NEL CUORE DI UN BAMBINO Di Laus (minamiasakura@virgilio.it) Prologo Aprì gli occhi. I raggi del sole entravano furtivi dalle fessure della serranda non del tutto abbassata. La stanza era immersa in una piacevole penombra ed era solo. Che ore erano? Doveva essere pomeriggio se il sole batteva su quella parte della casa. Primo pomeriggio. Quanto aveva dormito? Non lo poteva sapere. Non ricordava nemmeno quando si era addormentato. Però sapeva che aveva fame. Tuttavia decise di aspettare. Di solito veniva a vedere se si era svegliato ogni tanto. Chissà se si era mai accorta che ogni tanto faceva finta di dormire? Avrebbe potuto scoprirlo facilmente, ma non aveva mai voluto usare i suoi poteri per entrare furtivamente nei suoi pensieri. No, a lei non avrebbe mai potuto fare una cosa del genere. Per ingannare l’attesa, fece venire uno dei libri della grande biblioteca del professor Gilmore in volo fino a lui, lasciandolo restare sospeso e aperto davanti a suoi occhi, in modo da poterlo leggere. Conosceva bene quel libro: “Guerra e pace” di Tolstoj. Si domandava che ci facesse nella biblioteca di Gilmore. Ma in fondo che c’era di strano? Uno scienziato non poteva forse leggere dei romanzi? Chi glielo impediva? Il libro era un edizione in inglese. Ogni tanto trovava qualche traduzione non proprio esatta. Il che lo irritava non poco. Tuttavia continuò a leggere, anche se ormai conosceva la storia a memoria. Non che l’avesse letta chissà quante volte. Una sola era bastata e avanzata. Sentì la porta aprirsi. Richiuse il libro e lo posò sulla scrivania, che era lì vicino a lui. <>, disse all’anziano scienziato quando lo vide affacciarsi col suo grosso naso sopra la sua culla. <>, rispose Gilmore con un sorriso che gli arrivava da un orecchio all’altro <> <>, chiese. <>, il professore alzò la testa, come se cercasse di ricordare <> <>, rispose Ivan. Ne era sinceramente sorpreso. <>, disse Gilmore mettendosi a sedere alla sua scrivania <> Ivan restò in silenzio qualche istante: <>, disse poi a voce bassa. Gilmore lo guardò da dietro gli occhiali che si era appena infilato. Non credeva di aver sentito bene. Preferì non chiedere di ripetere. <>, disse poi Gilmore come se gli fosse venuto in mente qualcosa <> <> Il professore si tolse gli occhiali e si alzò, prendendo la culla di Ivan in mano: <>, disse muovendosi verso l’uscita del suo studio. <> <>, disse il professore, cominciando a scendere attentamente le scale che portavano al piano di sotto. <>, chiese Ivan. <>, rispose Gilmore con un altro dei suoi sorrisi che arrivavano da un orecchio all’altro <> <>, disse Ivan mentre Gilmore lo posava con la sua culla sul tavolo della cucina. Lo scienziato prese l’occorrente per fare il latte al piccolo: <> <>, il faccione di Bretagna entrò in cucina. Anche gli altri erano con lui. <>, disse il professore accendendo il fuoco <> <>, rispose Punma. <>, disse Jet stiracchiandosi. Gilmore sorrise: <>, disse <> <>, disse Albert prendendo una bottiglia di birra dal freezer e stappandola. <>, disse Bretagna guardando la bottiglia con gli occhi che gli luccicavano <> Albert bevve un sorso della bevanda, quindi sogghignò: <> <>, ribatté Bretagna facendo l’offeso. <>, disse Jet guardando fuori da una finestra <> Gilmore tolse il latte dal fuoco e lo versò in un biberon, insieme a dei biscotti sbriciolati: <> <>, chiese Chang curioso. Gilmore infilò il biberon troppo caldo in un pentolino con dell’acqua tiepida: <>, disse. <>, domandò retoricamente Jet <> <>, disse Gilmore con un sorriso che gli prendeva tutta la faccia. L’anziano scienziato andò poi a raccogliere il biberon dal pentolino <> <>, chiese Bretagna quasi offeso. Il professore si versò alcune gocce di latte sulla mano, per testarne la temperatura. Non andava ancora bene e reinfilò il contenitore nell’acqua: <>, disse <> Albert finì la sua birra con un ultimo sorso: <>, disse giocherellando con la bottiglia ormai vuota, sogghignando <> Bretagna, che ancora stava facendo la faccia offesa per la birra e se ne stava col gomito sul tavolo e la testa nella mano, si svegliò come da un torpore: <> <>, gli disse Jet dandogli un paccone sulla spalla <> <>, aggiunse Punma. <>, disse Bretagna sbuffando e tornando nella posizione di prima. <>, disse Chang aspirando un po’ di fumo dalla sua pipa. <>, tagliò corto Bretagna contrariato <> Gilmore sorrise scuotendo la testa: <>, disse togliendo nuovamente il biberon dall’acqua e facendo la stessa operazione di prima <> Jet, sentendosi chiamato in causa alzò gli occhi al cielo: <> <>, disse Gilmore versandosi di nuovo alcune gocce di liquido sulla mano e sentendone la temperatura con le labbra <> <>, protestò Jet, incrociando le braccia. <>, disse Gilmore sorridendo e avvicinandosi al tavolo, dove era posta la culla di Ivan <> <>, chiese Punma notando la faccia a dir poco esterrefatta. <>, balbettò Gilmore indicando la culla <> <>, da "Sweet child o' mine", Guns 'n Roses1 Parte I <> Françoise si voltò sotto il lenzuolo, verso Joe, che le sorrise nella luce lunare che passava attraverso il tessuto della tenda. Non si era accorta che si fosse svegliato. <>, gli chiese sorridendo a sua volta. Joe si sporse verso di lei, dandole un breve bacio sulle labbra e poi rimettendosi sdraiato, rivolto verso di lei, cominciando ad accarezzarla con delicatezza sotto le lenzuola: <>, disse accennando un sorriso. Lei sorrise, accoccolandosi contro di lui. Il suo corpo emanava un calore invitante e le sue carezze erano morbide e leggere, estremamente piacevoli, senza chiederle niente, senza volerla spingere a fare niente. Voleva parlare un po’. Lo capiva proprio da quello. Dal modo in cui le sue mani correvano leggere e delicate sulla sua pelle, coccolandola. Ormai lo conosceva abbastanza da saper riconoscere quei piccoli segnali che le dava, in un linguaggio conosciuto solo da loro due. Mentre la mano di Joe le accarezzava dolcemente la schiena, camminando lungo la spina dorsale, le venne in mente che non aveva ancora risposto alla domanda che le aveva fatto. C’era qualcosa che non andava? Era successo tutto così in fretta. Le aveva chiesto se aveva voglia di passare qualche giorno in montagna, con lui. Una settimana bianca, solo per loro due. Erano partiti quella mattina e per l’ora di pranzo erano già arrivati a destinazione. Il piccolo cottage, attinente a un albergo, era fantastico. Avevano passato la giornata sulle piste innevate di fresco, cenato in un delizioso e romantico ristorante, passeggiato mano nella mano per le strade dove già si respirava una certa atmosfera natalizia, sotto uno splendida luna piena che sembrava messa lì apposta per loro. Quindi erano tornati in albergo, al cottage. Avevano acceso il fuoco, e si erano messi a parlare, sul divano, davanti al caminetto acceso, come non accadeva da tanto, troppo tempo. E parola dopo parola, carezza dopo carezza, bacio dopo bacio, avevano cominciato a spogliarsi e, beh, erano semplicemente finiti per perdersi l’uno nell’altra. Ed era stato bellissimo. Fare l’amore nella luce calda e soffusa del fuoco, parlare di loro due, accarezzandosi e coccolandosi, senza l’assillo di doversi preoccupare della presenza di qualcuno che potesse sentirli o sorprenderli. Diventare nuovamente una cosa sola, parlare e coccolarsi, per… non ricordava nemmeno quante volte. Solo che era stato fantastico. A casa non avrebbero potuto starsene così, sul divano, senza niente addosso, se non il corpo dell’altro. Quando ormai il fuoco si era smorzato, lui l’aveva delicatamente presa in braccio e portata in camera. Si erano infilati sotto le lenzuola e si erano addormentati, l’uno sotto lo sguardo dell’altro. Le vennero in mente le parole di Joe, al tempo in cui tutto era iniziato, in quel senso, il giorno dopo la loro prima notte insieme. Quello che le aveva detto riguardo al fatto che la stanza di lei fosse l’unica in cui potevano cercare un po’ di privacy. Ma da quando tutto era venuto a galla, per quanto nessuno avesse di certo mai osato entrare in camera sua senza nemmeno bussare, le battute e l’ironia riguardo a quello che succedeva in quella stanza, anche dopo che avevano semplicemente passato una serata a parlare da soli, si erano sprecate. Al punto che, se un tempo aveva accettato non molto volentieri il fatto che lui non volesse dire niente a nessuno, prendendola per la voglia di Joe di non rendere ufficiale niente, era arrivata al punto di rimpiangere quella situazione, di preferire quando solo lui e lei sapevano. Voleva bene ai suoi amici e li considerava come fratelli. Ma starsene un po’ lontani da tutto e da tutti, solo lei e Joe, era un qualcosa di cui avevano un estremo bisogno. <>, rispose alzando la testa dall’incavo tra il collo e la spalla di lui <> Joe, che quasi si era dimenticato della domanda, sorrise: <> <, chiese lei con un’espressione perplessa. <> <>, Françoise distolse un attimo lo sguardo, cercando di ricordare perché potesse avere quel viso turbato le aveva detto di aver notato <> Lui aggrottò la fronte: <> Il tono era tra lo scherzoso e il poco serio, ma Françoise conosceva fin troppo bene Joe per non cogliere l’allusione. Sorrise, quasi sospirando e scuotendo un poco la testa, limitata dal cuscino sul quale era appoggiata: <>, disse. Joe si mise quasi a ridere: <> Françoise storse le labbra in una smorfia: <> <>, disse lui come se affermasse la cosa più ovvia del mondo. <>, disse quasi stizzita <> Joe vide l’espressione di Françoise incupirsi, e ciò bloccò improvvisamente la sua mano, che per tutto quel tempo aveva continuato ad accarezzarla: <> Lei non rispose, ma la sua mano si mosse, andando a fermare… cosa?... Una lacrima sul volto. <> Lei scosse il capo: <>, disse cercando di sorridere <> Le ultime parole erano state alterate dal pianto che lei stava in tutti i modi cercando di trattenere nei suoi occhi. Joe la guardò, senza chiederle nulla, neanche una parola di spiegazione, limitandosi ad accarezzarle il viso, asciugando le lacrime che cominciavano lentamente a scendere. Si sentiva in colpa, anche se non capiva cosa potevano aver provocato le sue parole nella testa di Françoise, tanto da condurla alle lacrime. Di certo non avrebbe mai voluto farla piangere e ancora una volta si ritrovava a maledirsi per quella sua incredibile capacità di farla soffrire. Non le chiese nulla, ma nella sua testa cominciò a cercare di capire dove aveva sbagliato. Che cosa non aveva afferrato? Che freccia aveva scoccato, stavolta, verso il fragile animo di Françoise, senza accorgersene, eppure colpendo un bersaglio sensibile? Pensò a lungo, ripercorrendo le sue parole e le reazioni di lei, cercando di interpretarle, mettendosi nei suoi panni. E alla fine pensò di aver capito. <>, disse a voce bassa baciandole la fronte <> Lei lasciò che le labbra di lui le asciugassero il volto. Non aveva bisogno di chiedere se avesse veramente capito. Lo sentiva: <> Joe ricominciò ad accarezzarla delicatamente, riflettendo sulla sua domanda. Se fosse il caso di rispondere, piuttosto che continuare a colpire quel tasto dolente. Da quando era un cyborg aveva imparato che i problemi, una volta venuti a galla, era bene sviscerarli fino a dove fosse possibile piuttosto che lasciarli covare nell’animo, dove potevano provocare invisibili, ma micidiali ferite: <>, rispose <> Françoise annuì, stringendo le labbra e abbassando appena lo sguardo: <>, rialzò gli occhi ancora lucidi verso di lui. Ma il tono della sua voce adesso era fermo e calmo. Il pianto non lo alterava più <> Joe rimase in silenzio, qualche istante, riflettendo. Non era insicuro della risposta. Non ci aveva mai pensato, ma non era difficile rispondere a quella domanda. Anche se non aveva mai pensato a lei in quel senso. Non perché non la considerasse la persona adatta con cui avrebbe potuto passare il resto della sua vita, anzi... Semplicemente il fatto era che quell’opzione del rapporto tra un uomo e una donna per loro non era selezionabile. Loro non potevano decidere. Qualcun altro lo aveva già fatto per loro: <>, disse, sorridendo naturalmente. Lei sorrise, finalmente, e lui sentì un piccolo moto di felicità montargli dentro, quasi sollevato di vedere il suo viso illuminarsi di nuovo con quel suo sorriso. Un sorriso diverso da quello che offriva agli altri, un sorriso che riservava soltanto a lui, di cui, probabilmente, nemmeno lei si era mai accorta. <>, le chiese, comprendendo che ormai il peggio era passato. Françoise, storse le labbra in una smorfia adorabile: <> <>, le ricordò aggrottando la fronte, e mettendosi sdraiato sulla schiena, con una mano dietro la nuca. Lei sorrise sporgendosi verso di lui e baciandolo sulle labbra, brevemente, per poi appoggiarsi su di lui, la testa appoggiata alla mano che faceva leva sul gomito puntato sul lembo di lenzuolo nell’incavo tra il collo e la spalla di Joe e l’altra mano che andava a disegnare appena sfiorandolo il suo profilo, per poi fermarsi sulle labbra: <>, disse <> Joe sorrise, togliendo la mano da sotto la nuca e andando ad accarezzarle una guancia, e i capelli, scostandoglieli dietro un orecchio: <>, disse <> <>, rispose Françoise sorridendo. Poi, improvvisamente, la sua testa si voltò verso la finestra <> <>, commentò lui sfiorandole la pelle tra il collo e il mento con le labbra. Françoise si volse di nuovo verso di lui, e venne sorpresa, piacevolmente sorpresa dal suo bacio, dolce, ma intenso e trascinante. Sentiva la mano di Joe muoversi nuovamente sul suo corpo. Ma stavolta7 in modo più profondo e sensuale, inviandole continui messaggi in cui le diceva chiaramente che aveva ancora voglia di lei, chiedendole se lei ne avesse ancora di lui. Si lasciò sdraiare sulla schiena, senza separare le labbra dalle sue. Però non voleva rendergli le cose così facili. Quando le loro labbra si divisero appena un attimo lei lo fermò dall’ennesimo attacco: <>, disse sorridendo maliziosamente. Joe sorrise divertito: <>, disse baciandole il collo <> <>, gli chiese. Le mani di lei avevano cominciato a muoversi lungo il suo corpo. Le sentiva camminare lungo la sua schiena, sul suo torace, tra i suoi capelli, ovunque. Voleva solo indugiare un po’, farlo stare sulla corda mentre lo provocava, silenziosamente ma in maniera incredibilmente efficace. Adorava quel suo modo di fare: <> <> Stavolta Joe non le diede il tempo di continuare a parlare, bloccandole le labbra con le sue. Staccò solo un attimo le labbra dalle sue e vide di nuovo quel sorriso, fermandosi a guardarlo per un lungo istante. <>, gli chiese. Lui sorrise, scuotendo la testa, e ricominciando a baciarla. La sentì lasciarsi andare, senza cercare più di rallentarlo, in nessun modo. Mentre la neve continuò a scendere dal cielo per tutta la notte. <<<> da "Secret smile", Semisonic2 Parte II <>, le mani della donna si protesero verso di lui, prendendolo delicatamente in braccio e avvicinandolo al suo viso <> Dove si trovava? L’ultima cosa che ricordava era un forte senso di stanchezza, probabilmente derivato dal fatto che aveva utilizzato i suoi poteri. Guardò la donna che lo teneva in braccio. Aveva all’incirca l’età di Françoise, ma la magrezza e due occhi molto stanchi la facevano apparire più vecchia. Però adesso sorrideva, sembrava in qualche modo felice. Si sentì una porta aprirsi. <>, disse un uomo affacciandosi nella stanza. La donna si voltò, sorridendo: <> L’uomo, anche lui giovane almeno quanto la ragazza, si tolse la giacca a vento e il berretto, riponendoli su una sedia: <> <>, commentò lei tornando a porre attenzione sul pargolo che aveva in mano, facendogli una di quelle tante moine che si fanno ai neonati. Ivan decise di stare al gioco e sorrise dimenandosi un po’ come avrebbe fatto un qualunque bambino della sua età. La donna sorrise nuovamente, dimostrando una certa soddisfazione dal modo in cui il bambino reagiva ai suoi gesti. L’uomo strinse le labbra, guardando la ragazza. Stava per andarsene dalla stanza, ma si rivoltò e, dopo aver guardato ancora la ragazza per qualche istante, si avvicinò e si inginocchiò accanto a loro: <> La ragazza si irrigidì, cambiando espressione. Restò ferma, qualche secondo, stringendo, o meglio, serrando le labbra: <> L’uomo chiuse gli occhi, sospirando e passandosi una mano sul volto: <> <> L’uomo si alzò in piedi allargando le braccia. Il suo volto era abbronzato. Doveva passare parecchio tempo sulla neve: <> <> sibilò lei <> L’uomo sospirò, passandosi una mano fra i capelli: <> <>, urlò lei alzandosi di scatto, come un fulmine. Hisashi sospirò nuovamente, esasperato: <>, disse riavvicinandosi alla giacca. <>, gli chiese <> <>, disse lui rimettendosi la giacca e annodandosi la sciarpa attorno al collo <> La ragazza sembrava perplessa. Forse non aveva considerato che bastavano dei semplici accorgimenti per restringere di molto il campo della ricerca. Strinse le labbra, mentre sul suo volto si disegnava l’espressione della delusione: <>, chiese non molto convinta. Hisashi si tirò su la zip del giaccone e prese in mano il berretto, cominciando a torcerlo nelle mani: <>, sospirò stringendo appena le labbra <> La ragazza non rispose, abbassando gli occhi sul bambino che teneva in braccio. L’uomo restò fermo qualche istante, guardandola e continuando a torcere il berretto tra le sue mani. Poi, quasi incerto, cominciò ad avvicinarsi alla donna, ponendole una mano sulla spalla e inducendola a voltarsi verso di lui: <> <>, annuì lei <> <>, annuì lui cercando di sorridere <> Hisashi le diede un bacio sulla fronte, e si allontanò da lei, per poi uscire da casa. Fuori faceva freddo, ma c’era il sole e il cielo era limpido e cristallino. L’albergo non era lontano. Cominciò a camminare sulla neve fresca e già un po’ sciolta per via del traffico della gente. Non era alta stagione, ma viste le abbondanti nevicate, in paese c’erano parecchie persone venute a passare il week-end sulla neve. Si strinse nella giacca e, dopo un centinaio di metri, entrò in un negozio. L’uomo, sulla cinquantina, con un’incipiente calvizie, alzò gli occhiali dal suo giornale e posò la pipa in un contenitore apposito, sul bancone. <>, disse l’uomo accennando un sorriso. <>, rispose <> L’uomo si voltò dietro a lui e prese quello che Hisashi gli aveva chiesto: <>, disse posandole sul bancone e prendendo i soldi da Hisashi <> Hisashi sorrise. Komura l’aveva visto crescere. Era una specie di zio per lui. Si poteva permettere di dargli consigli: <>, gli fece notare. Komura gli diede il resto: <> Hisashi si mise il pacchetto in una tasca dal giaccone, sospirando: <> Komura annuì gravemente: <>, disse <> Hisashi alzò le ciglia, aspettandosi quella domanda: <>, ammise <> <>, disse il negoziante <> Hisashi sospirò, annuendo: <>, disse <> L’uomo annuì, sospirando: <>, disse <> <>, ribatté Hisashi. <>, disse Komura. Hisashi annuì: <>, disse <>, guardò l’orologio <> <>, rispose l’uomo riprendendo la pipa e aspirando una lunga boccata di fumo. Hisashi uscì di nuovo all’aperto e raggiunse l’albergo, a cinque minuti di cammino, in fretta. Invece di entrare dall’ingresso del personale, entrò da quello principale. Si avvicinò alla reception. L’uomo che era di turno alzò gli occhi verso di lui: <>, disse piuttosto sorpreso di vederlo lì <> <> Chiba lo guardò perplesso: <> Hisashi restò silenzioso qualche istante, pensando a come formulare la domanda: <> Chiba aggrottò la fronte: <>, disse <> Hisashi annuì: <>, disse <> Chiba respirò profondamente, guardandosi intorno: <>, disse prendendo il registro delle presenze e sfogliandolo, alla ricerca di nomi scritti in katakana3 o in alfabeto latino <> <>, insisté l’altro. Chiba sospirò: <>, disse aprendo il registro a un segnalibro <>, rialzò gli occhi verso <> Hisashi sbuffò deluso: <> <>, disse Chiba <> <> <>, chiese Chiba. Hisashi lo guardò, chiedendosi se rispondere o meno. Avrebbe potuto chiedergli se sapeva di persone che cercassero bambini smarriti. Magari il bambino era stato adottato. Ma l’occhio gli cadde sull’orologio dietro Chiba. Era in ritardo: <> <>, rispose Chiba guardandolo allontanarsi. Quando Hisashi fu scomparso dalla sua vista, Chiba ritornò a guardare il registro, per vedere gli arrivi previsti in giornata. Finché qualcuno si avvicinò al bancone. Si impresse il sorriso col quale era abituato a parlare ai clienti e alzò gli occhi. Davanti a lui c’era un’incantevole ragazza dai capelli chiari e gli occhi di un bel colore celeste: <> <>, disse la ragazza in un perfetto giapponese <> <>, disse Chiba prendendo le chiavi che la ragazza aveva posato sul bancone. Erano quelle di un cottage. Si riconoscevano dal portachiavi <> <>, disse la ragazza allontanandosi. Chiba la seguì con gli occhi finché fu uscita: <>, sussurrò. <>, gli disse una voce da dietro. <>, ironizzò lui, rivolto alla ragazza che gli si era messa accanto. Poi gli venne in mente qualcosa <> <>, rispose Keiko. Chiba guardò le chiavi che aveva in mano. Erano del cottage numero 9. Le rimise nel loro loculo dietro la reception e poi tornò al registro, andando a sbirciare nella pagina dei cottages. Camminò col dio lungo la pagina, fino alla casella 9 lesse mentalmente: “Shimamura Joe.” “Joe…”, ripeté mentalmente. Era sicuramente un uomo, ma il suo nome, al contrario del suo cognome, di sicuro non era giapponese. Pensò a Hisashi e alla domanda che gli aveva fatto. Prima si era limitato a leggere i cognomi degli ospiti. Non aveva guardato i nomi. E quel particolare gli era sfuggito. Richiuse il registro sospirando. L’avrebbe detto dopo a Hisashi, se gli fosse venuto in mente. <<”In loving memory of our child”. So innocent, eyes open wide, I felt so empty as I cried, like part of me had died.>>, da “Through her eyes”, Dream Theather4 Parte III <>, suggerì Albert seduto sul divano, con le gambe e le braccia incrociate. <>, commentò Bretagna allargando le braccia. Nella stanza cadde di nuovo il silenzio, mentre ognuno pensava a dove potesse essere andato a finire Ivan. <>, chiese Jet, rivolgendosi allo scienziato seduto su una poltrona e visibilmente teso. Gilmore guardò Jet sconsolato, e, dopo qualche secondo, scosse la testa. Ormai erano quasi ventiquattro ore che Ivan era scomparso e non aveva dato notizie di sé: <>, esitò un attimo <> <>, disse Punma, in piedi accanto a una porta. Gilmore sospirò profondamente: <>, disse alzandosi e andando davanti alla finestra <> <>, chiese Chang <> L’anziano scienziato chiuse gli occhi, riflettendo: <>, riaprì gli occhi per guardare fuori dalla finestra il mare agitato del tardo autunno, quando ormai l’inverno già è padrone della mente <> <>, disse Albert scuotendo la testa <> Gilmore lo guardò perplesso e pensieroso: <>, disse spostando gli occhi da un cyborg all’altro <> Gli altri rimasero silenziosi, riflettendo sulle parole dello scienziato. In fondo non erano concetti nuovi per loro. Ma forse non ci avevano mai veramente pensato. Conoscendo Ivan nel profondo era veramente difficile considerarlo come un bambino. Era capace di cose che nessuno di loro poteva neanche lontanamente immaginare. Spesso e volentieri se la sarebbero vista davvero brutta se non ci fosse stato lui. Gli dovevano almeno 10 vite. Alla luce di tutto questo, il suo aspetto fisico passava decisamente in secondo piano. Ma era chiaro che Ivan desiderasse essere un comune bambino esattamente come ognuno di loro desiderava condurre una normale vita da essere umano. <>, disse Albert sospirando. Poi contorse il viso in una delle sue tipiche smorfie, comprendendo che in realtà lo spiegava benissimo <>, si corresse. Gilmore chiuse nuovamente gli occhi. Cominciava a sentirsi stanco. Non aveva chiuso occhio quella notte e continuava a chiedersi se non fosse il caso di dirlo anche a Joe e Françoise. Non è che non volesse disturbarli. Temeva solo che alla fine avrebbe fatto preoccupare entrambi, soprattutto Françoise, per niente. Non perché non fosse grave la situazione, ma perché Ivan era imprevedibile. Sarebbe potuto tornare benissimo da solo, in qualunque momento. Il telefono squillò e lo fece sobbalzare fuori dai suoi pensieri. Tutti quanti lo guardavano, quasi spaventati. Come se anche a loro fosse capitata la stessa che era successa al dottor Gilmore. Poi i cyborgs si voltarono tutti verso il professore. Al terzo squillo, lo scienziato si mosse finalmente verso il telefono. Alzò lentamente la cornetta, che fece il suo classico scatto secco, e se la portò all’orecchio: <> <> Il volto del professore si irrigidì: <>, disse guardando gli altri con uno sguardo di intesa che diceva loro chiaramente di non lasciarsi sfuggire nemmeno mezza parola. Se proprio doveva dirglielo, lo avrebbe fatto lui <> <>, la voce della ragazza sembrava veramente allegra. Gilmore poteva quasi vedere il suo sorriso migliore attraverso le parole che uscivano dalla cornetta. No, non se la sentiva di dirle nulla <> Gilmore esitò qualche secondo: <> Forse qualche secondo di troppo: <> <> Qualcuno gli tolse la cornetta di mano, improvvisamente: <> Il professore guardò Bretagna che si era appropriato del telefono come inebetito: <> Bretagna, in tutta risposta, si voltò verso il professore e gli strizzò un occhio: <> Bretagna riabbassò la cornetta e l’espressione sul suo volto cambiò radicalmente. Poi si voltò verso il professore ancora sorpreso: <> La faccia di Gilmore si distese: <>, disse sorridendo appena <> Intanto, dall’altra parte del filo, Françoise riabbassò la cornetta e ritornò al tavolo del bar dove Joe la stava aspettando. Le sorrise quando la vide rimettersi a sedere al suo posto: <> <>, rispose lei assaggiando la sua cioccolata calda che era arrivata mentre era al telefono <> Joe sorrise, senza parlare e limitandosi a fissarla, con il mento appoggiato su una mano. <>, chiese lei sorridendo, ma un po’ perplessa <> Lui scosse la testa, sorridendo divertito: <> Lei aggrottò la fronte in una specie di smorfia: <>, disse scuotendo la testa <> Joe aggrottò la fronte perplesso, staccando la testa dal palmo: <> <>, lo fermò lei prevedendo i suoi timori <> Lui sembrò quasi rassicurato: <>, disse <> Françoise annuì sorseggiando la sua cioccolata: <>, disse riponendo la tazza sul tavolo <> Joe sorrise: <> <>, disse lei scherzosamente. <> Françoise aggrottò la fronte: <>, chiese retoricamente quasi sussurrando <> Joe contorse il viso in una smorfia: <>, le fece notare <> Lei scosse la testa, voltandosi verso la finestra, guardando la neve su uno sfondo di splendido cielo arrossato dal tramonto: <> Lui fece un’espressione perplessa, non comprendendo il senso delle parole: <> Françoise tornò a guardarlo, sorridendo: <> <>, disse lui <> <>, rivelò lei appoggiando il mento su una mano, e andando a cercare quella di Joe, posata sul tavolo, con l’altra <> Le loro mani si alzarono dal tavolo andando a intrecciarsi l’una nell’altra, a mezz’aria: <>, disse Joe senza staccare gli occhi dai suoi <> Françoise annuì, sorridendo: <> Restarono ancora un po’ nel bar, fino a che fuori non si fece un po’ più scuro. Quindi uscirono in strada e si avviarono verso l’albergo, camminando a braccetto lungo la strada, e continuando a parlare del più e del meno. Joe aveva ragione. La farmacia era sulla strada per l’albergo. Entrarono insieme, ma Joe si fermò accanto al bancone, ad aspettare. La farmacia era piuttosto grande Françoise si guardò intorno, sugli scaffali. Trovò subito quello che stava cercando e si avviò verso il bancone, per pagare, quando un uomo attirò la sua attenzione. Stava guardando uno scaffale di alimenti per bambini. <>, gli chiese avvicinandosi con cautela. L’uomo annuì sconsolato, continuando a guardare lo scaffale come se fosse un rebus da risolvere: <> Françoise sorrise e prese una scatola, scegliendola accuratamente: <>, disse porgendogliela <> <> Françoise si voltò, sorridendo a Joe che si stava avvicinando a lei: <> <>, salutò l’uomo, a cui Joe rispose con un cenno del capo <> <>, rispose Françoise accennando un sorriso. Poi si rivolse a Joe <> Lui si limitò ad annuire, voltandosi nella direzione dalla quale era venuto: <>, disse all’uomo, mettendo un braccio attorno alle spalle della ragazza. L’uomo sorrise appena: <> <>, da “Into the heart”, U25 Parte IV <> Reiko lo imboccò con l’ultimo cucchiaio di cibo. Era lo stesso che gli dava Françoise. L’aveva riconosciuto subito. Fece delle moine con cui riuscire a manifestare la propria soddisfazione come un comune bambino. <>, disse Hisashi, seduto a tavola a leggere il giornale. <>, disse Reiko pulendo il bambino sulla bocca <> Ivan guardò la donna prendere il piatto e le posate e portarle in cucina, per poi mettersi a lavarle. Era stato con lei tutto il pomeriggio, da solo. E aveva avuto modo di conoscere la sua triste storia. Era stata lei stessa a raccontargliela, pensando che lui non potesse capire. Reiko e Hisashi si erano sposati un paio di anni prima, ancora molto giovani. Lo stipendio da istruttore di sci di Hisashi bastava a tutti e due per condurre una vita senza troppe pretese, ma che bastava a renderli felici. Avevano l’uno l’altro. E tanto bastava. Quando si è così giovani, l’amore sembra bastare per tutto. Un anno dopo Reiko era rimasta incinta. Un figlio cercato e voluto, non venuto per caso. La gestazione, l’attesa per nove, lunghi mesi, la gioia della nascita. Sembrava tutto a posto, tutto perfetto. E invece, dopo due giorni, l’emorragia interna, la morte del piccolo Shoji. Il resto, quello che Reiko non gli aveva raccontato, Ivan lo aveva letto da solo nella sua mente, spinto da un’irrefrenabile voglia di sapere, di conoscere nel profondo la tristezza di quella donna che lo vedeva solo come un bambino. E così aveva saputo che l’aborto era stato causato da un difetto congenito, che aveva obbligato i dottori a operare e asportare l’utero di Reiko. Niente più figli. Il sogno svanito per sempre. La felicità chiusa in un cassetto di cui la chiave era ormai perduta senza rimedio. Reiko era caduta in uno stato di depressione comprensibile. Non mangiava più, non dormiva più e quando lo faceva, il suo sonno era distrutto da incubi orribili. Lentamente si stava lasciando andare. Ormai le sembrava che la vita non avesse più senso. Ivan si voltò verso Hisashi, che lo stava guardando, avendo ripiegato il giornale sul tavolo. In qualche modo lo stava ringraziando. Lo avvertiva chiaramente. Lo stava ringraziando per aver ridato un po’ di vita agli occhi da troppo tempo spenti di sua moglie. Reiko tornò in soggiorno e si mise a sedere a lato di Hisash, guardando il bambino: <>, disse rivolta al marito, ma continuando a guardare il piccolo <> <>, ammise Hisashi <> “Ivan?!”, ripeté mentalmente il piccolo cyborg, trasalendo sentendo chiamare il suo nome “Potrei… no, non è possibile. Quella donna ha detto che era suo figlio. Sarà un altro.” <>, propose Reiko incuriosita <> Hisashi sorrise. Sua moglie sembrava tornata quella di una volta. Tuttavia…: <>, disse Hisashi stringendo le labbra <>, un lampo gli passò negli occhi <> Reiko sospirò: <>, disse guardando il piccolo malinconica <> Il marito annuì: <> Lei trasalì leggermente all’idea: <> Hisashi guardò la moglie, sapendo benissimo che cosa volesse dire. Poi rivolse il suo sguardo al piccolo. Suo malgrado cominciava ad affezionarsi a lui. Forse avrebbero potuto… Scosse la testa scacciando il pensiero: <>, disse. Reiko sorrise. Sapeva di aver ottenuto una piccola vittoria. Hisashi si alzò, andando ad aprire l’anta di un mobile ed estraendone qualcosa. Poi si voltò di nuovo verso Ivan e puntò la Polaroid sul piccolo. Il flash scattò e dopo pochi istanti la fotografia uscì dalla macchina fotografica. Hisashi sorrise. Era venuta bene: <>, disse continuando a guardare la foto <>, si rivolse verso il piccolo sorridendo <> Ivan cercò di manifestare il suo assenso, muovendosi e gesticolando come un bambino. <>, disse Hisashi sorridendo, rivolgendosi alla moglie. Reiko sorrise, annuendo: <> poi la donna si alzò e si avvicinò a Ivan, per prenderlo in braccio: <> Ivan si lasciò prendere in collo, ma i suoi occhi guardarono Hisashi un’ultima volta. Voleva leggergli nel pensiero, voleva sapere solo un’ultima cosa. Cercò nella mente dell’uomo un momento, un’immagine. Non fu difficile trovarla, perché risaliva ad appena poche ore prima. Scatole, omogeneizzati, biscotti… <> Ivan non aveva già più bisogno dell’immagine. Aveva riconosciuto la voce. L’avrebbe riconosciuta fra mille. Ma aveva bisogno di sapere un’altra cosa. <> Françoise si volta a guardare lo scaffale e prende una scatola ben precisa: <>, dice porgendogliela <> <> Quello era Joe. Françoise si volta verso di lui: <> <>, saluta Hisashi, a cui Joe risponde con un cenno del capo <> <>, rispose Françoise accennando un sorriso. Poi si rivolge a Joe <> Lui si limitò ad annuire, voltandosi nella direzione dalla quale era venuto: <>, disse all’uomo, mettendo un braccio attorno alle spalle della ragazza. L’uomo sorrise appena: <> Reiko salì le scale e portò Ivan in una piccola stanza: <>, disse la donna mentre adagiava il piccolo dentro un box <>, disse inginocchiandosi e accarezzando Ivan su una guancia <> Reiko sorrise un’ultima volta, accendendo uno di quei walkie talkie che avvertono di ogni rumore che si sente nella stanza di un bimbo, mentre i genitori sono nell’altra con l’apparecchio gemello. La donna quindi si avviò fuori dalla stanza, lasciando solo un piccolo abat-jour acceso. Ivan era rimasto solo. Guardò gli animaletti di plastica appesi sopra il box e forse per la prima volta da quando era lì si mise a riflettere sul perché fosse venuto. Era stata una cosa quasi istintiva. Ci era rimasto un po’ male nel sapere che se n’era andata senza dirgli nulla. Non l’aveva voluto ammettere prima, ma adesso capiva che era così e che era sciocco negarlo. Da quando lei e lui stavano insieme si sentiva un po’ trascurato. Doveva ammetterlo. Sapeva che Françoise amava Joe. Probabilmente nemmeno lo stesso Joe sapeva quanto lo amasse tanto quanto lo sapeva lui. E sapeva che Joe ricambiava quel sentimento. Negli ultimi tempi si era solo deciso ad ammetterlo. E lui aveva sviluppato un certo sentimento di gelosia, tipo quello che i figli maschi sviluppano verso i propri padri, perché li vedono come dei potenziali rivali per l’affetto della madre. Non lo aveva fatto di proposito. Era stata una cosa istintiva. Anche il leggere nella mente di Gilmore per sapere dove fossero andati. Tutto era stato mosso da un inconscio sentimento di gelosia, che lo aveva portato fino a lì. Ma il viaggio telepatico era stato lungo e, arrivato sul posto, si era addormentato su una panchina, nonostante il freddo. Quando si era risvegliato si era ritrovato nella casa di Hisashi e Reiko. E adesso? Cosa doveva fare? Alla fine Françoise in realtà non aveva detto che lui fosse suo figlio. Era una cosa che Hisashi aveva semplicemente dedotto dalle parole di lei. Naturalmente non aveva detto così. Forse ci aveva sperato? Però… come mai erano rimasti lì? Forse non sapevano ancora che lui era scomparso dal Centro di Ricerche? Forse lo sapevano e avevano preferito non interrompere la loro vacanza? Forse… <>, da “Just the way I’m feelin’”, Feeder6 Parte V Hisashi era fermo davanti al posto di polizia del luogo. Stava guardando la porta ormai da un bel po’. Fermo, immobile, indeciso se entrare o meno. Un poliziotto si affacciò sulla porta e si mise a guardarlo. <> Hisashi fu come risvegliato da una specie di torpore. Una folata di vento lo fece rabbrividire. Scosse la testa, più per fare un gesto di risveglio che per rispondere al poliziotto: <>, rispose <> Il poliziotto sembrò perplesso, tuttavia annuì: <>, disse <> Hisashi ritornò sui suoi passi. Doveva ancora prendere delle cose a casa prima di andare in albergo per la giornata di lavoro. Anche se dubitava che avrebbe lavorato molto, visto come si stava mettendo il tempo. Si strinse nella giacca a vento e ne alzò il bavero per coprirsi il più possibile dal freddo pungente. Casa sua non era molto lontana. Tuttavia il tragitto di ritorno gli servì per chiedersi che cosa l’avesse bloccato. Perché non aveva chiesto alla polizia se ci fossero state denunce di bambini scomparsi come si era prefisso. Gli venne in mente il volto di Reiko la sera prima. I suoi lineamenti rilassati, la sua espressione finalmente viva e allegra così come non l’aveva per tanto, troppo tempo. Era veramente giusto toglierle quel piccolo appiglio di speranza nella vita che sembrava aver trovato? Forse veramente i suoi genitori avevano abbandonato Ivan, e allora sarebbe stato giusto che se ne occupassero loro. Scosse la testa. Anche lui si era affezionato a Ivan, ma non riusciva a concepire l’idea di poter abbandonare un proprio figlio. Non poteva pensare, non voleva credere che qualcun altro lo avesse fatto. In preda a questi pensieri, per poco non mancò la porta di casa. Dovette fare qualche passo indietro, quando si accorse di essere arrivato. Entrò in casa, accolto da un piacevole calore. Si tolse la giacca e le scarpe7 e si diresse in soggiorno. Trovò Reiko intenta a dare da mangiare al piccolo. Lo guardò preoccupata quando si accorse dell’arrivo del marito. Hisashi scosse la testa: <>, mentì cercando qualcosa in un cassetto <> Reiko girò la testa abbassandola: <>, disse ricominciando a imboccare Ivan. L’uomo smise di cercare e guardò la moglie. Come mai non riusciva a capire? Possibile che quella tragedia le avesse tolto ogni capacità di ragionare? Chiuse il cassetto, mettendosi qualcosa in tasca, e si voltò verso di lei: <>, si mise le mani in tasca, girando un attimo la testa da un’altra parte. Quindi tornò a guardare la donna <> Hisashi restò a guardare la moglie, in attesa di una reazione che desse un qualche tipo di risposta alle sue parole. Riusciva a comprendere molto bene quello che poteva pensare, come vedeva la situazione lei. Ma non poteva fare diversamente. Domani sarebbe andato a denunciare il fatto alla polizia. I suoi occhi si voltarono verso l’orologio. Era tardi. Doveva andare. Ritornò sulla soglia di casa, senza dire niente, e si vestì per poi uscire fuori. Percorse di buon passo la distanza che c’era da casa sua all’albergo. Entrò dall’ingresso riservato ai dipendenti e si ritrovò in un’ala dell’edificio dove gli ospiti dell’albergo non avevano accesso. Percorse un lungo corridoio per qualche metro, per poi infilarsi in una porta, quella dello spogliatoio. Salutò gli altri due dipendenti che si trovavano all’interno della stanza e si spogliò e si infilò la tuta da sci fatta fare espressamente dall’albergo, a mo’ di divisa. Era tenuto a usare quella quando faceva il suo lavoro. Uscì dalla stanza e guardò l’orologio. Aveva ancora un po’ di tempo. Almeno una decina di minuti. Ne avrebbe approfittato per prendersi un caffè al bar dell’albergo. Prese un’ultima cosa dalla tasca della giacca e uscì di nuovo nel corridoio. Aprì una porta sull’altro lato e si ritrovò nella hall, accanto alla reception. Chiba lo salutò con un gesto della mano da dietro il bancone: <> Hisashi rispose con appena un cenno del capo. Quindi si diresse velocemente verso il bar, attraversando la hall. Si avvicinò al bancone e attirò l’attenzione del barista con un cenno della mano. <> <>, rispose l’altro sedendosi al bancone <> <> Hisashi appoggiò i gomiti sul bancone, guardando Leiji preparare il suo caffè. Anche lui era un amico di vecchia data. Il suo caffè fu pronto in pochi istanti. Leiji glielo pose davanti, con il suo aroma invitante. Hisashi ne aspirò profondamente l’odore. <> Hisashi si voltò verso la voce: <> <>, disse la ragazza che aveva incontrato la sera prima in farmacia, sedendosi. <>, rispose Hisashi <> La ragazza ordinò un caffè al barista: <>, rispose sorridendo <> Hisashi sembrò piuttosto sorpreso della cosa ed ebbe qualche istante di esitazione prima di rispondere: <> Lei ci pensò su un attimo: <> Hisashi scosse la testa, tornando a guardare la sua tazza di caffè: <>, disse cambiando discorso <> <> Hisashi guardò il suo orologio: <>, disse finendo il suo caffè <> <> L’uomo si alzò e uscì dal bar a passo svelto. Ma non si diresse subito nella stanza dove erano i suoi sci e da cui sarebbe uscito all’esterno per raggiungere i suoi allievi del week-end. Si diresse invece alla reception: <> Il ragazzo, sentendosi chiamare per nome, alzò gli occhi: <> Hisashi si fermò davanti a lui, sbattendo i palmi delle mani sul bancone: <> Chiba aggrottò la fronte, come se non ricordasse: <> il suo volto si illuminò improvvisamente <> Chiba prese il registro e lo aprì a una pagina <> <>, disse Hisashi <> Chiba sbuffò: <>, si difese <> Hisashi sospirò: <>, tagliò corto andandosene. <>, disse Chiba ironico tornando al suo lavoro. Poi vide un’ombra sul bancone e alzò nuovamente gli occhi, mostrando un sorriso da perfetto receptionist al servizio del cliente <> <>, gli disse il ragazzo davanti a lui porgendogli una chiave. <>, disse Chiba prendendo la chiave e mettendola nel suo loculo <> Joe sorrise e si allontanò dirigendosi verso il bar. Come previsto, Françoise era seduta al bancone, ad aspettarlo. La riconobbe facilmente anche se la vedeva solo di schiena. La raggiunse e le posò una mano sulla spalla. Lei si voltò verso di lui. Lui si stava abbassando per baciarla appena sulle labbra, ma l’espressione sul suo viso lo bloccò: <>, disse rialzando la schiena. Françoise non rispose, ma si limitò a porgergli un qualcosa che stava guardando poco prima, appoggiato sul bancone del bar. Joe prese in mano quella che si rivelò essere una fotografia, un polaroid, e la guardò con attenzione, ma non riuscì a capire il motivo per cui potesse avere avuto quell’effetto su di lei. <>, disse distogliendo lo sguardo dall’immagine e scrollando le spalle. Lei sospirò, guardandolo dal basso in alto: <> Joe annuì, aggrottando la fronte in un’espressione di perplessità, che improvvisamente divenne incredulità: <> Françoise annuì: <>, spiegò <> Joe guardò ancora una volta la fotografia, quasi per accertarsi che non fosse un’illusione: <> <> disse Françoise appoggiando i gomiti sul bancone e passandosi poi la testa fra le mani <> <>, chiese Joe più a se stesso che a lei. <>, rispose Françoise alzandosi e dirigendosi verso l’uscita <> <> da “Too much love will kill you”, Queen8 Parte VI Reiko stava rigovernando la cucina, mentre Hisashi guardava distrattamente la televisione. Ivan osservava prima l’uno e poi l’altro. Aveva intuito facilmente che il poter prendersi cura di lui era stata un’ottima cura alla depressione di Reiko, ma vedeva Hisashi preoccupato. Sapeva che aveva mentito. Che non era andato alla polizia perché non se l’era sentita, perché qualcosa lo aveva bloccato e dentro di sé era dilaniato dal senso di colpa. Hisashi era il classico tipo molto attaccato e rispettoso del senso di responsabilità. Sapeva benissimo che doveva assolutamente denunciare di aver trovato un bambino su una panchina in piena notte. Ma l’idea di rubare nuovamente la felicità e la serenità a sua moglie gli stavano dando non pochi ostacoli. Inoltre Ivan poteva chiaramente avvertire che Hisashi si stava profondamente affezionando a lui. L’uomo spense la tv col telecomando, e poi voltò i suoi occhi stanchi verso Ivan. “Che cosa devo fare con te?”, lesse Ivan nella sua mente. Già. Cosa doveva fare? Anche Ivan si era ritrovato in quella situazione suo malgrado e adesso non sapeva come uscirne. Provava già molto affetto per Reiko e per Hisashi, ma quello non era il suo posto e in qualche modo si doveva porre la parola “fine” a quella farsa. Reiko tornò dalla cucina, e si sedette a tavola, di fianco a Hisashi, anche lei guardando Ivan: <>, disse continuando a fissare il piccolo, ma rivolta al marito. Hisashi scosse la testa: <> La donna rivolse lo sguardo verso il marito: <> Il marito sospirò profondamente, guardando la moglie con compassione: <>, disse <> Hisashi ce la stava mettendo veramente tutta per mettere razionalmente in ordine la confusione di sentimenti che aveva in testa. E il suo ragionamento, effettivamente, non faceva una piega. <>, riprese prendendo la mano della moglie <> Reiko sorrise, come una bambina a cui si era promesso di fare un bellissimo regalo: <> Hisashi si limitò ad annuire, ignaro che qualcuno lo stava osservando dalla strada. <>, disse Françoise rivolgendosi a Joe, appoggiato su un muro, in piedi accanto a lei <> Joe sospirò profondamente. L’aria calda emessa dalle sue narici divenne visibile al contatto con il freddo esterno: <>, disse alzando le spalle <> <>, lo fermò lei. <> Lei lo guardò silenziosa un attimo: <> Joe strinse le labbra. Quel ragionamento era imperforabile: <> Françoise scosse la testa: <> Lui la guardò serio: <> Françoise si morse un labbro. Aveva dimenticato che Joe non parlava di certe cose con leggerezza. Quella situazione le stava facendo perdere lucidità: <>, disse lei mettendo le mani avanti <> Joe annuì, guardando la casa come se potesse in qualche modo aiutarlo a trovare una soluzione: <> Lei sospirò profondamente: <> Lui aggrottò la fronte, perplesso: <> <>, disse guardando la casa <> Quando si voltò nuovamente verso Joe, vide uno sguardo piuttosto contrariato nei suoi occhi e di nuovo si rese conto di aver parlato troppo. E tra l’altro come se fosse la cosa più logica del mondo: <> <>, disse lui piuttosto irritato <> Detto questo le voltò le spalle e riprese la strada verso l’albergo. Françoise fu per dirgli qualcosa, per cercare di fermarlo. Ma la sua bocca si aprì appena, senza proferire parola. Lo guardò allontanarsi, scuotendo la testa e maledicendosi. Quasi meccanicamente cominciò a incamminarsi anche lei verso l’albergo, ma a passo lento, cercando di riordinare le idee che le frullavano in testa disordinate e confuse. Alzò gli occhi verso lo splendido cielo stellato che ricopriva quella piccola parte di mondo. La reazione di Joe era stata a suo modo infantile, ma più che comprensibile. Gliel’aveva detto una sera, mentre stavano chiacchierando del più o del meno in camera sua. Non ricordava nemmeno come fosse venuto fuori il discorso, visto che lei evitava accuratamente di parlarne. Era in momenti come quello che capiva quanto i loro modi di pensare fossero profondamente diversi. Lei aveva tutta una concezione del mondo che a Joe era completamente sconosciuta. E che a lui era mancata. Lo sapeva bene, ma la situazione le aveva fatto perdere il controllo e adesso aveva due bambini di cui preoccuparsi, anziché uno solo. Senza Joe non avrebbe potuto fare niente nemmeno per Ivan, quindi, sebbene i suoi problemi relazionali con il suo ragazzo fossero i meno pressanti in quel momento, erano i primi che doveva risolvere. E in fretta. Era arrivata. Guardò la porta del cottage incerta. Sapeva che Joe era dentro. Alzò la mano per bussare, esitando ancora un attimo, e quindi battendo due volte le nocche sul legno. <>, sentì dire da dentro. Spinse la porta e la richiuse dietro di sé. Joe era inginocchiato davanti al caminetto e stava ravvivando il fuoco. Françoise si tolse la giacca e gli si avvicinò: <> << Quando per anni ti inducono a pensare che essere un orfano sia una colpa, prima o poi ti convinci che devi essere colpevole sul serio.>>, disse lui continuando a darle le spalle, rimanendo inginocchiato. <>, gli disse inginocchiandosi accanto a lui <> Joe non rispose, continuando in qualche modo a darle le spalle. Françoise sospirò: <> Lui a quel punto la guardò. Aveva gli occhi lucidi e tuttavia cercava ancora di trattenere le lacrime: <> Françoise lo fissò un attimo, senza saper bene come rispondere. Poi guardò il divano e capì cosa fare. Si andò ad appoggiare con la schiena ad esso, rimanendo seduta per terra. Poi fece un gesto di invito a Joe: <> Lui aggrottò la fronte, perplesso. <>, disse <> La battuta fece sorridere Joe, che tuttavia obbedì, muovendosi verso di lei e appoggiandosi come gli aveva detto, con la testa appena sotto il suo mento. Non appena si fu adagiato, lei lo cinse con le sue braccia. Nonostante fossero esili e delicate, il suo abbraccio gli sembrò in qualche modo forte e protettivo, e la sensazione di una sua mano che gli accarezzava i capelli gli procurava un senso di tranquillità e sicurezza che non conosceva e a cui cominciò ad abbandonarsi lentamente. <> <> Françoise annuì, continuando a passargli la mano tra i capelli: <> <>, chiese lui incuriosito. Stava per chiedergli se veramente voleva che gliela cantasse sul serio. Poi le venne in mente che probabilmente nessuno aveva mai cantato una ninna nanna a Joe. Un altro mattone nel muro delle sue certezze, che in quello di Joe era inesorabilmente venuto a mancare. Le parole cominciarono a uscirle dalla bocca, leggere e rassicuranti. Come la voce di una madre. Come lui pensava che dovesse essere la voce di una madre: <> <>, da “Protection”, Massive Attack10 Parte VII <> Il poliziotto alzò gli occhi piuttosto esasperati dalla sua scrivania: <> <> Il telefono sulla scrivania del poliziotto squillò per la quindicesima volta nel giro di un paio di minuti. Hisashi, che aveva aspettato un apparente momento di calma per parlargli, sospirò, guardando il poliziotto che allragò le braccia come per dire che non era colpa sua: <> il poliziotto riattaccò e si rivolse a Hisashi : <> Hisashi annuì: <> <> <>, lo interruppe Hisashi <> Il poliziotto alzò le spalle: <> Hisashi salutò e tornò sui suoi passi. Uscito dalla stazione di polizia, una folta di forte vento gelido lo prese in pieno, sorprendendolo. Alzò gli occhi al cielo. Effettivamente non prometteva nulla di buono. Il vento si era intensificato di molto da quando era entrato nella stazione. Poco male. Quel giorno non avrebbe lavorato. Tanto lo pagavano lo stesso. Si strinse nella sua giacca e si diresse verso casa, con non poca fatica, perché il vento tirava proprio nella direzione opposta a lui. Per strada c’era già poca gente. La popolazione conosceva bene a cosa portava quel vento e se ne teneva alla larga. Tirò quasi un sospiro di sollievo quando fu davanti alla porta di casa. Girò le chiavi nella toppa ed entrò, appoggiandosi poi alla porta stessa per un attimo, con la schiena. Si sentiva affaticato. Si tolse la giacca e le scarpe e si diresse verso il soggiorno. Fu allora che si accorse che c’era qualcosa di strano. <> Hisashi aspettò qualche istante. Nessuna risposta: <> Cominciò a muoversi per la casa. In cucina, nelle camere, in bagno, addirittura fuori in giardino. Anche Ivan era scomparso. Dove poteva essere andata? E perché aveva portato Ivan con sé? Scosse la testa scacciando un pensiero che cominciava ad affacciarsi pericolosamente insistente nella sua testa, come la punta di un trapano. Era serena la sera prima. Non poteva aver… no. Doveva solo essere andata fuori a comprare qualcosa, magari per il piccolo. Si mise a sedere al tavolino del soggiorno, con le mani giunte davanti alla bocca. Cercava di calmarsi e di non lasciarsi andare ai cattivi pensieri. Guardò l’orologio. Era in ritardo per il lavoro. Ma chi se ne fregava. Tanto non avrebbe potuto fare lezione quel giorno. Si alzò e cominciò a camminare nervosamente per la stanza. Il silenzio della casa cominciava a essere insopportabile. Intanto, fuori, si poteva sentire il vento ululare sempre più forte. Guardò oltre il vetro di una finestra che dava sulla valle. Gli alberi venivano facilmente piegati da quella forza. Sembrava li volesse spezzare. Hisashi guardò nuovamente l’orologio. Ormai era un’ora che era tornato. Reiko non poteva star fuori così a lungo. Con quel vento poi. Ovunque fosse andata sarebbe già dovuta essere tornata a casa. Tornò all’ingresso e si rimise le scarpe e la giacca a vento e uscì per strada. Per prima cosa andò da Komura. Lo trovò che stava chiudendo il negozio. <> <> L’anziano tabaccaio lo guardò perplesso, scuotendo la testa: <> Hisashi si guardò intorno. Tutti i negozi della strada erano già chiusi e sicuramente non con la gente dentro. Non salutò nemmeno il tabaccaio che lo guardò correre via come un ossesso. In poco tempo si ritrovò al posto di polizia. Rivedendolo entrare, il poliziotto si stupì: <> <> L’agente alzò le sopracciglia: <>, poi scosse la testa > <> Il poliziotto sembrò perplesso: <> <>, rispose Hisashi scuotendo la testa <> <>, disse il poliziotto <> <>, disse Hisashi, anzi urlò stizzito. Poi prese un profondo respiro <> Uscì nuovamente dalla stazione di polizia. Dove poteva andare adesso? Ancora prima di darsi una risposta, i suoi piedi avevano cominciato a muoversi verso l’albergo. Ma cosa poteva fare arrivato là. Forse avrebbe potuto chiedere ai suoi colleghi di aiutare a cercarla? No, l’avrebbero preso per pazzo. Tuttavia continuò a camminare. Qualcosa avrebbe fatto. Non poteva restarsene fermo e inerte ad aspettare. Entrò nella hall e si guardò intorno, quasi sperando di vederla lì. <> Il sentire il suo nome lo riportò alla realtà. Alzò gli occhi e si ritrovò Chiba davanti, che lo guardava con le braccia incrociate. La sua espressione cambiò radicalmente quando vide il viso sconvolto dell’amico: <> <>, rispose Hisashi ansimando <> <>, disse Chiba mettendogli le mani sopra le spalle <> <>, disse Hisashi sempre più teso. <> Hisashi guardò negli occhi dell’amico. In quel momento era una delle poche persone di cui sentiva di potersi fidare. E in quel momento aveva bisogno di sfogarsi, perché i sui nervi erano arrivati al limite estremo di sopportazione. Le sue labbra cominciarono a parlare, quasi da sole: <>, respirò profondamente <> Chiba non credeva alle proprie orecchie. Forse era per quello che Hisashi gli aveva chiesto se ci fossero stati stranieri nell’albergo: <>, gli disse <> <>, disse <> Chiba lo scrollò con le braccia: <> Hisashi ci pensò su qualche istante. Quindi scosse la testa veementemente: <> <> I due amici si voltarono verso la voce che era intervenuta nella loro discussione. <>, Hisashi riconobbe la ragazza della farmacia e del bancone del bar. La ragazza sorrise: <>, disse indicando il ragazzo dietro di lei <> Hisashi guardò entrambi, perplesso e confuso: <> strinse gli occhi, come cercando di cogliere un qualcosa che gli stava passando per la mente. Un qualcosa di sfuggente, vago, sfumato che però via via si faceva sempre più chiaro e nitido <> <>, chiese Joe impaziente. <>, esclamò Hisashi <> Hisashi si voltò come un fulmine, correndo attraverso la hall e andando sul retro, nelle stanza il cui accesso era consentito solo ai dipendenti. Chiba lo seguì con lo sguardo incredulo. Poi guardò un’ultima volta Joe e Françoise, sorridendo loro appena e allontanandosi di corsa sulla scia dell’amico. <>, chiese Joe a Françoise seguendo il ragazzo con lo sguardo. Lei restò silenziosa qualche istante: <>, disse <> Joe annuì, posandole una mano sulla spalla e stringendola a sé: <
  • >, la rassicurò. Guardò verso la grande porta a vetri all’entrata della hall. Il vento spirava sempre più forte e aveva cominciato a nevicare <> <> Da “Sing”, Travis11 Parte VIII Riaprì gli occhi. Ma si sentiva ancora stanco. Cercare di vivee al ritmo di un comune bambino era faticoso per lui. Non riconosceva il soffitto sopra la sua testa. Si guardò intorno. C’era un fuoco acceso in mezzo alla stanza. Sembrava una specie di rifugio. Reiko era seduta accanto a lui e lo guardava dall’alto in basso, sorridendo amabilmente. <>, gli disse prendendolo in braccio <> il suo viso si adombrò <> Una lacrima le scese sul volto. Respirò profondamente, alzando per un attimo gli occhi al soffitto: <>, disse, stringendolo poi a sé <> Un cigolio sinistro la indusse ad alzare nuovamente gli occhi. Strinse nuovamente Ivan a sé, come per proteggerlo: <> “Siamo in pericolo.” Quel pensiero lo attraversò, dandogli un brivido. Fuori sentiva la tormente di neve infuriare e il legno di cui era fatto il capanno era troppo vecchio e marcio per farci affidamento. Il vento avrebbe potuto tirarlo giù. Avrebbe potuto avvertire Françoise e Joe. Ma non aveva abbastanza energie. Si sentiva stanco. Non sarebbe riuscito a mettersi in contatto con loro in quelle condizioni. Una folata di vento spalancò violentemente la porta del capanno, che sbatté contro la parete, per due o tre volte. Reiko posò Ivan al posto di prima e andò a chiuderla, mettendovi anche qualche sacco di sabbia presente nel capanno, per tenerla ben chiusa. I cigolii, intanto, si facevano sempre più numerosi e sinistri. Ivan aveva paura. Per la prima volta in vita sua, forse, aveva paura. In quelle condizioni non poteva fare nulla. Se avesse provato anche solo a leggere nella mente di Reiko, avrebbe potuto addormentarsi all’istante sotto la stanchezza. Era esattamente come un bambino. E non era quello il momento più adatto per essere come un bambino normale. La sua testa non era un circuito cyborg. <>, lo rassicurò Reiko rimettendosi a sedere e riprendendolo in braccio <> No, non poteva non preoccuparsi. Se quelle travi sopra di loro fossero crollate e lo avessero colpito in testa, lui non avrebbe avuto scampo. La morte non l’aveva mai vista così vicina. E anche Reiko poteva morirci. In quello non era un bambino. Riusciva perfettamente a capire che la situazione in cui si trovavano non era assolutamente buona. E lui si sentiva impotente. La sua testa volò a Françoise, Gilmore, Geronimo, Joe, Bretagna, Chang, Albert, Jet, Punma. Anche suo padre e sua madre rientrarono in quel circolo di ricordo, in quel giro di memoria e pensieri che potevano essere gli ultimi che rivolgeva a loro. Tutta la sua vita gli passò davanti. E non pensava che potesse sembrargli così lunga e piena di ricordi. Di bei ricordi. Non voleva lasciarli. Non voleva. Voleva vivere e tornare da loro. Ma non poteva fare nulla. Era solo un bambino. Soltanto un inutile moccioso. In quel momento non era niente più di questo… Però… se era un bambino… qualcosa poteva farlo. Forse non sarebbe servito, ma era sempre meglio che starsene lì, senza fare niente aspettando una probabile e orribile morte. <> <> Reiko lo guardava impietrita, assolutamente colta di sorpresa da quel bambino che fino a un secondo prima se ne stava zitto e buono fra le sue braccia <> Ivan la ignorò. In quel momento poteva contare soltanto su quel pianto sconnesso, su quella voce stridula… e sull’udito di Françoise. Era l’unico modo per farle capire dove fosse: <> <> <> 009 e 003 erano fra gli alberi, nella foresta. Lì la tormenta si sentiva un po’ meno. La forza del vento era attutita dai grossi tronchi di abeti che coprivano la valle. 003 si era fermata, con le orecchie protese verso quel suono, quel grido disperato. Il vento, la tormenta e gli ostacoli le avevano reso difficile trovare la strada. E adesso erano arrivati a un punto morto. Ma quel grido disperato era un appiglio di speranza. Quello era il pianto di Ivan. L’avrebbe riconosciuto fra un milione di bambini. Seguì quel suono, con le orecchie e con lo sguardo. E finalmente lo trovò: <>, esclamò quasi con tono trionfale <> <> <> 009 lo guardò sconvolta: <> <> <>, ribatté lui <> 003 strinse le labbra. Purtroppo aveva ragione, in tutto. Stava di nuovo perdendo il controllo e la lucidità. L’unica cosa che sapeva, però, era che dovevano muoversi: <>, disse mettendosi a correre verso il capanno. 009 la seguì. Sembrava sicura. Correva senza esitazioni, seguendo una direzione precisa, saltando gli alberi, in una specie di slalom di cui solo lei conoscesse il percorso. Il vento ululava rabbioso tra gli alberi, ma Françoise non lo sentiva. L’unica cosa che le sue orecchie seguivano era quel grido. Tutto il resto era come ovattato. Ci vollero pochi minuti per arrivare alla fine dell’abetaia. Il capanno era nella radura oltre l’ultima fila di abeti. Ormai era al limite. Il tetto era caduto anni prima, e per coprire il tutto, erano state messe delle travi. Che però ormai stavano per cedere sotto il peso insostenibile dell’enorme massa di neve che vi si era posata sopra. Fu un attimo. Le travi cedettero di colpo e qualcosa le passò accanto, facendola cadere per terra, dove rotolò per qualche metro, finendo con le spalle al capanno. <> Quel grido la fece voltare lateralmente. Hisashi stava guardando il capanno, da pochi metri, con la faccia sconvolta. Anche Françoise si voltò e quello che vide non le piacque per niente. Il tetto era completamente crollato: <> Si rialzò, avvicinandosi di qualche passo. Un silenzio irreale cadde sul luogo. Anche il vento, adesso, sembra va essersi calmato un po’. Hisashi, dopo qualche istante, cadde in ginocchio sulla neve, mettendosi la testa fra le mani. Sembrava non si fosse nemmeno accorto di Françoise. Tutta la sua attenzione era per i resti del capanno. Piegò il busto in avanti, cominciando a sbattere violentemente il pugno sulla neve: <> Françoise lo guardò appena. Quindi cominciò a togliere i pezzi di travi dal mucchio. Hisashi alzò gli occhi, furioso, quasi stesse profanando una tomba: <> <> Ci volle qualche istante. Joe alzò gli occhi verso di lei, sorridendole: <>, disse alzandosi e scoprendo il corpo di Reiko, che era rannicchiato sotto il suo, con in braccio Ivan. La donna aprì gli occhi, e si alzò, a sedere, guardando il marito: <> L’uomo esitò qualche istante, incredulo: <>, quasi senza accorgersene, cominciò a camminare a gattoni verso di lei, per poi abbracciarla e liberare tutta la sua gioia <> Quell’abbraccio durò parecchi secondi, sotto lo sguardo di Joe e Françoise che si sentivano quasi fuori luogo. Poi, improvvisamente, il pianto di un bambino fece staccare Hisashi dalla donna. <>, disse Reiko al bambino che aveva ancora in braccio <> Joe e Françoise si guardarono sorpresi, mentre Ivan continuava a piangere a dirotto. <>, disse Françoise inginocchiandosi e prendendo delicatamente Ivan in braccio. Quindi si rialzò in piedi e cominciò a cullare il piccolo tra le braccia, in un modo incredibilmente naturale <> Ivan smise di piangere e gridare, dando l’impressione di calmarsi <> Quando ebbe finito, Ivan si era calmato e stava già dormendo profondamente. Hisashi e Reiko stavano guardando esterrefatti. Anche Joe era come incantato. <> Françoise scosse la testa, soffocandogli la domanda in bocca: <> <>, aggiunse Joe <> Hisashi annuì, ma fu Reiko a rispondere: <> <> disse Hisashi rialzandosi e aiutando sua moglie a fare altrettanto <> guardò affettuosamente Ivan, che adesso dormiva profondamente, ignaro di quello che gli succedeva intorno <> Joe e Françoise sorrisero, tirando un sospiro di sollievo dentro di loro. <>, chiese Joe incuriosito. <>, disse Hisashi <> <>, disse Françoise, alzando poi gli occhi verso il cielo <> Anche gli altri tre alzarono la testa a quel tacito invito. Le nuvole cominciavano a diradarsi sulle loro teste, lasciando spazio a una bellissima giornata. <>, da “A new day has come”, Céline Dion13 EPILOGO “Dove sono?” C’era un fuoco acceso in un caminetto davanti a lui. Lui si trovava avvolto in una coperta, appoggiato su qualcosa che sembrava il cuscino di un divano. <>, gli disse Joe, seduto accanto a lui. “Dove siamo?”, chiese Ivan. <>, rispose Joe sorridendo. <> “Quanto ho dormito?” <>, Joe lo prese in braccio <> “Mi spiace. Io…” Joe aspettò il resto, che non venne mai. Sorrise. Era difficile leggere le espressioni di Ivan. Ma la sua voce era profondamente dispiaciuta: <>, disse stringendolo a sé <> “Perché non mi avete rimandato a casa?” Joe lo riportò sul suo braccio e lo guardò: <> “Joe, sono un bambino, ma certe cose le so.”, ribatté il piccolo “Non voglio fare il terzo incomodo. Sarei di troppo.” Joe si mise quasi a ridere: <> “Guarda, che lo so che ogni tanto ce l’hai con me per via di Françoise.” <>, disse Joe sorridendo <> <> <>, disse Joe mentre Françoise si sedeva accanto a lui, incrociando le gambe. <>, gli fece notare. <>, ribatté lui sorridendo. <>, disse Françoise fingendosi irritata. Poi si rivolse al piccolo <> Ivan ci pensò su un attimo: “No, sto bene così adesso.” Françoise sorrise: <> Lui la guardò quasi offeso: <> <>, ribatté Françoise. <> <>, disse lei <> <> Continuarono così per un bel po’. Ivan rideva dentro di sé. Felice… come un bambino di quel piccolo quadretto di vita quasi familiare di cui si ritrovava a essere protagonista. “Grazie, a tutti e due.” Joe e Françoise smisero di “litigare” sentendo nelle loro teste le parole di Ivan. Si guardarono un attimo negli occhi, e poi guardarono il piccolo. Si era addormentato di nuovo. Françoise appoggiò la testa sulla spalla di Joe, accoccolandosi contro di lui e cingendogli la vita con le braccia: <>, disse <> Joe rimase silenzioso per qualche secondo: <> Il tono con cui l’aveva detto denotava una nota di amarezza, che lei colse facilmente: <> Lui storse le labbra in una specie di smorfia: <>, disse <> <>, rispose lei, con uno sguardo malinconico <> Restarono in silenzio qualche istante. Ivan dormiva beatamente. Non si sarebbe svegliato per qualche altro giorno probabilmente. Tuttavia… <> Lui sorrise, accarezzando lievemente una manina del piccolo: <> <>, da “The greatest love of all”, Whitney Houston14 F I N E Special thanks to: Piuzza cara, che non solo mi ha trovato la ninna nanna in francese perfetta, ma me l'ha pure tradotta ^^. 1 Trad.: <> 2 Trad.: <> 3 I katakana sono i caratteri con cui i giapponesi scrivono, o meglio, traslitterano i termini stranieri. 4 Trad: <<”Nell’affettuosa memoria del nostro bambino”. Così innocente, gli occhi spalancati. Mi sentivo così vuoto mentre piangevo, come se una parte di me fosse morta.>> 5 Trad.: <> 6 Trad.: <> 7 In Giappone usa togliersi le scarpe e lasciarle davanti all’entrata di casa. 8 Trad. (molto libera: si usa un gioco di parole con il verbo “to bring” che è letteralmente poco traducibile in italiano): <> 9 Berceuse russe (Ninna nanna russa). Traduzione a cura di Pia (merci ^^): “Una libellula si è posata sulla luna. Nei boschi, nelle profondità dei nidi, gli uccelli si sono addormentati. Non aver paura del vento che rimbomba, né dei cani che vagano nell’ombra. Mille stelle vogliono brillare, mille stelle per farti cullare. Tutte le conchiglie che giocavano sulla spiaggia sono andate a nascondersi nell’acqua, ritrovano le loro piccole culle. Non c’è notte senza mattino, il sole tornerà domani. Non aver paura del vento che rimbomba, né dei cani che vagano nell’ombra. Gira l’orsa maggiore, gira l’orsa minore. Non c’è notte senza mattino, il sole tornerà domani. Non aver paura del vento che rimbomba, né dei cani che vagano nell’ombra.” 10 Trad.: <> 11 Trad.<> 12 Per la traduzione, vedi la nota 9. 13 Trad.: <> 14 Trad.: <>