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Orologio a cucù

     
             
             
     

La cassa di legno di pino risuonava del lento schioccare degli ingranaggi.

Sprofondato nella vecchia poltrona, lasciai penzolare la mano a succhiare il fresco che esalava dal pavimento di marmo.
Accanto a me il libro aperto attendeva, odoroso, che vi posassi lo sguardo.
Faceva caldo.

Lasciai scivolare gli occhi sulle pigne di bronzo, graziosamente scurite dal tempo.
Il Tempo…
Molle, rotelle, viti, piastre d’ottone sagomato: tanto lavoro d’ingegno per misurare un mistero.

Mi accorsi di aspettare.
Attendevo, come da bambino, l’uscita del minuscolo cucù.
Guardavo le lancette scure, in ferro battuto, che di tic in tac si spostano verso la posizione giusta; lo scatto sempre inatteso, che fa sussultare lo stomaco.
Poi finalmente eccolo! Accompagnato da un sommesso sferragliare, un piccolo uccello impagliato dagli occhi neri e lucidi, tristi.


Mio padre mi vide piangere quel giorno, tanti anni fa.

Salendo le scale, lui fischiava di là dalla porta d’ingresso. Io ero come adesso, ma con lo sguardo puntato nella gabbia silenziosa, trafitta dalla luce del mattino.
Gigi era disteso stecchito, con le zampe all’insù, le minuscole palpebre chiuse.
La chiave che gira nella toppa, rumore di passi.
Mio padre dietro di me: mi vide e capì –Vai – mi disse, - vai da tua madre.-

La sorpresa fu grande e la commozione, quando vidi per la prima volta un meraviglioso orologio a cucù segnare l’ora di mezzogiorno, con il guizzo giallo di un canarino dagli occhi neri e lucidi, il giorno del mio sesto compleanno.
Era unico. Non faceva “cucù” come tutti gli altri: cantava fiero e allegro –“Gigì, gigì!-

     
             
     

Paolo Saltamonti

     
             
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