Edipo a Colono |
L'ULTIMO
CANTO DI EDIPO
D
a u n a c o n v e r s a z i o n e c
o n
A
n t o n i o C a l e n d a
di
Mario Brandolin
Perché si sceglie, oggi, di mettere in scena "Edipo a Colono"?
C'è un dato fondamentale che distingue e al tempo stesso rende necessari e complementari "Edipo re" ed "Edipo a Colono" e non è solo un dato di mera successione temporale. "Edipo re" ricostruisce la tragica vicenda dell'inconsapevole re di Tebe, parricida prima e marito della madre poi, fino allo svelamento delle terribili verità della sua vita, l'accecamento e il volontario esilio. "Edipo a Colono" coglie gli ultimi istanti di Edipo, giunto a Colono, appunto, a cercare una assoluzione ai terribili delitti di cui si è reso colpevole, dal momento che questo è un luogo deputato alla pacificazione - qui, infatti, secondo la tradizione mitologica le Erinni (le Furie vendicatrici dei legami familiari spezzati nel sangue) sono state trasformate dall'azione mediatrice degli dei in Eumenidi (portatrici di doni). In "Edipo a Colono", si conclude, con la narrazione della morte di Edipo nel bosco sacro di Colono, la parabola terrena di questo personaggio, divenuto, nella cultura occidentale, proprio per l'esemplarità della sua storia, "personaggio simbolo", i cui riflessi continuano ancora oggi a illuminare i tortuosi percorsi della mente e dell'animo umani.
E
se le colpe, di cui si e macchiato nel corso della sua giovinezza rimangono,
nell' "Edipo re", ascrivibili ancora a una imperscrutabile e malevola volontà
punitiva del Fato e degli dei, nell' "Edipo a Colono". esse diventano chiara
consapevolezza che è il dolore la condizione ultima, forse l'unica
ragione vera, dell'esistenza umana. Nell' "Edipo a Colono" si fa ancor
più tragica, perché illuminata da una lucida coscienza, l'epifania
di quel "conosci te stesso", che dal frontone del tempio di Delfi ha marchiato
di pena tutta la vita di Edipo. Edipo, cieco e ramingo, ha finalmente conosciuto
se stesso e a Colono rappresenta questa chiarezza, questa dolorosa consapevolezza:
rappresenta la sua "cognizione del dolore".
Una "cognizione del dolore" in senso gaddiano?
Si, è anche dolore fisico, e non solo mentale, quello attraverso il quale Edipo arriva alla verità, alla consapevolezza. Un dolore che, però, non ci è dato vedere: Edipo si acceca fuori scena. Solo le sue parole sostanziano lo strazio della violenza, ce la fanno vedere. E', quella di Edipo, una rappresentazione del dolore di molto vicina al mondo cristiano della sacre rappresentazioni, nel corso delle quali il popolo esorcizzava le sue sofferenze. Così come la tragedia greca, coinvolgendo tutta la collettività della polis, esorcizzava i mali attraverso quel processo di catarsi. che il determinismo della nostra epoca rende oggi impossibile.
Ma nell' " Edipo a Colono", assieme al senso etico della tragedia greca, c'è anche la consapevolezza dell'inutile, del vuoto incolmabile, l'idea che è meglio non essere nati e che la vita è dolore.
Perché
il dolore è il fondamento di questa tragedia, che è elegia
del dolore, riflessione lirica sul dolore.
Ma con quali strumenti mettere in scena il dolore?
Il dolore è oggi uno dei grandi temi che il teatro deve affrontare.
Rappresentare una tragedia necessita però di un'espressione che rifletta il nostro essere uomini di oggi. Un'esposizione archeologica, tradizionale, difficilmente riesce ad essere qualche cosa di più di una mera illustrazione.
Mettere
in scena l' ''Edipo a Colono", oggi, non richiede una contestualizzazione
rispetto all'attualità (come avveniva invece nell'allestimento del
"Prometeo"', dove la realtà politica italiana di alcune stagioni
fa entrava prepotentemente a informare di sé la narrazione tragica),
ma significa cercare di raggiungere l'universalità del dolore. Non
dunque l'espressione di una perdita di valori, il che sarebbe riduttivo
rispetto alla grande portata della tragedia sofoclea, ma la consapevolezza
che al mondo c'è il dolore, e che questa consapevolezza potrebbe
porre dei limiti al dolore stesso, invece di moltiplicarlo come accade
sulla scena della nostra contemporaneità, dove infuriano al momento
ben 46 guerre.
Nell'imperativo che ha guidato l'esistenza di Edipo, nel "conosci te stesso" si può intravedere una possibile risposta al mistero del dolore umano?
Certamente
quello di Edipo è un percorso di conoscenza, è il
suo però un progredire nell'ansia, l'ansia della liberazione del
dover sapere. E', il suo, il desiderio di rappresentare il proprio dolore
per espiare la propria colpa, la propria condizione di uomo segnata dal
non senso, dal nulla, Non si può, nell'affrontare "Edipo" eludere
Beckett e tutto il teatro contemporaneo che è pane integrante ormai
della nostra sensibilità, impossibilitati, oggi, come siamo a ogni
coinvolgimento romantico da un irrefrenabile senso della negatività.
Con quali suggestioni spettacolari e di interpretazione prende corpo sulla scena questa negatività che informa il nostro presente?
Edipo ha vagato per il mondo, nessuno lo vuole accogliere, Antigone gli ha dedicato tutta la vita, si è fatta tramite tra lui, cieco, e il mondo; si è annullata nella dedizione al padre-fratello.
Hanno vagato Edipo e Antigone, il caldo e il deserto hanno torturato il loro cammino; arrivano in luogo, che dovrebbe essere pacificatore. ma invece è uno di quei luoghi in cui si coagula nell'immaginario contemporaneo l'iconografia del dolore (il sotterraneo sventrato della biblioteca di Sarajevo, un rifugio ceceno, un luogo degradato d'esilio di immigrati clandestini, lo scantinato abbandonato di un palazzo distrutto dalle bombe, ma anche il sottopassaggio di una metropolitana, il precario dormitorio di barboni senzatetto, luogo di derelitti, un ospedale, un manicomio, un carcere, un...)
Un
luogo dove si arriva come estremo limite di un viaggio senza senso, una
waste land di eliottiana memoria, ma con una serie di risonanze,
visive ed emotive, che ci rimandano all'oggi che soffre (ferocia etnica,
ferocia religiosa, guerre fratricide, intolleranza, emarginazione,...).
Ma la morte è bandita dalla scena tragica , non la si vede, la si sente descrivere e narrare.
Infatti, diversamente da quanto accade nell'originale sofocleo, qui, nella nostra messa in scena, la morte di Edipo non sarà raccontata dall'angelos (anghelos). Sarà invece visibile nello strazio terreno: nella sua identità di uomo, il morto Edipo parlerà ancora. Il senso di vuoto e inutilità che alla fine avrà segnato il suo peregrinare nel mondo alla ricerca e
nell'espiazione di se stesso, è realmente collegabile al teatro dell'assurdo, a sua volta indissolubilmente legato ai modi della tragedia greca.
Un tempo il dolore umano aveva i suoi codici (il fato, la pestilenza, le disgrazie), oggi si muore per ragioni che non danno un senso plausibile alla morte, anzi la svelano in tutta la sua tragica gratuità (dai sassi sulle autostrade alle stragi del sabato sera, dall'odio razziale allo sballo per overdose, e l'elenco potrebbe continuare).
Edipo
e Antigone sono stati cacciati da Tebe. Il loro andare randagi è
anche una sorta di ansia che contemporaneamente mostra, il disprezzo per
la realtà (Edipo e Antigone come clochard ?!). Ansia della liberazione
e l'ansia della morte, ma prima, Edipo deve trovare un luogo in cui dare
ordine poetico a quello che sta vivendo, dove rappresentare cioè
il suo dolore, solo allora potrà trovare pacificazione.
E' pensabile, allora, questo luogo come una specie di teatro, in cui Edipo e Antigone approdano attesi da altri individui, come gli Scarrozzanti della Compagnia della Contessa, nei "Giganti della montagna", approdano alla villa della Scalogna per quella che sarà la loro ultima rappresentazione?
E' un'ipotesi plausibile, una suggestione che arricchisce di altri motivi e risonanze la rappresentazione di Edipo. ma non è solo ed esclusivamente teatro: lontano dall'essere il Colono della tradizione dove tutt'al più si può far vivere la sola miseria della mimesi naturalistica, il luogo dove approda Edipo, nella nostra messa in scena è un luogo, invece, dove, proprio come per Edipo, si è fatto strazio del corpo umano, dove vive una
comunità
di solitudini che cercano il proprio corpo (l'attore in pena che cerca
il proprio corpo, " I sei personaggi"..., per continuare con il gioco dei
riferimenti) .Vi è, in questo spazio, chi attende una dignità,
chi cerca una certezza alla
propria fisicità pur nella disarmonia
dei gesti, che esprime la precarietà, la povertà, la paura..
L'armonia sarà data solo nel canto, canto che è momento che
accomuna e consola. Questa comunità di solitudini è il Coro:
esso ha perso un'identità morale e sta cercando una certezza che
non c'è. E', il loro, una sorta di Presepio in attesa del Redentore
che assegnerà a ciascuno il proprio posto, celebrerà il Rito,
la messa in scena, cioè, di un dolore infinito.
Ma come si esprime questa dimensione rituale, come si fa parola scenica questo senso di sacralità che si vuoi far scaturire dalla vicenda tragica di Edipo?
Il momento lirico della sofferenza che caratterizza la narrazione sofoclea necessita, infatti, anche di una proposta linguistica adatta a manifestare l'espressività, il senso poetico profondo della tragedia che Sofocle. Un senso che sarebbe difficile poi da rendere nella nostra lingua fidandosi del solo recupero archeologico, data anche l'impossibilità di ricostruire con pertinenza filologica la modalità degli interventi del coro nella tragedia antica.
Sofocle ha inventato l'ambiguità poetica. Nell' "Aiace", ad esempio, il protagonista, alla fine, dichiara il suo intento di uccidersi alla moglie Tecmessa, ma usando un linguaggio che le lascia invece intendere che sua intenzione è quella di volersi purificare nel fiume. In Sofocle l'ambiguità è continua. la sua lingua è fortemente allusiva.
E
anche questo è un segno del mistero della sofferenza umana e di
come questa non abbia risposta. Ecco perché si impone una scelta.
linguistica capace di dare forza e linfa vitale a questa ambiguità.
La lingua di Sofocle è parimenti ambigua ed evocativa (Edipo si
dichiara infelice, ma consola Antigone; dice una cosa ma ne esprime un'altra):
e per rendere pienamente significante questa duplicità espressiva
è necessaria una riscrittura, un'invenzione linguistica libera da
vincoli di tipo filologico.
Ruggero Cappuccio, in pieno accordo con l'impostazione generale di questa messa in scena dell' "Edipo a Colono", ha inventato una lingua mediterranea dalla forti cadenze, uno strano dialetto meridionale, perché?
L'uso del dialetto, meglio, di una lingua che rincorra le sonorità del dialetto, consente una correlazione e un'allusione molto diretti. Sofocle deve essere portato con le emozioni originarie e quindi è giusto nobilitare una lingua vera come il dialetto. (E non è un caso se il teatro italiano, esclusi rari episodi, come quello dell'Alfieri, ad esempio, ha dato il meglio di sé in fatto di scrittura drammaturgica nel dialetto). Se la parola non è metaforica, a perderne è il senso di tutta la messa in scena. La lingua molto concreta di Cappuccio, in più, riesce a dare consistenza al vago che c'è nella tragedia.
Quando Edipo deve dare sfogo al suo strazio interiore, le sue parole hanno la forza, la limpidezza e l'astrazione di una lingua, quando invece comunica con il coro è il dialetto che si impossessa di lui e della sua espressività. La lingua di Antigone è legata a quella di Edipo, come se facesse corpo con lui, mentre Ismene portando le notizie del mondo esterno, per parlare quasi sradica la propria identità, come gli immigrati che si immettono in un codice linguistico che non è il loro.
La parola di questo "Edipo" dev'essere una parola che si rinnova. Deve essere popolare, ma anche sacrale, antica e piena di terra. Con un senso sia liturgico che metaforico.
Il coro è un insieme di proletari con una vita comune e una lingua comune, mentre Edipo è l'intellettuale che con essi deve comunicare.
La situazione linguistica di Edipo e delle sue due figlie, nel voler parlare con il coro, assomiglia a quella degli emigrati che si sforzano di fare parte del gruppo che li ha accolti cercando di parlarne la lingua. Ma più che riuscire a parlare veramente la stessa lingua, quello che si ottiene è una singolare comunanza di suoni.
La forza della scrittura evocativa di Cappuccio è quella di non usare il dialetto come comunicazione. ma come momento lirico. Il ricorso frequente alle iperboli, quali: "infracidò del sangue fradicio di suo fratello", (il cui etimo è presente in tutti i dialetti e diventa un'iperbole poetica, rivelandone poi l'etimologia nella parola "frater") ne è un esempio assolutamente probante.
E
poiché, infine, il senso da esprimere è l'eterno, la continuità
di una condizione esistenziale, l'operazione di Cappuccio non poteva che
essere quella di creare una sorta di codice che richiamasse tutto il mondo
tragico. Cappuccio è riuscito con la sua lingua ad adombrare tutto
l'oriente di allora: l'Asia minore, l'Asia caucasica e tutta la zona confinante
con l'Egeo. Dentro il linguaggio vagamente siciliano che Cappuccio, inoltre
c'è tutto l'Oriente: dai discendenti dei Dori ai Fenici, da cui
deriva la cultura siciliana, agli Arabi che ne hanno fatto la loro culla
culturale. ma anche il nostro vicino oriente, la ex Jugoslavia, l'Afganistan,
la Cecenia, i Kurdi... a richiamare una realtà dolorosa come quella
di paesi oggi travolti dalla guerra.
Come si configura il rapporto tra Edipo e Antigone in questa riscrittura, visti anche i due attori chiamati a interpretarne i ruoli?
Edipo e Antigone. Un legame il loro che va ben oltre la complicità di un intenso rapporto d'amore tra un padre e una figlia. Antigone vede per Edipo, crea per lui quel mondo che la cecità gli nega. Di più deve rassicuralo sulla giustezza dei suoi passi e deve perciò sfalsare la bellezza delle cose che dice con la miseria delle cose che li circonda. Antigone come regista di una recita al cui centro campeggia la consapevolezza di Edipo. Antigone è l'occhio di Edipo, ma è anche qualcosa di più: è il simbolo estremo di un mondo primitivo, in cui il legame del sangue - sia pure incestuoso come quello che unisce Edipo e Antigone - è più forte di qualsiasi legge umana. Un mondo primitivo, matriarcale, in cui l'incesto non è tabù. Ecco perché nell'amore per Edipo, padre e fratello, Antigone sublima anche l'amore per Polinice per la cui sepoltura sarà condannata a morte. E' amore grande e vasto, quella di Antigone per Edipo, - "un figlio lo posso rifare, un fratello (ma perché no? anche un padre) che muore nessuno me lo può restituire", dirà Antigone davanti al corpo insepolto di Polinice, nell' "Antigone", appunto. Amore che solo la paura dell'estinzione della razza ha trasformato in colpa, in peccato. Edipo è il primo rappresentante della nuova polis, della nuova civiltà, che ha bandito il passato come barbarico e tempo oscuro di forze oscure: ora anche gli dei hanno fattezze umane, hanno abbandonato le forme mostruose del mito. Perciò Edipo si macchia di due atti che risultano insopportabile alla nuova civiltà dell'uomo: ha ammazzato il padre Laio e ha commesso incesto con la madre Giocasta. Peccati che in una società matriarcale, in un passato non troppo remoto, non avrebbero avuto un peso così determinante, colpa ben più grave sarebbe stato uccidere la madre! Antigone ha. sposato il genos (genos), la famiglia: nella gratuità e nella dolcezza di una dedizione assoluta ritrova quel senso all'esistere che altrimenti la realtà sembra negarle. E' l'eterna bambina che porta in giro il padre e lo illude che il tempo non sia passato, e Edipo, cui la cecità ha aperto gli abissi di dolore della condizione umana, la lascia cullare in questa sua illusione. E un gioco di inganni reciproco per affievolire le pene, addolcire lo strazio.
E'
il gioco, l'ambiguità della rappresentazione, di ogni rappresentazione:
come due cantastorie girovaghi, due poveri teatranti stanchi e superstiti,
Edipo e Antigone, infatti, danno vita alla rievocazione, a tratti grottesca,
a tratti dolorosa, della loro tragedia e della sua impossibilità
a sciogliersi in una qualsiasi pacificazione.
Per
questo Edipo e Antigone arrivano, o forse lo sono da sempre, in un luogo,
in una scena che può essere intesa, deve essere intesa, come un
luogo in cui per un attimo si sospendono le belligeranze (di qualsiasi
tipo) e ci si inventa la recita di Edipo.
E' quella di Edipo, la recita di un cieco. Quali implicazioni spettacolari comporta una situazione simile?
profondamente
"Edipo a Colono". Non è solo un dato fisico (il che comunque è
utile per le indicazioni che se ne possono trarre su come impostare il
personaggio), ma è soprattutto un dato morale, metafisico che tutto
avvolge, che tutto permea, che informa di sé tutto il testo e il
mito che in esso vi è rappresentato.
Ma
come creare la cecità in uno spettacolo teatrale? Col buio? Forse
per un qualche momento. Ma il problema non è quello di creare le
condizioni esteriori della cecità. Il problema è: come fare
ad identificarsi con la cecità? Quando allestii "Musica dei ciechi",
la storia di un gruppo di musicanti ciechi appunto - racchiusa però
in un bozzetto naturalistico, cercai di rallentare fino all'esasperazione
il parlare, come se proprio la cecità avesse un corrispondente fisico
nella lentezza di quello che si diceva, quasi la parola avesse il peso
di un gesto.
In
Edipo io credo che il senso della cecità lo si possa dare per contrasto:
usando una luce fredda, fortissima: una non luce che in qualche modo rappresenti
uno scacco al continuo parlare di luce, di lei che gli racconta sempre
le meraviglie della luce, di lui che nei momenti in cui ha chiarezza parla
di luce. La luce è in Edipo un simbolo della percezione e della
comprensione di sé, che diventa ancor più forte e dilatata
se si pensa all' ambiente chiuso dove tale percezione avviene e al di là
del quale non c'è nulla. Perché nel mondo morale o psicologico
di un cieco c'è una centralità prospettica che non prevede
l'esterno: uno è chiuso dentro se stesso. Quando abbiamo momenti
di cupezza, perché la disperazione umana, pur facendoci male, non
ci abbatte? Perché c'è sempre la luce un buco attraverso
cui vuoi o puoi inserirti per riabilitarti. Il cieco, no! E' la sua, una
stanza chiusa da cui non potrà uscire. ecco allora che la cecità
di Edipo, la sua impossibilità a sfuggire se stesso, può
essere rappresentata simbolicamente da questo non luogo, dove non c'è
l'esterno, non c'è luce, se non una gelida che da il senso della
morte, del nulla.
L'avvento
di Edipo e di Antigone avrà luogo nel buio. Nel buio di una notte,
in cui coloro che popolano questo spazio pregano, e mentre pregano, arriva?,
appare?, si svela? il Salvatore, che solo con loro potrà recitare
se stesso.
C'è
qualcosa di religioso nell'apparizione di Edipo e Antigone. La loro sofferenza
ha valenza mistica, affonda nel disegno imperscrutabile del Divino. Ecco
perché la loro apparizione in questa notte, in questo luogo della
disperazione -quasi dell'assurdo beckettiano - ha tutto il peso, il senso
e l'ambiguità di un'evocazione. Il loro raccontarsi (il loro esistere?)
è sostenuto da una necessità biologica, viscerale che, come
in una seduta medianica, libera le loro energie e le loro forze molto primitive.
Nell'impossibile speranza che vi sia speranza in questo luogo, dove tutto
è chiuso, nasce questa specie di elegia mortuaria e ferocemente
umana.
Se
Edipo e Antigone consumassero il racconto della loro storia così
carica di dissacrante e disperata carnalità, in un luogo aperto,
sarebbero certamente defraudati della loro tragedia. Perché solo
in questo luogo dell'impossibilità e della costrizione, tutto diventa
veramente agghiacciante, veramente necessario.
tratto da:
"I quaderni del Teatro"
volume n° 60
a cura di Mario Brandolin
Teatro Stabile del Friuli-Venezia Giulia
Trieste |
La foto è di Tommaso Le Pera
Stagione di prosa 1996/97
S.A.T.S. 2000 - Studio Allestimenti Tecnici per lo Spettacolo