Racconti e Favole                                                                                                                                                                                

 

      RACCONTI RACCONTI BREVI

giorgio pizzi 

MANHATTAN BRIDGE  

Sono le 12,30 a.m. , come si dice qui negli States o ovunque nel mondo dove ci sia stata un influenza anglosassone. Ho finito il mio turno di lavoro al ristorante dove faccio il cameriere e sto riordinando le mie cose prima di attrezzarmi per affrontare il freddo glaciale che questa citta` mi regala in questa notte di gennaio. Esco dal retro ed una raffica polare di vento mi investe ricordandomi dove sono e facendomi stringere tutti i muscoli pensando a come sia stato possibile,per i primi pionieri, scegliere un posto come questo per viverci. Riflettendoci, realizzo che il porto naturale che l`isola di Manhattan possiede doveva essere di strategica importanza per il commercio ed inoltre la posizione geografica doveva essere sicuramente una valida protezione contro i pericoli di allora; indiani compresi. Ho iniziato a lavorare in questo ristorante italiano, a Manhattan,da pochi giorni e sto rifacendo la gavetta di nuovo. Sicuramente non e`come era lo scorso mese dove ricoprivo la carica di general manager in uno dei ristoranti pił alla moda di New York.E`una sensazione davvero strana paragonabile ad una caduta libera se non la si contrasta con un po` di umilta` e con la consapevolezza che il tutto e` assolutamente relativo. E` un po`come dire che non ci si preoccupa se oggi si mangia pane e cipolla perche` si e` sicuri che si ritornera` ben presto a mangiare il caviale. Il freddo e` pressante, entra dentro le ossa e devo ancora percorrere un paio di blocchi per raggiungere la piu` vicina fermata della subway che mi portera` a casa, in Astoria, subito dopo il ponte, quel ponte luminoso che separa la grande mela dal resto di New York. Riesco a raggiungere la fermata ormai quasi congelato mentre il mercurio é sceso a meno 18 gradi. Sotto la subway la temperatura e` appena superiore ma sembra essere un sollievo e dopo circa 25 minuti di attesa si sente in lontanaza l`inconfondibile rumore del treno in arrivo che genera, non solo in me, una sensazione di gioia indescrivibile: ci si sente quasi nel calduccio di casa.Il treno entra in stazione, come un condottiero di ritorno da una campagna vittoriosa, acclamato dal popolo in attesa. In un attimo la disperazione affiore nei nostri volti quando ci si rende conto che la composizione dei vagoni non e` quella solita ma di un treno in transito per un servizio di manutenzione non destinato quindi al trasporto di persone.Tutti noi in attesa siamo ormai quasi congelati e con svariate ore di lavoro sulle spalle, nella maggioranza dei casi.Immediatamente dopo l`apparizione del fantasma del treno una voce all`interfono ci avverte,senza un minimo di delicatezza e comprensione, che per motivi non noti tutti i treni in servizio per Astoria sono sopressi.Un boato di proteste si eleva dalla buca sotterranea della stazione.E` praticamente, come lasciare al freddo glaciale della strada centinaia di persone che sono percio` costrette a trovare mezzi di fortuna o taxi costosi per tornare a casa. La gente sale le scale per raggiungere la superfice ostacolandosi e imprecando. Anch`io faccio del mio meglio per risalire in superfice cercando di contrastare il freddo che diventa sempre piu` insistente man mano che mi avvicino al livello stradale.Giunto in superfice, nelle strade adiacenti la stazione della subway, il panorama e`da panico. La gente e`sparpagliata per le strade ed e`alla ricerca disperata di un taxi giallo newyorkese disponibile a quell`ora della notte. Realizzo subito che non posso restare li` e decido di spostarmi di qualche blocco per uscire dalla tenaglia della massa in cerca della medesima cosa. Cammino per circa 6 blocchi verso sud e finalmente riesco a trovare un taxi disponibile che mi trova ormai disidratato dal gelo.Il taxi, per fortuna, e`riscaldato e ben presto si ritrova ad attraversare il ponte, quell`immenso ponte a piu` piani dove scorrono i destini di milioni di persone ogni giorno.Quel ponte da dove e`possibile vedere l`indescrivibile grandezza di una citta` compressa come New York dove il tempo scorre piu` veloce che in ogni altra parte del mondo, dove vi sono concentrate ricchezze inestimabili e dove le persone non sono piu`persone ma numeri o simboli indecifrabili che vivono come automi senza piu` un anima. Sono ancora appiccicato al finestrino del taxi ad osservare, attraverso gli enormi tralicci di questo storico ponte, le canne fumarie che sputano fumo bianco nel cielo come per ricordarmi che in questa citta` non si dorme mai e per sottolineare la propria forza e il proprio potere. Questo ponte e tutte le mie riflessioni sembrano essere un insieme surreale di cose concrete, un cocktail di verita` un po` amare a cui e`difficile dare un senso. Ringrazio le metropolitane di New York per avermi dato la possibilita`di pensare un po`liberamente questa notte e di riflettere su questo assurdo mondo rinfrescando la mia anima per migliorarlo.

 

 

 

GIORGIO PIZZI    Colpo di Fulmine   

E`una giornata d`inverno qui a New York ,di quelle che non ti eccitano proprio al massimo. Il cielo e`grigio e si chiede se scrollare giu`un po`di acqua oppure inventare fiocchi bianchi di neve da sformaggiare su di una citta` che non ne sara`certo rallegrata. La mia compagna attuale, e`cosi` che preferisco chiamarla, ha il suo ennesimo appuntamento con il suo dottore specialista di turno. Oggi e`il turno della clinica del sonno. Usciamo da casa con un po`di ritardo e come al solito il ritardo aumenta giacche`ci incamminiamo attraverso innumerevoli fermate per cose che sembrano inutili. E`una vera scommessa riuscire ad andare da qualche parte con qualcuno che sembra avere la caratteristica di farti rallentare in continuazione. Lo chiamero`effetto paracadute.Il tempo scorre inesorabile mentre il tratto da percorrere per giungere all`appuntamento con lo specialista sembra non diminuire con la stessa proporzione.Non nascondo che un certo nervosismo comincia ad affiorare in me e cosi` decido di contrastarlo con il buon umore e con tanta comprensione. Decido di prendere un taxi,uno di quelli privati in sosta sotto le fermate della subway sempre in attesa di gente con il problema del trasporto da risolvere.Lo troviamo pronto al suo morzo inesorabile.In pratica ci chiede circa il doppio della tariffa esercitata dal normale servizio dei Cab della citta`.Per capirci quelli gialli.Ma e`tutto normale qui a New York.Il primo pescecane della giornata e`stato incontrato...andiamo avanti.30 dollari americani per 13 minuti di percorso....bella media. Niente mancia perche`in questi casi credo che il buon senso e la collera repressa diano come risultato un" fatti fottere bastardo" che ne deriva automaticamente.Il taxi privato,di color nero carro funebre,raggiunge la destinazione e cosi`i $30 svaniscono dalle mie mani.Quei $30 tenuti in mano per tutta la durata del tragitto,una banconota da $10 ed una da $20 ripigate per la loro lunghezza nella mia mano serrata dolcemente.Si fa per dire.Le interruzioni e i rallentamenti di percorso riprendono come d`incanto:ora un colpo di tosse che ti fa`pensare....potrebbe essere un principio di TBC, poi una riflessione su la grandezza di una chiesa dall`altra parte della strada, successivamente una domanda di come sia grande il culo di una passante rispetto al suo e il ricordarsi del dolore al suo piede sinistro. Il tutto in un tratto di meno di 15 metri. Non male come media considerando che si sta`tentando di essere in orario per un appuntamento da uno specialista. Osservo nella mia tasca la mia disponibilita` giornaliera di pazienza e comprensione e decido di usarne un po` per l`occasione.L`entrata della clinica e` inconsueta per un Europeo. C`e` una reception, con relativo "Door Man" e l`arredamento e` quello tipico dei building di Manhattan: molto illuminato, pavimento pulito, che ci si puo` mangiare...se non si considera i ratti di ogni taglia che gironzolano indisturbati durante la notte, qualche quadro apparentemente costoso in cornici appariscienti, qualche poltrona appoggiata ai muri e le porte metalliche degli ascensori con i loro display luminosi e suoni spaziali. Il contrasto e` sublime. La clinica e`situata, neanche a farlo apposta, al 17th piano. Non faccio commenti e mi faccio una risatina sotto i baffi che non ho piu`. Arrivati al piano e`come entrare in un appartamento dove la porta di casa e`costituita da quella dell`ascensore.La reception e`sulla sinistra,praticamente un buco al muro largo circa 3 metri con un davanzale di legno che affaccia in una stanza dove operano 3 ragazze con computers , stampanti e telefoni dapertutto. Una delle tre e` di colore tipico, afro-americano, molto gentile.Riconosce subito la mia compagna ed inizia uno scambio di battute tra il come stai, che schifo di tempo , come si dorme, si va meglio etc.Nel frattempo anche le altre due si associano ,piu` discretamente, alla conversazione continuando a svolgere contemporaneamente altro. Le altre due sono anch`esse di colore ma di origine Indiana e devo dire che una in particolare era di una bellezza e sensualita` da urlo. Gli sgurdi si incrociano e una luce speciale si accende. Era come se ci fossimo ritrovati piu` che incontrati. C`era poesia e sensualita`con scariche adrenaliniche reciproche in un contesto che ci vedeva protagonisti a dividere ricordi di tenerezze,esperienze ed orgasmi vissuti e mai esistiti. Il tempo sembrava in bilico tra il fantastico e il surreale. Uno sgurdo reciproco di pochi istanti che sembro` un eternita`. Al momento del congedo un colpo alla bocca dello stomaco mi assale allontanandomi da quella visione Indiana di sensualita`e purezza, assolutamente certo, con disperazione evidente, di non poterla mai piu` incontrare. Il dottore si affaccia in quel momento chiamandoci e il miraggio Indiano svanisce in un istante portandosi via pure quel residuo di nebbiolina che di solito rimane quando una nuvoletta sparisce a grande velocita`. (Cosi`come accade nei cartoni animati).

 

giorgio pizzi YVETTE  

Yvette era seduta su una panchina situata proprio al bordo di quel piccolo parco che si estendeva in quel fazzoletto di spazio tra un blocco ed un altro. Il classico giardinetto neworkese, come se ne vedono tanti nei film americani. Quel poco di verde con i suoi undici alberi spezzava, quasi per incanto, la freddezza di una citta`, come new york, votata all`asfalto ed al cemento. I suoi vestiti erano proprio originali. Amava colorarli con spruzzi di vernice, di tutti i colori, cappellino compreso. Adorava decorare in quel modo qualsiasi oggetto o accessorio ed era diventata questa la sua caratteristica. La gente del quartiere, ormai, la conosceva bene e sapeva che quella panchina era la sua casa. Molti di loro la evitavano, ignorandola completamente o disprezzandola, altri invece la salutavano e si fermavano a parlare con lei ammirando le modifiche che apportava, con quei colori, a tutto cio` che le capitava sottomano . Niente aveva scampo. Borsette, Camice, Magliette, scarpe, quaderni, agende...... tutto era adatto perche`lei potesse creare quella magia. Yvette era di colore e questo, anche se sembrera` strano in una citta` come new york nel 2005 , non l`aiutava a farsi ben volere. La panchina era davvero la sua casa cosi` come lei amava chimarla. Passi a trovarmi a casa piu` tardi ? diceva con una naturalezza quasi invidiabile, intendendo ovviamente la sua panchina. Passava il suo tempo a decorare gli oggetti piu` strani ascoltando della musica con il suo IPOD regalatogli da una amica dal cuore grande, diceva lei. Io ero manager di un ristorante italiano che si trovava a pochi metri da quella panchina ed fu naturale per me famigliarizzare con lei. Anche i ragazzi che lavoravano con me fecero altrettanto e si creo` un bel rapporto. Un giorno, alla fine di agosto Yvette regalo` una agenda tutta colorata , con il suo stile inconfondibile, ad un cameriere che lavorava con me per il suo compleanno, dedica e firma compresa......fu fantastico. Spesso le mandavo un piatto caldo di pasta e lei mi ricambiava con uno sguardo felice ed un sorriso sereno. Mi sbalordiva la sua freschezza di spirito e la sua serenita`. Io al suo posto, senza una casa ed un lavoro, sarei stato, probabilmente, depresso e disperato. Lei era l`immagine della felicita`. Era uno strano paradosso se si pensava a dove si era con tutta quella gente che correva, senza sosta, lavorando duramente e rincorrendo sogni ed ideali di consumo che, come ben sappiamo, difficilmente rendono felici per davvero. Lei con quella sua semplicita` era come se dimostrasse al mondo che non aveva capito un bel niente della vita. Che flash emozionale ! La guardavo dal fronte del ristorante che dormiva serena su quella panchina, in quel pomeriggio di Settembre, con l`aria ancora tiepida di un estate che ci stava per lasciare. Mi domandai all`improvviso : dove andrai ad abitare quando tra non molto il tiepido caldo di quei giorni di fine estate lascera` il passo al terribile freddo dell`inverno ? Era incredibile mi stavo preoccupando per lei e mi chiedevo come avrei potuto aiutarla. Passarono alcuni giorni ed il freddo, tanto temuto, arrivo`. Ero stato libero per un paio di giorni e quando tornai a lavorare vidi la panchina vuota con nessun pacco o pacchetto attorno. Se ne era andata poverina. Non aveva resistito ai primi freddi che qui a New York sono gia` di notevole spessore. Mi sembrava di aver perso un amico, di non sapere piu` come rintracciarlo e la cosa mi rattristo`. Passarono un paio di mesi e con l`incalzare del freddo il mio pensiero, sporadicamente, andava a cercare Yvette senza trovarla. Alla fine di Dicembre mi licenziai dal lavoro e passai dei giorni in giro per la citta` in cerca di un nuovo posto. Saltavo da una metropolitana all`altra muovendomi per la city come una palla da biliardo. Una mattina ero in un sottopassaggio alla quarantaduesima, che mi avrebbe portato a circa 4 blocchi piu` a ovest rispamiandomi almeno 5 minuti buoni di freddo glaciale, e camminando con la consueta fretta sentii una voce cantare da lontano accompagnata dal suono di una chitarra. Non so dire perche` ma la trovai famigliare. Piu` mi avvicinavo e piu` la famigliarita` aumentava. A pochi metri riconobbi Yvette che cantava dolcemente accompagnandosi con la sua chitarra colorata racimolando qualche dollaro. Ci abbracciammo e ci salutammo con tanta spontaneita`rimanendo increduli per cio` che stavamo provando. Qualche passante ci guardo` con aria sorpresa e con un espressione critica ma a noi non importo`molto, anzi, fu divertente condividere, in silenzio, un po` di compassione per loro. Fu` molto bello rincontrarla e fu stupendo vederla sorridere e dirmi : Quando vuoi passami a trovare , ora abito qui`! Yvette era ancora la Yvette che conoscevo e continuera` ad esserlo a dispetto di questo mondo che crede sempre di piu` a cio` che non esiste perdendo di vista la semplicita` che e`, spesso, il mezzo piu` sicuro per essere


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