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Primeteatro: Mastroianni stupendo protagonista del dramma giovanile e incompiuto di Cechov nel libero allestimento del regista russo Nikita Michalkov intitolato "Pianola meccanica"

BENTORNATO MARCELLO PATETICO PLATONOV

di FRANCO QUADRI

C' UN BAMBINO che guarda all' inizio della Pianola meccanica di Nikita Michalkov. Prima, nel buio, al levarsi di un velario verdeggiante di betulle, due colombe avevano volteggiato dai palchi verso la loro bianca gabbia illuminata, lassù, vicino al tetto. Poi, davanti agli occhi del bambino, si era svegliata la vecchia casa di legno che occupa completamente la scena, coi suoi pilastri ricoperti di rampicanti; dai tre piani con le balconate ingombre di arredi, di quadri, di pendole, di vecchie fotografie, si erano affacciati i personaggi nei costumi chiari di Carlo Diappi, ed erano scesi al rallentatore dalle due scale ai lati, per cominciare la loro giornata. Il piccolo Petia non c' è nel Platonov, il dramma scritto da Anton Cechov giovanissimo, e mai finito, da cui il regista russo, insieme a Aleksandr Adabascian, ha tratto la pièce con la contaminazione di spunti novellistici del medico-scrittore; il bambino figura invece in qualche episodio di Partitura incompiuta per pianola meccanica, il famoso precedente cinematografico dello spettacolo. Anche qui ricompare nel suo ruolo nel corso della serata, ma soprattutto suggella il primo tempo, apparendo in proscenio, separato dal pubblico da una parete di pioggia. E rieccolo in posizione centrale alla chiusura, quando l' azione si blocca e i personaggi, ancora pianissimo, riprendono i movimenti in retromarcia: allora le pareti divisorie della casa scorrono in quinta, spariscono l' andito e la sala interna a pianterreno, e Petia si trova nel fogliame lussureggiante del parco di fondo, al sole di una nuova alba, in una visione figurativa alla Bob Wilson, coinvolto da due donne in una sorta di iniziazione; a questa seguirà il ritorno in primo piano, e il rito lustrale, sotto la pioggia. Manca solo l' arcobaleno a coronare il suo flashback. E' facile individuare in lui il regista piccolo che sogna il suo Cechov fatto di risate e struggimenti, di scoppi eccessivi che si sciolgono nell' aria come un temporale, come s' addice a quella famosa anima russa di cui anche qui si parla assai. Credo che questa visione figurativa, Michalkov l' avesse già negli occhi due anni fa, quando tramite Valeria Moriconi proponeva il suo allestimento alla Biennale di Venezia; e già prima, quando in Russia aveva cercato di realizzare in teatro il lavoro che si è poi trasformato in un film, conforme a un destino che l' ha portato al debutto scenico solo ora al Teatro di Roma, al quale ha regalato (si fa per dire) il suo più grande spettacolo. E il sogno si è realizzato. Come si disse recentemente in occasione della messinscena di Chèreau, Platonov è una tragicommedia sterminata, che contiene, scompostamente, in germe tutto il futuro drammaturgico di Cechov nella sua vicenda a molte voci, protagonista un maestro di paese in odore di fallimento, tanto è vero che si suiciderà nell' ultima stesura del testo, ma non nello spettacolo. Velleitario e nevrotico, incarna in qualche modo lo spirito di un secolo, anche per il suo cinico dongiovannismo, per quanto l' attuale adattamento lo limiti a essere conteso tra una matura amante possessiva, la generalessa, e la consorte illusa e romantica del figlio di costei, mentre la moglie aspetta. Il nuovo testo non ha certo la complessità e la ricchezza di controcanti di quello rielaborato da Strehler per la sua grande edizione del ' 59, significativamente e brechtianamente intitolato Platonov e altri. Michalkov punta tutto sulla coralità e sull' immagine, e quindi elimina personaggi anche significativi e non indugia a togliere a quelli rimasti le loro motivazioni contraddittorie. La prima parte è così semplificata a scapito dell' intreccio. Gioiose parate collettive si succedono ai dialoghi a due, il ridere sfrenato alle pause di silenzio mentre prevalgono le atmosfere e il tessuto indistinto delle sensazioni, tradotte a volte in reazioni fisiche. C' è un presupposto dimostrativo nell' illustrare una casistica un po' convenzionale di insensatezze di società, come nell' investigare i meandri dello spazio per riempirli di azioni a volte volute, o nel cercare un catalogo di presenze e gesti veri, nello spirito dei custodi del museo di Stanislavskij, più che della sua estetica. La rivendicazione della verità coinvolge i materiali naturali come i rumori, implica cadute di foglie, volare di farfalle, una caccia alla mosca da Arlecchino servitore di due padroni, la pesca di un pesce vero, ma anche i rintocchi dell' orologio a cucù, tra spari, lampi, tuoni, fuochi d' artificio; e investe perfino i mezzi di locomozione, stampelle e carrozzina a rotelle per Platonov, schettini per le sue spasimanti. Vera vuole essere prima di tutto la scenografia abbacinante di Yuri Kuper, che dopotutto offre un saggio da vecchio teatro russo. Ma il gioco delle aperture e delle modificazioni offerte dalle pareti centrali scorrevoli rendono anche possibili letture simboliste vicine agli esempi storici del cecoslovacco Krejca. Allo stesso modo, riconduce all' astrazione l' orientamento per i ritmi e le risonanze, piuttosto che per lo sviluppo dei personaggi attraverso i contenuti. La riduzione in realtà mira a descrivere per immagini, aderendo di fatto alla sceneggiatura del film; parimenti la scenografia con le sue opportunità di dislocazioni e di approfondimenti di campo è evidentemente costruita per permettere un andamento assolutamente cinematografico spinto fino a simulare delle carrellate, con la complicità delle luci e della colonna sonora un po' patetica di Eduard Artiemiev. La pura fascinazione visiva accompagnata al ricorso meccanico ai movimenti d' effetto può generare però un senso di ripetitività e di noia, tanto più se c' è il rischio che in tutta questa esposizione di verità gli attori, già difficilmente individuati come personaggi data la lettura di superficie, appaiano finti; e questo può verificarsi quando indulgono a una concitazione macchiettistica o mirano a farsi vedere troppo, come Claudia Giannotti nella parte della generalessa soprattutto nelle tirate da contralto e nei movimenti, o Arnaldo Ninchi, delegato a travestimenti e a gesti esteriori per sorprendere, o l' effettistico Alessandro Sperlì, ma anche il dotato e spaesato Stefano Lescovelli. Lo spettacolo trova invece un impulso appena fa la sua ricomparsa la parola nella seconda parte, e assieme una maggiore attenzione a interiorizzare le situazioni e a precisarne il il contesto sentimentale attorno al protagonista. Dal pranzo che riunisce il gruppo dei villeggianti e lo divide poi nei litigi, con un velo di desolazione a cui è estranea la consueta isteria, il racconto con un bellissimo cambio di scena porta in primo piano l' intrico privato; si alza infatti in proscenio una folta alta siepe verde, e proprio lì davanti, tra le pozze d' acqua, Platonov ha il suo grande incontro con Sofia, spiato dal marito di lei, con una conclusione ancora una volta da farsa. Ne deriva una clamorosa scena madre e poi la corsa del protagonista a impiccarsi lassù, nella gabbia degli uccelli; ma quando tira la corda per formare il cappio, ha come solo risultato di far salire il lampadario della scena. A rafforzare questo tema della banalità che vanifica ogni possibilità di impegno e anche di drammatizzazione, contribuisce in modo determinante la presenza della pianola meccanica del titolo. Accolta al suo arrivo nella casa dalla stessa stupefazione generale che nelle Tre sorelle diretta da Peter Stein accoglieva il girare su se stessa d' una trottola, la macchina strumentale assume una funzione demistificatoria del tragico. Con lo scattare del suo strimpellio a ogni contatto casuale, fa infatti cadere successivamente nel ridicolo le situazioni drammatiche appena delineate, interrompendone la partitura, ma cogliendo soprattutto quella fusione del riso col pianto, così particolare a Cechov, e così rara a tornare nelle messinscene dei suoi testi. Il passaggio dallo sguardo ammirato ma freddo all' emozione e all' entusiasmo deve però moltissimo a Marcello Mastroianni al suo attesissimo ritorno in teatro. Il vero protagonista della serata s' era nascosto tra i suoi partner nel primo tempo, coprendosi di una patina opaca che non tutti avevano accreditato alla pigra passività di un personaggio trascinato dagli eventi, di cui prospettava la cialtroneria buffonesca con smorfie e mimica parodistica come in Oci Ciornie, forse un po' costretto dalla regia. Ma è aggiungendo a questi tratti descrittivi il risvolto sentimentale che Mastroianni, forse ancora memore della lezione teatrale di Luchino Visconti, più del suo indimenticabile dottor Astrov in Zio Vania che del rigido Tusenbach delle Tre sorelle, trova una dimensione nostalgica e disincantata da grande attore, capace di condensare un sentimento in un gesto e di distruggerlo immediatamente, di parlare col corpo e con la voce come al cinema, di personificare l' irrisolutezza del suo Platonov. Alle sue corde di verità sapeva rispondere solo Delia Boccardo, mentre, nella discontinuità un po' stonata delle interpretazioni, si facevano ricordare anche la silenziosa Leda Negroni, con le caratterizzazioni di Franco Alpestre, Pino Patti, e Raimondo Penne, corteggiatore goffo. Ma le acclamazioni erano per tutti, come è giusto, tenendo anche conto della grande intensità dell' impegno.

la Repubblica - Domenica, 22 novembre 1987

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