1 Erano già consoli Gaio Plauzio (per la seconda volta) e Lucio
Emilio Mamerco, quando gli abitanti di Sezia e di Norba vennero a Roma per
riferire che i Privernati si erano ribellati, e per lamentarsi delle
devastazioni subite. Si apprese anche che un esercito di Volsci, alla cui
testa erano gli Anziati, si era accampato nei pressi di Satrico. Entrambe
le guerre toccarono in sorte a Plauzio. Come prima cosa marciò contro
Priverno, venendo immediatamente allo scontro armato. Sconfitti i nemici
senza eccessivi sforzi, catturò la città, cui impose una massiccia
guarnigione, e la restituì agli abitanti, privandola però di due terzi
della terra. Di lì l'esercito vincitore venne condotto a Satrico per
affrontare gli Anziati. La battaglia combattuta nei pressi di quella città
fu tremenda e costò a entrambe le parti ingenti perdite; un temporale la
interruppe quando non era ancora chiaro a quale dei due schieramenti
sarebbe andata la vittoria, e i Romani, per nulla scoraggiati da uno
scontro così incerto, si prepararono a gettarsi di nuovo nella mischia il
giorno successivo. Ma i Volsci, una volta passati in rassegna gli uomini
per calcolare il numero dei caduti, non avevano più alcuna intenzione di
esporsi una seconda volta allo stesso pericolo. La notte, come fossero
stati sconfitti, abbandonarono sul posto i feriti e parte dei bagagli, e
marciarono impauriti alla volta di Anzio. Una grande quantità di armi
venne allora rinvenuta, non soltanto in mezzo ai corpi dei caduti, ma
anche nell'accampamento nemico. Dopo aver dichiarato che avrebbe
consegnato quelle spoglie alla Madre Lua, il console devastò il territorio
nemico fino alla costa.
L'altro console, Emilio, entrò nel territorio sabellico, ma non trovò
né l'accampamento dei Sanniti né tracce del nemico. Mentre era impegnato a
devastare le campagne, fu raggiunto da inviati dei Sanniti che recavano
richieste di pace. Inviati dal console al senato, essi ottennero la
possibilità di parlare: abbandonata l'arroganza di sempre, pregarono i
Romani di concedere loro la pace e il diritto di portare guerra ai
Sidicini; queste richieste parevano loro più che giustificate, in quanto
erano diventati amici dei Romani in un periodo più favorevole (e non, come
i Campani, nel pieno dei rovesci), e inoltre avevano preso le armi contro
i Sidicini, loro nemici di sempre, e mai amici dei Romani; infatti i
Sidicini non avevano mai, come i Sanniti, richiesto l'amicizia in tempo di
pace, né, come i Campani, assistenza in tempo di guerra, e tantomeno si
trovavano sotto la protezione del popolo romano cui non erano
sottomessi.
2 Il pretore Tito Emilio consultò il senato riguardo le richieste
dei Sanniti, e avendo i senatori deciso di rinnovare il trattato di
alleanza con loro, il pretore rispose agli inviati che non era colpa del
popolo romano se i rapporti di amicizia si erano interrotti, e che siccome
erano stati i Sanniti stessi a pentirsi di una guerra iniziata per colpa
loro, non c'erano ostacoli a una ripresa delle relazioni amichevoli.
Quanto ai Sidicini, i Romani non intendevano interferire nell'autonomia
che il popolo sannita aveva in fatto di pace e di guerra. Quando gli
inviati sanniti rientrarono in patria a séguito della ratifica del
trattato, l'esercito romano venne immediatamente richiamato da quella
zona, dopo aver ricevuto lo stipendio di un anno e razioni di viveri per
tre mesi (il console aveva stabilito che questo fosse il prezzo giusto di
una tregua, almeno fino al rientro degli ambasciatori).
I Sanniti marciarono contro i Sidicini con le stesse truppe che avevano
utilizzato nella guerra con Roma, ed erano convinti di impossessarsi della
città nemica in breve tempo: ma i Sidicini tentarono di anticiparli
arrendendosi ai Romani. Quando però i senatori ebbero rifiutato la loro
resa giudicandola troppo tardiva e frutto solo della più disperata
necessità, si rivolsero ai Latini che si erano già preparati a muovere
guerra di loro spontanea volontà. Ma neppure i Campani - tanto più vivo
era in loro il ricordo dell'affronto subito dai Sanniti che del beneficio
ricevuto dai Romani - si astennero dall'unirsi alla spedizione. Un grande
esercito formato da quei popoli e agli ordini di un comandante latino
invase il territorio dei Sanniti, causando più danni con le sue razzie che
in campo di battaglia. E sebbene i Latini avessero la meglio in ogni
scontro, non furono affatto contrari all'idea di abbandonare il territorio
nemico, per evitare di dover combattere così spesso. I Sanniti ebbero
perciò tempo di inviare degli ambasciatori a Roma. Una volta ammessi al
cospetto del senato, essi si lamentarono di ricevere, in qualità di
alleati, lo stesso trattamento che era stato loro riservato quando erano
nemici, e implorarono umilmente i Romani di accontentarsi di strappare ai
Sanniti la vittoria conquistata su Campani e Sidicini, non permettendo
però che essi fossero vinti dai più codardi dei popoli. Se Latini e
Campani erano sottomessi ai Romani, che allora i Romani li costringessero
con l'autorità ad astenersi dall'invadere il territorio sannita; se invece
rifiutavano tale autorità, li convincessero allora con la forza. A queste
parole i Romani replicarono in termini ambigui: erano imbarazzati a dover
ammettere che ormai i Latini non erano più sotto il loro controllo, e
temevano, accusandoli, di provocarne il definitivo distacco. I Campani si
trovavano invece in condizione diversa, essendo entrati nella loro sfera
di influenza non con un trattato, ma a séguito di una resa. Pertanto i
Campani avrebbero dovuto, volenti o nolenti, rimanere tranquilli. Nel
trattato stretto con i Latini non c'era invece clausola che impedisse a
quel popolo di combattere contro chi avesse voluto.
3 La risposta, se da una parte lasciò i Sanniti nel dubbio circa le
intenzioni dei Romani, dall'altra allontanò da Roma i Campani, ora in
preda alla paura, mentre rese ancora più baldanzosi i Latini, persuasi che
i Romani fossero ormai pronti a qualsiasi concessione. E perciò i loro
capi, col pretesto di preparare la guerra contro i Sanniti, convocavano
continue riunioni, e in ognuna tramavano in segreto la guerra contro Roma.
Anche i Campani prendevano parte a questa guerra contro i loro salvatori.
Ma non ostante cercassero di tenere nascoste tutte le loro iniziative -
volevano infatti scrollarsi di dosso i Sanniti prima che i Romani
passassero all'azione -, tuttavia, tramite alcune persone legate da
vincoli di parentela e di ospitalità privata, a Roma trapelarono
indiscrezioni sulla congiura. Ed essendo stato ordinato ai consoli di
dimettersi prima del termine, per far sì che al più presto venissero
nominati nuovi consoli destinati a fronteggiare quel minaccioso conflitto,
subentrò lo scrupolo di permettere che presiedessero le elezioni
magistrati il cui potere aveva subito una riduzione. Fu così che si venne
a un interregno. Gli interré furono due: Marco Valerio e Marco Fabio, il
primo dei quali nominò consoli Tito Manlio Torquato (al terzo mandato) e
Publio Decio Mure.
Sappiamo che nel corso di quell'anno approdò in Italia una flotta di
Alessandro, re dell'Epiro. Se questa guerra avesse fatto sùbito registrare
dei successi, non c'è dubbio che si sarebbe estesa ai Romani. A quel
periodo risalgono anche le gesta di Alessandro Magno il quale, nato dalla
sorella del re dell'Epiro, venne stroncato in tutt'altra parte del mondo
da una malattia fatale, quando era ancora nel fiore della giovinezza e
senza aver subito sconfitte in guerra.
Ma i Romani, non ostante la defezione degli alleati e di tutti i Latini
fosse ormai quasi certa, quasi si preoccupassero per i Sanniti e non per
se stessi, convocarono a Roma dieci comandanti latini, cui impartire
disposizioni. Il Lazio aveva in quel tempo due pretori, Lucio Annio di
Sezia e Lucio Numisio di Circei, entrambi provenienti da colonie romane:
con la loro istigazione avevano spinto a prendere le armi, oltre a Signia
e a Velitra (anch'esse colonie romane), anche i Volsci. Si decise di
convocarli di persona. A nessuno sfuggivano i motivi della loro chiamata.
Così, prima di partire per Roma, i pretori convocarono un'assemblea e dopo
aver annunciato di essere stati chiamati dal senato, chiesero istruzioni
sulla risposta da dare alle domande che supponevano sarebbero state loro
rivolte.
4 Le proposte furano quanto mai varie, e al termine Annio disse:
«Anche se sono stato proprio io a richiedere il vostro parere sulle nostre
risposte al senato romano, ciò non ostante ritengo più importante per la
nostra causa decidere che cosa dobbiamo fare piuttosto che dire. Quando vi
avremo esposto i nostri piani, non sarà difficile trovare parole adatte ai
fatti. Infatti se anche adesso riusciamo a sopportare la schiavitù che ci
lega sotto la parvenza di pari condizioni, cos'altro ci resta, una volta
abbandonati i Sidicini al loro destino, se non obbedire non solo agli
ordini dei Romani, ma anche a quelli dei Sanniti, dichiararci pronti a
deporre le armi a un cenno dei Romani? Se invece un minimo desiderio di
libertà sfiora i vostri animi, se le parole 'trattato' e 'alleanza'
significano parità di diritti, se i Romani sono davvero nostri
consanguinei (di questo in passato ci si vergognava, mentre adesso è
motivo di vanto), se con 'esercito alleato' essi davvero intendono un
esercito che unito al loro raddoppi le forze di ciascuno, da non impiegare
se non per avviare o concludere guerre comuni, allora perché non siamo
uguali in tutto? Perché uno dei due consoli non tocca ai Latini? Là dove
c'è una partecipazione di forze dovrebbe esserci anche partecipazione di
autorità. E questo, per altro, non sarebbe particolare motivo di vanto per
noi: in fondo, abbiamo già accettato che Roma fosse capitale del Lazio! Ma
prolungando all'infinito la nostra sopportazione abbiamo fatto sì che
questa condizione sembrasse motivo d'onore. Se però avete mai accarezzato
il desiderio di dividere il comando e di godere della libertà, ecco
arrivato il momento opportuno, ora che l'occasione vi viene offerta dal
vostro valore e dalla benevolenza degli dèi. Negando loro l'invio di
truppe ne avete messo alla prova la pazienza: chi può aver dubbi che siano
furenti per aver visto interrompersi una consuetudine che risaliva a più
di duecento anni fa? Eppure hanno incassato il colpo. Abbiamo combattuto
coi Peligni di nostra iniziativa: il popolo che in passato non ci
concedeva nemmeno il diritto di difendere da soli la nostra terra non ha
fatto opposizione. Hanno sentito che i Sidicini si sono messi sotto la
nostra protezione, che i Campani li hanno abbandonati per schierarsi dalla
nostra parte e che noi stiamo preparando un esercito per affrontare i
Sanniti: eppure non si sono mossi da Roma. Da dove viene tutta questa loro
moderazione, se non dalla consapevolezza della nostra e della loro forza?
So da fonte sicura che ai Sanniti presentatisi a lamentarsi di noi il
senato romano ha risposto in maniera da non lasciar dubbi sulla
situazione: ormai nemmeno i suoi stessi membri pretendono più che il Lazio
resti sotto l'autorità di Roma. Nelle vostre domande chiedete ora senza
esitazioni quei diritti che essi tacitamente vi concedono. Se c'è qualcuno
che non ha il coraggio di parlare, allora dichiaro che sarò io stesso a
farlo di fronte non solo al popolo e al senato romano, ma anche a Giove
che abita sul Campidoglio: se vogliono che osserviamo il trattato di
alleanza, allora accettino che il nostro popolo fornisca uno dei consoli e
parte del senato». Queste proposte e queste promesse spregiudicate vennero
accolte con un urlo di approvazione generale e ad Annio fu conferito il
potere di agire e parlare nella maniera che gli fosse sembrata più
conveniente alla causa e all'onore del popolo latino.
5 Quando i due magistrati arrivarono a Roma, il senato diede loro
udienza sul Campidoglio. Lì, siccome il console Tito Manlio intimò loro,
su iniziativa del senato, di non portare guerra ai Sanniti che erano
legati ai Romani da un trattato di alleanza, Annio parlò non come un
ambasciatore protetto dal diritto delle genti, ma come un generale che
avesse appena conquistato il Campidoglio con il suo esercito. «Tito
Manlio», disse «e voi, senatori: sarebbe ora, una buona volta, che la
smetteste di trattare con noi da padroni, rendendovi conto che il Lazio,
con il favore degli dèi, è più che mai ricco di uomini e di armi dopo aver
vinto in guerra i Sanniti e aver ottenuto l'alleanza di Sidicini e
Campani, e adesso anche dei Volsci; e rendendovi conto che addirittura le
vostre colonie hanno preferito sottomettersi ai Latini piuttosto che a voi
Romani. Ma poiché non vi rassegnate a porre fine al vostro dispotismo, noi
- pur essendo in grado di rivendicare la libertà del Lazio con la forza
delle armi - siamo disposti, in nome del rapporto di consanguineità, a
offrire condizioni di pace che soddisfino entrambe le parti, in
considerazione del fatto che gli dèi hanno voluto un equilibrio di forze
tra noi. Ecco le condizioni: i consoli devono essere eletti uno dai
Romani, l'altro dai Latini; i membri del senato nominati secondo un'equa
proporzione tra le due genti, in modo che ci siano un unico popolo e un
unico stato. E perché la sede e il nome dell'impero siano comuni a tutti,
essendo in proposito inevitabile che una delle due parti ceda
nell'auspicabile interesse di entrambi i popoli, ebbene: la capitale sia
la nostra città e il nome di tutti sia quello di Romani!».
Il caso volle che anche i Romani avessero, nel console Tito Manlio, un
uomo che poteva tener testa ad Annio quanto a bellicosità. Manlio
controllò così poco il proprio risentimento da dichiarare che, se i
senatori fossero stati così irragionevoli da lasciarsi dettare legge da un
uomo di Sezia, si sarebbe presentato in senato con la spada al fianco e
avrebbe ucciso con le sue mani qualunque latino gli si fosse parato
innanzi. Voltatosi poi verso la statua di Giove, disse: «Ascolta, Giove,
queste parole scellerate! Ascoltate, leggi umane e divine! Tu stesso,
Giove, prigioniero e oppresso, dovrai vedere consoli e senatori stranieri
nel tuo sacro santuario? Sono questi, o Latini, i patti che il re romano
Tullo ha stretto con i vostri antenati albani, questi i patti che Lucio
Tarquinio ha poi stipulato con voi? Non ricordate la battaglia del lago
Regillo? A tal punto avete dimenticato i disastri patiti in passato e i
benefici che vi abbiamo fatto?».
6 Alle parole del console seguì l'indignazione dei senatori, ed è
stato tramandato che in risposta alle numerose suppliche rivolte agli dèi,
ripetutamente chiamati in causa dai consoli come testimoni garanti dei
trattati, si udì una frase sprezzante di Annio contro la maestà di Giove
romano. Quel che è certo è che, mentre furente si precipitava fuori dal
vestibolo del tempio, scivolò sui gradini e batté la testa sull'ultimo
gradino con tale violenza da perdere i sensi. Poiché non tutti gli autori
concordano nell'affermare che morì, posso lasciare anch'io la questione
aperta, come pure il fatto che, mentre i Latini invocavano gli dèi a
testimoni della rottura dei trattati, scoppiò una tempesta accompagnata da
un grande fragore nel cielo. Queste notizie potrebbero infatti essere vere
come pure esser state inventate ad arte per rappresentare in maniera
concreta l'ira degli dèi. Torquato, che i senatori avevano mandato a
congedare gli inviati, vedendo Annio steso a terra, esclamò (perché la sua
voce arrivasse sia al popolo sia ai senatori): «Sta bene così: gli dèi
hanno scatenato una guerra santa. Esiste la potenza celeste! Ed esisti tu,
Giove! In questa sede non ti abbiamo consacrato invano padre degli dèi e
degli uomini. Perché esitate, o Quiriti, e voi padri coscritti, a prendere
le armi sotto la guida degli dèi? Schianterò al suolo le legioni latine,
così come ora vedete stramazzato a terra il loro rappresentante». Le
parole del console, accolte con approvazione da tutto il popolo,
infiammarono a tal punto la massa che gli inviati latini, ormai sul piede
di partenza, vennero protetti contro la rabbia e l'assalto del popolo più
dall'intervento dei magistrati che li accompagnavano per disposizione del
console, che dal diritto delle genti. Anche il senato si dichiarò
d'accordo sulla guerra. E i consoli, arruolati due eserciti,
attraversarono i territori dei Marsi e dei Peligni. Quindi, una volta
unite alle loro forze quelle dei Sanniti, si accamparono nei pressi di
Capua, dove cioè si erano già concentrati i Latini e i loro alleati.
Lì si dice che entrambi i consoli ebbero nella notte la stessa visione:
un uomo di statura e imponenza superiori al normale il quale diceva che il
comandante di una parte e l'esercito dell'altra avrebbero dovuto essere
offerti in sacrificio agli dèi Mani e alla Madre Terra. La vittoria
sarebbe andata a quel popolo e a quello schieramento il cui comandante
avesse offerto in sacrificio di espiazione le legioni nemiche oltre a se
stesso. I consoli, confrontate queste visioni notturne, decisero di far
sacrificare delle vittime per placare l'ira degli dèi. Se poi il responso
delle viscere fosse coinciso con il contenuto dei sogni, allora uno dei
due consoli avrebbe dovuto mettere in atto la volontà del destino. Quando
il verdetto degli aruspici si fu rivelato in pieno accordo con la segreta
superstizione che ormai si era radicata in loro, dopo aver convocato
luogotenenti e tribuni e aver reso di pubblico dominio il volere degli
dèi, per evitare che la morte volontaria del console spaventasse le truppe
durante il combattimento, i due alti comandanti decisero di comune accordo
che, dovunque l'esercito romano avesse cominciato a perdere terreno, il
console che aveva il comando dei reparti in difficoltà avrebbe dovuto
sacrificarsi. Nel corso dell'assemblea si decise anche che, se in passato
c'erano mai state delle guerre condotte con estrema severità, ora era
l'occasione buona per ricondurre la disciplina militare alle tradizioni di
un tempo. La preoccupazione dei Romani era accresciuta dal fatto di dover
combattere contro i Latini, un popolo che aveva la loro stessa lingua,
stesse tradizioni, stesso tipo di armamenti, e soprattutto la stessa
condotta ed esperienza militare. I soldati si erano mescolati con i
soldati, i centurioni con i centurioni e i tribuni con i tribuni, da pari
a pari e in qualità di colleghi, nelle stesse guarnigioni e spesso anche
negli stessi manipoli. Per evitare che questa situazione traesse in errore
i soldati, i consoli ordinarono che nessuno abbandonasse il proprio posto
per andare all'assalto del nemico.
7 Il caso volle che tra gli altri ufficiali dei vari squadroni
inviati in tutte le direzioni a perlustrare i dintorni ci fosse Tito
Manlio, il figlio del console. Egli si era spinto, con i suoi cavalieri,
al di sopra dell'accampamento nemico, fino a trovarsi a distanza di un
lancio di giavellotto dal posto di guardia più vicino. In quel settore
c'erano i cavalieri di Tuscolo agli ordini di Gemino Mecio, un uomo famoso
tra i compagni sia per i nobili natali sia per il suo passato di
combattente. Riconosciuti i cavalieri romani e il figlio del console, alla
testa del drappello (si conoscevano tutti fra loro, specie gli uomini più
in vista), disse: «Non vorrete davvero, Romani, combattere la guerra
contro i Latini e i loro alleati con un solo squadrone di cavalleria? Cosa
faranno nel frattempo i consoli e i due eserciti?». «Arriveranno a tempo
debito», replicò Manlio, «e con loro arriverà anche Giove in persona, ben
più forte e potente, testimone degli accordi che avete violato. Se al lago
Regillo vi abbiamo massacrato fino alla nausea, anche qui faremo
sicuramente in modo che non vi stia troppo a cuore l'affrontarci in
battaglia». Udite queste parole, Gemino avanzò in sella poco oltre la
linea dei compagni e domandò: «Mentre aspetti che venga quel giorno nel
quale farete il grande sforzo di muovere l'esercito, non vuoi misurarti tu
in persona con me, in modo che già dall'esito del nostro duello la gente
veda quanto sia superiore un cavaliere latino a uno romano?». L'indole
tracotante del giovane venne spinta dal risentimento o forse dalla
vergogna di rifiutare la sfida, o ancora dalla forza irresistibile del
destino. E così, dimentico dell'ordine del padre e del proclama del
console, si gettò sconsideratamente in un duello nel quale non avrebbe
fatto molta differenza se avesse vinto o perso. Dopo aver fatto
allontanare gli altri cavalieri come per far spazio a uno spettacolo, i
due sfidanti spronarono i cavalli l'uno contro l'altro nel tratto di
pianura che si apriva tra di loro. Lanciatisi all'assalto con le aste
pronte a colpire, la cuspide di Manlio sfiorò l'elmo dell'avversario,
mentre l'asta di Mecio andò a finire oltre il collo del cavallo di Manlio.
Poi, dopo aver girato i cavalli, Manlio, che era stato il primo a
rialzarsi per il secondo assalto, riuscì a piantare la punta del
giavellotto tra le orecchie del cavallo. Per il dolore della ferita,
l'animale si alzò sulle zampe anteriori e scosse la testa con violenza,
sbalzando di sella il cavaliere. Questi, appoggiandosi all'asta e allo
scudo, cercava di rimettersi in piedi dopo la pesante caduta, quando
Manlio lo trapassò col giavellotto che, uscito dal fianco dopo essere
entrato dalla gola, inchiodò a terra l'avversario. Quindi, raccolte le
spoglie, ritornò dai compagni di squadra che lo accolsero con un urlo di
gioia e lo accompagnarono all'accampamento, dove il giovane cercò
immediatamente la tenda del padre, senza sapere cosa il destino avesse in
serbo per lui, se cioè la lode oppure la punizione.
«Padre», disse «perché tutti mi ritengano veramente figlio tuo, io ti
porto queste spoglie equestri, strappate al corpo di un nemico che mi
aveva sfidato a duello». Non appena il console sentì queste parole,
distolse immediatamente lo sguardo dal figlio e ordinò al trombettiere di
suonare l'adunata. Raccoltisi gli uomini, disse: «Poiché tu, Tito Manlio,
senza portare rispetto né all'autorità consolare né alla patria potestà,
hai abbandonato il tuo posto, contro i nostri ordini, per affrontare il
nemico, e con la tua personale iniziativa hai violato quella disciplina
militare grazie alla quale la potenza romana è rimasta tale fino al giorno
d'oggi, mi hai costretto a scegliere se dimenticare lo Stato o me stesso,
se dobbiamo noi essere puniti per la nostra colpa o piuttosto è il paese a
dover pagare per le nostre colpe un prezzo tanto alto. Stabiliremo un
precedente penoso, che però sarà d'aiuto per i giovani di domani. Quanto a
me, sono toccato non solo dall'affetto naturale che un padre ha verso i
figli, ma anche dalla dimostrazione di valore che ti ha fuorviato con una
falsa parvenza di gloria. Ma visto che l'autorità consolare dev'essere o
consolidata dalla tua morte oppure del tutto abrogata dalla tua impunità,
e siccome penso che nemmeno tu, se in te c'è una goccia del mio sangue,
rifiuteresti di ristabilire la disciplina militare messa in crisi dalla
tua colpa, va, o littore, e legalo al palo».
Di fronte a un ordine tanto crudele rimasero tutti senza fiato:
ciascuno, frenato più dalla paura che dalla disciplina, guardava alla
scure come fosse rivolta contro se stesso. Ma quando si riebbero dallo
stupore che li aveva tenuti im-mobili in silenzio, all'improvviso, mentre
il sangue sgorgava dal collo reciso, le loro voci esplosero in un lamento
così incontrollabile da non risparmiare né gemiti né maledizioni; e dopo
aver coperto con le spoglie il corpo del giovane, costruirono una pira al
di là della trincea e lo cremarono con tutti gli onori funebri che la cura
dei soldati gli potesse offrire. E gli 'ordini di Manlio' non solo
suscitarono orrore in quella precisa circostanza, ma costituirono anche
per i giorni a venire un esempio di crudele severità.
8 Tuttavia la brutalità di quella punizione rese più obbedienti i
soldati, e non solo i servizi di guardia, i turni di sentinella e di
picchetto vennero dovunque effettuati con maggiore attenzione, ma
quell'eccesso di severità fu d'aiuto anche nella parte finale della lotta,
quando si arrivò allo scontro in campo aperto. Quella battaglia, però,
ricordò molto da vicino una guerra civile: a tal punto i Latini non
differivano in nulla dai Romani se non per il valore.
In passato i Romani avevano utilizzato piccoli scudi rotondi. Ma in
séguito, quando l'esercito venne pagato, li rimpiazzarono con grandi scudi
rettangolari. E ciò che prima era stata una falange simile a quella dei
Macedoni, con gli anni iniziò a essere una linea di battaglia formata da
gruppi di manipoli, con le retroguardie inquadrate in più compagnie,
ciascuna delle quali aveva sessanta soldati, due centurioni e un alfiere.
In prima linea c'erano gli hastati, organizzati in quindici
manipoli l'uno a ridosso dell'altro. Ogni manipolo constava di venti
soldati armati alla leggera, mentre il resto portava lo scudo pesante.
Inoltre erano definiti leves gli uomini che portavano soltanto
l'asta e i giavellotti pesanti. Questa prima linea dello schieramento era
formata dal fiore della gioventù in età militare. Alle loro spalle c'era
una linea costituita dallo stesso numero di manipoli, a loro volta formati
da uomini più maturi e chiamati principes. Provvisti tutti di
grandi scudi rettangolari, essi erano dotati delle armi migliori. A questa
formazione di trenta manipoli veniva dato il nome di antepilani,
perché dietro alle insegne erano schierate altre quindici compagnie,
ciascuna delle quali risultava formata da tre plotoni, che a loro volta
prendevano il nome di pili. Ogni manipolo, costituito da
centottantasei effettivi, aveva tre insegne. Dalla prima insegna
dipendevano i triarii, soldati di provato valore; dalla seconda i
rorarii, meno validi per età e precedenti sul campo, mentre dalla
terza gli accensi, cioè dei soldati su cui si poteva fare scarso
affidamento e che proprio per questo motivo venivano relegati nelle
estreme retrovie. Quando l'esercito veniva inquadrato in questa
formazione, i primi a entrare nel vivo dello scontro erano gli
hastati. Se questi ultimi non riuscivano a piegare la resistenza
del nemico, si ritiravano a passo lento e andavano a occupare gli spazi
vuoti tra i manipoli dei principes, cui toccava allora il cómpito
di sfondare, avendo alle spalle gli hastati. I triarii
stavano fermi presso le loro insegne con la gamba sinistra in avanti, gli
scudi appoggiati alle spalle, le aste piantate in terra con la punta
rivolta in alto, dando così l'impressione che la loro linea fosse protetta
dalle punte di una palizzata. Se poi anche i principes non
combattevano in maniera sufficientemente efficace, dalla prima linea
retrocedevano a poco a poco fino all'altezza dei triarii (di qui il
proverbio 'arrivare ai triarii', in uso per indicare che le cose
inclinano al peggio). I triarii, alzandosi a combattere dopo aver
raccolto negli spazi vuoti tra le loro unità i principes e gli
hastati, serravano sùbito le fila chiudendo ogni passaggio; poi,
senza più alcuna protezione alle spalle, caricavano il nemico a ranghi
compatti. Questa manovra incuteva enorme terrore negli avversari che,
gettandosi all'inseguimento di chi credevano ormai sconfitto,
all'improvviso si trovavano davanti agli occhi una nuova schiera più
numerosa della precedente. Di solito venivano arruolate anche quattro
legioni costituite da cinquemila fanti ciascuna, più trecento cavalieri
per ogni legione.
Un contingente di analoghe proporzioni veniva poi aggiunto con la leva
effettuata tra i Latini, che in quella circostanza erano però nemici dei
Romani e avevano schierato la loro linea di battaglia seguendo lo stesso
schema di formazione. Ed i Latini sapevano che in battaglia si sarebbero
scontrati non solo i manipoli con i manipoli, gli hastati con gli
hastati, i principes con i principes, ma - ammesso
che gli schieramenti in campo non subissero modifiche - anche i centurioni
con i centurioni. In entrambi gli eserciti il primipilo si trovava tra i
triarii. E se il Romano non era eccessivamente forte dal punto di
vista fisico, ma dotato di coraggio e di grande esperienza in campo
militare, il Latino era un combattente di prima qualità, aiutato da un
fisico possente. I due si conoscevano benissimo perché avevano sempre
comandato compagnie dello stesso rango. Il centurione romano, non avendo
abbastanza fiducia nella propria forza fisica, prima di lasciare Roma
aveva ottenuto dai consoli il permesso di scegliersi un centurione a lui
subordinato, che lo proteggesse dall'avversario che gli era destinato. E
il giovane prescelto, scontratosi in battaglia con il centurione latino,
ebbe la meglio su di lui.
La battaglia venne combattuta non lontano dalle pendici del Vesuvio,
nel punto in cui la strada portava al Veseri.
9 I consoli romani offrirono sacrifici prima di guidare le loro
truppe all'assalto. A quanto si racconta, l'aruspice avrebbe fatto notare
a Decio che il fegato era inciso nella parte famigliare, ma che la vittima
era ugualmente gradita agli dèi e che Manlio aveva ottenuto auspici quanto
mai favorevoli. «Allora sta bene», disse Decio «il collega ha ricevuto dei
segni favorevoli». Nella formazione già descritta, i Romani avanzarono sul
campo di battaglia. Manlio guidava l'ala destra, Decio la sinistra.
All'inizio le forze e l'ardore dei combattenti erano uguali da entrambe le
parti. Ma dopo qualche tempo gli hastati romani, non riuscendo a
reggere la pressione dei Latini, dovettero riparare tra i
principes. In questo momento di smarrimento, il console Decio
chiamò Marco Valerio a gran voce e gli gridò: «Abbiamo bisogno dell'aiuto
degli dèi, Marco Valerio. Avanti, pubblico pontefice del popolo romano,
dettami le parole di rito con le quali devo offrire la mia vita in
sacrificio per salvare le legioni». Il pontefice gli ordinò di indossare
la toga pretesta, di coprirsi il capo e, toccandosi il mento con una mano
fatta uscire da sotto la toga, di pronunciare le seguenti parole, ritto,
con i piedi su un giavellotto: «Giano, Giove, padre Marte, Quirino,
Bellona, Lari, dèi Novensili, dèi Indigeti, dèi nelle cui mani ci troviamo
noi e i nostri nemici, dèi Mani, io vi invoco, vi imploro e vi chiedo
umilmente la grazia: concedete benigni ai Romani la vittoria e la forza
necessaria e gettate paura, terrore e morte tra i nemici del popolo romano
e dei Quiriti. Come ho dichiarato con le mie parole, così io agli dèi Mani
e alla Terra, per la repubblica del popolo romano dei Quiriti, per
l'esercito, per le legioni e per le truppe ausiliarie del popolo romano
dei Quiriti, offro in voto le legioni e le truppe ausiliarie del nemico
insieme con me stesso».
Rivolta questa invocazione, ordinò ai littori di recarsi da Tito Manlio
e di annunciare quanto prima al suo collega che egli si era offerto in
sacrificio per il bene dell'esercito. Cintasi poi la toga con il cinto
gabino, saltò a cavallo con le armi in pugno e si gettò in mezzo ai
nemici, apparendo a entrambi gli eserciti con un aspetto ben più maestoso
di quello umano, come fosse stato inviato dal cielo per placare ogni ira
degli dèi e allontanare dai compagni la disfatta rovinosa, respingendola
sui nemici. Fu per questo che il suo assalto seminò panico e terrore nelle
prime file dei Latini, arrivando poi a contagiare l'intero esercito. Era
evidentissimo che, dovunque si dirigesse in sella al suo cavallo, lì i
nemici si ritraevano spaventati come fossero stati colpiti da una meteora
letale. Ma quando poi cadde sommerso da una pioggia di frecce, da quel
momento non ci furono più dubbi sullo sbandamento delle coorti latine che
si diedero ovunque alla fuga, lasciando dietro di sé il deserto. Nello
stesso istante i Romani - liberati dal peso della superstizione -, come se
solo allora fosse stato dato il segnale, si lanciarono all'assalto,
riaccendendo la mischia. Infatti anche i rorarii si fecero sotto,
tra gli antepilani, aggiungendo le loro forze a quelle di
hastati e principes, mentre i triarii, ancora
inginocchiati sulla gamba destra, aspettavano che il console desse loro il
segnale di alzarsi.
10 Mentre la battaglia continuava e in alcuni punti i Latini
stavano avendo la meglio grazie alla superiorità numerica, il console
Manlio venne a conoscenza della fine del collega e, dopo aver onorato con
il pianto e le giuste lodi - come richiedevano il senso del dovere e la
pietà - una morte così gloriosa, rimase per un attimo nel dubbio se fosse
già giunto il tempo di una sortita dei triarii. Ma poi, pensando
fosse preferibile tenerli in serbo per l'attacco finale, ordinò agli
accensi di portarsi dalle retrovie al di là delle insegne. Non
appena essi presero posizione, ecco che i Latini, convinti che gli
avversari avessero fatto la stessa mossa, mandarono avanti i loro
triarii, i quali, pur sfiniti, con le lance rotte o spuntate, dopo
aver combattutto con grande accanimento per qualche tempo, riuscirono a
respingere il nemico; e credevano di aver già avuto la meglio e di aver
raggiunto l'ultima linea avversaria, quando il console disse ai
triarii: «Ora alzatevi e affrontate freschi come siete il nemico
sfinito, ricordandovi della patria, dei genitori, di mogli e figli, e del
console caduto per la vostra vittoria». Quando i triarii si
alzarono, pieni di energie, con le loro armi luccicanti, nuova schiera
spuntata all'improvviso, accolsero gli antepilani negli spazi vuoti
tra le loro schiere e levando il grido di guerra seminarono lo scompiglio
tra le prime file dei Latini. Colpendoli in faccia con le aste e
massacrandone il fiore della gioventù, penetrarono attraverso gli altri
manipoli come se questi non fossero armati, frantumando i loro cunei con
un massacro di tali proporzioni che a stento un quarto dei nemici
sopravvisse. Anche i Sanniti, schierati a distanza ai piedi delle
montagne, terrorizzarono i Latini.
Tra tutti i cittadini e gli alleati, la gloria principale di quella
vittoria fu dei consoli: uno dei quali aveva attirato unicamente verso la
propria persona tutte le minacce e le maledizioni degli dèi celesti e
infernali, mentre l'altro aveva dimostrato in battaglia un coraggio e
un'accortezza tali che, quanti tra Romani e Latini lasciarono un resoconto
della battaglia concordarono agevolmente sul fatto che qualunque fosse
stata la parte guidata da Tito Manlio, a quella sarebbe sicuramente andata
la vittoria. I Latini in fuga ripararono a Minturno. Il loro accampamento
venne preso dopo la battaglia e lì molti uomini - in buona parte Campani -
furono catturati e passati per le armi. Il corpo di Decio non venne
recuperato quel giorno, perché la notte interruppe le ricerche. Fu
rinvenuto il giorno dopo sotto un mucchio di frecce in mezzo all'enorme
massa di nemici caduti. Il collega gli tributò onoranze funebri adeguate
alla morte toccatagli.
Mi sembra opportuno aggiungere che il console, il dittatore o il
pretore che offra in sacrificio le legioni nemiche non deve
necessariamente immolare se stesso, ma può scegliere di offrire un
cittadino incluso in una legione romana regolarmente arruolata e scelto a
suo piacimento. Se l'uomo che viene offerto muore, è segno che le cose
riusciranno per il meglio. Se invece non muore, allora una sua immagine
viene sotterrata a sette o più piedi di pro-fondità nella terra, e viene
offerta in sacrificio una vittima espiatoria. E al magistrato romano non
sarà consentito di salire sopra il punto in cui l'immagine è stata
sotterrata. Se poi vuole offrire se stesso in voto, come fece Decio, e non
muore, non può offrire sacrifici di natura né pubblica né privata senza
macchiarsi di una colpa, sia che ricorra a una vittima, sia che si serva
di un'altra offerta di suo piacimento. Colui che si offre in voto ha il
diritto di dedicare le proprie armi a Vulcano o a qualunque altra divinità
desideri. È considerata una violazione sacrilega che il nemico si
impossessi del giavellotto sul quale è stato in piedi il console nell'atto
di pronunciare la sua invocazione. Nel caso in cui la cosa si verifichi,
bisogna placare l'ira di Marte offrendo in sacrificio una pecora, un
maiale e un toro.
11 Anche se la memoria di ogni usanza sacra e profana è stata
cancellata dal favore che gli uomini tributano alle cose nuove e
straniere, preferendole a quelle antiche e trasmesse dagli antenati, ho
ritenuto che non fosse fuori luogo riferire queste procedure con le parole
con le quali sono state formulate e tramandate.
Presso alcuni autori ho trovato che fu soltanto a battaglia conclusa
che i Sanniti intervennero in aiuto dei Romani, dopo aver atteso l'esito
dello scontro. E anche che i Latini erano già stati messi in fuga quando
gli abitanti di Lavinio, che continuavano a perdere tempo in discussioni
sul da farsi, portarono finalmente il loro aiuto. E ricevuta la notizia
della disfatta patita dai Latini quando ormai la loro avanguardia e parte
dell'esercito erano usciti dalle porte, con una rapida inversione di
marcia sarebbero rientrati in città, poiché il loro pretore di nome
Milonio - a quanto si racconta - avrebbe ricordato ai suoi che quella
breve sortita sarebbe costata cara ai Romani. I Latini sopravvissuti alla
battaglia, dispersi in varie direzioni, si riunirono in un unico nucleo e
si rifugiarono nella città di Vescia. Lì, nelle assemblee che essi
tenevano, il loro comandante in capo Numisio affermava che in realtà
l'esito della guerra era stato incerto, che entrambe le parti avevano
subito un ugual numero di perdite e che i Romani avevano vinto soltanto
nominalmente, trovandosi invece, di fatto, nella condizione di sconfitti.
Le tende di entrambi i consoli erano in lutto: una per l'uccisione del
figlio, l'altra per la morte del console che si era offerto in voto. Il
loro intero esercito era stato fatto a pezzi, hastati e
principes massacrati, la carneficina aveva coinvolto
dall'avanguardia alla retroguardia, e soltanto alla fine i triarii
erano riusciti a ristabilire le sorti della battaglia. Anche se le forze
latine erano state ugualmente decimate, tuttavia, per fornire nuovi
rinforzi, tanto il Lazio quanto la terra dei Volsci erano più vicini di
Roma. Perciò, se sembrava loro opportuno, egli avrebbe rapidamente messo
insieme dei giovani in età militare reclutandoli dalle genti del Lazio e
da quelle dei Volsci, sarebbe ritornato a Capua con un esercito pronto a
combattere: il suo arrivo inatteso avrebbe gettato nello scompiglio i
Romani, i quali in quel momento tutto si aspettavano fuorché una
battaglia. Vennero così inviate delle lettere piene di menzogne in tutto
il Lazio e nella terra dei Volsci: poiché quanti non avevano preso parte
alla battaglia erano pronti a credere ciecamente al messaggio in esse
contenuto, venne rapidamente messo insieme, da tutte le parti, un esercito
raccogliticcio.
A questo contingente andò incontro presso Trifano - tra Sinuessa e
Minturno - il console Torquato. Entrambi gli eserciti, senza neppure aver
scelto un punto per porre l'accampamento, ammassate le salmerie, vennero a
battaglia e posero fine alla guerra. Le truppe nemiche subirono infatti
una tale decimazione che, quando il console guidò il suo esercito
vincitore a devastare il territorio dei Latini, questi ultimi si
consegnarono dal primo all'ultimo, e i Campani seguirono il loro esempio.
Il Lazio e Capua vennero privati del territorio. Il territorio dei Latini,
invece, in aggiunta a quello dei Privernati e a quello di Falerno
(appartenuto al popolo campano) fino al fiume Volturno, venne diviso tra
la plebe romana. A ciascun cittadino furono assegnati due iugeri nel
Lazio, in modo da aggiungere un terzo di iugero nel territorio di
Priverno, mentre in quello di Falerno vennero assegnati tre iugeri di
terra a testa con in più un quarto di iugero dato come compenso per la
lontananza. Tra i Latini non incorsero in punizioni i Laurenti, tra i
Campani i cavalieri, in quanto non avevano preso parte all'ammutinamento.
Fu data disposizione di rinnovare il trattato coi Laurenti, e da quel
giorno è stato rinnovato ogni anno dieci giorni dopo le ferie latine. Ai
cavalieri campani venne concessa la cittadinanza romana e per commemorare
la cosa venne affissa una tavoletta di bronzo nel tempio di Castore a
Roma. Inoltre venne ordinato al popolo campano di pagare a ciascuno di
essi (si trattava di mille e seicento uomini) un tributo annuo di
quattrocentocinquanta denari.
12 Dopo aver portato a termine la guerra in questa maniera e aver
distribuito ricompense e punizioni in relazione ai meriti di ciascuno,
Tito Manlio rientrò a Roma. Si dice che al suo arrivo gli andarono
incontro soltanto gli anziani: i giovani, allora come per il resto dei
suoi giorni, lo odiarono e lo maledirono.
Gli Anziati effettuarono incursioni nei territori di Ostia, Ardea e
Solonio. Il console Manlio, non avendo potuto seguire di persona questa
campagna militare per ragioni di salute, nominò dittatore Lucio Papirio
Crasso, il quale era allora in carica come pretore. Egli nominò a sua
volta maestro di cavalleria Lucio Papirio Cursore. Contro gli Anziati il
dittatore non compì nulla di straordinario, pur essendo rimasto accampato
per alcuni mesi nel loro territorio.
A un anno reso memorabile dalla vittoria su tanti popoli così potenti,
nonché dalla morte gloriosa di uno dei due consoli e dalla severità
dell'altro (tanto crudele quanto famosa nel corso dei secoli), seguì il
consolato di Tiberio Emilio Mamercino e di Quinto Publilio Filone, i quali
non ebbero tali opportunità e si preoccuparono più dei propri casi
personali e degli interessi delle rispettive fazioni che del bene della
patria. Adirati per la confisca del territorio, i Latini si ribellarono,
ma vennero travolti nella pianura Fenectana dai consoli i quali tolsero
loro l'accampamento. Mentre Publilio, sotto il cui comando e i cui auspici
era stata condotta la campagna, stava accettando la resa dei popoli latini
i cui soldati erano caduti in quello scontro, Emilio condusse l'esercito a
Pedo. Gli abitanti di questa città erano sostenuti dai Tiburtini, dai
Prenestini e dai Veliterni, mentre rinforzi erano anche arrivati da
Lanuvio e da Anzio. Anche se i Romani si erano dimostrati superiori in più
di una battaglia, ciò non ostante dovevano ancora essere avviate le
operazioni per espugnare la città stessa di Pedo e gli accampamenti dei
popoli alleati che si trovavano in prossimità della città. All'improvviso
il console, appreso che al suo collega era stato concesso il trionfo,
lasciò a metà le operazioni e rientrò a Roma pretendendo anche per se
stesso il trionfo ancor prima di aver ottenuto la vittoria. I senatori,
urtati da questa smaniosa ambizione, gli negarono il trionfo fino a quando
non avesse conquistato Pedo o ne avesse ottenuto la resa; e da quel
momento Emilio, risentito nei confronti del senato, svolse il consolato
con lo spirito di un tribuno sedizioso. Infatti, fino a quando rimase in
carica, non cessò mai di calunniare i senatori di fronte al popolo, senza
che il collega - anch'egli di estrazione plebea - gli opponesse la minima
resistenza. Offriva terreno alle accuse il fatto che la divisione
dell'agro Latino e di quello Falerno era stata iniqua per i plebei. E
quando il senato, desiderando porre fine al potere dei consoli, ordinò di
nominare un dittatore da opporre ai Latini ribelli, Emilio, che in quel
momento deteneva i fasci, nominò dittatore il collega, il quale a sua
volta scelse Giunio Bruto come maestro di cavalleria. Il dittatore fu
popolare sia per i discorsi pronunciati contro i patrizi, sia per aver
fatto approvare tre leggi più che vantaggiose per la plebe ma contrarie
alla nobiltà. La prima prevedeva che le deliberazioni della plebe
vincolassero tutti i Quiriti. La seconda che i senatori ratificassero le
proposte nei comizi centuriati prima che esse venissero sottoposte al
voto. La terza che almeno uno dei censori fosse plebeo (siccome si era
arrivati al punto da consentire che entrambi potessero essere plebei).
Stando all'opinione dei patrizi, nel corso di quell'anno il danno subito
in patria ad opera dei consoli e del dittatore era stato superiore
all'incremento di potenza conseguito all'esterno grazie alla loro vittoria
e alle loro imprese militari.
13 L'anno successivo, durante il consolato di Lucio Furio Camillo e
di Gaio Menio, i senatori, nell'intento di far ricadere su Emilio, console
dell'anno precedente, la responsabilità della negligenza commessa,
insistevano che si dovessero impiegare uomini, armi e ogni tipo di risorsa
per espugnare e distruggere Pedo. E i nuovi consoli furono obbligati ad
anteporre quella faccenda a qualsiasi altra questione e si misero in
marcia. Nel Lazio la situazione era adesso giunta al punto che i suoi
abitanti non riuscivano a tollerare né la pace né la guerra. Per la guerra
non avevano i mezzi necessari, mentre spregiavano la pace per l'amarezza
causata dalla confisca della terra. Sembrò opportuno accettare un
compromesso, restando all'interno delle città fortificate per evitare di
provocare i Romani e offrir loro il pretesto per aprire le ostilità: se
fosse poi arrivata la notizia che qualche città era in stato di assedio,
allora tutti i popoli dei dintorni avrebbero portato soccorso. Tuttavia
gli abitanti di Pedo furono aiutati da pochissime città. I Tiburtini e i
Prenestini, i cui territori erano vicini, raggiunsero Pedo. Gli Aricini, i
Lanuvini e i Veliterni si stavano unendo ai Volsci di Anzio presso il
fiume Astura quando vennero raggiunti e sconfitti dall'attacco improvviso
di Menio. Camillo affrontò i Tiburtini, il cui esercito era il più forte,
nei pressi di Pedo: anche se lo scontro fu ben più duro, l'esito risultò
ugualmente positivo. Durante la battaglia creò grandissima confusione
un'improvvisa sortita degli assediati. Ma Camillo, inviata parte
dell'esercito ad affrontarli, non li costrinse soltanto a rientrare
all'interno delle mura, ma avendoli sconfitti nel corso della medesima
giornata insieme con i loro alleati, ne catturò la città con l'uso di
scale. I consoli allora, grazie alle energie e al coraggio che infondeva
la presa di una città, decisero di guidare l'esercito vittorioso a domare
l'intero Lazio. E non si placarono fino a quando, dopo aver espugnato ogni
singola città o averne accettato la resa, non ebbero ridotto tutto il
Lazio in loro potere. Poi, distribuiti dei presidi armati nelle città
riconquistate, partirono al-la volta di Roma, per godere del trionfo loro
tributato all'unanimità. Al trionfo venne aggiunto un onore assai raro in
quei tempi: nel foro furono collocate statue che li raffiguravano a
cavallo.
Prima che venissero eletti i consoli dell'anno successivo, Camillo,
portando di fronte al senato la questione del trattamento da riservare ai
popoli latini, si espresse in questi termini: «Senatori, l'intervento in
armi nel Lazio si è ora concluso grazie al favore degli dèi e al valore
dei soldati. Gli eserciti nemici sono stati fatti a pezzi a Pedo e lungo
il fiume Astura. Tutte le città del Lazio e Anzio nel territorio dei
Volsci sono state catturate con la forza o costrette alla resa e adesso
sono sotto il controllo delle nostre guarnigioni armate. Ora resta da
stabilire, visto che con le loro ribellioni sono per noi motivo di
continua preoccupazione, in che modo sia possibile mantenerli tranquilli
con una pace duratura. Gli dèi immortali vi hanno concesso un controllo
così assoluto della situazione da lasciare nelle vostre mani il cómpito di
decidere se da questo momento in poi il Lazio debba esistere o meno. Avete
di conseguenza la possibilità di garantirvi la pace nel Lazio, sia con una
crudele repressione sia ricorrendo al perdono. Volete essere spietati con
quanti si sono arresi o sono stati sconfitti? Potete cancellare l'intera
regione, trasformando in lande desolate le terre dove avete arruolato uno
splendido esercito di alleati, del quale vi siete avvalsi in molte e
delicate guerre. Volete seguire l'esempio dei vostri antenati e accrescere
la potenza di Roma accogliendo i vinti tra i concittadini? Avete a portata
di mano l'occasione propizia per ingrandirvi conquistando enorme gloria.
Lo Stato di gran lunga più saldo è quello nel quale i sudditi obbediscono
con gioia. Ma qualunque sia la soluzione che avete in animo di adottare,
bisogna che lo facciate in fretta. State tenendo troppi popoli sospesi tra
la paura e la speranza. E bisogna che liberiate quanto prima voi stessi
dalle preoccupazioni nei loro confronti e ne predisponiate gli animi,
finché sono assorti nell'attesa, alla punizione o al beneficio. Il nostro
cómpito è stato quello di darvi il potere di decidere riguardo ogni
questione: il vostro è invece quello di stabilire che cosa sia meglio per
voi e per lo Stato».
14 I membri più autorevoli del senato elogiarono l'intervento del
console su una questione politica capitale, ma dissero che, siccome non
tutti i Latini si trovavano nella stessa situazione, si sarebbe potuta
prendere una decisione conforme ai meriti di ciascun popolo soltanto
esaminando i singoli casi uno per uno. Vennero così passati in rassegna e
valutati singolarmente. Ai Lanuvini venne concessa la cittadinanza e
furono lasciati i culti religiosi, a condizione però che il tempio e il
bosco di Giunone Salvatrice diventassero patrimonio comune degli abitanti
di Lanuvio e del popolo romano. Ad Aricini, Nomentani e Pedani venne
concessa la cittadinanza alle stesse condizioni dei Lanuvini. Ai Tuscolani
fu permesso di mantenere gli stessi diritti civili goduti in passato, e
l'accusa di aver riaperto le ostilità ricadde su pochi responsabili, senza
coinvolgere lo Stato. Il trattamento riservato ai Veliterni, un tempo
cittadini romani, fu severissimo per la loro recidività: non soltanto
furono rase al suolo le mura della loro città, ma i membri del senato ne
vennero allontanati e furono costretti a stabilirsi al di là del Tevere:
chi fosse stato colto al di qua del fiume avrebbe dovuto pagare una multa
fino a mille assi, e l'esecutore dell'arresto non avrebbe dovuto
rilasciare il prigioniero prima della riscossione della taglia. Nelle
terre dei senatori vennero inviati coloni, il cui arruolamento restituì a
Velitra la popolosità di un tempo. Anche ad Anzio fu insediata una nuova
colonia, dando per scontato che agli Anziati sarebbe stato concesso di
iscriversi di persona se lo avessero voluto. Le loro navi da guerra
vennero sequestrate, mentre al popolo di Anzio fu vietato il mare e
concessa la cittadinanza. Tiburtini e Prenestini vennero invece privati
del territorio, non soltanto per la recente accusa di ammutinamento
insieme con altre genti latine, ma anche per il fatto che, stanchi del
potere di Roma, si erano in passato alleati con i Galli, gente selvaggia.
Agli altri popoli latini venne negato il diritto di esercitare mutui
scambi commerciali, di contrarre matrimoni misti e di tenere delle
assemblee comuni. Ai Campani, per il valore dei loro cavalieri che non
avevano voluto ribellarsi assieme ai Latini, e agli abitanti di Fonda e di
Formia, attraverso il cui territorio il passaggio era sempre stato sicuro
e tranquillo, venne concessa la cittadinanza senza diritto di voto. Agli
abitanti di Cuma e di Suessula vennero concesse le stesse garanzie e le
stesse condizioni riservate a Capua. Parte delle navi degli Anziati venne
rimorchiata nei cantieri navali di Roma, parte fu invece data alle fiamme
e si decise di utilizzarne i rostri per ornare una tribuna costruita nel
foro, alla quale andò il nome di Rostri.
15 Durante il consolato di Gaio Sulpicio Longo e di Publio Elio
Peto, mentre tutti i popoli, più per la gratitudine guadagnata dai Romani
con la generosità di comportamento che per la paura suscitata dalla loro
potenza, non prendevano iniziative, scoppiò una guerra tra Sidicini e
Aurunci. Gli Aurunci, arresisi durante il consolato di Tito Manlio, da
allora non erano più stati motivo di preoccupazione, e proprio per questo
avevano tutti i diritti di aspettarsi assistenza militare da parte dei
Romani. Ma prima che i consoli avessero fatto uscire l'esercito da Roma -
il senato aveva infatti dato disposizione di intervenire a fianco degli
Aurunci - cominciò a circolare la voce che essi in preda al panico avevano
abbandonato la loro città e si erano rifugiati con mogli e figli a Suessa
- oggi detta Aurunca -, difendendosi con fortificazioni; la loro vecchia
città e le antiche mura erano state distrutte dai Sidicini. Il senato,
adirato per queste notizie con i consoli, le cui esitazioni avevano
consegnato gli alleati nelle mani del nemico, ordinarono di nominare un
dittatore. La scelta cadde su Gaio Claudio Regillense che scelse come
maestro di cavalleria Gaio Claudio Ortatore. Poi emerse uno scrupolo
religioso sulla validità della nomina del dittatore: siccome gli àuguri
dichiararono che la nomina non sembrava regolare, il dittatore e il
maestro di cavalleria rinunciarono alla carica.
Quell'anno la vestale Minucia, sospettata in prima istanza per un
abbigliamento non adeguato alla posizione occupata, e poi accusata di
fronte ai pontefici in base alla testimonianza di un servo, venne
costretta da un decreto pontificale ad astenersi dai riti sacri e a tenere
sotto la sua potestà gli schiavi. Processata e condannata, fu sepolta viva
nei pressi della porta Collina, a destra della strada lastricata nel campo
Scellerato (il cui nome credo derivi dalla trasgressione al voto di
castità perpetrata dalla vestale).
In quello stesso anno Quinto Publilio Filone fu il primo plebeo a
essere eletto pretore, non ostante il console Sulpicio si fosse opposto
alla nomina dichiarando di non essere disposto a considerare valida
quell'elezione. Ma il senato, non essendo riuscito a ostacolare l'accesso
dei candidati plebei alle più alte cariche, si mostrò meno ostinato nel
caso della pretura.
16 L'anno successivo, durante il consolato di Lucio Papirio Crasso
e Cesone Duilio, si segnala per una guerra non tanto importante quanto
priva di precedenti, combattuta con gli Ausoni, un popolo che abitava la
città di Cales. Essi avevano unito le proprie forze con quelle dei vicini
Sidicini: ma siccome l'esercito delle due genti era stato sconfitto in
un'unica battaglia tutt'altro che memorabile, a causa della vicinanza
delle rispettive città fu tanto pronto alla fuga quanto sicuro risultò il
rifugio trovato nella fuga stessa. Ciò non ostante i senatori non smisero
di curarsi di quella guerra, tante erano state le volte nelle quali i
Sidicini avevano scatenato autonomamente la guerra o erano scesi al fianco
di quanti l'avevano iniziata o ancora erano stati motivo di intervento
armato. Perciò fecero quanto era in loro potere perché Marco Valerio
Corvo, il più grande comandante del tempo, raggiungesse per la quarta
volta il consolato. A Corvo venne affiancato come collega Marco Atilio. E
per evitare di incorrere in qualche errore della sorte, chiesero ai
consoli di affidare la campagna a Corvo senza ricorrere al sorteggio. Dopo
aver assunto il comando dell'esercito vittorioso lasciato dai consoli
precedenti, partì alla volta di Cales dov'era scoppiata la guerra e, messi
in fuga al primo assalto i nemici che non si erano ancora ripresi dallo
scontro recente, si accinse ad attaccare le mura stesse della città. E per
parte loro i soldati erano così animosi da desiderare di scalare
immediatamente le mura: ripetevano di potercela fare. Ma Corvo, vedendo
che si trattava di un'impresa ardua, preferì portare a compimento il suo
piano facendo lavorare gli uomini piuttosto che mettendone in pericolo le
vite. Perciò fece costruire un terrapieno e tettoie mobili e ordinò di
avvicinare le torri al muro, anche se una circostanza fortunata ne rese
inutile l'impiego. Infatti Marco Fabio, un prigioniero romano, sfruttando
la negligenza delle guardie in un giorno di festa, si liberò dei ceppi e,
con una fune che aveva legato a un bastione del muro, si lasciò calare
lungo il muro stesso fino ai dispositivi d'assedio dei Romani e convinse
il generale ad attaccare i nemici storditi dal vino e dai festeggiamenti.
Gli Ausoni e la loro città vennero catturati con uno sforzo non certo
superiore a quello impiegato per sconfiggerli in battaglia. Il bottino
realizzato fu di notevoli proporzioni; lasciata a Cales una guarnigione
armata, le legioni furono ricondotte a Roma. Il console per decreto del
senato celebrò il trionfo, e, per far sì che anche Atilio avesse parte di
gloria, a entrambi i consoli venne data disposizione di condurre
l'esercito contro i Sidicini. Prima però - ricevuta disposizione in tal
senso dal senato -, nominarono un dittatore incaricato di presiedere le
elezioni: la loro scelta cadde su Lucio Emilio Mamercino, che nominò
maestro di cavalleria Quinto Publilio Filone. Dalle votazioni presiedute
dal dittatore risultarono eletti consoli Tito Veturio e Spurio Postumio. I
due magistrati, pur rimanendo ancora da affrontare parte della guerra con
i Sidicini, ciò non ostante, sperando di anticipare i desideri del popolo
e di rendere un servizio ai plebei, presentarono la proposta di insediare
una colonia a Cales. Il senato decise che per quell'iniziativa dovessero
essere iscritti cinquemila uomini, ed elesse Cesone Duilio, Tito Quinzio e
Marco Fabio triumviri col cómpito di fondare la colonia e di assegnare la
terra.
17 I nuovi consoli poi, preso in consegna l'esercito dai
predecessori, invasero il territorio nemico e lo devastarono, arrivando
fino alle mura della città. Lì, siccome i Sidicini avevano da soli
raccolto un grande esercito ed era probabile che avrebbero combattuto fino
all'ultimo sangue per difendere le loro ultime speranze, e siccome
circolava la voce che i Sanniti stessero per prendere le armi, i consoli,
su incarico del senato, nominarono dittatore Publio Cornelio Rufino e
maestro di cavalleria Marco Antonio. Emerse però uno scrupolo religioso
circa la regolarità della loro nomina e i due magistrati rinunciarono alla
carica; e poiché seguì una pestilenza, come se tutti gli auspici fossero
stati contagiati da quel vizio di forma, si passò a un interregno.
Alla fine Marco Valerio Corvo, quinto interré dall'inizio
dell'interregno, nominò consoli Aulo Cornelio (al secondo mandato) e Gneo
Domizio. Mentre regnava dovunque la pace, la notizia di una guerra
scatenata dai Galli portò lo scompiglio e indusse all'elezione di un
dittatore. La scelta cadde su Marco Papirio Crasso; maestro di cavalleria
fu nominato Publio Valerio Publicola. Mentre essi stavano realizzando la
leva militare con maggiore fermezza di quanta non ne avrebbero impiegata
per una guerra con un popolo confinante, i ricognitori inviati in zona
tornarono riferendo che tra i Galli tutto era tranquillo. Anche il Sannio,
già da due anni, si sospettava fosse percorso da nuove ondate di rivolta.
Per questo l'esercito romano non venne richiamato dal territorio dei
Sidicini. Ma un'altra guerra, scatenata dal re dell'Epiro Alessandro,
deviò i Sanniti nel territorio dei Lucani. I due popoli si scontrarono in
campo aperto con il re mentre questi stava risalendo da Paestum. La
vittoria andò ad Alessandro, il quale stipulò un trattato con i Romani. È
dubbio che l'avrebbe rispettato se il resto della sua campagna avesse
avuto la stessa fortuna.
Nel corso dello stesso anno si tenne il censimento, in cui figurarono
anche i nuovi cittadini; il loro numero portò all'aggiunta di due nuove
tribù, la Mecia e la Scapzia. I censori che le aggiunsero furono Quinto
Publilio Filone e Spurio Postumio. Gli abitanti di Acerra divennero Romani
a séguito di una proposta presentata dal pretore Lucio Papirio e volta a
garantire loro la cittadinanza senza diritto di voto. Furono questi i
fatti accaduti quell'anno a Roma e all'esterno.
18 L'anno seguente fu terribile sia per l'inclemenza del tempo sia
per le colpe commesse dagli uomini. Consoli erano M. Claudio Marcello e C.
Valerio. Negli annali ho variamente trovato Flacco e Potito come
soprannomi attribuiti a Valerio: quale sia la verità non è però molto
importante. La notizia che vorrei sinceramente fosse falsa (e non tutti
gli autori la riportano) è questa: che gli uomini la cui morte rese
memorabile l'anno morirono non per la pestilenza, ma avvelenati. Ciò non
ostante, siccome la notizia ci è stata tramandata, merita di essere
riportata onde non togliere credibilità a qualche storico. Mentre i
personaggi più in vista della città contraevano la medesima malattia e
morivano quasi tutti nella stessa maniera, un'ancella si presentò
all'edile curule Quinto Fabio Massimo dicendo che gli avrebbe rivelato la
causa del contagio che affliggeva i cittadini se egli le avesse garantito
che quella denuncia non le avrebbe arrecato danno. Fabio riferì
immediatamente la cosa ai consoli i quali la riportarono al senato, e alla
donna venne data la garanzia richiesta, con l'approvazione generale dei
senatori. Allora l'ancella rivelò che la città era in preda all'epidemia
per colpa di criminose pratiche femminili, e che i veleni erano opera di
alcune matrone: se l'avessero seguita, sùbito, le avrebbero potute
cogliere in flagrante. I senatori seguirono la delatrice e trovarono delle
donne impegnate a cuocere filtri, e altre pozioni nascoste. Portato il
materiale nel foro e convocate una ventina di matrone nelle cui case le
pozioni erano state rinvenute, due di esse, Cornelia e Sergia - entrambe
di nobile famiglia - sostennero che si trattava di farmaci salutari. Ma
poiché la delatrice confutava le loro affermazioni, vennero costrette a
bere i preparati in modo da dimostrare al cospetto di tutti che le accuse
dell'ancella erano false. Presero tempo per consultarsi e, in disparte,
riferirono la cosa alle altre donne; poiché anche queste non erano
contrarie a ingerire le pozioni, bevvero tutte d'un fiato, al cospetto del
popolo, e morirono per le loro stesse pratiche delittuose. Le loro
ancelle, immediatamente arrestate, fecero i nomi di un gran numero di
matrone, centosettanta delle quali vennero giudicate colpevoli. Prima di
quel giorno non si erano mai tenuti a Roma processi per avvelenamento. La
cosa fu ritenuta un prodigio e venne considerata il prodotto di menti
folli più che criminali. E così, siccome negli annali veniva riportato che
in passato, in occasione di secessioni della plebe, il dittatore aveva
piantato un chiodo e che le menti degli uomini uscite di senno per la
discordia erano tornate in sé grazie a quel rito di espiazione, si decise
di nominare un dittatore per piantare il chiodo. La scelta cadde su Gneo
Quintilio, il quale nominò maestro di cavalleria Lucio Valerio. Dopo aver
piantato il chiodo, i due magistrati rinunciarono alla carica.
19 Vennero eletti consoli Lucio Papirio Crasso (al suo secondo
consolato) e Lucio Plauzio Venoce. All'inizio del-l'anno arrivarono a Roma
degli ambasciatori dei Volsci di Fabrateria e dei Lucani per implorare la
protezione di Roma. Promisero che, nel caso in cui fossero stati difesi
dai Sanniti, sarebbero diventati leali e obbedienti sudditi del popolo
romano. Il senato inviò allora una delegazione ai Sanniti per ammonirli di
astenersi da incursioni nei territori di quei popoli. L'ambasceria
raggiunse lo scopo, non tanto perché i Sanniti desiderassero la pace,
quanto piuttosto perché non erano ancora pronti alla guerra.
Quello stesso anno vide l'inizio della guerra con i Privernati, i cui
alleati erano gli abitanti di Fonda e il cui comandante era, anch'egli, di
Fonda. Si trattava di Vitruvio Vacco, uomo noto non solo in patria, ma
anche a Roma, dove possedeva una casa sul Palatino, nel punto che, quando
l'edificio venne abbattuto e il terreno confiscato, prese il nome di
prati di Vacco. A contrastarlo nella sua devastazione dei territori
di Sezia, Norba e Cora venne inviato Lucio Papirio, che si accampò non
lontano dell'avversario. Vitruvio non aveva né la fermezza d'animo di
rimanere al riparo della trincea di fronte a un nemico ben più forte, né
il coraggio di combattere lontano dall'accampamento. Quasi tutto il suo
contingente si trovava schierato di fronte all'ingresso dell'accampamento
e i suoi soldati si stavano preoccupando più della fuga che della
battaglia o del nemico, quando Vacco iniziò una battaglia disperata senza
dimostrare né prudenza né audacia. Sconfitto con non troppa fatica e in
maniera che non lasciava dubbi, poiché il suo accampamento era vicino e
facilmente raggiungibile, riuscì agevolmente a evitare gravi perdite.
Durante la battaglia non morì quasi nessuno; solo pochi della retroguardia
in fuga persero la vita mentre stavano riversandosi nell'accampamento.
Alle prime luci della sera raggiunsero Priverno con una marcia affannosa,
per cercare nelle mura della città una protezione più sicura della
trincea.
Da Priverno l'altro console, Plauzio, saccheggiate le campagne dei
dintorni e conquistato grande bottino, guidò l'esercito nel territorio di
Fonda. Mentre ne stava varcando i limiti, gli andò incontro il senato di
Fonda, i cui membri dissero di essere venuti a rivolgere una preghiera non
a favore di Vitruvio e di quanti lo avevano seguito, ma del popolo di
Fonda che Vitruvio stesso aveva dichiarato estraneo alla guerra quando si
era rifugiato a Priverno invece che nella sua città natale. Perciò era a
Priverno che bisognava cercare e punire i nemici del popolo romano, i
quali si erano ribellati contemporaneamente ai Fondani e ai Romani,
dimenticandosi dell'una e dell'altra patria. Gli abitanti di Fonda si
mantenevano pacifici, avevano sentimenti di amicizia nei confronti dei
Romani e dimostravano gratitudine per la cittadinanza ricevuta.
Implorarono il console di astenersi dal fare guerra contro un popolo
innocente: le campagne, la città, le loro stesse persone e quelle delle
mogli e dei figli erano e sarebbero state sottomesse all'autorità di Roma.
Il console, elogiati gli abitanti di Fonda e spedita a Roma una lettera
con la quale annunciava che quella città si manteneva leale, si diresse
verso Priverno. Claudio scrive che prima di partire il console fece
giustiziare i capi della rivolta, inviando a Roma in catene
trecentocinquanta di quelli che vi avevano preso parte. Ma il senato non
avrebbe accettato la resa, convinto che il popolo di Fonda volesse
liberarsi di ogni responsabilità facendo ricadere la punizione sui
cittadini poveri e di bassa estrazione.
20 Mentre Priverno era assediata dai due eserciti consolari,
l'altro console venne richiamato a Roma per presiedere le elezioni. In
quell'anno vennero allestiti per la prima volta dei recinti per i cavalli
nel circo.
Le preoccupazioni per la guerra contro Priverno non si erano ancora
esaurite, quando arrivò la grave notizia di una sollevazione dei Galli: un
annunzio che quasi mai veniva trascurato dai senatori. E così i due nuovi
consoli Lucio Emilio Mamercino e Gaio Plauzio, lo stesso giorno in cui
erano entrati in carica (le calende di luglio), ricevettero disposizione
di dividere tra loro le missioni: a Mamercino, cui era toccata la campagna
contro i Galli, fu ordinato di tenere la leva militare senza concedere
alcun tipo di esenzione. Anzi, si racconta che vennero chiamati in massa
anche gli operai e gli artigiani sedentari, gente per nulla adatta al
servizio militare. A Veio venne concentrato un enorme esercito, per
muovere di lì contro i Galli. Si decise però di non spingersi oltre, per
timore che il nemico ingannasse tutti dirigendosi a Roma per un'altra via.
E così, siccome dopo pochi giorni fu abbastanza evidente che i Galli
restavano per ora tranquilli, tutta la forza venne concentrata su
Priverno.
Da questo momento in poi si ha una duplice versione dei fatti: alcuni
storici sostengono che la città venne presa con la forza e che Vitruvio fu
catturato vivo; altri invece che, prima dell'assalto finale, il popolo
stesso uscì dalle mura e recando il ramoscello della pace si arrese nelle
mani del console, consegnando Vitruvio. Il senato, consultato in merito al
destino di Vitruvio e dei Privernati, ordinò al console Plauzio di radere
al suolo le mura di Priverno, di lasciarvi una robusta guarnigione e di
tornare a Roma in trionfo. Quanto a Vitruvio avrebbe dovuto rimanere in
carcere fino al ritorno del console, e quindi essere fustigato a morte. Fu
disposto che la sua casa sul Palatino venisse rasa al suolo, mentre i suoi
beni vennero consacrati a Semone Sango. Col denaro ricavato dalla loro
vendita vennero forgiati anelli di bronzo che furono collocati nel
santuario di Semone, di fronte al tempio di Quirino. Quanto al senato di
Priverno, fu deciso che tutti i senatori rimasti in città dopo la
defezione da Roma avrebbero dovuto stabilirsi al di là del Tevere, alle
stesse condizioni riservate ai Veliterni. Prese queste decisioni, fino al
momento del trionfo di Plauzio non si parlò più dei Privernati. Dopo il
trionfo il console fece uccidere Vitruvio e i suoi complici; pensando che
di fronte a uomini ormai saziati dalle pene toccate ai responsabili di
quel crimine si potesse affrontare serenamente la questione dei
Privernati, parlò in questi termini: «Visto che i responsabili della
defezione hanno avuto giuste pene tanto dagli dèi immortali quanto da voi,
senatori, che cosa avete intenzione di fare circa la massa incolpevole?
Quanto a me, anche se mi spetta più chiedere che non dare pareri,
tuttavia, vedendo che i Privernati sono vicini ai Sanniti con i quali i
nostri rapporti di pace sono attualmente precari, vorrei che tra noi e
loro restassero meno motivi di risentimento possibile».
21 Non ostante la questione fosse già di per sé incerta e ciascuno
suggerisse, a seconda della propria indole, un comportamento più o meno
severo, tutto venne ulteriormente complicato da un membro della
delegazione privernate, il quale, preoccupato più della condizione nella
quale era nato che non della gravità del frangente, essendogli stato
chiesto da un sostenitore di misure ben più severe quale fosse a sua detta
la giusta pena per i Privernati, disse: «Quella che meritano quanti si
ritengono degni di essere liberi». Il console, vedendo che questa risposta
altezzosa aveva accresciuto l'ostilità di chi era già contrario alla causa
dei Privernati, sperando di ottenere una risposta meno dura con una
domanda più benevola, chiese: «Se vi condoniamo la pena, che tipo di pace
possiamo sperare da voi?». La risposta fu: «Leale e duratura, se quella
che ci proporrete voi sarà buona; ma di breve durata, se cattiva». Fu
allora che qualcuno gridò che i Privernati stavano apertamente minacciando
i Romani e che quelle parole erano per i popoli in pace un'istigazione
alla rivolta. Ma la parte più moderata del senato dava un senso migliore a
quelle parole e sosteneva che si era ascoltata la voce di un uomo libero:
era mai possibile credere che un popolo o un uomo sarebbero rimasti più a
lungo del dovuto in una condizione intollerabile? Una pace sicura si aveva
là dove era stata volontariamente accettata, e non si poteva sperare che
ci fosse lealtà là dove si cercava di imporre la schiavitù.
Fu soprattutto il console a orientare verso questa opinione, dicendo
agli ex consoli, cui toccava per primi esprimere il proprio parere, con
voce abbastanza alta da farsi sentire anche dagli altri, che solo quanti
non pensavano ad altro che alla libertà erano degni di diventare romani.
Così i Privernati vinsero la loro causa in senato e su proposta del senato
venne presentata al popolo una proposta di legge per conferire loro la
cittadinanza romana.
Quello stesso anno vennero inviati trecento coloni ad Anxur e a
ciascuno di essi andarono due iugeri di terra.
22 L'anno seguente, quando erano consoli Publio Plauzio Proculo e
Publio Cornelio Scapula, non si segnalò per alcun episodio di natura
militare o civile, salvo il fatto che fu inviata una colonia a Fregelle
(in una zona appartenuta agli abitanti di Signia e poi passata ai Volsci)
e che Marco Flavio, durante il funerale della madre, distribuì
gratuitamente della carne al popolo. Alcuni pensarono che, con il pretesto
di onorare la madre, Flavio avesse pagato una ricompensa dovuta al popolo
che lo aveva assolto quando, citato in giudizio dagli edili, era stato
accusato di aver violato una madre di famiglia. La distribuzione gratuita
di carne offerta come ringraziamento per quella sentenza fu per lui anche
motivo di onore. E nelle successive elezioni, pur assente, venne preferito
come tribuno della plebe a quelli che avevano presentato la
candidatura.
Non lontano dal punto in cui oggi si trova Napoli sorgeva una città di
nome Paleopoli; i due centri erano abitati da uno stesso popolo. Si
trattava di oriundi di Cuma; i Cumani traggono origine da Calcide in
Eubea. Grazie alla flotta con la quale erano arrivati dalla loro terra,
divennero molto potenti lungo la costa del mare dove ora vivono. In un
primo tempo sbarcarono a Ischia e nelle Pitecuse, poi si avventurarono a
trasferire la loro sede sulla terraferma. La popolazione di Paleopoli,
contando sia sulle proprie forze sia sulla slealtà dimostrata dai Sanniti
nei confronti degli alleati Romani, o forse confidando nel-l'epidemia che,
secondo le notizie, aveva assalito Roma, commise numerosi atti ostili nei
confronti dei Romani residenti nell'agro Campano e Falerno. Così, durante
il consolato di Lucio Cornelio Lentulo e Quinto Publilio Filone (eletto
per la seconda volta), vennero inviati a Paleopoli i feziali per chiedere
soddisfazione. Al ritorno i feziali riferirono di una risposta durissima
da parte dei Greci (gente più valida a parole che a fatti): perciò, su
proposta dei senatori, il popolo dichiarò guerra ai Paleopolitani. I
consoli si divisero gli incarichi e la guerra contro i Greci toccò a
Publilio. Cornelio, con un altro esercito, ricevette disposizione di
andare a fronteggiare i Sanniti, nel caso in cui avessero preso qualche
iniziativa militare. Ma poiché correva voce che essi si sarebbero messi in
movimento in concomitanza con l'attesa defezione dei Campani, Cornelio
ritenne che la cosa migliore da farsi fosse di accamparsi stabilmente in
zona.
23 Entrambi i consoli informarono il senato che c'erano pochissime
speranze di pace con i Sanniti. Publilio riferì che Paleopoli aveva
ricevuto duemila soldati nolani e quattromila sanniti, più per pressione
degli abitanti di Nola che per volontà dei Greci. Cornelio riferì invece
che i magistrati sanniti avevano bandito una leva militare, che tutto il
Sannio era in fermento e che i popoli dei dintorni, Privernati, Fondani e
Formiani, erano apertamente invitati ad associarsi all'impresa. Per queste
ragioni si decise di inviare degli ambasciatori ai Sanniti prima di
dichiarare guerra, ma dai Sanniti arrivò una risposta arrogante.
Accusavano a loro volta i Romani di non essersi comportati correttamente e
si giustificavano con egual vigore delle accuse loro rivolte: dissero di
non aver fornito ai Greci alcun aiuto né collaborazione ufficiale, e di
non aver spinto all'ammutinamento gli abitanti di Formia e di Fonda.
Perciò avevano piena fiducia nelle proprie forze, in caso si fosse deciso
per la guerra. D'altra parte non era loro possibile nascondere il fastidio
del popolo sannita al vedere che la città di Fregelle, da essi tolta ai
Volsci e rasa al suolo, era stata rimessa in piedi dal popolo romano e che
in territorio sannita era stata fondata una colonia chiamata Fregelle dai
coloni romani: era un sanguinoso affronto, e, se i suoi autori non vi
avessero posto rimedio, i Sanniti sarebbero ricorsi a ogni mezzo per
cancellarlo. Quando l'inviato romano propose di discutere la questione
insieme con gli alleati comuni e gli amici, la risposta fu: «Perché agire
in maniera tanto tortuosa? Le nostre controversie, Romani, le decideranno
non tanto le parole degli ambasciatori o l'arbitrio di qualche giudice,
quanto la pianura campana, dove è destino che si scenda in battaglia:
decideranno le armi e la comune fortuna in guerra. Accampiamoci dunque
faccia a faccia tra Capua e Suessula e stabiliamo se debbano governare
l'Italia i Sanniti o i Romani». Gli ambasciatori romani risposero che
sarebbero andati non dove il nemico li avesse convocati, ma dove li avesse
guidati il loro comandante...
Publilio, occupata una posizione favorevole tra Paleopoli e Napoli,
aveva già privato il nemico di quella reciproca assistenza di cui i
diversi popoli avversari si erano serviti non appena le varie postazioni
venivano messe sotto pressione. Così, dato che il giorno delle elezioni
era ormai prossimo e non sarebbe stato un vantaggio per il paese
richiamare Publilio, che stava già minacciando le mura nemiche e contava
di far cadere la città a giorni, il senato indusse i tribuni a presentare
al popolo una proposta in base alla quale Quinto Publilio Filone, allo
scadere del mandato, potesse continuare a gestire la campagna militare in
qualità di proconsole fino a quando i Greci non fossero stati
definitivamente sconfitti.
Poiché neppure Lucio Cornelio, che era già entrato nel Sannio, secondo
il senato doveva essere richiamato dalla sua vigorosa offensiva, gli venne
inviato l'ordine di nominare un dittatore per presiedere le elezioni. Egli
scelse Marco Claudio Marcello, che nominò maestro di cavalleria Spurio
Postumio. Tuttavia le elezioni non furono tenute dal dittatore, perché
venne messa in questione la regolarità della sua nomina. Gli àuguri
consultati dichiararono che essa sembrava formalmente viziata. I tribuni,
con le loro accuse, gettarono il sospetto e l'infamia su questo verdetto.
Dicevano infatti che l'irregolarità non poteva esser venuta facilmente
alla luce, visto che il console nominava il dittatore alzandosi in
silenzio nel cuore della notte; che il console non aveva scritto a nessuno
- né in forma privata né in forma pubblica - circa quella procedura; che
non vi era alcun mortale in grado di aver visto o udito qualcosa che
potesse aver invalidato gli auspici e che gli àuguri non avevano potuto,
stando a Roma, divinare in quale irregolarità fosse incorso il console
nell'accampamento. A chi non era chiaro che l'irregolarità rilevata dagli
àuguri era in definitiva l'origine plebea del dittatore? Furono queste, e
altre simili, le obiezioni vanamente presentate dai tribuni. Alla fine si
passò a un interregno, e dopo continui rinvii delle elezioni ottenuti con
sempre nuovi pretesti, finalmente il quattordicesimo interré, Lucio
Emilio, nominò consoli Gaio Petilio e Lucio Papirio Mugillano. In altri
annali ho trovato per quest'ultimo il soprannome di Cursore.
24 Si tramanda che in quello stesso anno venne fondata in Egitto la
città di Alessandria e che il re dell'Epiro Alessandro, assassinato da un
esule lucano, con la sua fine confermò un oracolo di Giove a Dodona.
Essendo stato chiamato in Italia dai Tarentini, l'oracolo lo aveva
avvertito di guardarsi dall'acqua Acherusia e dalla città di Pandosia,
perché lì il destino aveva fissato per lui il termine della vita. Perciò
era passato rapidamente in Italia, in modo tale da trovarsi quanto più
lontano possibile dalla città di Pandosia e dal fiume Acheronte, che,
scendendo dalla Molosside negli stagni Infernali, sfociava nel golfo di
Tesprotide. Ma, come sovente succede, l'uomo cercando di evitare il
proprio destino finisce per coglierlo in pieno: dopo aver ripetutamente
sconfitto le legioni dei Bruzzi e dei Lucani, Alessandro strappò ai Lucani
la colonia tarentina di Eraclea, conquistò Siponto degli Apuli, Cosenza e
Terina dei Bruzzi e ancora altre città dei Messapi e dei Lucani, e inviò
in Epiro trecento illustri famiglie da tenere in ostaggio. Dopo tutto
questo, si accampò non lontano dalla città di Pandosia (che si trovava
presso i confini con la Lucania e il Bruzzio), su tre colline poste a
breve distanza le une dalle altre, dalle quali era possibile effettuare
incursioni in ogni punto del territorio nemico. Aveva intorno a sé circa
duecento esuli lucani che egli considerava affidabili, ma che, com'è in
genere l'attitudine di quel popolo, erano pronti a cambiare fede col
cambiare della fortuna.
Siccome le piogge incessanti avevano inondato tutte le campagne e
diviso in tre tronconi l'esercito, togliendo la possibilità
dell'assistenza reciproca, le due guarnigioni dove non c'era il re furono
sopraffatte da un improvviso attacco dei nemici. Questi, dopo averle fatte
a pezzi, si concentrarono esclusivamente sull'assedio della guarnigione in
cui era Alessandro. Gli esuli lucani inviarono messaggeri ai loro
conterranei, promettendo che, se avessero ottenuto la garanzia di poter
rientrare incolumi, avrebbero consegnato nelle loro mani il re, vivo o
morto. Ma Alessandro stesso, con un gesto audace e valoroso, si aprì la
strada tra i nemici con un plotone di uomini scelti e uccise il comandante
dei Lucani in duello. Quindi, raccolti i suoi che si erano dispersi nel
corso della fuga, arrivò a un fiume, dove le recenti rovine di un ponte,
spazzato via dalla violenza delle acque, indicavano la strada da seguire.
Mentre i suoi uomini stavano attraversando il fiume in un guado malsicuro,
un soldato spossato dalla fatica e dalla paura, maledicendo il sinistro
nome del fiume, gridò: «A ragione ti chiamano Acheronte!». Non appena il
re udì questa frase, sùbito ricordò il suo destino e si fermò, incerto se
affrontare il guado o meno. Allora Sotimo, uno dei giovani nobili al suo
séguito, chiedendogli perché indugiasse in un momento di così grande
pericolo, gli indicò i Lucani che stavano cercando di tendergli un
agguato. Quando il re li vide sopraggiungere a breve distanza in gruppo
compatto, sguainò la spada e spinse il cavallo nel mezzo della corrente.
Era già quasi arrivato sulla terraferma quando un esule lucano lo trafisse
con un giavellotto. Alessandro crollò a terra con il giavellotto
conficcato nel corpo esanime e la corrente lo trascinò in mezzo ai posti
di guardia dei nemici, dove fu orrendamente mutilato. Dopo averlo tagliato
a metà, ne mandarono una parte a Cosenza e tennero l'altra per ludibrio.
Mentre la utilizzavano come bersaglio lanciando da lontano pietre e
giavellotti, una donna da sola, mescolatasi alla folla che stava
infierendo oltre il limite di ogni rabbia umana, li pregò di fermarsi per
un attimo e in preda alle lacrime disse che suo marito e i suoi figli
erano prigionieri in mano del nemico, e che col corpo del re, benché
sconciato, sperava di poterli riscattare. Questo pose fine alle
mutilazioni. Ciò che restava del cadavere venne sepolto a Cosenza:
soltanto quella donna se ne curò. Le ossa vennero inviate al nemico a
Metaponto, e di lì furono trasportate via mare in Epiro alla moglie
Cleopatra e alla sorella Olimpiade, rispettivamente madre e sorella di
Alessandro Magno. Questa fu la triste fine di Alessandro dell'Epiro. Basti
averne riferito in breve: pur avendogli la sorte impedito di scontrarsi
con i Romani, egli combatté delle guerre in Italia.
25 Lo stesso anno venne celebrato a Roma un lettisternio - il
quinto dalla fondazione della città -, per propiziare il favore degli
stessi dèi invocati nelle precedenti occasioni. Poi i nuovi consoli, su
ordine del popolo, inviarono i feziali a dichiarare guerra ai Sanniti;
questi ultimi non solo stavano compiendo i preparativi per il conflitto
con un impegno ben più massiccio di quanto non ne avessero profuso nella
campagna contro i Greci, ma ricevettero anche nuovi rinforzi da una parte
cui in quel momento i Romani non avevano affatto pensato. Lucani ed Apuli,
genti che fino a quel momento non avevano avuto nulla a che vedere con il
popolo romano, si misero sotto la loro protezione, promettendo armi e
uomini per la guerra. Di conseguenza venne loro concesso un trattato di
alleanza. Nello stesso periodo i Romani condussero una fortunata campagna
nel Sannio. Tre città, Allife, Callife e Rufrio, caddero in loro potere,
mentre il resto del territorio venne saccheggiato in lungo e in largo non
appena arrivarono i consoli.
Portata a compimento così felicemente questa guerra, anche l'altra,
l'assedio contro i Greci, era ormai quasi alla fine. Infatti non solo una
parte dei nemici aveva perso ogni collegamento con l'altra a causa delle
opere di fortificazione costruite in mezzo dai Romani, ma all'interno
delle loro stesse mura stavano succedendo cose ben più preoccupanti delle
minacce degli avversari: quasi prigionieri dei loro alleati, dovevano
ormai sottostare agli oltraggi rivolti anche contro i figli e le mogli, e
soffrire tutti gli orrori delle città conquistate. E così, quando arrivò
la voce che da Taranto e dai Sanniti sarebbero arrivati nuovi rinforzi,
pensavano di avere all'interno delle mura più Sanniti di quanti non ne
volessero. In quanto Greci, invece, non vedevano l'ora che arrivassero i
giovani greci di Taranto, con il cui apporto avrebbero potuto resistere
non tanto ai Sanniti e ai Nolani quanto ai nemici romani. Ma alla fine
sembrò che la resa ai Romani fosse il male minore. Carilao e Ninfio, i
personaggi più in vista della città, dopo essersi consultati tra di loro,
si divisero le parti per mettere in pratica il piano convenuto: uno di
essi si sarebbe recato dal comandante romano, l'altro si sarebbe fermato a
predisporre la città all'esecuzione del piano. Fu Carilao che si presentò
a Publilio Filone e, pregando che la cosa portasse vantaggio e prosperità
a Paleopoli e al popolo romano, annunciò di aver deciso di consegnare le
mura della città. Sarebbe poi dipeso dal senso di lealtà dei Romani se, a
fatti compiuti, egli sarebbe apparso il traditore o il salvatore della
città. Quanto a sé come privato cittadino, egli non patteggiava né
chiedeva alcunché. A nome della sua gente chiedeva - più che patteggiare -
che, qualora l'impresa fosse andata a buon fine, il popolo romano
considerasse con quanto sforzo e a prezzo di quali rischi gli assediati
fossero tornati in amicizia con Roma, piuttosto che ricordare quale follia
e quale temerarietà li avesse distolti dal proprio dovere. Ricevute le
congratulazioni del comandante, ottenne tremila uomini per riconquistare
la parte di città presidiata dai Sanniti. A capo del contingente armato
venne posto il tribuno militare Lucio Quinzio.
26 Nel contempo Ninfio, per parte sua, aveva raggirato il
comandante del presidio sannita, portandolo a concedergli, poiché l'intero
esercito romano si trovava o intorno a Paleopoli o nel Sannio, di arrivare
per via di mare in territorio romano e di devastare non solo la costa ma
anche i dintorni stessi di Roma. Ma per evitare di essere scoperti, era
necessario salpare in piena notte e mettere sùbito le navi in mare. Perché
la cosa potesse essere attuata il più velocemente possibile, tutti i
soldati sanniti, eccetto quei pochi necessari per fare da presidio armato
alla città, vennero inviati sulla spiaggia. Mentre Ninfio, nel buio della
notte, faceva scorrere il tempo impartendo ad arte ordini contraddittori
per confondere una gran massa di armati già impacciata dalla sua stessa
mole, Carilao, introdotto in città dai compagni secondo l'accordo
prestabilito, occupata con i soldati romani la parte più alta della città,
diede loro ordine di levare un grido: udendolo, i Greci obbedirono al
segnale ricevuto e rimasero fermi, mentre i Nolani fuggirono dalla parte
opposta della città per la strada che porta a Nola. I Sanniti, tagliati
fuori dalla città, se da una parte ebbero sul momento dei vantaggi nella
fuga, dall'altra essa sembrò loro ben più umiliante, quando si trovarono
fuori pericolo. Disarmati com'erano, avendo lasciato tutto in mano al
nemico, tornarono in patria spogliati e privi di ogni cosa, dileggiati non
solo dagli stranieri ma anche dai loro concittadini. Pur non essendo
all'oscuro dell'altra versione dei fatti che attribuisce la presa della
città al tradimento compiuto dai Sanniti, non mi sono soltanto limitato a
seguire gli autori più affidabili: è anche il trattato stipulato con
Napoli - lì infatti i Greci trasferirono il loro quartier generale - a
rendere più verosimile il fatto che essi siano spontaneamente tornati a un
rapporto di amicizia. A Publilio venne decretato il trionfo perché vi
erano sufficienti ragioni per credere che i nemici si fossero arresi a
séguito dell'assedio. A lui toccarono per la prima volta due onori
singolari: la proroga del comando, fino ad allora mai concessa ad alcuno,
e un trionfo celebrato dopo la scadenza del mandato.
27 Sùbito dopo scoppiò un'altra guerra con i Greci della costa
orientale. Infatti i Tarentini, dopo aver per qualche tempo sostenuto la
causa dei Paleopolitani con vane speranze di aiuto, quando vennero a
sapere che i Romani si erano impossessati della città, quasi non avessero
essi stessi abbandonato i Paleopolitani ma fossero stati abbandonati,
inveirono contro questi ultimi, spinti da rabbia e invidia verso i Romani,
specialmente quando arrivò la notizia che Lucani e Apuli si erano messi
sotto la protezione del popolo romano (e infatti quell'anno era stata
stipulata un'alleanza con l'uno e l'altro popolo). Sostenevano che i
Romani erano ormai giunti quasi a Taranto e che presto essi si sarebbero
trovati nella condizione di avere i Romani o come nemici o come padroni.
Era chiaro che la loro sorte dipendeva dall'esito della guerra coi
Sanniti: questo era l'unico popolo che continuava a resistere, e non era
sufficientemente forte per i Romani, vista la defezione dei Lucani. Ma
questi ultimi li si poteva ancora far recedere dalla loro decisione e
indurli a ripudiare l'allenza coi Romani, qualora si fosse fatto ricorso a
un po' di astuzia nel seminare discordie.
Siccome queste tesi ebbero la meglio presso quanti miravano a
rivolgimenti politici, vennero corrotti alcuni giovani lucani (famosi tra
i propri concittadini più di quanto non fossero onesti): questi, dopo
essersi colpiti a vicenda con dei bastoni, si presentarono nudi in
pubblico gridando di essere stati fustigati per ordine dei consoli e di
aver rischiato l'esecuzione solo per aver osato entrare nell'accampamento
romano. Siccome quello spettacolo, effettivamente raccapricciante, dava
l'impressione di essere più un atto di violenza che un inganno, la folla
eccitata costrinse i magistrati a convocare il senato. Alcuni chiedevano a
gran voce la guerra contro i Romani, altri invece si sparpagliarono da una
parte e dall'altra per spingere le masse rurali a prendere le armi; e dato
che quel clima di agitazione aveva fatto perdere la testa anche ai più
assennati, fu votato di rinnovare l'alleanza con i Sanniti, inviando
ambasciatori per mettere in atto la deliberazione. Ma siccome l'iniziativa
non aveva ragioni plausibili e non dava garanzie, i Tarentini, costretti
dai Sanniti a consegnare ostaggi e ad accettare guarnigioni armate
all'interno delle loro piazzeforti, accecati com'erano dal raggiro e dalla
rabbia accettarono tutte le condizioni. Poco dopo, ritiratisi a Taranto
gli autori delle false accuse, l'inganno cominciò a venire alla luce. Ma
avendo ormai perso ogni libertà d'azione, non restava loro altro che
pentirsi invano.
28 Quell'anno fu per la plebe romana quasi l'inizio di una nuova
libertà, perché si cessò di imprigionare la gente per debiti. Il
cambiamento fu dovuto alla smodata bramosia e insieme alla crudeltà di un
unico usuraio, Lucio Papirio, cui si era dato in schiavitù Gaio Publilio a
causa di un debito contratto dal padre. L'età e la bellezza del giovane,
qualità che avrebbero potuto suscitare la misericordia del creditore, lo
infiammarono alla libidine e all'oltraggio. E considerando il fiore della
sua giovinezza come un ulteriore compenso al credito, sulle prime tentò di
adescare il ragazzo con proposte oscene. Poi, dato che il giovane
rifiutava di prestare orecchio all'infame profferta, prese a intimidirlo
con minacce e a ricordargli ripetutamente la sua condizione. Alla fine,
quando si rese conto che il ragazzo dava maggiore importanza alla sua
libera origine che allo stato presente, ordinò di denudarlo e di farlo
fustigare. Quando il giovane, straziato dai colpi, corse fuori tra la
gente lamentandosi a gran voce della libidine e della crudeltà del
creditore, si raccolse una massa di persone che, non solo presa da
compassione per la sua giovane età e indignata per l'affronto
riservatogli, ma anche considerando la condizione propria e dei propri
figli, si riversò nel foro e di lì, in formazione compatta, si diresse
verso la curia. E visto che i consoli furono obbligati dall'improvviso
tumulto a convocare il senato, mentre i senatori entravano nella curia, la
gente si inginocchiò davanti a ciascuno di essi, indicando la schiena
martoriata del giovane. Quel giorno, per la tracotanza offensiva di un
solo uomo venne infranto un potente vincolo, e ai consoli venne dato
ordine di presentare di fronte al popolo la proposta che nessuno potesse
più essere tenuto in ceppi o incarcerato, fatta eccezione per quanti
avessero commesso qualche delitto, fino alla completa espiazione della
pena; e che i beni soltanto, e non la persona del debitore, potessero
essere presi come garanzia della somma dovuta. Così i prigionieri per
debiti vennero liberati e per i giorni a venire furono vietate le
carcerazioni per debiti.
29 Quello stesso anno, mentre la guerra coi Sanniti e l'improvvisa
defezione dei Lucani insieme con i loro sobillatori, i Tarentini, erano
già motivi di sufficiente preoccupazione per i senatori, si aggiunse
l'accordo del popolo dei Vestini con i Sanniti. Questa iniziativa fu
quell'anno argomento più dei discorsi della gente che delle pubbliche
assemblee. E così i consoli dell'anno successivo, Lucio Furio Camillo (per
la seconda volta) e Giunio Bruto Sceva, ritennero che la questione fosse
più importante e urgente di qualunque altra e la misero all'ordine del
giorno di fronte al senato. E sebbene il fatto non fosse una novità,
tuttavia ingenerò nei senatori uno stato di ansia tale che essi avevano
paura sia di occuparsene sia di trascurarlo: lasciando infatti impuniti i
Vestini, si sarebbe corso il rischio che i popoli dei dintorni si
sollevassero con arroganza; con una guerra punitiva, invece, il rischio
era che la paura di un pericolo imminente e il risentimento li spingessero
ad agire. E in più, quella gente aveva nel complesso forze pari a quelle
dei Sanniti, comprendendo Marsi, Peligni e Marrucini: se si fossero
toccati i Vestini, erano da considerare tutti nemici. Ebbe tuttavia la
meglio l'opinione che al momento poteva dar l'impressione di essere più
audace che assennata. Ma gli sviluppi dimostrarono che la fortuna sta
dalla parte dei coraggiosi. Il popolo, autorizzato dal senato, votò la
dichiarazione di guerra ai Vestini. Questa campagna toccò in sorte a
Bruto, mentre a Camillo andò quella contro i Sanniti. Gli eserciti vennero
condotti sull'uno e l'altro fronte e i nemici, dovendo proteggere i propri
confini, vennero messi nell'impossibilità di unire le forze. Ma uno dei
consoli, Lucio Furio, sulle cui spalle gravava il peso maggiore, venne
disgraziatamente colpito da una grave malattia e fu costretto ad
abbandonare il comando. Avendo ricevuto disposizione di nominare un
dittatore per proseguire la guerra, egli scelse il militare di gran lunga
più rinomato del periodo, cioè Lucio Papirio, il quale nominò maestro di
cavalleria Quinto Fabio Massimo Rulliano: coppia famosa per quanto avevano
compiuto insieme in quel campo, essi divennero ancora più famosi per la
discordia che li spinse a un contrasto quasi all'ultimo sangue.
L'altro console condusse nella terra dei Vestini una guerra dai diversi
aspetti, ma dall'esito sempre favorevole. Devastò infatti le campagne dei
nemici e, saccheggiandone e incendiandone case e raccolti, li costrinse a
combattere in campo aperto contro la loro volontà. Così, in una sola
battaglia, pur subendo anch'egli perdite rovinose, costrinse le forze dei
Vestini in una situazione tale che non solo essi si rifugiarono
nell'accampamento, ma, non ritenendosi più al sicuro dietro il parapetto e
le trincee, si riversarono all'interno delle loro città fortificate,
sperando di trovare riparo nella posizione naturale e nelle mura. Ma alla
fine, deciso a espugnare anche le città con il ricorso alla forza, il
console, in virtù dello straordinario coraggio dei suoi uomini,
determinati a vendicarsi delle ferite subite (quasi nessuno era uscito
illeso dalla battaglia), espugnò prima Cutina con l'uso di scale e poi
Cingilia. Il bottino fatto in entrambe le città fu concesso ai soldati,
che né le porte né le mura nemiche erano riuscite a fermare.
30 La spedizione nel Sannio fu accompagnata da auspici incerti: la
loro irregolarità non influì sull'esito finale della guerra (che fu
condotta in maniera positiva), ma sull'animosità e sulla follia dei
comandanti in capo. Il dittatore Papirio, infatti, messo in guardia dal
custode dei polli sacri mentre stava partendo alla volta di Roma per
rinnovare gli auspici, intimò al maestro di cavalleria di mantenersi sulle
proprie posizioni e di non scontrarsi col nemico durante la sua assenza.
Ma Quinto Fabio, quando - dopo la partenza del dittatore - venne a sapere
dai suoi ricognitori che il nemico aveva completamente trascurato ogni
tipo di vigilanza, come se non ci fosse stato nemmeno un Romano nel
Sannio, sia perché, essendo un giovane impetuoso, era indignato all'idea
che tutto il potere apparisse riposto nel dittatore, sia perché tentato
dall'opportunità di assestare un colpo vincente, dopo aver fatto preparare
l'esercito e averlo schierato in assetto di battaglia, partì alla volta di
una località chiamata Imbrinio, dove si scontrò con i Sanniti. Quella
battaglia ebbe un esito così favorevole che le cose non sarebbero potute
in nessun modo andar meglio, anche se il dittatore fosse stato presente.
Il comandante fu all'altezza dei soldati e i soldati del comandante. Anche
i cavalieri, su suggerimento del tribuno dei soldati Lucio Cominio, dopo
aver caricato alcune volte senza riuscire a fare breccia tra le schiere
nemiche, tolsero le briglie ai cavalli e, piantando gli speroni, li
slanciarono contro il nemico con un impeto tale che nessuna forza riuscì a
contenerli, e abbatterono armi e uomini in lungo e in largo. La fanteria
seguì la carica dei cavalieri e attaccò i nemici già sbandati. Si tramanda
che quel giorno vennero uccisi ventimila nemici. Presso alcuni autori ho
trovato che, durante l'assenza del dittatore, Quinto Fabio combatté due
volte con il nemico, e che in entrambi i casi ottenne brillanti vittorie.
Gli storici più antichi riportano invece quest'unica battaglia, mentre in
taluni annali manca qualsiasi cenno in proposito.
Il maestro di cavalleria, impossessatosi di moltissime spoglie dopo una
strage di quelle proporzioni, fece un enorme mucchio delle armi nemiche e
dopo avervi dato fuoco le ridusse in cenere: lo fece o per adempiere a un
voto fatto a un qualche dio, o - se si vuol credere alla versione di Fabio
- per evitare che il dittatore si appropriasse del frutto della sua
gloria, iscrivendo il proprio nome sulle armi spogliate e portandole con
sé in trionfo. Inoltre il resoconto della vittoria inviato da Fabio al
senato e non al dittatore dimostrò che egli non voleva affatto dividere la
propria gloria con il dittatore. In ogni caso, mentre gli altri salutavano
con entusiasmo la vittoria, il dittatore accolse la notizia mostrandosi
triste e risentito. E così, dopo aver frettolosamente congedato il senato,
uscì di corsa dalla curia, continuando a dire che in quella battaglia, più
delle legioni sannite, sarebbero state sconfitte dal maestro di cavalleria
l'autorità del dittatore e la disciplina militare, se fosse rimasto
impunito il suo disprezzo verso gli ordini ricevuti. E così, schiumando
rabbia e minacce, partì alla volta dell'accampamento. Tuttavia, pur avendo
coperto la distanza il più veloce possibile, non riuscì a evitare che la
notizia del suo arrivo lo precedesse. Infatti erano in precedenza partiti
da Roma dei corrieri per avvertire che stava arrivando il dittatore
assetato di vendetta e con in bocca quasi a ogni parola un elogio per il
comportamento di Tito Manlio.
31 Convocata immediatamente l'adunata, Fabio implorò i soldati di
difenderlo - sotto i suoi auspici, sotto il suo comando essi avevano
conquistato la vittoria - dalla crudeltà implacabile del dittatore con
quello stesso coraggio con il quale avevano difeso lo Stato dai peggiori
nemici. Il dittatore arrivava pazzo di invidia ed esasperato per l'eroismo
e il successo di un altro. Era furente per il fatto che la repubblica
avesse conquistato una vittoria memorabile in sua assenza. Se avesse
potuto intervenire sulla sorte, avrebbe preferito che la vittoria fosse
andata ai Sanniti piuttosto che ai Romani. Continuava a ripetere che la
sua autorità era stata calpestata, come se non avesse vietato di
combattere con quella stessa disposizione d'animo con la quale si
rammaricava che si fosse combattuto: allora aveva voluto soffocare per
invidia il valore altrui, e avrebbe strappato le armi ai soldati più
impazienti di combattere, perché non si potessero muovere durante la sua
assenza; adesso era furibondo e non riusciva a tollerare che anche senza
Lucio Papirio agli uomini non fossero mancate né le armi né le capacità, e
che Quinto Fabio si fosse comportato da maestro di cavalleria e non da
appendice del dittatore. Che cosa avrebbe fatto se i casi della guerra e
le sorti comuni della battaglia avessero dato un esito sfavorevole, lui
che minacciava di punire il maestro di cavalleria uscito vincitore, non
ostante questi avesse sbaragliato i nemici e condotto le operazioni in
maniera che mai avrebbero potuto avere esito migliore, nemmeno se guidate
da quel-l'unico condottiero? Quell'uomo odiava il maestro di cavalleria
non meno di quanto odiasse i tribuni militari, i centurioni e i soldati.
Se avesse potuto, si sarebbe scatenato contro tutti: dato che non poteva
farlo, si scatenava contro un unico soggetto. La verità è che l'invidia,
come il fuoco, tende verso l'alto: si avventava contro il responsabile
dell'iniziativa, contro il comandante. Se assieme a Fabio fosse riuscito
ad annientare anche la gloria della sua vittoria, allora, come un
vincitore nei confronti di un esercito fatto prigioniero, avrebbe osato
contro i soldati qualsiasi atto di crudeltà gli fosse stato concesso
infliggere al maestro di cavalleria. Che dunque difendessero la sua causa
per difendere la libertà di tutti. Se il dittatore avesse visto che nel
difendere la vittoria gli uomini mostravano lo stesso spirito di coesione
messo in mostra in battaglia, e che a tutti stava a cuore la salvezza di
uno solo di essi, si sarebbe rivolto a più miti consigli. In conclusione
Fabio affidava la propria vita e la propria sorte alla loro lealtà e al
loro coraggio.
32 Dall'intera assemblea si levò allora un urlo: che stesse di buon
animo, perché nessuno lo avrebbe toccato finché le legioni romane
rimanevano in vita.
Poco dopo arrivò il dittatore e sùbito fece convocare l'assemblea con
uno squillo di tromba. Fu allora che un araldo, una volta fatto silenzio,
chiamò il maestro di cavalleria Quinto Fabio. Non appena questi si fu
avvicinato alla tribuna, il dittatore gridò: «Chiedo a te, Quinto Fabio,
in considerazione del fatto che l'autorità del dittatore è assoluta e ad
essa ottemperano i consoli, dotati di poteri pari a quelli dei re, e i
pretori che vengono eletti sotto gli stessi auspici dei consoli, chiedo a
te se tu ritenga giusto o meno che il maestro di cavalleria obbedisca agli
ordini del dittatore. E poi ti domando questo: dato che io sapevo di esser
partito dalla patria con auspici incerti, avrei dovuto esporre il paese a
un rischio gravissimo in un momento di cattivi rapporti con gli dèi,
oppure avrei dovuto evitare di rinnovare gli auspici, onde evitare di
prendere iniziative quando la volontà degli dèi era in dubbio? Ugualmente
ti chiedo: se un qualche scrupolo religioso impediva al dittatore di
concludere la campagna, il maestro di cavalleria poteva forse considerarsi
libero e sciolto da esso? Ma perché ti faccio queste domande? Se anche io
fossi partito senza lasciare ordini, tuttavia tu avresti dovuto rivolgere
i tuoi pensieri a interpretare la mia volontà! Rispondimi, ora: non ti ho
vietato di prendere qualunque iniziativa durante la mia assenza? Non ti ho
vietato di scontrarti coi nemici? Ma tu questi ordini li hai disprezzati:
e non ostante gli auspici fossero incerti e la volontà degli dèi in
dubbio, tu, contro ogni norma militare, contro la disciplina dei nostri
padri e contro il volere delle divinità, hai osato scontrarti col nemico.
Rispondi alle domande che ti sono state rivolte. Ma guàrdati dal fare
parola d'altro. Vieni avanti, littore».
Dato che ribattere alle accuse una per una non era cosa semplice, Fabio
ora si lamentava del fatto che ad accusarlo e a giudicarlo in una
questione di vita e di morte fosse la stessa persona, ora gridava che gli
avrebbero potuto portar via più facilmente la vita che non la gloria
conquistata, ora difendeva se stesso e passava a sua volta ad accusare il
dittatore, fino a quando Papirio, in un nuovo attacco di ira, ordinò di
denudare il maestro di cavalleria e di preparare verghe e scuri. Fabio,
implorando la protezione dei soldati, mentre i littori gli strappavano le
vesti, andò a rifugiarsi in mezzo ai triarii che avevano
incominciato a rumoreggiare [in fondo all'assemblea].
L'urlo da lì si diffuse per tutta l'assemblea: da una parte si udivano
suppliche, dall'altra minacce. Quelli che per caso si trovavano vicino
alla tribuna, potendo essere riconosciuti dal dittatore perché sotto i
suoi occhi, lo supplicavano di risparmiare il maestro di cavalleria e di
non condannare l'esercito insieme con lui. Quelli che invece sedevano ai
margini dell'assemblea e la massa di soldati intorno a Fabio urlavano
contro la crudeltà del dittatore ed erano prossimi alla sommossa. Ma
neppure sulla tribuna vi era calma: i luogotenenti, stando intorno alla
sedia del dittatore, lo pregavano di rimandare la cosa al giorno
successivo, in modo che la sua rabbia si placasse e il tempo gli portasse
consiglio. Aveva già colpito quanto bastava la giovane età di Fabio,
screditandone a sufficienza la vittoria. Non arrivasse al verdetto più
crudele, non infliggesse quell'umiliazione a un giovane che non aveva
eguali, a suo padre, personalità tra le più in vista, alla famiglia Fabia!
Quando si resero conto che a poco valevano le preghiere e le
argomentazioni a difesa, i soldati invitarono il dittatore a osservare
l'assemblea in fermento: visto che gli animi erano così surriscaldati, non
si addiceva né alla sua età né alla sua esperienza alimentare il fuoco
della rivolta. Se, accecato dall'ira, avesse scatenato contro di sé la
massa in una folle lotta, nessuno ne avrebbe fatto carico a Quinto Fabio -
che cercava di scampare alla punizione -, ma al dittatore. E infine,
perché non pensasse che quei consigli miravano solo ad aiutare Quinto
Fabio, si dichiararono pronti a giurare che era contrario al supremo
interesse dello Stato punire Quinto Fabio in quel frangente.
33 Ma con queste parole i luogotenenti riuscirono a incrementare
l'insofferenza del dittatore nei loro stessi confronti, invece di placarne
il risentimento verso il maestro di cavalleria, e ricevettero l'ordine di
scendere dalla tribuna. Dopo aver invano cercato di ottenere il silenzio
tramite l'araldo, poiché in quel vociare confuso non era possibile udire
né la voce del dittatore né quella dei suoi attendenti, la notte - come
accade nelle battaglie - pose fine allo scontro.
Al maestro di cavalleria venne ingiunto di presentarsi il giorno
seguente. Ma siccome tutti sostenevano che Papirio sarebbe stato ancora
più furibondo, agitato ed esacerbato com'era per l'opposizione incontrata,
Fabio lasciò di nascosto l'accampamento e fuggì a Roma. Qui, su consiglio
del padre (che era già stato tre volte console e dittatore), convocò
immediatamente il senato. E mentre si stava lamentando con i senatori
della violenza e l'affronto subito dal dittatore, all'improvviso si
sentirono fuori della curia le grida dei littori che si facevano largo in
mezzo alla gente e apparve di fronte a loro Papirio in persona, il quale,
non appena saputo che Fabio era fuggito dall'accampamento, si era gettato
all'inseguimento con uno squadrone di cavalleria armato alla leggera.
Ricominciò così la contesa, e Papirio diede ordine di arrestare Fabio. E
dato che, non ostante le suppliche dei membri più autorevoli del senato e
di tutto il senato stesso, il dittatore persisteva irremovibile nel suo
proposito, allora Marco Fabio, padre del giovane, disse: «Poiché su di te
non hanno alcun effetto né l'autorità del senato né la mia età, che tu
vuoi rendere priva di figli, e nemmeno il coraggio e la nobiltà d'animo
del maestro di cavalleria da te stesso nominato, e tanto meno ne hanno le
suppliche, che spesso hanno indotto alla pietà i nemici e placato l'ira
degli dèi, io mi appello ai tribuni della plebe e al popolo; e a te, che
rifiuti il verdetto del tuo esercito e quello del senato, io propongo
quell'unico giudice il cui potere stia al di sopra della tua dittatura.
Vedremo se ti piegherai di fronte a quel diritto di appello di fronte al
quale si piegò Tullo Ostilio, uno dei re di Roma».
Dalla curia si passò all'assemblea popolare. Il dittatore salì sulla
tribuna da solo, mentre il maestro di cavalleria arrivò accompagnato dal
gruppo di tutti i personaggi più influenti. Papirio ordinò a Fabio di
scendere dai Rostri nella zona sottostante. Il padre lo seguì esclamando:
«Hai fatto bene a ordinarci di scendere in un punto da dove potremo dire
la nostra anche in qualità di privati cittadini». In un primo tempo non si
udivano discorsi ordinati, ma uno scambio di battute accese. Poi però il
disordine dell'alterco venne sovrastato dalla voce indignata del vecchio
Fabio che inveiva contro la crudeltà e l'arroganza di Papirio: era stato
dittatore anche lui, e mai nessuno - neppure un plebeo, un centurione o un
soldato semplice - aveva subito abusi. Ma Papirio cercava di ottenere la
vittoria e il trionfo su un comandante romano, come se si trattasse di un
comandante nemico. Com'era grande la differenza tra la moderazione degli
antichi e questa nuova crudele superbia! Quando il dittatore Quinzio
Cincinnato aveva salvato il console Lucio Minucio dall'assedio nemico, non
gli aveva inflitto altra punizione se non quella di retrocederlo da
console a luogotenente del proprio esercito. Marco Furio Camillo, quando
Lucio Furio, disprezzando la sua età avanzata e la sua autorità, aveva
combattuto con il peggiore dei risultati, non soltanto aveva controllato
la propria indignazione al momento (al punto da non inviare al senato e al
popolo alcun rapporto sfavorevole al collega), ma una volta rientrato a
Roma, ottenuto il permesso dal senato, aveva scelto proprio lui, tra tutti
i tribuni consolari, come associato al comando. E poi neppure il popolo,
che aveva in mano sua il potere assoluto, nei confronti di quanti, per
temerarietà o per inesperienza, avevano perso interi eserciti, aveva mai
spinto la sua ira al di là di un'ammenda in denaro: fino a quel giorno non
era mai stata richiesta la pena capitale per un comandante che avesse
subito una disfatta militare. Ma ora i comandanti romani (e questo non era
mai stato permesso, nemmeno quando uscivano sconfitti in guerra) venivano
minacciati con le verghe e le scuri, pur avendo ottenuto la vittoria e
meritato giustissimi trionfi. Che cosa mai sarebbe toccato allora a suo
figlio, nel caso in cui avesse perso l'esercito, se fosse stato travolto,
messo in fuga e allontanato dall'accampamento? Fin dove sarebbero arrivate
la rabbia e la violenza del dittatore, dopo averlo fatto fustigare e
mettere a morte? Non sarebbe stata un'assurdità che, proprio per merito di
Quinto Fabio, la cittadinanza festeggiasse la vittoria con ringraziamenti
e suppliche, mentre lui, l'uomo per il quale i santuari degli dèi erano
stati aperti, le are fumavano di sacrifici ed erano piene di doni e di
offerte, fosse denudato e straziato a colpi di verga di fronte al popolo
romano, con gli occhi rivolti al Campidoglio, alla cittadella e agli dèi,
da lui invano invocati in occasione di due battaglie? Con che animo
avrebbe sopportato quello strazio l'esercito che aveva trionfato sotto il
suo comando e i suoi auspici? Che lutto ci sarebbe stato nell'accampamento
romano, e che gioia tra i nemici!
Così inveiva e insieme si lamentava, invocando la protezione degli dèi
e degli uomini e abbracciando il figlio tra le lacrime.
34 Erano dalla sua l'autorità del senato, il favore del popolo,
l'appoggio dei tribuni e il ricordo dell'esercito lontano. Dall'altra
parte venivano invece messi avanti l'invincibile autorità del popolo
romano, la disciplina militare, gli ordini del dittatore (da sempre
rispettati come il volere di un dio), la severità di Manlio che aveva
anteposto il bene pubblico all'amore per il figlio; così aveva fatto in
passato anche Lucio Bruto, fondatore della libertà romana, nei confronti
dei suoi due figli. Ma ora dei padri indulgenti e degli anziani disposti a
non dare peso alla violazione dell'autorità altrui, come se si trattasse
di cosa da poco, perdonavano ai giovani di aver violato la disciplina
militare. Il dittatore avrebbe tuttavia insistito nel suo proposito, e non
avrebbe risparmiato nulla della giusta pena a un uomo che, contravvenendo
al suo ordine, aveva affrontato una battaglia non ostante gli auspici
fossero incerti e la volontà degli dèi in dubbio. Che l'autorità del più
alto potere durasse o meno in eterno non dipendeva da lui: ma Lucio
Papirio non avrebbe fatto nulla per sminuirla. Si augurava che i tribuni
non ricorressero al loro potere - di per sé inviolato - per violare
tramite l'intercessione l'autorità di Roma, e che il popolo non
annientasse i poteri della dittatura proprio mentre a occupare quella
carica era lui. Se lo avesse fatto, i posteri avrebbero invano accusato
non Lucio Papirio, ma i tribuni e lo scellerato verdetto del popolo,
quando, una volta violata la disciplina militare, i soldati semplici non
avrebbero più obbedito ai centurioni, il centurione al tribuno, il tribuno
al luogotenente, il maestro di cavalleria al dittatore; e nessuno avrebbe
più avuto rispetto per gli uomini e riverenza per degli dèi, nessuno
avrebbe più tenuto in alcun conto gli ordini dei comandanti e gli auspici,
i soldati avrebbero vagato senza permesso in zone pacifiche come in area
nemica, dimentichi del giuramento prestato avrebbero abbandonato il
servizio quando e dove lo avessero voluto; le insegne sarebbero state
abbandonate e gli uomini non si sarebbero adunati dopo aver ricevuto
l'ordine di farlo, anzi avrebbero combattuto senza fare distinzioni tra il
giorno e la notte, tra le posizioni favorevoli e quelle sfavorevoli, tra
l'ordine e il divieto del comandante; non avrebbero aspettato il segnale,
né mantenuto la posizione nello schieramento; il servizio militare, un
tempo onorato e rispettato, si sarebbe trasformato in una forma di
brigantaggio avventuroso e casuale. «Di queste colpe, o tribuni della
plebe, assumetevi voi la responsabilità per tutti i giorni a venire, e
lasciate che siano le vostre teste a pagare per l'indisciplina di Quinto
Fabio».
35 I tribuni, attoniti e ormai preoccupati più per se stessi che
per l'uomo a favore del quale veniva richiesta la loro intercessione,
vennero liberati dal peso della responsabilità per il volere unanime del
popolo romano che si rivolse al dittatore implorandolo con suppliche e
preghiere di condonare per grazia sua la pena al maestro di cavalleria.
Anche i tribuni, seguendo quell'esempio, imploravano con insistenza il
dittatore di perdonare l'errore dell'uomo e la giovane età di Quinto
Fabio, il quale aveva già pagato abbastanza. Ora il ragazzo stesso, ora il
padre, messa da parte ogni intenzione polemica, si prostravano alle
ginocchia del dittatore cercando di stornarne la collera. Fu allora che il
dittatore, dopo aver ottenuto silenzio, disse: «Così sia, o Quiriti: hanno
avuto la meglio la disciplina militare e l'autorità della carica, che dopo
la giornata di oggi avevano corso il rischio di non esistere più. Quinto
Fabio, che ha combattuto contro gli ordini del dittatore, non viene
assolto dal reato; pur essendo stato riconosciuto colpevole di tale
imputazione, viene graziato in nome del popolo romano e del potere dei
tribuni, i quali sono intervenuti in suo aiuto con le suppliche e non con
l'intercessione prevista dalla legge. Vivi, Quinto Fabio, più felice per
il consenso unanime dimostrato dalla città nel volerti proteggere che per
la vittoria per la quale poco fa esultavi. Vivi, anche se hai osato
commettere un'azione che nemmeno un padre ti avrebbe perdonato, trovandosi
al posto di Papirio. I rapporti con me torneranno a essere dei migliori
quando tu lo vorrai. Quanto al popolo romano, al quale devi la vita, non
puoi fare nulla di meglio che dimostrare che questo giorno ti ha insegnato
chiaramente a sottostare, tanto in pace quanto in guerra, all'autorità
costituita». Poi, dopo aver dichiarato che lasciava libero il maestro di
cavalleria, scese dalla tribuna e il senato in festa e il popolo ancora
più in tripudio li circondarono e li seguirono, rallegrandosi ora con il
maestro di cavalleria, ora con il dittatore. Sembrò così che il pericolo
corso da Fabio non avesse contribuito meno della miserabile fine del
giovane Manlio a consolidare l'autorità militare.
Per caso quell'anno successe che, ogni qual volta il dittatore si
allontanava dall'esercito, i nemici prendevano iniziative nel Sannio. Ma
con l'esempio di Quinto Fabio di fronte agli occhi, Marco Valerio, il
luogotenente preposto all'accampamento, temeva la collera irrazionale del
dittatore più di qualunque assalto nemico. E così, quando un gruppo di
soldati inviati a fare provviste di frumento caddero in un'imboscata in un
punto sfavorevole e furono massacrati, l'opinione comune fu che il
luogotenente li avrebbe potuti soccorrere se non avesse avuto paura delle
severe disposizioni del dittatore. L'indignazione per questo fatto alienò
ancora di più al dittatore le simpatie dei soldati, i quali erano già in
precedenza maldisposti per l'intransigenza dimostrata nei confronti di
Quinto Fabio e per il fatto che Papirio aveva concesso quella grazia al
popolo romano, disdegnando invece le loro suppliche.
36 Quando il dittatore rientrò nell'accampamento dopo aver affidato
a Lucio Papirio Crasso il comando in città e aver vietato al maestro di
cavalleria Quinto Fabio di prendere qualunque iniziativa inerente alla sua
carica, il suo arrivo non fu troppo gradito ai concittadini, né spaventò
minimamente il nemico. E infatti il giorno seguente, sia perché non
sapevano che il dittatore era rientrato, sia perchè non attribuivano
grossa importanza al fatto che egli fosse presente o meno, si avvicinarono
all'accampamento schierati in ordine di battaglia. Ma l'importanza
attribuita a un solo uomo, Lucio Papirio, era tanta che, se il favore dei
soldati avesse assecondato i piani del loro comandante, certo quel giorno
la guerra coi Sanniti avrebbe potuto esser portata a compimento: tale fu
l'abilità dimostrata da Papirio nello schierare le truppe, proteggendole
con la scelta di un luogo favorevole e dei rincalzi, e impiegando ogni
accorgimento tattico. Ma gli uomini non si impegnarono, e a bella posta la
vittoria fu gettata al vento per screditare il comandante. Tra i Sanniti
ci furono più vittime, più feriti tra i Romani. L'esperto comandante
comprese quale fosse l'ostacolo sulla via della vittoria: avrebbe dovuto
moderare la propria indole e contemperare il rigore con un po' di umanità.
E così, accompagnato dai luogotenenti, visitò di persona i soldati feriti,
e mettendo la testa dentro le tende domandava a ciascuno come stesse;
indicando il nome di ognuno di essi, ne affidava la cura a luogotenenti,
tribuni e prefetti. L'iniziativa era già di per sé popolare, ma Papirio la
condusse in maniera così abile che, curando i corpi dei suoi uomini,
conquistò rapidamente il loro favore, e niente accelerò la loro guarigione
quanto l'entusiasmo con il quale essi accolsero quell'interessamento.
Quando le condizioni della truppa furono ristabilite, Papirio affrontò il
nemico senza alcun dubbio sugli esiti dello scontro: i Sanniti vennero
travolti e messi in fuga in modo così netto che quello fu il loro ultimo
scontro con il dittatore. L'esercito vincitore si spostò poi nella zona
dove c'era qualche speranza di fare bottino: attraversò il territorio
nemico, senza mai trovare resistenza armata, né allo scoperto né in
imboscate. L'operosità dei soldati era accresciuta dalla promessa del
dittatore di lasciare loro l'intero bottino, e l'idea di un guadagno
individuale li spingeva contro il nemico più del furore patriottico.
Scoraggiati da queste disfatte, i Sanniti chiesero la pace al dittatore,
con il quale concordarono di dare a ogni soldato un'uniforme e la paga di
un anno; e avendo da lui ricevuto l'ordine di presentarsi di fronte al
senato, essi risposero che avrebbero seguito il dittatore, affidando la
propria causa unicamente alla sua lealtà e al suo senso dell'onore. Così
l'esercito venne richiamato dal Sannio.
37 Il dittatore entrò a Roma in trionfo. Avrebbe voluto rinunciare
alla carica, ma per ordine del senato, prima di abdicare, nominò consoli
Gaio Sulpicio Longo (eletto per la terza volta) e Quinto Emilio Cerretano.
I Sanniti, in disaccordo sui termini del trattato, partirono da Roma senza
avere concluso la pace, ma ottenendo una tregua annuale. Neppure
quest'ultima essi rispettarono lealmente: quando appresero che Papirio era
uscito di carica si sentirono incoraggiati a riprendere le armi.
Durante il consolato di Gaio Sulpicio e di Quinto Emilio - alcuni
annali riportano Aulio -, alla defezione dei Sanniti si aggiunse una nuova
guerra con gli Apuli. A Sulpicio toccarono i Sanniti, a Emilio gli Apuli.
Alcuni storici scrivono che la guerra non fu combattuta propriamente
contro gli Apuli, bensì in difesa di popoli loro alleati minacciati dalla
violenza e dalle offese dei Sanniti. Ma le condizioni di questi ultimi,
che in quel periodo erano a malapena in grado di respingere la guerra dal
loro territorio, rendono più verosimile che non siano stati loro ad
attaccare gli Apuli, ma che i Romani abbiano combattuto contemporaneamente
l'uno e l'altro popolo. Ciò non ostante non ci furono scontri degni di
essere menzionati. I Romani devastarono il territorio degli Apuli e dei
Sanniti, senza mai incontrare nemici in entrambe le zone.
A Roma un allarme notturno svegliò all'improvviso la popolazione,
spaventandola al punto che Campidoglio, cittadella, mura e porte si
riempirono di armati. E dopo che in ogni parte della città si corse e si
gridò «Alle armi!», alle prime luci del giorno non si scoprirono né
l'autore né la causa di quel panico.
Nel corso di quello stesso anno, su proposta del tribuno della plebe
Marco Flavio, i Tuscolani vennero giudicati di fronte al popolo. Il
tribuno propose di punire gli abitanti di Tuscolo per aver offerto aiuto e
consigli a Veliterni e Privernati nella guerra contro il popolo romano. I
cittadini di Tuscolo vennero a Roma con mogli e figli. Questa massa di
persone, vestite da supplici e con l'aspetto di imputati, fece il giro
delle tribù, gettandosi alle ginocchia di tutti. E così accadde che la
compassione suscitata fu più efficace nell'ottenere la remissione della
pena di quanto non lo fossero gli argomenti usati per scagionare i
Tuscolani dalle accuse. Tutte le tribù, salvo la Pollia, respinsero la
proposta. La Pollia votò invece che gli uomini in età adulta venissero
fustigati e passati per le armi, e che mogli e figli venissero venduti
all'asta attenendosi alla legge di guerra. È noto che fino al tempo dei
nostri padri i cittadini di Tuscolo mantennero vivo il ricordo di una
proposta tanto atroce, e che di solito un candidato della tribù Pollia non
riusciva mai a ottenere il voto favorevole da parte della Papiria.
38 L'anno seguente, durante il consolato di Quinto Fabio e di Lucio
Fulvio, per la minaccia di una guerra più grave con i Sanniti (che si
diceva avessero raccolto una milizia mercenaria assoldandola tra le
popolazioni dei dintorni), il dittatore Aulo Cornelio Arvina e il maestro
di cavalleria Marco Fabio Ambusto con un'energica leva militare formarono
un eccellente esercito che condussero contro i Sanniti. Si erano accampati
in territorio nemico senza quasi preoccuparsi della loro posizione, come
se gli avversari fossero stati a miglia di distanza, quando all'improvviso
arrivarono le legioni dei Sanniti che avanzarono con tanta sicurezza da
arrivare a costruire la trincea nei pressi dei posti di guardia romani.
Ormai stava per calare la notte, e questo impedì loro di assaltare le
difese dei Romani. Ma non nascondevano affatto l'intenzione di farlo il
giorno successivo, alle prime luci dell'alba. Il dittatore, quando vide
che lo scontro era più vicino di quanto si aspettasse, nel timore che la
posizione svantaggiosa nuocesse al valore dei suoi uomini, lasciò dietro
di sé molti fuochi accesi la cui vista ingannasse il nemico, e in silenzio
portò fuori le legioni. Ma la vicinanza dei due accampamenti gli impedì di
passare inosservato. La cavalleria sannita, gettatasi immediatamente
all'inseguimento, tenne sotto pressione l'esercito in marcia, pur senza
arrivare allo scontro, fino a quando non fu giorno. Nemmeno la fanteria
uscì dall'accampamento prima dell'alba. Alla fine, quando sorse il sole,
la cavalleria si spinse ad attaccare i Romani: agganciandone la
retroguardia e incalzandoli in corrispondenza di passaggi difficili ne
rallentò la marcia. Nel frattempo la fanteria seguì la cavalleria e ormai
i Sanniti premevano con tutte le loro forze. Allora il dittatore,
rendendosi conto di non poter avanzare se non a prezzo di gravi disagi,
ordinò di porre l'accampamento nello stesso punto in cui si era fermato.
Ma, circondati com'erano dalla cavalleria nemica, non fu loro possibile
andare in cerca di legname per la palizzata e iniziare i lavori di
fortificazione.
E così, quando vide che non gli era possibile né avanzare né
accamparsi, Cornelio schierò l'esercito in ordine di battaglia, dopo aver
spostato i carriaggi dalla linea d'attacco. Si schierano anche i nemici,
con pari forze e determinazione. Ciò che più di ogni altra cosa ne
accresceva l'animosità era questo: ignorando che i Romani si erano
ritirati di fronte non al nemico ma a una posizione svantaggiosa,
pensavano che avessero ripiegato per paura. Questa convinzione per qualche
tempo mantenne in equilibrio la battaglia, benché da anni ormai i Sanniti
non riuscissero a sostenere nemmeno l'urlo di guerra dell'esercito romano.
E, per Ercole, si dice che quel giorno, dall'ora terza all'ottava, l'esito
dello scontro fu così incerto, che l'urlo di battaglia non venne rinnovato
dopo quello che diede inizio al combattimento, che le insegne non vennero
spostate in avanti né ritirate nelle retrovie e che da una parte e
dall'altra non vi furono cedimenti, in alcun punto. Ciascuno combatteva
restando fermo al proprio posto, opponendo gli scudi agli scudi, senza
tirare il fiato e senza fermarsi a guardare indietro. Il fremito inesausto
e l'andamento costante della battaglia facevano pensare che solo la fine
delle energie o il calare della notte avrebbero posto termine allo
scontro. Ormai agli uomini venivano meno le forze, alle spade la tempra
abituale, ai comandanti le idee: quand'ecco che all'improvviso i cavalieri
sanniti, appreso da un loro squadrone spintosi più avanti che le salmerie
romane si trovavano lontane dagli uomini armati e non erano protette da
guarnigioni o da dispositivi di difesa, si gettarono all'assalto spinti
dall'avidità di bottino. Quando un messaggero trafelato riferì la cosa al
dittatore, questi disse: «Lasciate pure che si appesantiscano con la
preda». Arrivarono poi altri messaggeri e altri ancora, a riferire che i
nemici stavano saccheggiando e portando via i beni dei soldati. Allora,
convocato il maestro di cavalleria, gli disse: «Ma non vedi, o Marco
Fabio, che i cavalieri nemici hanno smesso di combattere? Sono rimasti
invischiati alle nostre salmerie. Aggrediscili mentre sono dispersi, come
tutti i soldati occupati a razziare! Ne troverai pochi in sella, pochi con
la spada in pugno. Mentre stanno caricando di bottino se stessi e i propri
cavalli, massacrali, inermi come sono, copri di sangue il loro bottino. Io
mi occuperò delle legioni e delle manovre dei fanti: sia tuo l'onore della
battaglia equestre!».
39 La cavalleria, schierata come meglio non sarebbe stato
possibile, assalì i nemici dispersi e appesantiti, seminando strage
ovunque. Furono massacrati perché, avendo tra i piedi i bagagli che
avevano abbandonato in fretta e furia e che impedivano i movimenti ai
cavalli terrorizzati nel pieno della rotta, non poterono né combattere né
fuggire. Marco Fabio poi, distrutta o quasi la cavalleria nemica, compì
una breve manovra di accerchiamento e prese alle spalle la fanteria. Le
nuove grida che si udirono da quella parte seminarono il panico tra i
Sanniti, e il dittatore, quando vide gli uomini delle prime file nemiche
voltarsi indietro, le loro insegne confondersi e lo schieramento
ondeggiare, allora incitò i soldati, e chiamando per nome tribuni e
comandanti di compagnia li esortava a sferrare un nuovo attacco insieme
con lui. Levato un nuovo urlo di guerra, si gettarono all'assalto, e col
procedere della manovra vedevano i Sanniti sempre più in preda alla
confusione. I primi erano già in vista dei cavalieri romani, e Cornelio,
voltandosi indietro verso i manipoli di fanti, faceva capire come poteva,
a gesti e a parole, che già scorgeva vessilli e scudi dei cavalieri. Non
appena udirono e insieme videro la cosa, gli uomini dimenticarono di colpo
le fatiche sostenute per quasi tutto il giorno e le ferite subite, e si
lanciarono contro il nemico, come se arrivati freschi dall'accampamento
avessero ricevuto in quel momento il segnale di battaglia. E i Sanniti non
riuscirono a resistere più a lungo alla furia dei cavalieri e all'urto dei
fanti: parte di essi presa in mezzo venne uccisa, parte invece fu dispersa
e messa in fuga. I fanti circondarono e finirono quelli che resistevano. I
cavalieri fecero strage dei fuggitivi, tra i quali cadde anche il
comandante.
Questa battaglia fiaccò il morale dei Sanniti: in tutte le riunioni
mormoravano ormai che non c'era da stupirsi se non riuscivano a conseguire
risultati in una guerra scellerata che era stata scatenata violando un
trattato, e nella quale gli dèi erano, a ragione, più ostili degli uomini.
La colpa del conflitto andava espiata e la purificazione sarebbe costata a
caro prezzo. La sola incertezza era se si dovesse pagare con il sangue dei
pochi colpevoli o con quello dei molti innocenti, mentre c'era già chi si
spingeva a fare i nomi dei responsabili delle ostilità. Se ne distingueva
uno in particolare: erano tutti d'accordo nel denunciare Papio Brutulo, un
potente nobile che aveva senza dubbio infranto la tregua più recente.
Costretti a giudicare il suo caso, i pretori decisero che Papio Brutulo
venisse consegnato ai Romani e che con lui fossero inviati a Roma l'intero
bottino e i prigionieri, e che tutto ciò di cui i feziali avevano chiesto
soddisfazione in base al trattato fosse restituito secondo la legge divina
e umana. Dopo questa deliberazione, i feziali partirono per Roma portando
con sé il corpo esanime di Brutulo, il quale si era sottratto con il
suicidio alla pena e all'umiliazione. Insieme col corpo venne deciso di
consegnarne anche i beni. Ma di tutte queste cose i Romani accettarono
solo i prigionieri e gli oggetti che furono riconosciuti come propri; il
resto fu respinto. Il dittatore ottenne il trionfo per decreto del
senato.
40 Alcuni autori riportano che questa guerra venne combattuta dai
consoli, e che furono loro a trionfare sui Sanniti. Stando a loro, Fabio
sarebbe penetrato in Apulia e di lì avrebbe portato via grande bottino. Il
fatto che quell'anno Aulo Cornelio fosse dittatore non è in questione. Il
dubbio è se fosse stato eletto per occuparsi della campagna, oppure perché
ci fosse un magistrato a dare il segnale alle quadrighe nei Giochi Romani
- il pretore Lucio Plauzio era allora gravemente ammalato -, e avesse
quindi rinunciato alla carica di dittatore dopo aver compiuto la funzione
non proprio memorabile per la quale era stato eletto. Non è facile
scegliere tra le varie versioni e i diversi autori. Ho l'impressione che i
fatti siano stati alterati dagli elogi funebri o da false iscrizioni
collocate sotto i busti, dato che ogni famiglia cerca di attribuirsi il
merito di gesta gloriose con menzogne che traggono in inganno. Da quella
pratica discendono sicuramente sia le confusioni nelle gesta dei singoli
individui, sia quelle relative alle documentazioni pubbliche; per quegli
anni non disponiamo di autori contemporanei agli eventi, sui quali ci si
possa quindi basare con certezza.