ho amato, prima o poi se n’è andata? Ma stavolta sono io ad averla allontanata. Ho allontanato da me la persona più importante della mia vita. Sono vittima del mio stesso crimine.

 

Il dottor Gilmore continua a guardarmi e ad ascoltarmi in silenzio. Resto in silenzio anch’io, vivendo il dolore che mi provoca ricordare tutto questo.

<<Povero ragazzo. Sei tu che hai paura del tuo passato, Joe.>>, mi dice <<Lei ha solo paura del tuo futuro.>>

Alzo gli occhi verso di lui, non comprendendo quelle parole: <<Cosa intende dire?>>

Sospira e chiude gli occhi, incrociando le braccia sul suo petto: <<Lei ha paura di non far parte del tuo futuro… e ha paura di un futuro senza di te.>>

Abbasso gli occhi, guardando le mie mani, l’una nell’altra, come tante volte sono state le mie e quelle di Françoise. Stringo le labbra e me ne passo una fra i capelli in un gesto di stanchezza.

<<Sa, professore.>>, dico <<Io ho paura della stessa identica cosa. Ho paura di un futuro senza di lei.>>

 

<<Françoise, non devi fingere di non sentire dolore. Lo so che ti fa male.>>, mi dice la mia insegnante di danza, smettendola di torturare la mia caviglia <<Non puoi danzare con una caviglia in questo stato.>>

Louis scuote la testa, affranto: <<Mi dispiace, Françoise. E’ stata tutta colpa mia.>>

Scuoto la testa: <<Non dire sciocchezze. Sono cose che capitano.>>

<<Non è vero. Sono io che ho sbagliato la presa e tu sei caduta male.>>

<<Ti ho detto che non è colpa tua.>>, insisto prendendo la borsa del ghiaccio che mi viene portata da Cathrine <<Grazie.>>

Però sono arrabbiata. Non con Louis. Ma con il destino. Accidenti, è da così tanto che aspetto questo saggio. Ci saranno anche degli insegnanti della più importante scuola di ballo di Parigi. Un diploma in quella scuola è un biglietto per il futuro assicurato. Mi aprirebbe le porte di qualsiasi più importante compagnia di ballo. Soprattutto quella de l’Opera. E adesso… Mi viene da piangere.

I miei occhi incontrano Elenoire. Sorride. Sarebbe più esatto dire che sogghigna. Questa è la sua vendetta venuta direttamente dal cielo. Sono stata scelta io, e non lei, per questa parte. Sono io quella in cui la maestra Nicole crede di più. Sa bene che, se non posso ballare, la parte dell’eroina la farà lei. E’ invidiosa, maligna e crudele. Ma è brava. Ed è fin troppo consapevole del suo talento. Tanto da pensare di potersi permettere di fare il minimo indispensabile. Mentre io passo ore e ore in più, rispetto alle lezioni regolari, ad allenarmi e a cercare di migliorare le mie lacune. Mi fa una rabbia che la mia parte vada a lei…

<<Non preoccuparti, Françoise.>>, mi dice, con una nota di trionfo <<Prenderò io il tuo posto.>>

<<Tu non vali nemmeno la metà di lei.>>, le dice Cathrine a muso duro <<Che dico?! Nemmeno un terzo. Non aspettavi altro, vero?>>

<<Come osi, razza di impertinente!>>, replica Elenoire, con quella sua voce stridula e antipatica.

<<Ehi, voi due.>>, interviene Nicole mettendosi fra loro due <<Non voglio sentire più una parola. Purtroppo Elenoire ha ragione. Se Françoise non può ballare, il posto è suo.>>

Elenoire sorride trionfante.

<<Io ballerò.>>

Tutti gli occhi si voltano verso di me, che porgo la mia mano verso Louis, che prontamente mi aiuta a rialzarmi. Mi appoggio alla sbarra, per non forzare sulla caviglia dolorante: <<Io ballerò.>>

<<Non dire sciocchezze.>>, dice Elenoire spiazzata <<Non puoi ballare con quella caviglia!>>

<<Mancano ancora due giorni interi al saggio.>>, rispondo <<A costo di usare la sedia a rotelle di mio padre per muovermi, guarirò e sarò pronta per ballare. A tutti i costi.>>

<<Ma non pensi a noi?>>, grida Elenoire esasperata <<Se tu per caso danzassi male per colpa della tua cocciutaggine, ne risentirebbe tutto lo spettacolo.>>

<<Aspetta un attimo…>>, dice la maestra fermandola con un gesto della mano <<Françoise, sei veramente convinta di quello che dici?>>

Annuisco, supplicandola con gli occhi.

Lei sembra pensarci su un attimo: <<Uhm… oggi è mercoledì. Sabato mattina ci sono le prove generali. Non posso mettere a repentaglio lo spettacolo per te.>>, dice facendomi scendere la morte nel cuore <<Ma se sabato mattina sarai in grado di ballare come sai, allora farai il saggio. Altrimenti Elenoire prenderà il tuo posto.>>

Sorrido, grata per quella piccola possibilità che mi ha concesso: <<La ringrazio, maestra.>>, le dico.

Riapro gli occhi. Mi ero addormentata e non me ne ero nemmeno accorta. D’altronde non ho dormito stanotte. E’ logico che sia stanca.

<<Ben svegliata.>>, mi dice Albert, sorridendomi.

<<Grazie.>>, rispondo ancora mezza intontita.

Guardo fuori dal finestrino. E’ scuro fuori. Stiamo avvicinandoci sempre di più all’Europa: <<Dove siamo?>>

<<Credo da qualche parte sopra la Russia.>>, mi risponde.

Annuisco: <<La Russia… mi viene in mente Ivan.>>

<<Già.>>, dice Albert <<Ti mancherà, vero?>>

<<Sì.>>, ammetto <<Mi mancherà. La Russia è anche patria di grandi ballerini. Un giorno mi piacerebbe poter danzare insieme a Nureyev[25].>>

<<Nureyev? L’ho sentito nominare.>>, rispose <<Chissà. Tutto è possibile. Se è un bell’uomo potresti anche faci un pensierino, piuttosto che perderti dietro a un pilota di Formula Uno.>>

Scoppio a ridere, e scuoto la testa: <<E’ impossibile.>>

<<Niente è impossibile nella vita.>>

<<Questo lo è. Fidati.>>, gli dico.

<<Ma…>>

<<Albert.>>, lo interrompo con tono calmo ma deciso <<Nureyev è omosessuale.>>

<<Aaaaaaaaaahhhhhhhhhh.>>, risponde sorridendo e accompagnando la voce con un gesto del capo <<Si vede che non seguo molto la danza classica, eh?>>

Lo guardai, sorridendo. E ripensai a quel sabato mattina, a come ce la misi tutta, al sì della maestra, al saggio della sera, il preside della scuola di ballo di Parigi che venne personalmente a dirmi che mi avrebbero dato una borsa di studio per frequentare la loro scuola.

 

<<No, I can’t forget tomorrow when I think of all my sorrows. When I had you there, but then I let you go. And now it’s only fair that I should let you know what you should know.>>, da “Without you”, Harry Nilsson[26]

 

<<I’m fooling myself, ‘cause you say you love me, and then you do it again. You say you’re sorry, and then you do it again.>> da “Re-offender”, Travis[27]

 

 

Parte IX

 

 

<<Uffaaaaaaaa.>>, si lamentò Bretagna per l’ennesima volta.

Chang a quest’ora doveva essere quasi arrivato. Noi, ormai, dovevamo essere partiti già da più di quattro ore, quasi cinque. Non ci avevano nemmeno fatto fare il check-in. Il che non era un buon segno. Guardai il dottor Gilmore, seduto in silenzio accanto a me, e poi Ivan, nelle mie braccia, ancora addormentato.

<<Professore,>>, chiese Punma <<perché non va a casa? Potrebbe volerci ancora molto tempo prima che riusciamo a partire.>>

<<Non ho niente da fare a casa.>>, rispose <<E poi almeno posso stare ancora un po’ di tempo con voi.>>

<<Come vuole.>>, disse Punma alzandosi e andando verso il vetro. Da lì si vedeva il nostro aereo <<Ci sono sempre le macchine dell’assistenza. La vedo male.>>

<<Potrebbero anche rimandare il volo a domani.>>, disse Bretagna sconsolato guardando con uno sguardo vuoto davanti a sé.

Lo guardai terrorizzata. In quel caso avrei aspettato lì all’aeroporto fino a che non si fosse liberato un qualunque posto su un qualunque aereo che fosse decollato verso l’Europa. A costo di viaggiare nel bagagliaio.

“Françoise.”

Guardai Ivan. Era lui che mi stava chiamando, parlando nella mia mente.

<<Scusi, ehi, lei.>>

Vidi Bretagna alzarsi e andare verso un uomo vestito con la divisa dell’Air France.

L’uomo si voltò e lo guardò, incuriosito: <<Mi dica.>>

Bretagna si avvicinò a lui: <<Lei sicuramente sa qualcosa del volo per Parigi, vero.>>, disse in un francese in cui si avvertiva chiaramente il suo accento inglese.

<<Beh, sì. Sono il comandante del volo.>>, rispose l’altro in un accento che collocai nel sud-est della Francia, in Provenza.

<<Mi dica tutto quello che sa, la prego.>>, lo supplicò Bretagna con uno sguardo tragico, incredibilmente comico <<Io e miei amici stiamo impazzendo.>>

Il comandante rise: <<Beh, anche noi non è che siamo messi meglio.>>, rispose <<L’unica cosa che posso dirle è che il motore non vuole saperne di mettersi in moto. E con tre motori soli, quel bestione non può volare.>>

Mi alzo e lascio Ivan al dottor Gilmore e mi avvicino anch’io: <<Intende dire che non siete ancora riusciti a trovare il guasto.>>

<<Non riusciamo a capire dove sia, esattamente.>>, rispose lui accennando un sorriso.

<<Non ci posso credere!>>, dissi mettendomi le mani fra i capelli. Poi lo guardai, scuotendo la testa <<Non è possibile.>>

<<Lei è di Parigi, vero?>>, mi chiese sorridendo <<Si sente lontano un miglio.>>

<<Esattamente. E vorrei tornarci quanto prima possibile.>>, risposi un po’ sgarbatamente a dire il vero.

<<Mademoiselle. Io sono nella sua stessa situazione. Dopo questo volo prendevo finalmente le ferie. Sarei tornato a Marsiglia, a casa mia, da mia moglie e dai miei due splendidi bambini e avrei preso le mie ferie. Domani sera sarei andato a vedere l’Olympique al Velodrome[28] insieme a mio figlio. E domani l’altro sarei partito per la mia casa in Costa Azzurra.>>, mi dice <<E invece sono qui. Ad aspettare esattamente come lei.>>, concluse, senza mai essersi mosso dal tono cordiale col quale aveva iniziato.

Annuisco, accennando un sorriso: <<Mi scusi. Ha ragione.>>, rispondo <<E’ che veramente… non vedo l’ora di tornare a casa.>>

<<Lo so che noi siamo i capri espiatori contro cui la gente inveisce quando ci sono di questi problemi.>>, rispose sorridendo <<Siamo tutti nella stessa barca. Anzi… sullo stesso aereo. Speriamo solo che risolvano presto. Ora, se mi permettete…>>

<<Arrivederci. E scusi ancora.>>, dissi.

<<Au revoir.>>

L’uomo si allontanò da noi, e Bretagna aspettò che si fosse allontanato un po’: <<Wow, che bella notizia. Non riescono a trovare il guasto.>>

<<Già, fantastica, vero?>>, dissi tornando al mio posto e riprendendo in braccio Ivan dalla braccia del dottor Gilmore.

“Françoise.”

Guardai il bambino senza parlare, limitandomi alla comunicazione solo mentale: “Cosa c’è, Ivan?”

“Veramente vuoi andartene, lasciando tutto così?”

Sospirai: “Cos’altro c’è da dire, Ivan?”

Restò “in silenzio” per qualche istante: “Françoise, so che stai solo fuggendo.”

“Non sono stata io la prima a fuggire.”, replicai.

“E se ti dicessi che adesso lui sta correndo per venire qui?”

Lo guardo con gli occhi sgranati: “Come… per lui dovrei essere già partita! Come ha fatto a sapere del ritardo? Sei stato tu?”

“No, Françoise. Non sono stato io.”, risponde. E mi sembra sincero “E’ stato un caso. Ma sono io ad aver causato questo ritardo.”

“Cosa!?”

“Sì, sono io che sto bloccando quel motore, Françoise.”

Chiudo gli occhi, sospirando: “Perché, Ivan?”

“Perché è questo quello che volevi.”, risponde.

“Non è vero!”

Lui non risponde, lasciandomi riflettere su quelle parole. E sulla più semplice delle verità: non si può mentire ad Ivan.

“Ivan, hai ragione.”, dissi “Forse è vero che vorrei più tempo, vorrei che lui venisse qui e mi parlasse e mi dicesse che non è finita. Ma non è giusto. Né per me, né per lui. Non voglio soffrire ancora. Voglio tornare a casa. So che in fondo non è la verità, ma…”, mi interruppi perché sentii un groppo salirmi in gola.

“Va bene, Françoise. Se è questo che vuoi…”, disse “Ma almeno lascia che ti dia una cosa.”

“Cosa vuoi darmi, Ivan?”, gli chiesi.

Sentii qualcosa di sottile materializzarsi nella mia mano. Qualcosa di sottile. Tolsi la mano da sotto la schiena di Ivan, continuando a tenerlo con l’altro braccio. Era una busta, bianca, senza neanche un nome di destinazione sopra. Me la rigirai nella mano, corrugando la fronte.

“Cos’è, Ivan?”

“E’ una lettera di Joe.”, mi rispose lui “Era in un cassetto della sua stanza. L’ha scritta un paio di giorni fa, ma non ha avuto il coraggio di dartela.”

“Non è giusto che io la legga, se lui non me l’ha voluta dare.”, risposi.

“Puoi non leggerla, se vuoi. Puoi buttarla via, senza nemmeno aprirla.”, disse “Io non so cosa ci sia scritto in quella lettera, Françoise. Dico sul serio. So solo che è indirizzata a te. Forse contiene le risposte che lui non ti ha dato. O le speranze che non hai. Françoise, sta a te la scelta. Io non rimanderò indietro quella lettera.”

Guardai la busta, indecisa, per qualche istante. Cosa ci dovevo fare? Alla fine decisi.

“Va bene, Ivan. Terrò questa lettera. Ma ora non ho il coraggio di leggerla.”, dissi “La leggerò quando mi sentirò pronta.”

“Come vuoi tu, Françoise.”, disse “Buon viaggio.”

<<Cosa?>>

<<Attenzione.>>, disse una voce femminile proveniente dagli altoparlanti della sala d’aspetto <<I passeggeri del volo Air France 17146, in ritardo, in partenza per Parigi, sono pregati di presentarsi al check-in. L’Air France si scusa con i passeggeri per il disagio causato e vi ricorda che eventuali lamentele e domande di rimborso potranno essere richieste una volta atterrati a Parigi allo stand dell’Air France.>>

<<Hallelujah!>>, esultò Bretagna balzando in piedi <<Signore, ti ringraziamo.>>

<<Puoi dirlo forte, amico.>>, disse Punma.

Una strana sensazione di tristezza pervase tutto il mio corpo.

<<Françoise, dammi il bambino.>>, mi disse Gilmore in piedi davanti a me <<E’ ora di tornare a casa. Buon viaggio.>>

Lo guardai un attimo, come paralizzata. Poi stringendo le labbra e lottando per ricacciare indietro le lacrime che mi bruciavano gli occhi, gli detti Ivan, non prima di avergli dato un ultimo bacio sulla fronte: <<Arrivederci, piccolo mio.>>

Mi alzai, e mi accorsi di avere ancora la busta in mano. Presi la mia borsa e vi cercai dentro la mia agenda. Quando la trovai, la aprii a caso… 16 maggio. “E’ stato un caso…”.

“Già”, pensai chiudendo gli occhi, “solo un caso”.

Infilai la busta nell’agenda e la richiusi, reinfilandola dentro la borsa.

<<Ehi, Françoise!>>

Alzai gli occhi e vidi i miei compagni di viaggio aspettarmi più in là.

<<Arrivo.>>, dissi. Poi mi voltai un’ultima volta verso Gilmore <<Arrivederci, professore. Mi stia bene.>>

Lui sorrise, e annuì: <<Nessun messaggio per nessuno?>>, chiese.

Sapevo a cosa alludeva. Guardai verso l’entrata della sala, non so se sperando di vederlo entrare, oppure il contrario. Ma non apparve.

Respirai profondamente e annuii: <<No, professore. La ringrazio.>>

<<Va bene.>>, disse <<Adesso vai.>>

Accennai un ultimo sorriso e mi girai, andando verso gli altri, senza mai guardarmi indietro.

 

La macchina iniziò a borbottare.

<<Oh no!>>, dissi guardando l’indicatore della benzina che sentenziava la mia condanna indicando il serbatoio miseramente vuoto. Avevo pensato a correre a più non posso. Avevo guidato da ritiro della patente per tutto il viaggio. Ma non avevo pensato che così consumavo un’enormità di benzina. E adesso, ancora una volta, ero vittima della mia stupidità.

Uscii in una piazzola di sosta, e parcheggiai la macchina, che si fermò assetata. Girai la chiave come per spegnere il motore, ormai già spento, e aprii la portiera, uscendo all’aperto e richiudendola. Guardai la macchina sconsolato. Non potevo prendermela con lei. Aveva fatto tutto quello che poteva per farmi arrivare fino a lì. Dovevo prendermela solo con me stesso.

Sentii un forte boato, e mi voltai alla mia sinistra, da dove arrivava. Un aereo dell’Alitalia si stava alzando in volo. Ho viaggiato così tanto che ormai riconosco facilmente gli aerei di tutte le compagnie più importanti. Abbassai gli occhi. Narita, eccolo laggiù. Il nuovo aeroporto internazionale di Tokyo, Françoise…

In macchina ci sarebbe voluta un’altra decina di chilometri. Ma forse, se avessi tagliato attraverso quella radura erbosa che si stendeva davanti a me…

Guardai la macchina. Lei ormai non poteva più aiutarmi. Dipendeva solo da me. Non ci pensai oltre. Scavalcai la staccionata che delimitava la piazzola e scesi lungo il piccolo pendio che portava alla radura. E cominciai a correre. Correre, correre, correre.

 

<<Limito i vostri bagagli a Parigi, signore?>>, chiese la ragazza del check-in ai miei tre compagni di viaggio, guardando i nostri biglietti.

Albert guardò gli altri tre, che annuirono. Tutti e tre sapevano che ormai le loro coincidenze erano perse.

<<Certo.>>, confermò Albert.

La ragazza annuì e segnò le nostre valigie, destinandole tutte a Parigi.

<<Andiamo.>>, disse Albert dirigendosi verso la zona di imbarco <<E speriamo bene.>>

<<Come sarebbe a dire?>>, chiese Bretagna corrugando la fronte.

<<Capirai, capirai.>>, rispose Albert spingendolo avanti.

Io, Bretagna e Punma facemmo passare i nostri bagagli a mano sul tapis roulant. Io ero la terza di tutti e quattro e capii cosa intendeva dire Albert quando passò lui dietro di me.

Beep!

Mi aggregai agli altri. La guardia stava guardando Albert sospettoso.

Albert alzò le braccia: <<Senta, ho un pacemaker sul cuore e le pasticche nella borsa, insieme al mio certificato medico.>>, disse <<Se vuole può controllare.>>

La guardia annuì: <<Va bene. Passi pure.>>

Albert prese la sua borsa dal tapis roulant e ci raggiunse.

<<Se la devono sempre.>>, disse quando ci ebbe raggiunto.

<<Veramente hai addirittura il certificato medico?>>, chiesi incuriosita.

<<Certo.>>, rispose lui <<Firmato dal dottor Isaac Gilmore in persona.>>

Ridemmo tutti e quattro. Non tanto per la cosa in sé, ma per come lo aveva detto. Le nostre parti meccaniche erano fatte in una lega leggera che non veniva rilevato da quel tipo di apparecchiature. Ma Albert aveva anche del ferro al suo interno. E ogni volta che prendeva un volo di linea doveva raccontare quella storia. Era logico che Gilmore lo avesse aiutato.

Ed ecco che eravamo arrivati alla nostra uscita. Ci mettemmo in coda agli altri. Guardai lo schermo, col nome e il numero del volo, e la sua destinazione, e l’indicazione del ritardo di cinque ore e mezzo. E la scritta “imbarco immediato”, in giapponese e inglese, lampeggiante. Di nuovo quella sensazione di malinconia.

<<La sua carta d’imbarco, per favore, signorina.>>, mi disse una ragazza riportandomi nel mondo reale.

<<Sì, mi scusi.>>, disse porgendogli il mio biglietto e sorridendo.

Lei fece i dovuti controlli e poi me lo rese indietro, sorridendomi e augurandomi buon viaggio. Scesi le scale che portavano a quella specie di autobus che ci avrebbe portato all’aereo, che ci aspettava poco lontano.

Lo guardai. Era un Boeing, un 747. Mio fratello andava matto per quei cosi, e ormai li sapevo riconoscere al volo. Vidi i colori della mia bandiera, e il nome della mia patria. Volevo essere a casa.

 

Corsi, senza fermarmi. Quell’aeroporto sembrava irraggiungibile. Ma continuai a correre. Pregando che quell’aereo non fosse già partito. Non ci speravo molto. Sapevo che era una rincorsa disperata, ma continuai a correre.

 

Gli assistenti di volo finirono la loro pantomima sulle misure di sicurezza dell’aereo. Ormai le conoscevo a memoria. Non li seguii nemmeno. Guardavo fuori dal finestrino, il mondo scorrere velocemente davanti ai miei occhi. Stavamo partendo, andando lontano da lì. Il mio pensiero era solo questo.

<<Assistenti di volo prepararsi al decollo.>>, disse una voce familiare dall’altoparlante.

Una hostess si sedette vicino a noi, in un sedile a scomparsa, dandoci la schiena.

<<Buongiorno. Sono il comandante Philippe Leroy. Innanzitutto mi scuso a nome della compagnia per l’inconveniente e il conseguente ritardo. Benvenuti a bordo del volo Air France Tokyo – Parigi. Il volo durerà circa sedici ore e atterreremo a Parigi intorno alle nove della sera, ora francese. Il tempo è sereno e la temperatura esterna buona. Vi ricordo che gli assistenti di volo sono a vostra disposizione per qualunque necessità. Vi auguro un buon volo.>>

 

Entrai come un assatanato nell’atrio partenze. Guardai appena il tabellone degli orari, vedendo che l’aereo era in partenza, con cinque ore e mezzo di ritardo.

Ripresi a correre, incurante della gente che mi guardava come se fossi un’idiota. Ma non mi importava di quello che pensavano. Era come se non esistessero.

<<Joe! Joe, aspetta! E’ inutile correre, ormai.>>

Mi fermai, voltandomi indietro, ansimando per la corsa.

<<Professor Gilmore.>>, dissi tra un respiro e l’altro, riprendendo fiato.

Lui era in piedi, con in braccio Ivan, accanto a una grande vetrata che dava sulle piste di decollo. Si voltò verso il vetro, mentre io mi avvicinavo a lui. Arrivatogli a pochi passi, mi guardai anch’io verso la vetrata, e capii.

Eccolo, il Boeing 747 dell’Air France che stava prendendo la sua rincorsa, le ruote anteriori che si alzano da terra, portando su il muso. Portandola verso il cielo, verso ovest, verso la Francia, verso Parigi. Lontano da me.

Rimasi a guardare l’aereo allontanarsi, fino a quando non divenne un punto piccolo nel sole del pomeriggio.

<<E altri quattro miei figlioli se ne sono andati.>>, disse Gilmore, guardando nella mia stessa direzione. Poi si voltò verso di me <<Siamo rimasti solo noi tre, Joe.>>

Riuscii solo ad annuire. Lui aspettò in silenzio qualche istante, poi si girò sui piedi, incamminandosi verso l’uscita della sala d’aspetto. Io non potei fare altro che seguirlo.

<<So tutto, Joe.>>

Quelle parole mi fecero sussultare.

<<Di te e di Françoise.>>, continuò <<So che è finita. E mi dispiace. E’ per lei che sei corso come un pazzo fino a qui?>>

<<Sì.>>, ammisi. Cosa c’era da nascondere?

<<Sarebbe bastata una mezz’ora prima.>>, disse.

<<Sarebbe bastato ricordarmi che i motori prima o poi finiscono la benzina.>>

Lui si lasciò scappare una risata: <<Sei rimasto senza benzina? Questa è bella. Non pensavo che fossi dell’umore da fare battute.>>

<<Non lo sono infatti.>>, replicai <<Mi è finita la benzina a meno di dieci chilometri da qui.>>

<<Dieci chilometri?>>, chiese lui <<Non ce l’avresti fatta lo stesso. A meno che non entrassi in pista e fermassi quell’aereo.>>

<<Già…>>, risposi. Non sapevo se avrei fatto persino quello se fossi arrivato in tempo. Ormai non aveva più importanza <<Mi dispiace, ma non la posso accompagnare a casa.>>

<<Certo, se la macchina è senza benzina.>>, rispose <<Prenderò un taxi e poi ti accompagnerò prima a un distributore, e poi alla tua macchina.>>

Annuii: <<Grazie. Comunque vorrei… Ho bisogno di schiarirmi un po’ le idee.>>

Lui sorrise: <<Certo, capisco perfettamente.>>

 

<<Joe, che cosa le avresti detto se l’avessi raggiunta?>>, mi chiede Gilmore <<Avresti avuto il coraggio di dirle tutta la verità?>>

Sinceramente non so nemmeno io cosa le avrei detto. Sicuramente non sarei mai riuscito a dirle tutta la verità. No, non ce l’avrei mai fatta. Però…

<<Le avrei chiesto di aspettare.>>, dico <<Forse le avrei detto che io adesso non potevo stare con lei, per motivi che non le potevo dire, però… che, forse… un giorno o l’altro… in un modo o nell’altro… un giorno sarei tornato da lei. Un giorno, quando sarei riuscito a buttarmi tutto questo alle spalle.>>

Gilmore resta con le braccia conserte, guardandomi con uno sguardo pensieroso e in silenzio per molto tempo. Infine si alza.

<<Sai, Joe.>>, dice stirandosi <<Io credo che tu glielo abbia già detto, in qualche modo. E nel suo profondo credo che lei lo abbia capito. E d’altronde ti avrebbe aspettato comunque.>>

<<Non capisco…>>, dico corrugando la fronte <<Come sarebbe a dire che gliel’ho già detto?>>

Lui mise le mani dietro la schiena e mi guardò sorridendo: <<Joe, tu l’hai lasciata, me le hai detto che la ami ancora.>>, spiega <<Forse non l’hai fatto consciamente, ma è come se tu le avessi detto: “aspettami, perché prima o poi tornerò da te.”>>

Riflettei sulle parole di Gilmore. Non sapevo se aveva ragione. Ma per come era stata in confusione la mia testa in quei giorni, poteva anche essere. In fondo non avevo avuto il coraggio di dirle che non la amavo. Forse non perché non sarebbe stata la verità, ma perché forse avevo paura di perderla per sempre.

<<E da chi altro potrei tornare?>>, sussurro, a voce tanto bassa che lui non mi sente. Sentendo le mie labbra curvarsi, senza quasi accorgermene.

Gilmore si dirige verso l’uscita della stanza. Arrivato sulla porta si volta indietro e mi guarda: <<Joe, non hai un po’ di fame?>>

Lo guardo a mia volta. E’ quasi ora di cena e io non ho ancora messo niente sotto i denti da quando mi sono svegliato: <<Sì. Effettivamente non ho nemmeno mangiato oggi. Ho decisamente fame.>>

Mi alzo dalla poltrona e lo seguo. Poi mi fermo, ricordandomi improvvisamente di qualcosa che dovevo chiedergli: <<Ah, professore. Non è che lei ha visto una busta senza indirizzo da qualche parte?>>

Lui si voltò verso di me e scosse la testa: <<No. Perché? Era una cosa importante?>>

<<Sì… cioè… No.>>, rispondo cercando di capire dove possa averla infilata <<Chissà… Forse l’ho buttata via e non me lo ricordo nemmeno.>>

<<Ah, Joe. Toglimi un’ultima curiosità.>>, dice approfittando del mio silenzio.

<<Mi dica.>>

<<Quando sei rimasto senza benzina, e sei dovuto venire a piedi, di corsa, perché non hai usato l’accelerazione?>>, mi chiede <<Saresti arrivato in un attimo. Forse non l’avresti presa lo stesso, ma…>>

<<Non ci ho proprio pensato.>>, dico in tutta sincerità <<In quel momento non ho pensato a usare l’accelerazione. Non mi è proprio passato per l’anticamera del cervello. Non so perché. Ho pensato solo a correre. Più forte che potevo. Con le mie gambe.>>

Gilmore annuisce: <<Capisco…>>

<<E forse…>>, lo interrompo <<A pensarci bene… sarebbe stato fuori luogo. Non crede?>>

 

Parigi è una miriade di luci sotto di noi. A causa di un po’ di traffico, abbiamo dovuto fare una piccola deviazione sopra la città. Seguo la Seine, la Tour Eiffel sembra darmi il “benvenuta a casa”, l’Arc de Triomphe, gli Champs Elyseés, il Louvre, l’Opera, Notre Dame. La mia città. La mia terra. Non so come ho fatto a starne lontana così a lungo. Dicono che noi francesi siamo eccessivamente nazionalisti. Io credo sia normale amare la propria terra. Me ne accorgo ogni volta che vi faccio ritorno.

Per una volta tanto nelle ultime ventiquattro ore mi viene da piangere per un motivo che non sia legato a lui.

Siamo in orario, almeno secondo quanto ci ha detto il comandante all’inizio del viaggio. Sono quasi le nove. E l’aereo ha già cominciato la sua discesa verso il nuovo aeroporto dedicato a De Gaulle[29].

Scendiamo rapidamente verso terra, quasi in picchiata. Il tipico rumore del carrello che esce dalla carlinga. Eccole, le luci dell’aeroporto e della pista di atterraggio. Le gomme anteriori toccano terra. Poi è la volta di quelle posteriori, e l’aereo è ora in posizione verticale e rallenta velocemente.

Raggiunta la giusta velocità, comincia a fare il suo giro per l’aeroporto.

<<Bonsoir. E’ sempre il vostro comandante che vi parla. Sì, lo so cosa state pensando. Finalmente a Parigi! Lo sto pensando anch’io, e ogni membro dell’equipaggio. Sì, lo so che è un messaggio un po’ diverso dal solito, ma d’altronde è stato un viaggio diverso dal solito. Quindi non vi andrete a lamentare per questo fuori programma, no? Comunque, Air France vi dà il benvenuto a Parigi. Sono all’incirca le ventuno. Fuori la temperatura è di circa quindici gradi centigradi, e il cielo è senza nuvole. Air France si scusa nuovamente per il ritardo e i disagi causati e, nonostante questo, speriamo di riavervi presto a bordo dei nostri aerei. Vi assicuro che di solito non succede così. Vi ricordiamo inoltre che, per qualunque reclamo e rimborso, potete presentare denuncia direttamente alla nostra filiale all’interno dell’aeroporto. Vi invito a restare seduti fino a quando non si sarà spento il segnale di cinture allacciate e vi do di nuovo il benvenuto in Francia, a nome mio e di tutto l’equipaggio, che, come voi, non vede l’ora di scendere dall’aereo.>>

Più o meno stanno ridendo tutti. E’ stato in gamba. Ha sdrammatizzato una situazione che sapeva drammatica. La gente poteva da sedere maledicendo l’Air France e giurando che non avrebbe mai più preso uno dei loro aerei. Ma così aveva riportato il buon umore fra i passeggeri, facendo loro capire che nemmeno per i membri dell’equipaggio era stata una passeggiata di piacere quella specie di odissea.

L’aereo si ferma, e la spia luminosa che dice di tenere allacciate le cinture si spense. Ci alziamo e prendiamo i nostri bagagli a mano e le nostre cose. Fortunatamente siamo vicini all’uscita. Quindi non ci vuole molto per uscire dall’aereo. Una hostess col sorriso prestampato in volto ci saluta, dandoci l’arrivederci. Ci ritroviamo in uno di quei tunnel che portano direttamente all’atrio di arrivo, senza bisogno di veicoli di trasporto.

Appena arrivati nell’atrio, prendiamo alcuni carrelli e ci dirigiamo verso l’area di ritiro bagagli. Restiamo in silenzio, aspettando la luce rossa lampeggi e che il tapis roulant del nostro volo inizi a girare. Siamo tutti e tre molto stanchi. Anche per il cambio di fuso orario. A quest’ora siamo abituati a essere in pieno sonno. In Giappone non erano sono poco più delle quattro del mattino.

<<Ho guardato gli orari.>>, dice Punma. Non mi ero nemmeno accorta che si fosse staccato da noi <<L’unico volo per Nairobi era quello che dovevo prendere io, alle diciotto e trenta. Dovrò rimanere qui.>>

<<Sono così stanco che rimarrei volentieri anch’io.>>, dice Bretagna con voce sonnacchiosa <<Anche se c’è un aereo per Londra tra poco più di un’ora.>>

<<Perché non restate tutti e tre?>>, propongo mentre la luce rossa finalmente lampeggia e il tapis roulant comincia a girare.

<<Restare tutti e tre? E dove ci metti?>>, chiede Albert corrugando la fronte.

<<La casa dei miei è piuttosto grande. Tre posti letto si trovano senza problemi.>>, dico.

<<Ma i tuoi cosa diranno se gli porti tre, per loro, perfetti sconosciuti in casa appena tornata?>>, chiede Bretagna.

Sorrido: <<Sarebbero contenti. Sono persone molto ospitali. Sono felici di avere gente intorno.>>, rispondo <<Così stasera dormite decentemente e domani, al momento delle vostre partenze, vi portiamo all’aeroporto noi.>>

I tre si guardano l’uno con l’altro, poi guardano me.

<<E’ un sì?>>, chiedi sorridendo e conoscendo già la loro risposta.

<<E’ un sì?>>, chiede Albert rivolgendosi agli altri, che annuirono. Poi si voltò verso di me <<E’ un sì.>>

I nostri bagagli arrivarono quasi tutti insieme. Li prendemmo a uno a uno e li mettemmo sui carrelli. Adesso ci aspettavano solo le operazioni di dogana.

Fecero dei controlli sommari alle nostre valigie e ai passaporti, e ci lasciarono andare.

Finalmente uscimmo nel grande atrio centrale. Cercai qualcuno con gli occhi istintivamente. Erano là, in mezzo all’atrio, e anche loro si stavano guardando intorno.

Li chiamo, alzando la mano: <<Jean! Mamma, papà.>>

Quando mi vedono comincio a correre verso di loro, e li abbraccio, forte e a lungo, uno per uno, chinandomi per abbracciare mio padre seduto sulla sua sedia a rotelle, mentre gli altri aspettano in disparte, assistendo silenziosi e da lontano a quella piccola riunione familiare.

<<Ciao, figliola. Bentornata a casa.>>, mi dice con voce commossa.

Mio padre è sempre stato un uomo sensibile, e anche stavolta ha le lacrime agli occhi. Gli sorrido, e mi ricordai dei miei amici.

<<Ah, loro sono dei miei amici.>>, dico voltandomi verso di loro e facendogli cenno di avvicinarsi <<Lo so che sono un gruppo un po’ eterogeneo, ma non spaventatevi. Quello pelato si fa chiamare Bretagna, quello col cappello è Albert e l’altro è Punma. Hanno perso i loro aerei a causa del ritardo. Ho pensato di invitarli a casa nostra, per stanotte.>>

<<Non ci sono problemi.>>, disse mia madre sorridendo <<Gli amici di mia figlia sono nostri amici. Siete i benvenuti.>>

<<E’ veramente molto gentile, signora.>>, dice Albert ringraziando con un cenno del capo.

<<Ti ringrazio, Dio.>>, disse Bretagna  Un pasto caldo, una casa e un letto morbido. Cosa potevo chiedere di più?>>

<<Non fateci caso.>>, interviene Punma <<Lui è così di natura. Non è a causa del viaggio. E non siamo come lui.>>

Ci mettemmo a ridere e ci incamminiamo verso l’uscita.

<<Ma dove mettiamo tutti i bagagli?>>, chiede Bretagna <<Non entrano tutti in una macchina sola.>>

<<Ah, non preoccupatevi.>>, risponde Jean.

In poco tempo ci troviamo nel garage sotterraneo, e in breve arriviamo al furgone Peugeot che Jean stesso ha adattato per mio padre. Apre le portiere posteriori e fa scendere una rampa di accesso, per poi andare dietro a mio padre per spingerlo.

<<Lascia.>>, gli dico fermandolo <<Faccio io.>>

Spingo mio padre fin dentro l’abitacolo.

<<Mettimi in modo che possa vedervi in faccia.>>, mi dice <<Non è educato dare le spalle.>>

Lo giro e fisso la sua sedia al pavimento. Il meccanismo è lo stesso di quando sono partita.

<<Tu mettiti a sedere qui, accanto a tuo padre.>>, dice indicando il posto accanto al suo.>>

<<Va bene.>>, dico togliendomi il soprabito e mettendomi seduta.

Gli altri caricarono le valigie dentro e poi salirono dal portellone laterale. Anche mia madre venne a sedere dietro insieme a noi, occupando il posto accanto al mio dei cinque che c’erano, disposti su due file, una davanti all’altra.

Finalmente partiamo. Durante il viaggio ascolto distrattamente i discorsi che fanno gli altri. Con la testa sono già a casa, nella mia stanza, quella dove sono stata fin da bambina. La ricordo bene, come se l’avessi lasciata solo ieri. I muri sono tappezzati dei poster dei più grandi ballerini e ballerine della storia, dei diplomi e degli attestati che ho conseguito. C’è anche una mia foto ingrandita, che campeggia sulla parete alle spalle del mio letto, ripresa mentre impersonavo l’eroina del “Lago dei cigni”. Mi sembra un secolo fa.

Arriviamo a casa, in uno dei tanti sobborghi di Parigi, a nord della Seine. Scarichiamo i bagagli e io stessa faccio scendere mio padre.

Quando entriamo, l’odore di casa mia mi assale. Mi guardo intorno. Non è cambiato niente. Sembra che sia rimasto tutto immobile, ad aspettare il mio ritorno. Prendo una delle mie valigie, mentre Jean insiste per portare le altre due. Saliamo le scale, ed ecco, l’ultima porta del corridoio, sulla destra, è camera mia. Accendo la luce e sorrido. Anche qui non è cambiato nulla. E’ esattamente come la ricordavo.

Jean posa le mie valigie sul letto e si volta verso di me, con le mani sui fianchi: <<Bentornata a casa, sorellina.>>

Gli sorrido: <<Grazie, Jean.>>

<<Tutto a posto?>>, mi chiede.

Corrugo la fronte perplessa. A volte mi chiedo se sia una specie di libro aperto per lui. Scuoto la testa: <<Sono solo un po’ stanca per il viaggio.>>

Appoggio la mia valigia davanti al letto e scendo giù nuovamente. Mia madre sta apparecchiando la tavola, mentre mio padre, seduto a tavola, sta tagliando il pane. Entro in cucina, riempiendomi il naso dei buoni odori che vi sono, e prendo le posate dalla mano di mia madre, che mi ringrazia, semplicemente con un sorriso, e si volta a prendere i bicchieri dietro di sé.

Mentre sto disponendo le posate, arrivano anche i miei amici, insieme a Jean.

<<Possiamo fare qualcosa?>>, chiede Albert.

<<No, mettetevi pure comodi.>>, risponde mio padre posando il coltello e disponendo le fette di pane in un cestino <<Non sia mai che in casa mia degli ospiti non vengano trattati come si deve.>>

<<Come vuole.>>, risponde Albert allargando le mani <<Ah, scusate se tengo i guanti, ma ho un’ulcera alle mani e non è molto bella a vedersi.>>

<<Non c’è problema.>>, risponde mio padre sorridendogli <<Anche voi mi dovete scusare se non mi alzo mai in piedi, ma circa dieci anni fa un idiota si è messo a sparare in mezzo alla strada, in pieno centro a Parigi, e mi ha preso in piena spina dorsale. Per cui sono paralizzato dalla vita in giù e da allora mi muovo con le ruote anziché con le gambe.>>

Albert, Punma e Bretagna si guardano senza sapere cosa dire. Non conoscono mio padre. Lui è fatto così.

<<Lui fa queste battute sperando di farvi ridere.>>, intervengo in loro aiuto, sorridendo.

<<Io non sono mai stato un tipo da piangersi addosso.>>, spiega mio padre, muovendosi sulla sua sedia invitando i miei amici a sedere sul divano <<Certo, quando è successo avrei voluto spaccare il mondo e quell’idiota che mi aveva piantato una pallottola nella schiena. Ma poi mi sono reso conto che le cose più importanti della mia vita erano con me. Ho una moglie perfetta, due figli fantastici e ho ancora la mia vita. E’ questo è il dono più prezioso che ci ha dato Nostro Signore. Finché la vita va avanti, ognuno ha il dovere di viverla fino in fondo. E’ così che la penso.>>

<<La vita va avanti…>>, sussurro a voce così bassa che nessuno fa caso a me.

E quelle parole mi rimangono in testa per tutta la cena.

Anche dopo, risalita in camera mia, non riesco a smettere di pensarvi, mentre guardo senza vederla la mia immagine riflessa allo specchio della mia toilette[30]. Così come non riesco a smettere di ripensare anche a quello che mi ha detto Gilmore. A quello che mi disse mia madre tanti anni fa.

E’ vero. Io non mi sono mai arresa. Davanti a niente. Dopo ogni caduta, ho sempre saputo rialzarmi. E ce la farò anche stavolta. Anche senza di te.

<<Soffri adesso. Soffrirai domani. Soffrirai per un altro mese, altri due. Ma la vita va avanti…>>

Hai ragione, Joe. La vita va avanti. Forse non sai nemmeno tu quanto sia profonda e dolorosa la ferita che mi hai inferto. Forse il tempo non riuscirà mai a guarirla. Sento come se qualcosa, dentro di me, si fosse spezzato, mi sia stato rubato. Ma non ho perso tutto. Come hai detto tu, ho ancora i miei sogni, qualcosa per cui lottare, i miei amici, la mia famiglia. E’ vero. Non ho te. Ma ho sempre quello che provo per te. Ho sempre i ricordi di questi pochi mesi vissuti intensamente, insieme. Forse non è molto, ma è qualcosa. E’ un nuovo punto di partenza. E’ qualcosa con cui andare avanti. Cercherò di lasciare da parte le spine, e di tenere solo i fiori delle rose che mi hai regalato.

La ferita che mi hai provocato non guarirà, lo so bene. Ci metterà molto per smettere di sanguinare, e cicatrizzarsi. E ogni volta che cambierà il tempo, questa cicatrice mi farà male.

Ma la vita va avanti.

<<Oh là là. E’ un accenno di sorriso quello che vedo su quel faccino che fino a un secondo fa era triste e sconsolato?>>

Mi volto dietro di me, e vedo Albert dietro di me. Non mi ero nemmeno accorta che fosse entrato

<<Ho bussato ma non rispondevi.>>, dice con un sorriso sornione.

<<Dove hai visto che sorridevo se ti davo le spalle?>>, gli chiedo.

<<Nello specchio davanti a te.>>, risponde indicandolo.

<<Ho sorriso altre volte durante la giornata.

<<C’è sorriso e sorriso.>>, rispose <<E quelli che hai fatto prima erano sorrisi tristi. Sorridevi con la bocca, ma evidentemente non con il cuore. Perché i tuoi occhi non sorridevano. Ora invece sorridevi, pienamente. A cosa devo questo cambiamento?>>

Resto qualche istante in silenzio, pensando a quale risposta dare: <<Forse… mi sono resa conto di aver perso un qualcosa di molto importante per me.>>, dico <<Non dico di essermi resa conto di poterne fare a meno. Non è così. Ma mi sono ricordata che ci sono anche altre cose nella mia vita. E non posso sminuire tutte queste per una sola persona, per quanto sia stata e continui a essere importante.>>

<<Ottimo, mademoiselle. Direi che assomigli a tuo padre.>>, commenta <<Uno che non si ferma davanti a nessun ostacolo.>>

<<Già… forse ho preso da lui.>>, rispondo annuendo.

<<Hai una bella famiglia. Che bella stanza…>>, dice lui guardandosi intorno indicando il letto <<Posso mettermi a sedere?>>

Mi limito ad annuire.

<<E posso togliermi i guanti? Non li sopporto più.>>

<<Certo.>>, gli rispondo <<Devi dirmi qualcosa?>>

<<Sì. E riguarda… la “persona importante”.>>, dice <<Pensi di voler ascoltare?>>

Annuisco, guardandolo perplessa.

<<Dunque,>>, comincia <<Io ho pensato a tutto quello che mi hai raccontato oggi in aereo.>>

<<E allora?>>, gli chiedo accorgendomi di essere un po’ in ansia.

<<”Non posso stare con te… ma ti amo.” Questo, in sintesi, è quello che ti ha detto.>>, dice, mentre io annuisco <<Bene. Mettiamo che lui pensasse solo di non poter stare con te… perché non ti meritava, tu ti meriti di meglio e cose di questo genere. Non ti avrebbe detto “ti amo”, perché se dici ti amo a una persona che ricambia il tuo amore, la imprigioni. Se lui avesse pensato che fosse molto meglio per te lasciarlo perdere… per il suo passato, perché lui è troppo poco per te, tu ti meriti di più, qualunque cosa… se avesse pensato questo, lui non ti avrebbe detto “ti amo”.>>

Resto qualche istante in silenzio, riflettendo su ogni sua singola parola: <<Non riesco a capire dove vuoi arrivare.>>

Lui si prende un bel respiro e allarga le mani: <<Françoise, io non posso entrare nella testa di Joe come Ivan, e non posso sapere se quello che… ho dedotto da tutto quello che mi hai raccontato sia quello che pensa lui.>>, spiega scandendo ogni parola <<Il fatto che ti abbia detto… non “ti lascio” o altre cose del genere, ma “io non posso stare con te”, come se non fosse lui a volerlo, ma una qualche causa più forte di lui e contro cui non poteva fare nulla… il fatto che ti abbia detto che ti ama ancora… anche il fatto che abbia accettato di fare l’amore con te... oddio… ho perso la cognizione del tempo… Insomma, tutto questo mi fa pensare che lui abbia voluto…>>, si ferma un attimo corrugando la fronte e scuotendo la testa <<No, “voluto” forse non è il termine esatto… accidenti è difficile spiegare… Cambiamo punto di vista. Cosa hai voluto dirgli tu dicendogli… non semplicemente “ti amo”, ma “ricorda che ti amerò sempre”?>>

<<E’ la stessa cosa…>>

Ma lui mi interrompe, scuotendo la testa: <<Non è la stessa cosa Françoise. Te lo dico io cosa gli hai voluto dire.>>, dice <<Tu gli hai detto che sarai sempre lì quando lui ne avrà bisogno e se lui vorrà ricominciare. Che ti tirerai indietro tutto il male che ti ha fatto e che tornerai a stare con lui, se lui un giorno lo vorrà. E lui… quella sensazione che ti ha dato di aver bisogno di te come mai te l’aveva data fino ad allora… con quel suo “ti amo ancora”, con il suo modo di agire, ti ha detto che un giorno, quando sarà riuscito a risolvere questo problema di cui non ti ha voluto parlare, quel giorno potrebbe tornare da te. E ti ha chiesto di aspettarlo.>>

Resto muta, incapace di rispondere qualunque cosa. Mi alzo dalla mia sedia e comincio a vagare per la stanza. Dopo parecchio, lo guardo ancora senza sapere cosa pensare, e glielo dico chiaramente: <<Non so… non so cosa dire.>>

Lui sia alza in piedi e annuisce: <<Lo so, Françoise. E io ti ripeto che questa è solo una mia supposizione.>>, risponde <<Ma è una speranza, è una piccola speranza. Una luce in fondo al tunnel… chiamala come ti pare.>>

Ci penso su un istante, poi annuisco e gli sorrido: <<Grazie Albert. Per avermi ascoltato… e per avermi dato una speranza.>>

 

<<Say that you’ll stay, forever and a day,in the time of my life. ‘Cause I need more time. Yes, I need more time just to make things right.>>, da “Don’t go away”, Oasis[31]

 

<<Just pieces of truth that I chose to keep. No matter if now they’re gone. No matter if I am alone. Still, I can can get back on my feet and walk on. And as I know there was something to learn, I just know there will always be more worth moving on for.>>, da “Broken”, Elisa[32]

 

 

Parte X

 

Un paio di mesi dopo…

 

<<Françoise… ehi, Françoise!>>

Lo guardo, come riportata di botto alla realtà: <<Scusami papà, ero soprappensiero.>>

<<Oggi sembri con la testa fra le nuvole.>>, mi dice <<Mi andresti a riempire la caraffa d’acqua e ghiaccio.>>

<<Certamente.>>, rispondo alzandomi e prendendo la caraffa ormai vuota.

Entro in casa dalla veranda e mi dirigo in cucina. Mia madre entra praticamente insieme a me. Prende un bicchiere e lo posa sul tavolo, mentre apre il frigo e prende il cartone del latte fresco. Ne guarda la data di scadenza sulla parte alta. Fa sempre così da quando, da giovane, le hanno dovuto fare la lavanda gastrica per aver bevuto del latte avariato.

<<Quanti ne abbiamo oggi?>>, mi chiede mentre sto riempiendo la caraffa con dell’acqua presa da una bottiglia.

<<16.>>, rispondo, sospirando <<Oggi è il 16 maggio.>>

<<Allora è ancora buono.>>, dice versandosene un bicchiere e poi rimettendo subito il cartone in frigo.

<<Mi passeresti il ghiaccio, per favore?>>, le chiedo, visto che è già lì.

<<Certo.>>, risponde aprendo lo sportello del freezer e passandomene una vaschetta <<Che cos’è che ti passa per la testa.>>

<<Non capisco a cosa ti riferisci.>>, rispondo mentendo mentre stacco i cubetti di ghiaccio e li lascio cadere nell’acqua.

<<Ha ragione tuo padre.>>, replica lei <<Oggi sembri avere la testa fra le nuvole.>>

Alzo le spalle: <<Sarà la primavera.>>, dico scherzando <<Oppure sto semplicemente pensando alla mia carriera. Devo ringraziare molto Cathrine per avermi aiutato a rientrare nel giro, ma ora devo rimboccarmi le maniche.>>

<<E’ stata una fortuna che la prima ballerina se ne sia andata sbattendo la porta quando ha saputo che saresti tornata tu.>>, mi fa notare.

<<Io ho detto che mi accontentavo di fare la ballerina d’appoggio. E’ stata lei che se ne è voluta andare.>>, le ricordo.

<<E’ stato il direttore stesso a dire che tu meriti il posto di prima ballerina de l’Opera molto più di lei.>>, mi dice <<Anzi, ha detto che l’Opera ha ritrovato la sua etoile. Gli brillavano gli occhi quando ha saputo che saresti tornata a ballare. Mi è piaciuta soprattutto la reazione delle altre. Nessuno si è lamentato del fatto che tu che sei arrivata per ultima prendessi quel posto. Non devi sentirti in colpa.>>

Sorrido ricordando come è successo. <<E’ potuto succedere perché non ti sei mai data arie da prima donna.>>, mi ha detto Cathrine quando ancora non ci credevo. Anche lei è tornata al suo mondo, la danza classica. Anche se ora fa solo la coreografa.

<<Una volta era una mia compagna alla scuola di danza.>>, le rivelo, riferendomi alla prima ballerina che se ne era andata sbattendo la porta.

<<Elenoire si chiama?>>, chiede <<Sì mi sembra di ricordare. Era piuttosto brava, ma aveva un caratteraccio. Vero?>>

<<Sì, era lei.>>

<<E dimmi, Françoise. C’entra per caso un ragazzo col tuo essere tra le nuvole oggi?>>

Il cubetto di ghiaccio mi scivola dalla mano, nella più palese delle confessioni. Mi affretto a raccoglierlo e a buttarlo nel lavandino, visto che è caduto per terra.

<<Era un sì?>>

A volte mi stupisco nello scoprire quanto io e mia madre usiamo gli stessi modi di dire. Li ho trasmessi anche a qualcuno che compie gli anni proprio oggi.

<<E’ un “un giorno te ne parlerò, ma non adesso”.>>, rispondo cercando di essere ironica.

Lei inclina per un attimo il capo come a dire “ah, però”. Ma quello che mi è sempre piaciuto di lei è il suo non insistere quando le chiedo di non farlo e anche stavolta non si smentisce.

<<Porto io la caraffa a tuo padre.>>, mi dice strappandomela di mano <<Tu avrai di meglio da fare che stare dietro a lui tutto il giorno.>>

<<Grazie mamma.>>, le rispondo sorridendo

<<E di che?>>

La guardo uscire dalla cucina e poco dopo la seguo anch’io. Però mi dirigo verso camera mia. Una volta entrata, richiudo la porta alle mie spalle. Voglio stare un po’ da sola.

Mi siedo alla mia scrivania, prendendo in mano l’agenda. La striscia di stoffa che fa da segnalibro è rimasta al 15 maggio. La alzo, cambiando pagina…

Mio Dio, quasi me ne ero dimenticata. Quella busta, quella lettera che Joe non mi aveva voluto dare e che avevo avuto grazie a Ivan era ancora lì, intonsa, alla pagina del suo compleanno. La presi in mano, guardandola.

Sentii solo una profonda malinconia. Nessuna lacrima, né groppo in gola. Era ora di aprire quella lettera. Forse non era giusto. Joe non me l’aveva voluta dare. O forse non ne aveva avuto il coraggio.

Presi il tagliacarte da un barattolo di penne e matite e aprii la busta.

Ne estrassi il contenuto e lo dispiegai, posando la busta sul tavolo.

Era scritta in giapponese. La data corrispondeva a circa dieci prima la sua partenza dal Giappone. Dieci giorni, e lei non si era accorta di niente.

Cominciò a leggere.

 

Cara Françoise,

inizio a scrivere questa lettera senza sapere se sarò mai in grado di consegnartela. Perché se veramente riuscirò a scriverci tutto quello che vi devo scrivere, sarà veramente molto difficile riuscirci. E non so se sarò tanto coraggioso.

C’è un periodo molto buio della mia vita che tu non conosci. Non mi riferisco a quando sono stato un teppista e ne ho fatte di tutte i colori. Non è qualcosa che ho fatto io. E’ qualcosa che ho subito e che sono stato costretto a veder subire dai miei amici, senza riuscire a fare niente per loro. E’ un periodo così orribile che io stesso l’avevo rimosso dalla mia memoria. O almeno speravo di esserci riuscito. Si tratta di qualcosa successo in uno dei riformatori in cui sono stato. Qualcosa che un procuratore ha scoperto dalla lettera di addio di un ragazzo suicidatosi qualche settimana fa perché non riusciva a dimenticare e vive nell’incubo di quei giorni.

Io lo conoscevo quel ragazzo. Lo conoscevo molto bene. Era un mio compagno in uno dei riformatori in cui sono stato…

 

<<La pubblica accusa chiama a testimoniare il signor Joe Shimamura.>>

Mi alzo dal mio posto a sedere in fondo all’aula. Bene, è arrivato il momento della verità. Cammino a passa sicuro tra le file di posti a sedere, sentendo addosso gli occhi della gente. Ma soprattutto quelli di quel serpente che siede al tavolo della difesa, insieme ai suoi tre compari. Il mio e il suo si incrociano appena per un attimo. Non so cosa ci sia nel mio. Nel suo vedo paura. Una paura matta di quello che potrò dire. Non regge il mio sguardo e lo distoglie, quasi subito.

Vado al banco dei testimoni e un usciere viene da me e mi fa giurare “di dire la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità”.

Dopodiché mi siedo e fo cenno a Mazuoka di cominciare. Prima cominciamo e prima quest’incubo sarà finito.

Mazuoka annuisce e si alza in piedi. Non tiene il taccuino delle domande in mano. Devo dire che è un avvocato nato. Ho avuto modo di vederlo durante questo processo. Non ha sbagliato un colpo. Ci sa fare a convincere la gente.

<<Signor Shimamura, può dire le sue generalità alla giuria.>>, mi chiede per rompere il ghiaccio.

<<Mi chiamo Joe Shimamura. Il nome è scritto in katakana, il cognome ha i kanji di “isola” e “villaggio”. Sono nato a Tokyo il 16 maggio di 21 anni fa. E al momento sono disoccupato. Ma direi che sono un pilota automobilistico.>>, rispondo <<Almeno questo è quello che conto di tornare a fare tra breve.>>

<<E’ nato il 16 maggio.>>, ripete Mazuoka avvicinandosi a me e fermandosi, proprio di fronte al banco, con un braccio a fare da perno sull’altro, al cui mano era sotto il mento <<Quindi oggi è il suo compleanno. Auguri.>>

<<Grazie, ma fra noi sportivi porta male fare gli “auguri”.>>, rispondo <<Preferivo “buon compleanno”.>>

<<Mi scusi. Non lo sapevo.>>, risponde lui sorridendo, e tornando a sedere, con passo lento e controllato.

Non era preventivato questo siparietto. Ma fa parte del gioco. E’ stato lui stesso a dirmi che inizialmente mi avrebbe fatto domande facili, tanto per rompere il ghiaccio e mettermi a mio agio.

<<Bene, signor Shimamura… posso chiamarla Joe? Sa, ho un figlio della sua stessa età.>>, mi dice. Anche questo fa parte del teatrino.

<<Mi chiami pure Joe.>>, acconsento.

<<Bene, Joe.>>, continuò <<Lei ha detto di essere nato a Tokyo. Sua madre è morta poco dopo che lei era nato. Vero?>>

<<Sì.>>, confermo.

<<Quanto aveva?>>

<<Non lo so esattamente… sette mesi e otto, nove giorni.>>, risposi.

<<Come fa a essere così sicuro e preciso.>>, mi chiese.

<<Le suore che si occupavano nell’orfanotrofio davanti al quale mia madre mi lasciò, appena prima di morirne sulle scale a causa di una polmonite, mi hanno sempre detto di avermi trovato la sera della vigilia di Natale.>>

<<E sono sempre le hanno detto che sua madre morì a causa di un polmonite?>>

<<Sì.>>

<<Fino a quando è stato in orfanotrofio?>>

<<Fino all’età di quattordici anni, quando per lo Stato ero abile a lavorare.>>

<<E’ vero che lei fa generose donazioni a quell’orfanotrofio ogni anno?>>

<<Sì.>>

<<E che in passato ha usato la fama derivatagli dalla sua abilità come pilota automobilistico per promuovere la causa degli orfani, come lo è stato lei?>>

<<Sì, è esatto.>>

<<E ha addirittura aperto un fondo alla memoria di sua madre per gli orfani, vero?>>

<<Sì.>>

Annuisce, soddisfatto: <<E suo padre? Lo ha mai conosciuto?>>

<<Sì, l’ho conosciuto. Pochi mesi fa.>>, rispondo.

<<Quindi, fino a pochi mesi fa lei non sapeva nemmeno che faccia avesse?>>

<<Esatto.>>

<<Non l’ha mai cercato prima?>>, mi chiede.

<<Inizialmente sapevo solo che era straniero. Non avevo altro che il colore dei miei capelli e la mia fisionomia a indicarlo.>>, rispondo <<Poi ho immaginato che potesse essere un americano venuto qui al tempo della guerra.>>

<<Il colore dei suoi capelli e la sua fisionomia…>>, ripete annuendo col capo, spostando ad arte l’attenzione di tutti sul prossimo argomento <<Certo, essere così evidentemente mezzi stranieri in un paese appena uscito da una guerra umiliante contro il nemico straniero, e tradizionalmente poco incline a essere tollerante non dev’essere stato facile per lei. Le hanno mai causato problemi il colore dei suoi capelli, della sua pelle, o per i suoi tratti così marcatamente occidentali?>>

<<Obiezione.>>, interviene l’avvocato della difesa <<Non vedo cosa c’entri questo con il motivo per cui sono imputati i miei clienti.>>

Mazuoka si alza in piedi, rivolto verso lo scranno del giudice: <<Vostro onore, ritengo che sia fondamentale conoscere la biografia del signor Shimamura in rapporto a questo caso. La sua storia è simile a quella di tanti altri che sono finiti in quel riformatorio.>>

<<Obiezione respinta.>>, sentenzia il giudice <<Vada avanti, signor Mazuoka.>>

<<Grazie, vostro onore.>>, dice Mazuoka rimettendosi a sedere <<Risponda pure alla mia domanda, Joe: le sue caratteristiche somatiche così poco giapponesi le hanno mai dato problemi?>>

<<Mi ha creato problemi per tutta la vita.>>, rispondo.

Mazuoka si rialza in piedi e ricomincia a camminare, senza mai smettere di guardarmi in faccia. Cerca di attirare la mia attenzione. Gli altri devono come scomparire. Devo far finta che stia parlando in una stanza solo con lui, e non in un’aula piena di gente.

<<Che genere di problemi, Joe? Può spiegarsi meglio?>>

<<Allora. Da piccolo quasi tutti i miei compagni dell’orfanotrofio mi evitavano come se avessi la peste. Per lo più si rivolgevano a me con appellativi del tipo “mezzo occidentale”, che era il più gentile. Molto più spesso vi premettevano “sporco”. Ogni tanto sul muro dell’orfanotrofio comparivano scritte molto pesanti nei miei confronti, tipo: “Non vogliamo mezzi bianchi fra noi”. Gli appellativi sono andati peggiorando con gli anni. Quando avevo quattordici anni l’appellativo più gentile con cui venivo chiamato era “bastardo”, oltre a vari altri che non posso citare perché ho troppo rispetto di mia madre. Una volta uscito dall’orfanotrofio, trovare un lavoro diventò un’impresa. Tutti mi guardavano come se fossi una pulce bianca. E nessuno si azzardava a offrirmi uno straccio di lavoro. Nemmeno pulire le latrine. E questo è continuato più o meno fino a un paio di anni fa.>>

<<Nessuno le dava lavoro?>>, chiede Mazuoka, appoggiato con le caviglie incrociate e le braccia conserte al suo tavolo <<E come faceva a sopravvivere?>>

<<Ero costretto a… rubare. Non avevo altro modo. Dormivo dove capitava e mangiavo quando ne avevo la possibilità.>>, rispondo <<E non ero il solo. Ci sono molti, come me, che sono nati da relazioni di donne giapponesi con stranieri durante la guerra. Ci organizzavamo in bande e tiravamo a campare.>>

<<Quindi era un teppista?>>

<<Sì, lo ero.>>

<<E oggi è soddisfatto di quello che era.>>

Respiro un attimo: <<No.>>

<<E crede che il fatto che la sua vita non sia stata per niente facilitata dalle circostanze sia un alibi per quello che ha fatto in gioventù?>>

<<No.>>, rispondo scuotendo la testa.

<<Perché?>>

<<Perché mi chiedo sempre se non avrei potuto fare qualcosa di più per evitare di diventare quello che ero.>>, rispondo <<Mi chiedo se io stesso non abbia finito per rassegnarmi all’idea che la società in cui vivevo non mi accettava, e che quindi non avessi altro modo per viverci se non quello di fare il teppista.>>

Mazuoka annuisce, rimettendosi in piedi e facendo un paio di passi verso di me: <<Quindi, se lei potesse, tornerebbe indietro nel tempo e cercherebbe di vivere meglio la sua vita?>>

Annuisco: <<Se potessi, lo farei. Mi eviterei parecchie sofferenze.>>

<<Lei è mai stato punito per la sua condotta... chiamiamola… da non perfetto cittadino?>>

<<Sì.>>

<<E’ stato in un riformatorio?>>

<<Sono stato in tre riformatori.>>, preciso.

<<Per quali reati è stato mandato in questi riformatori? E per quanto ci è restato?>>

Raccolgo le informazioni dalla mia memoria, per essere sicuro di non fare errori: <<Sono stato al Riformatorio Hidaka, nella zona sud est di Tokyo, per quattro mesi, all’età di quindici anni. Per furto. Poi… al Riformatorio Hideshima, nella zona nord. Cinque mesi, a sedici anni. Sempre per furto. Infine… a diciassette anni… sono entrato allo Shoushan. Ci sono restato per otto mesi, da novembre a giugno del 196X, per rissa e per aver ferito una delle persone coinvolte. E lì ho compiuto diciotto anni.>>

<<Undici mesi? La pena in caso di rissa con aggravante di lesioni è come minimo di un anno[33].>>

<<Sì, lo so.>>, rispondo <<Infatti mi era stato inflitto un anno e un mese di detenzione.>>

<<E coma mai è uscito prima?>>, chiede. Di lui ammiro la capacità di riuscire a far sembrare che anche per lui sia la prima volta che ascolta questa storia.

<<Evasi.>>, confesso.

<<Da solo?>>

<<No, insieme a parecchi dei miei compagni.>>, specifico <<Ci fu una specie di rivolta all’interno del riformatorio.>>

<<Ma a lei mancavano solo due mesi. Due mesi e sarebbe stato libero.>>, mi fa notare. A me e a tutta la platea <<Perché rischiare tanto quando le mancavano solo due mesi?>>

Respiro profondamente: <<Perché non ne potevo più di stare là dentro.>>

Mazuoka corruga la fronte: <<Si era stancato di passare da un riformatorio all’altro e della vita che si conduceva al loro interno?>>

<<No.>>, rispondo scuotendo la testa <<La cosa non riguarda tutti i riformatori.>>

<<Cosa intende dire?>>

<<Negli altri due riformatori in cui sono stato, venivamo trattati con umanità.>>, rispondo <<Certo, non era una vita da re. Ma ci era garantita una detenzione dignitosa.>>

<<E a Shoushan era diverso?>>

<<A Shoushan alcuni di noi venivano trattati peggio degli animali.>>

(DLIN DLON. N.d.Laus: da qui in poi inizia una parte dai contenuti e dal linguaggio violenti ed espliciti. Vi avverto che è venuto il voltastomaco anche a me a scriverla. Se preferite saltarla, cliccate qui.)

<<Alcuni?>>, chiede Mazuoka, guardandomi falsamente perplesso.

<<Sì.>>, rispondo <<Solo alcuni di noi subivano quel trattamento.>>

<<Perché solo alcuni di voi e non tutti?>>, chiede.

<<Perché quelli che venivano esentati cercavano di proteggersi rendendosi simpatici a quelle guardie che infliggevano questo trattamento. Facendo la spia, sporcandosi le mani nelle azioni punitive al posto loro.>>, rispondo <<Si assicuravano totale libertà di azione e la loro protezione.>>

<<Guardie? Erano le guardie a infliggere questo trattamento?>>

<<Sì.>> confermo <<Alcune guardie.>>

<<Alcune.>>, ripete Mazuoka rimarcando il punto <<Quindi non tutte.>>

<<Esattamente. Erano solo quattro di loro.>>, preciso <<Le altre guardie ci trattavano più umanamente.>>

<<E avete mai provato a raccontare a queste guardie… “umane” quello che vi veniva fatto?>>

<<No.>>

<<Perché?>>

Prendo un respiro profondo: <<Se lo avessimo fatto, le altre quattro si sarebbero rifatti sugli altri. Si sarebbero vendicati.>>

<<Che cosa vi facevano queste quattro guardie?>>

<<Molte cose.>>, rispondo, mantenendomi vago.

<<Tiriamo a indovinare, prendendo la sua esperienza personale.>>, mi propone avvicinandosi a me e appoggiandosi con le braccia alla mia barriera <<Va bene, Joe?>>

<<Va bene.>>

<<Obiezione…>>

<<Respinta.>>, replica il giudice <<Vada avanti, signor Mazuoka.>>

<<Grazie vostro onore.>>, risponde il procuratore <<Vediamo. Lei è stato insultato gratuitamente da queste quattro guardie?>>

<<Sì.>>

Mazuoka annuisce: <<Che tipo di insulti?>>

<<Di carattere razzista, tipo “bastardo mezzosangue”, “fritto misto”, “incrocio”. Insulti del tipo “figlio di…”>>, entro in difficoltà. Non ce la faccio mai a usare quella parola riferita a mia madre.

<<”Buona donna”, per usare un eufemismo?>>, mi suggerisce.

<<Esatto. E poi… le solite cose… non so se posso riferirle.>>, dico guardando il giudice.

<<Faccia pure.>>, mi permette annuendo.

<<Va bene. “Stronzo” in tutte le sue sfumature. “Pezzo di merda”, “frocio”, “cacasotto”… devo continuare?>>

Mazuoka scuote la testa: <<No. E’ sufficiente. E tutte questi insulti a titolo gratuito, senza alcun motivo?>>

<<Esatto, senza alcun motivo.>>

<<L’hanno mai offesa fisicamente?>>

<<Sì.>>, annuisco.

<<Che tipo di offese fisiche ha ricevuto?>>

<<Manganellate, bastonate, ferite di arma da taglio, bruciature di sigaretta, frustate, botte, calci, pugni. Di tutto.>>

<<E come succedeva?>>

Traggo un profondo respiro, riaddentrandomi nelle umide pareti del riformatorio Shoushen, nella sua oscurità, dopo la sirena che annunciava che tutti dovevano essere nelle loro celle, per il sonno.

<<Aspettavano la notte.>>, comincio a raccontare << Avevano il loro gruppo di dieci, quindici ragazzi. Ogniqualvolta avevano il turno di notte, suonata la sirena di ritirata e fatto l’appello, quando tutte le luci erano spente, loro cominciavano a camminare, cella per cella, con le torce. Sceglievano a caso quattro o cinque ragazzi.>>

<<A caso?>>

<<Sì. Secondo come gli girava e… e se dovevano fargli pagare qualcosa.>>

<<E poi? Cosa succedeva?>>

Comincio a sentire la bocca un po’ secca e la bocca pastosa. La mia cravatta, improvvisamente, sembra essersi stretta intorno al mio collo.

<<Poi, scelti questi quattro o cinque ragazzi, li conducevano nei sotterranei.>>, deglutisco allentandomi la cravatta di un dito.

<<Vuole un bicchiere d’acqua?>>, mi chiede il giudice sporgendosi un po’ verso di me dall’alto della sua postazione.

<<Sì, per favore.>>, rispondo annuendo <<Grazie.>>

Il giudice fa un cenno a una guardia accanto a una porta. Questa scompare dentro di essa, per ricomparire poco dopo con una bottiglia d’acqua e un bicchiere di carta. Mazuoka prende in mano la bottiglia e il bicchiere, versandomene uno e porgendomelo.

<<Grazie.>>, gli dico dopo averlo bevuto quasi tutto d’un sorso.

Mazuoka me ne versa un altro, di cui bevo un altro sorso, per poi appoggiarlo per terra, dove non possa prenderlo con una mossa avventata del piede.

Il giudice, evidentemente vedendomi provato, si sporge nuovamente verso di me: <<Se la sente di continuare? Posso dare una pausa, se vuole.>>

Scuoto la testa. Ormai che sono in gioco, gioco fino in fondo: <<Posso continuare.>>

Il giudice fa un cenno del capo al procuratore, che annuisce, e torna a guardarmi: <<Cosa succedeva dopo, nei sotterranei? Abusavano sessualmente dei ragazzi?>>

<<Obiezione. Qui sia sta presumendo il reato.>>

<<Respinta.>>

Mazuoka guarda il giudice, e poi me. Mi è venuto in aiuto, limitando il mio campo di risposte a un sì o a un no.

Ma mi ci vuole uno sforzo enorme anche solo per pronunciare quel piccolo monosillabo: <<Sì.>>

<<Se la sente di descrivere in che modo?>>

<<Se li passavano uno con l’altro. Uno finiva con un ragazzo, e poi lo passava all’altro. Questo succedeva più o meno sempre.>>, mi prendo una grossa boccata d’aria <<A volte due di loro, insieme, nello stesso tempo, prendevano lo stesso ragazzo, uno da… dietro e l’altro dal…>>

Paro la mano di fronte a me, per cercare di far capire come, visto che la parola non riesco a farla uscire dalla bocca. Mi fa troppo male il ricordo.

<<Ho capito. Basta così, non descriva più.>>, mi dice fermandomi. Poi si rivolge al giudice <<Vorrei che fosse messo a verbale che il testimone ha fatto un gesto con la mano che indicava chiaramente “davanti”.>>

<<Che sia messo a verbale!>>, ordina il giudice alla stenografa.

<<C’è un’altra cosa che facevano.>>, dico.

<<Vuole dirla?>>, mi chiede Mazuoka, quasi con tono paterno.

<<Sì.>>, rispondo <<A volte loro si divertivano a veder accoppiarsi i ragazzi fra loro. Li costringevano e se si rifiutavano li picchiavano a sangue. O li facevano picchiare dagli altri, con la solita minaccia di picchiarli a loro volta.>>, racconto <<E durante tutti questi spettacoli, facevano battute oscene.>>

Mazuoka annuisce. Cerco di guardare solo lui. Non ho il coraggio di guardarmi intorno.

(Fine della zona rossa)

<<Solo poche altre cose, Joe.>>, mi rassicura <<Lei ha mai subito abusi di carattere sessuale?>>

Scuoto la testa: <<No.>>

<<Perché lei no?>>

<<Perché mi sono ribellato.>>, rispondo <<La prima volta che cercarono di infilarmi qualcosa in bocca, gli dissi che l’avrei strappata a morsi se solo ci avessero provato, e che avrei cominciato a scalciare come un assatanato se avessero provato a fare la stessa cosa da dietro.>>

<<E questo bastò a fermarli?>>

Annuii: <<Forse… gli facevo paura perché piuttosto che lasciarmi umiliare in quel modo vomitevole preferivo morire, farmi picchiare a sangue.>>

<<E loro non si sono mai vendicati in qualche modo?>>, chiede.

Annuisco: <<Sì che me la facevano pagare.>>, rispondo <<Quando passavano per la sala mensa, mi rovesciavano il pasto a terra, e poi mi costringevano a mangiarlo. A volte mi salvava l’intervento di qualche altra guardia. Altre volte rovesciavano i bidoni della spazzatura sul pavimento che avevo appena pulito. Permettevano agli altri ragazzi, i loro leccapiedi, di maltrattarmi. A volte trovavo feci sul mio letto, o orina. Altre volte venivo picchiato dai ragazzi, con loro che restavano a guardare senza muovere una mano. Sghignazzando e ridendo. Una volta, mentre facevamo la doccia, io mi voltai un attimo di spalle, e mi arrivò una staffilata di coltello in piena schiena. C’erano solo ragazzi lì dentro. Non si poteva entrare con armi e cose del genere. Perché si entrava completamente nudi. Eppure qualcuno era riuscito a passare con un coltello a serramanico, e c’erano loro di guardia, quel giorno. Raramente mi picchiavano loro. Non volevano sporcarsi troppo le mani Mi prendevano a manganellate, se dovevano picchiarmi. E a calci. Coi pugni si sarebbero sporcati le mani. Quando mi facevano picchiare dai ragazzi, e mi riducevano in modo tale che non riuscivo nemmeno a muovermi, loro completavano l’opera orinando sul mio corpo. E spesso mi mandavano in isolamento, in quelle condizioni. Con l’odore della loro orina addosso e ogni parte del corpo dolorante.>>

Mazuoka attende un attimo, per fare in modo che le mie parole si imprimano bene nella mente di tutti i presenti, soprattutto dei membri della giuria.

<<Soltanto altre due cose.>, mi dice <<Perché prima ha specificato che lei non partecipava “attivamente” ai loro spettacoli perversi?>>

Sospiro, non vedendo l’ora che questa tortura finisca: <<Perché mi costringevano a vedere.>>

<<Capisco.>>

<<L’ultima cosa.>>, disse Mazuoka <<Quando ha visto l’ultima volta queste quattro guardie, che l’hanno insultata verbalmente, psicologicamente, fisicamente e che hanno cercato di abusare di lei?>>

<<Proprio oggi, in quest’aula di tribunale.>>

<<Sono presenti in questo momento?>>

<<Sì.>>

Mazuoka si scostò: <<Mi potrebbe dire dove sono? Me li potrebbe identificare e chiamarli per nome, uno per uno?>>

<<Sono seduti al tavolo della difesa, alla sinistra dell’avvocato.>>, rispondo guardandoli uno per uno mentre loro non hanno il coraggio di guardarmi in faccia <<Il primo alla sinistra dell’avvocato è Shinichi Nomura, alla sua sinistra c’è Kyosuke Ueda, il terzo, coi capelli un po’ più lunghi, è Eikichi Saboru, e l’ultimo è Takeshi Hasada.>>

<<L’ultima domanda.>>, mi assicura Mazuoka <<E’ a conoscenza di qualche segno particolare che possa provare che lei conosce effettivamente queste persone?>>

<<Nomura ha una cicatrice all’altezza dell’anca, perché si è operato di appendicite. Ueda ha un grosso neo circolare sopra la natica destra. Saboru ha la cicatrice di un ustione appena sotto l’anca sinistra Hasada ha una voglia a forma triangolare appena sopra il pube.>>

<<Basta così. Ho finito.>>, conclude Mazuoka dirigendosi verso il suo tavolo.

Nell’aula scende il silenzio più assoluto.

Il giudice si rivolge al tavolo della difesa: <<Avvocato?>>

L’avvocato guarda i suoi appunti sconsolato, cercando un qualunque appiglio. La strategia di Mazuoka è stata semplice. Da un lato ha chiarito a tutti che non ho avuto una vita facile sin da piccolo e che sono stato un mezzo delinquente. Dall’altro ha fatto capire che ciò è dovuto a quello che ho passato, a una società che non mi accettava e ha fatto capire che oggi sono un uomo diverso, con la beneficenza e le iniziative che ho intrapreso, silenziosamente, in favore degli orfani e col mio completo pentimento per ciò che ero. Ha tolto al suo avversario ogni arma e lo ha messo con le spalle al muro.

Alla fine scuote la testa, rassegnato: <<Nessuna domanda, vostro onore.>>

Il giudice annuisce e si rivolge a me: <<Può andare, signor Shimamura.>>

<<Grazie, vostro onore.>>, dico finendo il mio bicchiere d’acqua e alzandomi dal banco dei testimoni.

Mi dirigo verso il corridoio, pensando solo a uscire in fretta da quell'aula.

<<Io ti ammazzo, maledetto bastardo!!!>>

Quella voce viscida e inconfondibile che mi ritorna nelle orecchie. Nomura è balzato in piedi come un felino, e adesso le sue mani sono attorno al mio collo. Ripresomi dalla sorpresa comincio a staccare quella specie di tenaglie attorno al mio collo, senza neanche fare troppi sforzi. Lo stacco da me, e lo rispingo via, addosso al suo avvocato difensore.

Lui fa per saltarmi addosso di nuovo, ma due guardie lo prendono e lo portano via. Resto a guardare fino a quando non esce dall'aula. Mi sembra la fine di un incubo.

 

La sua scrittura si era fatta tremante.

 

… E questo è tutto, Françoise. Cioè tutto quello che dovevo raccontarti. Mi chiedo se abbia fatto bene a scriverti tutto questo. Non sono sicuro di volerti far passare attraverso il mio inferno personale, nella sua parte più oscura e squallida. Anzi, non vorrei proprio farlo.

Sai, hai ragione quando dici che non è possibile vedere la nostra trasformazione in cyborg come una fortuna. Non lo è. E’ vero. Ma è anche vero che, guardando indietro in tutta la mia esistenza, le cose migliori mi sono capitate da quando sono un cyborg. Da allora ho trovato degli amici veri, un padre come il dottor Gilmore, qualcosa che potevo chiamare famiglia.

E ho trovato l’amore, con te. Ho saputo cosa voleva dire veramente amare, grazie a te. Tutto il resto, quelle che ci sono state prima di te, non mi avevano mai fatto scoprire così a fondo questo sentimento. Io, che ormai avevo paura di lasciarmi andare troppo, perché tutte le persone che avevo amato sono via via scomparse dalla mia vita. Tu no. Tu non lo faresti mai. Lo so.

Non lo farai neanche adesso, se avrò il coraggio di darti questa lettera. Mi resterai accanto, nonostante tu sappia il male che ti fa venire a sapere tutti questo. Il male che ti farà vedermi soffrire mentre lo dovrò raccontare a tutti in aula tribunale.

Lo so che mi resterai accanto. E io ne avrei bisogno. Avrei bisogno di te. Ma tu hai bisogno di passare attraverso tutto questo. E’ giusto coinvolgerti?

No, non è giusto. Mi chiedo se non sia meglio lasciarti libera.

 

Ti amo, Joe.

 

Ripiego la lettera, sconvolta da quello che aveva appena letto. Sento le lacrime che ormai mi hanno gonfiato gli occhi, e che continuano, in un pianto silenzioso e dimesso. Joe si era tenuto tutto questo dentro di sé, per tutto questo tempo. Adesso capisco molte cose, e mi stupisco di scoprire tutto ciò che c’era dietro, e che io avevo minimizzato, senza dare troppa importanza.

Capisco perché non aveva mai voluto fare l’amore con me standomi dietro, se non cercando il contatto totale col mio corpo, in modo da farlo sembrare diverso da quello che a lui doveva ricordare una specie di incubo. E capisco anche perché non aveva mai voluto che le mie labbra si spingessero oltre un certo limite, e perché era sbiancato in quel modo quando gli avevo chiesto se lo avrebbe voluto, visto che lui lo faceva a me. Non era sbigottimento per un’audacia di cui io stessa mi ero stupita. Era paura. Paura di un qualcosa di terribile che affiorava nella sua mente.

Ecco perché non mi ha voluto dire il motivo per cui  mi lasciava. Adesso comprendo, e mi sentivo sprofondare al pensiero di quante volte ho insistito per sapere il perché.

Ecco perché mi ha raccontato della cicatrice sulla schiena e di come se l’era procurata. Ha voluto mettermi alla prova. Vedere come avrei reagito. E già allora, forse, aveva preso la sua decisione finale.

Sì, è vero. Gli sarei rimasta accanto comunque, adesso più che mai. Ma lui non me lo ha permesso. Tuttavia, adesso che tutto è chiaro, capisco che è stato veramente un atto d’amore, quello di Joe, per quanto non riuscirò mai riuscita ad accettarlo e per quanto avrei voluto stargli accanto. A modo suo, ma Joe mi ha dimostrato di amarmi. Aveva preferito staccarsi da me piuttosto che farmi vivere il suo incubo.

E anche adesso che so il suo dolore, quello che ha passato, non posso fare niente per lui. Perché Joe non sa che io so. E non posso dirgli che sono venuta a sapere tutto. Non me la sentiva di dargli questo colpo.  Ecco, adesso sono io a comportarmi da vigliacca.

 

<<Won’t stop before I find a cure for this cancer.>>, da “In the shadows”, The Rasmus[34]

 

<<When you cried, I'd wipe away all of your tears. When you'd scream, I'd fight away all of your fears. I held your hand through all of these years. But you still have all of me.>>, da “My immortal”, Evanescence[35]

 

 

Epilogo

 

 

Sono le dieci di sera. Busso alla porta dello studio del dottor Gilmore.

<<Avanti.>>

Apro la porta. Il professore sta riordinando delle carte alla sua scrivania.

Mi avvicino a lui: <<Professore…>>

<<Ti devo fare i miei complimenti, Joe.>>, mi interrompe <<Sei stato veramente coraggioso oggi in aula. Non ci sarebbero riusciti in molti.>>

Stringo le labbra, annuendo appena: <<Io non ho subito l’umiliazione peggiore. Non riesco a biasimare tutti quelli che hanno rifiutato di salire su quel banco.>>

Gilmore annuisce, guardandomi con sguardo paterno. Poi sembra come ricordarsi: <<Ah, già. La vecchiaia…>>, sospira <<Ha telefonato Mazuoka, mentre dormivi. Ha detto di ringraziarti, e che comprende quello che hai provato, anche se non riuscirà mai a capire del tutto. La tua testimonianza li ha messi al muro. E non solo. Oggi alcuni tuoi ex compagni del riformatorio gli hanno telefonato e gli hanno detto che testimonieranno.>>, dice studiando la mia reazione sul mio volto <<Avete vinto, Joe.>>

Resto qualche istante in silenzio, chiedendomi che cos’è che ho vinto. Forse… sì… la liberazione da un incubo che era rimasto latente nella mia mente troppo a lungo.

<<Grazie professore.>>, gli dico sorridendo per la prima volta in tutta la giornata <<Forse ora non servirà più ma… potrebbero richiamarmi al banco dei testimoni e chiedermi perché tutte le cicatrici che dovrei avere sul corpo sono scomparse…>>

<<E io dovrei testimoniare che ti ho fatto un’operazione di chirurgia plastica per toglierle… chissà. Magari perché alle donne non piacciono molto.>>, concluse lui impilando una risma di fogli a sbattendoli nelle sue mani sulla scrivania <<Nessun problema. In fondo è la verità. Ed è anche vero che tutti i documenti relativi a quell’intervento sono scomparsi… insieme alla prima base dei Fantasmi Neri. Ma io dirò solo la prima parte.>>

Sorrido di gratitudine: <<La ringrazio, professore.>>

<<E di che?>>

Squilla il telefono. Gilmore guarda l’apparecchio sulla sua scrivania, probabilmente domandandosi chi poteva essere a quell’ora. Alza la cornetta al secondo squillo.

<<Pronto?... Ah... salve… Sì, certo che è qui. Resti in linea, eh.>>, riattacca <<E’ per te. Vai a prendere la chiamata da un altro telefono. Qui ho ancora da fare.>>

<<E chi è?>>

<<Mazuoka.>>, risponde ritornando alle sue carte <<Ha detto che si è dimenticato di dirti una cosa importante.>>

Lo guardo perplesso e esco dalla stanza, dirigendomi verso la sala. Mi siedo sulla poltrona dalla quale ho raccontato tutta la fine della mia storia con Françoise al dottor Gilmore, e alzo la cornetta: <<Pronto?>>, dico con voce stanca. Effettivamente non ne posso più di quella storia.

Silenzio. Si sentono solo i disturbi della linea. Ora che mi viene in mente, si sente un po’ troppo male per essere una chiamata da appena una quarantina di chilometri da lì. Sembra più un’internazionale…

La mia voce non lascia nemmeno che il cervello elabori il pensiero: <<Françoise! Sei tu?! Dimmelo! Ti prego>>.

 

Aspetto ancora qualche istante, perché so di avere la voce spezzata. Ma… in fondo… chi se ne frega: <<Buon compleanno, Joe.>>

<<Françoise… allora sei veramente tu.>>

Sono sull’orlo del pianto: <<Mi fa piacere che ti ricordi ancora la mia voce.>>

<<Come potrei dimenticarla?>>, mi risponde dall’altro capo del mondo <<Io non speravo più di sentirla.>>

<<Io avevo bisogno di sentire la tua.>>, gli rispondo. E sono sincera. Me ne sono accorta solo adesso di quanto avessi bisogno di sentire la sua voce.

Lui resta in silenzio qualche secondo: <<Ecco che ci risiamo.>>

<<Dove?>>

<<Al punto di non partenza.>>, risponde lui <<Dove continuiamo a rincorrerci come la testa di un cane e la sua coda.>>

Sorrido, tra le lacrime che scendono.

 

<<Hai ricominciato a ballare?>>, le chiedo, cercando di sviare la conversazione da pensieri troppo tristi per tutti e due.

<<Sì… acclamata a gran voce come prima ballerina de l’Opera.>>, risponde con la voce un po’ incerta. Sta piangendo <<Dalla prossima stagione. Mi sembra un sogno…>>

<<Te lo meriti.>>

Silenzio, in sottofondo di lacrime: <<E tu cosa farai. Riuscirai a stare lontano dalle corse ancora per molto?>>

Scuoto la testa, anche se lei non mi può vedere: <<No… ho già qualche contatto. Un pilota si è fatto piuttosto male in prova… e dovrà stare fuori per il resto della stagione. Mi hanno offerto il suo posto… Una BRM[36]… una buona macchina. Rientrerò in gioco in Belgio, a giugno.>>

 

<<Posso venirti a trovare?>>

Un lungo silenzio, di cui già immagino la conclusione: <<Non sono ancora pronto, Françoise.>>

Annuisco: <<Non sei ancora pronto… allora vuol dire che un giorno potresti esserlo.>>

 

Non è una domanda è un’affermazione. E io non me la sento di mentire: <<Un giorno… lo sarò.>>, rispondo <<Prima o poi.>>

<<E allora aspetterò quel giorno.>>

Curvo appena le labbra in una specie di sorriso: <<Potrebbe volerci molto, molto tempo. Sei sicura di riuscire ad aspettare così tanto?>>

 

<<Sai che ho molta pazienza. So aspettare.>>, rispondo asciugandomi l’ultima lacrima dal viso <<Il tempo non mi fa paura. In qualunque momento, per qualunque cosa tu abbia bisogno di me, sai dove trovarmi.>>

Silenzio: <<Sei un tesoro, Françoise. Un tesoro che io ho buttato via.>>

<<No, tu sai sempre dove lo puoi trovare. E solo tu hai le chiavi del forziere.>>, dico accennando un mezzo sorriso <<Vorrei solo saper cosa siamo, io e te? Non siamo due fidanzati, non possiamo più essere due semplici amici… Cosa siamo, Joe?>>

 

Bella domanda. L’amicizia resta. C’è sempre stata, anche quando stavamo insieme. Era una cosa non subordinata all’amore, ma che stava allo stesso piano. Lei era la mia ragazza, e anche la mia migliore amica. Ma adesso che non stiamo più insieme, definirci amici… ci sta troppo stretto.

<<Joe e Françoise.>>, rispondo <<Ecco cosa siamo.>>

 

Nota della Terza Persona: Qui è chi ha guardato e trascritto questa storia con gli occhi indiscreti e anonimi della terza persona. Interviene per raccontarvi come è andata a finire.

Poco più di un mese dopo il processo si concluse, senza che Gilmore dovesse salire sul banco dei testimoni. La difesa sapeva di non avere speranza e cercò solo di limitare i danni, cercando il patteggiamento. Che fu negato dall’accusa.

La giuria restò in camera di consiglio appena una quarantina di minuti. Gli imputati furono riconosciuti tutti e quattro colpevoli, di tutte le imputazioni a loro carico. E passarono il resto della loro vita in carcere. Non perché presero l’ergastolo. Ma perché la yakuza[37] e le altri correnti mafiose che erano rinchiuse nelle carceri giapponesi, mal sopportavano chi abusava dei minori. Avevano dei figli di quell’età anche loro.

Piano piano, morirono, uno alla volta, in circostanze misteriose e strani incidenti. Ma nessuno si preoccupò mai di fare un’indagine sulla loro morte.

Per quanto riguarda chi, fino ad adesso, vi ha raccontato questa storia… beh, quella è un’altra storia ancora, anche se alla fine è sempre la stessa, che non si può raccontare in poche righe.

Magari un giorno la terza persona la racconterà, a modo suo. O forse la lascerà raccontare ai suoi protagonisti, limitandosi a trascriverne i pensieri. Ancora una volta.

Per il resto, magari penserete che a volte avrei potuto fermarmi, non essere così crudele da trascrivere proprio tutto, fin nei minimi particolari. Ma ho scritto solo ciò che pensavo sarebbe stato necessario alla vostra comprensione. Ditemi: sarebbe stata la stessa cosa senza sapere che cosa pensavano l’uno e l’altro mentre si amavano per l’ultima volta? Sarebbe stato lo stesso senza sapere cos’è che ha spinto lui a una scelta del genere?

Vi assicuro che anch’io, terza persona indiscreta al servizio di voi lettori, ho sofferto. E mentre trascrivevo il racconto di Joe sentivo quasi le viscere torcersi per il disgusto di quello che stavo trascrivendo, e spesso sono stata sul punto di fermarmi. Ma l’uomo può arrivare anche a questo signori miei. E forse  l’ennesima riprova che si fa fatica a capire chi sia l’umano, e chi non lo sia.

 

<<Someday, somehow, I’m gonna make it allright, but not right now. I know you’re wondering when.>>, da “Someday”, Nickelback[38]

 

<<I need to know that you’ll come back to me... back to me. And you’ll come back to me, in my arms.>>, da “Yashal”, Elisa[39]

 

 F I N E

 

Prima di lasciarvi ci sono dei piccoli credits da fare.

Il titolo è ispirato a Fine di una storia (1999), di Neil Jordan, con Ralph Fiennes e Julianne Moore. Non che il fim mi piacca granché (Jordan ne ha fatti di migliori), ma va dato a Cesare quel che è di Cesare.

La storia del riformatorio riguardante Joe, è ispirata alla vicenda raccontata in Sleepers (1996), di Barry Levinson, con Ray Liotta, Brad Pitt, Robert De Niro, Dustin Hoffmann, Kevin Bacon, Vittorio Gassmann, Jason Patric. Riguardo a questa situazione della fic, ammetto non ho avuto il coraggio di umiliare Joe più di così.

Il nome del "riformatorio degli orrori" è una specie di traslitterazione storpiata di Shawshank. E' il nome del carcere dove si svolgono le vicende di The shawshank's redemption, un racconto di Stephen King contenuto nella quadrilogia di Stand by me - Stagioni diverse, edito in Italia dalla Sperling & Kupfer. Racconto che è poi stato trasposto sul grande schermo in Le ali della libertà, di Tim Robbins, che è anche il protagonista prinicipale, e con Morgan Freeman. La battuta che fa Joe quando dice che avrebbe strappato a morsi qualunque cosa gli avrebbero messo in bocca, è quasi una citazione letterale tratta dal libro.

L'ultima battuta che si scambiano Joe e Françoise è un calco di una battuta di una puntata di Dawson's Creek.

Infine vi faccio notare come le note siano 39. E giuro che non l'ho fatto apposta.

 

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[1] Trad.: <<Dobbiamo sempre ascoltare entrambi i lati della storia.>>

[2] Vedi Rivelazioni. Alla stessa fic si fa riferimento altre volte nel corso di questo racconto.

[3] Trad.: <<Se potessi, tu sai che lo farei. Se potessi mollerei tutto. Questa disperazione, dislocazione, separazione, condanna, rivelazione.>>

[4]  Trad: <<Anche se un giorno rimanessi sola, non cambierò. Non è il mio modo di fare. Davanti a me c’è una strada che conosco. Quella che ho deciso di seguire.>>

[5] Trad.: <<Il silenzio è facile. Mi si addice proprio.>>

[6] Trad.: <<Vorrei far tornare indietro le ore, ma so che non ne ho il potere. Potrebbe essere più difficile dire addio, e stare senza di te? Potrebbe essere più difficile guardarti andar via e affrontare la verità? Se io avessi soltanto un giorno in più…>>

[7] Trad.: <<Ho trovato un modo per farti sorridere.>>

[8] Trad.: <<Per quello che vale, ti amo. E, quel che è peggio, ti amo veramente.>>

[9] Trad: <<Grazie di amarmi. Di essere stata i miei occhi, quando non riuscivo a vedere. Di aver separato le mie labbra quando non riuscivo a respirare.>>

[10] Trad: <<”Love” è un verbo, “Love” è una parola attiva.>>

[11] Trad.: <<Sarei capace di passare la mia vita in questa dolce resa. Potrei perdermi in questo momento per sempre. Beh, ogni momento passato con te è un momento di cui fare tesoro. Non voglio chiudere gli occhi. Non voglio dormire. Perché mi mancheresti, piccola. E io non voglio che mi manchi nulla.>>

[12] Trad.: <<Doveva essere amore, ma è finito adesso. Doveva essere qualcosa di buono. Ma in qualche modo l’ho perso.>>

[13] E’ un piccolo accorgimento. Il bicarbonato fa in modo che le rose rimangano fresche più a lungo che con la sola acqua.

[14] Trad.: <<Non riesco a uscire. Non c’è nessuna via d’uscita da qui. Non riesco a fare chiarezza.>>

[15] Trad.: <<Sei come il bacio ricevuto da una rosa nel grigiore.>>

[16] Non è un leziosismo. Con questo termine, sarebbe più indicato dire “titolo”, si indicano quelle ballerine, poche, che sono la punta di diamante della loro compagnia.

[17] Trad.: <<Non sto cercando un’assoluzione. Perdono per ciò che sto facendo. Ma prima che tu giunga a una qualunque conclusione, prova a metterti nei miei panni.>>

[18] Trad.: <<Quando sono in cerca di sincerità, dimmi dove altro posso rivolgermi? Perché tu sei la persona da cui io dipendo.>>

[19] Japan Air Lines

[20] Tokyo Giants. Sono una squadra di baseball.

[21] L’aeroporto di Nagasaki non è sulla terra ferma, ma si trova in mezzo al mare.

[22] Trad.: <<Cammina. Vai avanti. Cammina fino a correre e non voltarti indietro, perché io sono qui.>>

[23] Trad.: <<Noi eravamo una cosa sola, ma non eravamo gli stessi. Ci facciamo male l’un l’altro, e poi lo facciamo ancora. Tu dici che l’amore è un tempio, l’amore è una legge superiore. L’amore è un tempio, l’amore è la legge superiore. Mi chiedi di entrare, ma poi mi fai strisciare a terra. E io non posso rimanere attaccata a tutto ciò che hai, se tutto ciò che hai è dolore.>>

[24] Honshu è l’isola principale del Giappone, quella dove si trova Tokyo per intendersi.

[25] Rudolf Nureyev, famosissimo ballerino russo. Forse il più grande di tutti i tempi.

[26] Trad.: <<No, non posso dimenticare il domani, quando penso a tutti i miei dispiaceri. Quando ti avevo qui, e ti ho lasciata andar. E ora è solo giusto che io ti faccia sapere ciò che dovresti sapere.>>

Per la cronaca, questa è al stessa canzone che conoscete dalla voce di Mariah Carey, solo che lei ne ha fatto una cover, mentre l’originale è di Harry Nilsson

[27] Trad.: <<Mi sto prendendo in giro, perché tu dici di amarmi, e lo fai di nuovo. Dici che ti dispiace, e lo fai ancora.>>

[28] E’ lo stadio di calcio di Marsiglia. L’Olymipique è appunto la squadra locale.

[29] Se non erro, l’aeroporto “Paris – Charles De Gaulle” fu inaugurato nei primi anni ’70.

[30] Qui si intende il mobile con specchio.

[31] Trad.: <<Di’ che resterai, per sempre e un giorno, nella mia vita. Perché io ho bisogno di più tempo. Sì, ho bisogno di più tempo per mettere le cose a posto.>>

[32] Trad.: <<Soltanto pezzi di verità che ho deciso di ricordare. Non importa se non ci sono più. Non importa se sono sola. Posso ancora rialzarmi e camminare. E come so che c’era qualcosa da imparare, so che ci sarà sempre qualcosa per vale la pena di andare avanti.>>

[33] Sto dando numeri a caso. Non conosco le effettive pene per questi reati. E colgo l’occasione per informarvi che non conosco il sistema giudiziario giapponese. Quindi non so se un processo si svolga in modo così “americano”. San Giovanni Grisham dei legal – thriller aiuta questa tua indegna allieva…

[34] Trad.: <<Non mi fermerò fino a quando non avrò trovato la cura per questo cancro.>>

[35] Trad.: <<Quando piangevi, io avrei asciugato tutte le tue lacrime. Quando gridavi, avrei lottato contro tutte le tue paure per mandarle via. Ti ho tenuto la mano per tutti questi anni… Ma tu mi possiedi ancora completamente.>>

[36] Era una marca della Formula Uno dell’inizio degli anni ’70.

[37] La rinomata mafia giapponese.

[38] Trad.: <<Un giorno o l’altro, in un modo o nell’altro, metterò le cose a posto. Ma non adesso. So che tu ti stai chiedendo quando.>>

[39] Trad.: <<Ho bisogno di sapere che tornerai da me… da me. E tornerai da me, tra le mie braccia.>>