FINE DELLA NOSTRA STORIA, di Laus (minamiasakura@virgilio.it) <>, da “Both sides of the story”, Phil Collins1 Prologo <> <> Punma guarda sconvolto Bretagna, seduto accanto a lui, alla sua destra: <> Punma e Bretagna sono seduti nella fila centrale della Business Class. Io e Albert siamo alla loro sinistra, nella fila laterale. Questo è il nostro viaggio di ritorno verso ovest, dopo la sconfitta dei Fantasmi Neri. Io mi fermerò na Parigi, naturalmente. Gli altri proseguiranno verso le loro destinazioni. Finalmente si torna a casa. Finalmente… solo qualche giorno fa non avrei usato questo termine. Adesso vorrei essere già a Parigi, lontano da qui… soprattutto lontano da lui… <>, spiega Bretagna <> <>, risponde Punma <> <>, implora Bretagna <> <>, continua Punma ironico, con le braccia conserte sul petto. Io e Albert, seduti nella fila laterale alla loro sinistra <>, dico cercando di farli calmare. <>, dice Punma <> <>, rispondo. Intanto l’aereo si sta ancora muovendo per l’aeroporto, cercando la sua pista di lancio. Do un’ultima, malinconica, occhiata fuori dal finestrino. E’ sereno fuori, proprio come ha detto poco fa il comandante dell’aereo. Dentro di me la tempesta ha lasciato i suoi segni. Dubito che andranno mai via. E’ stato come svegliarsi da un sogno. Troppo bello per essere vero. Continuo a chiedermi se anch’io abbia avuto delle colpe, se non sia riuscita a cogliere qualche segnale. Ma più ci penso e più mi sembra che tutto sia maturato solo nel corso degli ultimi due giorni. Al momento della verità, il tutto si è sgretolato scivolando in polvere tra le mie dita. Avevo sognato un finale o, meglio, un proseguimento diverso. Forse, eccolo, il mio errore è stato quello di contare troppo sui miei sogni, senza tenere conto dell’altra parte. Non sono arrabbiata. La rabbia è passata in un attimo. Sono delusa. La delusione è quello che resta. E quello che non andrà mai via. L’aereo si è fermato e si sente chiaramente il rombo dei motori che aumentano di giri. Mi preparo al decollo, attaccandomi ben bene allo schienale. Effettivamente è un momento abbastanza traumatico anche per me. L’aereo si muove, con la solita spinta secca, aumentando sempre più di velocità. Mi sento attaccare al sedile e un vuoto allo stomaco quando l’aereo si stacca da terra. Saliamo sempre più su e l’aeroporto, Tokyo diventano sempre più piccole. <>, sento dire a Bretagna con voce lamentosa e teatrale. <>, gli chiede Albert <> <>, risponde l’altro <> Non posso fare a meno di pensare che Bretagna ha ragione. Passerà molto tempo prima di poterci rivedere. Il pensiero mi fa storcere la bocca. <>, propongo <>, mi fermo perché mi accorgo solo adesso di non sapere dove andrà Albert. Con tutto quello che è successo negli ultimi giorni, non mi è proprio passato per la testa di chiederglielo. Quasi mi sento in colpa <> <>, risponde <> Ci metto un po’ a capire perché abbia precisato: <> <>, chiarisce lui. <>, dico <> Lui ci pensa un po’: <>, spiega <> <>, chiede Bretagna strabuzzando gli occhi. <>, chiede Albert <> <>, commento. <>, mi dice sorridendo. Sospiro: <>, spiego <> <>, mi propone lui. <>, gli chiedo <> <> Annuisco: <> <>, interviene Bretagna. <>, chiedo. Lui alza le spalle: <> <>, propongo <> <>, esclama Bretagna <> <>, risponde lui. Io e Bretagna lo guardiamo un po’ perplessi. <>, spiega <> Io e Bretagna cominciamo a ridere. Albert ha detto la verità. I nostri paesi si sono fatti la guerra per secoli e a noi non importa niente di questo. Stiamo bene insieme e siamo degli ottimi amici. <>, esclama teatralmente Bretagna. <>, gli fa notare Albert. Bretagna fa il viso un po’ deluso, e questa sua espressione mi fa un po’ ridere. E’ stato un bene aver deciso di fare il viaggio insieme. <>, gli chiedo accorgendomi che lo stiamo tagliando un po’ fuori col nostro eurocentrismo. Punma alza le spalle: <>, conclude sbadigliando <> <>, gli chiede Bretagna. Punma si limita a sorridergli: <>, dice richiudendo gli occhi e appoggiando nuovamente la testa sullo schienale. <>, sospira Bretagna guardando sognante un qualcosa che riesce a vedere solo lui <> <>, gli dice Albert ironicamente dolce. <>, gli ricorda Bretagna. <>, ribatte l’altro. <>, continua Bretagna <> <>, ribatte Albert. Punma e io assistiamo alla scenetta divertiti, chiedendoci se forse continueranno così per tutto il viaggio. <>, chiede Bretagna. Albert ride: <> Effettivamente non era la battuta ideale per Bretagna. Bretagna si volta dall’altra parte:<> <>, commenta l’altro. <>, riprende Bretagna disintegrando le mie speranza che tutto fosse finito lì. <>, chiede Albert <> Bretagna alza gli occhi al cielo mentre io mi metto a ridere. Visto che mi devo sorbire il quadretto, tanto vale goderselo. <>, dice Bretagna tornando serio, forse perché ha capito che con le battute non la vince oggi <> Io mi sono già irrigidita, come preparandomi a un colpo. Ma il colpo non arriva. Bretagna rimane in silenzio, col dito puntato in aria. Albert e Punma gli devono aver congelato il nome in bocca con uno sguardo. Mi rilasso, chiudo gli occhi e scuoto la testa. Sono ridicola, e lo sono anche loro. Non è certo così che dimentico o che evito di pensarci. Sì, devi ammettere che la conversazione, i teatrini tra Albert e Bretagna sono riusciti a distrarmi un po’. E forse è per questo che li stanno mettendo su. Cercano di distrarmi il più possibile dai miei problemi sentimentali. Ma non credo che serva veramente. Riapro gli occhi, e li guardo. Tutti e tre, uno per volta: <>, dico <> Tutti e tre si guardano tra loro, poi è Albert a prendere la parola: <> Bretagna e Punma si guardano appena un attimo, chiudendosi in un imbarazzato mutismo. Vorrei stare zitta, a questo punto. Ma le mie labbra sono entrate in una specie di moto per inerzia, e le parole mi escono di bocca da sole, ma un moto di amor proprio ne abbassa la voce al livello del sussurro: <> Finalmente mi fermo. Solo Albert sembra aver sentito, visto che mi guarda con uno sguardo in qualche modo compassionevole. Devo fargli pena. Mi porto le mani alle tempie, massaggiandole. Non so perché, ma sento che le mie labbra si curvano in una specie di sorriso: <>, gli dico. <>, mi dice a voce bassa <> Rialzo gli occhi e gli sorrido, di gratitudine: <> <>, mi dice <> Annuisco: <> Albert riflette silenziosamente sulle mie parole, per qualche istante: <>, mi dice <> Apro la porta e la richiudo sbattendola dietro di me. Comincio a camminare rabbiosamente e a testa bassa verso le scale che portano alle camere. <> Mi volto indietro. Il professor Gilmore è in piedi, sull’entrata del suo studio, con le mani dietro la schiena, e mi guarda. <>, dice <> <> Il professore sorride e fa qualche passo verso di me: <>, dice <> <>, chiedo <> Gilmore annuisce: <>, dice <> Lo guardo perplesso. So benissimo che vuole andare a parare da un’altra parte: <>, dico seguendolo istintivamente mentre continua a camminare <> <>, dice <> Mi mette un po’ in imbarazzo: <> <>, dice. Scuoto la testa: <> <>, ammette <> Siamo arrivati in sala. Gilmore si mette a sedere sulla sua poltrona preferita e mi invita a fare altrettanto. Visto che non ho molto altro da fare, accetto l’invito a fare un po’ di conversazione. Forse è proprio di parlare che ho bisogno. Chiudermi nella prigione della mia solitudine mi farebbe impazzire. <>, mi dice <> Sorrido. Glielo può aver detto solo Jet. Solo lui poteva usare quell’espressione ed è la stessa cosa che ha detto a me. La scusa ufficiale è che devo rimettermi in moto, rodarmi, prima di riprendere in mano una Formula Uno. Ma ho mentito, anche a me stesso, anche se non direttamente. <>, continuò Gilmore <> Eccolo il punto. Indirettamente, ma ha centrato in pieno. Dovrei fargli i complimenti. Mi ha messo in difficoltà. Non so proprio cosa rispondere: <> <>, ribatte lui <>, dico scuotendo leggermente la testa. <>, dice <> Sospiro esasperato: <> Alla fine ci siamo arrivati. Si volta verso di me incredulo. Io, da parte mia, lo guardo silenzioso. Cosa dovrei dire? Mi studia con i suoi occhi penetranti. E credo di essere come un libro aperto. <>, mi chiede aggrottando la fronte. Distolgo lo sguardo. Il mio mondo, quello che ho cercato di costruire faticosamente uscendo dalla feccia che mi soffocava, è già per metà distrutto dalle mie stesse mani e, non so, ho come l’impressione che mi stia crollando addosso tutto il resto. Lui continua a guardarmi, pensieroso. Lo guardo appena con la coda dell’occhio. Improvvisamente è come se un lampo gli illuminasse gli occhi. Non avevo notato che avesse un giornale in mano fino al momento in cui non se lo toglie da dietro la schiena e lo apre davanti ai suoi occhi. Mi basta leggere il titolo per capire che ha già compreso tutto, o quantomeno è già molto vicino alla verità. D’altronde è un uomo di un’intelligenza assoluta. <>, mi chiede ripiegando il giornale e mettendomelo davanti agli occhi. Non ho bisogno di leggere l’articolo per sapere cosa c’è scritto. So già tutta la storia. Guardo il professore con sguardo accigliato, e annuisco: <> Gilmore cambia espressione, diventando malinconico. Sembra dispiaciuto: <>, dice guardando nuovamente il giornale <> Stavolta scuoto la testa: <>, rispondo <> <>, mi chiese con il suo sguardo serio e penetrante. Mi limito ad annuire. <>, stringe le labbra, forse cercando le parole più adatte <> <>, propongo2. Gilmore sorride: <>, dice <> Annuisco… poi scuoto la testa… sono confuso all’inverosimile. La testa mi sembra sul punto di scoppiare: <> Gilmore mi guarda con uno sguardo paterno e comprensivo. Aspetta qualche istante: <> Rimango in silenzio, quasi paralizzato. Non so cosa dire. Sento gli occhi cominciare a bruciare. Cerco di trattenere le lacrime, prima che cadano dai miei occhi. Così li chiudo. Scuoto la testa, passandomi le mani fra i capelli. Cerco di calmarmi: <>, dico dando semplicemente voce all’unico pensiero fisso che ha avuto la mia mente nelle ultime due settimane. Mi appoggio alla parete, scivolando giù, fino a sedermi per terra. Mi porto le ginocchia al petto, abbracciandole e posandovi sopra la testa. E adesso ecco l’altro pensiero fisso affiorare nella mia mente. Quello che mi accompagnerà, forse, per il resto della mia vita. Tutta quella vita che volevo passare insieme a lei, la passerò invece a tormentarmi su quest’unico pensiero. Batto la testa sulle mie ginocchia al ritmo dell’affiorare di questo pensiero nella mia testa: <> Rialzo il mio pugno destro, ancora chiuso, dal buco che ho fatto sul pavimento: <> Gilmore scuote la testa, aiutandomi a rialzarmi: <> Mi accorgo solo adesso che la mia mano sanguina. Ma non per il colpo sul pavimento, ma perché ho strinto il pugno così forte da far entrare le unghie nella carne, o qualunque cosa sia quello che mi riveste adesso. Continuo a guardare la mia mano: <>, dico a voce bassa <> <>, da “Bad”, U23 <>, da “Sound of solitude”, Myslowitz4 Parte I <> Storsi le labbra e mi chiedevo come faceva a non capire che per me era umiliante. Appoggiai la testa sopra un braccio, messo dietro la nuca e mi voltai verso di lei. Era distesa supina, col mento appoggiato sulle braccia, e mi guardava. Sembrava tranquilla. Come se fosse tutto normale. E per me invece non lo era. Mi sentivo frustrato: <>, dissi piuttosto seccato <> Lei sorrise, e quel suo sorriso mi faceva sentire ancora peggio. Sembrava non dare importanza a quello che per me era una specie di tragedia: <> Mi chiesi se fosse conscia del fatto che cercando di consolarmi non facesse altro che peggiorare la situazione: <> Sorrise un’altra volta. Ma un sorriso più divertito: <> Restai in silenzio, guardandola probabilmente con l’espressione più idiota che potevo fare. Quella risposta mi aveva un po’ spiazzato. Non tanto la risposta in sé, quanto la sua sicurezza nel darla: <>, le feci notare <> Di nuovo quel sorriso, stranamente sicuro: <> Era vero, ma… : <> Del sorriso rimase la traccia sulle sue labbra. Mi guardava con gli occhi dell’ovvietà: <>, rispose come se fosse la cosa più naturale del mondo. <> Lei scosse la testa: <> <> “Non dire stupidaggini”. Non me lo dice direttamente lei. Me lo dice il suo sguardo. Solo che questo vuol dire anche qualcos’altro. Mi girai su un fianco, guardandola: <> Lei restò in silenzio qualche secondo, alzando la testa e appoggiandola su una mano, mentre con l’altra mi accarezzava i capelli: <>, disse. <>, le feci notare. Sorrise un’altra volta, ma stavolta è un sorriso di accondiscendenza, quasi quello che si fa a un bambino: <>, disse continuando ad accarezzarmi i capelli <> Le posai una mano sull’avambraccio, fermandola dall’accarezzarmi i capelli. So che aveva ragione. Ma la curiosità, forse un altro modo di chiamare la mia gelosia, è più forte di me: <> Rimase a guardarmi silenziosamente per qualche istante, con uno sguardo tra il perplesso e il divertito. Poi scosse la testa e si mise a ridere in quel suo modo delicato: <> <>, ripetei, in tono più deciso. Lei smise di ridere, e sembrò pensarci su un attimo, distogliendo gli occhi dai miei: <> La faccia che mi venne fuori doveva essere terrificante, se ricalcava soltanto minimamente quello che mi provocò dentro quella risposta. Mi lasciò letteralmente senza parole. Poi, dopo qualche istante, lei si mise nuovamente a ridere: <> La guardai perplesso qualche secondo prima di chiederle se stesse scherzando veramente. <>, mi disse <> Mi misi a sedere, con la schiena appoggiata alla testata del letto e sospirai. Non so se è il sollievo o tutto il respiro trattenuto prima: <> Lei fece una mezza risata, scuotendo la testa: <> <> Non si arrendeva. Continuavo a chiedermi perché per lui fosse così importante saperlo. In fondo, forse, è che tutti gli uomini sono così. E continuavo a chiedermi perché mi fosse venuto in mente di introdurre l’argomento. Eppure conosco bene la sua gelosia. <>, confessai girandomi sulla schiena e arrendendomi <> Mi guardava con una faccia strana, indecifrabile. Non riuscivo a capire quello che gli passava per la testa. Restò qualche istante in silenzio: <> <> <>, disse <> Lo guardai perplessa, cercando di capire quale perversa curiosità lo guidasse e quale perversa dea mi avesse ficcato in questo gioco. Forse avevo bevuto un bicchiere di troppo a tavola. Non al punto di essere ubriaca, ma al punto di aver perso un po’ del mio senso del controllo. Decisi di stare al gioco. D’altronde mi ci ero buttata con le mie stesse mani in questo guaio: <>, dissiscuotendo la testa, forse ripensando alla mia ingenuità di allora <> <> Mi stupì un po’ la calma della sua voce: <>, risposi <> <> <>, dico <> <> <>, dissi sorridendo amaramente. <> Joe fa una mezza risata: <> <>, ripeto annuendo sorridendo <> <>, mi chiese ridendo. <>, risposi <>, conclusi studiando la sua reazione. <>, non mi sembrava particolarmente soddisfatto, mentre scivola sotto la coperta <> Sorrisi. In realtà cercavo di trattenermi dal ridere: <>, risposi. Mi guardò interdetto, come se non avesse afferrato bene: <> Annuisco sorridendo. Lui restò fermo qualche istante. Sembrava riflettere su qualcosa. Poi scosse la testa, quasi ridendo: <> Sorrisi, girandomi su un fianco: <> Joe mi guardò, con un’espressione strana. Quasi malinconica: <> Gli appoggiai un dito sulle labbra: <> Joe non continuò nel suo discorso, continuando a guardarmi con quel suo sguardo pensieroso per qualche istante. <>, dico racconto al professor Gilmore, che mi ascolta in silenzio. <>, continua per me il professore. Annuisco. Avrei dovuto… Ma non ce l’ho fatta. Non ho avuto il coraggio di dirle quello che pensavo. Quel suo sguardo, la sua mano che scivolava lentamente lungo il mio torace, quelle parole, quel suo ricordarmi che non avevamo ormai molto tempo, ebbero l’effetto di farmi tralasciare cosa fosse più ragionevole fare in quel momento, di oscurare in qualche modo il mio cervello. Certi istinti sono più facili da assecondare, e più facili in generale. Molto più semplice era vivere quel momento, quel poco tempo rimastoci, il più intensamente possibile. Molto più facile rimanere in silenzio, lasciando dentro di me le parole, taglienti come le lame di un coltello. Molto più difficile era guardare oltre quei giorni. <>, dico dopo un bel po’ di silenzio, guardando le mie mani che si sfregano lentamente tra le mie ginocchia. Gilmore piega le labbra, secondo la forma della sua perplessità: <> Mi limito a guardarlo, nel più accondiscendente dei silenzi. <>, dico guardando il manto di nuvole che stiamo sorvolando <> Albert ha una specie di sorriso sulle labbra: <> <> Albert sorride in modo più accentuato, giungendo le mani guantate davanti al suo mento: <> Rido: <>, dico <> <>, dice annuendo <> Annuisco: <>. <>, da “Silence is easy”, Starsailor5 <>, da “Could it be any harder?”, The Calling6 Parte II <> Jet irruppe euforico nella cucina. Tra tutti quanti, forse era lui il più felice di tornare a casa. Io lo guardavo, appoggiato al bancone della cucina, con la mia tazza di caffè fumante in mano. Anche Albert alza gli occhi su di lui, alzandoli dal giornale che stava leggendo. <>, chiese guardandosi intorno, nella cucina vuota e avvicinandosi per versarsi una tazza di caffè. <>, gli fece notare Albert girando pagina. <>, mi disse Jet ignorando l’altro occupante della stanza e le sue osservazioni <> Lo guardai di sbieco, senza rispondere. Non avevo bisogno dei poteri di Ivan per capire a cosa alludeva. E mi sarebbe piaciuto rispondergli che non era solo per quello che pensava lui che avevo dormito poco quella notte. Visto il mio silenzio, Jet cambiò argomento: <> Ci pensai un po’ prima di rispondere. Immaginavo che la mai risposta non gli sarebbe piaciuta: <> Lui, che stava per avvicinare la tazza di caffè alla bocca, si ferma come pietrificato: <> <> <>, disse <> Lo guardai impassibile: <> <>, ribatté sbattendo la tazza sul bancone<> <>, gli feci notare. <> <>, sbottai innervosito. <<”Insomma Jet” ‘sto cavolo.>>, dice piuttosto arrabbiato <> <> <>, rispose lui allargando le braccia <> <> Mi voltai verso Albert, che era stato distratto dal suo giornale dal nostro alterco. Per Jet è altra benzina da buttare sul fuoco: <>, mi disse incrociando le braccia sul petto. Eccome se ci avevo pensato: <> <>, insisté Albert <> Non risposi, semplicemente perché non sapevo cosa dire. La verità era un qualcosa che non ero ancora disposto ad ammettere, nemmeno a me stesso. <>, propose Jet. <>, gli dissi guardandolo male <> <>, mi chiese ingenuamente. <>, rispondo <> Albert storse le labbra, perplesso: <> Rimasi in silenzio qualche secondo, poi scossi la testa: <> Jet e Albert si guardarono non molto convinti. Mi diressi verso l’uscita della cucina. Non credevo di poter sopportare ancora a lungo i loro sguardi inquisitori. Uscii nel corridoio, andando verso l’esterno. La casa nel quale ci siamo trasferiti dopo la sconfitta dei Fantasmi Neri è molto simile, con al sua posizione a ridosso del mare, su un promontorio, a quella che fu distrutta dagli stessi Fantasmi Neri. L’aria profumava di mare e il sole era caldo al punto giusto. D’altronde era primavera inoltrata ormai. Non ero il solo ad aver avuto l’idea di uscire a godermi l’aria frizzante del mattino. Mi fermai a guardarla, ma lei non mi dette il tempo di farlo adeguatamente. Si voltò, accorgendosi inevitabilmente della mia presenza. <>, gli dissi mentre si avvicinava a me. Lui mi sorrise, fermandosi davanti a me: <> <>, gli risposi <> Sorrise un’altra volta, guardando verso il mare: <> Un gabbiano si abbassa velocemente verso la superficie dell’acqua, sfiorandola appena e tornando subito su dopo aver preso la preda. <>, gli dissi. Lui mi guardò in silenzio qualche istante: <>, mi rispose dopo un po’ <> <>, gli risposi <> <>, mi interruppe lui con lo sguardo accigliato. Lo guardai perplessa: <> Lui fece una specie di sorriso: <>, disse scuotendo la testa <> Annuii, a labbra strette: <> Un altro gabbiano volò rasente a filo d’acqua, catturando di nuovo la mia attenzione. <> Mi voltai, guardandolo in silenzio. Dovevo avere una faccia piuttosto perplessa, da chi non ha capito bene, perché lui ripeté la proposta. <>, mi disse con una specie di sorriso sulle labbra <> <>, ripeto sorridendo <> Joe alzò le ciglia, guardando un attimo verso il mare e tornando poi a guardare verso di me: <> <>, dissi facendo mente locale su quanto tempo avevamo. Solo una settimana. Un altro gabbiano pesca il suo pasto in mare e si rialza <> <>, ripeté lui <> Mi misi a sedere sull’erba, con gli occhi verso l’oceano: <> Joe si mise a sedere accanto a me, ma dando le spalle all’acqua: <> Annuii: <> <>, mi fece notare lui, un po’ ironico. Mi strappò una specie di sorriso: <>, risposi <> <>, mi interruppe scuotendo la testa <> <> Lui rimase silenzioso qualche istante, giocando con un filo d’erba che aveva staccato da terra e che adesso si rigirava tra le mani: <> <> <>, scosse la testa. <>, proposi. Lui mi guardò prima un po’ interdetto, poi sorrise: <>, disse. <>, continuai. Joe mi guardò interdetto: <>, mi disse. <>, risposi sorridendo. Lui si giunse le mani portandosele davanti alla bocca, in un’espressione pensierosa, guardando da un’altra parte: <> Mi limito a sorridere. Immagino il perché dovesse andarci. Però… <>, chiesi quasi materializzando in parole il mio pensiero. Studiai la reazione di Joe, il suo sguardo perplesso, il suo sorriso subito dopo. Un modo per dirmi di non preoccuparmi. <>, disse <> <>, completai io per lui <> <> Il professore mi guarda pensieroso, e si limita quasi unicamente ad ascoltare la mia storia. Senza fare commenti, nemmeno con il volto. Senza lasciar trapelare nulla di quello che pensa, dei sentimenti che la storia gli fa venire fuori. E’ stato il mio silenzio a portarlo a fare la domanda. Scuoto la testa: <> <> <>, rispondo. <>, chiede il professore non comprendendo appieno. <>, rispondo <> <> <>, conclude Albert <> Annuisco sospirando: <> <>, mi dice Albert <> Scuoto la testa: <> Albert ride: <>, dice <> Muovo la testa in un gesto di accondiscendenza: <> Albert mi guarda prima in modo quasi severo, per poi scoppiare a ridere: <>, dice scuotendo la testa. Sbuffo col naso, sorridendo amaramente, almeno quanto è amara quella verità: <> <>, da “At my most beautiful”, R.E.M.7 <>, da “For what it’s worth”, Cardigans8 Parte III Arrivammo a Nagasaki verso le sette e mezzo della sera del sabato. Avevamo trovato un bel po’ di traffico, e così avevamo perso almeno mezza giornata. Andammo immediatamente in albergo, per lasciare i bagagli in stanza. Lo stesso albergo di allora e la stessa stanza di allora. L’avevo richiesta espressamente. Aprii la porta e feci entrare Françoise prima di me, che nel momento di varcare la soglia, si girò indietro, guardandomi con uno sguardo del tipo “me lo dovevo aspettare”, sorridendo. Io mi limitai a rispondere al sorriso, e varcai la soglia a mia volta, chiudendo la porta dietro di me. Mi guardai intorno. Non era cambiato niente. Mi ritrovai a rivivere quella notte nella mia mente. Ogni battuta, ogni gesto, ogni momento. I suoi istinti e i suoi timori, la paura di sbagliare qualcosa. Ancora prima, di dire qualcosa di sbagliato e di perdere un’altra occasione. L’odore del profumo francese che lei usava senza esagerare, ma abitualmente, il suo irrigidirsi quando le aveva cinto la vita, la morbidezza delle sue labbra, il suo lasciarsi andare… <> <>, le dissi scuotendo la testa come per risvegliarmi da un sogno. <>, mi rispose con un sorriso in cui vidi una punta di maliziosità. Ma forse era solo l’eco dei miei ricordi interrotti. <>, le chiesi. <> Alzai le ciglia. Proprio non ci avevo pensato. Improvvisai: <>, dissi <> Lei annuì: <> <>, la interruppi, sapendo già a cosa alludeva <> Lei restò in silenzio qualche istante, poi annuì: <>, disse cominciando a sbottonarsi la camicetta. Ma si fermò guardandomi perplessa, quasi divertita. Solo allora mi accorsi che la stavo guardando fissamente <>, mi disse. Feci una mezza risata, distogliendo lo sguardo: <>, dissi prendendo la mia valigia e aprendola su uno dei due letti, cercandovi dentro qualcosa che non sapevo neppure io cosa fosse. <>, disse dirigendosi verso la porta del bagno senza continuare. <>, rispondo sorridendo <> <>, commentò quasi ridendo ed entrando in bagno. <>, dissi a bassa voce, smettendo di rovistare tra la mia roba e sedendomi sul bordo del letto. Nessuna risposta, se non il rumore dell’acqua scrosciante della doccia. Aprii il getto d’acqua e finii di spogliarmi, sorridendo ancora. Non avevo fatto quel gesto con malizia. Il fatto che avessi suscitato in lui quel tipo di interesse mi lusingava. Sorrisi nuovamente all’idea, mentre andavo sotto il getto di acqua calda. Applicai un po’di shampo sui capelli. Ero cambiata. Lo stare insieme a lui mi aveva cambiata. Non sapevo spiegarmi. In un certo senso mi sentivo più sicura di me stessa. Mentre mi risciacquavo la testa, sentii la porta della stanza aprirsi e richiudersi. <> Come avevo immaginato, lo sentii aprire il box e richiudere. Poi le sue mani si posarono sulle mie spalle, scivolando giù, lungo le braccia, lasciando le spalle alle sue labbra. <>, gli feci notare, fingendomi distaccata. Lui prese dello shampo e se lo applicò in testa: <>, disse <> Sorrisi, prendendo un flacone di bagnoschiuma: <> Joe mi guardò perplesso. Un’espressione che non capii. Più che perplesso sembrava come contrariato, quasi intimorito. <>, gli dissi <> Non risposi, ma l’idea mi piaceva. Cominciai ad applicargli il sapone sulla schiena, guardando la schiuma formarsi sotto le mie mani. Lo sentii rigido. Comincia a muovere le mani in una specie di massaggio, che lui sembrò gradire molto. <>, mi disse in tono rilassato. <>, gli dissi <> <> <>, gli dissi, continuando più delicatamente. Gli stavo massaggiando una zona particolarmente contratta, e gli avevo provocato un leggero dolore. Il fatto che fossero fibre muscolari artificiali non lo preservava da quel tipo di problemi… Scossi la testa, scacciando via il pensiero. <>, commentò. Curvai le labbra in una specie di sorriso: <>, dissi <> <>, mi rispose. <> Lui rimase in silenzio qualche secondo, voltandosi appena di qualche grado. Mi sembrò di vedere un sorriso. <> Inclinai il capo per un istante, quasi sottolineando le sue parole: <>, dissi sinceramente, fermando le mie mani appena sotto le scapole <> Lui rimase qualche istante in silenzio. Lo sentii sospirare, poi si girò, guardandomi in volto: <>, mi disse prendendo il flacone e insaponandosi le mani. Non mi fece girare, ma mi trasse leggermente a sé, in modo da potermi applicare il sapone sulla schiena quasi abbracciandomi. <>, mi chiese cominciando a passarmi il bagnoschiuma anche sul torace. Restai silenzioso per qualche secondo, chiedendomi se avessi dovuto dirglielo. Ma ormai avevo già tirato il sasso: <>, dissi prendendomi un istante di pausa. Più per prepararmi psicologicamente meglio che per riprendere fiato <> Le sue mani si erano fermate e mi stava guardando, in un misto di incredulità e perplessità. Io mi fermai a mia volta, guardandola in silenzio. <> <>, risposi sforzandomi di sorridere <> Restò in silenzio, riprendendo a muovere le mani insaponate sul mio petto. Mi chiedevo se non avessi fatto meglio a lasciare quel ricordo per me. Sembrava sconvolta, anche se cercava di nasconderlo. E pensare che non era che un piccolo episodio del mio passato. E nemmeno il peggiore. Le cicatrici esterne erano scomparse con la conversione. Ma dentro erano rimaste tutte. Dalla prima all’ultima. Le cicatrici… e ferite ancora aperte. Tante e profonde. Chissà se lei immaginava quante di quelle ferite aveva saputo curare in silenzio, semplicemente standomi accanto. Avrei dovuto fargliele conoscere? Lei lo avrebbe voluto, ne ero convinto. Ma l’avrebbe fatta soffrire, troppo. Tenevo la testa bassa. Mi sentivo in colpa. Pur senza volerlo, gli avevo fatto rivivere un brutto momento della sua vita. Avrei voluto sapere se c’erano state altre cicatrici sul suo corpo. Una curiosità ammutolita da quel lieve e pesante senso di colpa. Raramente mi raccontava del suo passato, solo se lo riteneva necessario. Io avrei voluto sapere tutto di lui. Ma quel poco che sapevo, devo ammetterlo, mi spaventava. Non per quello che era stato. Ma per quello che aveva subito. Per ciò che la vita gli avevo riservato. Forse il senso di colpa più grande nei suoi confronti era quello di non poter comprendere appieno, per essere stata troppo fortunata. Il fatto stesso di avere potuto contare su una famiglia normale e su tutto il calore che questa può darti mi impediva di immergermi del tutto in quello che era stata la sua realtà. Di capire quello che aveva provato. Potevo vedere la cosa solo in termini negativi, per quello che io avevo avuto, e dato anche per scontato, e che a lui era mancato. Per quanto ci avvicinassimo, per quanti muri fossero crollati, ne trovavo sempre di nuovi a dividerci… <> Alzai finalmente lo sguardo verso il suo volto. Lui accennò un sorriso: <> Rimasi interdetta. Non mi ero nemmeno accorta delle mie lacrime. Erano venute fuori insieme a quel senso di rabbia sorda e impotenza nel mio profondo. Feci per asciugarle: <>, mentii. Mi sfiorò una guancia con le labbra, rialzando subito la testa e passandosi la punta della lingua sul labbro inferiore: <>, ribadì avendone la prova. Fui per dire qualcosa, ma riuscii solo a scuotere e abbassare la testa e le uniche parole che mi uscirono di bocca furono: <> Lui me la fece rialzare, baciandomi sulla fronte: <> <> <>, mi interruppe, prendendomi il viso tra le mani. Le sue mani scivolarono sulle mie spalle <> <> Esitò un attimo, poi sorrise, guardandomi negli occhi: <>, disse come se fosse la cosa più naturale del mondo <> Gli posai le punte di due dita sulle labbra. Se avesse continuato a parlare sarei scoppiata in lacrime, e non volevo. Lui rispettò quella mia tacita richiesta. Forse lo lesse nei miei occhi, una richiesta ancora più silenziosa della precedente. Misi le mie braccia attorno al suo collo, mentre mi sentivo spingere verso il limite del box. Le sue labbra erano bagnate, e morbide… Squillò il telefono. Era sul tavolo accanto alla mia poltrona. Alzai la cornetta: <> <> Deglutisco: <> <>, mi risponde con fare cordiale <> Resto qualche secondo in silenzio: <> <> “No, non è solo quello che pensi tu. Non lo puoi capire affatto.” <>, rispondo <> <> “Ha già rovinato la mia vita… più di quanto lo fosse già.” <> <>, risponde <> <>, completo per lui. Mi ha già ripetuto quella frase almeno cento volte. Sa bene come smuovere il senso di colpa e del dovere di una persona. D’altronde è un avvocato. Chiudo gli occhi, prendendomi il naso tra le due dita. Respiro profondamente, pronto a sentenziare la mia reimmersione nell’inferno: <> Albert è andato un attimo in bagno. Non gli ho raccontato tutto quello che è successo in quella doccia. Guardo fuori dal finestrino. Stiamo sorvolando la parte orientale dell’Unione Sovietica. Ivan… Guardo la mia agenda, riposta nella tasca nello schienale del sedile davanti a me… Forse dovrei… No, non posso. Sarebbe dovuto essere lui stesso a darmela. Però... Prendo l’agenda e ne estraggo la busta, ancora decisa a non aprirla… almeno una parte di me lo è. L’altra vorrebbe aprirla… <> Ripongo il tutto al suo posto. Anche l’agenda torna nella tasca: <>, dico ad Albert sorridendo. <>, mi chiede indicando la mia agenda. Deglutisco, esitando un istante di troppo. Poi scuoto la testa: <> <>, mi risponde <> Annuisco, perché è la verità. Anch’io non avevo preventivato assolutamente niente. Perché sembrava tutto normale. Sembrava tutto assolutamente normale. Forse era tutto troppo perfetto. Era la quiete prima della tempesta. <>, da “Thank you for loving me”, Bon Jovi9 <>, da “Teardrop”, Massive Attack10 Parte IV Freddo. Sono sudato. Mi fanno male tutti i muscoli del corpo. Mi fa male anche respirare. Sento il sapore del sangue nella mia bocca. Il mio sangue. L’odore misto, insopportabile del mio sangue e del mio sudore. Non riesco ad aprire un occhio. Forse ho qualche costola rotta… ma loro continuano a colpirmi… continuano a darmi calci e sprangate. Forse mi sputano addosso. Non ho nemmeno più la forza di urlare dal dolore. <> Ma quello che mi fa più male sono quelle risate. Quelle che sento in sottofondo. Loro, gli altri, sono lì. Stanno guardando senza muovere un dito. Sono stati loro a organizzare tutto questo. Si limitano a guardare. Non si sporcano le mani. Lo hanno per vendicarsi. Perché non ho ceduto. Perché mi sono ribellato. <> E’ la voce del capo. La più viscida, la più odiosa. <> E’ sempre la sua voce. Gli altri si limitano a sghignazzare. Riesco a rendermi conto solo di questo, prima di svenire… Buio. Umido. C’ero solo io in quell’oscurità. Solo voci mi attorniavano. Voci conosciute, voci disperate. <> <> <> Cambio scenario. Luce. Una luce intensa. Troppo forte. Insopportabile. Françoise. E’ davanti a me. Perché siamo vestiti in tenuta da combattimento? Perché… perché mi guarda con quegli occhi? Perché sembra arrabbiata con me? Non ho nemmeno il tempo di chiederlo. La sua mano si muove di scatto, aperta e decisa. Lo schiaffo mi prende in pieno. Fa male. <> E’ questo quello che mi ha detto mentre mi colpiva. Lo realizzo mentre vedo le sue lacrime. Solo il tempo di vedere le sue lacrime. Cerco di raggiungerla… vorrei raggiungerla… ma è come se fossi immobilizzato… No, aspetta, non andartene! Non riesco nemmeno a parlare… <> <> Joe era seduto, sul letto, accanto a me. Era sudato e stava ansimando. Si voltò verso di me, continuando ad ansimare. Il respiro affannoso gli faceva scuotere tutto il corpo. Ma la cosa più sconcertante erano i suoi occhi… come impauriti. Erano sbarrati. Gli presi la mano, sperando che servisse a calmarlo. Stava tremando: <> Mi guardò silenzioso e ansimante ancora per qualche istante. Poi posò gli occhi sulla sua mano nella mia, e la strinse, e tornò a guardarmi. Adesso i suoi occhi sembravano sulla via della normalità. La sua mano smise di tremare. Anche il suo respiro si stava calmando: <> Non capii la domanda, ma evidentemente doveva aver avuto un incubo. Un incubo orribile. <>, gli dissi accarezzandogli una guancia con la mano libera <> Il suo respiro tornò quasi normale: <>, scosse la testa <> Gli lasciai andare la mano e lo guardai alzarsi e muoversi verso il bagno. Non l’avevo mai visto in quello stato. Pallido, tremante, impaurito. Aveva fatto paura anche a me. Sentii lo scroscio dell’acqua riaprirsi. E’ in momenti come questo che vorrei poter avere i poteri di Ivan. Poter capire cosa gli passava per la testa, cosa lo tormentava. Ma non ho quei poteri. Posso vedere qualunque cosa, ma non posso vedere cosa c’è scritto nel cuore e nella testa delle persone. Posso sentire ogni piccolo rumore, ma non le silenziose richieste d’aiuto a cui la voce non dà forma. Aprii l’acqua calda al massimo e misi la testa sotto il getto, lasciando che l’acqua scivolasse tra i miei capelli. Non so quanto restai in quel modo. Volevo che il sudore scivolasse via dalla mia pelle e dal mio corpo. Non era il sudore che avevo addosso dopo un gran premio, una corsa, un lavoro sotto il caldo torrido dell’estate. Non era quello che potevo avere addosso dopo aver fatto l’amore con lei. No. Era del tutto diverso. Quel sudore aveva l’odore della paura. Mi ricordava troppo quell’odore rancido di sudore e sangue. Era terrificante, rivoltante, era… Uscii di corsa dalla bocca al primo spasmo del mio stomaco. Mi chinai sul water e vomitai. L’unica cosa che restò nella mia bocca fu il sapore acido. Tirai lo sciacquone e ritornai sotto l’acqua, sciacquandomi anche la bocca. Mi lavai. Fino a essere sicuro che quell’odore terribile fosse scomparso dalla mia pelle. Chiusi l’acqua. Uscii dalla doccia e trovai Françoise, nella sua vestaglia da notte, col mio accappatoio in mano. Già, era rimasto sul pavimento, in camera. Lo presi dalle sue mani, cercando di sorridere: <> Lei sorrise, incrociando le braccia sul petto: <> “Dato di stomaco.” Mi fece sorridere. Era decisamente da lei. Non “vomitare”. “Dare di stomaco”. <>, disse dirigendomi verso il lavandino e prendendo il mio spazzolino e il dentifricio. Ne misi su una quantità abbondante. Quel sapore non era andato via e io non lo sopportavo. Mi lavai la bocca, restando con la schiuma dentifricia in bocca fino a che non fui sicuro che quel sapore fosse andato via. Mi sciacquai la bocca, guardando la schiuma scivolare giù per il lavandino. <>, dissi cercando di controllare il mio tono di voce, che fosse calmo. Rimisi lo spazzolino al suo posto e andai verso di lei, posandole le mani sulle spalle e cercando di sorridere <> <> Sembrava veramente tutto passato. Sembrava solo ancora un po’ scosso. Lui annuì, sorridendo. Sembrava fosse sincero: <> Annuii anch’io, uscendo per prima dal bagno. Mi diressi verso il letto, ma una sua mano sulla spalla mi fermò. Mi voltai, guardandolo sorpresa. <> La cosa mi lasciò perplessa, tuttavia alzai le spalle, come a dire che la cosa mi era indifferente: <> <>, disse passandomi accanto. Lo seguii con lo sguardo, stupita e interdetta. Non capii quel suo “grazie”. Ma non gli chiesi il motivo. Mi limitai a infilarmi sotto le lenzuola, accanto a lui, sdraiandomi. <>, mi disse, rimanendo con la schiena appoggiata alla testata. Io voltai appena il viso verso di lui: <>, gli risposi <> Lui restò silenzioso e immobile per qualche istante. Poi annuì: <> <>, risposi <> Lo vidi chiudere gli occhi, rimanendo sempre in quella posizione. Non era per dormire, voleva semplicemente svuotare la mente. Ormai lo conoscevo. Sapevo i suoi modi di fare. Lo guardai in silenzio per parecchi minuti. Lui non si mosse di un millimetro da quella posizione. Alla fine mi sdraiai su un fianco, chiudendo gli occhi e cercando di riaddormentarmi. Ma dopo un po’ lo sentii muoversi, delicatamente. E altrettanto delicatamente cominciò ad accarezzarmi i capelli. Sarebbe più giusto dire che li sfiorava appena. Aprii gli occhi e li diressi verso di lui. I suoi occhi scintillavano nel buio, come se fossero stati lucidi. <>, mi disse continuando ad accarezzarmi i capelli <> Scossi la testa: <>, risposi, sorridendo per rassicurarlo. Sorrise appena. Un sorriso triste, malinconico. Restò qualche istante in silenzio, senza smettere di accarezzare i miei capelli: <> Lo avrei voluto anch’io, ma non era possibile. Il tempo non si preoccupa delle nostre emozioni. Va avanti sempre con il solito passo, attraversando tutto, distruggendo, ricostruendo, dividendo, unendo. Tutto quello che ha potuto fare l’uomo è incapsularlo in unità di misura e inventare strumenti per tenerlo d’occhio. Ma non può fermarlo, non può fare niente per fermarlo. Noi non potevamo fare niente per fermare il tempo. Potevamo solo sfruttare il poco tempo che ci era rimasto, prima di dividerci. <>, ammisi, sdraiandomi supina <> Restò in silenzio, mentre la sua mano si spostò dai capelli alla mia schiena, scivolando a disegnare la mia spina dorsale, e continuando poi ad accarezzarla. Rabbrividii: <>, gli dissi, quasi ridendo. Si abbassò, iniziando a baciarmi la schiena, salendo fino alle spalle: <>, mi sussurrò in un orecchio. Mi girai, guardandolo negli occhi. Solo qualche minuto prima era sconvolto da un incubo. Adesso… adesso mi guardava con gli occhi… gli stessi occhi con cui mi aveva guardato la prima notte, in quella stessa stanza, quando si era fermato, pensando forse di essersi spinto troppo in là. <>, esitò un attimo, raccogliendo un profondo respiro <> <>, dico guardando il soffitto sopra la mia poltrona. Poi torno a guardare il professore, che mi fissa sempre colo suo sguardo neutro, non giudicante <> Passano alcuni secondi di silenzio: <>, mi propone Gilmore. Ci penso su appena un secondo. Poi annuisco: <>, resto silenzioso qualche altro istante, cercando le parole più opportune <> <> Mi volto verso Albert. Evidentemente non ho uno sguardo molto conciliante, perché si sbriga a scusarsi. <> Scuoto la testa: <> Il suo sguardo mi chiede “cosa?”, ma non vuole forzarmi. Tuttavia sento il bisogno di dirglielo. Non gli avrei mai raccontato tante cose se non le avessi ritenute necessarie per comprendere. E’ inutile aver raccontato tutto questo, senza dirgli il perché gliel’ho detto. <>, dico senza nemmeno sapere come dirlo <> alzo le spalle e mi fermo. Ma non perché sono imbarazzata. Gli ho appena detto che io e Joe facemmo l’amore per tutta la notte. E non sento imbarazzo. Credo di sapere il perché. E’ la stessa , semplicissima cosa che completa la frase che ho lasciato incompiuta qualche secondo prima <> <> da “I don’t wanna miss a thing”, Aerosmith11 <> da “It must have been love”, Roxette12 Parte V Mi svegliai piuttosto presto. Françoise dormiva tra le mie braccia, dandomi, usando il mio corpo come una specie di culla, in una via di mezzo tra l’essere sdraiata su un lato e sulla schiena. Stringeva nella sua la mia mano. Quella del braccio che le passava sotto il collo. Era una posizione che mi consentiva di vederle il viso senza muovermi troppo e rischiare di svegliarla. Sentivo la lieve pressione del suo corpo, ad ogni suo respiro. Era una sensazione piacevole. I suoi capelli avevano un buon odore. Le sistemai una ciocca dietro l’orecchio, togliendogliela dalla bocca. Lei dette appena segno di accorgersi, continuando a dormire. La luce del mattino, che filtrava dalla finestra, dava alla stanza una luce in penombra. E io la guardai in questa penombra per parecchio tempo, come incantato. Non mi era mai sembrata così bella. Avevo dormito pochissimo, forse un paio d’ore. Eppure mi sentivo bene. Non ero stanco. Avevo la mente sgombra, libera. Non mi sentivo così bene da molto tempo. Quando mi alzai, cercai di non farla svegliare. Mi mossi delicatamente, e la accompagnai fino a che non fu in una posizione stabile. Continuò a dormire, anche se dubito che non si fosse accorta di niente. Presi la cornetta del telefono e chiamai la reception. <> <>, dissi a bassa voce <> Presi della biancheria e dei vestiti puliti dall’armadio e cercai di prepararmi a uscire facendo meno rumore possibile. Quindi uscii nel corridoio, aspettando il fattorino. Arrivò dopo qualche secondo. Mi diede quello che avevo chiesto, e gli detti una piccola mancia per il disturbo. Rientrai, presi una penna da una mia valigia e mi misi a scrivere un breve messaggio, per quando si fosse svegliata. Finito il messaggio vero e proprio, al momento di firmare con una piccola dedica, ebbi una specie di blocco. La penna restò puntata sul foglio a lungo, macchiandolo. Scossi la testa e finii di scrivere. Ripiegai il foglio, e lo riposi nella busta, lasciandola sul mazzo di rose, posato sul tavolo. Presi le chiavi della macchina e mi avvicinai al letto. Le sfiorai appena le labbra, prima di uscire dalla stanza. Quando mi svegliai, la mattina dopo, prima di aprire gli occhi, tastai per qualche secondo l’altra parte del letto. Quando aprii gli occhi ebbi conferma del fatto che fosse vuota. Anche l’altro letto era vuoto. Sentii l’odore ancora prima di vedere. Sul tavolo c’era un mazzo di rose rosse. Sopra c’era una busta. Sorrisi, ancora mezza addormentata, e mi alzai. Mi ero accorta che si fosse alzato. Forse mi aveva anche sfiorato le labbra prima di andare via. Ma tutto si era perso nel sonno profondo del quale ero ancora preda. Presi la busta e la tenni in una mano, mentre con l’altra sfilai una rosa e me la portai al naso, respirandone l’odore. <> Mi ero punta. Come se non lo avessi saputo che le rose hanno le spine. Mi guardai il dito da cui fuoriusciva una gocciolina di sangue pensando a quanto fossi stata poco accorta. Me lo misi in bocca, cercando di fermare quella minuscola emorragia, e posai la rosa dove l’avevo presa. Adesso la mia attenzione era sulla busta. La rigirai fra le mani. Era una comune busta bianca, col mio nome scritto in bella calligrafia sopra, in caratteri latini. La aprii, e ne presi la busta nascosta all’interno, e la dispiegai. Era un messaggio di poche righe, stavolta scritto nella sua lingua madre. Buongiorno. Mi spiace di averti fatto svegliare da sola. Ma volevo passare a trovare mia madre quanto prima. Tornerò appena possibile. Ti amo, Joe Aveva usato una penna stilografica, e il foglio era macchiato proprio in corrispondenza dell’ultima riga. Lo ripiegai e lo rimisi dentro la sua busta. Immaginavo che fosse andato al cimitero. Era per quello che, probabilmente, voleva venire a Nagasaki. Rieccola. La triste sentenza. Tra me e lui ci sarebbero stati quasi due continenti di lì a poco. Ancora non riuscivo a farmene una ragione. Mi sdraiai nuovamente, riprendendo la rosa in mano e riodorandola, e stando attenta a non pungermi di nuovo. Mi sorpresi a chiedermi perché non mi avesse chiesto di andare con lui al cimitero, come l’altra volta. Ci rimuginai su qualche istante, facendo battere delicatamente i petali della rosa sul mio mento, quasi ritmicamente. Poi riposi la rosa sul comodino accanto a me, mettendomi poi a sedere sul bordo del letto e scuotendo la testa. Era normale che volesse andarci da solo. In fondo era una cosa sua. Però… Mi alzai, prendendo la mia vestaglia e mettendomela indosso. Alzai la cornetta del telefono e chiamai la reception. <> <> <> Mi vestii e mi misi a posto i capelli. Bussarono alla porta. Aprii. Il fattorino entrò, chiedendomi dove posare il vaso. <> Fece come gli avevo chiesto e gli diedi una piccola mancia per il disturbo e gli chiesi di farmi chiamare un taxi. Lui ringraziò per la mancia e annuì, uscendo. Sistemai le rose nel vaso e finii di prepararmi e uscii anch’io. Scesi le scale e lasciai le chiavi al portiere. <>, mi disse. <> Era davanti all’entrata. Il tassista mi aprì la porta e si rimise al posto di guida: <> Parcheggiai la macchina e uscii. L’aria di primavera era frizzante e piacevole. I ciliegi, che mi attorniavano, erano già in fiore e una leggera brezza muoveva i loro rami. E’ uno spettacolo, quello dei ciliegi in fiore, che avrò chissà quante volte. Ma ogni volta mi rapisce. Restai a guardare qualche minuto. Presi i fiori che avevo comprato e chiusi finalmente la portiera, e mi diressi verso la mia meta. Varcai la soglia del cimitero. Non era cambiato niente. Tutto sembrava uguale all’ultima volta che c’ero stato. C’erano parecchi visitatori. D’altronde era domenica. Camminai in fretta tra le lapidi, raggiungendo in breve la tomba di mia madre. Stavolta non c’erano né Fukushima, né mio padre. Mi inginocchiai posando i fiori a terra e prendendo il vaso vuoto. Avrei dovuto decidermi a pagare qualcuno perché mettesse dei fiori freschi ogni settimana. Mi alzai in piedi e mi guardai intorno. Più in là, all’angolo di un incrocio del sentiero che passava tra le file di lapidi, c’era una fontana. Mi avvicinai e sciacquai un paio di volte il vaso prima di riempirlo. Tornai indietro e rimisi il vaso al suo posto. Aprii la carta di giornale nel quale erano stati avvolti i fiori dal fiorista, e cominciai a togliere le foglie inutili e a tagliare i gambi troppo lunghi con un paio di forbici, e a disporli a uno a uno nel vaso. Una volta finito, appallottolai il giornale con gli scarti dei fiori dentro e guardai il lavoro fatto. Azalee. L’ultima volta, avevo visto che mio padre le aveva portato quei fiori. E mi sembrava di ricordare di aver sentito, forse da Fukushima, che erano quelli preferiti da mia madre. Guardai la foto sulla tomba. Mia madre era una bella donna. Non faccio fatica a capire perché mio padre si fosse innamorato di lei. Aveva lineamenti fini, capelli neri, lunghi e lucenti, uno sguardo da cerbiatto, e un bellissimo sorriso. In quel volto rivedeva un po’ di quello che vedeva nello specchio ogni mattina. Aveva il suo stesso naso e lo stesso taglio della bocca. Anche i lineamenti erano simili, anche se i suoi erano per forza più occidentali. “Cosa devo fare? Mai come adesso avrei bisogno dei tuoi consigli. Non voglio che soffra. Se resta con me, soffrirà. E se la lascio, soffre lo stesso. Io non so cosa fare. Ho bisogno di lei. Ma lei ha bisogno di me? A volte mi chiedo come abbia fatto a innamorarsi di uno come me. Siamo così diversi. Eppure… è la cosa migliore che mi sia capitata. In tutta la mia vita. Non so dove sarei a quest’ora, se lei non ci fosse stata. Lei è così… delicata… pura. Proprio per questo io non… non posso… non me la sento di farla passare attraverso il mio inferno. Non posso permetterlo…” Il vento mi portò un odore fin troppo familiare. Mi voltai e, come mi aspettavo, lei era lì, a qualche metro di distanza. <> Joe si alzò in piedi scuotendo la testa e guardandomi: <> Alzai le spalle: <> <>, mi disse sorridendo. Sorrisi a mia volta, avvicinandomi a lui: <> <> <>, risposi. Mi misi davanti alla tomba e chiusi gli occhi, giungendo le mani. Dissi una breve preghiera e chiesi alla madre di Joe di vegliare su di lui nel periodo in cui saremmo stati lontani. <>, dissi facendomi il Segno della Croce, finita la mia preghiera. Joe aggrottò la fronte: <>, disse guardando la lapide <> <> Mi guardò con un sorriso amaro sulle labbra: <>, disse raccogliendo la pagina di giornale appallottolata e le forbici e cominciando a camminare verso l’uscita <> Lo seguii, mettendo un braccio sotto il suo e camminando con lui: <> Sorrise, facendosi scappare un piccolo sbuffo: <> <> Avevo alzato un po’ troppo la voce e alcune anziane donne si voltarono verso di noi, guardandoci in cagnesco. <>, dissi abbassando la testa. Riprendemmo a camminare, restando in silenzio per il resto del tragitto, camminando a testa bassa. Arrivammo al posteggio. Mentre Joe buttava la pagina di giornale e cercava le chiavi, mi fermai a guardarmi intorno. Ecco un’altra cosa che mi sarebbe mancata. La fioritura dei ciliegi. Un qualcosa che si vede solo in Giappone. Il vento ne muoveva i rami, e i petali fluttuavano nell’aria, cadendo poi a terra. Era uno spettacolo rilassante, incantevole. <>, disse Joe avvicinandosi e fermandosi accanto a me <> Restammo uno accanto all’altro, a guardare quello spettacolo rosa, per molto tempo. Ascoltando il rumore delle frasche mosse dal vento. <> Mi voltai verso di lui, aspettando che parlasse. Ma lui rimase con la bocca semiaperta per qualche istante, senza che ne uscisse una sola parola. <>, gli chiesi allora aggrottando la fronte. Lui chiuse la bocca, rimanendo in silenzio. Poi scosse la testa: <>, disse distogliendo lo sguardo <> Nemmeno io avevo fatto colazione e ormai era mezzogiorno passato: <>, risposi <> <>, disse quasi ridendo e guardandosi intorno. Risi e feci per avviarmi, ma Joe mi prese per un braccio, costringendomi a voltarmi verso di lui. E mi baciò, senza darmi quasi il tempo di rendermene conto. Dopo un attimo di smarrimento, mi lasciai andare, chiudendo gli occhi e abbracciandogli il collo con le braccia. Sentivo solo i rami dei ciliegi danzare intorno a noi al ritmo dettato loro dal vento, la dolcezza delle sue labbra e l’odore della sua pelle… <> Scuoto la testa: <>, rispondo <> Gilmore apre gli occhi, scuotendo la testa: <> <> Lui aggrottò la fronte: <> <>, spiego, rendendomi che, forse, non ero stato poi così chiaro. <>, mi chiede Gilmore, accarezzandosi la barba con la punta delle dita. Ci penso su un attimo: <> <> Alzo le spalle: <> Gilmore storse le labbra, aggrottando la fronte: <>, dice <> <> <>, mi chiede Albert perplesso. <>, spiego <> Albert alza le spalle: <> Annuisco, sottolineando quelle parole con un gesto degli occhi: <> <>, mi suggerisce lui. <>, rispondo <> Albert alza le sopracciglia, riflettendo su quelle parole: <> <>, commentai guardando le nuvole sotto di noi. <> <>, da “Just the way I’m feelin’”, Feeder14 <>, da “Kiss from a rose”, Seal15 Parte VI Era stata una bella giornata. Era ormai il tramonto quando ci ritrovammo, di nuovo, al Megane-Bashi, a guardare il suo gioco ottico sull’acqua. L’atmosfera aveva i colori caldi del farsi della sera. Come allora, ci sedemmo sulla bordo, a goderci il momento e i colori del tramonto. <>, disse Françoise con uno sguardo malinconico. Non dissi niente, perché non c’era molto da aggiungere. Il giorno dopo l’aereo che l’avrebbe riportata a Parigi sarebbe partito e l’avrebbe portata via da me. Eppure, qualcosa dentro di me, mi diceva che era meglio così. Anzi che… <>, dissi per non restare zitto. Lei annuì, mentre una brezza di vento giocava coi suoi capelli: <>, disse portandosi i capelli dietro un orecchio. <>, le chiesi guardando il suo profilo <> Si voltò verso di me, lo sguardo malinconico. Mi sembrava mi dicesse quanto fosse stupida quella domanda. Mi fece salire un groppo alla gola. <>, mi chiese. Restai in silenzio qualche istante: <> Scosse la testa, guardando avanti a sé e sospirando: <> Piccolo particolare non privo di importanza. Certo che non le avevo detto il perché. Avevo evitato accuratamente di farlo e avevo sperato, fino all’ultimo, che lei non me lo chiedesse. <>, risposi sbrigativamente. <>, mi chiese insistente. Strinsi le labbra, restando in silenzio. Non mi ero preparato una storiella di riserva. E d’altronde non potevo dirle la verità. Dissi la prima cosa che mi venne in mente, e neanche la più intelligente, a pensarci bene: <> Lei corrugò la fronte, guardandomi perplessa: <> Sentii il cuore che cominciava a battere troppo velocemente. Eccolo, il momento della verità cadermi addosso. Mi voltai verso di lei, in silenzio, guardandola e cercando di capire, per l’ennesima volta, se potessi dirle la verità. Il che sarebbe voluto dire doverle raccontare tutto quello che c’era dietro alla verità. Tutto quello che non volevo sapesse di me. Lei lo avrebbe voluto sapere e avrebbe insistito per saperlo. <> Lei restò in silenzio pochi secondi, ma non si arrese: <> <>, dissi con una smorfia. Stavo cominciando a crollare <> Non avevo il coraggio di guardarla in faccia. Guardavo le mie mani che si tormentavano l’un l’altra e non avevo il coraggio di guardarla in faccia. Speravo solo che non facesse altre domande. Speravo solo che si accontentasse di quella spiegazione e non mi spingesse oltre. Non mi costringesse a spingermi oltre, verso il punto di rottura. Sentivo qualcosa, montarmi dentro. Una strana sensazione, una brutta sensazione. Per la prima volta, dopo tanto tempo, lo sentivo nuovamente lontano da me anni luce. E non faceva niente per avvicinarsi a me. Anzi, faceva esattamente il contrario. Faceva di tutto per spingermi lontana da lui. Non sopportavo quell’immobilismo. Non sopportavo che mi nascondesse le cose. Insistere non sarebbe servito a nulla. Stavo scoppiando. Mi alzai prima che potesse succedere, prima di crollare e mi diressi a grandi passi verso le scale che riportavano sopra, sulla strada. <> Lo ignorai e continuai per la mia strada. Lo sentii raggiungermi alle spalle. Mi prese per una spalla e mi costrinse a girarmi verso di lui, prendendomi per le spalle. Tuttavia cercai di non guardarlo in faccia. <> <>, gli ricordai <> <> <>, lo interruppi <> Lui rimase in silenzio, con le labbra strette, da cui non uscì una sola parola. <>, gli chiesi un’altra volta. Lui scosse la testa, lasciando le mie spalle e voltandosi, mettendosi le mani in faccia e poi passandole tra i capelli: <>, ripeté <> <>, ripetei <> Avrei potuto risponderle di sì. Farmi odiare definitivamente da lei e finirla lì. Per un attimo considerai seriamente quella possibilità <> Ecco. Non sarei mai stato capace di dirle una menzogna tanto grossa in faccia. Non sono un attore così bravo. Mi voltai verso di lei e scossi la testa, mettendomi le mani sui fianchi: <> Lei respirò profondamente, chiudendo gli occhi e riaprendoli lentamente: <> <>, le dissi, nella vana speranza che desistesse. <>, mi rispose <> <>, risposi secco. Lei mi guardò interdetta: <> <>, le dissi. Ormai non avevo più freni. Eravamo arrivati al momento della resa dei conti <> Cominciava a farmi paura. Le sue parole cominciavano a farmi paura. I miei timori più profondi riguardo a noi due prendevano forma nella mia testa. <> <>, mi interruppe riprendendomi per le spalle <> <> Scosse nuovamente la testa: <> Scossi la testa. Non ci volevo credere: <> Sospirò abbassando un attimo gli occhi e rialzandoli immediatamente: <> <> <> Sentii le lacrime farsi prepotenti ai miei occhi: <> Mi lasciò finalmente le spalle, continuando a guardarmi. La sua espressione non mi piaceva. Mi sembrava di essere stata trascinata in un vortice, di essere cominciata a cadere senza mai trovare terra. <>, mi presi un attimo di respiro <> Ero sull’orlo del precipizio. In quell’equilibrio instabile che aveva caratterizzato tutta la mia vita. Poteva essere facile. Dirle che in realtà non l’amavo e risolvere così tutta la questione. Ma… <> respirai profondamente. Ormai le mie parole erano un flusso di pensieri continuo e disarticolato <> Lei stava scuotendo la testa, stava piangendo. Stava cercando di frenare le lacrime, senza riuscirci. Ogni sua lacrima era una pugnalata nel cuore. Per un attimo fui sul punto di fermarmi. Di ripensarci e restare sul bordo del precipizio. Ma feci quel passo, quell’ultimo passo, lanciandomi nel vuoto. << Io non voglio giustificarmi, non pretendo che tu capisca e che mi perdoni ma…>> <<… io non posso stare con te.>> Quelle parole mi rimbombarono nella testa. Un’eco insopportabile, pugnalate che mi arrivavano dirette al cuore. Che lo spezzavano, lo riducevano in mille pezzi, come se fosse stato di vetro. Non avevo nemmeno la forza di rispondere, di replicare qualunque cosa. Fuggii. Le mie gambe cominciarono a muoversi da sole, a correre. Lontano da lui, da quello che era stato, da ciò che non sarebbe mai stato. Corsi fino a quando le gambe non mi ressero più. Senza mai guardarmi indietro. Lo sapevo che non mi avrebbe rincorso. Sapevo che non era dietro di me. <>, mi chiede Gilmore <> Stringo le labbra. Il ricordo si quella scena mi fa ancora male. Troppo male: <>, rispondo <> <> Annuisco. Non sapevo nemmeno se sarebbe tornata. Di certo c’era che le sue cose erano ancora in quella stanza. Ma la aspettai. <>, confermo. <>, mi chiede Gilmore. Una domanda banale, di cui sa la risposta. Gli serve solo per farmi andare avanti. <>, rispondo <> <>, mi fermo un attimo. Ricordare è doloroso. Soprattutto adesso, a mente fredda, quando mi è ancora più difficile riuscire a comprendere le sue ragioni <> Albert è perplesso e visibilmente dispiaciuto: <> <>, continuo <> <> <>, rido. Non so se è isteria o perché sono divertita al pensiero di quello che feci dopo <> Albert sottolineò il suo stupore con un’eloquente espressione del viso. <> <>, commentò Albert. <> <> <>, dico <> <>, risponde lui <> Annuisco. E’ proprio quello che volevo capisse. <> Albert mi guardò perplesso: <> <>, da “Walking in my shoes”, Depeche Mode17 <> da “Honesty”, Billy Joel18 Parte VII Chiusi la mia valigia e la riposi in un angolo. Guardai nuovamente l’orologio. Era tardi, quasi mezzanotte, e cominciavo a preoccuparmi. Avevo fatto di tutto per cercare di far passare il tempo. Mi ero fatto una doccia, avevo letto il giornale dalla prima all’ultima pagina, avevo fatto la mia valigia in modo quasi maniacale, cercando di mettere dentro le cose in modo perfetto. Forse sarei dovuto andare a cercarla. Forse era solo un modo per sentirmi meno in colpa. Mi misi a sedere sul bordo del letto… anzi, no. Mi misi a sedere sul bordo del letto, ma mi rialzai subito. Uscii fuori, sul balcone della stanza e mi appoggiai alla ringhiera guardando verso le luci della città e respirando profondamente l’aria. Avevo bisogno di aria fresca. Avevo la testa che mi pulsava, confusa. Ero come in ebollizione. Mi stirai, alzando le braccia e allungandole in alto, cercando di sciogliere le membra. Ero teso, nervoso e stanco. Mi appoggiai nuovamente alla ringhiera, guardando la città senza vederla veramente, cercando di non pensare a niente. Ovviamente senza riuscirci. Decisi allora di scendere giù, al bar. Forse era quella stanza che mi opprimeva. Presi le chiavi e uscii in corridoio. Mi diressi verso l’ascensore, ma rimasi fermo davanti alla porta, guardando inerte le porte chiuse. <> Mi voltai alla mia destra. Una signora mi guardava, indicando l’ascensore. Voleva passare e io le ostruivo il passaggio. <>, dissi sorridendo e scostandomi. <> Lei premette il pulsante di chiamata e dopo qualche istante le porte si aprirono, lasciandola entrare. <>, mi chiese con le mani già sulla pulsantiera interna. Scossi la testa: <> <>, disse lei premendo un pulsante e scomparendo dietro le porte scorrevoli. Mi diressi verso le scale e cominciai a scenderle. Dovevo esserle sembrato un imbecille. Ma non volevo stare fermo. Stare fermo in un ascensore mi terrorizzava. Se fossi stato fermo mi sarei messo a pensare. Ed era l’ultima cosa che volevo. Forse non era una buona idea nemmeno sedersi in un bar. Sarei uscito, a fare due passi. Camminare, forse, mi avrebbe schiarito un po’ le idee. Arrivai nella hall e mi diressi verso la reception. Il portiere non c’era al momento. Lo chiamai con il campanellino sul banco e aspettai. Ne approfittai per guardarmi intorno, forse pensando che fosse lì, da qualche parte. Ma non c’era. C’erano solo poche persone, e nessuna di queste era lei. <> Mi voltai verso il portiere: <> <>, disse il portiere prendendo la chiave della stanza e mettendola al suo posto. Mi diressi verso l’uscita a grandi passi. Aspettai che fosse uscito. Forse avevo aspettato tutto quel tempo seduta su quel muretto proprio in attesa di quel momento, senza pensare a cosa avrei fatto se non fosse mai uscito di lì. Sperai che non venisse nella mia direzione e fui esaudita. Si diresse nella direzione opposta e, quando scomparve dietro un angolo, aspettai ancora qualche minuto, per essere sicura che non ci avesse ripensato, e quindi mi diressi verso l’entrata dell’albergo. La hall era quasi vuota. Il portiere stava controllando qualcosa sul registro. <>, gli dissi sospirando di sollievo quando vidi che Joe aveva lasciato la chiave lì. L’uomo alzò gli occhi su di me e sorrise: <> Lo guardai un po’ sorpresa: <> <>, mi disse prendendo la chiave <> Dovevo avere un aspetto orribile in quel momento, e ne ero consapevole: <>, risposi prendendo la chiave <> Presi la chiave e mi diressi verso l’ascensore. Lo chiamai, e quando arrivò dovetti aspettare che uscissero quattro o cinque persone da dentro. Finalmente entrai e premetti il pulsante del mio piano. Quando le porte scorrevoli si chiusero, mi appoggiai con la schiena alla parete, chiudendo gli occhi. Avevo pianto così tanto che mi bruciavano. Sentii le porte aprirsi ed uscii. Anche il corridoio era vuoto. Mi diressi in fretta verso la stanza. Aprii la porta e accesi la luce. Era tutto in ordine. Chiudendo la porta, notai la sua valigia già pronta in un angolo. Aveva lasciato la porta del balcone aperta e un soffio di vento muoveva le tende. Appoggiai la chiave della camera sul tavolo, e non potetti fare a meno di accarezzare una delle rose, che erano ancora nel vaso che mi ero fatta portare… solo quella mattina. Forse avrei dovuto buttarle, ma non ne ebbi il coraggio. Feci mente locale di quello che dovevo fare. Innanzitutto mi sarei fatta una doccia. Ne avevo bisogno. Ero stanca e mi sentivo a pezzi. Poi avrei fatto anch’io le mie valigie. Mi spogliai e aprii il getto d’acqua al massimo, rimanendo ferma sotto di esso per un’eternità, forse illudendomi che l’acqua lavasse via tutto il dolore e la delusione. Cominciai a ripensare alla sera prima, solo la sera prima. Come poteva essere quello il risultato, solo il giorno dopo? Non riuscivo a capacitarmene. Non riuscivo a capire come tutto potesse essere cambiato, stravolto così in meno di ventiquattro ore. Come non avessi fatto a non accorgermi di niente. E se fosse stato un qualcosa di più lungo e remoto? Se tutto fosse iniziato da molto prima, senza che io me ne sia mai accorta… Mentre mi insaponavo, ripercorsi con la mente gli ultimi tempi, alla ricerca di qualcosa, di un presagio a quella catastrofe. Trovai solo un uomo che negli ultimi tempi era stato semplicemente adorabile, che aveva fatto di tutto per farmi sentire il centro del suo universo. Avevo collegato quell’atteggiamento al fatto che ci saremmo dovuti dividere per qualche tempo, solo per qualche tempo. Come lui mi aveva detto. Forse mi ero sbagliata. Forse si era comportato così perché aveva già in mente di troncare tutto. Ma allora perché non farlo subito, perché illudermi? Pensava forse di rendere la pillola meno amara, che in questo modo avrei sofferto di meno? “… Vorrei lasciarti un buon ricordo di noi due.” Sbarrai gli occhi. Lui avesse già deciso allora, per tutti e due. Chissà da quanto. Mi sciacquai e uscii dalla doccia, ancora con l’eco di quelle parole in testa. Ancora con l’idea, che si accendeva come un’insegna al neon nella mia testa, che lui avesse già deciso tutto, già da molto prima di allora. Mi misi l’accappatoio addosso e un asciugamano attorno ai capelli. Ritornai in stanza. Lui non era ancora tornato. Mi sedetti sul bordo di uno dei due letti e presi in mano la cornetta del telefono, chiamando la reception. Aveva parlato del suo passato. Di cose del suo passato che io non avrei voluto sapere, che non riuscivo nemmeno a immaginare. E’ vero. Una gran parte del suo passato mi è oscura. E quell’oscurità mi intimorisce. Da una parte lo vorrei conoscere, dall’altra mi accontentavo di sapere che l’uomo di adesso, quello di cui sono innamorata, stava con me. Che volesse o no raccontarmi il suo passato era una sua scelta. Doveva essere una sua scelta. Ha detto che mi ama, che mi ama ancora. E proprio per questo lui ha scelto di tagliarmi fuori dal suo passato e anche dalla sua vita. Più ci penso e più non riesco a entrare nei meccanismi di questo ragionamento. Mi sembra solo un paradosso… <> Mi accorgo che è già la terza volta che mi viene detto “pronto”: <> <> Sento il segnale di chiamata. Un telefono dall’altra parte del filo sta squillando. Dopo due segnali, mi risponde una voce maschile. <> <>, rispondo <> <> Ah, già. Ci sono due aeroporti. Non mi ricordavo il nome di quello Internazionale. Dalla confusione che avevo in testa: <> <>, mi suggerisce lui. <> <>, sento digitare qualcosa su una tastiera <> Ci pensai su un attimo: <> <> <> <> <>, dico scandendo bene le lettere, in modo che le capisca. Sento ancora digitare: <> <> <> E’ un piccolo gesto di cortesia, magari fatto perché gli hanno detto che a quell’ora deve sempre dare la buonanotte ai clienti, anche se ti hanno svegliato mentre stavi schiacciando un sonnellino e gliene hai dette di tutti i colori nella tua testa. E’ una piccola cortesia, ma in un momento come questo la apprezzo enormemente: <> Riattacco e rialzo, richiamando di nuovo la reception. <> <> <> Cerco le parole per formulare la domanda: <> <> Dovevo immaginarlo: <> <> Quando rientrai in albergo erano le due passate. La hall era completamente deserta, a parte un paio di uomini delle pulizie dalla faccia assonnata. Mi avvicinai alla reception per prendere la chiave, e anche per ricordargli la sveglia la mattina dopo. Il portiere non c’era. Lo stavo per chiamare, quando notai che la chiave non era al suo posto. <>, pensai ad alta voce. Corsi verso l’ascensore e lo chiamai. Mi sembrò che ci mettesse un’eternità ad arrivare. Finalmente le porte si aprirono ed entrai già schiacciando il pulsante. Ci mise un’eternità anche a salire. Quando le porte si riaprirono, corsi per il corridoio e mi fermai davanti alla porta, più precisamente con la mano sopra il pomolo. Non dovevo fare altro che girarlo, ma esitavo. Lei mi avrebbe voluto vedere? Sentii il pomolo girare nella mia mano. La porta si aprì e lei mi apparve davanti. Era in accappatoio, e aveva i capelli sciolti e umidi che le ricadevano sulle spalle. Si sentiva ancora l’odore dello shampo. Fu per dire qualcosa, ma non uscì una sola parola dalla sua bocca. Rimanemmo a guardarci in silenzio per qualche istante, lunghissimo. Poi lei si girò, dandomi le spalle e ritornando in stanza. Io, dopo ancora qualche secondo di immobilità, varcai la soglia e chiusi la porta dietro di me, girando la sicura. Camminai lentamente verso l’interno della stanza. Lei stava chiudendo la sua valigia, quando riapparve davanti ai miei occhi. Non mi guardò nemmeno, e la ripose accanto alla mia, in un angolo. Poi cominciò a mettere le ultime cose nel suo beauty case. Sarei dovuto essere io a non avere il coraggio di guardarla in faccia. Ma pensai che la sua non era mancanza di coraggio o vigliaccheria. Era un semplice ignorarmi, indifferenza. Qualcosa ancora peggio del disprezzo. <> Non si voltò, continuando nel suo lavoro. Mi tolsi la giacca, rimanendo in maniche di camicia, e mi misi a sedere su uno dei due letti, rimanendo fermo e in silenzio a guardarla. <>, disse improvvisamente, voltandosi verso di me solo un istante <> Era quel tono deciso che le era caratteristico, anche se nessuno ci faceva caso. Lei era sempre convinta e sicura di quello che diceva, e di quello che faceva. Non aveva esitazioni. Era così anche nella vita. Se aveva un obiettivo, lo inseguiva, fino a quando non lo aveva raggiunto. E non importava quante fossero le difficoltà e gli ostacoli. Era testarda. E perseverante. Era una perseveranza che ammiravo. Una perseveranza che io non ho. Presi un profondo respiro: <> <>, mi interruppe chiudendo il suo beauty case e scuotendo la testa. Poi si avvicinò e si mise a sedere sull’altro letto, di fronte a me <> Non le chiesi “cosa?”, ma immagino che si leggesse sul mio volto. <>, disse <> Lo ripeté scandendo ogni parola fino all’ultima sillaba: <> <>, rispose <> <> Lei si alzò in piedi, cominciando a camminare per la stanza, verso il balcone: <> Si fermò, dandomi la schiena, appoggiata al balcone. Mi alzai anch’io, camminando verso di lei: <> <>, mi chiese voltandosi verso di me. Poi si mise le mani sui fianchi, con un sospiro di esasperazione <> Rimango in silenzio. Non so cosa rispondere. A dire il vero, la risposta sarebbe che sono io che devo tornare indietro, e non voglio che lei torni indietro con me. Ma non posso dirglielo. <> <> La sua domanda mi spiazzò. Molto stupidamente pensai che si riferisse al fatto di dormire in un’altra stanza e stavo anche per rispondere. Poi capii. Presi un profondo respiro: <> <> <>, mi sembra di ripeterlo per la milionesima volta <> Scosse la testa: <> Niente. Non rispose. Non riuscivo a cavargli niente da dentro. Si ostinava a voler tenere tutto per sé. Non avevo preventivato di fare un tentativo di salvare la nostra storia. E’ venuto fuori. Per uno strano istinto di sopravvivenza del mio amore per lui. Ho cercato di attaccarmi a tutto quello che potevo. Ed è stato inutile. Ne ho ricavato solo altro dolore. Mi sentivo stanca, spossata, demoralizzata. Avrei voluto avere una bandiera bianca per dare un segno della mia resa. E quello che gli ho detto è vero. Anche adesso, anche in quel momento, mentre lui stava zitto, chiuso nel suo ostinato e insopportabile silenzio, sapevo che non sarei mai riuscito ad odiarlo. Che potevo essere infuriata con lui all’inverosimile, per quel tradimento che non comprendevo, ma non potevo odiarlo. Mi sedetti pesantemente sul letto. Ero distrutta, ma non volevo piangere. Non dovevo piangere. Non volevo dare quell’ennesimo segno di debolezza nei suoi confronti. Mi vennero in mente le parole che una volta mi aveva detto mia madre: <> Era stato vero. Se non avessi avuto carattere non sarei mai andata avanti in un mondo come quello della danza classica, pieno di mastini e compagne invidiose del tuo talento e delle tue capacità. Non avrei perseguito i miei sogni con tutte le mie forze. Non avrei sopportato di essere diventata un cyborg, uno strumento di morte. Quando scoprii di essere diventata un cyborg di nome 003 per me, la mia vita, non contava più niente. Tutto era stato spazzato via. Ma non mi ero arresa. Avevo deciso di andare avanti, anche quando sembrava che non ne valesse la pena. Quando sembrava che non ci fossero motivi validi per andare avanti. E li ho trovati. Mano a mano li ho trovati sulla mia strada. E ho trovato delle ragioni per continuare a vivere. Sì, potevo limitarmi ad esistere, ma avevo deciso di vivere. Perché avevo trovato dei compagni e soprattutto degli amici meravigliosi. Perché avevo trovato lui, e grazie a lui avevo riscoperto i miei sentimenti più profondi. La mia capacità di provarli era ancora viva. Io ero ancora viva. Avevo aspettato e sopportato in silenzio. Tutto. La sua indecisione, le sue sbandate, i suoi atteggiamenti scostanti e umorali. Quando finalmente mi aveva detto di amarmi, per me era stato come toccare il cielo con un dito. Pensavo che fosse così, ma in quei pochi mesi passati insieme mi ero veramente resa conto di non aver mai amato nessuno come amavo lui. Non dirò mai che essere diventata un cyborg sia stata una fortuna. Ma aver incontrato lui sì. Lo è stata. E’ la cosa più bella che mi sia capitata. Continuo a esserne convinta. Nonostante tutto, nonostante questo. Nonostante sia finita. E il fatto che lui mi dica. <>, si inginocchia davanti a me e cerca i miei occhi. Io lo guardo, quasi impassibile nella tristezza infinita che provo <> Sorrido. E’ un sorriso quasi ironico, di quell’ironia che viene dall’esasperazione. Ironia di me stessa. Non capisce che dicendomi così mi fa soffrire ancora di più?: <>, gli rispondo <> Lui strinse le labbra, respirando profondamente: <> <>, gli replicai, quasi urlandoglielo. Esitò un attimo: <> Fui per rispondere qualcosa, ma mi accorsi dei suoi occhi. Erano lucidi. Stava cercando di non piangere anche lui. “Perché dobbiamo soffrire così? Perché non possiamo stare insieme? Perché non vuoi darmi questa risposta e continui a riempire la mia testa di domande? Su una cosa hai ragione. Veramente, se mi avessi detto che non mi amavi più, o che non mi avevi mai amato, sarebbe stato più facile. Ma mi hai lasciato, dicendo che lo fai perché mi ami. Ma facendo così mi hai solo allontanato, tenendomi attaccata a te come con un cordone ombelicale. E io non riesco ad accettarlo, Joe. Ma non ho più la forza di combattere una battaglia di cui tu hai già deciso la conclusione.” Furono solo pensieri, non presero forma di parole e rimasero dentro di me. Insieme alle mie lacrime. Restammo in silenzio, immobili, guardandoci negli occhi per un tempo che mi sembrò infinito e straziante. Se fossi rimasto ancora così, non sarei più riuscito a trattenere le lacrime, e non volevo piangere davanti a lei. Non perché non volevo che mi vedesse piangere. Temevo che sarei stato troppo debole e fragile avrei finito per raccontarle tutto. <<>, dissi rialzandomi in piedi e facendo per andare via. Ma lei mi prese per una mano, fermandomi. La guardai perplesso, prima lei, poi le nostre mani, l’una nell’altra. Tornai sui miei passi, cercando una spiegazione di quel gesto nel suo viso, nei suoi occhi. Lei restò in silenzio qualche istante, mordendosi il labbro inferiore: <> <>, le chiesi corrugando la fronte. Scosse la testa, quasi stancamente, e lasciò la mia mano, stringendosi nelle spalle: <>, disse. Lo aveva detto con un filo di voce, ma avevo capito benissimo. Quella richiesta mi spiazzò, completamente. Non me l’aspettavo. Tutto mi sarei aspettato che uscisse dalla sua bocca, dalle sue labbra, tranne che quelle parole. Mi aveva come paralizzato, stordito: <> Lei annuì, alzandosi in piedi e camminando qualche passo lontano, dandomi la schiena, e poi guardandomi di nuovo in faccia, continuando a stringersi nelle braccia: <>, abbassò gli occhi un solo istante, e li rialzò subito, cercando i miei <> Non faceva niente per convincermi. Avrebbe potuto cercare di sedurmi, azionando i miei istinti più profondi. Avrebbe potuto fare qualunque cosa, e sapeva che non le avrei resistito. Non era solo una questione fisica. Io la amavo e la desideravo per questo. Ma lei non fece niente per spingermi dove voleva che arrivassi. Si era limitata a fare la sua richiesta, lasciando solo a me la decisione se accettare o meno, senza cercare di influenzarla in alcun modo. Stavo per chiederle se era veramente sicura di quello che mi stava chiedendo. Ma le mie labbra si separarono appena, senza però far uscire alcuna parola. Si richiusero e, quasi senza accorgermene, le mie mani cominciarono ad armeggiare i bottoni della mia camicia. Ma ero nervoso, troppo nervoso, e le mie mani tremavano, incespicando. Lei si avvicinò a me, senza dire niente, prendendomi delicatamente le mani e scostandole, riprendendo dal punto in cui mi aveva fermato. Prima sul torace, e poi le maniche. Mi aiutò a sfilarla dal mio corpo e cominciò a lavorare sulla cintura, i pantaloni, tutto il resto. Mi inebriavo del suo profumo mentre mi spogliava, come aveva fatto tante altre volte. Eppure sentivo, sapevo che stavolta c’era qualcosa di diverso. Non era come le altre volte. Era il nostro addio. Quando ebbe finito, solo allora, rialzò gli occhi verso di me, verso i miei. Volevo baciarla, assaporare le sue labbra, ma forse, ancora, non riuscivo a inserirmi in ciò che stavamo facendo. Era giusto che succedesse? Cos’era? Un tentativo di fuga? L’ultimo alito di vita della nostra storia? L’ultimo alito di vita… Le presi la testa tra le mani e la baciai sulle labbra, dapprima solo sfiorandole, una, due volte. Poi una terza volta più profondamente. Le mie mani scesero lentamente lungo la spugna del suo accappatoio, fino a trovarne la cintura e scioglierla… (DLIN DLON. N.d.Laus: LA PARTE CHE SEGUE CONTIENE ESPICITE DESCRIZIONI DI SITUAZIONI SESSUALI. SE VOLETE EVITARE, CERCATE L’ALTRO MESSAGGIO IN MAIUSCOLO) Chi ha letto le mie fics precedenti sa che arrivata a un punto come questo solitamente mi fermo. “Anche i personaggi hanno bisogno della loro privacy”. Però, qui non si tratta di un’occasione come le altre. In questa fic ho fatto tutta una serie di scelte tese a far vivere la storia come la vivono i suoi protagonisti. Anche la scelta di cercare di descrivere quello che segue è fatta in questo senso. Per cercare di entrare nelle loro teste, cercare di capire quello che provano e quello che sentono, sapendo che è l’ultima volta. E non per descrivere semplicemente una situazione sessuale. Se non avessi descritto quello che segue, e in particolar modo le loro emozioni in questa scena, mi sarebbe sembrato di lasciare la storia, e i personaggi, incompleti. Ora sta a voi decidere se continuare o meno. Nel caso potete sempre ciccare qui e arrivare alla fine di questa scena.) Per un istante temetti che ci avesse ripensato. Non l’avrei biasimato. Non sapevo nemmeno io se fosse giusto quello che stavamo facendo. Sapevo solo di volerlo, fortemente. Mi guardava con uno sguardo strano, incerto. Abbassai gli occhi, chiedendomi se non fosse il caso di lasciar perdere. Per il bene di tutti e due. Fu allora che sentii le sue mani alla base delle guance. Rialzò la mia testa verso la sua, e le sue labbra sfiorarono le mie una, due volte, prima di catturarle in un bacio profondo. Quel suo modo di baciarla che l’aveva colpita sin dall’inizio. Joe stacca le mie labbra dalle sue e mi sorride. E’ sdraiato accanto a me, sotto un albero delle vallate qui intorno. Una foglia cade sulla sua camicia e io la raccolgo, facendola girare tra le mie dita per il gambo. <>, mi dice prendendo l’altra mia mano nella sua e accarezzandola col pollice. <> <> Lascio cadere la foglia a terra e inizio a disegnare il contorno delle sue labbra con la punta dell’indice: <> Inarca le ciglia quasi sorpreso, e un po’ divertito. Poi ride: <> <>, dico girandomi sulla schiena, per distogliere lo sguardo, perché parlarne un po’ mi imbarazza. Ma mi sentivo di dirglielo <> Non risponde, ma sento il suo corpo avvicinarsi a me, un breve sguardo di intesa… e le sue labbra… Avvertii appena scivolarmi l’accappatoio da dosso. Le sue braccia mi strinsero a lui. I nostri due corpi entrarono in contatto, iniziando il loro dialogo silenzioso, fatto delle sensazioni profonde che ognuno suscitava all’altro. Mentre continuava a baciarmi, le sue mani si muovevano sulla mia schiena, per poi spostarsi sui fianchi, fino a raggiungere il seno, accarezzandolo, ascoltando i silenziosi messaggi che il mio corpo gli trasmetteva. Le sue mani risalirono fino alla base del collo. Cominciai a seguire le linee del suo torace con la punta delle dita, per poi accarezzarlo, dal petto alla schiena, sull’addome… Le sue mani scesero ancora più giù, accarezzandomi appena, quasi per testare i miei tempi. Presi le sue mani tra le mie, e le nostre labbra si separarono. La accompagnai verso il letto e restai in piedi mentre si sdraiava davanti a me, lasciando che le sue mani scivolassero lentamente tra le mie, fino a perderle. Mi riempivo gli occhi della sua bellezza. Guardo per l’ennesima volta l’orologio, lasciandomi scappare uno sbuffo di impazienza. E’ un quarto d’ora fa mi aveva detto che le mancava un attimo, e io sono ancora qui seduto sul divano ad aspettarla. <>, mi stuzzica Jet guardandosi la partita di baseball in tv. Già, come se non bastasse, i Giants20 stanno anche perdendo. Mi alzo e rifaccio le scale, tornando davanti alla sua stanza. Busso. <> Spingo giù la maniglia, già parlando: <> Si sta guardando allo specchio. Indossa un abito da sera, blu mare, che le lascia scoperte le spalle e una parte della schiena. I suoi capelli sono raccolti all’insù, evidenziando la bellezza del suo collo. E’ semplicemente meravigliosa. <> Non mi ero nemmeno accorta che mi stesse guardando. Mi sembra di riprendere a respirare e richiudo la porta dietro di me. <> Lei torna a guardarsi nello specchio, non troppo convinta: <> Mi avvicino di qualche passo: <>, le dico <> Lei mi sorride: <> <>, gli chiedo non capendo a cosa si riferisce. <>, risponde <> Rido, scuotendo la testa: <> <>, dice spruzzandosi un goccio di profumo alla base del collo <> <> <> Io, effettivamente, non avevo mai immaginato che cosa celassero i vestiti che portava, fino a quando non l’avevo vista senza di essi. Ma aveva un corpo ben proporzionato, e sinuoso. Praticamente perfetto, come la sua linea. Non capivo perché si facesse tutti quei problemi e perché non volesse credermi. Mi metto davanti a lei e le metto le mani sulle spalle: <> Lei esitò un istante, poi annuì, accennando un sorriso: <> Il suo sguardo mi chiedeva di andare da lei. Non c’era nessuna ombra di sorriso sulle sue labbra, stavolta. Solo quello sguardo era uguale a tutte le altre volte. Era una chiamata a cui non sapevo resistere, e a cui non volevo resistere. Mi misi sul letto, restando alzato sulle mie ginocchia in mezzo alle sue, e cominciai a salire, con le mani, partendo da appena sopra l’inguine, su, fino ad arrivare alle spalle. Seguendo il mio stesso movimento, scendevo verso di lei. Quando le fui a portata di mano, portò le sue mani sul mio addome. Sentivo le sue dita scivolare su, man mano che i nostri corpi si avvicinavano l’uno all’altro. Poi le sue braccia passarono attorno al mio torace, quando fui abbastanza vicino, e le sue mani cominciarono ad accarezzarmi la schiena, mentre io appoggiavo i gomiti sul letto per poterle baciare le labbra. Mentre la baciavo, sentivo i sui seni a contatto col mio petto. Forse non immaginava nemmeno lei quale sensazione mi provocasse quella sua carezza involontaria. O forse lo sapeva benissimo, se il mio corpo le trasmetteva i miei brividi di piacere come lei mi trasmetteva i suoi. Staccai le mie labbra dalle sue, iniziando a baciarla sul collo, fino al seno, sfiorandolo soltanto, e scendendo ancora, posai le mie labbra sulla pelle del suo addome, con l’intenzione di scendere ancora. Ma il suo corpo, in qualche modo, mi fece capire che non voleva. Non adesso. Smise di baciarmi le labbra, cominciando a scendere sul collo, sul seno. Baciando l’uno e l’altro, prima sfiorandoli appena, quasi come se giocasse, poi in modo sempre più profondo. Intanto la sua mano scendeva lungo un lato del mio corpo, così leggera che la avvertivo appena. Le sue labbra scesero ancora, sull’addome, i fianchi. Capii cosa voleva fare, e mi alzai a sedere, inducendolo ad alzare la schiena e a guardarmi in volto. I nostri occhi si incontrarono appena un istante, prima di baciarci di nuovo sulla bocca. <>, lo sento dire. Ma il suo tono è quasi ironico, sdrammatizzante. Il fatto è che non c’è niente da sdrammatizzare. Io resto per un po’ sdraiata supina, evitando di guardarlo. Non mi accorgo nemmeno che si avvicina a me, girandomi di scatto quando sento le sue labbra tra le mie scapole. <>, mi dice sorridendo quando i nostri occhi si incontrano. Mi sdraio nuovamente di lato, esattamente come fa lui in modo speculare a me. Restiamo l’uno di fronte all’altro, in silenzio per qualche istante. <>, gli dico tanto per rompere il ghiaccio dopo tutto quel mio silenzio. Lui sbarra gli occhi, ma è solo per scherzo, perché poi si mette quasi a ridere: <>, dice <> Il punto è proprio quello. Ed è anche il motivo per cui sento qualcosa che assomiglia a un senso di colpa. Forse è una questione di cultura… <>, mi fermo un attimo. Non so nemmeno io cosa voglio dire, e avverto chiaramente di essere arrossita. Prima di adesso, lo vedevo come qualcosa di… sporco. Ma lui ha detto che è un modo di amarmi, e anch’io non riesco a non accettare questa interpretazione. E’ per questo che mi sento in colpa? <>, si ferma un attimo e sembra che sia come se un lampo gli fosse passato per la testa <> Mi sono sdraiata sulla schiena, e tengo le braccia conserte. Lo guardo, ripensando alle sue parole, al fatto che per lui non sia stato che un modo come un altro per amarmi. In fondo è quella la differenza tra fare semplicemente del sesso e fare l’amore. Non ho mai avuto rapporti sessuali con un uomo per cui non avessi almeno l’illusione di provare qualcosa. Ma credo che la differenza sia appunto nel cercare il proprio piacere, oppure cercare di darlo all’altro, prima di tutto. Un modo per amare. <> Mi fece nuovamente sdraiare, continuando a baciarmi. E mettendosi quasi di fianco a me, restando a contatto col mio corpo. Mentre un braccio era sotto la mia testa, con l’altra mano ricominciò ad accarezzarmi il seno, scendendo sull’addome, proseguendo fino alla gamba, e poi risalendo all’interno di essa, senza fermarsi… Di nuovo la sua mano scese lungo il mio torace, partendo dal petto, riempiendolo di carezza fino all’addome, scendendo ancora, muovendo le mani, entrambe, con seducente maestria, sfidando il mio senso del controllo. La sentii pronta per me, pronta ad accogliermi. Il suo corpo stava chiamando il mio. Le nostre labbra si separarono e mi spostai sopra di lei. Sentii le sue mani che mi liberarono, risalendo lungo il mio torace, fino alle spalle. La guardai un istante negli occhi e l’ombra del pensiero che sarebbe stata l’ultima volta che sarei entrato dentro di lei mi rattristò. E se avesse trovato qualcuno dopo di me? Qualcuno che l’amasse come meritava? Qualcuno che non ero io. L’idea mi faceva impazzire, non la sopportavo. E cercai di mandarla via. Ormai non potevo tornare indietro. Qualunque fossero le braccia che l’avrebbero strinta dopo le mie, ce l’avevo spinta io. Nessun altro. E l’avevo fatto per il suo bene. Eppure, rieccomi, a fare il controsenso vivente che sono sempre stato. Non voglio che stia con me, e non sopporto la sola idea che stia con qualcuno diverso da me. <>, mi dice guardandomi con occhi spalancati e quasi increduli <> <>, rispondo candidamente, guardando l’ennesimo gabbiano che prende la sua preda in mare. E’ la verità. E ne sono consapevole. Non sono di quelli che si nascondono dicendo che loro la gelosia non sanno nemmeno dove sta di casa. Sono geloso e possessivo. D’altronde gliel’ho detto sin dal primo istante. E con quello che mi ha detto ieri sera a letto, ha stuzzicato la mia curiosità e la mia gelosia. <>, risponde sospirando di esasperazione. <>, esclamo pensando allo stesso tempo a quanto sembro stupido addirittura a me stesso. Sospira nuovamente: <> <> Il suo gesto del capo, mentre tiene le braccia conserte, già mi dice quanto sono stupido. Dice: “Quindi? Non ti viene in mente che per me tu sei la stessa identica cosa?”. Scoppio in una mezza risata, e annuisco: <> <>, dice sorridendo <> Disegnai il suo profilo con la punta dell’indice, fermandomi sul suo mento, mentre entravo lentamente dentro di lei. Lei chiuse gli occhi, lasciandosi sfuggire una lieve smorfia. La baciai sulle labbra, appena sfiorandola, e quando rialzai appena la testa, lei aprì gli occhi. Lo sentii scivolare dentro di me, e chiusi gli occhi per quella piccola punta di dolore che mi provocava ogni volta. Lui lo sapeva bene e, come sempre, si fermò prima di andare avanti. Mi sfiorò sulle labbra, e quando lo sentii rialzare la testa, aprii gli occhi. Fu allora che comincia a sentire il suo movimento dentro di me, lento e profondo. Quasi istintivamente, iniziai ad assecondarlo, stringendolo a me, chiudendo gli occhi e vivendo del suo movimento, del contatto del suo corpo col mio, delle sue labbra con la mia pelle e con la mia bocca, del sapore della sua pelle, dei muscoli delle sua schiena che sentivo in tensione e contrarsi sotto le mie mani, dell’intenso piacere che percorreva tutto il mio corpo. <> Sono mezza addormentata. Mi giro nelle sue braccia, sdraiandomi di lato. Lo guardo senza riuscire a capire a cosa si riferisce, e credo che il mio sguardo dica tutto. <> Spalanco gli occhi, comprendendo a cosa alluda. Ripenso alla notte che stiamo trascorrendo insieme. La prima notte insieme. Arrossisco un po’ al pensiero, ma so bene di cosa sta parlando. Stava andando troppo in fretta. Avevo paura di perderlo… … e fa qualcosa che non mi sarei mai aspettato dalla Françoise che conosco, che avevo conosciuto fino a quel momento. Mi spinge leggermente, inducendomi a sdraiarmi sulla schiena, così da essere sopra di me. La sento rallentare il ritmo, cercare la profondità. E capisco che fa così, perché è così che a lei piace, e piace anche a me. La sento molto di più. La sento veramente mia. <>, le chiedo dopo, quando è tutto finito. Lei si gira tra le mie braccia, guardandomi perplessa. Io le riformulo la domanda, cercando di spiegare. La vedo spalancare gli occhi, e anche siamo al buio. So che è arrossita. <>, mi spiega con un filo di veloce <> Sentivo il suo corpo inarcarsi sotto il mio, rispondere agli impulsi che le davo. Sentivo chiaramente il mio e il suo respiro, le sue mani sulla schiena, quasi graffiarmi la pelle. Gradualmente il mio ritmo aumentava, senza mai diventare frenetico, e lei si adeguava, seguendo ogni mio movimento, in una sincronia perfetta, come se seguissimo una qualche musica, di cui solo noi due conoscevamo la melodia e il tempo. C’era solo lei. Tutto il resto, la stanza, i rumori della città, tutto era scomparso. C’eravamo solo io e lei. Solo noi. Lo sentii esplodere di piacere insieme a me. Ormai era quasi una consuetudine che arrivassimo insieme alla fine. Ed era una sensazione indescrivibile. Riaprii gli occhi mentre rallentavamo fino a fermarci del tutto. Anche lui aveva gli occhi aperti, e mi guardava senza dire una parola, cercando di normalizzare il respiro, come stavo facendo io. Mosse una mano, scostando una ciocca di capelli dalla mia guancia, e restammo a guardarci, a lungo, senza muoverci. Era finita. Ecco, adesso la nostra storia era finita. Chissà se anche lui stava pensando alla stessa cosa? E se quello sguardo malinconico con lo quale mi fissava, era dovuto a quello. (F I N E D E L L A Z O N A R O S S A) Vidi la sua testa abbassarsi su di me, e per un istante pensai che fosse per baciarmi, come faceva sempre appena dopo fatto l’amore. Ma non stavolta. Appoggiò la testa sulla mia spalla, stringendomi a sé. Io lo abbracciai a mia volta, istintivamente, passandogli una mano tra i capelli, senza chiedere niente. Dopo qualche istante sentii il suo corpo cominciare come a sussultare, non in modo eclatante, ma lievemente. Inizialmente non capii, ma poi il suono divenne impossibile da non riconoscere. Pianse, sulla mia spalla, tra le mie braccia, lasciando cadere ogni controllo che aveva cercato di dare a quelle lacrime. Pianse fino a quando ad addormentarsi, a cadere in un sonno profondo. Restai a guardarlo dormire, accanto a me, per un po’ di tempo. Poi, quando fui sicura che fosse ben sprofondato nel suo sonno, mi alzai e mi vestii in fretta, cercando di non fare rumore. Presi la valigia e la portai fuori dalla stanza, appoggiandola all’entrata. Poi rientrai. Joe non aveva dato segni di vita. Continuava a dormire, profondamente. Restai a guardarlo. Per un attimo sentii gli occhi bruciarmi, ma ricacciai indietro le lacrime. Presi il mio soprabito e tirai fuori dalla tasca la busta che gli dovevo lasciare. Guardai l’anello un’ultima volta. Poi lo sfilai e lo misi dentro la busta, chiudendola definitivamente. La lasciai lì, sotto il vaso con dentro le rose che mi aveva regalato solo il giorno prima. Mi voltai verso di lui e restai a guardarlo ancora qualche istante, ancora un po’. Di nuovo quella sensazione di bruciore agli occhi. Feci forza su me stessa e andai verso la porta. La aprii e la richiusi alle mie spalle, cercando di fare il minimo rumore e di rendere quel gesto il meno doloroso possibile. Presi la mia valigia e scesi di corsaal piano terra, prendendo le scale. Arrivata nella hall, il portiere di notte alzò gli occhi dal suo giornale fresco di stampa e mi guardò, come se fossi un extraterrestre. D’altronde erano le 4 e mezzo di notte. Non potevo biasimarlo. Doveva essere abituato a vedere poca gente a quell’ora. Mi avvicinai alla reception. <>, mi disse ripiegando e posando il giornale <> <> <>, disse prendendo il telefono <> <> “Già, cosa siamo adesso?” <>, mi disse con la cornetta all’orecchio <> <>, annuii. Finalmente qualcuno rispose all’altro capo del filo. Ascoltai la breve conversazione e pochi istanti dopo riattaccò. <>, disse <> <> Il portiere si chinò a prendere un thermos in terra, quindi prese un bicchiere di plastica da qualche parte e vi versò dentro il caffè e me lo porse. <>, mi disse <>, risposi <> Bevetti il liquido nero e ormai poco più che tiepido quasi d’un sorso. Effettivamente non era granché, ma almeno mi svegliò un po’. E poi era stato un gesto molto gentile da parte sua. E’ incredibile quanto ogni piccola gentilezza ti sembri enorme quando ti sembra che il mondo ti si rivolti contro. Vidi il mio taxi fermarsi davanti all’entrata e io porsi il mio bicchiere vuoto al portiere, che si preoccupò di buttarlo via, e feci per prendere la mia valigia. <>, disse. <> <>, disse uscendo da dietro il bancone e prendendo la mia valigia in mano <> Mi accompagnò fino al taxi, e porse la mia valigia all’autista che la infilò dentro la bauliera, richiudendola. <>, dissi al portiere. <>, rispose sorridendo <> Mi limitai ad annuire e entrai in macchina. Il tassista, un uomo sulla cinquantina, entrò poco dopo di me. <>, mi chiese. <>, risposi. <> Il tassista ingranò la marcia e la macchina iniziò a muoversi. Non mi guardai indietro, ma silenziosamente le lacrime iniziarono a scendere sulle mie guance mentre attraversavamo le vie deserte della città. <>, mi chiese il tassista, quando ci fermammo a un semaforo. <>, dissi. <>, mi disse porgendomi un pacchetto di fazzoletti <> Presi un fazzoletto e gli detti il pacchetto indietro, continuando poi a piangere silenziosamente, per il resto del viaggio. <> Sobbalzo nella mia poltrona. Il dottor Gilmore è in piedi davanti a me e mi guarda perplesso, con una tazza fumante in mano. <>, mi dice porgendomi la tazza. Prendo la tazza in mano, con un cenno del capo: <> Il professore si rimette a sedere al suo posto e sorseggia un po’ del suo tè: <>, dice <> Io mando un paio di sorsi del mio e alzo le spalle: <> <>, risponde <> Deglutisco e quasi mi va di traverso la bevanda. Con lui sono arrivato solo al momento in cui Françoise mi aveva fatto quella richiesta. E mentre lui era andato in cucina a fare il tè, la mia mente era già volata molto oltre. <>, mi dice storgendo la bocca. <> Sospira, soffiando sul tè e bevendone un altro sorso: <> <>, chiedo ad Albert mentre risiede accanto a me, dopo aver accompagnato il nostro amico a cercare qualche pasticca per il mal d’aereo. <>, risponde alzando le spalle <> Sorrido: <> <> Resto in silenzio qualche istante. Non gli ho raccontato tutto. Mi sono limitata a dirgli della mia richiesta e del pianto di Joe. Nient’altro. Se non fosse stato Albert non avrei avuto nemmeno il coraggio di iniziare a raccontare questa storia. Scuoto la testa: <>, rispondo <> Albert mi guarda perplesso per qualche secondo, poi alza le spalle e fa un mezzo sorriso: <> <>, da “The unforgettable fire”, U222 <>, da “One”, U223 Parte VIII Quando mi svegliai, la mattina dopo, lei non c’era più. Mi guardai intorno, solo per vedere che le sue cose erano scomparse. Guardai l’orologio e quando vidi l’ora non ci volli credere. Era quasi mezzogiorno. Da quanto se n’era andata? Chiamai subito la reception, infuriato. <> <> <<…. Non saprei… aspetti.>>, sento un fruscio di carte <> <> <<… Non saprei dirle. Io ho preso il mio posto alle 7. Forse è stato il collega del turno notturno. Comunque non cancelliamo mai cose del genere, se non su esplicita richiesta dell’occupante o di uno degli occupanti della stanza.>> Era stata lei. Improvvisamente capii tutto. Aveva fatto cancellare il promemoria la sera prima, quando io non c’ero, ed era scomparsa chissà quando. Probabilmente all’alba, per essere sicura che non mi svegliassi prima che se ne fosse andata. <> <>, rispondo massaggiandomi le tempie con il pollice e l’indice della mano libera <> <> <> <> <> <> Mi alzo e mi vesto in fretta, lavandomi la faccia e cercando di darmi un aspetto presentabile. Do un ultima occhiata in giro, prima di lasciare la stanza. Le rose che le avevo regalato il giorno prima erano ancora lì. Le notai solo allora. Mi stupii che non le avesse buttate via già la sera prima. Mi avvicinai, guardandole, e accarezzai i petali di una di esse con le dita di una mano. “Potrai mai perdonarmi?” C’era qualcosa sotto il vaso. Lo alzai. Era una busta, in tutto e per tutto uguale a quella che avevo usato io il giorno prima. E sopra c’era scritto il mio nome. La tastai. Oltre alla carta, c’era anche qualcos’altro dentro. Qualcosa di piccolo e duro. Me la rigirai tra le mani per una ridicola quantità di minuti, senza il coraggio di aprirla. Alla fine me la misi in tasca, e presi la mia roba, uscendo dalla stanza. Una donna delle pulizie mi vide uscire. Sembrava stesse aspettando solo me. Mi salutò con un gesto del capo, facendomi segno di lasciare aperto e entrando. Io mi avviai lungo il corridoio, verso l’ascensore. <> Mi voltai e vidi la donna delle pulizie guardare nella mia direzione: <> <>, risposi senza battere ciglio. <> Alzai le spalle: <> <> Aspettai che fosse rientrata e ripresi il mio cammino verso l’ascensore. Scesi fino al pianterreno, dirigendomi verso la reception. Non avevo fretta. Sapevo che il suo aereo sarebbe partito tra meno di un paio di ore. Non l’avrei mai raggiunta, anche se avessi voluto. Forse era meglio così. Il portiere mi sorrise: <> <> <>, il portiere digitò qualche cosa sulla tastiera di un terminale. Poi mi dette un foglio stampato, con i dettagli del conto, con tanto di tabulato delle chiamate effettuate. Guardai il totale e gli detti la mia carta di credito. Lui la prese e la fece passare nel lettore di carte. <> <> L’uomo sparì nel retro. Non sapendo cosa fare mi misi a leggere il foglio che mi aveva dato. Lo rilessi due o tre volte, prima che qualcosa attirasse la mia attenzione: <> Ecco, avevo saputo anche come se n’era andata. Ma certo. Era la soluzione più logica. E veloce. Il portiere tornò con la mia carta: <>, disse <> Sorrisi: <> <> <> <>, rispose sorridendo <> <> Mi porse un fogli di carta e una penna. <> <> Esito un istante: <> <> <>, rispondo scrivendo la dedica e firmandola. Porgo il foglio all’uomo, che mi ringrazia di nuovo. <>, chiedo. <> <> Mi dirigo verso la sala e un cameriere mi accompagna un tavolo… che conosco fin troppo bene. Cenammo qui, quella sera. Sembra un secolo fa… eppure sono solo pochi mesi. Stavo per chiedere se potevo avere un altro tavolo, ma poi mi dissi che ero ridicolo. Mi misi a sedere, e bevvi un sorso dell’acqua che mi aveva versato il cameriere, prendendo subito un menù. Qualunque cosa pur di non guardare davanti a me, quel posto vuoto, ma pieno della sua memoria. <>, disse un uomo che stava camminando nella mia direzione, con destinazione il tavolo dietro il mio. <>, chiese quello che era seduto insieme a lui. <>, rispose l’altro <> <> L’uomo si voltò verso di me, guardandomi perplesso. <> <> Mi alzai dalla panchina che occupavo ormai da qualche ora. Sarebbe dovuta mancare un’ora e mezzo alla partenza del nostro volo, ma sembrava che ci fosse un guasto piuttosto grave e che ci sarebbero volute ore prima di partire. I miei amici si avvicinarono a me, con i carrelli pieni di valigie. C’erano tutti. Anche il dottor Gilmore e Ivan, che rimanevano in Giappone. Avevamo deciso di partire più o meno tutti alla stessa ora. Anche Chang, che aveva un viaggio piuttosto breve rispetto al nostro e a quello di Geronimo e Jet. <>, disse Albert, quello a cui avevo chiesto di portare le mie valigie direttamente all’aeroporto <> <>, gli dissi contando le mie valigie <> <>, rispose Bretagna <> <> <>, rispose Punma alzando le spalle. <>, chiese Jet guardandosi intorno. Mi sentii una morsa allo stomaco: <>, risposi <> A dire il vero, non lo speravo proprio. <>, disse Jet scuotendo la testa e le mani. Gli altri si limitavano a guardami esterrefatti <> Lo guardai sospirando: <> Jet spalancò gli occhi. Il suo sguardo era una cosa a metà tra il rabbioso e l’incredulo: <> Ora avevo la conferma che Joe si era tenuto la cosa solo per sé, senza dire alcunché a nessuno. Avevo sperato, non molto a dire il vero, che almeno Jet potesse illuminarmi, darmi, almeno in parte, le risposte che Joe non aveva voluto darmi. <>, chiesi <> I miei amici si guardarono l’un l’altro, consultandosi in silenzio. <>, disse Albert <> <>, chiese Jet, con le braccia incrociate sul petto. <>, gli fece notare Albert. Forse è la voglia di non scoppiare che mi porta a rispondere, forse l’esasperazione o la stanchezza. Qualunque forza fosse quella che le muoveva, le parole uscirono dalla mia bocca, di getto <> <>, mi chiese Jet dopo aver aspettato inutilmente che completassi la frase. Esito un istante, poi scuoto la testa: <> <> <>, chiedo al dottor Gilmore senza nemmeno dargli il tempo di continuare la frase. Gilmore mi fissa con la bocca leggermente aperta, qualche secondo, poi la richiude e scuote la testa: <> <>, lo supplicai. Scosse la testa un’altra volta: <> Una voce computerizzata avvisò i passeggeri del volo PanAm per Los Angeles che erano cominciate le procedure di check-in. <>, disse Geronimo, rivolto a Jet. <>, commentò l’altro <> <>, disse Albert dandogli una pacca sulla spalla <> <>, disse Jet <> <>, disse Chang. <>, sbuffò Jet <> <>, rispose Bretagna <> <>, disse Geronimo rivolto un po’ a tutti. Poi il suo sguardo si posò su di me più a lungo del normale e io capii che era un “soprattutto tu, Françoise”, silenzioso e discreto. Nel mio cuore lo ringraziai, e quando mi sorrise, seppi che aveva ricevuto il mio ringraziamento. Geronimo e Jet si incamminarono con i loro bagagli verso l’area di check-in. Meno due. Quantomeno la loro dipartita aveva distolto l’attenzione degli altri dalla mia situazione sentimentale. Anzi, si misero a parlare fra di loro, e io restai in disparte, senza nemmeno ascoltare. Ero frustrata. Avevo fatto così tanto per fare in modo che lui non avesse possibilità di essere lì al momento della mia partenza, e adesso… Scossi la testa. Ero paranoica. D’altronde era praticamente impossibile che venisse a sapere di quel ritardo. Non lo avrebbero certo detto al telegiornale o al giornale radio. Ma sarei voluta partire, andarmene al più presto dal Giappone, lontano da lui. E invece ci si metteva anche quell’inconveniente a pararmi la strada. <> <>, dissi tornando alla realtà <> <>, disse il professore porgendomi il bambino. <>, dissi prendendo Ivan in braccio. <>, disse Gilmore avviandosi insieme a me. Attraversammo l’atrio, dirigendoci verso le toilettes. Lì trovammo la nursery. <>, svelò il professore una volta entrati. Poi guardò Ivan <> <>, risposi tenendo Ivan in braccio. Il professore annuì: <>, disse <> Considerai il discorso appena fattomi da Gilmore in ogni sua singola parola: <> Sorrise, come un padre a sua figlia: <> Mi lascio scappare una risatina di esasperazione: <> Sospirò: <>, prese un attimo di respiro <> Restai in silenzio, stringendo Ivan a me, e tenendo gli occhi bassi. Poi li rialzai, incontrando il suo sorriso bonario. Accennai un sorriso anch’io: <> Sorrise di nuovo: <>, disse <> <> <> continuò <> <> <>, mi disse <> Non capivo perché stavo correndo come un pazzo sull’autostrada verso Tokyo. Non affrontavo la domanda forse perché non volevo ammettere a me stesso che volevo vederla, magari parlarle un’ultima volta, magari dirle la verità su tutta quella storia. Correvo, spingendo sull’acceleratore della mia auto come se mi fossi trovato su uno dei lunghi rettilinei di Monza. Spinto solo da una specie di istinto di sopravvivenza che mi diceva che non potevo lasciarla partire così. O più semplicemente, dalla mia coscienza. Pregavo che quel motore non venisse aggiustato per tempo, maledicevo ogni automobile, rispettosa del codice della strada, che mi si parava davanti sulla mia strada, ogni coda o rallentamento. E mi prendevo i miei bei rischi, a cui ormai sei immunizzato dopo che hai corso a trecento all’ora su una Formula Uno. <>, imprecai sbattendo le mani sul volante. Un’altra coda. E stavolta c’era anche un bel veicolo della polizia che avvertiva che era causata da un incidente. Non c’erano altre strade. Eravamo proprio sul ponte che portava in Honshu24. Non potevo fare altro che aspettare di uscire da quel macello. E nell’immobilità forzata. Anche se fossi arrivato in tempo, che cosa le avrei detto? Che cosa volevo andare a fare? Cosa volevo dimostrare? Avevo posto fine alla nostra storia, e sapevo che non volevo tornare indietro. Cominciavo ad avere anche caldo, nonostante avessi l’aria condizionata accesa. Mi tolsi la giacca e la piegai. Già, me ne ero dimenticato. La busta, la busta che lei mi aveva lasciato, era ancora dentro la tasca della giacca, aspettando di essere aperta. La presi in mano, e la guardai, indeciso se aprirla o meno. Alla fine mi decisi. Strappai la carta gialla e ne estrassi il foglio. Qualcosa uscì insieme al foglio di carta che c’era dentro, e cadde sulle mie gambe, fermandosi. Lo presi in mano, sapendo fin troppo bene cos’era. L’anello. L’anello che mio padre non aveva mai dato a mia madre. L’anello che io avevo dato a lei. Una piccola promessa d’amore, che io avevo infranto. Misi l’anello nella tasca della camicia, e passai la mia attenzione sul foglio di carta. Lo guardai un bel po’ prima di dispiegarlo. Era scritto in francese. Ho perso un sacco di tempo solo a decidere come iniziare questa lettera. Scusa se scrivo nella mia lingua, ma sono i miei pensieri quelli che scrivo e quindi questo non è altro che il loro specchio. Cosa dire, Joe? Io non riesco ancora a crederci. E’ stato come risvegliarsi da un sogno durato mesi. E’ stata solo un’illusione che non è mai esistita veramente? No. Lo so, lo so bene. Ma preferirei che fosse così. No, non è vero. Questi mesi insieme a te sono stati bellissimi. No, non è vero che vorrei che non ci fossero mai stati. Vorrei che avessero una fine diversa. Vorrei che non ci fosse una fine. Dopo essere diventata un cyborg, pensavo che non sarei più riuscita a provare… a innamorarmi di qualcuno. Tu non solo sei riuscito a farmi innamorare di te, ma ci sei riuscito come non ci era mai riuscito nessuno. Non ho mai provato un amore del genere per nessun altro. Tu mi hai fatto sentire nuovamente viva. Ti ho amato in silenzio a lungo, vivendo nell’incertezza, nella tua incertezza. Perché io non ho mai avuto un solo dubbio, Joe. Tu invece ti allontanavi e ti avvicinavi a me come l’acqua del mare alla sua riva. Quando arrivavo troppo vicino, ecco che tu scappavi di nuovo. Sempre un passo più in là, lontano da me. Quando mi hai detto di amarmi è stato come l’avverarsi di un sogno. Non me ne sono rimasti molti, da quando sono un cyborg. Tu eri uno di questi, e finalmente si era realizzato. Finalmente mi permettevi di amarti. E io ce l’ho messa tutta. Ti ho amato con tutta me stessa, e continuo ad amarti allo stesso modo. Anche adesso, anche in questo momento, che tu hai posto fine a questo sogno senza darmi spiegazioni. Sì, Joe, c’è stato un tempo in cui il tuo passato mi intimoriva. Ma io ti ho conosciuto per quello che sei adesso. Per quello che sei veramente. E’ di quest’uomo che io sono innamorata, perdutamente. E quest’uomo adesso mi allontana da lui, dicendomi che mi ama ancora. Ed è forse questo ciò che mi fa più male. Non sai quanto tu mi faccia male dicendo che mi ami ancora, e allontanandomi da te. Non riesco a capire. Perché, Joe? Perché mi lasci se mi ami ancora? Perché continui a lasciare che il tuo passato ti tormenti e ci tolga anche quella piccola e insperata possibilità che avevamo di essere felici? Perché? Io sarei passata in mezzo alle fiamme dell’inferno per te. Avrei sopportato qualunque cosa, pur di starti accanto. Ma tu non me lo hai permesso. Perché? Per quanto tu cerchi di allontanarmi di te, ricorda che io ti amerò sempre, Françoise Strinsi le labbra, ripiegando la lettera e rimettendola nella busta. La posai sul sedile del passeggero e appoggiai la testa all’indietro, chiudendo gli occhi. <>, dico appena sussurrando <> I miei occhi si chiudono, ricacciando indietro le lacrime. Non avrei mai immaginato che si potesse soffrire così. Non ho mai sofferto così. Che avessi ragione quando avevo paura di amarla e dell’amore che mi poteva dare? Quando lo rifiutavo, perché ogni persona che ho amato, prima o poi se n’è andata? Ma stavolta sono io ad averla allontanata. Ho allontanato da me la persona più importante della mia vita. Sono vittima del mio stesso crimine. Il dottor Gilmore continua a guardarmi e ad ascoltarmi in silenzio. Resto in silenzio anch’io, vivendo il dolore che mi provoca ricordare tutto questo. <>, mi dice <> Alzo gli occhi verso di lui, non comprendendo quelle parole: <> Sospira e chiude gli occhi, incrociando le braccia sul suo petto: <> Abbasso gli occhi, guardando le mie mani, l’una nell’altra, come tante volte sono state le mie e quelle di Françoise. Stringo le labbra e me ne passo una fra i capelli in un gesto di stanchezza. <>, dico <> <>, mi dice la mia insegnante di danza, smettendola di torturare la mia caviglia <> Louis scuote la testa, affranto: <> Scuoto la testa: <> <> <>, insisto prendendo la borsa del ghiaccio che mi viene portata da Cathrine <> Però sono arrabbiata. Non con Louis. Ma con il destino. Accidenti, è da così tanto che aspetto questo saggio. Ci saranno anche degli insegnanti della più importante scuola di ballo di Parigi. Un diploma in quella scuola è un biglietto per il futuro assicurato. Mi aprirebbe le porte di qualsiasi più importante compagnia di ballo. Soprattutto quella de l’Opera. E adesso… Mi viene da piangere. I miei occhi incontrano Elenoire. Sorride. Sarebbe più esatto dire che sogghigna. Questa è la sua vendetta venuta direttamente dal cielo. Sono stata scelta io, e non lei, per questa parte. Sono io quella in cui la maestra Nicole crede di più. Sa bene che, se non posso ballare, la parte dell’eroina la farà lei. E’ invidiosa, maligna e crudele. Ma è brava. Ed è fin troppo consapevole del suo talento. Tanto da pensare di potersi permettere di fare il minimo indispensabile. Mentre io passo ore e ore in più, rispetto alle lezioni regolari, ad allenarmi e a cercare di migliorare le mie lacune. Mi fa una rabbia che la mia parte vada a lei… <>, mi dice, con una nota di trionfo <> <>, le dice Cathrine a muso duro <> <>, replica Elenoire, con quella sua voce stridula e antipatica. <>, interviene Nicole mettendosi fra loro due <> Elenoire sorride trionfante. <> Tutti gli occhi si voltano verso di me, che porgo la mia mano verso Louis, che prontamente mi aiuta a rialzarmi. Mi appoggio alla sbarra, per non forzare sulla caviglia dolorante: <> <>, dice Elenoire spiazzata <> <>, rispondo <> <>, grida Elenoire esasperata <> <>, dice la maestra fermandola con un gesto della mano <> Annuisco, supplicandola con gli occhi. Lei sembra pensarci su un attimo: <>, dice facendomi scendere la morte nel cuore <> Sorrido, grata per quella piccola possibilità che mi ha concesso: <>, le dico. Riapro gli occhi. Mi ero addormentata e non me ne ero nemmeno accorta. D’altronde non ho dormito stanotte. E’ logico che sia stanca. <>, mi dice Albert, sorridendomi. <>, rispondo ancora mezza intontita. Guardo fuori dal finestrino. E’ scuro fuori. Stiamo avvicinandoci sempre di più all’Europa: <> <>, mi risponde. Annuisco: <> <>, dice Albert <> <>, ammetto <> <>, rispose <> Scoppio a ridere, e scuoto la testa: <> <> <>, gli dico. <> <>, lo interrompo con tono calmo ma deciso <> <>, risponde sorridendo e accompagnando la voce con un gesto del capo <> Lo guardai, sorridendo. E ripensai a quel sabato mattina, a come ce la misi tutta, al sì della maestra, al saggio della sera, il preside della scuola di ballo di Parigi che venne personalmente a dirmi che mi avrebbero dato una borsa di studio per frequentare la loro scuola. <>, da “Without you”, Harry Nilsson26 <> da “Re-offender”, Travis27 Parte IX <>, si lamentò Bretagna per l’ennesima volta. Chang a quest’ora doveva essere quasi arrivato. Noi, ormai, dovevamo essere partiti già da più di quattro ore, quasi cinque. Non ci avevano nemmeno fatto fare il check-in. Il che non era un buon segno. Guardai il dottor Gilmore, seduto in silenzio accanto a me, e poi Ivan, nelle mie braccia, ancora addormentato. <>, chiese Punma <> <>, rispose <> <>, disse Punma alzandosi e andando verso il vetro. Da lì si vedeva il nostro aereo <> <>, disse Bretagna sconsolato guardando con uno sguardo vuoto davanti a sé. Lo guardai terrorizzata. In quel caso avrei aspettato lì all’aeroporto fino a che non si fosse liberato un qualunque posto su un qualunque aereo che fosse decollato verso l’Europa. A costo di viaggiare nel bagagliaio. “Françoise.” Guardai Ivan. Era lui che mi stava chiamando, parlando nella mia mente. <> Vidi Bretagna alzarsi e andare verso un uomo vestito con la divisa dell’Air France. L’uomo si voltò e lo guardò, incuriosito: <> Bretagna si avvicinò a lui: <>, disse in un francese in cui si avvertiva chiaramente il suo accento inglese. <>, rispose l’altro in un accento che collocai nel sud-est della Francia, in Provenza. <>, lo supplicò Bretagna con uno sguardo tragico, incredibilmente comico <> Il comandante rise: <>, rispose <> Mi alzo e lascio Ivan al dottor Gilmore e mi avvicino anch’io: <> <>, rispose lui accennando un sorriso. <>, dissi mettendomi le mani fra i capelli. Poi lo guardai, scuotendo la testa <> <>, mi chiese sorridendo <> <>, risposi un po’ sgarbatamente a dire il vero. <>, mi dice <>, concluse, senza mai essersi mosso dal tono cordiale col quale aveva iniziato. Annuisco, accennando un sorriso: <>, rispondo <> <>, rispose sorridendo <> <>, dissi. <> L’uomo si allontanò da noi, e Bretagna aspettò che si fosse allontanato un po’: <> <>, dissi tornando al mio posto e riprendendo in braccio Ivan dalla braccia del dottor Gilmore. “Françoise.” Guardai il bambino senza parlare, limitandomi alla comunicazione solo mentale: “Cosa c’è, Ivan?” “Veramente vuoi andartene, lasciando tutto così?” Sospirai: “Cos’altro c’è da dire, Ivan?” Restò “in silenzio” per qualche istante: “Françoise, so che stai solo fuggendo.” “Non sono stata io la prima a fuggire.”, replicai. “E se ti dicessi che adesso lui sta correndo per venire qui?” Lo guardo con gli occhi sgranati: “Come… per lui dovrei essere già partita! Come ha fatto a sapere del ritardo? Sei stato tu?” “No, Françoise. Non sono stato io.”, risponde. E mi sembra sincero “E’ stato un caso. Ma sono io ad aver causato questo ritardo.” “Cosa!?” “Sì, sono io che sto bloccando quel motore, Françoise.” Chiudo gli occhi, sospirando: “Perché, Ivan?” “Perché è questo quello che volevi.”, risponde. “Non è vero!” Lui non risponde, lasciandomi riflettere su quelle parole. E sulla più semplice delle verità: non si può mentire ad Ivan. “Ivan, hai ragione.”, dissi “Forse è vero che vorrei più tempo, vorrei che lui venisse qui e mi parlasse e mi dicesse che non è finita. Ma non è giusto. Né per me, né per lui. Non voglio soffrire ancora. Voglio tornare a casa. So che in fondo non è la verità, ma…”, mi interruppi perché sentii un groppo salirmi in gola. “Va bene, Françoise. Se è questo che vuoi…”, disse “Ma almeno lascia che ti dia una cosa.” “Cosa vuoi darmi, Ivan?”, gli chiesi. Sentii qualcosa di sottile materializzarsi nella mia mano. Qualcosa di sottile. Tolsi la mano da sotto la schiena di Ivan, continuando a tenerlo con l’altro braccio. Era una busta, bianca, senza neanche un nome di destinazione sopra. Me la rigirai nella mano, corrugando la fronte. “Cos’è, Ivan?” “E’ una lettera di Joe.”, mi rispose lui “Era in un cassetto della sua stanza. L’ha scritta un paio di giorni fa, ma non ha avuto il coraggio di dartela.” “Non è giusto che io la legga, se lui non me l’ha voluta dare.”, risposi. “Puoi non leggerla, se vuoi. Puoi buttarla via, senza nemmeno aprirla.”, disse “Io non so cosa ci sia scritto in quella lettera, Françoise. Dico sul serio. So solo che è indirizzata a te. Forse contiene le risposte che lui non ti ha dato. O le speranze che non hai. Françoise, sta a te la scelta. Io non rimanderò indietro quella lettera.” Guardai la busta, indecisa, per qualche istante. Cosa ci dovevo fare? Alla fine decisi. “Va bene, Ivan. Terrò questa lettera. Ma ora non ho il coraggio di leggerla.”, dissi “La leggerò quando mi sentirò pronta.” “Come vuoi tu, Françoise.”, disse “Buon viaggio.” <> <>, disse una voce femminile proveniente dagli altoparlanti della sala d’aspetto <> <>, esultò Bretagna balzando in piedi <> <>, disse Punma. Una strana sensazione di tristezza pervase tutto il mio corpo. <>, mi disse Gilmore in piedi davanti a me <> Lo guardai un attimo, come paralizzata. Poi stringendo le labbra e lottando per ricacciare indietro le lacrime che mi bruciavano gli occhi, gli detti Ivan, non prima di avergli dato un ultimo bacio sulla fronte: <> Mi alzai, e mi accorsi di avere ancora la busta in mano. Presi la mia borsa e vi cercai dentro la mia agenda. Quando la trovai, la aprii a caso… 16 maggio. “E’ stato un caso…”. “Già”, pensai chiudendo gli occhi, “solo un caso”. Infilai la busta nell’agenda e la richiusi, reinfilandola dentro la borsa. <> Alzai gli occhi e vidi i miei compagni di viaggio aspettarmi più in là. <>, dissi. Poi mi voltai un’ultima volta verso Gilmore <> Lui sorrise, e annuì: <>, chiese. Sapevo a cosa alludeva. Guardai verso l’entrata della sala, non so se sperando di vederlo entrare, oppure il contrario. Ma non apparve. Respirai profondamente e annuii: <> <>, disse <> Accennai un ultimo sorriso e mi girai, andando verso gli altri, senza mai guardarmi indietro. La macchina iniziò a borbottare. <>, dissi guardando l’indicatore della benzina che sentenziava la mia condanna indicando il serbatoio miseramente vuoto. Avevo pensato a correre a più non posso. Avevo guidato da ritiro della patente per tutto il viaggio. Ma non avevo pensato che così consumavo un’enormità di benzina. E adesso, ancora una volta, ero vittima della mia stupidità. Uscii in una piazzola di sosta, e parcheggiai la macchina, che si fermò assetata. Girai la chiave come per spegnere il motore, ormai già spento, e aprii la portiera, uscendo all’aperto e richiudendola. Guardai la macchina sconsolato. Non potevo prendermela con lei. Aveva fatto tutto quello che poteva per farmi arrivare fino a lì. Dovevo prendermela solo con me stesso. Sentii un forte boato, e mi voltai alla mia sinistra, da dove arrivava. Un aereo dell’Alitalia si stava alzando in volo. Ho viaggiato così tanto che ormai riconosco facilmente gli aerei di tutte le compagnie più importanti. Abbassai gli occhi. Narita, eccolo laggiù. Il nuovo aeroporto internazionale di Tokyo, Françoise… In macchina ci sarebbe voluta un’altra decina di chilometri. Ma forse, se avessi tagliato attraverso quella radura erbosa che si stendeva davanti a me… Guardai la macchina. Lei ormai non poteva più aiutarmi. Dipendeva solo da me. Non ci pensai oltre. Scavalcai la staccionata che delimitava la piazzola e scesi lungo il piccolo pendio che portava alla radura. E cominciai a correre. Correre, correre, correre. <>, chiese la ragazza del check-in ai miei tre compagni di viaggio, guardando i nostri biglietti. Albert guardò gli altri tre, che annuirono. Tutti e tre sapevano che ormai le loro coincidenze erano perse. <>, confermò Albert. La ragazza annuì e segnò le nostre valigie, destinandole tutte a Parigi. <>, disse Albert dirigendosi verso la zona di imbarco <> <>, chiese Bretagna corrugando la fronte. <>, rispose Albert spingendolo avanti. Io, Bretagna e Punma facemmo passare i nostri bagagli a mano sul tapis roulant. Io ero la terza di tutti e quattro e capii cosa intendeva dire Albert quando passò lui dietro di me. Beep! Mi aggregai agli altri. La guardia stava guardando Albert sospettoso. Albert alzò le braccia: <>, disse <> La guardia annuì: <> Albert prese la sua borsa dal tapis roulant e ci raggiunse. <>, disse quando ci ebbe raggiunto. <>, chiesi incuriosita. <>, rispose lui <> Ridemmo tutti e quattro. Non tanto per la cosa in sé, ma per come lo aveva detto. Le nostre parti meccaniche erano fatte in una lega leggera che non veniva rilevato da quel tipo di apparecchiature. Ma Albert aveva anche del ferro al suo interno. E ogni volta che prendeva un volo di linea doveva raccontare quella storia. Era logico che Gilmore lo avesse aiutato. Ed ecco che eravamo arrivati alla nostra uscita. Ci mettemmo in coda agli altri. Guardai lo schermo, col nome e il numero del volo, e la sua destinazione, e l’indicazione del ritardo di cinque ore e mezzo. E la scritta “imbarco immediato”, in giapponese e inglese, lampeggiante. Di nuovo quella sensazione di malinconia. <>, mi disse una ragazza riportandomi nel mondo reale. <>, disse porgendogli il mio biglietto e sorridendo. Lei fece i dovuti controlli e poi me lo rese indietro, sorridendomi e augurandomi buon viaggio. Scesi le scale che portavano a quella specie di autobus che ci avrebbe portato all’aereo, che ci aspettava poco lontano. Lo guardai. Era un Boeing, un 747. Mio fratello andava matto per quei cosi, e ormai li sapevo riconoscere al volo. Vidi i colori della mia bandiera, e il nome della mia patria. Volevo essere a casa. Corsi, senza fermarmi. Quell’aeroporto sembrava irraggiungibile. Ma continuai a correre. Pregando che quell’aereo non fosse già partito. Non ci speravo molto. Sapevo che era una rincorsa disperata, ma continuai a correre. Gli assistenti di volo finirono la loro pantomima sulle misure di sicurezza dell’aereo. Ormai le conoscevo a memoria. Non li seguii nemmeno. Guardavo fuori dal finestrino, il mondo scorrere velocemente davanti ai miei occhi. Stavamo partendo, andando lontano da lì. Il mio pensiero era solo questo. <>, disse una voce familiare dall’altoparlante. Una hostess si sedette vicino a noi, in un sedile a scomparsa, dandoci la schiena. <> Entrai come un assatanato nell’atrio partenze. Guardai appena il tabellone degli orari, vedendo che l’aereo era in partenza, con cinque ore e mezzo di ritardo. Ripresi a correre, incurante della gente che mi guardava come se fossi un’idiota. Ma non mi importava di quello che pensavano. Era come se non esistessero. <> Mi fermai, voltandomi indietro, ansimando per la corsa. <>, dissi tra un respiro e l’altro, riprendendo fiato. Lui era in piedi, con in braccio Ivan, accanto a una grande vetrata che dava sulle piste di decollo. Si voltò verso il vetro, mentre io mi avvicinavo a lui. Arrivatogli a pochi passi, mi guardai anch’io verso la vetrata, e capii. Eccolo, il Boeing 747 dell’Air France che stava prendendo la sua rincorsa, le ruote anteriori che si alzano da terra, portando su il muso. Portandola verso il cielo, verso ovest, verso la Francia, verso Parigi. Lontano da me. Rimasi a guardare l’aereo allontanarsi, fino a quando non divenne un punto piccolo nel sole del pomeriggio. <>, disse Gilmore, guardando nella mia stessa direzione. Poi si voltò verso di me <> Riuscii solo ad annuire. Lui aspettò in silenzio qualche istante, poi si girò sui piedi, incamminandosi verso l’uscita della sala d’aspetto. Io non potei fare altro che seguirlo. <> Quelle parole mi fecero sussultare. <>, continuò <> <>, ammisi. Cosa c’era da nascondere? <>, disse. <> Lui si lasciò scappare una risata: <> <>, replicai <> <>, chiese lui <> <>, risposi. Non sapevo se avrei fatto persino quello se fossi arrivato in tempo. Ormai non aveva più importanza <> <>, rispose <> Annuii: <> Lui sorrise: <> <>, mi chiede Gilmore <> Sinceramente non so nemmeno io cosa le avrei detto. Sicuramente non sarei mai riuscito a dirle tutta la verità. No, non ce l’avrei mai fatta. Però… <>, dico <> Gilmore resta con le braccia conserte, guardandomi con uno sguardo pensieroso e in silenzio per molto tempo. Infine si alza. <>, dice stirandosi <> <>, dico corrugando la fronte <> Lui mise le mani dietro la schiena e mi guardò sorridendo: <>, spiega <> Riflettei sulle parole di Gilmore. Non sapevo se aveva ragione. Ma per come era stata in confusione la mia testa in quei giorni, poteva anche essere. In fondo non avevo avuto il coraggio di dirle che non la amavo. Forse non perché non sarebbe stata la verità, ma perché forse avevo paura di perderla per sempre. <>, sussurro, a voce tanto bassa che lui non mi sente. Sentendo le mie labbra curvarsi, senza quasi accorgermene. Gilmore si dirige verso l’uscita della stanza. Arrivato sulla porta si volta indietro e mi guarda: <> Lo guardo a mia volta. E’ quasi ora di cena e io non ho ancora messo niente sotto i denti da quando mi sono svegliato: <> Mi alzo dalla poltrona e lo seguo. Poi mi fermo, ricordandomi improvvisamente di qualcosa che dovevo chiedergli: <> Lui si voltò verso di me e scosse la testa: <> <>, rispondo cercando di capire dove possa averla infilata <> <>, dice approfittando del mio silenzio. <> <>, mi chiede <> <>, dico in tutta sincerità <> Gilmore annuisce: <> <>, lo interrompo <> Parigi è una miriade di luci sotto di noi. A causa di un po’ di traffico, abbiamo dovuto fare una piccola deviazione sopra la città. Seguo la Seine, la Tour Eiffel sembra darmi il “benvenuta a casa”, l’Arc de Triomphe, gli Champs Elyseés, il Louvre, l’Opera, Notre Dame. La mia città. La mia terra. Non so come ho fatto a starne lontana così a lungo. Dicono che noi francesi siamo eccessivamente nazionalisti. Io credo sia normale amare la propria terra. Me ne accorgo ogni volta che vi faccio ritorno. Per una volta tanto nelle ultime ventiquattro ore mi viene da piangere per un motivo che non sia legato a lui. Siamo in orario, almeno secondo quanto ci ha detto il comandante all’inizio del viaggio. Sono quasi le nove. E l’aereo ha già cominciato la sua discesa verso il nuovo aeroporto dedicato a De Gaulle29. Scendiamo rapidamente verso terra, quasi in picchiata. Il tipico rumore del carrello che esce dalla carlinga. Eccole, le luci dell’aeroporto e della pista di atterraggio. Le gomme anteriori toccano terra. Poi è la volta di quelle posteriori, e l’aereo è ora in posizione verticale e rallenta velocemente. Raggiunta la giusta velocità, comincia a fare il suo giro per l’aeroporto. <> Più o meno stanno ridendo tutti. E’ stato in gamba. Ha sdrammatizzato una situazione che sapeva drammatica. La gente poteva da sedere maledicendo l’Air France e giurando che non avrebbe mai più preso uno dei loro aerei. Ma così aveva riportato il buon umore fra i passeggeri, facendo loro capire che nemmeno per i membri dell’equipaggio era stata una passeggiata di piacere quella specie di odissea. L’aereo si ferma, e la spia luminosa che dice di tenere allacciate le cinture si spense. Ci alziamo e prendiamo i nostri bagagli a mano e le nostre cose. Fortunatamente siamo vicini all’uscita. Quindi non ci vuole molto per uscire dall’aereo. Una hostess col sorriso prestampato in volto ci saluta, dandoci l’arrivederci. Ci ritroviamo in uno di quei tunnel che portano direttamente all’atrio di arrivo, senza bisogno di veicoli di trasporto. Appena arrivati nell’atrio, prendiamo alcuni carrelli e ci dirigiamo verso l’area di ritiro bagagli. Restiamo in silenzio, aspettando la luce rossa lampeggi e che il tapis roulant del nostro volo inizi a girare. Siamo tutti e tre molto stanchi. Anche per il cambio di fuso orario. A quest’ora siamo abituati a essere in pieno sonno. In Giappone non erano sono poco più delle quattro del mattino. <>, dice Punma. Non mi ero nemmeno accorta che si fosse staccato da noi <> <>, dice Bretagna con voce sonnacchiosa <> <>, propongo mentre la luce rossa finalmente lampeggia e il tapis roulant comincia a girare. <>, chiede Albert corrugando la fronte. <>, dico. <>, chiede Bretagna. Sorrido: <>, rispondo <> I tre si guardano l’uno con l’altro, poi guardano me. <>, chiedi sorridendo e conoscendo già la loro risposta. <>, chiede Albert rivolgendosi agli altri, che annuirono. Poi si voltò verso di me <> I nostri bagagli arrivarono quasi tutti insieme. Li prendemmo a uno a uno e li mettemmo sui carrelli. Adesso ci aspettavano solo le operazioni di dogana. Fecero dei controlli sommari alle nostre valigie e ai passaporti, e ci lasciarono andare. Finalmente uscimmo nel grande atrio centrale. Cercai qualcuno con gli occhi istintivamente. Erano là, in mezzo all’atrio, e anche loro si stavano guardando intorno. Li chiamo, alzando la mano: <> Quando mi vedono comincio a correre verso di loro, e li abbraccio, forte e a lungo, uno per uno, chinandomi per abbracciare mio padre seduto sulla sua sedia a rotelle, mentre gli altri aspettano in disparte, assistendo silenziosi e da lontano a quella piccola riunione familiare. <>, mi dice con voce commossa. Mio padre è sempre stato un uomo sensibile, e anche stavolta ha le lacrime agli occhi. Gli sorrido, e mi ricordai dei miei amici. <>, dico voltandomi verso di loro e facendogli cenno di avvicinarsi <> <>, disse mia madre sorridendo <> <>, dice Albert ringraziando con un cenno del capo. <>, disse Bretagna Un pasto caldo, una casa e un letto morbido. Cosa potevo chiedere di più?>> <>, interviene Punma <> Ci mettemmo a ridere e ci incamminiamo verso l’uscita. <>, chiede Bretagna <> <>, risponde Jean. In poco tempo ci troviamo nel garage sotterraneo, e in breve arriviamo al furgone Peugeot che Jean stesso ha adattato per mio padre. Apre le portiere posteriori e fa scendere una rampa di accesso, per poi andare dietro a mio padre per spingerlo. <>, gli dico fermandolo <> Spingo mio padre fin dentro l’abitacolo. <>, mi dice <> Lo giro e fisso la sua sedia al pavimento. Il meccanismo è lo stesso di quando sono partita. <>, dice indicando il posto accanto al suo.>> <>, dico togliendomi il soprabito e mettendomi seduta. Gli altri caricarono le valigie dentro e poi salirono dal portellone laterale. Anche mia madre venne a sedere dietro insieme a noi, occupando il posto accanto al mio dei cinque che c’erano, disposti su due file, una davanti all’altra. Finalmente partiamo. Durante il viaggio ascolto distrattamente i discorsi che fanno gli altri. Con la testa sono già a casa, nella mia stanza, quella dove sono stata fin da bambina. La ricordo bene, come se l’avessi lasciata solo ieri. I muri sono tappezzati dei poster dei più grandi ballerini e ballerine della storia, dei diplomi e degli attestati che ho conseguito. C’è anche una mia foto ingrandita, che campeggia sulla parete alle spalle del mio letto, ripresa mentre impersonavo l’eroina del “Lago dei cigni”. Mi sembra un secolo fa. Arriviamo a casa, in uno dei tanti sobborghi di Parigi, a nord della Seine. Scarichiamo i bagagli e io stessa faccio scendere mio padre. Quando entriamo, l’odore di casa mia mi assale. Mi guardo intorno. Non è cambiato niente. Sembra che sia rimasto tutto immobile, ad aspettare il mio ritorno. Prendo una delle mie valigie, mentre Jean insiste per portare le altre due. Saliamo le scale, ed ecco, l’ultima porta del corridoio, sulla destra, è camera mia. Accendo la luce e sorrido. Anche qui non è cambiato nulla. E’ esattamente come la ricordavo. Jean posa le mie valigie sul letto e si volta verso di me, con le mani sui fianchi: <> Gli sorrido: <> <>, mi chiede. Corrugo la fronte perplessa. A volte mi chiedo se sia una specie di libro aperto per lui. Scuoto la testa: <> Appoggio la mia valigia davanti al letto e scendo giù nuovamente. Mia madre sta apparecchiando la tavola, mentre mio padre, seduto a tavola, sta tagliando il pane. Entro in cucina, riempiendomi il naso dei buoni odori che vi sono, e prendo le posate dalla mano di mia madre, che mi ringrazia, semplicemente con un sorriso, e si volta a prendere i bicchieri dietro di sé. Mentre sto disponendo le posate, arrivano anche i miei amici, insieme a Jean. <>, chiede Albert. <>, risponde mio padre posando il coltello e disponendo le fette di pane in un cestino <> <>, risponde Albert allargando le mani <> <>, risponde mio padre sorridendogli <> Albert, Punma e Bretagna si guardano senza sapere cosa dire. Non conoscono mio padre. Lui è fatto così. <>, intervengo in loro aiuto, sorridendo. <>, spiega mio padre, muovendosi sulla sua sedia invitando i miei amici a sedere sul divano <> <>, sussurro a voce così bassa che nessuno fa caso a me. E quelle parole mi rimangono in testa per tutta la cena. Anche dopo, risalita in camera mia, non riesco a smettere di pensarvi, mentre guardo senza vederla la mia immagine riflessa allo specchio della mia toilette30. Così come non riesco a smettere di ripensare anche a quello che mi ha detto Gilmore. A quello che mi disse mia madre tanti anni fa. E’ vero. Io non mi sono mai arresa. Davanti a niente. Dopo ogni caduta, ho sempre saputo rialzarmi. E ce la farò anche stavolta. Anche senza di te. <> Hai ragione, Joe. La vita va avanti. Forse non sai nemmeno tu quanto sia profonda e dolorosa la ferita che mi hai inferto. Forse il tempo non riuscirà mai a guarirla. Sento come se qualcosa, dentro di me, si fosse spezzato, mi sia stato rubato. Ma non ho perso tutto. Come hai detto tu, ho ancora i miei sogni, qualcosa per cui lottare, i miei amici, la mia famiglia. E’ vero. Non ho te. Ma ho sempre quello che provo per te. Ho sempre i ricordi di questi pochi mesi vissuti intensamente, insieme. Forse non è molto, ma è qualcosa. E’ un nuovo punto di partenza. E’ qualcosa con cui andare avanti. Cercherò di lasciare da parte le spine, e di tenere solo i fiori delle rose che mi hai regalato. La ferita che mi hai provocato non guarirà, lo so bene. Ci metterà molto per smettere di sanguinare, e cicatrizzarsi. E ogni volta che cambierà il tempo, questa cicatrice mi farà male. Ma la vita va avanti. <> Mi volto dietro di me, e vedo Albert dietro di me. Non mi ero nemmeno accorta che fosse entrato <>, dice con un sorriso sornione. <>, gli chiedo. <>, risponde indicandolo. <>, rispose <> Resto qualche istante in silenzio, pensando a quale risposta dare: <>, dico <> <>, commenta <> <>, rispondo annuendo. <>, dice lui guardandosi intorno indicando il letto <> Mi limito ad annuire. <> <>, gli rispondo <> <>, dice <> Annuisco, guardandolo perplessa. <>, comincia <> <>, gli chiedo accorgendomi di essere un po’ in ansia. <<”Non posso stare con te… ma ti amo.” Questo, in sintesi, è quello che ti ha detto.>>, dice, mentre io annuisco <> Resto qualche istante in silenzio, riflettendo su ogni sua singola parola: <> Lui si prende un bel respiro e allarga le mani: <>, spiega scandendo ogni parola <>, si ferma un attimo corrugando la fronte e scuotendo la testa <> <> Ma lui mi interrompe, scuotendo la testa: <>, dice <> Resto muta, incapace di rispondere qualunque cosa. Mi alzo dalla mia sedia e comincio a vagare per la stanza. Dopo parecchio, lo guardo ancora senza sapere cosa pensare, e glielo dico chiaramente: <> Lui sia alza in piedi e annuisce: <>, risponde <> Ci penso su un istante, poi annuisco e gli sorrido: <> <>, da “Don’t go away”, Oasis31 <>, da “Broken”, Elisa32 Parte X Un paio di mesi dopo… <> Lo guardo, come riportata di botto alla realtà: <> <>, mi dice <> <>, rispondo alzandomi e prendendo la caraffa ormai vuota. Entro in casa dalla veranda e mi dirigo in cucina. Mia madre entra praticamente insieme a me. Prende un bicchiere e lo posa sul tavolo, mentre apre il frigo e prende il cartone del latte fresco. Ne guarda la data di scadenza sulla parte alta. Fa sempre così da quando, da giovane, le hanno dovuto fare la lavanda gastrica per aver bevuto del latte avariato. <>, mi chiede mentre sto riempiendo la caraffa con dell’acqua presa da una bottiglia. <<16.>>, rispondo, sospirando <> <>, dice versandosene un bicchiere e poi rimettendo subito il cartone in frigo. <>, le chiedo, visto che è già lì. <>, risponde aprendo lo sportello del freezer e passandomene una vaschetta <> <>, rispondo mentendo mentre stacco i cubetti di ghiaccio e li lascio cadere nell’acqua. <>, replica lei <> Alzo le spalle: <>, dico scherzando <> <>, mi fa notare. <>, le ricordo. <>, mi dice <> Sorrido ricordando come è successo. <>, mi ha detto Cathrine quando ancora non ci credevo. Anche lei è tornata al suo mondo, la danza classica. Anche se ora fa solo la coreografa. <>, le rivelo, riferendomi alla prima ballerina che se ne era andata sbattendo la porta. <>, chiede <> <> <> Il cubetto di ghiaccio mi scivola dalla mano, nella più palese delle confessioni. Mi affretto a raccoglierlo e a buttarlo nel lavandino, visto che è caduto per terra. <> A volte mi stupisco nello scoprire quanto io e mia madre usiamo gli stessi modi di dire. Li ho trasmessi anche a qualcuno che compie gli anni proprio oggi. <>, rispondo cercando di essere ironica. Lei inclina per un attimo il capo come a dire “ah, però”. Ma quello che mi è sempre piaciuto di lei è il suo non insistere quando le chiedo di non farlo e anche stavolta non si smentisce. <>, mi dice strappandomela di mano <> <>, le rispondo sorridendo <> La guardo uscire dalla cucina e poco dopo la seguo anch’io. Però mi dirigo verso camera mia. Una volta entrata, richiudo la porta alle mie spalle. Voglio stare un po’ da sola. Mi siedo alla mia scrivania, prendendo in mano l’agenda. La striscia di stoffa che fa da segnalibro è rimasta al 15 maggio. La alzo, cambiando pagina… Mio Dio, quasi me ne ero dimenticata. Quella busta, quella lettera che Joe non mi aveva voluto dare e che avevo avuto grazie a Ivan era ancora lì, intonsa, alla pagina del suo compleanno. La presi in mano, guardandola. Sentii solo una profonda malinconia. Nessuna lacrima, né groppo in gola. Era ora di aprire quella lettera. Forse non era giusto. Joe non me l’aveva voluta dare. O forse non ne aveva avuto il coraggio. Presi il tagliacarte da un barattolo di penne e matite e aprii la busta. Ne estrassi il contenuto e lo dispiegai, posando la busta sul tavolo. Era scritta in giapponese. La data corrispondeva a circa dieci prima la sua partenza dal Giappone. Dieci giorni, e lei non si era accorta di niente. Cominciò a leggere. Cara Françoise, inizio a scrivere questa lettera senza sapere se sarò mai in grado di consegnartela. Perché se veramente riuscirò a scriverci tutto quello che vi devo scrivere, sarà veramente molto difficile riuscirci. E non so se sarò tanto coraggioso. C’è un periodo molto buio della mia vita che tu non conosci. Non mi riferisco a quando sono stato un teppista e ne ho fatte di tutte i colori. Non è qualcosa che ho fatto io. E’ qualcosa che ho subito e che sono stato costretto a veder subire dai miei amici, senza riuscire a fare niente per loro. E’ un periodo così orribile che io stesso l’avevo rimosso dalla mia memoria. O almeno speravo di esserci riuscito. Si tratta di qualcosa successo in uno dei riformatori in cui sono stato. Qualcosa che un procuratore ha scoperto dalla lettera di addio di un ragazzo suicidatosi qualche settimana fa perché non riusciva a dimenticare e vive nell’incubo di quei giorni. Io lo conoscevo quel ragazzo. Lo conoscevo molto bene. Era un mio compagno in uno dei riformatori in cui sono stato… <> Mi alzo dal mio posto a sedere in fondo all’aula. Bene, è arrivato il momento della verità. Cammino a passa sicuro tra le file di posti a sedere, sentendo addosso gli occhi della gente. Ma soprattutto quelli di quel serpente che siede al tavolo della difesa, insieme ai suoi tre compari. Il mio e il suo si incrociano appena per un attimo. Non so cosa ci sia nel mio. Nel suo vedo paura. Una paura matta di quello che potrò dire. Non regge il mio sguardo e lo distoglie, quasi subito. Vado al banco dei testimoni e un usciere viene da me e mi fa giurare “di dire la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità”. Dopodiché mi siedo e fo cenno a Mazuoka di cominciare. Prima cominciamo e prima quest’incubo sarà finito. Mazuoka annuisce e si alza in piedi. Non tiene il taccuino delle domande in mano. Devo dire che è un avvocato nato. Ho avuto modo di vederlo durante questo processo. Non ha sbagliato un colpo. Ci sa fare a convincere la gente. <>, mi chiede per rompere il ghiaccio. <>, rispondo <> <>, ripete Mazuoka avvicinandosi a me e fermandosi, proprio di fronte al banco, con un braccio a fare da perno sull’altro, al cui mano era sotto il mento <> <>, rispondo <> <>, risponde lui sorridendo, e tornando a sedere, con passo lento e controllato. Non era preventivato questo siparietto. Ma fa parte del gioco. E’ stato lui stesso a dirmi che inizialmente mi avrebbe fatto domande facili, tanto per rompere il ghiaccio e mettermi a mio agio. <>, mi dice. Anche questo fa parte del teatrino. <>, acconsento. <>, continuò <> <>, confermo. <> <>, risposi. <>, mi chiese. <> <> <> <> <> <> <> <> <> <> <> Annuisce, soddisfatto: <> <>, rispondo. <> <> <>, mi chiede. <>, rispondo <> <>, ripete annuendo col capo, spostando ad arte l’attenzione di tutti sul prossimo argomento <> <>, interviene l’avvocato della difesa <> Mazuoka si alza in piedi, rivolto verso lo scranno del giudice: <> <>, sentenzia il giudice <> <>, dice Mazuoka rimettendosi a sedere <> <>, rispondo. Mazuoka si rialza in piedi e ricomincia a camminare, senza mai smettere di guardarmi in faccia. Cerca di attirare la mia attenzione. Gli altri devono come scomparire. Devo far finta che stia parlando in una stanza solo con lui, e non in un’aula piena di gente. <> <> <>, chiede Mazuoka, appoggiato con le caviglie incrociate e le braccia conserte al suo tavolo <> <>, rispondo <> <> <> <> Respiro un attimo: <> <> <>, rispondo scuotendo la testa. <> <>, rispondo <> Mazuoka annuisce, rimettendosi in piedi e facendo un paio di passi verso di me: <> Annuisco: <> <> <> <> <>, preciso. <> Raccolgo le informazioni dalla mia memoria, per essere sicuro di non fare errori: <> <> <>, rispondo <> <>, chiede. Di lui ammiro la capacità di riuscire a far sembrare che anche per lui sia la prima volta che ascolta questa storia. <>, confesso. <> <>, specifico <> <>, mi fa notare. A me e a tutta la platea <> Respiro profondamente: <> Mazuoka corruga la fronte: <> <>, rispondo scuotendo la testa <> <> <>, rispondo <> <> <> (DLIN DLON. N.d.Laus: DA QUI IN POI SONO DESCRITTE SITUAZIONI CRUDE E VIOLENTE, SIA NEI LINGUAGGI CHE NELLE SCENE IN SE’. IO HO STESSA HO SENTITO TORCERMI LO STOMACO NELLO SCRIVERLE. FORSE SONO TROPPO SENSIBILE, MA SE VOLETE EVITARE, CERCATE L’ALTRO MESSAGGIO IN MAIUSCOLO DOPO QUESTO) <>, chiede Mazuoka, guardandomi falsamente perplesso. <>, rispondo <> <>, chiede. <>, rispondo <> <> <> confermo <> <>, ripete Mazuoka rimarcando il punto <> <>, preciso <> <> <> <> Prendo un respiro profondo: <> <> <>, rispondo, mantenendomi vago. <>, mi propone avvicinandosi a me e appoggiandosi con le braccia alla mia barriera <> <> <> <>, replica il giudice <> <>, risponde il procuratore <> <> Mazuoka annuisce: <> <>, entro in difficoltà. Non ce la faccio mai a usare quella parola riferita a mia madre. <<”Buona donna”, per usare un eufemismo?>>, mi suggerisce. <>, dico guardando il giudice. <>, mi permette annuendo. <> Mazuoka scuote la testa: <> <> <> <>, annuisco. <> <> <> Traggo un profondo respiro, riaddentrandomi nelle umide pareti del riformatorio Shoushen, nella sua oscurità, dopo la sirena che annunciava che tutti dovevano essere nelle loro celle, per il sonno. <>, comincio a raccontare << Avevano il loro gruppo di dieci, quindici ragazzi. Ogniqualvolta avevano il turno di notte, suonata la sirena di ritirata e fatto l’appello, quando tutte le luci erano spente, loro cominciavano a camminare, cella per cella, con le torce. Sceglievano a caso quattro o cinque ragazzi.>> <> <> <> Comincio a sentire la bocca un po’ secca e la bocca pastosa. La mia cravatta, improvvisamente, sembra essersi stretta intorno al mio collo. <>, deglutisco allentandomi la cravatta di un dito. <>, mi chiede il giudice sporgendosi un po’ verso di me dall’alto della sua postazione. <>, rispondo annuendo <> Il giudice fa un cenno a una guardia accanto a una porta. Questa scompare dentro di essa, per ricomparire poco dopo con una bottiglia d’acqua e un bicchiere di carta. Mazuoka prende in mano la bottiglia e il bicchiere, versandomene uno e porgendomelo. <>, gli dico dopo averlo bevuto quasi tutto d’un sorso. Mazuoka me ne versa un altro, di cui bevo un altro sorso, per poi appoggiarlo per terra, dove non possa prenderlo con una mossa avventata del piede. Il giudice, evidentemente vedendomi provato, si sporge nuovamente verso di me: <> Scuoto la testa. Ormai che sono in gioco, gioco fino in fondo: <> Il giudice fa un cenno del capo al procuratore, che annuisce, e torna a guardarmi: <> <> <> Mazuoka guarda il giudice, e poi me. Mi è venuto in aiuto, limitando il mio campo di risposte a un sì o a un no. Ma mi ci vuole uno sforzo enorme anche solo per pronunciare quel piccolo monosillabo: <> <> <>, mi prendo una grossa boccata d’aria <> Paro la mano di fronte a me, per cercare di far capire come, visto che la parola non riesco a farla uscire dalla bocca. Mi fa troppo male il ricordo. <>, mi dice fermandomi. Poi si rivolge al giudice <> <>, ordina il giudice alla stenografa. <>, dico. <>, mi chiede Mazuoka, quasi con tono paterno. <>, rispondo <>, racconto <> Mazuoka annuisce. Cerco di guardare solo lui. Non ho il coraggio di guardarmi intorno. (F I N E D E L L A Z O N A R O S S A) <>, mi rassicura <> Scuoto la testa: <> <> <>, rispondo <> <> Annuii: <> <> Annuisco: <>, rispondo <> Mazuoka attende un attimo, per fare in modo che le mie parole si imprimano bene nella mente di tutti i presenti, soprattutto dei membri della giuria. <, mi dice <> Sospiro, non vedendo l’ora che questa tortura finisca: <> <> <>, disse Mazuoka <> <> <> <> Mazuoka si scostò: <> <>, rispondo guardandoli uno per uno mentre loro non hanno il coraggio di guardarmi in faccia <> <>, mi assicura Mazuoka <> <> <>, conclude Mazuoka dirigendosi verso il suo tavolo. Nell’aula scende il silenzio più assoluto. Il giudice si rivolge al tavolo della difesa: <> L’avvocato guarda i suoi appunti sconsolato, cercando un qualunque appiglio. La strategia di Mazuoka è stata semplice. Da un lato ha chiarito a tutti che non ho avuto una vita facile sin da piccolo e che sono stato un mezzo delinquente. Dall’altro ha fatto capire che ciò è dovuto a quello che ho passato, a una società che non mi accettava e ha fatto capire che oggi sono un uomo diverso, con la beneficenza e le iniziative che ho intrapreso, silenziosamente, in favore degli orfani e col mio completo pentimento per ciò che ero. Ha tolto al suo avversario ogni arma e lo ha messo con le spalle al muro. Alla fine scuote la testa, rassegnato: <> Il giudice annuisce e si rivolge a me: <> <>, dico finendo il mio bicchiere d’acqua e alzandomi dal banco dei testimoni. Mi dirigo verso il corridoio, pensando solo a uscire in fretta da quell'aula. <> Quella voce viscida e inconfondibile che mi ritorna nelle orecchie. Nomura è balzato in piedi come un felino, e adesso le sue mani sono attorno al mio collo. Ripresomi dalla sorpresa comincio a staccare quella specie di tenaglie attorno al mio collo, senza neanche fare troppi sforzi. Lo stacco da me, e lo rispingo via, addosso al suo avvocato difensore. Lui fa per saltarmi addosso di nuovo, ma due guardie lo prendono e lo portano via. Resto a guardare fino a quando non esce dall'aula. Mi sembra la fine di un incubo. La sua scrittura si era fatta tremante. … E questo è tutto, Françoise. Cioè tutto quello che dovevo raccontarti. Mi chiedo se abbia fatto bene a scriverti tutto questo. Non sono sicuro di volerti far passare attraverso il mio inferno personale, nella sua parte più oscura e squallida. Anzi, non vorrei proprio farlo. Sai, hai ragione quando dici che non è possibile vedere la nostra trasformazione in cyborg come una fortuna. Non lo è. E’ vero. Ma è anche vero che, guardando indietro in tutta la mia esistenza, le cose migliori mi sono capitate da quando sono un cyborg. Da allora ho trovato degli amici veri, un padre come il dottor Gilmore, qualcosa che potevo chiamare famiglia. E ho trovato l’amore, con te. Ho saputo cosa voleva dire veramente amare, grazie a te. Tutto il resto, quelle che ci sono state prima di te, non mi avevano mai fatto scoprire così a fondo questo sentimento. Io, che ormai avevo paura di lasciarmi andare troppo, perché tutte le persone che avevo amato sono via via scomparse dalla mia vita. Tu no. Tu non lo faresti mai. Lo so. Non lo farai neanche adesso, se avrò il coraggio di darti questa lettera. Mi resterai accanto, nonostante tu sappia il male che ti fa venire a sapere tutti questo. Il male che ti farà vedermi soffrire mentre lo dovrò raccontare a tutti in aula tribunale. Lo so che mi resterai accanto. E io ne avrei bisogno. Avrei bisogno di te. Ma tu hai bisogno di passare attraverso tutto questo. E’ giusto coinvolgerti? No, non è giusto. Mi chiedo se non sia meglio lasciarti libera. Ti amo, Joe. Ripiego la lettera, sconvolta da quello che aveva appena letto. Sento le lacrime che ormai mi hanno gonfiato gli occhi, e che continuano, in un pianto silenzioso e dimesso. Joe si era tenuto tutto questo dentro di sé, per tutto questo tempo. Adesso capisco molte cose, e mi stupisco di scoprire tutto ciò che c’era dietro, e che io avevo minimizzato, senza dare troppa importanza. Capisco perché non aveva mai voluto fare l’amore con me standomi dietro, se non cercando il contatto totale col mio corpo, in modo da farlo sembrare diverso da quello che a lui doveva ricordare una specie di incubo. E capisco anche perché non aveva mai voluto che le mie labbra si spingessero oltre un certo limite, e perché era sbiancato in quel modo quando gli avevo chiesto se lo avrebbe voluto, visto che lui lo faceva a me. Non era sbigottimento per un’audacia di cui io stessa mi ero stupita. Era paura. Paura di un qualcosa di terribile che affiorava nella sua mente. Ecco perché non mi ha voluto dire il motivo per cui mi lasciava. Adesso comprendo, e mi sentivo sprofondare al pensiero di quante volte ho insistito per sapere il perché. Ecco perché mi ha raccontato della cicatrice sulla schiena e di come se l’era procurata. Ha voluto mettermi alla prova. Vedere come avrei reagito. E già allora, forse, aveva preso la sua decisione finale. Sì, è vero. Gli sarei rimasta accanto comunque, adesso più che mai. Ma lui non me lo ha permesso. Tuttavia, adesso che tutto è chiaro, capisco che è stato veramente un atto d’amore, quello di Joe, per quanto non riuscirò mai riuscita ad accettarlo e per quanto avrei voluto stargli accanto. A modo suo, ma Joe mi ha dimostrato di amarmi. Aveva preferito staccarsi da me piuttosto che farmi vivere il suo incubo. E anche adesso che so il suo dolore, quello che ha passato, non posso fare niente per lui. Perché Joe non sa che io so. E non posso dirgli che sono venuta a sapere tutto. Non me la sentiva di dargli questo colpo. Ecco, adesso sono io a comportarmi da vigliacca. <>, da “In the shadows”, The Rasmus34 <>, da “My immortal”, Evanescence35 Epilogo Sono le dieci di sera. Busso alla porta dello studio del dottor Gilmore. <> Apro la porta. Il professore sta riordinando delle carte alla sua scrivania. Mi avvicino a lui: <> <>, mi interrompe <> Stringo le labbra, annuendo appena: <> Gilmore annuisce, guardandomi con sguardo paterno. Poi sembra come ricordarsi: <>, sospira <>, dice studiando la mia reazione sul mio volto <> Resto qualche istante in silenzio, chiedendomi che cos’è che ho vinto. Forse… sì… la liberazione da un incubo che era rimasto latente nella mia mente troppo a lungo. <>, gli dico sorridendo per la prima volta in tutta la giornata <> <>, concluse lui impilando una risma di fogli a sbattendoli nelle sue mani sulla scrivania <> Sorrido di gratitudine: <> <> Squilla il telefono. Gilmore guarda l’apparecchio sulla sua scrivania, probabilmente domandandosi chi poteva essere a quell’ora. Alza la cornetta al secondo squillo. <>, riattacca <> <> <>, risponde ritornando alle sue carte <> Lo guardo perplesso e esco dalla stanza, dirigendomi verso la sala. Mi siedo sulla poltrona dalla quale ho raccontato tutta la fine della mia storia con Françoise al dottor Gilmore, e alzo la cornetta: <>, dico con voce stanca. Effettivamente non ne posso più di quella storia. Silenzio. Si sentono solo i disturbi della linea. Ora che mi viene in mente, si sente un po’ troppo male per essere una chiamata da appena una quarantina di chilometri da lì. Sembra più un’internazionale… La mia voce non lascia nemmeno che il cervello elabori il pensiero: <>. Aspetto ancora qualche istante, perché so di avere la voce spezzata. Ma… in fondo… chi se ne frega: <> <> Sono sull’orlo del pianto: <> <>, mi risponde dall’altro capo del mondo <> <>, gli rispondo. E sono sincera. Me ne sono accorta solo adesso di quanto avessi bisogno di sentire la sua voce. Lui resta in silenzio qualche secondo: <> <> <>, risponde lui <> Sorrido, tra le lacrime che scendono. <>, le chiedo, cercando di sviare la conversazione da pensieri troppo tristi per tutti e due. <>, risponde con la voce un po’ incerta. Sta piangendo <> <> Silenzio, in sottofondo di lacrime: <> Scuoto la testa, anche se lei non mi può vedere: <> <> Un lungo silenzio, di cui già immagino la conclusione: <> Annuisco: <> Non è una domanda è un’affermazione. E io non me la sento di mentire: <>, rispondo <> <> Curvo appena le labbra in una specie di sorriso: <> <>, rispondo asciugandomi l’ultima lacrima dal viso <> Silenzio: <> <>, dico accennando un mezzo sorriso <> Bella domanda. L’amicizia resta. C’è sempre stata, anche quando stavamo insieme. Era una cosa non subordinata all’amore, ma che stava allo stesso piano. Lei era la mia ragazza, e anche la mia migliore amica. Ma adesso che non stiamo più insieme, definirci amici… ci sta troppo stretto. <>, rispondo <> Nota della Terza Persona: Qui è chi ha guardato e trascritto questa storia con gli occhi indiscreti e anonimi della terza persona. Interviene per raccontarvi come è andata a finire. Poco più di un mese dopo il processo si concluse, senza che Gilmore dovesse salire sul banco dei testimoni. La difesa sapeva di non avere speranza e cercò solo di limitare i danni, cercando il patteggiamento. Che fu negato dall’accusa. La giuria restò in camera di consiglio appena una quarantina di minuti. Gli imputati furono riconosciuti tutti e quattro colpevoli, di tutte le imputazioni a loro carico. E passarono il resto della loro vita in carcere. Non perché presero l’ergastolo. Ma perché la yakuza37 e le altri correnti mafiose che erano rinchiuse nelle carceri giapponesi, mal sopportavano chi abusava dei minori. Avevano dei figli di quell’età anche loro. Piano piano, morirono, uno alla volta, in circostanze misteriose e strani incidenti. Ma nessuno si preoccupò mai di fare un’indagine sulla loro morte. Per quanto riguarda chi, fino ad adesso, vi ha raccontato questa storia… beh, quella è un’altra storia ancora, anche se alla fine è sempre la stessa, che non si può raccontare in poche righe. Magari un giorno la terza persona la racconterà, a modo suo. O forse la lascerà raccontare ai suoi protagonisti, limitandosi a trascriverne i pensieri. Ancora una volta. Per il resto, magari penserete che a volte avrei potuto fermarmi, non essere così crudele da trascrivere proprio tutto, fin nei minimi particolari. Ma ho scritto solo ciò che pensavo sarebbe stato necessario alla vostra comprensione. Ditemi: sarebbe stata la stessa cosa senza sapere che cosa pensavano l’uno e l’altro mentre si amavano per l’ultima volta? Sarebbe stato lo stesso senza sapere cos’è che ha spinto lui a una scelta del genere? Vi assicuro che anch’io, terza persona indiscreta al servizio di voi lettori, ho sofferto. E mentre trascrivevo il racconto di Joe sentivo quasi le viscere torcersi per il disgusto di quello che stavo trascrivendo, e spesso sono stata sul punto di fermarmi. Ma l’uomo può arrivare anche a questo signori miei. E forse l’ennesima riprova che si fa fatica a capire chi sia l’umano, e chi non lo sia. <>, da “Someday”, Nickelback38 <>, da “Yashal”, Elisa39 F I N E Prima di lasciarvi ci sono dei piccoli credits da fare. - Il titolo è ispirato a “Fine di una storia” (1999), di Neil Jordan, con Ralph Fiennes e Julianne Moore. Non che il fim mi piacca granché (Jordan ne ha fatti di migliori), ma va dato a Cesare quel che è di Cesare. - La storia del riformatorio riguardante Joe, è ispirata alla vicenda raccontata in “Sleepers” (1996), di Barry Levinson, con Ray Liotta, Brad Pitt, Robert De Niro, Dustin Hoffmann, Kevin Bacon, Vittorio Gassmann, Jason Patric. - Il nome del "riformatorio degli orrori" è una specie di traslitterazione storpiata di Shawshank. E' il nome del carcere dove si svolgono le vicende di The shawshank's redemption, un racconto di Stephen King contenuto nella quadrilogia di Stand by me - Stagioni diverse, edito in Italia dalla Sperling & Kupfer. Racconto che è poi stato trasposto sul grande schermo in Le ali della libertà, di Tim Robbins, che è anche il protagonista prinicipale, e con Morgan Freeman. La battuta che fa Joe quando dice che avrebbe strappato a morsi qualunque cosa gli avrebbero messo in bocca, è quasi una citazione letterale tratta dal libro. - L'ultima battuta che si scambiano Joe e Françoise è un calco di una battuta di una puntata di “Dawson's Creek”. - Infine vi faccio notare come le note siano 39. E giuro che non l'ho fatto apposta.] 1 Trad.: <> 2 Vedi Rivelazioni. Alla stessa fic si fa riferimento altre volte nel corso di questo racconto. 3 Trad.: <> 4 Trad: <> 5 Trad.: <> 6 Trad.: <> 7 Trad.: <> 8 Trad.: <> 9 Trad: <> 10 Trad: <<”Love” è un verbo, “Love” è una parola attiva.>> 11 Trad.: <> 12 Trad.: <> 13 E’ un piccolo accorgimento. Il bicarbonato fa in modo che le rose rimangano fresche più a lungo che con la sola acqua. 14 Trad.: <> 15 Trad.: <> 16 Non è un leziosismo. Con questo termine, sarebbe più indicato dire “titolo”, si indicano quelle ballerine, poche, che sono la punta di diamante della loro compagnia. 17 Trad.: <> 18 Trad.: <> 19 Japan Air Lines 20 Tokyo Giants. Sono una squadra di baseball. 21 L’aeroporto di Nagasaki non è sulla terra ferma, ma si trova in mezzo al mare. 22 Trad.: <> 23 Trad.: <> 24 Honshu è l’isola principale del Giappone, quella dove si trova Tokyo per intendersi. 25 Rudolf Nureyev, famosissimo ballerino russo. Forse il più grande di tutti i tempi. 26 Trad.: <> Per la cronaca, questa è al stessa canzone che conoscete dalla voce di Mariah Carey, solo che lei ne ha fatto una cover, mentre l’originale è di Harry Nilsson 27 Trad.: <> 28 E’ lo stadio di calcio di Marsiglia. L’Olymipique è appunto la squadra locale. 29 Se non erro, l’aeroporto “Paris – Charles De Gaulle” fu inaugurato nei primi anni ’70. 30 Qui si intende il mobile con specchio. 31 Trad.: <> 32 Trad.: <> 33 Sto dando numeri a caso. Non conosco le effettive pene per questi reati. E colgo l’occasione per informarvi che non conosco il sistema giudiziario giapponese. Quindi non so se un processo si svolga in modo così “americano”. San Giovanni Grisham dei legal – thriller aiuta questa tua indegna allieva… 34 Trad.: <> 35 Trad.: <> 36 Era una marca della Formula Uno dell’inizio degli anni ’70. 37 La rinomata mafia giapponese. 38 Trad.: <> 39 Trad.: <>