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Successo a Firenze per "Vita di Galileo" di Brecht messo in scena da Maurizio Scaparro, con Pino Micol, Ezio Marano e Sabina Vannucchi

ANCHE LO SCIENZIATO HA LE SUE DEBOLEZZE

dal nostro inviato FRANCO QUADRI

FIRENZE Anche i valori veri devono spesso pagare un tributo all' altare delle mode, culturali o no. Perfino a Bertolt Brecht è toccata la mortificazione del ridimensionamento e della frettolosa archiviazione, dopo che l' entusiasmo per il suo ribaltamento copernicano della drammaturgia aveva giustificato esaltazioni e magari qualche eccesso. E' rimasto solo il Berliner Ensemble a coltivarne il verbo; e non a caso, in occasione delle celebrazioni per il Trentennio della morte nell' 86 e per il Novantennio della nascita nello scorso febbraio, là a ridosso del muro, è tornata in scena l' edizione ufficiale di Vita di Galileo. Eppure se è indiscutibile la centralità di questo testo nella vita e nell' opera di Brecht, è controverso se lo si possa considerare il suo capolavoro artistico. Uno dei maggiori registi dei nostri anni, Peter Stein ne ha attribuito la valorizzazione al travestimento che ne avrebbe compiuto Strehler nella sua messinscena. Riconosciuta la paradossalità della provocazione, è comunque impossibile ancor oggi parlare di Vita di Galileo senza citare la famosa edizione creata dal Piccolo Teatro di Milano nel ' 63, raggiungendo un apice espressivo difficilmente eguagliabile: in quel contesto un regista ispirato riusciva a reinventare un dramma attraverso lo stile, coniugando la rarefazione dello straniamento recitativo con il lirismo crepuscolare della propria soggettività in un' altissima sinfonia di grigi. Come dimostrarono le reazioni persecutorie guidate da certi partiti al governo, si respirava ancora nella realtà di quegli anni un clima politico rispondente alla denuncia della stupida repressione esercitata nella controriforma dalla Chiesa contro chi, come Galileo, credeva alla ragione dell' uomo: del resto era ancora di piena attualità la caccia alle streghe contro gli scienziati (e gli intellettuali) che rifiutavano l' asservimento al potere. Ugualmente nel ' 47, quando Brecht aveva riscritto il suo lavoro a Los Angeles per Charles Laughton, la prima bomba atomica era scoppiata da poco, e il problema della strumentalizzazione della scienza figurava all' ordine del giorno, tanto da suggerire modifiche radicali rispetto alla prima stesura nata nell' esilio danese, tenendo d' occhio la criminalità nazista. Oggi, davanti a un' opinione pubblica consapevole delle corresponsabilità nella distruzione del globo di una scienza al soldo di padroni pubblici o privati, non diminuisce la rilevanza di questo grido esemplare a favore di una rivoluzione cosmica dell' intelligenza e dell' individuo. Si ritorna all' impegno Dopo che era passata inosservata una ripresa impiegatizia e noiosissima, sempre con Tino Buazzelli, ma diretta da Fritz Bennewitz, un regista imposto al Teatro Stabile di Torino dagli eredi Brecht, la nuova edizione del Teatro di Roma appare importante per il richiamo a un impegno politico ormai inghiottito dall' evasività commerciale, e significativa per l' ambizione di riferirsi a un risultato che costituì il momento più alto della parabola dei teatri pubblici in Italia. La messinscena di Maurizio Scaparro, che utilizza come quella del Piccolo la traduzione condotta da Emilio Castellani sull' ultima versione dell' opera, creata per il Berliner nel ' 56, concentra le sue scarse attualizzazioni in qualche cambio di terminologia, mentre i costumi di Alberto Verso sono trasferiti, in ossequio alle note dell' autore, da un' epoca storica a un universo pittorico, in uno spazio fuori dal tempo. Il pubblico deve essere convinto di trovarsi in teatro, scriveva Brecht nel ' 47; e l' intenzione non è mai smentita nell' odierna proposta. Roberto Francia e Pedro Cano hanno approntato con un contorno di basse gradinate, su uno sfondo ocra che le luci possono far divenire azzurro o d' argento, un imponente poliedro praticabile: ovvero l' immagine del mondo secondo la tradizione dell' Umanesimo leonardesco, anche se il disegno è ripreso da un trattato del 1505 dal matematico Luca Pacioli e se la sua struttura lignea richiama alla divulgazione che ne è stata compiuta dalle sculture di Mario Ceroli. Si tratta di un teatro dentro al teatro, il gran teatro del mondo, come vien fatto dire a frate Fulgenzio citando Calderon. Al suo interno, su due piani, tra scalette e telescopi, si situa l' osservatorio del grande fisico, quindi la rappresentazione del reale, ma anche il suo opposto: l' esteriorità degli apparati è simboleggiata dalla pompa del Vaticano nella vestizione di Urbano VIII, esercitata su un trespolo appendiabiti davanti al Papa, con un intento dimostrativo che non riesce a far dimenticare la mirabile interpretazione strehleriana. Una tammurriata per Bertolt E, invece dell' esplosione figurativa della festa popolare di quell' edizione, il Carnevale è contraddistinto da una tammurriata, con un adattamento di Pasquale Scialò sulle musiche originali di Hanns Eisler: un' escursione mediterranea con citazioni del Pulcinella e in primo piano la stessa famigliola del cantastorie che nenia i titoli dei vari quadri. Rivisto come spettacolo oggi, Vita di Galileo si rivela un grosso sceneggiato, con le cadute testuali inevitabili quando si tenta la cronaca diretta dei momenti storici, anche se poi salta fuori la geniale capacità di condensare in poche battute l' evoluzione del pensiero con le sue possibili implicazioni. Il protagonista ha comunque pochi riscontri nella drammaturgia contemporanea, con la duplicità determinata da un' etica egoistica tra la figura di intellettuale e le sue debolezze umane: come ben si sa, Brecht si è scavato in lui un autoritratto, trovando un equivalente all' abiura di Galileo nella propria deposizione davanti alla Commissione per le attività antiamericane. Con lo scienziato è quindi anche il teatrante che si celebra, ma allo stesso tempo si auto processa. Pino Micol, che si pone a metà tra la tradizione dei Galilei grassi e di quelli magri, torreggia sul palcoscenico con autorità, duttilità e comunicativa, ma gli manca il coraggio di essere anche negativo, il sostrato ironico capace di raddoppiare il senso di ogni battuta, la carica di ambiguità estranea a uno spettacolo tutto teso all' evidenza teatrale, anche se la persegue attraverso un corredo di simboli. Accanto al protagonista, assieme all' esperienza di Gianna Giachetti, di Ezio Marano, inquisitore subdolamente isterico, del veterano Andrea Matteuzzi, nella Babele di accenti di questa Italia divisa, sono i giovani a far la miglior figura: Beppe Tosco, Sabina Vannucchi, la figlia repressa, e Mario Toccacelli, col più maturo Adalberto Rosseti aggiungono infatti una carica vitalistica al funzionalismo un po' riduttivo delle interpretazioni, molto attente a chiudere con un ammicco accattivante. Vanno comunque citati Fernando Pannullo, Vittorio Di Bisogno, Martino Duane, il manierato Giulio Pizzirani e il cantastorie Gianfranco Mari. E non dimentichiamo i bambini Marco Vivio e Fabio Lucarelli, che con i loro giochi muovono il consenso del pubblico, destinato via via a straripare.

la Repubblica - Domenica, 29 maggio 1988

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