Risvegli

di Laus

 

Prologo
Parte I
Parte II
Parte III
Parte IV
Parte V
Parte VI
Parte VII
Parte VIII
Parte IX
Parte X
Parte XI
Parte XII
Parte XIII
Parte XIV
Parte XV
Parte XVI
Parte XVII
Epilogo

 

Prologo

 

Era quasi mezzogiorno di un mite giorno di settembre. L’estate era ormai agli sgoccioli, ma il cielo era sereno. Solo la temperatura, non troppo alta, ma neanche bassa, lasciava intendere che l’autunno era alle porte.

Una macchina decappottabile sfrecciava veloce sulla strada vuota. Era sola, visto che quelle zone non erano mai troppo frequentate. La ragazza al volante cominciava ad avere qualche dubbio sul fatto di aver preso o meno la strada giusta. E tra l’altro la benzina stava per finire. Non c’era nessuno in giro e non vedeva una macchina da un bel po’, né case, né persone. Alla sua destra poteva vedere solo la distesa marina dell’oceano Pacifico. Scosse la testa dietro i suoi occhiali da sole e accostò la macchina sul ciglio della strada. Prese la borsetta che teneva sul sedile del passeggero e vi frugò dentro. Dopo un po’ ne estrasse un foglietto e lo consultò attentamente.

<<Eppure ho seguito tutte le indicazioni alla lettera.>>, disse scuotendo il capo un’altra volta.

Rialzò la testa e guardò la strada, che sembrava essere ben lontana dal portare in qualche luogo abitato. Scese dalla macchina e restò in piedi accanto ad essa guardandosi attorno. Solo alberi e alberi sulla sinistra e il solito mare sulla destra. Colline e falsopiani a perdita d’occhio. E nessun segno di vita. Cominciò a sentire un moto di disperazione montargli dentro. Se anche avesse voluto tornare indietro, la benzina sarebbe finita ben prima di incontrare i primi segni di civiltà che si era lasciata alle spalle.

<<C’è qualche problema?>>

La ragazza, che stava guardando il mare, trasalì nel sentire la voce alle sue spalle. Profonda e calma, certamente di un uomo. Aveva paura di voltarsi. E se avesse avuto cattive intenzioni? Tuttavia si rese conto che era l’unica forma di vita che incontrava da chilometri e chilometri a questa parte e che, quindi, si trattava forse della sua ultima speranza.

Si voltò lentamente e quello che vide non fece che aumentare il suo tasso si timore. Si trovò di fronte, sull’altro lato della strada, quello dalla parte delle foreste, c’era un bestione di almeno due metri. Aveva almeno il 14[1] di piede, due gambe che sembravano due tronchi d’albero, un torace largo e possente e due spalle così larghe da poter coprire tranquillamente due uomini, e sopra di esse portava un enorme carico di legna. Realizzò a malapena quanto fosse strano che un pellerossa si trovasse lì, in una strada semideserta in pieno Giappone. Realizzò molto più prontamente che tale bestione aveva un’accetta in mano e allora l’impulso di risalire in macchina e correre il più lontano possibile da lì fu fortissimo.

<<Ha qualche problema?>>, ripeté l’uomo (ma era un uomo?) rimanendo con un’espressione impassibile e con lo stesso tono calmo e pacato di prima.

La ragazza sospirò profondamente.

“Forse non è cattivo…”, pensò.

<<Cre.. credo… ecco, io credo di essermi persa.>>, disse deglutendo e cercando di mantenere la voce ferma.

L’uomo (o qualunque cosa fosse) annuì lentamente: <<Dov’è diretta?>>

<<Ehm… sto cercando il Centro di Ricerche Gilmour.>>

Un lampo passò negli occhi dell’uomo (o qualunque cosa fosse), che inarcò le sopracciglia: <<Posso chiederle il motivo per cui è diretta là?>>

La ragazza si sentì ancora più a disagio… o meglio, terrorizzata. Non sapendo cosa dire, decise di dire la verità: <<Beh, ecco… io… io sto cercando mio zio. E’ stato lui a invitarmi là e a darmi le indicazioni per arriavarci… Perché lei… lei co.. conosce il posto… sa dov’è?>>

L’uomo (o qualunque cosa fosse) restò in silenzio qualche secondo, guardandola perplesso.

<<Posso chiederle chi è suo zio?>>, chiese infine con la solita voce placata e impassibile.

La ragazza deglutì: <<Isaac Gilmour… il dottor Isaac Gilmour.>>

 

Parte I

 

<<Uh… è arrivata un’automobile.>>, disse Françoise improvvisamente, alzando gli occhi dalla rivista che stava leggendo.

Jet, che era sul balcone guardando l’oceano, sorrise: <<Sei così ossessionata da Joe che lo aspetti come un cagnolino che attende il ritorno del padrone.>>

<<Stupido!>>, rispose lei stizzita <<Questa non è la macchina di Joe!>>

<<Visto? Riconosci addirittura il rumore del motore.>>, disse Jet voltandosi completamente verso la stanza.

<<Beh, direi che oltre al fatto che non può essere la mia macchina perché io non sono uscito,>> intervenne Joe venendo giù dalle scale e andandosi a sedere accanto a Françoise <<aggiungerei che il rumore della mia auto è piuttosto inconfondibile.>>

<<Ok, ok. Scusa se ho osato toccarti la ragazza.>>, disse Jet portando le mani avanti e scuotendo la testa.

<<Jet, non è che sei invidioso?>>, disse Albert alzandosi dalla poltrona e stirandosi.

Jet strabuzzò gli occhi: <<Io invidioso?! Che accidenti stai blaterando?! Ti ha dato di volta il cervello?! Ah, ho capito!>> disse schioccando le dita <<Oggi è il tuo compleanno e l’anno in più ti ha fatto dare di matto.>>

<<Beh,>> disse Bretagna spaparanzato sul divano a leggere un giornale <<quella di Albert era solo una domanda innocente.

<<Comunque dovresti imparare a essere più gentile con il gentil sesso.>>, sentenziò Chang in piedi in un angolo della stanza a fumare la sua pipa.

Jet sbuffò: <<Hai qualcosa da dire anche tu Punma, oppure il processo è finito?>>

Punma, seduto sullo stesso divano di Bretagna, alzò le spalle: <<Hanno già detto tutto loro.>>

In tutta risposta Jet si voltò di nuovo verso il mare: <<Mpff. Andate al diavolo.>>

Gli altri cinque presenti nella stanza si guardarono rassegnati al fatto che evidentemente Jet sarebbe stato più o meno intrattabile per il resto della giornata.

Si sentì il portone aprirsi e richiudersi. Dopo pochi istanti sulla soglia del salone apparve Geronimo di ritorno dalla sua passeggiata nei boschi a raccogliere legna. Ma non era solo.

I presenti guardarono incuriositi la ragazza che Geronimo aveva accanto a sé e che rispetto a lui sembrava quasi una bambina. Anche Jet  si portò sulla soglia del balcone, uscendo dall’isolamento nel quale si era appena rinchiuso.

La ragazza si tolse gli occhiali da sole, scoprendo due profondi occhi color nocciola in cui tutti notarono qualcosa di familiare. Appese gli occhiali al colletto della camicetta di seta bianco perla che indossava sopra un paio di pantaloni attillati di colore grigio che lasciavano scoperte due sottili caviglie. Aveva lunghi capelli castani in riccioli moderati raccolti dietro la testa con una pinza.

<<Ehm… buongiorno.>>, disse con un filo di voce, con voce piuttosto imbarazzata.

<<Oh, sei arrivata finalmente!>>

Tutti i presenti si voltarono verso il dottor Gilmour che stava scendendo le scale.

<<Questa è la mia nipotina.>>, disse una volta arrivato in fondo alle scale alzando un braccio verso la ragazza come si fa quando si introduce qualcuno <<Si chiama Julia. Questi, Julia,>> continuò riportando il braccio dietro la schiena <<sono…beh, sono i ragazzi che vivono insieme a me e mi aiutano in questo centro… te ne ho già parlato.>>

Julia annuì. Gilmour continuò le presentazioni, alzando un braccio e indicando con un dito ad uno ad uno i presenti in sala e dicendo il loro nome.

<<Immagino che tu abbia già avuto modo di fare la conoscenza del nostro Geronimo.>>, concluse Gilmour.

<<Sì.>>, annuì Julia sorridendo <<E’ stato molto gentile ad accompagnarmi fino a qui. Anzi mi devo scusare con lui per aver pensato che… insomma, ammetto che mi ha fatto un po’… paura all’inizio. Invece si è rivelato una persona molto gentile.>>

<<Oh, fa la stessa impressione a tutti.>>, disse Bretagna sorridendo a centoventi denti <<Intendo quella iniziale… la paura… poi basta conoscerlo.>>

<<Vado a mettere la legna nel deposito.>>, disse Geronimo lasciando la stanza.

Julia lo guardò uscire dalla stanza un po’ rammaricata: <<Ho detto forse qualcosa che non va?>>

<<No,>> disse Joe scuotendo il capo <<credo che tu l’abbia semplicemente messo un po’ in imbarazzo. Nulla di male.>>

<<Ehem…>>, tossì il professore <<Julia, non hai ancora abbracciato il tuo vecchio zio.>>

<<Oh, come ho potuto?!>>, disse scherzosamente lei avvicinadoglisi e abbracciandolo a lungo.

<<Vieni, ti conduco nella tua stanza.>>, disse Gilmour una volta che l’abbraccio si fu sciolto <<Immagino che sarai stanca.>>

Julia prese le sue valigie, che Geronimo aveva prima portato fino a lì.

<<Lascia… faccio io.>>, disse Joe alzandosi.

Ma una mano da dietro lo spinse giù sulla spalla e lo fece rimettere a sedere: <<Lascia fare a me.>>

Jet andò a prendere le valigie di Julia, che lo ringraziò, e seguì zio e nipote sulle scale.

<<E chi l’avrebbe immaginato che il professore avesse una nipote… e che nipote!>>, disse Bretagna quando i tre furono scomparsi.

<<Beh, sì… è carina.>>, convenne Albert <<Però un po’ troppo giovane per me.>>

<<Avrà sì e no dieci anni meno di te, Albert.>>, disse Punma <<Potresti farci un pensierino.>>

<<Spiritoso.>>, rispose lui sorridendo.

<<Tu dici che è carina, Albert. A me sembra bellissima.>>, intervenne Chang emanando anelli di fumo <<Come rimpiango i miei venti anni!>>

Bretagna rise: <<Tanto non credo che ti avrebbe degnato di uno sguardo anche se avessi avuto vent’anni, caro il mio vecchio Chang.>>

<<Tanto sarebbe stato in buona compagnia insieme a te, Bretagna.>>, disse Punma <<Il Club dei Cuori Infranti.>>

<<Siamo in pieno humour time, eh Punma?>>, disse Bretagna raccogliendo il colpo <<E tu Joe non hai niente da dire?>>

Joe sorrise, ma si trattava di un sorriso ironico: <<No, Bretagna. Per oggi ho già sprecato la mia occasione quotidiana di stare zitto.>>

Bretagna sembrò non capire. Poi notò che Françoise se ne stava visibilmente irritata, con le braccia conserte, accanto a lui, ma senza guardarlo, fissando un punto indefinito del pavimento.

La ragazza, sentendosi improvvisamente sotto osservazione, si alzò: <<Vado a prendere una boccata d’aria.>>, disse uscendo dalla stanza.

I cinque la guardarono uscire e poi gli occhi si spostarono su Joe.

<<Ho una cosa da fare. Scusatemi.>>, disse alzandosi a sua volta e uscendo dalla stanza.

Quando i quattro furono rimasti soli, restarono qualche attimo in silenzio.

<<Anche voi avete qualche motivo per cui vi girano?>>, chiese Albert rivolgendosi a tutti e tre <<No, perché se è così… cioè, è il mio compleanno… non è una cosa molto carina che tutti ce l’abbiano di traverso il giorno del mio compleanno.>>

I tre guardarono Albert e gradatamente cominciarono a lasciar trasparire l’ilarità che la battuta aveva provocato in loro. E anche Albert cominciò a ridere.

Qualcun altro aveva tutt’altro che voglia di ridere invece e se ne stava seduta sul promontorio, con le braccia attorno alle ginocchia raccolte al petto.

<<Ah, ecco dov’eri finita.>>

Joe si sedette accanto a lei.

Lei si limitò a guardarlo con sguardo tutt’altro che benevolo. Joe capì che i prossimi cinque minuti sarebbero stati tutt’altro che piacevoli e annuì gravemente.

<<Allora,>> disse <<fammi capire. Tu mi stai tenendo il muso perché volevo semplicemente essere gentile con lei.>>

Françoise fece un breve risolino, simile a un rantolo di esasperazione: <<Joe, abbiamo fatto molti viaggi insieme e…>> strinse leggermente gli occhi, quasi a mettere a fuoco qualcosa… o a cercare qualcosa nella sua memoria <<e non ricordo che tu ti sia mai offerto di portarmi le valigie.>>

Lui la guardò perplesso: <<Stai scherzando?>>

<<No, Joe. Ma il punto non è questo…>>

<<E quale sarebbe?>>

Lei fece di nuovo quella risatina di esasperazione, scuotendo la testa: <<Lo sai benissimo.>>

<<No, non lo so!>>, ribatté lui <<Io so solo che mi stai facendo una scenata perché ho voluto fare un gesto di cortesia nei confronti di un’ospite e non credevo che te la potessi prendere per una cosa tanto… superficiale.>>

<<Questa è bella!>>, sbottò lei <<La superficiale sarei io?!>>

<<Non ho detto che tu sia superficiale. Ho detto che il motivo per cui stiamo litigando è superficiale. C’è una bella differenza!>>

Françoise trasse un profondo respiro, distogliendo lo sguardo da lui. Non sapeva cosa dire. Non era nemmeno rabbia quella che covava dentro. Era qualcosa di diverso…

<<Che cosa devo fare perché tu abbia un po’ più di fiducia in me?>>

Sì, era questo. O meglio… qualcosa del genere. Touché.

<<Joe, io…>>

<<E perché a me sembra esattamente il contrario?>>

Françoise lo guardò. Si era messo a strappare i fili d’erba. Faceva sempre così quand’era nervoso. A un certo punto si fermò, mettendosi a tormentarne uno con le dita.

<<Ti ricordi quando eravamo rinchiusi in quella grotta, sepolti sotto le rocce e i massi?>>, le chiese.

Lei annuì.

<<Io avevo seriamente paura che tu morissi.>>, si voltò verso di lei <<E pensavo che se tu morivi, tanto valeva che morissi anch’io.>>

<<Joe…>>

<<Allora ti dissi che pensavo che potesse addirittura essere stata una fortuna essere stato… trasformato. Se mi sentissero gli altri mi ammazzerebbero… ma lo penso davvero… perché non ti avrei mai incontrato se non fosse successo. E il solo fatto di averti accanto mi… dà la forza di accettare questo corpo e… tutto quello che comporta.>>

Françoise respirò profondamente: <<Mi dispiace… sono stata una stupida.>>

Joe smise di tormentare il filo d’erba e le sorrise: <<Io lo sono stato tante volte. Ce ne vuole prima che tu mi raggiunga.>>

Lei si limitò a sorridere e ad abbassare lo sguardo.

<<Torniamo?>>, le chiese <<Comincio ad aver fame.>>

Lei annuì: <<Sì… è ora.>>

Joe si alzò e la aiutò ad alzarsi porgendole entrambe le mani e afferrando le sue. Poi la trasse a sé, facendo scivolare le braccia attorno alla sua vita, e la baciò sulle labbra.

Erano così presi l’uno dall’altro che nemmeno lei si accorse che Jet li stava guardando dalla finestra della camera di Julia.

Gilmour gli si avvicinò e guardò per un attimo la scena. Adesso non si stavano baciando, ma stavano semplicemente con le fronti attaccate a dirsi parole per loro inarrivabili.

<<Jet?>>, disse guardando con la coda dell’occhio.

<<Hmm?>>

<<Chiudiamo la finestra? Comincia a fare un po’ freddino.>>

Jet gli rivolse la coda dell’occhio a sua volta, poi tornò a guardare la scena. Ma adesso i due si stavano allontanando dal promontorio, tornando verso la casa. Joe la teneva a sé con un braccio e continuavano a parlare e ridere.

<<Non è molto carino spiarli.>>, disse Gilmour.

Jet annuì: <<Lo so… è che… non mi fraintenda… io sono contento per loro.>>

<<E allora?>>, chiese il dottore inarcando le sopracciglia.

<<E’ che forse Albert ha ragione.>>

Gilmour lo guardò con aria interrogativa: <<Cioè?>>

In quel momento Julia rientrò nella stanza: <<Scusate se vi ho fatto aspettare.>>

<<Figurati.>>, disse Gilmour dimenticandosi completamente di Jet e delle sue elucubrazioni.

Jet li guardò uscire dalla stanza per dirigersi giù, dove il pranzo sarebbe stato servito a momenti. Poi tornò a guardare fuori, ma ormai non c’era più nessuno. La voce di Chang che chiamava tutti a raccolta per il pranzo gli giunse all’orecchio. Jet dette un’ultima occhiata fuori. Qualche gabbiano volava alto nel cielo, probabilmente alla ricerca di cibo. Si allontanò dalla finestra e uscì dalla stanza.

 

Parte II

 

<<Complimenti al cuoco.>>, disse Julia ripiegando il tovagliolo con cura e riponendolo sul tavolo <<Era tutto buonissimo.>>

Chang annuì come se Julia avesse detto la cosa più ovvia del mondo: <<Finalmente qualcuno che apprezza la mia arte culinaria.>>

<<Non mi pare che nessuno di noi abbia mai disprezzato.>>, disse Albert <<Ammetterai però che sei un po’ monotono a volte. Insomma… sempre cucina cinese alla lunga stanca.>>

<<Se ho capito bene provenite tutti da paesi diversi.>>, intervenne Julia <<Perché non cucinate a turno? Così variate un po’.>>

<<L’idea era stata paventata…>>, rispose Bretagna <<ma per usufruire della cucina… o meglio, del santuario, ci vuole il permesso scritto e firmato di mister Chang.>>

<<A dire il vero sei tu che ti sei rifiutato.>>, disse Punma <<”Io, un grande attore come me, ai fornelli… non sia mai!”>>

L’imitazione che Punma aveva appena fatto di Bretagna era così credibile che tutta la tavolata si mise a ridere, tranne Bretagna ovviamente.

<<La cucina inglese non è questo granché… non ci siamo persi niente.>>, disse Albert.

<<Würstel e crauti sono senz’altro un piatto di alta cucina.>>, ironizzò Bretagna.

<<Non ho mai sostenuto il contrario.>>, disse Albert <<Ma quantomeno sono gustosi.>>

<<Come un pugno nello stomaco.>>, continuò Bretagna.

<<Sembrate due bambini.>>, intervenne Françoise divertita.

Albert e Bretagna la guardarono accigliati.

<<Com’è che mademoiselle non è intervenuta nella discussione esaltando l’indubbia eccellenza della cucina francese?>>, chiese Bretagna come se stesse recitando una battuta su un palcoscenico.

<<Perché è una cosa ovvia.>>, rispose lei e prima che Bretagna potesse ribattere <<E mi sembra che l’ultima volta che sono andata in Francia, qualcuno mi abbia pregato di portargli una buona scorta di paté di Foigrais, qualche bottiglia di Bordeaux, due o tre tipi di formaggi tipici e… cos’altro mi avevi chiesto?>>

<<La senape… quella fatta come Dio comanda.>>, rispose Bretagna sconsolato.

<<Che ti sei mangiato con i würstel che io ho portato dalla Germania.>>, intervenne Albert cogliendo la palla al balzo.

<<Ve l’ha mai detto nessuno che i vostri paesi sono in periodo di pace adesso?>>, disse Jet improvvisamente <<Voi europei siete sempre lì a punzecchiarvi su ogni cosa.>>

I tre “europei” guardarono prima lui e poi si scambiarono uno sguardo fra di loro.

<<Fa parte del gioco.>>, disse Albert <<Finché ci limitiamo a litigare di cucina o cose del genere non credo ci sia niente di male. Magari in Europa si fosse litigato solo di cucina nel corso dei secoli.>>

<<E d’altronde negli Stati Uniti succede più o meno la stessa cosa.>>, intervenne Geronimo con la sua solita voce calma e pacata <<Invece di litigare con gli stati confinanti si litiga fra irlandesi, italiani, asiatici, messicani, portoricani… nativi… e tanti altri.>>

Jet respirò profondamente e annuì: <<Hai ragione… non è molto diverso.>>

<<Siete ammirevoli.>>, intervenne Julia <<Nonostante le differenze generazionali, di nazionalità e culture vi rispettate e si vede che siete molto legati fra di voi. Mi chiedo quale sia lo straordinario collante che vi tiene insieme.>>

Gli altri si guardarono tra di loro perplessi, senza sapere bene cosa rispondere. Non avevano chiesto a Gilmour delucidazioni in merito a quanto Julia sapesse di loro, e quindi non sapevano fino a che punto potevano parlare.

<<Forse,>> disse Joe dopo qualche momento di silenzio <<vivendo e… lavorando insieme… ci siamo accorti che le differenze sono molto meno importanti delle cose che abbiamo in comune… come quello in cui crediamo e che pensiamo sia veramente importante. Probabilmente è qualcosa dal gusto estremamente retorico e banale, ma io credo che noi tutti non ci vediamo come due americani… e mezzo, un cinese, un inglese, eccetera… o come 5 bianchi, 2 gialli, 1 nero, 1 rosso. Siamo anche questo, ma siamo innanzitutto esseri umani.>>

Scese uno strano silenzio, di quelli che si formano quando nessuno sa bene cosa dire.

<<Beh, io mi aspettavo un applauso di almeno dieci minuti.>>, disse improvvisamente Joe per riaccendere l’ambiente.

<<Sono veramente parole molto belle, Joe.>>, rispose Julia.

<<Proporrò la tua candidatura al Premio Nobel per la Pace.>>, disse Jet che ora sembrava aver riacquistato un po’ di buon umore.

<<Julia, perché tuo zio non si è degnato di dirci nulla di te. Vorresti rimediare?>>, cambiò argomento Françoise.

<<Ah, beh…>>, rispose la ragazza <<Sono una ricercatrice. Sto preparando una specie di trattato. E per questo devo passare qualche tempo in Giappone. Vivo qui da circa sei mesi… in un centro di ricerca sull’isola di Hokkaido, guidato dal professor Cook.>>

<<Trattato su cosa?>>, chiese Joe.

Julia ci pensò un attimo, mordendosi le labbra, quasi avesse qualche scrupolo nel rivelarlo. Poi respirò profondamente: <<Si potrebbe dire che sia sui risvolti etici della cibernetica.>>

Ci fu qualche attimo di silenzio in cui gli altri presenti si scambiarono qualche sguardo i cui sottintesi erano ignoti alla ragazza.

<<Cioè…>>, disse Françoise <<tu stai facendo una specie di trattato su quanto sia eticamente giusta la cibernetica?>>

<<Sì, si può dire che sia così.>>

<<E qual è il tuo pensiero a riguardo?>>, chiese Jet, guardandola come se volesse già carpirgli la risposta dagli occhi.

<<Se penso che la cibernetica sia eticamente giusta?>>

<<Sì.>>

Julia guardò i presenti con un rapido sguardo, cercando di capire perché la stavano guardando così intensamente da farla sentire quasi sotto interrogatorio. Solo suo zio non la stava guardando con quello sguardo. Nei suoi occhi vi era una sorta di… compassione. Per cosa?

<<Io credo di sì.>>

<<Tu credi che sia giusto trasformare un uomo in un cyborg per… cosa?>>, chiese Jet che stava per dare di matto.

Julia lo guardò per un attimo, quasi a raccogliere tutta la sua convinzione: <<Ogni anni arrivano dai fronti centinaia di soldati colpiti in battaglia… sicuri di morire. Non sarebbe meglio porre fine alle loro sofferenze convertendoli in cyborgs e rendendoli nuovamente efficienti come soldati? Questo…>>

<<Ho sentito abbastanza… scusatemi.>>, sbottò Albert alzandosi dal suo posto e dirigendosi verso la porta della stanza.

<<Va bene!>>, quasi urlò Julia alzandosi a sua volta e sbattendo la mano aperta sul tavolo tanto forte da far fermare Albert e da farlo voltare di nuovo verso di lei <<Ho capito che non siete d’accordo con me, ma almeno dovete ascoltare le mie ragioni. In questo modo si potrebbero utilizzare meno esseri umani in guerra e nella gran parte dei casi un cyborg colpito sarebbe riparabile, mentre un essere umano colpito può morire.>>

Lo sguardo che sentiva su di lei non si mitigò nella sua durezza, anzi, vi poteva chiaramente avvertire una critica ancora più feroce.

<<Tutte qui le tue ragioni?>>, chiese Albert con una smorfia del viso.

<<Non ti bastano?>>

Albert scosse la testa con un sorriso cinico, come di chi cerca di far capire a qualcuno cose che lui non vuole comprendere e rinuncia all’impresa: <<Sono semplicemente ridicole. Parli di cose che nemmeno conosci.>>

<<Perché tu forse le conosci meglio di me?>>

Albert dette un rapido sguardo ai suoi compagni. A quel punto era evidente che lei non sapeva.

Scosse la testa e uscì dalla stanza sbattendo la porta.

Julia guardò di nuovo gli altri che erano rimasti seduti a tavola, ma che tenevano lo sguardo basso. Suo zio aveva chiuso gli occhi e adesso teneva le braccia conserte sul petto. Fu lui il primo a parlare, alzando gli occhi sulla nipote.

<<Julia, tu sai che io ho acconsentito a parlarti di questo argomento proprio perché non sono d’accordo col tuo punto di vista.>>

<<Sì, zio.>>, rispose lei rimettendosi a sedere <<Ma non credere di riuscire a convincermi facilmente delle tue posizioni.>>

<<Professore,>> intervenne Joe <<forse è meglio se vi lasciamo soli.>>

<<Mi farebbe piacere che voi restiate.>>, disse senza staccare gli occhi dalla ragazza <<Nella mia famiglia non esistono segreti.>>

Joe non ribatté, limitandosi a rimanere seduto al suo posto. Sentì la mano di Françoise prendere la sua. La strinse a sua volta, voltandosi appena verso di lei e sussurrando: <<Andrà tutto bene.>>, così a bassa voce che solo lei fosse in grado di sentirlo.

Lei gli sorrise appena, per far capire di aver sentito.

Gilmour si alzò in piedi e cominciò a camminare per la stanza, con le mani dietro la schiena. Si fermò la parola.

 

Parte III

 

<<Julia, tu fai lo stesso errore di valutazione che facevo io.>>, disse fermandosi davanti a una finestra, guardando fuori.

<<E sarebbe?>>, chiese lei come uno studente a cui si fa notare un errore.

<<Dimmi… che cos’è un cyborg?>>, le chiese voltandosi a centoottanta gradi e dando le spalle alla finestra.

Julia alzò le spalle come se quella fosse la domanda più semplice e naturale del mondo: <<Una macchina ottenuta da un essere umano.>>

Françoise strinse ancora più forte la mano di Joe, che a quelle parole aveva sentito una specie di brivido corrergli lungo la schiena.

Gilmour, dopo qualche attimo di silenzio, quasi avesse voluto far sentire bene il peso delle parole della ragazza, annuì: <<Una macchina…>>, ripeté lentamente calcando il tono sulla seconda parola.

<<Certo.>>, disse Julia quasi sorridendo.

<<Ottenuta da un essere umano.>>, ripeté nuovamente Gilmour sottolineando in particolar modo la prima parola.

Stavolta Julia si limitò ad annuire, come se suo zio stesse dicendo delle cose ovvie e scontate.

<<Julia, parli di esseri umani come se fossero… prodotti per la produzione industriale. Se io chiedessi cos’è la benzina e cambiassi due parole della tua frase direi: un carburante ottenuto dal petrolio.>>

<<Non capisco cosa stai cercando di dirmi.>>, disse Julia alzando le spalle <<Un cyborg è una macchina e questo è un dato di fatto.>>

Gilmour scosse la testa: <<Questo è quello che piace credere agli scienziati che vogliono giustificare il loro operato. Ma non mi stupisco… il tuo professore è quel pazzo di Cook, un uomo che ha avuto il coraggio di dire che tutti gli esseri umani andrebbero trasformati in cyborgs perché ormai il genere umano ha raggiunto il suo limite fisico. Mi chiedo come mai non sia mai stato radiato dall’ordine.>>

<<Il professor Cook ha detto quella frase anni e anni fa. E’ un valido scienziato.>>

<<Tu non hai fatto altro che recitare la sua definizione: un cyborg è una macchina ottenuta da un essere umano. Forse ha ritrattato perché si è accorto di averla sparata grossa, ma ti assicuro che è quello che pensa veramente.>>

<<Ma zio…>>

<<Julia, un uomo che diventa un cyborg non smette di essere un essere umano. Questo è un dato di fatto.>>

Julia lo guardò perplessa: <<Sulla base di cosa asserisci una cosa del genere?>>

Gilmour sospirò profondamente: <<Una macchina può avere dei sentimenti?>>

<<Beh…>>

<<La tua macchina, quella bella decappottabile si è mai rifiutata di partire perché era depressa? O perché magari le stai antipatica?>>

Julia rise: <<Certo che no… che discorsi…>>

<<Anche i robot non si rifiutano di fare quello che si chiede loro semplicemente perché non sono stati programmati per farlo.>>

<<Certo, sì.>>, annuì Julia.

<<Gli esseri umani, invece, possono dire che magari non riescono a concentrarsi sul lavoro perché quel giorno sono particolarmente giù, sono distratti, magari per una storia d’amore che non va molto bene, perché un loro caro non sta tanto bene. Possono rifiutarsi di fare qualcosa che vada contro la loro coscienza… perché? Provano sentimenti, emozioni, hanno idee proprie… e perché?>>

<<Perché sono esseri intelligenti.>>, rispose Julia che cominciava ad averne abbastanza di tutti quei discorsi ovvi che non riusciva a capire dove volessero andare a parare.

<<E le macchine invece non lo sono, cioè non sono intelligenti nel senso in cui lo sono gli esseri umani, no?>>, continuò Gilmour ricominciando a camminare per la stanza.

<<Appunto.>>, disse Julia annuendo nuovamente

<<E perché? Perché le macchine non provano sentimenti, emozioni, non hanno idee e coscienza propria.>>

<<Perché le macchine non hanno un cervello umano.>>, rispose Julia quasi sbottando.

<<E allora i cyborgs non possono essere macchine visto che hanno un cervello umano.>>, concluse Gilmour <<E il fatto che abbiano un cervello umano significa che hanno anche dei sentimenti umani.>>

Julia aggrottò la fronte: <<Sì, ma i cyborgs non hanno bisogno di sentimenti… cioè… cosa se ne fanno?>>

<<Nessuno decide di provare dei sentimenti…>>, intervenne Françoise <<E’ istintivo. Nascono da soli.>>

<<Non mi avete convinto… Se uno non può fare una cosa non la fa.>>

<<I sentimenti non sono collegati a interruttori che puoi spegnere e accendere a tuo piacimento.>>, disse Joe tamburellando con le dita sul tavolo <<Se io sono innamorato di una ragazza ma lei non ne vuol sapere di me, non è che posso decidere di non amarla più di punto in bianco. Mi passerà… magari… ma ci starò male e ci soffrirò. Se a te piace un’emerita testa di… vabbé, lasciamo perdere. Comunque, se quest’emerita testa di puntini puntini ti tratta come uno straccio, ma tu sei, per qualche strano motivo, innamorata irrimediabilmente di lui… continui a essere innamorata di lui. Non puoi decidere da un momento all’altro di smettere di amarlo. Ripeto, i sentimenti non sono collegati a interruttori. O quantomeno, non è la nostra volontà che decide di spegnere o accendere questi interruttori. Io credo che se anche ci fosse la possibilità di controllare questi interruttori… un cyborg non la userebbe.>>

<<Perché?>>, chiese Julia <<Per lui non sarebbe un sollievo?>>

<<Vorrebbe dire rinnegare totalmente ciò che lo lega ancora alla sua umanità. Rinnegare totalmente se stesso come essere umano.>>, rispose Françoise.

Julia stavolta non rispose. Restò in silenzio e per qualche strano motivo cercò gli occhi di suo zio e quando li trovò vi rivide dentro quella specie di compassione.

Respirò profondamente: <<Io… io credo di aver bisogno di un po’ di riposo. Scusatemi.>>

Si alzò e abbandonò la stanza in gran fretta.

<<Mi dispiace di avervi coinvolto. Volevo cercare di farle capire e nessuno poteva spiegarle meglio di voi.>>

<<Non sono sicuro che abbia capito.>>, disse Joe.

<<Lei non sa cosa siamo, vero?>>, chiese Jet.

Gilmour scosse la testa.

<<Mpff.>> continuò Jet <<E allora le nostre, per lei, non sono altro che chiacchiere di fanatici che non vogliono assecondare il corso naturale della scienza.>>

Nessuno lo disse, ma tutti erano d’accordo.

 

Parte IV

 

Stai per caso andando in città?>>, chiese Julia affacciandosi sul portone di casa.

Joe, cha stava andando verso il garage, si fermò giocherellando distrattamente con le chiavi della macchina fra le mani: <<Tokyo è grande… dipende da dove devi andare.>>

<<Uhm… pensi che incontreremo un benzinaio sulla strada? E… un supermercato?>>

Joe sembrò pensarci un attimo. Dette uno sguardo all’orologio. Erano le quattro del pomeriggio: <<Credo di sì. Ti servirà una tanica immagino.>>

<<Beh… sì.>>

<<La prendo io.>>, rispose lui sorridendo.

<<Arrivo in un attimo.>>, disse lei scomparendo di nuovo dentro il portone.

Joe si avviò di nuovo verso il garage. Giunto dentro prese una tanica da una ventina di litri riposta in un angolo e la caricò in macchina. Quindi entrò e mise in moto. Ingranò la marcia e uscì dal garage. Julia era già ferma nel piazzale. Joe fece salire lo sportello del passeggero aprendolo con un tasto interno.

La ragazza entrò nell’auto: <<Wow, e così questa è la tua macchina?>>

<<Così pare… la cintura di sicurezza.>>, rispose Joe.

<<Ah, sì… certo.>>, disse lei andandola a cercare alla sua sinistra.

Una volta che l’ebbe allacciata Joe partì.

<<Ci vuole molto da qui a Tokyo?>>, chiese Julia.

<<Una mezz’oretta.>>, rispose Joe asetticamente.

Julia lo guardò perplessa, lasciando passare qualche istante di silenzio.

Joe si accorse che lo stava osservando: <<C’è qualcosa che non va?>>

<<Io non ti sono simpatica. E’ per quello che ho detto prima?>>

Joe piegò le labbra in un sorriso senza denti, senza distogliere gli occhi dalla strada: <<Non è che non mi stai simpatica… però abbiamo idee diverse su un certo argomento. Tutto qui. Aldilà di questo… non c’è altro motivo di… scontro… diciamo così.>>

<<Perché l’avete tanto a cuore?>>, chiese lei incuriosita.

Joe lasciò passare qualche secondo: <<Che cosa sai di tuo zio? Della sua vita intendo?>>

<<Intendi dire se so che ha lavorato per un’organizzazione criminale chiamata Fantasma Nero, con lo scopo preciso di creare cyborgs destinati all’uso bellico?>>

Joe la guardò con la coda dell’occhio: <<Sì, intendevo questo.>>

<<So tutto.>>

<<Proprio tutto?>>, chiese lui voltandosi per un attimo, approfittando di uno Stop.

<<Cioè, so che ha lavorato per quest’organizzazione e che in seguito l’ha lasciata per motivi etici… Questo è quello che mi ha detto mio zio. Non so altro.>>

<<Tuo zio era in disaccordo con le idee del Fantasma Nero. Si era reso conto che non era giusto quello che stava facendo.>>

<<Sapeva fin dall’inizio che cosa volevano da lui.>>, disse Julia con tono deciso.

<<Tutti possono fare degli errori nella propria vita.>>, le fece notare lui <<Ci sono quelli che pur rendendosene conto, vanno avanti per quella strada… per convenienza o perché è più facile. E ci sono quelli, come il professor Gilmour, che se ne accorgono e cercano di cambiare, mettendo a rischio tutto.>>

Julia lo guardò senza sapere bene cosa rispondere. Disse la prima cosa che le veniva in mente: <<Sembri avere molta ammirazione per lui.>>

<<Ce l’ho. Lo stimo tantissimo e gli voglio molto bene.>>, rispose lui sempre guardando la strada <<Io sono un orfano. E per di più un meticcio. Cosa che nel Giappone del dopoguerra, e anche prima, non era proprio un gran bel biglietto da visita. Fino al momento in cui ho incontrato il dottor Gilmour ero un mezzo delinquente che passava da un riformatorio all’altro. Pochi amici, molte umiliazioni, e una vita costantemente in bilico, all’insegna della legge della strada. Il dottore e i miei amici mi hanno dato affetto, fiducia, qualcosa che assomigliasse a una famiglia, aldilà di tutte le nostre differenze generazionali, nazionali e culturali.>> fermò la macchina a un semaforo rosso e si voltò verso di lei <<Per me, e anche per gli altri, il professor Gilmour è come un padre.>>

Julia annuì, stringendo le labbra e volgendo gli occhi in avanti. In lontananza si cominciavano a scorgere le luci della città e la Baia di Tokyo.

<<Come avete conosciuto mio zio?>>, chiese dopo qualche istante di silenzio.

Joe ci pensò qualche secondo: <<E’ una lunga storia… magari un giorno te la racconterà lui stesso.>>

<<Non avrei mai detto che tu fossi un ex-teppista.>>, disse lei.

<<Ah no?>>

<<Sembri troppo gentile e altruista per esserlo.>>

Joe alzò le spalle: <<Non sei la prima persona che me lo dice. Non rifarei una sola cosa di quelle che ho fatto a quei tempi.>>

<<Tu sei proprio di Tokyo?>>

<<Beh, sì… sono cresciuto lì. Perché?>>

<<Mi piacerebbe visitare la città… ma non saprei da dove cominciare.>>

“In poche parole, visto che io sono di Tokyo, dovrei farle da guida. Non credo che a qualcuno piacerà questa storia.”

<<Va bene.>>, disse Joe sospirando <<Ti farò fare un giretto della città… anche se non credo che così poche ore basteranno.>>

<<Posso offrirti la cena per ringraziarti?>>

Joe scosse la testa: <<No, stasera festeggiamo il compleanno di Albert e non posso mancare.>>

Julia sembrò delusa, ma lui non la guardava e non se ne accorse: <<Albert è quello che oggi se n’è andato sbattendo la porta vero?>>

<<Esatto.>>

<<Posso chiederti perché indossa i guanti anche a tavola?>>

Joe pensò un attimo a cosa potesse rispondere: <<Si è ustionato gravemente le mani qualche anno fa. Non sono un gran bello spettacolo. Fanno un po’ impressione.>>

<<Capisco.>>

Joe svoltò a sinistra su uno svincolo e in pochi istanti si ritrovarono immersi nella città.

 

Parte V

 

<<Ecco fatto.>>, disse Gilmour riponendo un sottile strumento su un carrello pieno di attrezzi simili a quelli di un chirurgo <<Sentito male?>>

Françoise rimise la testa diritta e chiuse un attimo gli occhi. Poi rise.

<<Cosa c’è?>>, chiese Gilmour mentre si toglieva i guanti di lattice.

<<Bretagna sta perdendo contro Ivan a scacchi e se la prende come al solito.>>

<<Uhm… e niente più brusii?>>

<<No, dottore. Sono spariti.>>, rispose lei rialzandosi in piedi <<Da cosa dipendevano?>>

<<Oh… solo un po’ di polvere. Niente di grave. L’avresti potuto fare anche da sola.>>

Françoise annuì, ma con un’espressione particolarmente seria.

<<Qualcosa che non va?>>, le chiese il vecchio scienziato che ormai si era anche liberato del camice.

<<Stavo pensando a quello che aveva detto Julia oggi… che i cyborgs vengono riparati, mentre gli esseri umani vengono curati.>>

Gilmour annuì, sospirando: <<Françoise, ti ricordi quando tu e Joe siete tornati da quella brutta avventura in mezzo a quella terribile giungla.>>

<<Come potrei dimenticare? Per poco non lo uccido con le mie mani.>>

<<Beh,>>, disse Gilmour sedendosi sul lettino accanto a lei <<eravate così malridotti che lui è dovuto restare in riposo assoluto per due settimane. Tu una.>>

<<E allora?>>, chiese lei aggrottando le ciglia.

<<Le riparazioni fanno funzionare qualcosa subito. Le cure richiedono tempo. E’ questa la differenza. Le macchine si accendono e non sentono la stanchezza. Voi sì. E se siete stanchi avete bisogno di dormire e riposare, come qualunque essere vivente. Voi siete esseri viventi. Io vi considero tali. E come tali io non vi riparo. Vi curo. E quando io non ci sarò più lo farete voi stessi, perché io in tutti questi anni vi ho insegnato come fare. E quando un giorno morirete anche voi, perché il vostro cervello è un qualcosa di organico e come tale deperisce, andrete in un cimitero. Non da uno sfasciacarrozze.>>

Françoise restò qualche attimo silenziosa, guardando i suoi piedi che dondolavano leggermente. Poi sorrise lievemente: <<Grazie dottore. Lei è molto caro… come al solito.>>

<<Dovere.>>, disse Gilmour sorridendo e rialzandosi <<Ma, dimmi… come va con quello scapestrato?>>

<<Lei lo sapeva?!>>

<<Io so sempre tutto.>>, disse lui mettendo spingendo il carrello verso l’apparecchio col quale sterilizzava gli strumenti <<E poi, scusa se te lo dico cara, ma bisognerebbe essere proprio tonti per non capire che tra di voi le cose sono un po’ cambiate ultimamente.>>

Françoise sorrise: <<Vanno abbastanza bene.>>

<<Abbastanza?>>, sottolineò lui mentre metteva gli strumenti nello sterilizzatore.

<<Mi sono abituata a non sovrastimare le impressioni positive.>>

<<Ah… certo, certo.>>

<<Scusi, ma Julia di chi è figlia?>>, chiese Françoise che non vedeva l’ora di cambiare argomento.

<<Sei furba tu… Di mia sorella, Ester.>>

<<Non sapevo che ne avesse una.>>

<<Ci sentiamo ancora, qualche volta.>>, disse lui <<Ma i nostri rapporti si erano un po’ incrinati a causa… della mia ossessione per la scienza. Lei è medico e non condivideva le mie antiche idee etiche. Beh, ora non le condivido neanch’io.>>, concluse chiudendo lo sterilizzatore.

<<Beh, Julia mi sembra che la pensi come lei… una volta.>>

<<Infatti mia sorella non è molto contenta di questa cosa e mi ha chiesto di cercare di convincerla che sta sbagliando… visto che ci sono passato anch’io.>>, disse Gilmour azionando lo sterilizzatore <<Ma ci vorrebbe una colla per rimetterle insieme i cocci del cuore più che le parole di un vecchio zio.>>

<<Non credo di capire.>>, disse Françoise aggrottando la fronte.

<<Cook è uno scienziato un po’ pazzo e odioso, che ha detto che i soldati colpiti a morte dovrebbero essere trasformati in cyborgs e mandati al fronte al posto degli esseri umani.>>

<<E allora?>>

Gilmour distolse finalmente l’attenzione dal display dello sterilizzatore: <<E’ una triste storia.>>

 

Parte VI

 

<<E tu perché l’hai tanto a cuore?>>, le chiese improvvisamente Joe mentre guardavano la città dalla Torre di Tokyo, uno accanto all’altra.

<<Il panorama qui è bellissimo.>>, disse Julia senza rispondere alla domanda.

<<Già…>>

<<Questa Torre è molto simile alla Tour Eiffel di Parigi, però è molto più alta.>>, disse lei.

<<Sì, ma io preferisco la Tour Eiffel.>>, disse Joe.

<<Motivo?>>, chiese lei voltandosi verso di lui.

<<Mi piace Parigi. Ho un bel ricordo di quella città.>>

Julia ritornò a guardare la città: <<Anch’io.>>

<<Ci sei stata?>>

Lei annuì: <<E’ un ricordo speciale.>>

Joe preferì non approfondire il discorso: <<E’ quasi ora di andare.>>, disse guardando l’orologio.

<<Quando oggi hai parlato di quel ragazzo che si innamora e che viene rifiutato e di quella ragazza che è irrimediabilmente innamorata di un ragazzo che la tratta come uno straccio, ti riferivi a storie vere?>>

Joe si domandò perché gli facesse una domanda del genere: <<Credo che storie come queste ce ne siano a migliaia in giro. Comunque,>> disse annuendo <<sì, erano riferimenti reali.>>

<<E tu sei il protagonista di una di queste storie?>>, chiese lei volgendogli di nuovo lo sguardo.

Joe aggrottò la fronte, perplesso: <<Tutte e due. In una sono il rifiutato, nell’altra il “testa di puntini puntini”.>>

Lei annuì: <<Parigi è stato l’ultimo viaggio che ho fatto con Russell.>>

<<E’ il tuo ragazzo?>>

<<Era… è morto in guerra.>>, rispose lei volgendo di nuovo gli occhi alla città.

Joe sospirò. Adesso capiva molte cose, a cominciare dal discorso di mettere cyborgs al posto dei soldati… anche se comunque continuava a non condividerlo: <<Mi dispiace… non volevo…>>

<<No… figurati.>>, gli disse volgendosi di nuovo verso di lui, che però continuava a guardare la città <<Tu gli assomigli molto… come modo di fare intendo, come carattere.>>

Joe girò il volto verso di lei e si accorse che si era avvicinata un po’ troppo a lui per i suoi gusti. Erano così vicini che ora che avevano i visi rivolti uno verso l’altro i loro nasi quasi si toccavano. Quando si rese conto che lei stava avvicinando le sue labbra si ritrasse fece qualche passo indietro.

Julia lo guardò evidentemente delusa: <<Scusami… non so cosa mi è preso.>>

<<E’ ora di tornare a casa.>>, disse lui.

Lei annuì e si diressero verso l’ascensore. Scesero fino al parcheggio  sotterraneo[2], insieme a un’altra decina di turisti, senza nemmeno guardarsi in faccia. Arrivarono alla macchina in silenzio e salirono. Joe mise in moto e accese i fari.

<<Forse non ti piaccio, Joe?>>

<<Julia… non è questo…>>

<<Io ti trovo una persona molto… interessante.>>

Joe trasse un lungo respiro e mise in folle: <<Julia mi conosci da meno di…>> guardò l’orologio nel cruscotto che segnava le 7 e mezzo <<8 ore.>>

<<Sì, lo so… però…>>

<<Julia… io sto insieme a una ragazza… e ne sono profondamente innamorato… e vorrei tornare a casa prima che cominci a chiedersi dove siamo finiti.>>

<<Allora si tratta di Françoise.>>

Joe ingranò la prima e partì: <<E’ lei.>>

<<Ed è per caso anche la protagonista di una delle due storie?>>

Joe fece una mezza risata: <<La seconda.>>

<<La capisco.>>, disse lei annuendo.

<<In che senso?>>

<<Del perché si sia irrimediabilmente innamorata di te.>>

 

Parte VII

 

<<Ah, eccovi.>>, disse Jet quando Joe fu uscito dal garage e se lo ritrovò in piedi, appoggiato al muro <<Qualcuno cominciava a chiedersi dove fossi finito, o meglio, dove eravate finiti.>>

<<Dov’è?>>, chiese Joe.

<<In cucina a finire la torta.>>

Joe sparì dalla sua vista così in fretta che Jet si chiese se non avesse usato l’acceleratore.

<<Accidenti, come pesa!>>

Jet, incuriosito, si mise a guardare cosa stava combinando Julia. La vide che stava cercando di sollevare una tanica piena, ma con scarso successo.

<<Mi sa che dovrò farti da fattorino un’altra volta.>>, disse Jet avvicinandosi.

Julia fu ben felice di lasciargli prendere la tanica: <<Grazie… la devo mettere nella macchina. Sono rimasta quasi a secco oggi.>>

Jet sollevò la tanica senza alcuna fatica e la portò alla macchina di Julia, che era parcheggiata nel piazzale. La ragazza prese le chiavi e aprì il tappo della benzina e Jet cominciò a versarvi dentro carburante.

<<Sono stata io a chiedere a Joe di farmi vedere un po’ la città. Spero che quei due non litighino a causa mia.>>, disse Julia mentre aspettava che Jet versasse tutto il contenuto della tanica dentro il serbatoio.

<<Ci ha provato?>>, chiese lui come se fosse una cosa normale.

<<Mmmnno… a dire il vero ci ho provato io… ma non sapevo che fosse occupato.>>, rispose Julia con una smorfia.

La tanica si era svuotata e Jet la posò a terra richiudendola: <<Voi donne dovete spiegarmi che accidenti ci trovate in lui.>>, disse mettendosi le mani sui fianchi e guardandola dritto negli occhi.

<<Fa molte conquiste?>>, chiese lei con una specie di smorfia.

<<Don Giovanni e Casanova, al confronto, sono dei dilettanti.>>

<<Comunque non ha ricambiato. Voglio dire, quando lo stavo per baciare si è tirato indietro.>>

<<E meno male… sennò un altro pugno non glielo toglieva nessuno.>>, disse Jet prendendo la tanica vuota e riportandola in garage, seguito da Julia.

<<Prego?>>

<<E’ una lunga storia.>>, disse Jet rimettendo la tanica a posto.

Françoise era seduta sul letto di camera sua e dalla finestra aperta, che dava proprio sul piazzale, aveva sentito tutto. Adesso sentiva anche troppo bene. Il dottor Gilmour aveva detto che, per qualche ora, sarebbe stato così a causa del liquido che le aveva introdotto nel condotto uditivo e che accresceva di molto la sensibilità del suo udito, come se non fosse già alta di suo.

<<Entra pure.>>, disse prima che Joe bussasse alla porta.

La porta si aprì e Joe la richiuse alle sue spalle: <<Non dovevi essere in cucina?>>

<<Ho finito un bel po’ di tempo fa.>>, disse lei alzandosi <<E così la nostra Julia ci ha provato.>>

L’espressione sul volto di Joe mutò improvvisamente: <<Non è successo nulla.>>

<<Oh sì, lo so.>>, disse lei sorridendo in modo malizioso e avvicinandosi a lui <<Ma non mi hai mai portato a visitare Tokyo.>>

<<Ma se l’avrai vista centinaia di volte.>>, protestò lui quasi ridendo.

<<Sì, ma mai insieme a te… che mi facevi da guida.>>, disse mettendogli le braccia attorno al collo <<Io l’ho fatto per te a Parigi.>>

Joe le cinse la vita: <<Quindi tu vorresti che io ti facessi vedere Tokyo. Non è una cattiva idea. Sarebbe un’occasione per stare un po’ da soli.>>

Fece per avvicinare le labbra a quelle di lei, ma Françoise si ritrasse, anzi, si staccò proprio da lui, scivolando via dalle sue braccia.

<<E’ pronta la cena.>>, disse aprendo la porta.

<<Ma non ci hanno ancora…>>

<<A TAVOLAAAAAAAAAA.>>, fu l’inconfondibile grido di Chang.

Joe scosse la testa.

<<Non vieni?>>, chiese Françoise rimanendo sull’uscio.

<<Comincio a capire perché giapponesi e cinesi non sono mai andati troppo d’accordo.>>

<<Magari mi sarei ritratta lo stesso.>>, disse lei sorridendo.

<<Ti piace tanto farmi questo scherzo?>>

<<Prendilo come una piccola vendetta per esserne andato a spasso con una bella ragazza.>>, rispose lei rimanendo appoggiata con la schiena allo stipite della porta.

<<Colpito e affondato.>>

 

Parte VIII

 

Ma non sono un po’ troppe queste candeline?>>, chiese Albert guardando perplesso la torta.

<<Ti assicuro che sono il numero giusto.>>, rispose Françoise <<Le ho contate almeno tre volte.>>

<<Lo sai che vendono pure i numeri… quelli che bastano due candeline da infilare in un buco alla base del numero.>>, disse lui mimando il gesto <<Fanno un po’ meno impressione di questo esercito schierato su un campo di panna montata.>>

<<Se continui a parlare insieme alla panna mangeremo anche la cera.>>, disse Jet dondolandosi all’indietro con la sedia.

Albert guardò la torta con le candeline accese quasi rassegnato: <<Non ce la farò mai a spegnerle tutte… prima devo esprimere un desiderio… vediamo…>>

Restò qualche attimo in silenzio, poi soffiò con forza sulle candeline riuscendo a spegnerle tutte d’un colpo.

<<Ho vinto qualcosa?>>, chiese guardando gli altri che applaudivano.

<<Sì, un anno in più.>>, rispose Jet.

<<Come ti piace sfottere… un giorno avrai anche tu i tuoi trenta suonati.>>, disse Albert rimettendosi a sedere e lasciando che Françoise tagliasse la torta.

<<Quando io ne avrò trenta tu avrai superato i quaranta.>>, gli fece notare Jet.

<<Non c’è più rispetto per gli anziani.>>, concluse Albert sospirando.

<<Albert, tu non sei anziano.>>, gli disse Françoise porgendogli il piatto con la prima fetta di dolce.

<<Hai ragione… sono sulla via della mezz’età.>>, disse assaporando una piccola forchettata della sua fetta <<Come fai a fare torte così buone?>>

<<Chissà… forse mi concedo di mangiarle così di rado che mi ci metto di impegno quando le preparo.>>, rispose lei scherzando.

Julia e il professore erano l’uno accanto all’altro e furono i prossimi due a ricevere la loro porzione.

<<Grazie.>>, disse Julia prendendo il piattino fra le mani. Poi si rivolse a suo zio <<Sembri particolarmente felice, zio.>>

<<Mi fa piacere vederli così di buon umore.>>, disse rivolgendo un cenno al gruppo, mentre Jet e Albert continuavano a scambiarsi sfrecciatine scherzose <<Se loro sono felici, lo sono anch’io.>>

<<Credo di riuscire a capire.>>, disse lei assaggiando un pezzo della sua torta, sussurrando <<Accidenti, è veramente buona.>>

<<Grazie.>>, le disse Françoise che si era rimessa a sedere.

Julia la guardò perplessa: <<Ci devi sentire veramente bene se in tutto questo baccano sei riuscita a sentire quello che ho detto.>>

Gli altri quasi ammutolirono, mentre Françoise si stava maledicendo per la propria imprudenza: <<Beh… ho fatto danza per tanti anni… ho un orecchio allenato. Se non riesci a sentire bene la musica non puoi ballare bene.>>

Julia annuì: <<Beh… complimenti. Per il dolce e per l’orecchio.>>

Françoise annuì, sentendo un profondo senso si sollievo in fondo allo stomaco e scambiando uno sguardo significativo con Joe, che le stava seduto davanti. Lui si limitò a inarcare un sopracciglio e a sorriderle come a dire: “L’hai fatta grossa, ma te la sei cavata bene.”

<<Perché non usciamo?>>, chiese Albert alzandosi in piedi <<Offro da bere a tutti.>>

<<E’ un’ottima idea.>>, disse Bretagna.

Punma e Jet si guardarono.

<<Perché no?>>, disse Punma per tutti e due.

<<Credo che verrò anch’io.>>, disse Geronimo alzandosi da tavola.

<<Se viene lui io non posso certo mancare.>>, si accodò Chang, accendendo la sua pipa.

<<Tu, Julia?>>, le chiese Albert.

<<Veramente vuoi che venga anch’io?>>, chiese lei, incredula, autoindicandosi.

<<Ja.>>, rispose lui sorridendo e annuendo.

<<Va bene, allora.>>

<<Io declino.>>, disse invece Françoise.

Albert la guardò deluso: <<Mon cherie, perché?>>

<<Perché andate in un posto in cui ci saranno sicuramente troppi decibel per i miei gusti.>>, disse lei scuotendo la mano.

<<Mi dispiace, ma comprendo.>>, disse Albert rassegnato <<E tu Joe?>>

<<Qualcuno mi ha fatto scarpinare per tutta Tokyo oggi pomeriggio. Sarà per un’altra volta. Sono troppo stanco.>>

<<Potrebbe venire lei, professore.>>, tentò Albert.

Gilmour sgranò gli occhi: <<Stai scherzando? Non ci penso nemmeno. Levatevi dai piedi!>>

<<Allora gambe in spalla e andiamo.>>, disse Jet alzandosi.

La stanza si svuotò, sotto lo sguardo dei tre rinunciatari.

<<Che furbi… se ne sono andati senza nemmeno aiutare a rimettere a posto.>>, disse Gilmour incrociando le braccia.

<<Non si preoccupi, professore.>>, disse Françoise alzandosi e cominciando a raccogliere i piatti <<Ci penso io.>>

<<Ti do una mano.>>, disse Joe alzandosi a sua volta.

<<Mi unisco a voi.>>, disse Gilmour mettendosi in piedi.

<<Ma non ci pensi nemmeno.>>, disse Françoise.

<<Ma…>>

<<Le proibisco di toccare un solo piatto presente su questa tavola!>>, gli disse in tono perentorio.

Gilmour alzò le mani: <<Agli ordini! Vorrà dire che andrò nel mio studio a finire di mettere a posto degli appunti… e poi me ne andrò a dormire. Buonanotte.>>

I due gli diedero la buonanotte e lo guardarono uscire dalla stanza. Poi finirono di sparecchiare la tavola e di mettere a posto in cucina.

Françoise chiuse l’ultimo sportello e poi si voltò verso Joe, che stava finendo di asciugare un piano e che le dava le spalle.

<<Lo so.>>, disse lui improvvisamente, con voce calma, senza voltarsi.

Lei aggrottò la fronte: <<Sai cosa?>>

<<Che mi stai guardando. Lo sento, il tuo sguardo su di me.>>, rispose lui spostandosi per appendere lo strofinaccio al suo posto.

<<Perché non sei andato?>>, gli chiese, cambiando argomento e aprendo la porta che dava nel salone principale.

<<Sarei dovuto andare senza di te?>>, chiese lui seguendola e spegnendo la luce della cucina.

Lei si diresse direttamente al balcone affacciandosi e guardando verso il mare: <<Io avevo i miei buoni motivi. Stasera sento ogni minimo fruscio esistente. T’immagini in un pub con musica e gente che parla? Sarei impazzita.>>

Nessuno dei due aveva acceso la luce della sala. Così l’unica fonte luminosa era la luce lunare, che illuminava solo un ritaglio di stanza, entrando dalla porta aperta del balcone. Joe se ne stava appoggiato, quasi seduto, sulla spalliera del divano che dava di spalle al balcone, con le braccia incrociate: <<Non mi sarei divertito sapendoti qui tutta sola…>> si staccò dal divano e si avvicinò a lei, per poi cingerla da dietro <<magari a chiederti cosa stessimo facendo io e Julia.>>

<<Oh, smettila.>>, disse lei mettendo le sue mani su quelle di lui, intrecciate sulla sua vita  <<Non credo che ci avrebbe riprovato. Penso che fosse dispiaciuta di averlo fatto.>>

<<Diceva che per carattere le ricordavo molto il suo ragazzo…>>

<<Russell?>>, chiese lei voltando appena il viso verso il suo.

<<Lo sapevi?>>, chiese lui aggrottando la fronte.

Françoise annuì: <<Me ne ha parlato il dottor Gilmour. Una brutta storia. Adesso capisco perché parlava di sostituire i soldati umani con cyborgs. Ma non posso comunque essere d’accordo con lei.>>

Joe restò in silenzio qualche secondo: <<Nemmeno io. Certo che però… morire a quell’età…>>

<<Non è certo che sia morto.>>, disse Françoise <<Il professor Gilmour mi ha detto che risulta disperso.>>

Joe alzò le spalle: <<Non credo che ci sia molta differenza. Molto probabilmente è morto.>>

<<Però il corpo non è mai stato trovato.>>, controbatté lei.

Joe sospirò: <<Dobbiamo litigare anche su questo?>>

Lei rise lievemente: <<No, certo che no. Hai qualche altro valido argomento di conversazione?>>

<<Noi due, per esempio.>>

Françoise sorrise: <<Cos’altro c’è da dire su noi due che qualcuno non abbia già detto o scritto?>>

<<A me piacciono quelle storie in cui sono i protagonisti a decidere come va avanti la vicenda?>>, disse lui appoggiando le labbra sulla sua tempia.

<<Bene, signor protagonista maschile, cosa propone?>>

<<Approfittare della insolita quiete domestica e andare in camera tua, per esempio.>>

<<E’ banale!>>, protestò scherzosamente lei.

<<Il pubblico adora le cose banali. Sono le meno cervellotiche.>>

Lei sembrò pensarci un attimo: <<In fondo hai ragione.>>, disse sciogliendo delicatamente le sue mani e tenendone una per invitarlo a seguirla su per le scale.

 

Parte IX

 

<<A cosa pensa, signorina?>>, chiese Jet a Julia, trovandola affacciata verso la baia sulla terrazza del locale.

<<Oh, sei tu.>>, disse Julia voltandosi verso di lui <<Avevo bisogno di un po’ d’aria.>>

Lui si mise accanto a lei, appoggiandosi a sua volta al parapetto in muratura: <<Quando una persona guarda il mare pensa sempre a cose malinconiche, tristi, che mettono nostalgia.>>

<<Non pensavo tu fossi così romantico.>>, disse lei sorridendo.

<<Non lo dire a nessuno. Mi rovini la reputazione.>>, sorrise lui appoggiando un gomito sul parapetto e mettendosi i dorsi delle dita sotto il mento.

<<Tu sei “il cinico” del gruppo?>>

<<Io sono “il realista pragmatico”…>> rispose lui <<il che richiede anche un po’ di cinismo, va detto… Forse sono solo un “ex-sognatore” disilluso.>>

Julia lo guardò incuriosita: <<Perché dici questo.>>

Jet alzò le spalle: <<Perché ho imparato a prendere i sogni per quello che sono.>>

<<E cioè.>>

<<Sogni… costruzioni della fantasia, che raramente si traducono in realtà.>>

Julia tornò a guardare l’acqua: <<Tu non hai un sogno, Jet?>>

Jet sospirò, lasciando trascorrere qualche secondo di silenzio. Le luci si specchiavano nell’acqua. Gli ricordava certi scorci della costa newyorchese.

<<Forse li avevo una volta. Ho dimenticato cosa vuol dire averne uno… uno di quelli che ti danno uno scopo nella vita… o semplicemente un motivo per avere un po’ di fiducia in ciò che ti circonda. Magari è per questo che provo un po’ di invidia per chi ne ha.>>

Julia non rispose, continuando a guardare l’acqua.

<<E tu non ce l’hai un sogno?>>

Julia strinse le labbra, nascondendole per qualche secondo: <<Una volta ne avevo uno… sposarmi con il ragazzo di cui ero innamorata e avere almeno dieci figli.>>

<<Dieci?!>>

<<Sì… Russell diceva che voleva fare una squadra di basket.>>, rise Julia.

<<Ah, tanto in sala parto ci andavi tu. Lui in dieci colpi se la cavava.>>

Julia quasi scoppiò a ridere: <<Sì, a pensarci ora è assurdo, ma una volta ero veramente convinta di volerlo fare. Lo amavo troppo per non dire sì a ogni suo capriccio.>> improvvisamente l’allegria scemò dal suo volto e i suoi occhi cominciarono a diventare lucidi <<Poi Russell è morto… non è mai più tornato da un raid aereo. Il suo corpo e il suo caccia non sono mai stati trovati.>>

Jet strinse le labbra: <<Mi dispiace… Scusa, non volevo rievocare ricordi tanto dolorosi.>>

<<No…>>, scosse la testa lei <<non ha importanza… anzi, mi fa bene parlarne.>>

Julia alzò gli occhi verso il cielo e vide le luci di un aereo volare sopra le loro teste: <<In realtà>>, disse <<lui voleva fare il pilota di linea. Ma poi… non so come… gli venne l’idea di diventare un pilota di caccia e di entrare in aeronautica. Aveva anche un piccolo aereo privato… e quando era libero mi portava a volare.>> Si voltò verso Jet <<Ti piace volare?>>

Jet sorrise ironicamente: <<Direi di sì. E’ una sensazione unica.>>

<<Io le prime volte avevo una paura assurda.>>, disse lei <<Poi ho deciso di guardare giù e… è stato bellissimo.>>

<<Sì, è un bel panorama. Le nuvole, il vento nei capelli…>>

<<Vento?>>

Jet si rese conto di aver detto una cosa che per una persona abituata a volare in aereo era un po’ impossibile da capire. E che diavolo poteva dirle adesso? Che lui volava senza bisogno di ali?

<<Beh… hai mai volato con un aliante?>>, chiese.

<<Aaahhhhhhh>>, disse lei <<Non ci avevo pensato.>>

<<Non esistono solo gli aerei.>>, disse Jet sentendosi sollevato di essersela cavata in modo credibile.

<<Tendiamo a limitare il mondo alle nostre esperienze personali.>>, commentò lei <<Un giorno mi piacerebbe provare… si può andare in due in aliante, vero?>>

<<Ehm… sssì>>, disse Jet deglutendo.

<<Fantastico.>>, sorrise lei.

<<Jet!>>

La voce di Albert gli giunse forte e chiara e fu quasi un sollievo. Jet si voltò: <<Che c’è?>>

<<Abbiamo un problema, anzi due.>>

<<E sarebbero?>>, chiese Jet perplesso.

<<Un inglese e un cinese ubriachi.>>

 

Parte X

 

Clank!

Françoise aprì gli occhi. Era notte fonda. Dette uno sguardo alla sveglia sul suo comodino: le 2 e mezzo passate. Cos’era stato quel rumore? Forse gli altri che tornavano? No, non aveva sentito il rumore dei motori. Si voltò per svegliare Joe. Ma era così placidamente addormentato che le sembrò quasi un peccato. Magari si trattava di un gatto o di qualche altro innocuo animale. Aguzzò l’udito, per sentire se udiva qualche altro strano rumore. Silenzio assoluto, se non il monotono suono del mare che si infrangeva sulla scogliera. Decise di riaddormentarsi.

Passi. Stavolta li sentì chiaramente. Un sordo rumore di passi sull’erba. Una sola persona.

<<Joe.>>, chiamò scuotendolo per la spalla con la mano.

Lui aprì gli occhi quasi subito: <<Che succede?>>, chiese con la voce impastata dal sonno.

<<C’è qualcuno, giù, nel piazzale.>>

Lui metabolizzò le parole e sospirò profondamente: <<Saranno i ragazzi che tornano.>>

<<Una sola persona e non ho sentito rumore di motori… e si sta muovendo come un ladro.>>

Joe non se lo fece ripetere una seconda volta. Si alzò dal letto e si mise in fretta i pantaloni, per poi uscire dalla stanza. Non chiuse la porta, ma camminò lentamente, facendo attenzione a fare meno rumore possibile, lungo il corridoio, fino alle scale.

<<Joe, è ancora in giardino. Sta girando intorno alla casa.>>, gli disse Françoise a bassa voce dietro di lui <<All’ingresso sul retro.>>

Joe si limitò ad annuire. Scese le scale velocemente e si recò all’ingresso dove sarebbe dovuto essere l’intruso. Si trattava di una porta che dava su una scalinata che portava giù, alla spiaggia. Joe restò fermo qualche attimo, a qualche metro dalla porta. L’intruso tentò di girare la manopola, ma senza fortuna… anzi, fece scattare il sistema di allarme che si azionava se qualcuno cercava di aprire una porta chiusa senza il codice di accesso.

<<Fuck!>>, sentì imprecare in inglese da dietro la porta. Si trattava di un uomo.

Joe si piombò sulla porta e l’aprì. Vide un’ombra sparirgli davanti e si gettò all’inseguimento, azionando l’acceleratore. In meno di un battito d’occhi gli fu addosso e lo scaraventò a terra. Lo fece girare su se stesso e lo prese per il colletto, tenendolo fermo standogli seduto sopra. Nonostante fosse buio pesto notò che non doveva avere molti più anni di lui.

<<Chi sei?>>, gli chiese in inglese.

In tutta risposta l’uomo gli mollò un pugno in pieno petto, e poi un altro e un altro ancora. Continuò finché Joe non mollò la presa. E ce ne volle. A quel punto l’uomo lo prese per il collo e lo fece volare via neanche fosse stato un pallone. L’uomo si rialzò più in fretta di Joe, che era rimasto piuttosto provato dai colpi ricevuti a ripetizione nello stesso punto, e si diresse a grandi falcate verso di lui. Lo fece rialzare in piedi e gli mollò una ginocchiata, ancora una volta nel petto. Poi lo spintonò violentemente, quasi a scrollarselo di dosso.

Erano arrivati sul piazzale. Lì era illuminato da un lampione che era stato sistemato in un angolo e che dava luce a tutto il piazzale.

<<Come diavolo fa a essere così forte?>>, si chiese Joe ad alta voce, mentre si rialzava, guardandolo.

Appena il tempo di rimettersi in piedi che se lo vide piombare addosso come un toro che carica, ma molto più velocemente. Una forte testata lo raggiunse stomaco senza che quasi se ne potesse accorgere e lo fece volare via un’altra volta.

Joe si rialzò più in fretta stavolta, ma sentiva un forte dolore nel petto. Quella testata doveva aver fatto danni.

<<Chi sei?>>, gli chiese nuovamente.

L’uomo gli si avvicinò, senza rispondere.

<<Sei del Fantasma Nero?>>

L’uomo continuava a camminare, ma stavolta rispose: <<No. Voglio parlare con il professor Gilmour.>>

Joe cominciava a sentirsi mancare le forze. Le gambe non lo ressero più. Si inginocchiò improvvisamente a terra e sentì qualcosa venirgli su fino alla bocca. Si portò una mano alle labbra e quando la guardò la vide rossa.

“Sangue!”

Un altro rigurgito arrivò violento e lo fece accasciare a terra, tossendo.

L’uomo era ormai a pochi passi da lui.

<<Fermo!>>

“Françoise… no.”

Joe avrebbe voluto dirle di andarsene, ma non ne aveva la forza. Il dolore al petto si faceva sempre più forte e continuava a rigettare sangue. Aprì gli occhi e la vide con una pistola in mano puntata contro l’uomo.

L’intruso smise di camminare verso Joe e si voltò verso di lei: <<Voglio solo parlare con il dottor Gilmour.>>, disse.

Françoise strinse ancora di più la pistola in mano e stava per sparare quando... L’uomo fece una smorfia e improvvisamente si portò una mano alla testa, inginocchiandosi. Ma fu solo un attimo. Si rialzò, seppur a fatica e si lanciò verso Joe, facendolo alzare di forza e tenendolo davanti a sé con un braccio intorno al collo e una mano sulla testa.

<<Se non molli la pistola gli rompo l’osso del collo.>>

Françoise lanciò la pistola lontano da lei.

“Io non ho l’osso del collo… ma di certo se fai quella mossa potresti anche ammazzarmi.”, pensò Joe, sentendosi sempre più debole “Un ultimo sforzo… però… basterebbe un solo colpo ben assestato.”

Joe si girò di scatto e lo colpì con una gomitata proprio alla testa, che è notoriamente il punto più debole di un cyborg… perché era chiaro che non si trattava di un essere umano. L’uomo, colto a sorpresa, lasciò la presa e si portò le mani sulla parte colpita, allontanandosi di qualche metro.

Joe cadde di nuovo a terra, in preda a una tosse violenta. L’uomo lo guardò, tenendosi sempre la parte colpita. Fece due passi verso di lui, nonostante il dolore alla testa, e cominciò a dargli violenti calci in petto.

Si sentirono due colpi, e l’uomo cadde a terra, a poca distanza da Joe, colpito alle gambe.

Françoise, che stava cercando di recuperare la sua pistola, alzò gli occhi nella direzione da cui erano venuti gli spari: <<Albert!>>

Albert si era avvicinato all’uomo, che ormai non poteva muoversi se non strisciando, visto che era stato colpito alle ginocchia e le sue gambe erano inutilizzabili.

Si sentirono dei colpi di tosse.

<<Joe!>>, chiamò Françoise alzandosi e correndo verso di lui.

Si inginocchiò accanto a lui, che era riverso sul terreno, con entrambe le mani sul petto.

<<Sto male.>>, gli sentì dire con un filo di voce prima di un altro violento attacco di tosse che gli fece fuoriuscire dalla bocca altro sangue.

<<Portatelo subito nel laboratorio!>>, urlò Gilmour, che era uscito all’aperto.

Geronimo, che si era avvicinato insieme agli altri, prese Joe in braccio e scomparve con lui dentro casa.

Il resto del gruppo rimase fermo, come impietrito, guardare il punto in cui Geronimo era scomparso.

<<Ecco perché ve la prendevate tanto a cuore.>>

La voce di Julia li fece voltare. Tutti tranne Françoise, che era rimasta inginocchiata a terra.

<<Voi siete tutti dei cyborgs, non è così?>>, continuò lei <<Sennò non si spiegherebbe come faccia lui a sparare dalla mano.>>

Albert, Punma, Jet, Bretagna e Chang si guardarono tra loro.

<<Siamo cyborgs! E allora?>>

Françoise si alzò e guardò Julia con uno sguardo carico di lacrime e di una miriade di sentimenti: rabbia, frustrazione, odio. Julia ne ebbe quasi paura, tanto che fece un paio di passi indietro.

<<Forse non abbiamo il diritto di provare emozioni, sentimenti? Non abbiamo il diritto di amarci e di amare, di soffrire e di essere felici come qualunque essere vivente?!>>

Calò un silenzio pesante come un macigno.

<<Una volta che hai conosciuto certe emozioni, non puoi dimenticare e decidere di no viverle quando le incontri.>>, disse Punma guardando Julia con un’espressione indecifrabile <<Forse ci facciamo del male, ma se decidessimo di dimenticare i nostri sentimenti… allora, sì… diventeremmo delle macchine. Ma noi… noi non vogliamo essere delle macchine.>>

<<Feel ‘cause you’re alive.>>, disse Jet.

Julia restava ferma, come una statua di sale. I loro sguardi addosso la facevano sentire a disagio. Sentì un brivido freddo correrle lungo la schiena, e si strinse nelle proprie braccia. Avrebbe voluto dire qualcosa, ma non c’erano parole che le venivano alla punta della lingua.

<<Tu prega soltanto perché Joe sopravviva.>>, sibilò Françoise con un tono di voce che terrorizzò anche gli altri, che si voltarono quasi sorpresi, chiedendosi se fosse lei quella che parlava <<Perché se Joe non ce la fa, ucciderò quell’essere… quel cyborg con le mie mani.>>, concluse indicando l’intruso che se ne stava ancora sdraiato per terra, incapace di muoversi.

Julia si voltò istintivamente verso l’uomo, senza capire perché dovesse prendere quella come una minaccia. Ma lo capì. Gli bastò vedere il volto dell’uomo: <<Russell…>>

 

Parte XI

 

Quando Albert e Jet avevano portato dentro il laboratorio anche l’intruso avevano solo trovato la porta della sala operatoria chiusa e la luce rossa accesa, cioè “accesso vietato”. Avevano lasciato l’intruso su un letto. Avevano notato il suo colorito particolarmente pallido, ma non gliene fregava molto. Per loro poteva anche crepare. Erano tornati di là e si erano messi ad aspettare, insieme agli altri.

Erano quasi quattro ore che Gilmour era rinchiuso dentro il laboratorio con Joe. Jet, seduto accanto ad Albert a un lato del corridoio, alzò gli occhi, dopo averli tenuti a lungo fissi a terra. Si guardò intorno. Nessuno parlava. Tutti guardavano fissi a terra, esattamente come lui fino a pochi secondi primi. L’unico che faceva qualcosa di diverso era Geronimo, che torturava fra le mani la camicia che aveva indossato quella sera. Era rimasto lì, a torso nudo. Perché se l’era tolta? Che domanda stupida che gli veniva in mente in un momento del genere. Magari aveva solo caldo… Poi comprese. Guardò di nuovo e vide che quel pezzo di stoffa che Geronimo si rigirava tra le mani era scuro, sinistramente scuro. La camicia che aveva indossato quella sera era di un colore chiaro, anni luce lontano da quel colore orrendo. Non voleva che qualcuno vedesse quella camicia macchiata… intrisa del sangue di Joe. Era per questo che se l’era tolta.

Si guardò nuovamente intorno e notò che Françoise non c’era. Senza dire niente e senza che gli fosse detto niente, si alzò e si allontanò dal corridoio. Sapeva dove poteva essere andata e si diresse a colpo sicuro verso la sala, in una casa colta da un silenzio irreale. In sala trovò Julia. Se ne stava seduta su un divano, a guardare un qualcosa di indefinito ai suoi piedi. Si fermò a guardarla per qualche secondo, ma lei sembrò non accorgersi nemmeno della sua presenza. Tirò diritto. In fondo, non è che gliene importasse molto.

Salì gli scalini che portavano al piano di sopra. Non ricordava che fossero così tanti. Arrivato in cima al corridoio guardò a destra, dov’era la camera di Françoise, e a sinistra, dov’era quella di Joe. Decise di andare a sinistra. Si fermò davanti alla porta della camera dell’amico. Provò a girare la maniglia. Chiusa.

<<Françoise.>>, chiamò quasi sfiorando la porta con le labbra.

Nessuna risposta.

<<Françoise, lo so che sei lì dentro.>>

Niente.

<<Va bene.>>, disse mettendosi a sedere con le spalle appoggiate alla porta <<Vorrà dire che mi metto a sedere qui e ti parlo da dietro la porta… tanto senti lo stesso.>>

Nessun segno di vita.

“Chi tace acconsente…”, pensò Jet “O semplicemente non ti considera nemmeno e vuol essere lasciato in pace.”, concluse ricordando come diceva sempre un suo amico di New York quando veniva fuori questa frase fatta.

<<Françoise… ti devo chiedere scusa.>>, cominciò Jet <<Sì… perché provavo invidia, invidia nei confronti dei miei migliori amici. Voglio dire… fra tutti voi siete quelli che hanno vissuto più o meno quanto ho vissuto io. Non che con gli altri non ci sia un rapporto speciale… ma con voi è diverso. Io ero invidioso di voi perché… non fraintendermi… non sono innamorato di te… va bene che l’amore è complementarità… ma non certo opposizione perenne… come sarebbe una remotissima storia fra me e te. No, non è questo… è che… insomma… voi avev… avete trovato una vostra dimensione… una vostra felicità… che io non posso neppure lontanamente… pensare di avere. Voi avev… avete qualcosa di prezioso… estremamente prezioso. Qualcosa che io non potrò mai avere… nemmeno immaginare. E io ero invidioso di questo. Non mi accorgevo che il solo fatto che questo sia successo ai miei migliori amici… deve rendermi orgoglioso. Perché tutte quelle storie che noi ci diciamo… le belle parole sul fatto che… se noi proviamo sentimenti… vuol dire che noi siamo vivi… voi siete la prova vivente che tutte queste parole sono vere… che non sono come tutte quelle fandonie che la gente si dice per farsi forza, nascondendosi dietro un velo di ipocrisia pura che poi non si riesce più a togliere.>>

Tese l’orecchio per sentire se dall’altra parte ci fossero segnali di vita. Niente. Sospirò profondamente, rialzandosi e girandosi verso la porta. Appoggiò i palmi delle mani al legno: <<Françoise, non voglio dirti cose tipo “ce la farà”, “non morirà”… perché tu non sei una stupida e non ci vuole una laurea in medicina per capire che la situazione è…>> “disperata”.

Si morse le labbra e fece passare qualche secondo.

<<Ti dico solo>> riprese <<che se hai bisogno… di qualcuno da prendere a pugni per sfogarti… di una persona da insultare… di una spalla su cui piangere… beh, la mia è sempre a tua disposizione.>>

La porta si aprì. Françoise era in piedi davanti e aveva gli occhi devastati dal pianto e un’espressione impossibile da tradurre sul volto.

<<Il professor Gilmour è appena uscito dalla sala operatoria.>>, gli disse con la voce traballante, quella di chi si sforza di non lasciarsi travolgere dalle lacrime.

Jet non disse nulla, per quanto fosse ansioso di sapere quello che lei doveva aver sentito, lasciandole il tempo di raccogliere la forza di continuare e di tirare fuori le parole che sembravano bloccarle il respiro.

<<E’ entrato in coma.>>

Jet chiuse gli occhi e strinse le braccia attorno a lei, quando la sentì appoggiarsi a lui. La sentiva sussultare scossa dai singhiozzi, sentiva il tessuto della camicia sopra la spalla sulla quale lei era appoggiata. Non le  disse niente, non a lei.

“Lo so che non è bello ricordarsi che di Te solo quando più se ne ha bisogno… e che io non sono mai stato un grande credente… forse non ci ho mai creduto in Te… ma non farlo morire. Ti prego, non farlo morire.”

 

Parte XII

 

Gilmour era in laboratorio, seduto davanti a un computer, esaminando i dati che quest’ultimo gli sfornava in continuazione, in tempo reale. La situazione si manteneva stabilmente disperata. L’anziano scienziato si lasciò appoggiare all’indietro sullo schienale della sedia, stropicciandosi gli occhi con il pollice e l’indice della mano destra. Aveva passato la notte in bianco, rinchiuso fra quelle mura, e la stanchezza si faceva sentire. Sentì tossire dietro di lui. Si voltò verso l’intruso che se ne stava sdraiato sul letto nel quale qualcuno lo aveva lasciato. Gilmour si alzò e andò a controllare la bottiglia il cui contenuto veniva immesso nel corpo dell’intruso da una flebo inserita nel suo braccio.

<<Perché lo sta facendo?>>, gli chiese Russell.

<<Perché non dovrei?>>, chiese Gilmour disunendo leggermente il flusso.

<<Ho quasi ucciso quell’uomo.>>, spiegò Russell.

<<Questo lo so…>>, disse Gilmour in tono grave, mettendosi le mani dietro la schiena e guardando Russell con gli occhi stanchi <<ma sono un medico e ho fatto un giuramento che mi impone di aiutare chiunque possa aver bisogno del mio aiuto, per quanto mi è possibile.>>

<<Julia diceva che lei era un fisico.>>, disse Russell.

Gilmour andò a prendere alcuni appunti che aveva lasciato sulla scrivania: <<Ho tre lauree: medicina, ingegneria meccanica e fisica. Non ho altre grandi capacità, ma con le materie scientifiche me la sono sempre cavata discretamente.>>

Gilmour ritornò accanto al letto di Russell, prendendo la sua sedia e portandola con lui. Si sedette vicino al letto e cominciò a scorrere gli appunti: <<Allora, chi ti ha trasformato in cyborg?>>

Russell sospirò profondamente: <<Non lo so… gliel’ho già detto.>>

Gilmour lo guardò con sguardo severo: <<Chiunque sia stato, è un criminale.>>, sibilò scandendo bene le parole.

<<Non ha forse costruito cyborgs anche lei?>>, chiese Russell, quasi in tono ironico <<E se è vero che io ho quasi ammazzato il più forte, evidentemente i suoi non sono molto efficienti.>>

Ma lo sguardo di Gilmour restò serio e penetrante: <<Chi ti ha convertito ha fatto un buon lavoro per quanto riguarda potenza ed efficacia di combattimento. Ma se Joe avesse saputo che tu eri un cyborg piuttosto che un normale essere umano, a questo punto ci saresti tu dall’altra parte di quel vetro. Hai avuti la fortuna che lui è troppo buono per uccidere una persona che crede molto più debole di lui.>>

<<Io mi sono soltanto difeso…>>

<<E soprattutto non infierirebbe mai su un avversario che non è più capace di combattere. Perché è da vigliacchi.>>, continuò Gilmour ignorando le sue proteste <<Inoltre io ho giurato a me stesso che non convertirò mai più un essere umano in un cyborg in vita mia. Ma non è questo il punto. Chiunque sia stato a farti questo, lo ha fatto pur non avendo un efficace antirigetto. E’ per questo che ti hanno detto di venire da me. Non è forse così?>>

Russell non rispose, limitandosi a tenere gli occhi fissi sul soffitto.

<<Perché io evitassi che tu morissi per il rigetto.>>

<<Non mi hanno mandato qua. Io ricordo solo di essere stato abbattuto in battaglia e di essermi risvegliato in una specie di sala operatoria. Sono riuscito a uscire da lì e ho sentito una voce da dietro una porta che diceva che l’unico che poteva salvare i soggetti dell’esperimento era Isaac Gilmour. Quando ho visto che ne portavano via uno da una stanza dicendo che era andato anche quello ho capito.>>, disse finalmente Russell.

<<E come sei arrivato fino a qui?>>

Russell esitò.

<<Come?>>, ripeté Gilmour.

<<Mentre ero nascosto ascoltando quell’uomo che parlava di lei è entrata Julia. L’ho riconosciuta subito. L’uomo le ha chiesto se poteva venire a parlare con lei… che magari a lei avrebbe rivelato la formula. Quindi ho deciso di seguirla e mi sono nascosto nel bagagliaio della sua auto.>>

Gilmour sgranò gli occhi: <<Julia è coinvolta in tutto questo… ma allora… Allora c’è quel criminale di Cook dietro a tutto questo!>>

Gilmour si alzò di scatto, e cominciò a camminare per la stanza nervosamente, sotto gli occhi perplessi di Russell. Cominciò a rimuginare: se era stato Cook, non poteva aver lavorato per il Fantasma Nero, se questo poteva essere di consolazione. Loro conoscevano la formula dell’antirigetto che permetteva ai cyborgs di sopravvivere alla conversione. Non avevano certo bisogno di lui.

L’anziano scienziato fece per tornare alla scrivania.

<<Mi dispiace…>>

Gilmour si voltò appena alla voce di Russell.

<<Mi dispiace per quel ragazzo… Joe… sinceramente. Ero in preda alla paura…>> continuò Russell guardando il professore <<In guerra impari che se qualcuno ha la possibilità di ucciderti, tu devi negargliela colpendolo nel suo punto debole, cogliendo l’attimo in cui è in difficoltà… E’ stato un gesto istintivo. Avevo paura. Vorrei uccidermi con le mie stesse mani…>>

<<Non servirebbe a nulla.>>, lo interruppe Gilmour, con uno sguardo grave.

<<E allora cos’altro potrei fare?>> urlò Russell <<Vivere con questo rimorso per sempre?>>

Gilmour lo guardò restando in silenzio per qualche secondo: <<Tu credi in Dio?>>

Russell non rispose, perplesso.

<<In Buddha… in Allah… qualunque cosa…>>, continuò Gilmour.

<<Credo in Dio.>>, rispose finalmente Russell in tono incerto.

<<E allora prega!>>, disse Gilmour tornando a posare gli appunti sulla sua scrivania. Poi scomparve dietro due porte scorrevoli.

Si trovò di fronte a una vetrata. Dalla sua parte c’era un’ampia console, che prendeva in larghezza tutta la stanza. Dall’altra c’era Joe. Se non fosse stato per tutti i macchinari che lo attorniavano e la mascherina del respiratore, si sarebbe potuto credere benissimo che stesse semplicemente dormendo.

<<Perché non vai a riposare?>>, chiese Gilmour in tono preoccupato alla figura seduta su una delle due sedie davanti alla console.

<<Perché tanto non riuscirei a dormire… e se anche ci riuscissi, sarei colta dagli incubi.>>, rispose Françoise.

Gilmour si sedette sull’altra sedia, guardando oltre la vetrata.

<<Professore, mi dica la verità.>>, riprese lei dopo qualche istante di silenzio <<Quante possibilità ci sono che si riprenda?>>

Gilmour aspettò qualche secondo, cercando le parole migliori: <<Non è un problema meccanico… quelli sono stati risolti. E’ un problema fisico, cerebrale. Le probabilità che si risvegli sono le stesse che ha una qualunque persona colta dal coma. E’ possibile che si risvegli oggi come che resti così per anni.>>

<<Ci sono molte probabilità che non ce la faccia, vero?>>, chiese lei andando a forzare quella porta che Gilmour non aveva voluto aprire.

Il professore sospirò pesantemente e si voltò verso di lei:  <<Sì, Françoise, c’è la possibilità che non ce la faccia. I colpi hanno danneggiato seriamente i circuiti di energia…>> cominciò Gilmour ricostruendo appunti e dati che aveva riletto decine e decine di volte <<poi quella testata… deve essere stata quella che ha quasi spezzato l’arteria principale e aperto un polmone. A quel punto il sangue ha cominciato a fuoriuscire all’esterno dell’arteria e dentro il polmone, il cuore ha smesso di funzionare bene. E’ entrato in funzione il sistema di emergenza… una specie di circuito sanguigno alternativo che permette al cervello di non restare a corto di sangue… ma il guaio è che è restato senza soccorso troppo a lungo.>>, Gilmour si fermò un attimo scuotendo la testa <<E il cervello e il suo fisico ne hanno risentito. Purtroppo… dobbiamo prendere seriamente in considerazione l’ipotesi che non ce la faccia.>>

<<E’ un modo non troppo brutale per dirmi che ci vorrebbe un miracolo?>>, chiese lei senza riuscire a mostrare un tono di voce leggero come avrebbe voluto.

Gilmour  strinse appena le labbra: <<Sì… ci vorrebbe un miracolo.>>

Françoise annuì e si alzò dalla sedia, dirigendosi verso la porta, che si aprì quando lei le fu davanti.

<<Cos’hai intenzione di fare?>>, le chiese Gilmour.

<<Non si preoccupi… non ho intenzione di fare pazzie.>>, rispose lei <<Vado a pregare.>>, concluse volgendo lo sguardo in direzione di Russell, che intanto si era addormentato.

 

Parte XIII

 

Erano ormai passati un paio di giorni, senza che ci fossero stati sviluppi positivi. Russell si era ormai alzato dal letto. Ancora pochi giorni e avrebbe potuto condurre una normale esistenza di cyborg. Gilmour si chiese fino a che punto Russell si fosse reso conto della cosa e se veramente volesse vivere in una condizione simile. Joe, invece, continuava a restare nel suo stato di incoscienza, appeso a quel filo sottile che lo teneva legato alla vita, ma non aveva dato alcun segno di volersi risvegliare.

Il professor Gilmour si stropicciò gli occhi. Aveva dormito poco in quei giorni e non aveva più l’età per poter far facilmente a meno del sonno. Chiuse il fascicolo che portava il nome di Joe e il suo codice numerico scritto sopra. Lì c’erano i suoi dati e venivano annotati tutti gli interventi fatti nel corso del tempo. Lo ripose in una specie di schedario, insieme agli altri, dietro di sé. Sulla scrivania rimase una cartella di colore giallo, senza nome. Bussarono alla porta.

<<Avanti.>>

<<Mi ha fatto chiamare?>>, chiese Albert chiudendo dietro di sé la porta dello studio di Gilmour.

Il professore alzò gli occhi verso: <<Sì, Albert.>>

<<Come sta?>>

Gilmour scosse la testa: <<Io ho fatto tutto quello che era in mio potere. Ormai dipende solo da lui… dalla sua capacità di reazione e dalla sua volontà di vivere.>>

<<Capisco.>>, disse Albert abbassando gli occhi.

<<Russell…>>, continuò Gilmour <<è uno dei soggetti di un esperimento.>>

<<Lo aveva già accennato… E allora?>>

Gilmour si schiarì la gola: <<Ho fatto alcune ricerche. Ci sono stati parecchi dispersi in quella guerra nella quale Russell stava combattendo. E anche nelle altre che sono in corso nel pianeta. Credo che quella bestia di Cook raccolga i corpi dei militari colpiti a morte o comunque in modo grave e li trasformi in cyborgs… il problema è che non ha un valido farmaco antirigetto.>>

<<Cook non è… il superiore di sua nipote?>>, chiese Albert stringendo gli occhi.

Gilmour annuì: <<Però non so fino a che punto Julia sappia di quello che deve succedere in quel centro di ricerche. Il fatto che non sapesse che Russell era una delle cavie mi fa pensare che non sia così coinvolta. O che almeno non sappia che il progetto illustrato l’altro giorno, in realtà, sia già iniziato.>>

<<Quindi?>>

<<Quello che sta facendo Cook è assolutamente fuori legge.>>, rispose lo scienziato alzandosi in piedi e cominciando a camminare per la stanza <<Se venisse scoperto verrebbe arrestato e radiato dall’ordine. E quei poveretti avrebbero una degna sepoltura. Chissà quanti ne sono già morti…>>

<<Lei vuole che noi andiamo a fermarlo?>>

Gilmour annuì: <<Lo so che è un momento difficile e che siete preoccupati per il vostro compagno. Ma quel pazzo va fermato prima che la sua follia faccia altre vittime.>>

Albert annuì: <<In quanti andiamo?>>

Gilmour si aspettava una domanda del genere: <<Credo che Françoise non sia in grado di partecipare. D’altronde, con tutto il rispetto, senza 009 il gruppo perde già un elemento di valore assoluto. Solo Françoise e Ivan resteranno qui.>> Gilmour si appoggiò con le mani sul davanzale della finestra aperta <<Partirete domattina, all’alba, con il Dolphin. Onde per cui, vai ad avvisare gli altri e riposate. In assenza di 009 sarete tu e 002 al comando delle operazioni.>>

<<Va bene.>>, annuì Albert <<Però ci sappia tenere informati se ci sono novità.>>

<<Sicuro.>>, disse Gilmour <<Lì sulla scrivania c’è una cartella. C’è la  pianta del Centro di Ricerche e informazioni sui sistemi di sicurezza.>>

Albert prese la cartella sulla scrivania e l’aprì, studiandone il contenuto per un paio di minuti. C’erano delle cose evidenziate con un pennarello rosso su alcuni fogli: <<Uhm… c’è un sistema di sicurezza di alta efficienza basato su codici di accesso alfanumerici.>>

<<Sì, lo so.>>, disse Gilmour <<Forse ho una soluzione... Ma non so se funzionerà. Nel caso… ti farò sapere più tardi. Adesso puoi andare.>>

Albert uscì dallo studio. Fece qualche passo in corridoio, quando si vide venire incontro Julia. Istintivamente si mise la cartella sotto il braccio.

<<Mio zio è nel suo studio?>>, chiese lei. Sembrava avere fretta.

<<Sì.>>

Julia passò oltre. Albert la guardò bussare alla porta, poi riprese a camminare allontanandosi da lì.

Julia aprì, non appena sentì la voce di suo zio darle il permesso di entrare. Lo trovò voltato verso di lei, vicino alla finestra.

<<Come sta?>>, gli chiese con una voce tesa.

<<Chi?>>, chiese Gilmour, facendo finta di non capire.

<<Russell. Che cosa gli hanno fatto?>>, chiese Julia deglutendo.

Gilmour cominciò a camminare a piccoli passi per la stanza, con le mani dietro la schiena: <<Mi chiedevo quando me l’avresti chiesto. Pensa che mi ha chiesto perché non sei andata a trovarlo…>>

<<Zio, ti ho fatto una domanda.>>, lo interruppe Julia con tono perentorio.

Gilmour la guardò con le labbra serrate in un sorrisetto amaro: <<Su Julia… sai benissimo che cosa gli hanno fatto… e in cuor tuo sai anche chi è stato.>>

<<Ti ho fatto una domanda… gradirei una risposta!>>

Gilmour fece trascorrere qualche istante di silenzio: <<Vuoi una risposta chiara e brutale? Va bene.>>

L’anziano scienziato si mise a sedere alla sua scrivania, mettendosi comodo contro lo schienale e intrecciando le mani sopra la pancia: <<Ricordo che da piccola le storie ti piacevano tanto.>>, riprese <<Te ne racconterò una.>>

<<Zio…>>

<<No, ascolterai. E mettiti a sedere, perché non sono sicuro che ti piacerà.>>

La ragazza era esasperata, ma obbedì. Si mise a sedere su una delle due sedie davanti alla scrivania e restò in silenzio, aspettando che Gilmour iniziasse.

<<C’erano una volta,>> cominciò Gilmour <<due brillanti studenti universitari. Frequentavano la stessa facoltà e avevano la stessa passione per la scienza… e per la cibernetica. Solo che uno, in quel campo, era un po’ più bravo dell’altro. Solo che a quel tempo… ti sto parlando del periodo prima della Seconda Guerra Mondiale… la cibernetica era ancora una disciplina non molto ben vista in ambiente scientifico. Così i due continuavano i loro studi nell’ombra. Iniziò la guerra. Uno dei due, il più bravo, fu chiamato nientemeno che da quel folle di Hitler, che era a conoscenza della sua bravura nel campo della cibernetica, e voleva usare i cyborgs in guerra. E quello studente, che si chiamava Isaac, da bravo stupido, accettò accecato dall’idea di poter finalmente fare i propri esperimenti nella più assoluta libertà. Ma la guerra finì come tutti sappiamo, senza che si fosse potuto portare a termine con successo il discorso “cyborg”. Isaac fugge rovinosamente in Russia, anche per scampare agli stessi nazisti che, visto che a loro non serviva più, lo volevano uccidere per le sue origini ebree. Però lo scienziato aveva fatto importanti scoperte. E quando fu chiamato da un’organizzazione di mercanti di armi per riprendere in mano il progetto, anche stavolta non ci pensa due volte e accetta. Lì riesce finalmente a trovare il bandolo della matassa, il modo per creare cyborgs perfetti, riuscendo anche a formulare un valido farmaco che ovviasse a quello che fino ad allora era stato il problema più grande: il rigetto. L’uomo presiede alla conversione in cyborgs di 8 esseri umani e tutte hanno successo. Pensa che il terzo di questi era un tedesco così malridotto e in fin di vita che gli ho praticamente dovuto rifare tutto il corpo da capo, perché non c’era rimasto quasi niente che potesse essere utilizzato. Mi stupii io stesso del fatto che ce l’avesse fatta, ma credo… anzi, sono sicuro che lui avrebbe preferito di gran lunga morire. Gli altri invece avrebbero voluto essere semplicemente lasciati in pace. Questi dubbi cominciarono a martellare la mente del povero Isaac, che comincia a pensare di aver commesso un errore grossolano, che capisce che quello che sta facendo è solo una rovina per la vita degli altri. Insieme a quegli 8 cyborgs che lui ha creato e a un altro creato da un altro scienziato, fugge dall’organizzazione e decide di combatterla con i suoi nuovi compagni, che col tempo diventano per lui come dei figli. Qualche tempo dopo riceve una telefonata. E’ il suo compagno dell’università, quello dell’inizio, che chiameremo Martin. Gli ha telefonato perché ha saputo che ha fatto grandi passi avanti nel campo della cibernetica e per dirgli che anche lui ne ha fatti. Anche lui sa come si fa un cyborg, ma sfortunatamente non ha una valida formula di farmaco antirigetto e questi non sono segreti che trapelano tanto facilmente, nemmeno da un criminale all’altro. Isaac si rifiuta di dargli quella formula e sa che neanche l’organizzazione per cui ha lavorato gliela darà, perché sennò chiunque potrebbe mettersi a fabbricare cyborgs e venderli sul mercato delle armi. E d’altronde quell’organizzazione non prenderà Martin tra le sue fila perché è notoriamente un vanitoso, che farebbe cadere tutto il teatrino. Ma Martin a quanto pare non si arrende. Viene cacciato dal suo Paese e apre un Centro di Ricerche in Giappone dove, sotto una copertura falsa, continua a fare i suoi esperimenti su cavie umane, nella speranza di trovare un antirigetto efficace. Prende i feriti gravi prodotti dalla miriade di guerre presenti nel mondo e li converte… e naturalmente questi muoiono a uno a uno in preda a dolori terribili e lancinanti a causa del rigetto.>>

Julia, che fino ad allora aveva ascoltato senza fare una piega, scosse la testa: <<Zio, adesso basta…>>

<<E Russell non è che una di queste cavie.>>, concluse Gilmour ignorandola <<E Cook è un assassino.>>

<<Io non lo sapevo!>>, urlò lei.

<<Lo so che tu non sapevi… però sei venuta da me per sapere qual è la formula dell’antirigetto.>>, disse lo scienziato con una voce penetrante <<E te l’ha chiesto lui stesso.>>

<<Volevo che il progetto iniziasse.>>, protestò lei.

<<E’ già iniziato.>>, le fece notare.

<<Pensavo che nessuno dovesse più soffrire come avevo sofferto io pensando che Russell fosse morto.>>, urlò Julia alzandosi in piedi e sbattendo i palmi della mano sulla scrivania <<Sarebbe stata gente destinata a morire comunque!>>

Gilmour non fece una piega: <<E perché gente destinata a morire deve subire una così atroce condanna a vivere?>>

<<Condanna?>>

<<Ti faccio una domanda: cosa farai con Russell?>>

<<Io…>>, Julia serrò le mani in due pugni così stretti che le nocche le diventarono bianche <<Io non ci ho ancora pensato.>>

<<Io credo invece che tu l’abbia fatto e che tu sia arrivata alla conclusione che non puoi più amarlo perché non riesci a vederlo come un essere umano, nonostante i suoi sentimenti per te non siano cambiati. Lui è un cyborg e tu non riesci ad andare più in là di questa parola… ma non hai la minima idea di quello che c’è dietro.>>

Julia distolse lo sguardo e si voltò di scatto verso l’enorme libreria che si trovava alle sue spalle: <<Che ne sai tu di quello che penso?>>

<<Joe e Jet ci sono passati… prima di Russell.>>, rispose Gilmour <<E hanno sofferto come cani. Ma loro avevano degli amici fraterni che li hanno aiutati a uscirne. Russell si ritroverà solo.>>

<<Non è colpa mia… io non ce la faccio.>>, disse Julia con la voce rotta dal pianto, scuotendo la testa fra le sue mani.

<<Non è colpa tua… ma tu sai di chi è la colpa di tutto questo e puoi fargliela pagare.>>

Julia si voltò nuovamente verso suo zio, il volto gonfio di lacrime: <<Cosa diavolo vuoi?!>>

Gilmour sorrise, ma solo dentro di sé. Avrebbe ottenuto quello che voleva, anche se non gli era piaciuto il modo in cui aveva dovuto agire. Ma a volte un nobile fine può giustificare mezzi abietti. Sul suo volto rimase un’espressione seria e grave: <<Voglio i codici di accesso a quel Centro di Ricerche.>>

 

Parte XIV

 

Françoise si svegliò alle 10 del giorno dopo. Era nel suo letto, ancora vestita. Si chiese come c’era arrivata. Si sistemò un po’, davanti allo specchio, in modo da essere almeno presentabile, e uscì dalla stanza. C’era un silenzio insolito in casa.

Scese le scale in fretta e andò diritta in cucina. Trovò Julia seduta al tavolo, mentre dava da mangiare a Ivan. La ragazza alzò la testa e sgranò gli occhi. Era la prima volta che si ritrovava sola con Françoise da quella sera. Nei giorni passati aveva cercato di evitarla, cordialmente.

<<Buongiorno.>>, le disse non sapendo cos’altro dire.

Françoise la guardò prima perplessa, poi abbozzò un sorriso: <<Buongiorno.>>

Andò a prepararsi del caffè. Ne aveva bisogno. Quando ebbe finito e ebbe acceso la macchina, si sedette a tavola, ad aspettare che il caffè passasse.

<<Dov’è il professore?>>, chiese dopo qualche secondo.

<<Credo che sia in laboratorio.>>, rispose Julia posando il biberon vuoto sul tavolo.

Ma Ivan, dopo un po’, cominciò a lamentarsi.

<<Possibile che ne voglia ancora?>>, chiese Julia rivolgendosi a nessuno in particolare.

Françoise sorrise e prese il biberon dal tavolo, alzandosi per prepararne un altro: <<Il fatto è che dorme a giornate e quando si sveglia ha fame arretrata.>>

<<Capisco…>>

Françoise mise il pentolino col latte sul fuoco e si versò il caffè che era appena passato: <<Julia?>>, disse senza voltarsi.

<<Sì?>>

Françoise si girò verso di lei e sorseggiò il suo caffè. Poi riprese a parlare: <<Mi dispiace per l’altra sera. Tu non c’entravi nulla e io mi sono sfogata su di te.>>

Julia scosse la testa: <<Sono io che mi devo scusare per aver parlato di cose che non conoscevo. Vi ho offeso senza nemmeno sapere di farlo. Comprendo la tua rabbia e capirei se tu non mi rivolgessi più la parola.>>

Françoise scosse la testa: <<Non dire sciocchezze.>>

Il latte bollì e Françoise spense il fuoco. Sbriciolò dei biscotti e li buttò dentro il liquido bianco, per poi versarlo dentro il biberon. Poi riempì il pentolino vuoto di acqua fredda e vi mise dentro il biberon a intiepidire.

<<Hai provato a fargli sentire la tua voce?>>, chiese Julia dietro di lei.

Françoise si voltò, guardandola perplessa: <<Pardon?>>

<<Hai provato a parlare a Joe? Ci sono parecchi casi in cui persone in coma si sono risvegliate dopo aver ascoltato la voce di persone care, amici, parenti, fidanzate.>>

Françoise serrò le labbra: <<Io pensavo che certe cose accadessero solo nei film.>>

<<Beh, la gente pensa che i cyborgs esistano solo nei film.>>

Françoise la guardò in modo strano.

<<Non era una battuta opportuna.>>, disse Julia  rendendosi conto della gaffe.

<<A dire il vero… hai proprio ragione.>>, disse Françoise accennando un sorriso <<Però… Joe direbbe che la gente pensa che i cyborgs esistono nei film, nei comics e nei manga. Gli ho sentito dire qualcosa del genere… a volte.>>

Julia sorrise a labbra stette, restando in silenzio per qualche secondo. Poi le venne in mente una cosa: <<Come facevi a sapere che Russell era…>>

<<Avevi mandato una foto a tuo zio qualche tempo fa… e lui me l’ha mostrata. Tutto qui.>>

<<Sì, ricordo.>>, disse Julia annuendo <<Ti devo chiedere scusa anche per un’altra cosa.>>

<<Uhm… del fatto che hai cercato di baciare Joe mentre eravate sulla Torre di Tokyo?>>

<<Tu lo sapevi?>>, chiese Julia inarcando le sopracciglia.

<<Verba volant…>>, recitò Françoise bevendo un altro sorso di caffè.

<<Comunque mi dispiace… io non sapevo che voi due…>>

<<Ufficialmente lo sanno solo il professor Gilmour e Jet.>>, disse Françoise sorridendo <<Però credo che ormai se ne siano accorti tutti, compresi Bretagna e Chang, che è tutto un dire. Soprattutto io non sono molto brava a non lasciar trasparire i miei sentimenti. Joe ci riesce molto meglio di me.>>

<<Credi che lo sappia anche Ivan?>>

Françoise si ricordò del biberon e si alzò a prenderlo: <<Lui probabilmente l’ha saputo prima di tutti.>>, disse sentendo che la temperatura fosse giusta versandosi qualche goccia sulla mano e tastandolo con le labbra.

Porse il biberon a Julia e si rimise a sedere: <<Vuoi che lo faccia io?>>, le chiese.

<<No, figurati... per me è un piacere.>>, rispose Julia offrendo il beccuccio a Ivan, che fu ben felice di metterselo tra le labbra <<Comunque ti capisco.>>

<<In che senso?>>

<<Per poco non mi innamoravo anch’io.>>

Françoise fece una specie di smorfia di rassegnazione: <<Ci sono abituata. La ragazza dell’episodio del giorno sembra sempre puntare lui come l’ago di una bussola punta verso il nord. E lui… almeno una volta… non è che facesse molti sforzi per tirarsi indietro.>>

<<Io uno così l’avrei lasciato perdere.>>, disse Julia scuotendo la testa.

<<Guarda che questo lo faceva quando non stavamo insieme. Se lo facesse adesso non la passerebbe liscia. Comunque… “irrimediabilmente innamorata” gliel’ho detto io. Sopportavo perché sono “irrimediabilmente innamorata” di lui.>>

In quel momento entrò il professor Gilmour: <<Oh, buongiorno Françoise.>>, le disse.

<<Buongiorno professore… cosa ci ha messo ieri sera in quel bicchiere d’acqua?>>

Gilmour la guardò perplesso, poi ammise: <<Un sonnifero. Avevi bisogno di dormire.>>

<<E dove sono finiti tutti?>>, incalzò guardandolo con sguardo severo.

Gilmour sospirò: <<In missione. Ma non ti dirò dove.>>, disse <<Non sei nelle condizioni psicologiche per affrontare una prova del genere.>>

Françoise restò in silenzio alcuni secondi. Poi annuì, stringendo le labbra e portandosi una mano alla fronte: <<Purtroppo credo che abbia ragione. Non avrei la testa.>>

Gilmour le posò una mano sulla spalla: <<Grazie di avere compreso le mie ragioni.>>, le disse in tono affettuoso.

Françoise alzò gli occhi verso di lui, sorridendo appena: <<Professore, pensa che potrei provare a parlare a Joe?>>

Gilmour accennò un sorriso: <<Avrei voluto chiedertelo prima, ma non sapevo se te la saresti sentita e non volevo metterti in difficoltà.>>, le disse.

<<La ringrazio professore.>>, gli disse Françoise.

<<Di nulla. Adesso potresti lasciarmi un po’ solo con Julia?>>

<<Certamente.>>, rispose Françoise alzandosi.

<<E porta con te anche Ivan.>>, disse Gilmour.

Françoise annuì e prese il bambino dalle braccia di Julia, uscendo dalla cucina.

Dopo qualche istante, l’anziano scienziato si sedette al posto di Françoise, intrecciando le mani sul tavolo e schiarendosi la voce.

Julia lo guardava incuriosita: <<C’è qualcosa che devi dirmi, zio?>>

Gilmour le rivolse uno sguardo grave: <<Dimmi, Julia, hai parlato con Russell.>>

Julia abbassò lo sguardo sulle sue mani, che si tormentavano l’una con l’altra sopra la sua gonna: <<Ci siamo scambiati appena qualche parola… ma sinceramente non ho avuto il coraggio di parlare con lui a quattr’occhi.>>

<<Capisco.>>, annuì Gilmour stringendo le labbra.

<<Lo farò appena… me la sentirò.>>, disse Julia rialzando gli occhi.

<<Russell è scomparso.>>, sparò Gilmour, quasi dovesse togliersi un peso insopportabile dalla bocca.

Julia spalancò gli occhi: <<Come scomparso?!>>

<<Credo che se ne sia andato nella notte, con la tua macchina… visto che non c’è più neanche quella.>>, rispose Gilmour.

<<Io… io…>>, balbettò Julia. Ma non aveva parole da dire e non ne vennero. Si portò una mano alla fronte, ancora incredula. Forse senza nemmeno realizzare bene le parole che suo zio le aveva detto.

Gilmour restò a guardarla qualche minuto, senza dire niente. Poi si portò una mano alla tasca posteriore dei pantaloni e ne estrasse una busta chiusa, che appoggiò sul tavolo. Sopra c’era scritto: Per Julia.

<<C’era questa sopra il suo letto.>>, disse Gilmour <<Non l’ho aperta.>>

Julia la guardò per qualche secondo, come se fosse incerta se prenderla o meno. Poi allungò la mano, quasi tremando, e la trascinò fino a sé, raccogliendola poi fra le dita. Se la rigirò ancora qualche secondo in mano, guardandola con le labbra strette in una smorfia innaturale.

<<Temo di sapere quello che c’è scritto.>>, disse a voce bassa.

Gilmour non disse niente, limitandosi a guardarla con quello stesso sguardo di compassione che Julia le aveva visto l’altro giorno a tavola.

La ragazza trasse un profondo respiro e aprì delicatamente la busta, posandola sul tavolo dopo che ne ebbe estratto un foglio ripiegato accuratamente. Lo spiegò e cominciò a leggere, in silenzio.

 

Ciao… che modo banale di cominciare una lettera… non so bene che cosa scrivere in realtà. Speravo che mi saresti venuta a trovare, mentre ero solo in quella stanza di laboratorio. Non sei venuta, non sei mai venuta. E allora ho capito. Era meglio morire che farmi vedere da te in questo stato… lo sapevo fin dall’inizio. Ma speravo di vederti, almeno un’ultima volta. Di poterti parlare… ma tu mi eviti. Cordialmente. Come dici tu quando scansi le persone che non ti vanno a genio. E allora ti tolgo il pensiero di dirmi quello che non hai il coraggio di dirmi. Ho creato fin troppi problemi. Spero che Joe ce la faccia… non volevo ridurlo in quello stato. Mi piacerebbe averlo potuto conoscere in modo diverso. Non potrò. Credo che ci sia solo un modo in cui io possa rimediare all’errore.

Ricorda che i miei sentimenti per te non sono mai cambiati. E proprio per questo non voglio che tu ti senta in qualche modo in difficoltà a causa mia. Ti auguro tutto il bene possibile. Dimenticami… dimentica presto questa storia.

 

Tuo, Russell

 

Julia alzò gli occhi dal foglio e una lacrima scese lenta sulla sua guancia, andando a cadere sulla carta e sciogliendo l’inchiostro in una macchia nera. Poi un’altra lacrima… e un’altra ancora. In breve Julia si perse in un pianto dirotto.

Adesso sì. L’aveva perso. Definitivamente.  

 

Parte XV

 

<<A cosa pensi?>>, chiese Albert puntando la torcia contro Jet.

<<E toglimi quell’affare dalla faccia!>>, disse Jet in malo modo parandosi gli occhi con le braccia.

Albert puntò la torcia verso l’alto: <<Volevo vedere se eri presente.>>

<<Come vedi ci sono.>>, disse Jet contrariato.

Improvvisamente furono colti da un sobbalzo e si ritrovarono un po’ tutti a gambe all’aria.

<<007! Maledizione! Vuoi prenderle proprio tutte quelle buche?!>>, urlò Jet sbattendo il pugno contro la parete comunicante con la cabina di guida.

<<Mi dispiace ragazzi.>> rispose 007 <<La strada purtroppo è quella che è. E poi è anche buio. Siete voi che avete voluto agire di notte.>>

<<Ma quanto manca ancora?>>, chiese 008 tenendosi la testa che aveva sbattuto contro una parete.

<<Dovrebbero mancare una decina di minuti.>>, rispose 007.

004 si rimise al suo posto: <<Penso che sia inutile farti notare che hai detto la stessa cosa cinque o sei decine di minuti fa.>>

<<Beh, ragazzi. Io questa strada non la conosco.>>

<<Ma sei sicuro di aver preso la strada giusta?>>, chiese 006.

<<Io ho seguito le indicazioni.>>, rispose l’autista con una punta di impazienza.

<<Chi è che ha avuto la brillante idea di far guidare lui?>>, chiese 002 esasperato.

<<Potevi travestirti tu da Julia e guidare tu.>>, rispose 004 cogliendo la frecciata <<Oppure potevi volare.>>

<<Al diavolo!>>

Restarono qualche istante in silenzio. In sottofondo si sentiva solo il rumore sordo del motore del furgone che avevano deciso di utilizzare. A un certo punto il furgone rallentò.

<<Che succede?>>, chiese 008.

<<Siamo arrivati. C’è una sbarra chiusa. State zitti adesso.>>, rispose 007. Poi cambiò totalmente tono di voce <<Buonasera.>>

<<Salve, signorina Brightmann.>>, disse una voce maschile, una guardia probabilmente <<Dov’è finita la sua macchina?>>

<<Oh… purtroppo si è rotta e così mi hanno prestato questo rottame.>>

<<Va bene… passi pure.>>

Passarono alcuni secondi, poi il furgone ripartì di scatto, ma si fermò altrettanto improvvisamente, col motore fermo. Gli altri occupanti del furgon riuscirono a mantenersi in equilibrio stavolta, soprattutto perché 005 tenne fermi 008 e 006 con le sue grandi mani e 004 e 002 furono abbastanza pronti da non cadere.

<<Non sono ancora molto abituata a questo aggeggio.>>, si sentì 007 dire con la voce falsata.

<<Capita, signorina. Capita.>>, rispose la guardia.

Il motore venne riacceso e il furgone ripartì senza intoppi.

Gli abitanti di dietro tirarono più o meno tutti un sospiro di sollievo e Jet si promise che avrebbe insegnato a Bretagna come si usa una frizione per non far spegnere il motore.

Il furgone girovagò per qualche minuto lungo le strade interne al recinto entro il quale era stato costruito il centro. Poi si fermò. Si sentì 007 scendere e chiudere il suo sportello. Ancora qualche minuto di silenzio, poi i portelloni che aprivano il cassone si aprirono: <<Tutto tranquillo. Uscite.>>

<<Hai disattivato il circuito delle telecamere come ti avevo detto di fare?>>, gli chiese 008.

<<Certo.>> protestò 007 <<Per chi mi prendi.>>

Gli altri cyborgs uscirono dal retro del furgone e seguirono 004 fino alla porta. A lato dell’ingresso, come previsto, c’era un tastierino. Sopra vi erano tutte e 26 le lettere dell’alfabeto e i numeri da 0 a 9. Il codice di accesso era una sequenza alfanumerica che poteva andare da un minimo di dieci a un massimo di ventuno caratteri. Il che voleva dire una miriade di possibili combinazioni. Se si sbagliava per tre volte di seguitoscattava il sistema di allarme. 004 lo guardò con attenzione. Un led rosso indicava che la porta era chiusa. Richiamò alla memoria il codice: AJ073MCBY144ZNBK96093, Enter.

Il led rimase beffardamente rosso e su un display apparve una scritta a cristalli liquidi rossi: ACCESS DENIED, WRONG PASSWORD.

<<Che diavolo…?>>, disse 004 contrariato.

<<Che succede?>>, chiese 002 con una certa ansia nella voce.

<<Forse ho sbagliato a digitare qualcosa…>>, disse guardandosi la mano destra pensieroso <<E’ meglio se lo fai tu.>>, disse a 002.

Portò la mano al tastierino. Anche lui sapeva il codice a memoria. Digitò lentamente, per essere sicuro di non sbagliare: AJ073MCBY144ZNBK96093, Enter.

Rosso! Il display a cristalli liquidi rossi mostrò la scritta di prima e fu anche così gentile da avvertire silenziosamente che restava un’ultima possibilità per digitare il codice giusto.

<<Ma come?!>>

<<Ma siete sicuri di avere il codice esatto?>>, chiese 007 piuttosto nervoso.

<<Certo… almeno questo è quello che Julia ha dato al professore!>>, rispose 004 indispettito <<Gliel’ha scritto su un foglietto. L’avrò letto tre milioni di volte!>>

<<E anch’io.>>, disse 002.

<<E le lettere com’erano scritte?>>, chiese 008 con un tono incredibilmente calmo e le braccia incrociate.

<<In che senso?>>, chiese 002.

<<Maiuscole o minuscole?>>

<<Maiuscole.>>, rispose 004.

<<E il Caps Lock lo avete premuto?>>

I due si guardarono fra loro.

<<Che accidenti è il Caps Lock?!>>, chiese 002.

008 sospirò e si avvicinò al tastierino. Premette un tasto e un led giallo sul tasto stesso si illuminò.

<<Dettate un po’.>>, disse.

004 obbedì e 008 digitò il codice sulla tastiera: AJ073MCBY144ZNBK96093, Enter.

Il led rosso lampeggiò tre volte e diventò verde. Sul display apparve la scritta: ACCESS GRANTED. Le porte si aprirono sotto gli occhi esterrefatti di 004 e 002.

<<Andiamo?>>, chiese 008 con le mani sui fianchi.

I due non risposero e entrarono dentro l’edificio, seguiti dagli altri. Si ritrovarono in un lungo corridoio, dai colori freddi e metallici, illuminato dal neon. I sei camminarono a passi lenti e felpati, facendo attenzione a ogni minimo rumore. Improvvisamente sentirono aprirsi una porta. Si nascosero dietro una parete, dove il corridoio si incrociava con un altro corridoio. Da un lato del corridoio sul quale stavano camminando prima uscirono due uomini. Entrambi indossavano camici bianchi e sembravano piuttosto giovani. Si fermarono appena fuori dalla porta a parlare.

<<Adesso vai a controllare gli ultimi?>>, chiese uno, dal fisico piuttosto tozzo, grasso e sgraziato, che se ne stava appoggiato allo stipite della porta.

<<Sì.>>, rispose l’uomo che era invece decisamente fuori dalla stanza e dava le spalle ai cyborgs <<Anche se non credo che le cose vadano molto meglio. Non capisco perché Cook si ostini così tanto.>>

<<Amore per la scienza.>>, rispose l’altro <<A modo suo.>>

<<Già… comincio a averne abbastanza.>>, disse l’altro grattandosi la testa <<Sicuro di non volermi accompagnare?>>

<<No.>>, disse quello tozzo scuotendo il capo con forza <<Devo mettere a posto dei documenti, e poi me ne vado a letto.>>

<<Va bene… allora buonanotte.>>, disse l’altro salutandolo con un cenno della mano e allontanandosi.

<<Buonanotte anche a te.>>, disse quello tozzo chiudendo la porta.

004 batté una mano sulla spalla di 007 e gli fece cenno di seguire l’uomo.

“E come?”, mimò con le labbra 007 “Un topo qui dentro mi sembra improbabile.”

004 si limitò ad indicare la porta che si era appena chiusa.

007 scosse la testa con sguardo supplichevole.

“Muoviti”, mimò 004 con uno sguardo che non ammetteva repliche.

007 voleva mettersi a piangere, ma si trasformò comunque nell’uomo tozzo e grasso e seguì l’altro, raggiungendolo.

<<Cos’è? Ci hai ripensato?>>

007 sorrise: <<Sì… quei documenti possono aspettare.>>, disse dando uno sguardo al cartellino di riconoscimento che l’uomo portava attaccato al camice con su scritto ALFRED BENKLEY.

“Ecco… tra tutti i nomi proprio uno di quelli che hanno infinite varianti di diminutivi. Al, Alf, Fred… lo chiameranno in un modo particolare?”

007 si guardò alle spalle e notò che i suoi compagni continuavano a seguirlo, stando attenti a non farsi notare troppo.

<<Cosa guardi, Bob?>>, chiese Alfred guardandosi indietro.

007 impallidì e gli dette una pacca sulla spalla, distraendolo: <<Niente, niente… non ti preoccupare.>>

L’uomo alzò le spalle e continuò a camminare: <<Cosa mi dici di Lucy?>>

“E chi diavolo è Lucy?”, si chiese 007 terrorizzato “Ma che con questo aspetto orripilante questo pensa pure di fare conquiste?!”

<<Cosa vuoi sapere?>>, chiese 007 cercando di prendere tempo.

<<Ha smesso di essere in calore?>>

“Cioè… vuol sapere se ci è andato a letto… Spero per lei di no.”

<<E’ andata male.>>, rispose 007.

<<E’andata male? Vuoi dire che non sei riuscito a impedire che uno di quei randagi che girano qui intorno la montasse?>>

“Aaaaaaaaahhh… Lucy è un cane!”

<<Sì… purtroppo è successo.>>

<<Vabbé… istinti animali.>>, disse l’altro, fermandosi davanti a una porta e digitando un codice su un tastierino un po’ più piccolo e diverso di quello di prima.

007 si limitò ad annuire osservando attentamente il codice e memorizzandolo: 1947jan17, 17 gennaio 1947.

Entrarono in una stanza poco illuminata. Su entrambi i lati c’erano tre letti, per un totale di sei.

<<Tu guarda quelli a destra. Io penso a quelli di sinistra.>>, disse l’uomo dirigendosi verso i “suoi pazienti”.

007 si portò sul lato di destra e si avvicinò al primo dei tre letti. Guardò l’uomo che vi era disteso sopra. Non aveva una bella cera. Il suo volto denotava chiaramente una grande sofferenza. E non doveva avere più di vent’anni. Bretagna provò una gran pena per lui.

A lato di ciascun letto c’erano degli schermi e, appesa a un gancio, una specie di cartella clinica con delle annotazioni fatte a penna. La penna era attaccata alla cartella con uno spago.

007 raccolse la cartella e la studiò. Nessun nome, dato anagrafico o altro. Solo un numero accanto a una scritta prestampata “SOGGETTO #” e fogli di annotazioni su funzioni come battito cardiaco,  pressione sanguigna, attività cerebrale, problemi riscontrati, etc. I vari fogli portavano delle date scritte sopra e l’ora in cui presumibilmente erano stati raccolti i dati. L’ultima rilevazione risaliva a quel pomeriggio, alle 17.01. Su tutti i fogli una scritta ricorrente: SCARSE PROBABILITA’ DI SOPRAVVIVERE AL RIGETTO. 007 prese un nuovo foglio prestampato da dietro la cartella, dove erano riposti, e dette uno sguardo agli schermi. Non era difficile. Doveva solo compilare il foglio con i dati che erano scritti sugli schermi. Quando ebbe finito, ripose la cartella al suo posto e passò al secondo.

Anche questo non stava bene ed era giovanissimo. Bretagna cominciava a sentirsi male. Compilò la cartella in fretta e passò al terzo.

Qui notò subito che le linee sugli schermi erano tutte piatte. Guardò il volto del soggetto. Era una donna. Giovanissima anche lei. Aveva gli occhi ancora aperti. Bretagna, con un gesto della mano, li chiuse per sempre e si fece il Segno della Croce.

Poi si voltò verso l’altro: <<Ne è morta una.>>, disse.

L’uomo lo guardò senza lasciar trasparire alcuna emozione: <<Beh, annotalo. Non ti ricordi più come si fa?>>

<<Potresti farlo tu? Ho un bisogno improvviso.>>, disse Bretagna.

L’uomo sbuffò e ricominciò a scrivere sulla cartella che stava compilando: <<Va bene… dovrò anche avvertire Cook e… Accidenti… le fosse sono strapiene. Dove li metteremo tutti se continua così...>>, disse.

Bretagna sgranò gli occhi. Si mosse in fretta e uscì veloce dalla stanza. Tornò indietro, alla porta che aveva visto con su scritto WC, ed entrò. Si fiondò in una delle porte verdi aperte e vomitò. Era la prima volta che vomitava da quando era un cyborg. Quello che aveva visto e ciò che aveva immaginato era troppo.

<<Che cosa diavolo ti è successo?!>>

Bretagna si voltò e si trovò 002 appoggiato allo stipite della porta.

<<Jet, è terribile.>>, disse Bretagna riprendendo fiato e cominciando a gesticolare col suo fare teatrale che ormai gli era naturale <<Loro sono l’immagine stessa della sofferenza… muoiono e poi li portano… ha parlato di fosse! Fosse comuni, capisci?>>

Jet deglutì. L’immagine evocata da Bretagna faceva terrore. Qualcuno entrò nel bagno.

002 e 007 si chiusero dentro il loro loculo e si alzarono in piedi sul water.

<<E’ evidente che non ci siamo ancora.>>, disse una voce maschile, seguita dallo scrosciare dell’acqua di un lavandino.

<<No, professor Cook.>>, disse la voce ormai nota di Alfred.

Lo scroscio dell’acqua cessò: <<Vai a prenderne un altro e prova con la variante H.>>, disse Cook <<Anzi… ti aspetto là.>>

Sentirono dei passi e la porta che si richiudeva.

<<Che rottura di scatole.>>, disse Alfred evidentemente aprendo l’acqua di un lavandino, visto che l’acqua ritornò a farsi sentire <<Adesso mi toccherà andare in quella specie di cella frigorifera. Mi chiedo quando finirà questa storia.>>

L’acqua smise di scorrere e dopo pochi secondi anche Alfred uscì.

002 e 007 scesero dal water e uscirono fuori.

<<007, devi seguirlo.>>, disse 002 con voce ferma.

<<Jet, ti scongiuro…>>

<<Dobbiamo sapere dov’è questa cella frigorifera… lo so che non sarà piacevole.>>

Bretagna sospirò e riprese le sembianze dell’uomo tozzo e grasso, uscendo dalla stanza.

Jet si appoggiò a una parete e si mise la faccia tra le mani, per poi passarsele nei capelli.

<<Assassini.>>, sibilò a voce bassa. Poi si voltò di scatto e mollò un violento pugno nel muro, provocando un cratere attorno alla sua mano <<Maledetti assassini!>>

 

Parte XVI

 

<<Dovrei parlarti… ma… a essere sincera… non so cosa potrei dirti.>>

Françoise posò le sue dita sulla mano inerte di Joe. Era notte. Ci aveva messo un bel po’ per trovare il coraggio di entrare in quella stanza. Il rumore ritmico e cadenzato delle apparecchiature le risultava insopportabile, ma in fondo, pensava, finché quel suono fosse stato regolare e non continuo voleva dire che Joe era vivo. Per quanto sottile e fragile potesse essere quel filo che lo legava alla vita.

<<Certo… con te non c’è mai niente che sia facile e immediato. In un modo o nell’altro riesci sempre a complicare le cose… o succede sempre qualcosa per cui le cose si complicano. Fra me e te… poi… sembra un must. Jet direbbe che non saremmo noi se le cose fossero semplici…>>

Guardò il volto di Joe, che rimaneva impassibile, e strinse leggermente la sua mano.

<<Ti ricordi quello che mi hai detto l’altro giorno? Di quando eravamo in quella grotta, ai Carabi. Tu hai detto che pensavi che se morivo io… tanto valesse che morissi anche tu. Beh… io adesso dico la stessa cosa a te… Se tu te ne vai, io mi sento persa… e non ce la farei… io…>>

Françoise sospirò, facendo una smorfia. Non riusciva a mettere insieme due parole sensate… o almeno così le sembrava.

<<Hai detto anche che pensavi che potesse addirittura essere stata una fortuna essere stato trasformato in cyborg… perché avevi incontrato me?>>, silenzio di pochi secondi <<Non credo di valere così tanto. Non credo che in nessun modo quello che ci è capitato possa essere visto in modo positivo. Anche se… tutto questo mi ha fatto conoscere il vero significato di cose come l’amicizia e… amare… amare qualcuno fino a star male.>>

Prese la mano di lui fra entrambe le sue: <<Io non credo di essere stata fortunata a essere stata trasformata in un cyborg… però sono stata fortunata ad aver conosciuto te… Mi rendo conto che sembra quasi una contraddizione in termini… ma io… questo è quello che penso… Io…>>

Françoise sbuffò in una specie di risatina: <<Sto diventando banale… Com’era? Al pubblico piacciono le banalità?... Beh… eccone un’altra: io non ho mai amato nessuno come amo te e… ho bisogno di te. Ho bisogno dei tuoi sguardi, ho bisogno delle tue parole… ho bisogno di te… completamente. E se questo non… se secondo te questo non è un motivo sufficiente per restare… Anche gli altri hanno bisogno di te…  tutti. Quindi...>>

Alzò gli occhi al soffitto, raccogliendo un ultimo barlume di forza: <<Quindi resta con noi.>>

Françoise restò ferma qualche istante… momento… minuto… sperando di vedere un filo di luce in quel tunnel oscuro nel quale gli sembrava di vagare a tastoni da… non sapeva nemmeno quanto ormai.

Ma la luce non venne. Joe continuava a restare immobile. Il tunnel continuava a restare buio. Françoise si portò l’indice e il pollice di un mano agli occhi. Le facevano male… aveva pianto troppo in quei giorni. Sospirò profondamente. Non ce la faceva più a stare lì dentro.

Si alzò dalla sedia, andando verso la porta. Ma la sua mano restò attaccata a quella di Joe… nonostante lei non la stringesse più.

 

Parte XVII

 

007 aveva seguito Alfred e Cook, seppur di malavoglia. Arrivarono davanti a una porta. Cook digitò un codice, 1946feb9, sull’ennesimo tastierino. Entrarono in un’altra stanza poco illuminata. Ma stavolta Cook azionò un interruttore che accese una serie di lampade al neon. 007 si vide davanti una specie di enorme armadio di metallo. Ce n’erano altri dietro. Quella stanza sembrava non finire mai.

Cook fece qualche passo avanti e indietro davanti all’armadio, la cui superficie che era divisa in  quadrati. Sopra ogni quadrato c’era un adesivo con delle scritte. 007 ne lesse uno a caso: M… 23… B… 17 sep 19XX.  Realizzò con orrore cosa dovesse contenere quell’armadio.

<<Questo.>>, disse Cook indicando un quadrato.

007 lesse “l’etichetta”: M… 25… Y… 16 sep 19XX.

Cook tirò il quadrato per una maniglia a scomparsa. Dentro quel loculo c’era il corpo di un uomo. Si trattava evidentemente di celle criogeniche. L’uomo era un asiatico. Forse un coreano. Aveva passato abbastanza tempo in Giappone da capire che non era giapponese. A quel punto capì che cosa voleva dire quella “Y” sull’”etichetta”. Stava per yellow, giallo. Cioè il colore della pelle. “M” era il sesso, “25” l’età, “16 sep 19XX” la data in cui era presumibilmente stato criogenizzato. Idem per la prima etichetta che aveva letto, dove “B” stava presumibilmente per black, nero.

<<Portatelo in sala di decriogenizzazione e cominciate il trattamento.>>, disse Cook come se avesse dato disposizioni per la lista della spesa.

<<Io credo proprio di no.>>

“Finalmente!”, esultò 007 in cuor suo, vedendo 004, 008 e 002 e riprendendo le sue sembianze.

<<E voi chi diavolo siete?!>>, urlò Cook agli intrusi.

<<Persone che metteranno fine a questo scempio.>>, disse 004 puntando la mano destra contro Cook.

<<Chiama la sicurezza, muoviti!>>, ordinò Cook ad Alfred.

<<E’ inutile. Ho rotto tutti i collegamenti dei circuiti comunicazione con il resto dell’edificio. Questa zona è isolata.>>, disse 008 prima che Alfred raggiungesse una specie di telefono posto in un angolo della stanza.

<<Che cosa volete?>>, sibilò Cook rosso in volto dalla rabbia.

<<Per esempio che lei si costituisca alle autorità e paghi per i crimini che sta commettendo qui dentro.>>, rispose 004 senza abbassare la mano.

Cook sogghignò: <<Voi dovete essere quei pazzi dei cyborgs costruiti da quel borioso di Gilmour.>>, poi la sua espressione diventò furiosa <<Se lui mi avesse dato quel farmaco tutto questo non sarebbe successo. Tutti questi esseri umani>> disse indicando con un braccio dietro di sé gli armadi criogenici <<vivrebbero come cyborgs.>>

<<E’ proprio perché non succedesse niente del genere che il professore non le ha dato quella formula.>>

<<Questo vuol dire bloccare il corso della scienza!>>, tuonò Cook <<Gli esseri umani sono ormai giunti ai loro limiti fisici. I cyborgs sono la risposta per superare questi limiti.>>

<<Non mi sembra che la strada che lei delinea per la scienza sia particolarmente gradevole.>>, disse 002 <<Forse è meglio se resta sbarrata.>>

<<Sono d’accordo.>>

Tutti quanti guardarono l’uomo che era appena entrato nella stanza. Aveva una pistola in mano e la puntava contro Cook.

<<Russell?!>>, disse 004 riconoscendolo.

<<E tu chi sei? Un loro compagno?>>, chiese Cook.

Russell guardò l’uomo con gli occhi colmi di odio: <<Non sono proprio un loro compagno. Diciamo che sono un compagno di quelli là dietro.>>, disse indicando gli armadi criogenici.

<<Dev’essere quello che è scappato, professore.>>, disse Alfred <<Ma non riesco a capire come possa essere ancora vivo.>>

<<Sono riuscito a raggiungere il professor Gilmour… e lui mi ha… fatto sopravvivere.>>, rispose Russell <<Anche se non posso dire di sentirmi “salvato”.>>

<<Maledetto.>>, sibilò Cook.

<<Ormai non ho più niente da perdere.>>, continuò Russell ignorandolo <<Albert… Jet… Punma… così vi chiamate, vero? Comunque sia… uscite da qui il più in fretta possibile.>>

<<Che cosa vuoi fare?>>, chiese Punma con gli occhi sbarrati.

Russell alzò l’altra mano e ne mostrò il contenuto: un piccolo cilindro con un solo pulsante su un’estremità. Un filo partiva dall’altra estremità del cilindro e andava a finire sotto la giacca di Russell.

<<Russell… no…>>, cercò di dire Jet.

<<Sono pieno di esplosivo.>>, lo precedette Russell con un tono di voce incredibilmente calmo <<Ce n’è abbastanza per far saltare in aria quest’inferno ed è esattamente quello che farò.>>

<<Non possiamo permettertelo.>>, urlò Punma.

Russell sorrise appena: <<Andatevene, per favore. Lo so che forse quello che sto facendo è da vigliacchi… ma io…>>, i suoi occhi diventarono lucidi <<Io non ho il coraggio di vivere così… e per questo vi ammiro tantissimo… perché voi avete avuto quel coraggio che io non trovo. Andatevene, vi prego. Io conterò 360 secondi prima di premere il bottone.>>

<<No…>>, cercò di dire Jet, ma Albert lo bloccò, alzando un braccio.

<<Andiamocene.>>

<<Ma Albert!>>, protestò Punma incredulo.

<<Andiamo!>>, ripeté Albert.

Qualcosa, nel modo in cui lo disse, spense qualsiasi replica nelle gole dei suoi compagni.

I quattro si incamminarono verso la stanza.

<<Aspettate… un’ultima cosa.>>, disse Russell fermandoli e frugandosi in una tasca <<Potreste dare questo a Julia? Non so come ma mi era rimasto al collo.>>

Russell buttò loro qualcosa e Jet lo acchiappò al volo. Gli dette appena un’occhiata, annuendo. Poi uscì dalla stanza insieme agli altri.

<<Dove sono 005 e 006?>>, chiese 007 mentre correvano verso l’uscita.

<<Sono andati a prendere il Dolphin.>>, rispose 002. Poi puntò il naso verso il soffitto <<A proposito… non è meglio se voliamo?>>

<<Direi che è un’ottima idea.>>, disse 004 puntando un ginocchio verso il soffitto.

Partì un missile e dal buco che si formò era visibile il cielo. 002 spiccò il volo, portando 004 con sé. 007, trasformatosi in aquila, prese in consegna 008. In un attimo furono a distanza di sicurezza dal Centro di Ricerche.

<<Ecco il Dolphin.>>, disse 008, indicando il velivolo che veniva loro incontro.

Quando furono abbastanza vicini, si aprì un portello che li lasciò entrare all’interno. I quattro si portarono subito nella cabina di comando.

<<Lontano da qui e in fretta! Muoviti.>>, ordinò 004 a 006 che stava guidando.

<<Va bene, va bene. Non c’è bisogno di urlare.>>, rispose 006 voltando il muso e dando gas ai reattori.

Jet guardò il suo orologio: <<350… 351… 352…>>

Gli sguardi di Albert, Punma e Bretagna si posarono su di lui, malinconici.

Jet sembrò non badarvi: <<… 355… 356… 357… 358… 359… 360.>>

Il fragore dell’esplosione fu impressionante. Perfino il Dolphin risentì lievemente dello spostamento d’aria. Albert spinse un bottone e sullo schermo principale apparve l’immagine del Centro di Ricerche completamente avvolto dalle fiamme.

Bretagna si fece il Segno della Croce. Anche Albert e Jet si trovarono ad imitarlo, quasi istintivamente.

<<In fondo era un bravo ragazzo.>>, sospirò Bretagna abbassando gli occhi.

<<Di chi state parlando?>>, chiese Chang, che ancora non ci aveva capito niente.

Albert sospirò: <<Russell… si è fatto esplodere.>>

<<Perché gliel’hai voluto permettere?>>, gli chiese Jet.

Albert alzò le spalle e chiuse gli occhi: <<Una voce… dentro… mi diceva che era giusto così.>>

Geronimo guardava in silenzio la scena. Si chiese se era il caso di rivelare il contenuto della comunicazione che gli era appena giunta in cuffia direttamente dal professor Gilmour. Ci pensò su qualche secondo, chiudendo gli occhi. Poi decise.

<<Joe si è risvegliato.>>  

 

Epilogo 

 

<<Ti ringrazio per avermi accompagnato all’aeroporto.>>, disse Julia sorseggiando il suo tè freddo.

Jet girò lo zucchero nel caffè e ne bevve un sorso: <<Figurati.>>, rispose <<Mi dispiace che il tuo aereo sia in ritardo però.>>

Julia alzò le spalle, come per dire che non aveva molta importanza: <<Ne avrò di tempo di qui in avanti. Non ho fretta.>>

<<Che cosa hai intenzione di fare?>>

<<Mi prenderò un bel periodo di riflessione.>>, rispose lei mettendosi una mano sotto il mento <<Ci sono tante cose… a cui devo pensare. Molte su cui mi sono accorta di avere opinioni sbagliate. Mi sento come se la ma vita fosse un enorme libro: adesso ho preso tutte le pagine precedenti e le ho strappate via. Ricomincio da capo.>>

Jet restò con la tazza a mezz’aria, guardandola perplesso: <<Secondo me sbagli.>>

<<In che senso?>>

<<A cancellare completamente il passato… o comunque a fare qualcosa del genere.>>

Julia sospirò, girando la cannuccia nel suo tè: <<Non so… mi guardo indietro e mi rendo conto che tutto quello che ero si basava su presupposizioni sbagliate… o su cose che io ho distrutto con le mie stesse mani.>>

Jet posò la tazza sul tavolo: <<Non è colpa tua se Russell è morto.>>

<<Tu dici?>>

<<E’ stata una sua scelta… e se c’è qualcuno che ha una qualche colpa… quella non sei certo tu. Capita a tutti di commettere degli errori.>>

<<Io ho fatto errori di valutazione grossolani.>>

<<Sì, ma…>>, Jet raccolse le parole <<Vedi, se cancelli tutto quanto rischi di dimenticare perché hai commesso quegli errori.>>

<<Forse hai ragione.>>, disse lei abbozzando un sorriso.

Un altoparlante invitò i passeggeri del volo di Julia a presentarsi al check-in. I due si alzarono dal tavolo e Jet prese le due valigie di Julia, prima che lei potesse dirgli qualcosa.

<<Jet, tu mi abitui male.>>

<<Ormai sono il tuo fattorino ufficiale, no?>>, rispose lui ironico.

Uscirono dalla caffetteria dell’aeroporto e si diressero all’area check-in.

<<Adesso… è meglio che tu vada.>>, disse Julia una volta giunti a destinazione <<Ti ho trattenuto anche troppo a lungo… e poi gli addii non mi sono mai piaciuti.>>

<<Come vuoi.>>, disse Jet posando le valigie a terra <<Ah, dimenticavo…>>

Jet si mise una mano in tasca e ne estrasse una catenina, alla quale era attaccata una di quelle lastre metalliche con su incisi i dati dei militari.

<<Russell mi ha pregato di dartela… prima di morire.>>

Julia prese l’oggetto tra le dita, sfiorandolo con i polpastrelli: <<Così continuerò a pensare a lui… ogni 360 secondi.>>

Jet aggrottò la fronte: <<360 secondi?>>

<<Sì… 6 minuti… è più o meno il tempo che ci vuole dalla fermata della metropolitana dove saliva lui e quella dove scendevo io.>>, disse Julia continuando a passarsi la lastra metallica tra le dita <<E’ lì che ci siamo incontrati la prima volta. E lui diceva sempre che si era innamorato di me in 360 secondi. Una volta mi chiese ogni quanto pensavo a lui.>> continuò Julia alzando gli occhi verso Jet <<E io gli risposi… così… ogni 360 secondi.>>

<<Capisco.>>, disse Jet sorridendo.

<<Beh… adesso devo proprio andare. Stammi bene Jet… e magari un giorno mi farai fare quel giro in aliante.>>, disse porgendogli la mano.

Jet la strinse: <<Magari. Buon viaggio.>>

Guardò Julia allontanarsi fino all’area check-in vera e propria. Sospirò profondamente e si allontanò a sua volta, verso il parcheggio.

Guidò fino a casa in maniera regolare, con la testa sintonizzata su altre frequenze. Uscito dalla macchina, incrociò Joe e Françoise che uscivano dalla porta di casa.

<<Non dovresti stare a riposo?>>, chiese Jet rivolgendosi all’amico.

<<Ah, sto bene.>> ribatté lui con un eloquente gesto della mano <<E poi ho il permesso del dottor Gilmour.>>

<<A dire il vero ha insistito così tanto, che alla fine il professore gli ha dato il permesso di fare una passeggiata fuori per toglierselo dai piedi.>>, rivelò Françoise.

<<Vuoi venire anche tu?>>, chiese Joe.

<<A reggere il moccolo a voi?>>, chiese Jet sorridendo ironicamente <<No, grazie.>>

<<Come vuoi.>>, disse Joe riprendendo a camminare <<Ma poi non ti lamentare che ti senti escluso.>>

Jet guardò Françoise: <<Gli hai detto qualcosa?>>

Lei allargò le braccia: <<Giuro che non gli ho detto nulla.>>

<<Io ti conosco meglio di quanto tu creda, Jet.>>, disse Joe <<Non ho bisogno che certe cose tu me le dica. Vieni, Françoise?>>, concluse Joe porgendo la mano alla ragazza.

<<Ci vediamo dopo, Jet.>>, disse Françoise raggiungendo Joe.

Jet li guardò allontanarsi verso la scalinata che dava sulla spiaggia. Per un attimo fu tentato di seguirli, ma si rese conto che sarebbe stato decisamente di troppo. Però…

<<Magari…>>, disse <<una di queste sere, quando Joe starà meglio, potremmo uscire tutti e tre insieme… per stare fra noi ventenni.>>

Joe e Françoise si voltarono.

<<Non è una brutta idea.>>, disse Joe.

<<A dopo.>>, li congedò Jet.

I due ripresero il loro cammino e Jet si diresse verso casa.

<<Posso venire anch’io?>>

Jet alzò gli occhi: <<Venire dove, Punma?>>

<<Beh,>> rispose lui <<fino a prova contraria anch’io faccio parte del club dei ventenni.>>

Jet lo guardò prima perplesso, poi sul suo volto si disegnò un sorriso: <<Hai ragione.>>, convenne.

<<E cosa c’è da sorridere in quel modo?>>, chiese Punma perplesso.

<<E’ buffo.>>, alzò le spalle Jet.

<<Che cosa?>>

<<Il giro del mondo in quattro persone.>>, rivelò Jet entrando in casa <<E’ proprio vero che il futuro è dei giovani.>>

Intanto Joe e Françoise stavano scendendo le scale che portavano giù in spiaggia.

<<Stai attento agli scalini.>>, si premurò lei.

<<Me l'hai ripetuto... quante? Novecento volte? E pensa che non ne abbiamo scesi nemmeno trenta.>>, rispose lui <<Sono solo un po' debole, ma non rimbambito.>>

<<Mi preoccupo solo per te.>>

<<Però è banale.>>, disse Joe fermandosi su uno scalino.

<<Che cosa?>>, chiese Françoise aggrottando la fronte.

<<Il modo in cui mi sono svegliato... classico.>>

<<Io direi che è miracoloso.>>, disse lei <<E poi non eri tu che dicevi che il pubblico va matto per le banalità?>>

<<Sì...>>, disse Joe ricominciando a scendere le scale e mettendo un braccio attorno alle spalle di Françoise <<Ma l'autrice potrebbe torturare anche altri personaggi di questa vicenda invece che ricadere sempre sui soliti due. E' giusto che anche loro siano presi in considerazione.>>

Françoise rise: <<Dice che ci proverà.>>

<<Cosa?>>

<<Ha detto che proverà a torturare anche gli altri personaggi e che ci lascerà in pace per un po'.>>, chiarì lei.

<<Sarebbe ora.>>

(Colpita e affondata ^^;)

 

F I N E  

 

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[1] La ragazza usa come metro la misura statunitense. Ovvero, il 14 corrisponde al nostro 50.

[2] Sinceramente non so se la Torre di Tokyo abbia un parcheggio sotterraneo. Facciamo che è così ^^;.