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Anno X N° 424 7/7/10 |
Animazione
Missionaria - Una iniziativa di padre Silvano
L'infaticabile
padre Silvano Garello,sx, amico di Banglanews sin dagli inizi, ci ha
proposto una iniziativa che condividiamo completamente e che
proponiamo a tutti i lettori. Banglanews,
nella sua versione italiana, raggiunge ormai oltre 6000 lettori, la
maggior parte dei quali è interessata a conoscere l'attività
missionaria. Non poche sono le parrocchie e le diocesi che la ricevono
regolarmente. Padre
Silvano ci comunica inoltre che le bibliotechine per giovani e
ragazzi, da lui lanciate nelle varie missioni del Bangladesh, sono
ormai 82! La
proposta di padre Silvano è semplice: basta che i vari gruppi
missionari ci facciano brevemente conoscere le loro iniziative,
noi possiamo inserirle in Banglanews e così i lettori possono trarre
spunto per lanciare, ove possibile, qualche iniziativa simile nel loro
territorio. Per
noi sarebbe anche un aiuto perché troppo spesso non riusciamo a
trovare qualche articolo per la voce "Missioni" della nostra
newsletter. Per l'Ottobre missionario inseriremo settimanalmente, come
negli anni passati, le proposte delle pontificie Opere Missionarie.
Con
la speranza che tale nuova iniziativa possa portare "nuova linfa
missionaria" vi ringraziamo sin da ora. Un cordiale saluto e…
Buone vacanze Bruno
e Giuliano Nota: Banglanews non andrà in vacanza… vi sarà regolarmente inviata ogni settimana! |
Il
Papa: purificazione e missione di Gerolamo Fazzini
Mondo e Missione - 9 giugno 2010
"Spesso
ci preoccupiamo affannosamente delle conseguenze sociali, culturali e politiche
della fede, dando per scontato che questa fede ci sia, ciò che purtroppo è
sempre meno realista (il corsivo è nostro - ndr)". Ancora: "Si è
messa una fiducia forse eccessiva nelle strutture e nei programmi ecclesiali; ma
cosa accadrà se il sale diventa insipido?".
Questi
richiami severi Benedetto XVI li ha pronunciati in Portogallo, dove - rileggendo
in modo innovativo il celeberrimo "segreto di Fatima - ha ricordato al
popolo cristiano che la persecuzione maggiore per la Chiesa non deriva dagli
avversari esterni, ma dal peccato degli uomini di Chiesa.
Paradossale
questo Papa, troppo frettolosamente etichettato come reazionario: da uno dei
luoghi più cari alla tradizione cattolica, ha lanciato un messaggio a dir poco
provocatorio ed esigente. Come opportunamente sottolineato da Andrea Tornelli,
vaticanista del Giornale: "Ancora una volta Be¬nedetto XVI non ha
presentato una difesa d'ufficio dell'istituzione ecclesiastica, come hanno fatto
alcuni dei suoi collaboratori, ma ha mostrato di considerare anche questo
frangente storico come un'occasione di grazia e di purificazione".
Purificazione
e missione. Già, perché le due cose vanno insieme: una testimonianza efficace
chiede di essere credibile. Benedetto XVI ha detto chiaramente che "i tempi
nei quali viviamo esigono un nuovo vigore missionario", e di conseguenza
"autentici testimoni". Prima di chiederci se c'è spazio per la fede
nello scenario pubblico, prima di prendercela con gli avversari della Chiesa
(che pure esistono), il Papa ci invita a verificare la qualità della fede,
l'autenticità della testimonianza, la fragranza della carità.
Papa-boys e fans vari del "Panzerkardinal" sono pregati di prendere nota.
I
missionari "degli altri" di Giorgio Bernardelli
MissiOnLine
- giugno/luglio 2010
L'annuncio "ad gentes" dei non cattolici. Tra i 400 mila censiti nel mondo oggi la maggioranza è "evangelical". E accanto agli eredi delle storiche Società missionarie si affiancano i nuovi gruppi pentecostali
John
e Maria Dyer, londinesi, sono in Brasile dal 1977: a Na¬tal, nello Stato del
Rio Grande del Nord, sono i responsabili della Facoltà teologica e della
formazione dei laici della locale comunità battista. Il pastore John We¬sley
Kabango, invece, della Chiesa anglicana del Ruanda, è da poco diventato il
responsabile per l'Africa dei missionari della Uni¬ted Evangelical Mission,
l'organizzazione erede della storica Rheinischen Mission, i missionari
evangelici tedeschi. In Bangladesh James Pender è un missionario di quella
che, un tempo, fu la London Missionary Society: insieme a sua moglie Dipty
Linda, spende le sue giornate tra i santal, insegnando loro quella lingua
bengali che è un passaggio indispensabile per la promozione sociale di questa
minoranza.
Potrebbero
tranquillamente essere istantanee tratte dalle riviste delle nostre
congregazioni missionarie. Invece sono il volto dell'annuncio ad gentes
"degli altri", cioè di quei testimoni del Vangelo che spesso negli
stessi Paesi dove sono presenti le missioni cattoliche sono arrivati perché
inviati da altre confessioni cristiane. Un volto che la Conferenza di Edinburgo
- con il suo tema "Testimoniare Cristo oggi" - ci invita a riscoprire.
Prima ancora, però, di interrogarci su come vivere l'ecumenismo anche su questa
frontiera, vale la pena di provare a conoscere un po' meglio questi nostri
"vicini di missione". E allora proviamo a partire dai numeri: oggi nel
mondo i cattolici rappresentano circa la metà dei 2 miliardi e 292 milioni di
cristiani presenti nel mondo. Questa proporzione non si riflette, però,
automaticamente sul numero delle persone impegnate nella missione ad gentes: le
statistiche realizzate proprio in occasione di Edimburgo 2010 stimano in circa
400 mila il numero globale dei missionari di tutte le confessioni cristiane.
L'ultima edizione della Guida delle missioni cattoliche - pubblicata dalla
Congregazione per l'Evangelizzazione dei popoli nel 2005 - parlava di 158 mila
missionari cattolici (85 mila sacerdoti, 28 mila religiosi non sacerdoti e 45
mila suore). Pur tenendo presente che nel conto mancano i laici (conteggiati nel
totale di un milione 650 mila catechisti, che però per la stragrande
maggioranza sono cattolici locali), vuole comunque dire che la maggioranza dei
missionari nel mondo oggi sono non cattolici. Non era così - ad esempio - nel
1910, quando dei 62 mila testimoni del Vangelo inviati dalle Chiese nel mondo,
ben 35 mila erano cattolici.
IN
PROPORZIONE, dunque, in questo secolo è aumentata la missione delle altre
confessioni cristiane. Ma è un trend da leggere insieme a un altro dato: in
questi cento anni sono contemporaneamente cresciute (e di molto) le
denominazioni cristiane. Perché si parla comunmente di cattolici, ortodossi,
protestanti, anglicani, ma in realtà ciascuno di questi gruppi è composto da
"Chiese" tra loro molto diverse. Oggi le sigle censite sono oltre 41
mila, e la stragrande maggioranza sono espressione del mondo protestante e delle
Chiese indipendenti, cioè di quei gruppi cristiani che non sono legati alle
confessioni "storiche", ma si pensano esclusivamente su base locale.
Dunque i missionari sono sì di più, ma rischiano di essere l'espressione di un
cristianesimo ancora più diviso. Inoltre c'è anche un altro fattore generale
che va citato per spiegare l'aumento dei missionari non cattolici: nel mondo
evangelico e pentecostale è molto più forte che nelle nostre diocesi il
contributo delle Chiese del Sud del mondo alla missione ad gentes. Il caso
probabilmente più rappresentativo a questo proposito è quello della Corea del
Sud, che oggi conta nel mondo lo stesso numero di missionari dell'Italia.
Ma
- al di là dei numeri - chi sono i "missionari degli altri"? E quali
sono i loro gruppi più rappresentativi? È evidentemente impossibile tracciare
in poche pagine una mappa di un mondo così variegato. Ci limitiamo dunque a
segnalare qualche sigla e storia significativa. Partendo dalle presenze
"storiche", quelle che furono protagoniste un secolo fa della prima
Conferenza di Edimburgo. Dal punto di vista protestante, il padre delle missioni
moderne è considerato il pastore battista riformato inglese William Carey, che
nel 1792 pubblicò il suo manifesto per la "propagazione del Vangelo tra i
pagani" , per poi partire l'anno dopo alla volta del West Bengal, in India.
Nel solco della sua esperienza opera tuttora la Baptist Missionary Society, che
dal 2000 ha assunto il nome di Bms World Mission. Attualmente i suoi missionari
sono presenti in 34 Paesi in quattro continenti. "Come realtà missionaria
- si legge nella dichiarazione di intenti - vogliamo condividere la vita nella
sua pienezza con tutti i popoli del mondo offrendo loro la possibilità di
conoscere Cristo, alleviando le sofferenze e le ingiustizie e migliorando la
qualità della vita". Tra le frontiere più significative dove i missionari
battisti sono attualmente impegnati c'è l'Afghanistan, dove dal 1997 portano
avanti progetti sul fronte della sanità, del micro-credito e dello sviluppo
comunitario "nel nome e nello spirito di Gesù Cristo".
SEMPRE
nel solco tracciato da Carey si inseriva anche la London Missionary Society,
nata già nel 1795 come società missionaria "ecumenica", nel senso di
non legata a un'unica denominazione della galassia evangelica inglese. I prima
trenta missionari salparono da Londra alla volta delle Isole del Pacifico nel
1797. Oggi sono parte del Council for World Mis¬sion, una realtà che proprio
sviluppando quell'idea di incontro tra denominazioni diverse ha dato vita a una
"partnership di 31 Chiese in missione". Vi sono rappresentate comunità
storiche di Paesi europei (i protestanti olandesi, la federazione dei
congregazionisti inglesi) ma soprattutto Chiese del Sud del mondo (dai
presbiteriani dell'India ad alcune Chiese indipendenti africane).
IL
NODO del rapporto tra i missionari ad gentes e le strutture delle comunità
locali nate dal loro impegno evangelizzatore è un tema cruciale per realtà che
non hanno un riferimento di unità come la figura del Papa. Interessante, da
questo punto di vista, la scelta compiuta dalla Société des missions évangéliques
de Paris (Smep), altra sigla storica della missione protestante. Fu leggendo un
bollettino di questa realtà - tanto per fare un esempio - che Albert Schweit¬zer
nel 1904 maturò la sua decisione di lasciare la musica per mettersi a studiare
medicina e poi partire per il Gabon. Negli anni Sessanta, gli anni della
decolonizzazione in Africa, dentro la Société des missions évangéliques de
Paris si pose forte la questione dello status delle Chiese missionarie rispetto
alle Chiese d'origine dei loro missionari. Così nel 1971 arrivò la decisione
di dare vita a due organismi paralleli: da una parte nacque la Cévaa (Com¬munauté
évangélique d'action apostolique), una comunità che raggruppa 37 Chiese
protestanti di tutti i continenti. Era importante, però che non andasse
comunque persa la dimensione ad gentes delle realtà luterane e riformate
francesi che aderiscono alla Cévaa. Così nacque anche il Défap (Département
évangélique français d'action apostolique) che continua a inviare missionari
nel mondo.
Tra
le realtà anglicane merita assolutamente di essere citata la United Society for
the Propagation of the Gospel (Uspg), erede di quella Society for the
Propagation of the Gospel in Foreign Parts che già nel 1701 in quelli che
sarebbero diventati gli Stati Uniti svolgeva il proprio ministero anche tra gli
schiavi e i nativi. Oggi i missionari dell'Uspg sono tuttora presenti in 50
Paesi del mondo. "In Africa, Asia, Medio Oriente e America Latina -
scrivono sul loro sito - facciamo in modo che le Chiese anglicane possano
raggiungere anche i più poveri e gli emarginati". Tra le frontiere più
interessanti di questo apostolato c'è il Myanmar, dove esiste una piccola
comunità di 42 mila anglicani. Altra sigla strettamente legata alla Church of
England è la Church Mission Society, realtà anche questa con oltre duecento
anni di storia alle spalle e con presenze in tutti i continenti. Attualmente tra
missionari e cooperanti sostiene 148 progetti ai quattro angoli del mondo.
PIÙ
COMPLESSO il discorso sulla realtà degli Stati Uniti, il Paese da cui proviene
più di un quarto dei missionari presenti oggi nel mondo. Ma anche la realtà
dove la babele delle denominazioni si fa più difficile da districare. Qui la
sigla storicamente più importante è stato l'American Board of Commis¬sioners
for Foreign Missions: fondato nel 1812, oggi si chiama Global Ministries ed è
il braccio missionario della Chri¬stian Church (Disciples of Christ) e della
United Church of Christ. Sono ben 70 i Paesi del mondo in cui questi missionari
sono presenti, con progetti di collaborazione che coinvolgono 270 comunità
cristiane locali. Altra presenza consolidata è quella di Serving in Mission
(Sim), che ha raccolto il testimone di Sudan Interior Mission, una società
fondata alla fine del XIX secolo dai canadesi Walter Gowans e Roland Bingham e
dall'americano Tho¬mas Kent. Oggi ha esteso il suo raggio d'azione a 40 Paesi
in Africa, Asia e Sudamerica e ha impegnati sul campo 1.600 missionari. Ma a
fare realmente la differenza nell'impegno missionario degli Stati Unici sono le
realtà fiorite sull'onda del rinnovamento evangelico e pentecostale. Assemblies
of God - la principale denominazione pentecostale con oltre 300 mila comunità
in 212 Paesi - ha una rete imponente di evangelizzazione ad gentes: solo in
Africa può contare su 295 missionari propri e altri 67 associati, presenti in
50 diversi Paesi. Accanto a queste presenze, però, negli Stati Uniti ci sono
anche realtà molto più piccole e molto più giovani che mandano missionari in
giro per il mondo. Un esempio è Anglican Frontier Missions, nata appena nel
1993 in una comunità episcopaliana dell'Illinois con un obiettivo molto
ambizioso: concentrare l'attenzione sui 25 popoli più grandi e meno
evangelizzati. Va aggiunto, però, che spesso sono proprio questo tipo di gruppi
a destare perplessità per i metodi di evangelizzazione utilizzati, più legati
a un'ottica di promozione commerciale che alla gratuità dell'annuncio del
Vangelo.
UN
CAPITOLO a parte lo merita, infine, il mondo ortodosso. Anche a causa della
storia drammatica del XX secolo, le Chiese d'Oriente sono rimaste ai margini
della missione ad gentes. Ma ci sono alcuni segni interessanti che mostrano come
anche tra gli ortodossi stia crescendo questa sensibilità. L'esempio più
eloquente è la presenza ad Hong Kong di un metropolita del Patriarcato
ecumenico di Costantinopoli: l'arcivescovo Nektarios, originario della Grecia,
guida 47 comunità sparse per tutto l'Estremo Oriente, dal Pakistan alla
Malaysia. Legati alle missioni ortodosse sono anche attività assistenziali come
otto cliniche nel West Bengal, in India, o l'orfanotrofio per bambini
abbandonati di Singaraja, in Indonesia o i corsi di alfabetizzazione portati
avanti in Pakistan. Presenza numericamente del tutto simbolica in un territorio
così vasto; eppure ugualmente significativa per le vie nuove che potrebbe
aprire.
L'altra principale esperienza di missione ad gentes ortodossa è quella promossa dalle comunità che vivono negli Stati Uniti. Anche questo è un caso molto interessante, perché non è difficile immaginare che qui sia stato l'esempio delle migliaia di missionari evangelici, cattolici e pentecostali visti partire dalle altre Chiese americane a portare anche il mondo ortodosso a riscoprire questa dimensione. Una delle esperienze più belle in questo senso è quella di Lynette Hoppe, che dal Minnesota è partita per l'Albania. Missionaria cioè in un Paese storicamente ortodosso ma di fatto da rievangelizzare dopo le macerie dell'ateismo di Stato. Anche in Russia, infine, qualcosa si muove. Nel mese di aprile il Movimento missionario Profeta Daniele, guidato dal teologo ortodosso Yuri Maximov, ha organizzato per i cinesi che vivono a Mosca una speciale visita alla Laura di San Sergio. Ricollegandosi idealmente alla tradizione dei missionari russi in Cina, interrotta dall'avvento del comunismo. Inoltre, nel febbraio scorso, anche presso l'Istituto Teologico Santi Cirillo e Metodio di Minsk si è tenuto un seminario in preparazione alla Conferenza di Edimburgo 2010.
Undici
nuovi preti, nessun italiano! di Piero Gheddo
MissiOnLine - 8 giugno 2010
Nei
mesi di giugno e luglio 2010 saranno ordinati 11 sacerdoti missionari del Pime.
Quattro brasiliani, tre indiani, tre birmani, uno della Guinea Bissau. Nessun
italiano! E' la prima volta che succede, ma è indicativo di una realtà che
tutti conosciamo e lamentiamo: la decadenza della famiglia e della società
italiane, che non producono più bambini e nemmeno preti. Il 25 maggio 2010, il
cardinale Angelo Bagnasco, Arcivescovo di Genova, aprendo a Roma l'Assemblea
generale della CEI di cui è Presidente, ha parlato della famiglia dicendo fra
l'altro: "L'Italia sta andando verso un lento suicidio demografico. Oltre
il cinquanta per cento della famiglie oggi è senza figli e tra quelle che ne
hanno quasi la metà ne contemplano uno solo, il resto due e solo il 5,1% delle
famiglia ha tre o più figli".
La
conseguenza è che diminuiscono drammaticamente anche i sacerdoti. Nel 1990,
vent'anni fa, un prete straniero in servizio nelle nostre parrocchie era una
eccezione assoluta che attirava l'attenzione. Oggi i preti non italiani nelle
nostre parrocchie (parroci o viceparroci) sono più di duemila e si avvicinano
ai tremila tutti giovani natuiralmente (su 32.000 sacerdoti diocesani italiani)e
ogni anno aumentano, mentre i preti italiani diminuiscono. Il vescovo di una
diocesi del centro Italia mi diceva pochi anni fa: "Più di metà dei miei
preti diocesani non sono nati in diocesi e sono i più giovani. Vengono da varie
parti, non più dalle famiglie e parrocchiedella diocesi".
Un
altro vescovo, sempre del centro Italia: "Se non avessi trovato a Roma un
po' di sacerdoti polacchi, indiani, latino-americani, africani, dichiarerei il
fallimento della mia diocesi, perché negli ultimi vent'anni non abbiamo avuto
nemmeno un nuovo prete diocesano e oggi ci sono due nostri seminaristi che
studiano. In diocesi c'erano cinque ordini religiosi che avevano una parrocchia,
ne sono rimasti due, gli altri tre si sono ritirati per mancanza di
vocazioni". E non si tratta di due diocesi minime, ma di una certa
consistenza numerica di abitanti, nella quasi totalità battezzati nella Chiesa
cattolica.
Impegnato
da quasi sessant'anni nella stampa e animazione missionaria, questo è un fatto
che mi addolora molto. Ringrazio il Signore che nell'Assemblea generale del
1989, celebrata a Tagaytay nelle Filippine, il Pime ha deciso di diventare
internazionale, contro il parere di molti che ci volevano solo italiani come
all'origine. Personalmente ho sempre sostenuto la via dell'internazionalità,
fin dall'Assemblea generale del 1965 a cui ho partecipato: mi pareva assurdo che
un istituto missionario, aperto a tutto il mondo, fosse solo composto da
italiani! Ma poi, +grazie a Dio ed a diverse richieste di vescovi locali delle
missioni, l'Istituto è diventato internazionale.
Però
mi pongo anche questa domanda: come mai, fra i giovani italiani, e anche fra le
ragazze, pochissimi rispondono bussano alla porta degli istituti missionari
maschili e femminili, per chiedere di consacrare la vita all'annunzio del
Vangelo fra i non cristiani? Perchè la figura del missionario, affascinante
fino a un 30-40 anni fa, è molto decaduta nella cultura del nostro tempo e ben
poco presente nei mass media d'oggi?
Le risposte sono molte, ma sostanzialmente a me pare che gli istituti missionari, noi missionari in Italia, lo stesso "movimento missionario italiano" abbiamo perso buona parte della nostra identità e del nostro fascino. Il perché lo spiegherò meglio in un prossimo Blog.
"Chi
è il missionario oggi?" di Piero Gheddo
MissiOnLine - 12 giugno 2010
La
famiglia è in crisi, siamo nel sottozero demografico. "l'Italia sta
andando verso un lento suicidio demografico", dice il Presidente della
Conferenza episcopale italiana card. Angelo Bagnasco (25 maggio 2010). Ci sono
pochi bambini ed è inevitabile che diminuiscano i preti, le suore, i giovani
che consacrano la loro vita a Dio e alla Chiesa. Gli istituti missionari vedono
diminuire anche i missionari italiani, proprio negli anni in cui i vescovi dei
territori missionari chiedono nuovo personale missionario (vedi il Blog dell'8
giugno scorso).
Si dice spesso che oggi il "missionario"ha fatto il suo tempo: la Chiesa è fondata in ogni parte del mondo e il compito della missione passa alle Chiese locali e alla comunione fra le Chiese.
E' una
delle tante indebite
assolutizzazioni del post-Concilio, che non corrisponde a verità: la realtà
infatti dice tutto il contrario. Vorrei mi si spiegasse come mai il solo Pime,
che è uno dei tanti istituti missionari, negli ultimi trent'anni è stato
invitato a mandare missionari nei seguenti paesi in cui non eravamo presenti:
Papua Nuova Guinea (ci siamo andati nel 1981), Taiwan (nel 1986), Cambogia (nel
1990), Messico (nel 1991), Colombia (ma era da poco iniziata la missione in
Messico e non siamo andati), Algeria (nel 2006); e l'Istituto ha rifiutato altri
inviti da Corea del Sud, Malesia (Borneo), Kazakhistan, Angola, Etiopia, Libia,
Senegal, ecc. (per non ricordarne diversi altri dell'America Latina).
Contra
factum non valet argumentum, dicevano i latini: la realtà contraddice la teoria
che il missionario è una figura d'altri tempi, non più attuale nella Chiesa.
E' vero che missione alle genti è cambiata molto anche dal Concilio ad oggi, ma
cambiano anche gli istituti missionari ed i missionari. Andando a servizio delle
Chiese locali e dei loro popoli, cambia la formazione dei missionari e cambiano
gli stessi istituti. Comunque a me pare che, proprio in questo tempo di
globalizzazione (il mondo che diventa un piccolo villaggio), il missionario
dovrebbe e potrebbe diventare una figura sempre più attuale, se solo
mantenesse, in Italia (e più in genere in Occidente), la sua identità, il suo
carisma, la sua carica di entusiasmo evangelizzatore.
Questo
oggi è il vero problema di noi missionari e istituti missionari. Chi è il
missionario? Nell'opinione pubblica e nella stima comune eravamo gli inviati
dalla Chiesa ad annunziare e testimoniare Cristo e fondare nuove comunità
cristiane fra i popoli non cristiani: una figura fortemente rappresentativa
della fede in Cristo portata agli estremi confini della terra. Oggi siamo un po'
di tutto. Dal tempo entusiasmante delConcilio Vaticano II (1962-1965), che aveva
rilanciato con forza la missione universale, in pochi anni siamo precipitati
nella confusione di idee del Sessantotto, rimanendo travolti dalle "mode
culturali" del tempo. Viviamo nel "tempo dell'immagine", noi
missionari e il nostro "movimento missionario in Italia" non ce ne
siamo ancora accorti. Ci siamo resi conto che la nostra "immagine" è
decaduta?
L'immagine
del missionario si è a poco a pocopoliticizzata e siamo finiti in una
marmellata di buonismo, che è diventato la cultura di base del popolo italiano.
Sul campo, i missionari continuano il loro lavoro con spirito di sacrificio e di
fedeltà al carisma, in Italia l'immagine del missionario cambia, secondo me non
li rappresenta più.
Se
guardo le riviste missionarie di quarant'anni fa, mi accorgo che gli articoli
sulla missione, l'evangelizzazione dei popoli, le conversioni, i catecumeni, le
novità delle giovani Chiese, l'annunzio di Cristo nelle culture, la
presentazione di figure di missionari e delle loro esperienze, erano alla base
delle riviste e dei libri missionari, si parlava spesso di vocazione missionaria
a vita e ad gentes, proponendola in modo concreto ai giovani.
Oggi,
se cerco nel volume "Bibliografia missionaria", edito annualmente
dalla Biblioteca della Pontificia Università Urbaniana (la seguo da più di
mezzo secolo),che monitora gli articoli dell'anno precedente, mi accorgo che di
anno in anno diminuiscono le voci "missione",
"evangelizzazione", "vocazione missionaria"; in compenso
aumentano quelle che riguardano temi collaterali (pace nel mondo, sviluppo,
aiuti internazionali, debito estero, ecc.).
Ci
sono riviste che si dicono "missionarie" e di missionario hanno poco o
nulla; "Centri culturali" di istituti missionari che nel corso di un
anno organizzano molte conferenze, ma su temi della missione alle genti quasi
niente e sui missionari in carne ed ossa nulla; librerie di istituti missionari
che si suppone vendano libri missionari al pubblico, che in vetrina mettono
tutt'altro; animatori missionari che parlano di "mondialità" e poco o
nulla di "missione"; comunità di missionari che hanno perso
l'entusiasmo della missione alle genti e la buona abitudine di parlare della
loro vocazione, spiazzati dall'indifferenza del mondo moderno. E potrei
continuare. E' una deriva generalizzata della quale non incolpo nessuno, ma che
ci ha fatto perdere la nostra identità.
Sono
convinto che non esiste nella mentalità comune del popolo italiano una figura
più incisiva e più universalmente accolta di quella del missionario e
dell'ideale missionario. Ma noi, per timore di essere considerati
"intregralisti" e per malinteso senso del "dialogo", non
osiamo più parlare di conversioni a Cristo; mortifichiamo le esperienze
missionarie sul campo; riduciamo la missione della Chiesa agli aiuti a lebbrosi
e affamati; siamo "a servizio della Chiesa locale" ma dimenticando che
questo servizio dovrebbe essere soprattutto di animare missionariamente il
gregge di Cristo; pensiamo di fare "animazione missionaria"
denunziando e facendo campagne nazionali contro chi produce e vende armi e altri
temi certo positivi, ma che non sono "animazione missionaria"; in
passato nelle solenni "veglie missionarie" alla vigilia della Giornata
missionaria mondiale si sentivano le testimonianze dei missionari sul campo,
preti, suore, fratelli, volontari laici, oggi capita di sentire che in alcune
"veglie missionarie", organizzate da "gruppi missionari", si
contesta la produzione delle armi o la privatizzazione delle acque e parlano
esperti di questi temi. Ma è possibile che un giovane o una ragazza sentano la
voce dello Spirito che li chiama a diventare missionari in marce di protesta
come queste?
Indro
Montanelli rifletteva bene la mentalità comune del suo tempo, quando mi diceva
(collaboravo al suo "Il Giornale" e poi a "La Voce"):
"Voi missionari siete tutti eroi", io gli ribattevo che non è affatto
vero, siamo uomini come gli altri con una vocazione particolare nella Chiesa. Ma
oggi, quando il buon Dio ci manda dei testimoni autentici, i "santi"
del nostro tempo da lanciare come "eroi positivi" per colpire
l'immaginazione dell'opinione pubblica, l'animazione missionaria
"unitaria" li dimentica per non "creare degli eroi" e non
cadere nel "trionfalismo".
Mi
viene in mente padre Giuseppe Ambrosoli (1923-1987), missionario comboniano
medico di una facoltosa famiglia di industriali (l'industria del miele
Ambrosoli) che ho visitato all'ospedale di Kalongo nell'Uganda travagliata dalla
guerra. Al quale la rivista che dirigevo "Mondo e Missione" ha
dedicato un servizio speciale (dicembre 1987, venti pagine) di Roberto Beretta e
altri articoli. Una figura meravigliosa sulla quale è stata pubblicata una
rapida biografia alla Emi e poco più; penso a Marcello Candia (1915-1983),
anche lui figlio di un padre fondatore dell'industria chimica in Lombardia
(all'inizio del Novecento), che dopo una vita da manager industriale vende tutto
e va con i missionari in Amazzonia dove spende gli ultimi suoi 18 anni vivendo
poveramente e costruendo, fra molti contrasti e opposizioni, opere sanitarie ed
educative per i lebbrosi, i caboclos e gli indios: quando è morto (1983) le
riviste missionarie gli hanno dedicato poco spazio e una ha scritto: "Ha
costruito un ospedale in Amazzonia, ma questo è facile per lui che aveva molti
soldi", ignorando tutto della sua vita di autentico "martire della
carità"; penso a padre Clemente Vismara (1897-1988), missionario in
Birmania per 65 anni, che i vescovi locali hanno definito "il Patriarca
della Birmania" (se Dio vuole sarà beatificato l'anno prossimo); e a tanti
altri missionari veramente eroici.
Ma l'"animazione missionaria" non si accorge quasi nemmeno che questi santi del nostro tempo sono tra noi. Ripeto: non accuso nessuno, non è colpa di nesuno in particolare, è una deriva abbastanza generale (contro la quale però bisognerebbe reagire) che spiega molto bene perché il missionario sta perdendo la sua identità e la sua capacità di attrarre giovani e ragazze generosi, innamorati di Cristo, che danno la vita per portare Gesù ai popoli non cristiani. Ma noi missionari ci crediamo ancora davvero al nostro carisma? E dov'è l'entusiasmo per la nostra vocazione carismatica?
Commento all'Intenzione Missionaria di luglio 2010
Agenzia Fides - Città del Vaticano - 28 giugno 2010
"Perché i cristiani si impegnino ad offrire dappertutto, specialmente nei grandi centri urbani, un valido contributo alla promozione della cultura, della giustizia, della solidarietà e della pace"
Il mondo comtemporaneo vive in costante mutazione. I fenomeni economici, l'industrializzazione, la rivoluzione tecnologica, hanno prodotto sostanziali trasformazioni nelle strutture sociali, sia a livello individuale che familiare. Si verificano grandi migrazioni che concentrano milioni di esseri umani attorno ai grandi centri urbani, le cui zone periferiche sono di solito segnate dalla povertà e dalla carenza di strutture di base. Paradossalmente, anche nelle zone urbane caratterizzate da una economia forte, si constata con frequenza l'individualismo e la solitudine più dolorosa. Le relazioni interpersonali si disumanizzano, diventano fredde e impersonali.
Tutta questa realtà ha bisogno di essere evangelizzata! Le grandi città sono sempre più cosmopolite e diventano un aggregato di razze diverse, di culture diverse. In molte città di antica tradizione cristiana, non esiste attualmente una situazione sociale di cristianità, di valori basati nel Vangelo. In qualche modo, attraverso la globalizzazione, ogni città e ogni popolo è diventato un'immagine del mondo in cui sono presenti le realtà più diverse, le culture più diverse e anche una grande diversità di fedi religiose.
I discepoli di Cristo devono sentire il dolce dovere di presentare il Vangelo nella realtà sociale di tutti gli ambienti e tutti i luoghi. Dove le radici cristiane stanno scomparendo, è necessario presentare di nuovo, con convinzione e forza, la verità del Vangelo di Gesù Cristo. I nostri contemporanei sono particolarmente sensibili ad alcuni valori, come la solidarietà e la pace. Il Vangelo è sempre stato promotore di questi valori, perché in definitiva essi derivano dall'amore di Dio che ci ha donato in Cristo. Gesù Cristo si è spogliato del suo rango e si è fatto uno di noi attraverso l'Incarnazione, ha assunto la nostra povertà per farci partecipi della sua vita divina. E' Lui la nostra pace.
Di fronte alle sfide della situazione attuale, il Santo Padre ci chiama a contribuire a creare cultura, a rendere testimonianza alla giustizia. La cultura si manifesta nel pensiero, nei costumi, nell'arte, nella musica, nelle feste. Essa deriva dai valori fondamentali della società. Il Vangelo deve contribuire a rendere presenti nella società quei valori che caratterizzano la vera umanità, che elevano l'uomo, rendendolo in grado di fare dono di sé.
Perché ci sia una vera comunione fra gli uomini non è comunque sufficiente la vicinanza fisica. Abbiamo bisogno di una forza vincolante, creatrice di comunione. Come sottolineava Papa Benedetto XVI, "le grandi città europee e americane sono sempre più cosmopolite, ma spesso manca in esse questa linfa, capace di far sì che le differenze non siano motivo di divisione o di conflitto, bensì di arricchimento reciproco. La civiltà dell'amore è 'convivialità', cioè convivenza rispettosa, pacifica e gioiosa delle differenze in nome di un progetto comune, che il beato Papa Giovanni XXIII fondava sopra i quattro pilastri dell'amore, della verità, della libertà e della giustizia" ((Discorso al termine del Santo Rosario con gli universitari, 1 marzo 2008). La nostra missione è proprio quella di costruire questi pilastri con la forza del Vangelo, perchè siano in grado di sostenere un mondo che, in molti modi, minaccia di collassare.
Conseguenze
indirette, responsabilità globale di Paolo Beccegato
ItaliaCaritas
- giugno 2010
Papa Benedetto XVI fa avanzare il ragionamento sull’interdipendenza impostato da Giovanni Paolo II: le nostre scelte hanno effetti non immediati, ma tangibili, nel tempo e nello spazio. Carità intelligente è esserne consapevoli
“Responsabilità”
è tra le parole più usate da Benedetto XVI nella sua enciclica Caritas in
Veritate. La cosa non stupisce: di fronte alla crescente complessità dei
fenomeni, affrontare la questione sociale con valori e obiettivi alti, come
l’amore verso il prossimo, la ricerca della pace, la custodia del creato, il
dialogo interculturale, pone forzatamente di fronte alla necessità di coniugare
insieme carità con intelligenza, saggezza, lungimiranza, analisi,
discernimento. In altre parole, con il concetto di responsabilità.
Rispetto alla tradizione precedente, però, la riflessione sulla responsabilità viene posta, tra le righe della nuova enciclica, sulla base di indicazioni e modalità del tutto nuove e originali. Il Catechismo della Chiesa cattolica, infatti, insegna da sempre la responsabilità nei confronti delle conseguenze delle proprie azioni, con saggezza e coraggio, vincendo le tentazioni di ingiustizia e viltà (già lo scriveva San Tommaso d’Aquino nella Summa Theologiae). Entrati ormai nell’era della globalizzazione, nel 1987 la Sollicitudo Rei Socialis di Giovanni Paolo II riconosceva invece che ogni nostro comportamento ha conseguenze dirette o indirette su tutta l’umanità: “Siamo davvero tutti responsabili di tutti”. Si incominciava così a coniugare la solidarietà con il tema delle interdipendenze. In tal senso, in modo implicito nella forma, ma in modo esplicito nella sostanza, si cominciava ad affermare che ormai non siamo più responsabili solo di azioni dirette, immediatamente percepibili, semplici, visibili e quantificabili nel loro impatto nel tempo e nello spazio, ma anche delle azioni indirette.
Il
valore dei gesti quotidiani
Benedetto
XVI, nella nuova e rivoluzionaria enciclica Caritas in Veritate, si ricollega a
questo ragionamento, ma fa un passo del tutto nuovo. E ancora più esplicito,
allorché giunge a dare valore morale e responsabilità concreta anche ad azioni
di carattere quotidiano, come ad esempio gli acquisti, il risparmio e gli
investimenti (numero 45), considerati quanto al loro potere di esprimere carità
verso il povero, direttamente o indirettamente.
Il
ragionamento del papa è logico. Ormai percepiamo chiaramente che tutte le
nostre azioni hanno un impatto globale. Quanto io faccio hic et nunc, qui e ora,
ha conseguenze altrove e nel tempo, si ripercuote su altri (uomini o luoghi) e
nel futuro (sulle prossime generazioni e sulla terra di domani). Ne deriva una
responsabilità, che altro non è che la consapevolezza che le nostre scelte
hanno conseguenze indirette (cioè non immediatamente percepibili) nel tempo e
nello spazio. Di fatto è sempre stato così, ma ora ne siamo più consapevoli.
E soprattutto oggi possiamo facilmente sapere quali possono essere le
conseguenze indirette delle nostre azioni, di cui diventiamo corresponsabili.
Quindi tutte le responsabilità morali che la Chiesa da sempre ha trasmesso si
devono estendere alle conseguenze indirette del nostro comportamento.
Un
esempio è quello della finanza etica, che riguarda persone e organizzazioni. La
Caritas in veritate osserva che «si sviluppa una “finanza etica”
soprattutto mediante il microcredito e, più in generale, la microfinanza.
Questi processi suscitano apprezzamento e meritano un ampio sostegno. I loro
effetti positivi si fanno sentire anche nelle aree meno sviluppate della terra»
(numero 45).
La responsabilità indiretta, dunque, va esercitata in modo consapevole e documentato. Perché sia carità intelligente. Amore indiretto verso il prossimo. Amore nascosto, che non si vede né si vanta.
Aumentano
sindacalisti uccisi, diritti del lavoro dimenticati
Misna - 9 giugno 2010
"Drammatico" aumento nel numero dei sindacalisti uccisi nei paesi in via di sviluppo e generale diminuzione dei diritti dei lavoratori (sia nel nord che nel Sud del mondo) e delle associazioni sindacali: è il quadro dipinto nell'ultimo rapporto annuale sullo stato dei diritti dei sindacati diffuso oggi dall' International confederation of trade unions (Ituc), in concomitanza con la conferenza annuale dell'Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) delle Nazioni Unite che si tiene a Ginevra. Secondo il rapporto, nel 2009 sono stati 101 i sindacalisti uccisi nel mondo, facendo segnare un aumento del 30% rispetto all'anno precedente. Il paese più pericoloso per difendere i diritti dei lavoratori resta la Colombia, con 48 sindacalisti uccisi, seguito dal Guatemala (16) dall'Honduras (12) dal Messico e Bangladesh (sei) dal Brasile (quattro), da Repubblica dominicana e Filippine (tre) e da India, Iraq e Nigeria (uno). Ma oltre ai sindacalisti uccisi, sono in aumento i dati (molto più difficili da censire) relativi a minacce, incarcerazioni o perseguitati. Senza arrivare a questi estremi, comunque, il rapporto dell'Ituc riferisce di un peggioramento generale delle condizioni in cui si trovano ad operare i sindacati e i difensori dei diritti dei lavoratori e di un clima che vede governi e industrie utilizzare la crisi economica come pretesto per indebolire o minare alle fondamenta le conquiste sindacali dei decenni precedenti. Proprio questo clima - che di fatto sta rivedendo gli standard internazionali minimi di lavoro finora accettati - ha fatto sì, sempre secondo il rapporto, che oggi il 50% della forza lavoro planetaria sia impiegata in "condizioni di lavoro precarie", nelle quali è più facile marginalizzare il ruolo dei sindacati. Un clima di ostilità nei confronti del mondo sindacale, alimentato da governi e aziende del nord del mondo, che in qualche misura viene interpretato come corresponsabile dell'aumento nelle azioni violente contro i sindacalisti nei paesi in via di sviluppo.[MZ]
Lavoro
minorile - Il sorriso rubato
www.agenziasir.it
- 9 giugno 2010
Nel mondo 215 milioni di bambini sfruttati
Respirare il piombo mentre si cerca un grammo d'oro da rivendere sul mercato illegale per portare a casa qualcosa da mangiare. E restare così intossicati per avvelenamento da piombo. Una vera e propria strage di bambini in Nigeria: 111 ne sono morti nel Nord, intorno alle miniere dello Stato di Zamfara. In totale il bilancio ufficiale da gennaio è di 163 vittime, ma i morti potrebbero essere di più. Le ultime cifre fornite dall'Ilo, l'agenzia dell'Onu che si occupa di lavoro, parlano di 215 milioni di minori impiegati in attività lavorative, senza alcuna retribuzione o con salari irrisori. Ben 115 milioni sono impiegati in attività pericolose. Sul fenomeno dei bambini lavoratori sfruttati abbiamo chiesto un parere a Marco Griffini, presidente dell'associazione "Amici dei bambini" (Aibi).
Una grande piaga.
Purtroppo la piaga del lavoro minorile è molto estesa nel mondo: "Quando ci sono episodi clamorosi come quello successo in Nigeria - afferma Griffini - salgono agli onori delle cronache, se ne parla sui media, ma non vengono fuori gli episodi di tutti i giorni che riguardano persone singole. Noi, che gestiamo le tematiche dell'emergenza abbandono dei bambini, sappiamo che lo sfruttamento è la piaga maggiore". Recentemente, ricorda il presidente di Aibi, "sono state ritoccate le stime dei minori abbandonati, passando da 143 a 163 milioni, negli ultimi cinque anni. Il problema grosso si presenta quando un bambino abbandonato lascia la struttura di assistenza, al compimento del diciottesimo anno di età. I ragazzi sono letteralmente buttati in mezzo alla strada e in quel momento si crea il grande problema degli sfruttamenti".
Prendere coscienza.
Di fronte al dramma dello sfruttamento lavorativo dei minori, secondo Griffini, il primo passo da compiere è "il prendere coscienza che i minori devono stare in famiglia. Noi stiamo lanciando da qualche anno presso le istituzioni dell'Onu e il Parlamento europeo l'idea di riconoscere la categoria degli 'Out of family children', cioè coloro che sono fuori dalla famiglia, come vittime sociali. Il minore che è collocato fuori da una famiglia è un minore a rischio e come tale deve essere trattato. Anche nello sfruttamento lavorativo si deve capire se alle spalle c'è una famiglia". E "avere una famiglia alle spalle - chiarisce - non vuol dire un padre e una madre che ti hanno generato, ma una famiglia che ti accoglie e ti accudisce". È necessaria, a giudizio del presidente di Aibi, "una presa di coscienza sociale e culturale del fenomeno e poi intervenire, collocando ogni bambino in una famiglia, attraverso gli istituti dell'affido, dell'adozione e le case famiglia".
Anche in Italia.
Quanto siamo lontani da una cultura di vero rispetto dell'infanzia? "Tanto - risponde Griffini -. Persino in Italia esiste il problema, come dimostra il fatto di non sapere quanti sono esattamente i minori fuori famiglia nel nostro Paese: ci sono stime di 32-34-36 mila bambini". Rispetto al problema dello sfruttamento nel mondo del lavoro, spiega il presidente di Aibi, "i minori fuori famiglia in Italia sono, comunque, tutelati e curati. Lo sfruttamento può capitare per i minori che hanno una famiglia e non sono, perciò, inseriti nel sistema di protezione dell'infanzia; minori che vivono, quindi, in una famiglia che li sfrutta". In questi casi "è difficile intervenire anche da parte delle autorità nei confronti della famiglia. Anche in caso di sfruttamento del figlio per lavoro minorile o per mendicare nelle strade non c'è un'interruzione automatica della patria potestà, ma si cerca di recuperare la relazione anche quando è clamorosamente finita".
Responsabilità etica.
Lo sfruttamento del lavoro minorile, comunque, è più diffuso in Paesi in via di sviluppo. "Anche in questo caso - sostiene Griffini - si tratta, di solito, di minori inseriti nelle loro famiglie. In realtà, il fenomeno dello sfruttamento riguarda o le famiglie che abusano della loro autorità o il minore che esce dal sistema di protezione; e questo può avvenire quando vuole, perché le fughe sono all'ordine del giorno". Anche il fenomeno dei "meninos de rua" (bambini di strada), in Brasile, ormai notissimo, si potrebbe contrastare "se passasse la cultura che il minore non può stare fuori dalla famiglia. Purtroppo, però, non c'è decisionismo su situazioni familiari precarie. E questo perché c'è la cultura del rispetto della famiglia di origine, che da un lato può essere anche giusta perché si tratta di una relazione importante, dall'altro preclude la possibilità di dare a questi minori un'altra famiglia e un futuro migliore". Quando c'è un conflitto tra diritto di adulto e minore, rileva il presidente di Aibi, "prevale sempre il diritto o l'interesse dell'adulto, anche purtroppo nelle situazioni di abbandono o di sfruttamento del minore. Siamo ancora una cultura adulto-centrica. Si deve fare un cammino culturale e prendere coscienza che il minore, sia abbandonato sia sfruttato, anche se non è mio figlio, interroga la mia responsabilità etica. Anche se non sono colpevole dell'avvelenamento in Nigeria, comunque mi devo sentire responsabile perché sono coinvolti dei minori, che devo considerare come miei figli. Se ogni padre, ogni madre avesse questa coscienza della responsabilità etica verso un minore in difficoltà, le cose cambierebbero in meglio".
Migranti,
nei CIE "danni fisici e mentali" appello a rispettare diritti umani
Misna - 10 giugno 2010
"Si deve ripristinare la possibilità di chiedere protezione in Italia, in accordo con quanto previsto dalla Convenzione di Ginevra e dalla Costituzione, per chi è costretto ad arrivare via mare dalla Libia, Paese in cui non viene garantito il rispetto dei principali diritti umani". Lo chiede il Centro Astalli-Servizio dei gesuiti per i rifugiati in Italia, nel presentare un colloquio sulle migrazioni il prossimo 14 Giugno nella Chiesa di Sant'Andrea al Quirinale a Roma, a cui parteciperanno monsignor Agostino Marchetto, segretario del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli itineranti e Giuseppe De Rita, presidente del Censis. "Un numero sempre minore di persone riesce ad arrivare in Europa: le politiche di controllo dei confini, sempre più aggressive, sbarrano tragicamente la strada anche a chi fugge da guerre e persecuzioni - denuncia il Centro Astalli - In particolare, la pratica dei respingimenti in Libia preclude l'accesso a migliaia di rifugiati africani, molti dei quali vittime di tortura". Uno studio pubblicato i questi giorni dal Jrs, e che ha coinvolto organizzazioni non governative di 23 Paesi europei, sui rischi nei Centri per i migranti, rileva inoltre che la detenzione in tali centri, sparsi in tutta Europa, provoca "danni alla salute fisica e mentale", soprattutto tra le categorie più vulnerabili come donne e minori. Richiedenti asilo e immigrati irregolari soffrono di "ansia, depressione, perdita di peso, insonnia" dovute allo stress psico-fisico di trovarsi privati della libertà "senza aver commesso nessun reato", senza contatti con l'esterno, in condizioni igieniche precarie, nell'incertezza del futuro. L'80% dei richiedenti asilo, inoltre, "non sa quando potrà uscire dal centro e non riceve visite di familiari e amici". Molti equiparano il loro centro di detenzione ad una "prigione" e in molti centri sono stati registrati abusi fisici e verbali. [AdL]
Quasi
2 miliardi di persone non hanno accesso ai farmaci essenziali
Agenzia Fides - Ginevra - 9 giugno 2010
"La
Chiesa cattolica offre un importante contributo all'assistenza sanitaria in
tutto il mondo - attraverso le Chiese locali, le istituzioni religiose e le
iniziative private, che operano sulla propria responsabilità e nel rispetto
della legge di ogni nazione - con 5.378 ospedali, 18.088 dispensari e cliniche,
521 lebbrosari e 15.448 centri per anziani, malati cronici e disabili": lo
ha ricordato l'Arcivescovo Silvano M. Tomasi, Osservatore permanente della Santa
Sede all'Ufficio delle Nazioni Unite e Istituzioni specializzate a Ginevra, nel
suo intervento pronunciato l'8 giugno, nel corso del Dibattito Generale sul
punto 3 della 14a sessione del Consiglio dei Diritti Umani, durante il quale si
è soffermato in particolare sulla necessità di garantire l'accesso universale
ai farmaci ed agli strumenti diagnostici a tutte le persone. L'Arcivescovo ha
sottolineato che dalle informazioni provenienti da queste realtà, che operano
sul territorio in alcune comunità tra le più povere, isolate ed emarginate,
emerge che i diritti descritti negli strumenti internazionali "sono lontani
dall'essere assicurati".
Uno
dei principali impedimenti alla realizzazione di questi diritti è costituito
dalla "mancanza di accesso ai medicinali a prezzi accessibili ed agli
strumenti diagnostici" ha sottolineato ancora Mons. Tomasi, che ha
proseguito ricordando che "le malattie della povertà" rappresentano
ancora il 50 per cento del carico di malattia nei paesi in via di sviluppo,
quasi dieci volte superiore a quello dei paesi sviluppati; più di 100 milioni
di persone ogni anno cadono in povertà perché devono pagare le cure sanitarie;
nei paesi in via di sviluppo, i pazienti pagano i farmaci essenziali dal 50 al
90 per cento; quasi 2 miliardi di persone mancano di accesso ai farmaci
essenziali.
"Un
gruppo particolarmente privato dell'accesso ai farmaci è quello dei bambini -
ha affermato Mons. Tomasi -. Molti farmaci essenziali non sono stati prodotti in
formulazioni appropriate o dosaggi specifici per l'uso pediatrico. Questa
situazione può avere come conseguenza la tragica perdita della vita o il
perpetrarsi di malattie croniche tra i bambini bisognosi. Dei 2,1 milioni di
bambini che si calcola vivano affetti dall'Hiv, alla fine dell'anno 2008 solo il
38% aveva ricevuto farmaci salva vita anti-retrovirali".
L'Osservatore permanente della Santa Sede si è dichiarato consapevole della complessità degli aspetti relativi alla proprietà intellettuale in materia di accesso ai farmaci, tuttavia ha sollecitato il Consiglio a rinnovare il suo impegno "negli sforzi per affermare e tutelare il diritto alla salute, garantendo un equo accesso ai farmaci essenziali". (SL)
Sacerdoti
e Internet, uno studio di Marco Tosatti
La Stampa - 1 giugno 2010
Ieri
è stato presentato nel corso di una conferenza stampa realizzata a Roma, presso
la "Radio Vaticana", un recente studio intitolato Picture (Priests'
ICT use in their religious experience) sui sacerdoti e l'uso dei nuovi media. Lo
studio ha avuto come obiettivo quello di cercare di capire come i sacerdoti
utilizzano le nuove tecnologie nel loro lavoro pastorale.
Quanto e come i sacerdoti usano Internet? Ieri è stato presentato nel corso di una conferenza stampa realizzata a Roma, presso la "Radio Vaticana", un recente studio intitolato Picture (Priests' ICT use in their religious experience) sui sacerdoti e l'uso dei nuovi media. Lo studio ha avuto come obiettivo quello di cercare di capire come i sacerdoti utilizzano le nuove tecnologie nel loro lavoro pastorale in base all'ultimo messaggio di Papa Benedetto XVI per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, sul tema "Il sacerdote e la pastorale nel mondo digitale: i nuovi media al servizio della Parola". La ricerca è stata condotta dai laboratori NewMinE Lab - New Media in Education Laboratory e webateiler.net dell'Università Svizzera Italiana (USI di Lugano) in collaborazione con la Facoltà di Comunicazione Sociale della Pontificia Università della Santa Croce e con il sostegno della Congregazione per il Clero. Lo studio ha contato sulla collaborazione dell'ufficio internet della Santa Sede. Per il Cardinale Cláudio Hummes, prefetto della Congregazione per il Clero, la cultura digitale è "un nuovo elemento culturale". "C'è qualcosa che è cambiato e cambia nella propria cultura", ha detto il porporato. "Soprattutto nelle nuove generazioni che sono già immerse nelle nuove culture". Lo studio L'inchiesta sull'uso di Internet da parte dei sacerdoti è stata realizzata tra il 15 novembre e il 28 febbraio. L'idea è nata nel conesto della celebrazione dell'Anno Sacerdotale istituito da Papa Benedetto XVI, che terminerà il 9 giugno. Hanno risposto al questionario 4.992 sacerdoti, cioè l'1,2% del totale dei presbiteri nel mondo. L'inchiesta è stata realizzata in modo proporzionale in vari Paesi dei cinque continenti, su sacerdoti di 117 Nazioni diverse. I dati sono stati diffusi dalla Congregazione per il Clero. Per il presidente di questo dicastero, la recerca è una sorta di "fotografia dell'uso attuale che i sacerdoti fanno della tecnologia nella propria esperienza religiosa per dare risposte adeguate all'interno dei grandi cambiamenti del mondo culturale". Il questionario è stato tradotto in sette lingue. Per assicurare la massima distribuzione, sono stati contattati le Conferenze Episcopali di tutto il mondo e gli Ordini religiosi che hanno il maggior numero di membri. I risultati Alla domanda sulla frequenza con cui i sacerdoti cercano su Internet il materiale per le proprie omelie, il 46% ha risposto di avvalersi di questa risorsa almeno una volta a settimana. Il 14,7% ne fa un uso quotidiano, mentre l'8,7% non usa mai i nuovi media a questo scopo. Per la direzione spirituale, il 48% cerca informazioni su Internet almeno una volta al mese, mentre il 18,4% non lo fa mai. Lo studio mostra come una bassa percentuale di sacerdoti utilizzi Internet per la propria vita spirituale. Il 35,9% prega utilizzando le risorse offerte da Internet almeno una volta al mese (questo punto si riferisce all'utilizzo della Liturgia delle Ore o dell'Ufficio divino on-line, o alla ricerca su questo mezzo di letture spirituali o di altri tipi di preghiere), mentre il 37,7% non lo fa mai. Per la vita intelletuale, i sacerdoti fanno un uso maggiore dei nuovi media: il 60,01% degli interpellati lo fa almeno una volta a settimana, mentre il 9,4% non usa mai Internet a questo scopo. Una delle domande dello studio chiedeva se si è d'accordo sul fatto che Internet permette il miglioramento della formazione sacerdotale: il 64,4% ha detto di essere d'accordo, il 6,4% non concorda. Il 52,5 % dei sacerdoti ritiene utile o molto utile il ricorso a Internet per diffondere il messaggio cristiano, mentre il 7% non considera questa risorsa utile. Il 56,8 % è d'accordo o totalmente d'accordo sul fatto che le nuove tecnologie permettono l'inculturazione della fede nel mondo di oggi, mentre il 2,7 % non concorda. Nel suo Messaggio per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, Benedetto XVI ha affermato che "il sacerdote viene a trovarsi come all'inizio di una 'storia nuova'". "Quanto più le moderne tecnologie creeranno relazioni sempre più intense e il mondo digitale amplierà i suoi confini, tanto più egli sarà chiamato a occuparsene pastoralmente, moltiplicando il proprio impegno, per porre i media al servizio della Parola", ha aggiunto.
La
grande rapina all'Africa di Loretta Napoleoni
Mondo
e Missione - giugno/luglio 2010
Multinazionali occidentali evadono il fisco, intascando enormi profitti sulla pelle dei più poveri
Nel
1979 il giurista francese Karel Vasak distinse tre generazioni di diritti umani.
La prima, nata dalla Rivoluzione Francese e ispirata all'individualismo della
cultura occidentale moderna, è la generazione dei diritti civili e politici. La
seconda nasce dai movimenti socialisti dell'inizio del secolo scorso, dal
movimento operaio e si concentra, invece, sui diritti sociali. Infine la terza e
ultima generazione lotta per il diritto allo sviluppo economico e culturale ed
è il frutto delle rivoluzioni anticoloniali del dopoguerra, che hanno portato
all'indipendenza delle ex colonie negli anni Sessanta. L'Africa e le economie
emergenti come India e Brasile sono concentrate sulla seconda e terza
generazione dei diritti umani. Noi europei invece consideriamo solo la prima.
Questa
distinzione spiega perché il Sud del mondo spesso accusi l'Occidente di
imperialismo culturale quando vuole imporre gli stessi diritti umani in tutti i
Paesi. A chi non ha da mangiare poco importa la libertà di parola, prima deve
conquistarsi il diritto alla sopravvivenza. È ipocrita, oltre che ideologico,
pretendere che anche i diritti umani non siano soggetti a una scala di priorità
che dipende dal contesto in cui ciascun Paese si trova.
Ciò
non vuol dire che noi occidentali dobbiamo condonare gli abusi che
quotidianamente vengono commessi nel Sud del mondo, ma piuttosto che bisogna
tener presente il rispetto delle altre due categorie di diritti umani con la
stessa intensità e passione con la quale difendiamo il rispetto dei diritti
civili. Mi spiego: mandare soldi in Africa, azzerare il debito come ci
suggeriscono cantanti pop e divi del cinema, non serve a nulla, anzi si rivela
controproducente se non si lavora per la diffusione della good governance. Se i
governi occidentali continuano a imporre barriere doganali contro l'ingresso di
prodotti agricoli africani nelle nostre economie non la otterremo mai. Un
diritto umano di terza generazione ci dice che l'Africa non ha bisogno della
nostra carità (nel senso di elemosina), ma di essere trattata equamente.
È
in questo contesto che si inserisce la crociata annunciata dal ministro delle
Finanze sudafricano, Pravin Gordhan, al World Economic Forum sull'Africa contro
gli evasori fiscali occidentali. Questo continente che gli investitori stranieri
dipingono come un'economia ancora troppo rischiosa soffre a causa di una sorta
di stillicidio finanziario. Tra i 200 e i 400 miliardi di dollari fuggono
all'estero ogni anno, si tratta dei grassi profitti delle multinazionali
straniere che vengono rimpatriati evadendo il fisco. E come scompaiono dalle
casse dello Stato così si volatilizzano nei bilanci delle imprese. Non è vero
che il ritorno dell'investimento in Africa è basso, al contrario questo è un
continente ricco di risorse e di grandi opportunità.
In
testa alla classifica degli evasori troviamo le industrie di telecomunicazioni e
quelle minerarie. Le critiche di Pravin hanno infatti scatenato la reazione di
uno dei giganti dell'acciaio, Archelor Mittal una società del miliardario
indiano Mittal ma registrata nel Regno Unito, dove il governo offere alle
multinazionali una tassazione particolarmente vantaggiosa. A detta della
Archelor Mittal i governi africani cambiano troppo rapidamente le politiche
fiscali e l'industria in Africa è ancora poco sviluppata. Una critica che
sembra nascondere un'affermazione sconcertante: nonostante i vostri problemi noi
siamo presenti sul vostro territorio!
L'evasione fiscale in Africa da parte dei nostri industriali è dunque l'ultimo affronto nei confronti di questo continente.
La
guerra dell'acqua di Anna Pozzi
Mondo e Missione - giugno/luglio 2010
Niente accordo per lo sfruttamento del fiume. Il Nilo conteso da nove Paesi
La
prima guerra dell'acqua è già cominciata. Per il momento la si combatte a suon
di firme, boicottaggi, minacce, ritorsioni... Ma se le armi tacciono, ciò non
significa che non ne vada della vita della gente. Anzi. Al centro del
contendere, infatti, c'è una risorsa sempre più preziosa e sempre meno
disponibile: l'acqua del Nilo. Una posta in gioco da 84 miliardi di metri cubi
di acqua all'anno, lunga 6.700 chilometri. Dieci anni di trattative non sono
bastati per portare a un accordo condiviso tra i nove Paesi che ne compongono il
bacino. Lo scorso 14 maggio, a Entebbe, in Uganda, solo quattro governi -
Uganda, Tanzania, Etiopia e Ruanda - hanno firmato il nuovo Nile River
Cooperative Framework Agreement (Accordo quadro di cooperazione del Nilo) per la
spartizione delle sue acque. Assenti Kenya, Repubblica Democratica del Congo e
Burundi. De¬cisamente contrari Egitto e Sudan. "Ci preoccupa il fatto che
questo possa rappresentare una frattura in due blocchi dei Paesi del bacino del
fiume", ha dichiarato il rappresentante dell'Unione Europea al Cairo, Marc
Franco.
Di
fatto, questa frattura è già una realtà. La creazione della Nile Basin
Initiative (Iniziativa del bacino del Nilo, Nbi), nel 1999, che riunisce i nove
Stati rivieraschi del Nilo, non è infatti riuscita a ottenere l'obiettivo
fondamentale per cui era stata creata: ovvero sviluppare su base cooperativa la
suddivisione delle acque del fiume e dei benefici socio-economici che ne
derivano, oltre a promuovere la pace e la sicurezza regionale.
L'accordo
parziale di Entebbe dimostra, invece, con evidenza che si è ben lontani da una
visione - e soprattutto da una gestione - comune e concorde delle preziose acque
del fiume più lungo e più conteso dell'Africa. Anche perché Egitto e Sudan
restano arroccati su posizioni di difesa a oltranza del vecchio accordo
coloniale, siglato nel 1929 tra Egitto e Inghilterra (ed emendato nel 1959).
Accordo estremamente favorevole a questi due Paesi: l'Egitto, infatti -
all'epoca crocevia dell'impero britannico e della rotta per l'India - si vede
garantiti 55,5 miliardi di metri cubi di acqua, mentre al Sudan ne vanno 18,5
miliardi, pari complessivamente all'87 per cento del totale.
Il
trattato riserva inoltre all'Egitto il diritto di veto su tutti i lavori a
monte, suscettibili di ridurre la portata del fiume, che fornisce al Paese il 90
per cento del suo fabbisogno di acqua. "L'Egitto è un dono del Nilo",
scriveva Erodoto più di duemila anni fa. Una sentenza di drammatica attualità.
Sì, perché dalle acque del Nilo dipende ancora oggi la vita di questo Paese,
che non ha saputo approfittare del vantaggiosissimo accordo di cui ha usufruito
per decenni. Ancora oggi, infatti, l'agricoltura egiziana rimane estremamente
scarsa, le attrezzature antiquate e i sistemi di irrigazione arcaici e
dispendiosi. Inoltre, la creazione del bacino del lago Nasser - con relativo e
costosissimo dislocamento delle tombe di Abu Simbel - provoca ogni anno la
dispersione di dieci miliardi di metri cubi di acqua. Il Paese, che ha superato
gli 80 milioni di abitanti (e ha una capitale, Il Cairo, che esplode con i suoi
17 milioni di cittadini), è il quarto importatore mondiale di grano, per il
quale spende 2,54 miliardi di dollari l'anno. E in prospettiva, la disponibilità
pro capite di acqua, secondo quanto afferma il ministro per le Risorse idriche e
l'irrigazione, Mohammed Na¬sreddin Allam, rischia di diminuire anziché
aumentare, passando dai 1.213 metri cubi all'anno del 1990 a 630 nel 2025.
Insomma,
una questione di vita o di morte per l'Egitto, che non solo si è opposto
all'accordo siglato ad Entebbe, ma ha già fatto sapere che è fermamente
contrario anche alla possibile secessione del Sud Sudan. Nel gennaio 2011,
infatti, è previsto l'attesissimo (per i sudisti) referendum che dovrebbe
sancire la secessione delle regioni meridionali del Paese. Un referendum dal
risultato scontato, sempre che venga fatto. Il governo di Karthoum, infatti,
cercherà in ogni modo di ostacolarlo; ma anche l'Egitto, per voce del suo
ministro degli Esteri, Ahmed Abdol Gheit, ha già fatto sapere che "faremo
tutto quanto in nostro potere per preservare l'unità del Sudan". La
secessione del Sud, infatti, oltre a creare un pericoloso precedente per
l'Africa, significherebbe rimettere ulteriormente in discussione la
distribuzione delle quote-acqua del Nilo.
Intanto,
però, gli altri Paesi rivieraschi non stanno a guardare. Lo stesso Sudan ha
avviato da anni investimenti per ampliare le piantagioni lungo le rive del Nilo;
ha affittato (paradossalmente!) migliaia di ettari di terreno all'Arabia
Saudita, bisognosa di terra e di acqua per la sua sicurezza alimentare; e ha
costruito la più grande diga africana a Merowe, un progetto da due miliardi di
euro, con partnership soprattutto cinese, ma con partecipazioni saudite e della
Malaysia (già molto implicata nell'estrazione del petrolio sudanese).
Anche
l'Etiopia sta facendo la sua parte. Ben consapevole che il "suo" Nilo
Blu contribuisce per l'85 per cento alle acque del fiume, e che sino ad ora le
ha sfruttate ben poco, ha in programma l'estrazione di 7,5 miliardi di metri
cubi di acqua dal lago Tana e la costruzione di 36 dighe nel Wollo e nel Tigrai.
La
ditta italiana Salini - la stessa della controversa diga sull'Omo di Gibe III e
dell'impianto idroelettrico Gibe II, inaugurato lo scorso gennaio e parzialmente
collassato pochi giorni dopo - si è aggiudicata un appalto da 499 milioni di
dollari per la costruzione della diga di Bujagali Falls, in Uganda, otto
chilometri a valle delle sorgenti del Nilo Bianco. La Tanzania, invece, ha un
progetto di pom¬paggio massiccio delle acque del lago Vittoria per irrigare una
vasta area. Mentre gli altri Paesi rivieraschi hanno in programma di mettere a
coltura 4,5 milioni di ettari entro i prossimi quindici anni.
Alla luce di tutto questo "fermento" attorno alle acque del Nilo, pare particolarmente azzeccata l'osservazione del direttore delle risorse idriche del Kenya, John Nyaro: "Quando non c'è una legge, vince la legge della giungla. Che non porterà certo la pace".
Il
problema dei bambini soldato si risolve con lo sviluppo, non con accordi
declamatori
Agenzia Fides - Roma - 11 giugno 2010
"I
governi africani si devono impegnare a rimuovere le condizioni che creano le
ribellioni e che portano al reclutamento dei bambini soldato e non limitarsi a
firmare accordi che mi sembrano siano solo declamatori" dice all'Agenzia
Fides p. Gerardo Caglioni, missionario saveriano con una lunga esperienza in
Sierra Leone, commentando la dichiarazione firmata il 9 giugno a N'Djamena
(Ciad) per mettere termine al reclutamento dei bambini soldato.
La
dichiarazione di N'Djamena è stata firmata da 6 dei 9 partecipanti alla
conferenza regionale sui bambini soldato, organizzata dal governo del Ciad e
dall'UNICEF, che si è tenuta nella capitale ciadiana dal 7 al 9 giugno. Gli
Stati firmatari sono Camerun, Centrafrica, Ciad, Niger, Nigeria, Sudan. Non
hanno firmato il documento gli altri 3 partecipanti: Repubblica Democratica del
Congo, Liberia e Sierra Leone. La dichiarazione impegna i firmatari a
"mettere fine ad ogni forma di reclutamento dei bambini nelle forze e nei
gruppi armati e a garantire che nessun ragazzo di età inferiore ai 18 anni
prenda parte, direttamente o indirettamente, alle ostilità".
"È
inutile sottoscrivere accordi che rischiano di rimanere lettera morta se non si
adottano politiche concrete per dare una speranza di vita alle giovani
generazioni. Questo significa creare una vera politica di sviluppo, una serie
lotta alla corruzione, la creazione di scuole e di infrastrutture vitali per i
Paesi africani. Non mi sembra però che vi sia questa volontà" dice p.
Caglioni. "Se non si offre ai giovani la speranza di una vita migliore
nasceranno nuovi gruppi di guerriglia che reclutano chi vogliono, compresi i
bambini. Per questo sono scettico di fronte a documenti che rischiano di
rimanere solo delle dichiarazioni di intenti prive di effetti reali sulla vita
delle persone".
"In Sierra Leone i bambini soldato sono stati impiegati da tutti, non solo dai guerriglieri del RUF (Revolutionary United Front) ma anche dalle milizia Kamajors, alleate del governo. Dopo la guerra (conclusa nel 2002), sono stati avviati dei programmi per inserire i bambini soldato smobilitati nella società, dando loro scuole e un lavoro, ma nessuno si occupa delle vittime dei bambini soldato, che sono spesso a loro volta dei bambini. Queste persone hanno subito delle violenze fisiche e psicologiche micidiali. Conosco casi di violenze sessuali, di bambini costretti a vedere i loro genitori uccisi e bruciati, di altri che hanno subito amputazioni. Le vittime hanno bisogno di assistenza materiale e psicologica ma sono completamente lasciate a loro stesse" conclude il missionario. (L.M.)
Quella
nera morte di bimbi di Roberto Mussapi
Avvenire
- 9 giugno 2010
Nelle tragedie d'Africa s'incastona, terribile, quella dei piccoli cercatori d'oro
L'
Africa pare uno scrigno di magia, la quintessenza del mito. È abitata da
persone prevalentemente di colore nero, una folta foresta rende oscura la via.
È, senza bisogno di spiegazioni etimologiche, il Continente Nero. Nel suo
sottosuolo si trovano le più grandi ricchezze della terra. Petrolio, che
produce calore e energia, ma questa ricchezza non è esclusiva africana, mentre
in nessun luogo come in Africa la terra nasconde nelle sue viscere diamanti e
oro. Diamanti e oro non sono soltanto simboli assoluti di ricchezza - l'oro,
come sappiamo, finì per identificarsi in molte parti del mondo con la realtà
stessa di moneta - ma sono due archetipi. Il diamante è la pietra della luce,
che già molti millenni orsono, e fino al Cinquecento, affascinò gli alchimisti
per il segreto luminoso di eternità che contiene. L'oro è da sempre il simbolo
supremo di luce, affratellato al sole, sigillo di ricchezza, calore, potere.
Queste
due entità assolute, luminose, celesti, si trovano sotto la crosta della terra,
e in misura quanto mai abbondante in Africa. Ma questo forziere di immenso
valore è stato la ragione principale della disgrazia del continente, della sua
sventura. Per appropriarsi di quel tesoro i bianchi e gli ambrati d'Occidente e
d'Oriente hanno violato e violentato quelle terre, non disdegnando nel frattempo
di catturarne gli esemplari umani per incatenarli, metterli nelle stive,
esportarli e venderli ai mercati. Il destino dell'Africa sembra quello di
produrre meraviglia e luce: in tutto il resto del mondo le carcasse degli
animali sono solo carcasse di animali, in Africa le zanne degli elefanti
producono avorio, sostanza bianca, preziosissima, levigata, fatta per esaltare
la luce. Le fiabe hanno grandi archetipi, uno dei principali parla di un
bambino, semplice, umile, povero, umiliato, che scopre un tesoro.
Cenerentola
deriva da questa costola, come tante altre avventure nel buio sfocianti nella
luce. Le fiabe che ci raccontano l' Africa hanno tutte un triste, tragico
finale. Il bambino non trova il tesoro, muore nella miniera. L'oro, il diamante,
il simbolo della felicità eterna, della luce ultraterrena, dell'immortalità,
del divino, non è mai raggiunto dalle sue mani. L' Africa ci racconta una fiaba
crudele. Una canzone di Paul Simon narra della nera, di fatto schiava, che ha i
piedi tempestati di diamanti, quelli che calpesta lavorando in miniera. Romanzi
di Jan Fleming, e d'altri autori di thriller, parlano delle preziosissime gemme
nascoste in bocca dai neri asserviti nelle miniere. Il tesoro di quella terra
non tocca mai ai suoi abitanti, se non per vie illegali, furtive e dal finale
tragico.
La
Nigeria ha un patrimonio sotterraneo di ricchezza smisurata, oro e diamanti, e
tale ricchezza pare osmoticamente traboccare, emanare dalla terra nelle bellezza
dei suoi abitanti, finché questa non viene minata dalla fame e dalla sete, nel
genio della sua tradizione letteraria e teatrale: Chinua Achee, e Wole Soyinka,
primo Nobel africano per la letteratura, guidano il drappello dei grandi
scrittori nigeriani. Ma la Nigeria, come l'antica Grecia, a cui tanto assomiglia
la sua mitologia, è terra di tragedia: le notizie di questi giorni hanno la
crudeltà di una fiaba sadica. Bambini anche di solo quattro anni che muoiono
per esalazioni, costretti a cercare abusivamente e obbligatoriamente l'oro.
Uccisi
dall'oro che le loro dita non avrebbero comunque mai potuto indossare, né
soltanto sfiorare. Uccisi da un metallo il cui valore non comprendono, ma che
devono cercare.
Quando i valori naturali in loro sono la vita, il cibo, l'acqua, la sacra realtà della natura. Non la luce del diamante, ma quella del sorriso.
Comincia
ora la vera indipendenza di Alessandro Armato
Mondo
e Missione - giugno/luglio 2010
L'America latina si misura con una data-chiave. Molti Paesi celebrano nel 2010 il bicentenario dell'indipendenza dalla Spagna. Al di là delle tentazioni scioviniste o di rivisitazioni strumentali, un'occasione importante per riflettere sulla storia e guardare al futuro
Diversi
Paesi dell'America Latina festeggiano quest'anno il bicentenario dell'inizio del
processo di indipendenza dalla Spagna. Per l'occasione i rispettivi governi (in
Venezuela, Argentina, Messico, Colombia, Cile) hanno creato appositi comitati,
per programmare una fitta serie di iniziative. Per l'America Latina il
bicentenario è senza dubbio un'opportunità preziosa per affrontare i nodi
irrisolti della propria storia - primi fra tutti democratizzazione, sviluppo e
integrazione - e porre le basi per costruire un futuro più giusto e solidale.
Ma dietro l'angolo c'è il rischio di ridurre la commemorazione a un semplice
esercizio di retorica o, peggio ancora, a un pretesto per celebrare ideologie
del presente, come il socialismo bolivariano, o per rispolverare vecchi miti
ormai sfatati dalla storiografia, come la leggenda nera anticattolica e
antispagnola.
Le
celebrazioni ufficiali sono cominciate il 19 aprile scorso in Venezuela con una
grande parata civico-militare tenutasi sul Paseo de los Proceres di Caracas. Per
quattro ore sono sfilati 12 mila tra membri di movimenti sociali venezuelani,
gruppi folcloristici, indigeni, operai di Pdvsa (la compagnia petrolifera
nazionale), milizie contadine e soprattutto soldati dell'esercito venezuelano.
Erano presenti delegazioni di Paesi come Bielorussia, Libia, Algeria, Argentina,
Bolivia, Ecuador e Nicaragua e non è mancato lo sfoggio dell'arsenale bellico
che il Venezuela ha accumulato negli ultimi anni: carri armati russi, aerei
cinesi K-8, batterie antimissile... Sul palco d'onore, assieme a Hugo Chávez,
c'erano i suoi principali alleati politici: il presidente cubano Raúl Castro,
la presidentessa argentina Cristina Fernández de Kirchner, il boliviano Evo
Morales e quello ecuadoriano Rafael Correa.
La
manifestazione ha dimostrato quanto il rischio di una strumentalizzazione
politica del bicentenario sia concreto. Ancora una volta Chávez si è proposto
come il nuovo Bolívar e ha individuato nel Venezuela - terra di nascita sua e
del Libertador - la culla di una rivoluzione socialista e bolivariana da
diffondere in tutta l'America Latina, in antitesi al modello neoliberale e
all'imperialismo statunitense. Tuttavia tra il progetto chavista e quello del
Libertador esistono differenze sostanziali (vedi MM novembre 2008, pp. 42-44)
che rendono l'appropriazione del bicentenario da parte del presidente
venezuelano una forzatura storica.
C'È
POI il fatto che, come ha sottolineato la Conferenza episcopale venezuelana
(Cev) in una lettera pastorale diffusa lo scorso gennaio, il "progetto del
socialismo del XXI secolo dista molto da ciò che il popolo venezuelano desidera
e reclama". Nessuna autentica democratizzazione può venire da un processo
politico che per "includere" un settore della popolazione finisce per
escluderne un altro. Uno sviluppo solido non può fondarsi sullo spreco, la
corruzione, l'inefficienza e l'insicurezza che dilagano oggi in Venezuela.
Nessuna integrazione politica seria e duratura può nascere da una politica
estera fondata sulla demonizzazione di quei governi che rappresentano modelli
economici e culturali differenti. La rivoluzione bolivariana ha finalità
indiscutibilmente nobili - la giustizia sociale, la rivalutazione dell'elemento
autoctono, l'integrazione politica dell'America Latina - ma è palese che il
metodo utilizzato per perseguirle non è adeguato.
Anche
il rischio della retorica fine a se stessa è molto concreto nelle celebrazioni
del bicentenario. Secondo Guzmán Carriquiry Le¬cour, uruguayano,
sottosegretario del Pontificio Consiglio per i Laici della Santa Sede, nonché
autore di numerosi saggi e pubblicazioni sulla storia e la realtà dell'America
Latina, "le celebrazioni del bicentenario sono di grande attualità nei
Paesi latinoamericani, ma rischiano di essere motivo di distrazione per le
corporazioni politiche e accademiche, con i popoli messi da parte o nel ruolo di
mere comparse".
Per
contrastare questo rischio -sottolinea - è "importante recuperare la verità
storica su quel periodo cruciale, superando le difformità ideologiche, le
mitologie convenzionali e protocollari e il revival della leggenda nera. Serve
una ricapitolazione e un giudizio sintetico per affrontare tutte le questioni e
le sfide che l'indipendenza non ha saputo né potuto affrontare e che si
trascinano sino al nostro presente".
Sul
piano storico, Carriquiry si ritrova nel giudizio complessivo sul movimento
indipendentista dato da Simón Bolívar nel gennaio del 1830: "Mi vergogno
a dirlo: l'indipendenza è l'unico bene che abbiamo ottenuto, a spese di tutto
il resto". Parafrasando ciò che ripeteva spesso un grande storico e
teologo uruguayano da poco scomparso, Alberto Methol Ferré, a ben vedere
l'indipendenza è stata un fallimento dei libertadores. La vera e seconda
indipendenza verrà solo con la democratizzazione, l'industrializzazione e
l'integrazione dell'America Latina. I costi della prima e parziale indipendenza,
secondo Guzmán Carriquiry "sono stati la devastazione economica, la
sostituzione del dominio coloniale spagnolo con l'egemonia neo-coloniale
dell'Impero britannico, il deterioramento brutale della condizione degli
indigeni, la "balcanizzazione" di una ventina di Stati, disuniti e
privi di comunicazione tra loro, sotto forma di "polis oligarchiche",
un'alta densità di violenze e guerre intestine, la breccia crescente tra le élite
dirigenti di stampo razionalista e secolarizzatore e le masse popolari di stampo
cattolico-barocco. Aver ottenuto l'unico bene dell'indipendenza a spese di tutto
il resto vuol dire, nei fatti, non avere saputo né potuto creare le condizioni
per un'autentica indipendenza".
"Lo
diceva già José Martí all'alba del XX secolo - continua -. "Ciò che Bolívar
non fece è ancora da fare in America". Democrazia, sviluppo e integrazione
sono grandi compiti storici che richiedono nuove gesta patriottiche
latinoamericane. Non si può evitare un'opera di educazione delle persone e dei
popoli, che sia capace di ricapitolare e far fruttificare la loro tradizione,
dispiegando le migliori risorse di umanità. Oggi siamo in tempi propizi per
costruire su solide basi una "seconda indipendenza", nella rete di
inter-dipendenze della globalizzazione e dei nuovi scenari mondiali emergenti, a
condizioni di saper definire e perseguire i nostri comuni interessi e
ideali".
QUELLO
dell'integrazione è un nodo cruciale. Scomodando ancora Methol Ferré: "Il
tratto comune della nostra indipendenza in Sud America, in quel processo che va
dal 1810 al 1830, è che tutti hanno dovuto ricevere qualcosa da altri per
raggiungere il potere di essere indipendenti". È solo compiendo il grande
salto dell'integrazione e della costruzione di un grande Stato-continente
realmente democratico - cosa che lentamente e tra mille difficoltà sta
avvenendo, prima col Mercosur, oggi con l'Unión de naciones suramericanas
(Unasur) - che l'America Latina potrà completare effettivamente la sua
indipendenza.
Il tema del bicentenario, tanto nell'accezione continentale come nelle declinazioni nazionali, è molto sentito anche dalla Chiesa. In Messico, dove quest'anno si celebrano anche i 100 anni della Rivoluzione messicana, la Chiesa ha creato un apposito Comité para los Festejos de los Centenarios e ha promosso iniziative di studio e riflessione, come le giornate accademiche Chiesa-Indipendenza. In quella sede, l'arcivescovo di Guadalajara, cardinale Juan Sandoval Íñiguez, ha auspicato "che in queste date del bicentenario dell'inizio dell'indipendenza e del centenario dell'inizio della Rivoluzione, si compiano ricerche e venga alla luce la verità su fatti e persone... affinché emerga la vera storia del nostro popolo, con le sue luci e ombre e affinché, sulla base della verità, tutti collaborino alla costruzione della riconciliazione". Anche l'arcivescovo di Morelia, monsignor Alberto Suárez Inda, presidente del Comité, ha sottolineato che "la Chiesa in Messico deve essere ispiratrice di riflessione profonda e saggia rispetto alla storia patria... che ci aiuti a recuperare, a portare a galla le profonde radici cattoliche della nostra identità nazionale, riscattare gli ideali e i valori che ispirarono i nostri antenati". In Argentina invece il cardinale José Maria Bergoglio ha preso spunto dal bicentenario dell'indipendenza per lanciare un forte appello alla solidarietà sociale. Lo scorso 8 maggio, durante un'omelia presso il santuario mariano di Lujan, ha ricordato che la Vergine protegge tutti "cominciando dai più poveri" e ha richiamato il popolo argentino a costruire una patria fraterna e solidale. "A Lujan - ha detto - c'è un segno per la nostra Patria: tutti hanno un posto, tutti condividono la speranza e tutti sono riconosciuti figli".
Giornata
del lavoro minorile, una giornata "da non celebrare" ?
Agenzia Fides - Brasilia - 12 giugno 2010
Oggi, 12 giugno, si celebra nel mondo la Giornata
Mondiale contro il lavoro minorile. Secondo le cifre diffuse dalla
Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIT), in tutto il mondo lavorano quasi
215 milioni di bambini tra 5 e 17 anni. Di questi, più di 14 milioni si trovano
in America Latina e nei Caraibi: quattro milioni sono nella fascia tra i 15 e 17
anni e gli altri 10 milioni sono tra i 5 ed i 14 anni. Secondo il rapporto
inviato all'Agenzia Fides dall'Adital, il numero dei bambini lavoratori nella
regione della America Latina è calato, ed è comunque inferiore ad altre
regioni come l'Asia (parte del Pacifico) e l'Africa sub-sahariana, tuttavia il
tasso di lavoro minorile in America Latina e nei Caraibi rimane sempre elevato.
"Secondo un recente rapporto pubblicato dall'OIT, dal titolo 'Rafforzare la
lotta contro il lavoro minorile', un bambino su dieci in America Latina e
Caraibi lavora. Del totale, oltre nove milioni di questi bambini sono impegnati
in lavori a rischio" sottolinea l'Adital.
In
Brasile, la segretaria del Forum Nazionale di prevenzione ed eliminazione del
lavoro infantile (FNPETI), Isa Maria de Oliveira, afferma che il numero dei
bambini lavoratori diminuisce lentamente. Inoltre ricorda che "vi sono
altri aspetti che influenzano il lento processo di eliminazione del lavoro
infantile, come la fragilità del sistema scolastico, la bassa qualità
dell'istruzione e la mancanza di supporto familiare. Ci sono anche dei valori
culturali. Non riusciamo ancora a convincere le famiglie che il lavoro minorile
non riduce la povertà".
In
Perù, l'IFEJANT (Istituto di formazione per educatori di Giovani, Adolescenti e
bambini lavoratori dell'America Latina e Caraibi) ha pubblicato un
"comunicato di riflessione" dove è scritto che "il 12 giugno
anche noi faremo una marcia, non contro i bambini lavoratori ma contro quanti
gestiscono il lavoro minorile; contro i governi e le agenzie internazionali che
non denunciano o non agiscono con la forza e l'aggressività necessaria contro
l'abuso sistematico e globale dei diritti delle persone."
In
Perù, come in altri paesi dell'America Latina, il numero dei bambini lavoratori
in certe zone delle Ande non diminuisce, ma aumenta. Il direttore della
Direzione regionale del lavoro e promozione dell'occupazione di Puno (sud del
Perù, vicino alla frontiera con la Bolivia), il dott. Jesus Cervantes Cruz, ha
detto che "nella regione ci sono attualmente circa 155.000 bambini e
adolescenti che lavorano. Invece di prevenire e sradicare questo fenomeno,
assistiamo alla sua crescita, ed è una cosa allarmante." (CE)
A Istambul la III conferenza su interazione continente
Misna
- 8 giugno 2010
Si
apre oggi a Istanbul, in Turchia, la III Conferenza sull'interazione e la
realizzazione di misure di reciproca fiducia in Asia (Cica). Organizzata ogni
quattro anni (le prime due edizioni, nel 2002 e nel 2006, sono state ospitate ad
Almaty, in Kazakistan), la Conferenza sarà focalizzata sul tema
"Rafforzamento del dialogo su politica e sicurezza in Asia: chiave per
elaborare forme di cooperazione sulla sicurezza". Una ventina di stati
hanno finora aderito alla Cica il cui scopo, secondo il suo statuto, è il
rafforzamento della cooperazione per promuovere pace, sicurezza e stabilità in
Asia. In dichiarazioni rilasciate ieri, il primo ministro turco Recep Tayyip
Erdogan ha sottolineato la funzione della Cica e le sue potenzialità anche
rispetto al quadro politico ed economico globale. "Ognuno di noi dovrebbe
impegnarsi per la pace e il benessere di ciascuno dei nostri cittadini - ha
detto Erdogan - e per la pace regionale e globale". Sottolineando un
accordo siglato la scorsa settimana tra Brasile, Turchia e Iran sulla
controversa questione del programma nucleare di Teheran, Erdogan ha sottolineato
"che alla diplomazia deve essere sempre data una possibilità in tutte le
questioni, incluso il nucleare". Erdogan è anche tornato sull'assalto
israeliano ai danni di navi che trasportavano aiuti destinati alla popolazione
della Striscia di Gaza, chiedendo l'immediata fine dell'embargo imposto da
Israele. A quest'ultima ha anche chiesto di porre fine alle politiche "di
alterazione dello status e dell'equilibrio demografico di Gerusalemme... luogo
sacro per ebrei, cristiani e musulmani".[GB]
Tratta
di donne, piaga d'Asia di Luca Miele e Stefano Vecchia
Avvenire
- 10 giugno 2010
In
Cina si compra dalla Corea.
Troppi
maschi, ecco un altro effetto perverso della politica del "figlio
unico" di Pechino
Da
una parte c'è un Paese stremato dalla miseria. Dall'altra il gigante asiatico
che vuole conquistare il mondo. Di qui la carestia e la politica
"folle" del dittatore Kim Jong-il, che costruisce armi nucleari, sfida
la comunità internazionale e affama la popolazione del suo Paese. Dall'altra la
politica del figlio unico che sta infliggendo profonde ferite all'equilibrio
sociale del Dragone. Ad allacciare Corea del Nord e Cina - con la prima che
gravita politicamente, economicamente e militarmente nell'orbita della seconda -
è sempre di più un traffico "particolare".
Di
donne. La denuncia arriva da Asia-News , che ha ripreso un'inchiesta del
reporter giapponese dell'Asahi , Daisuke Nishimura. Per la drammatica mancanza -
si calcola che in Cina nascano circa 119 maschi per 100 femmine e che in alcune
province il gap esploda a 130 maschi contro 100 femmine - si
"acquistano" donne dal Paese vicino. Che in alcuni casi vengono date
in moglie. In altri, avviate alla prostituzione.
Secondo
i dati delle autorità cinesi nel 2009 sono entrati in Cina, fuggendo dal
proprio Paese, circa 25-30 mila nord-coreani. Del 40 per cento che rimangono, la
maggioranza è composta da donne. Il confine - un "serpentone" che si
snoda per 1.415 chilometri - è decisamente "poroso" ed è la via
preferita per chi tenta la fuga dalla Corea del Nord perché - dati i rapporti
di amicizia tra Pechino e Pyongyang - i controlli di polizia sono blandi.
Si
calcola che, attualmente in Cina, vivano illegalmente da 300 a 400mila
nord-coreani. "Tra loro - scrive AsiaNews - molte giovani donne sono
oggetto dell'ignobile traffico umano, realizzato da un'organizzazione non vasta,
ma ben organizzata. Si tratta di circa 150 'broker' cinesi etnico-coreani con
cellule nella Corea del Nord. La loro padronanza della lingua conquista
facilmente la fiducia delle fuggitive. Dai manager degli hotel e bathhouses del
Sud vengono le ordinazioni alle quali rispondono i 'broker' con la collusione
delle guardie di confine cinesi".
Una
delle vittime del traffico ha raccontato che ogni anno aiuta da 40 a 50
nord-coreani a passare il confine. Con "riluttanza". ha anche riferito
di avere visto nel mese di novembre un gruppo di giovani donne del Nord
attraversare il fiume. "Vestivano abiti cenciosi e tremavano dal
freddo". Un 'broker' coreano le accolte dal lato cinese e ha offerto un
semplice piatto di carne che esse hanno subito divorato. "Le donne, alcune
non ancora ventenni, hanno poi indossato abiti puliti che il 'broker' aveva
preparato per loro e sono state trasportate nella Cina meridionale, dove saranno
arruolate come prostitute".
Secondo
altre fonti di informazione, il "cliente" paga il 'broker' in Cina da
6 a 7mila yuan per ogni giovane nord-coreana: 4mila yuan vanno nelle tasche
della guardia di confine cinese e mille in quelle della guardia coreana. I
'broker', ha spiegato il reporter dell'Asahi , non vedono segni di declino della
loro attività commerciale. Uno di loro dice: "Quanto più la Corea del
Nord diventa povera e miserabile, tanto più denaro guadagniamo".
Il
traffico serve in qualche modo a "tamponare" un vulnus cinese. La
politica del figlio unico - perseguita per frenare l'esplosione demografica del
Dragone -, oltre ad aver provocato un numero altissimo di aborti di bambine,
rischia di fare collassare gli equilibri sociali del gigante asiatico. E di
ridimensionare le sue ambizione geo-politiche. Un dato su tutti: secondo Joel
Kotkin, della Chapman University, tra il 2000 e il 2050 la popolazione americana
di età compresa tra i 15 e i 64 anni aumenterà del 42 per cento, mentre la
stessa fascia diminuirà del 10 per cento in Cina. Ma è soprattutto il
disequilibrio tra maschi e femmine ad allarmare. Si calcola che l'eccesso di
uomini raggiungerà il 20% già attorno al 2030, quando circa 1,6 milioni di
maschi all'anno rischierà di non potersi sposare.
Un'inchiesta
della rivista britannica The Economist ha alzato il velo su una piaga che ha
prodotto un vero massacro di bambine. La cifra spaventosa di cento milioni di
bimbe mai nate nel mondo ha spinto la rivista a parlare di
"genericidio". Un fenomeno che sta conoscendo una nuova esplosione.
L'eliminazione dei feti femminili, scrive la rivista, "è una conseguenza
di tre fattori: la radicata e antica preferenza per i figli maschi, la moderna
propensione a creare famiglie piccole e l'uso di tecnologie a ultrasuoni che
permettono di identificare con certezza il sesso del bambino".
Il
Caso Pachistano
Governo
costretto ad ammettere "Un vero racket rifornisce i ricchi" di Stefano
Vecchia
Ci
sono voluti casi terribili di morte di ragazze minorenni per spingere gli
inquirenti pachistani a indagare su quello che alla fine risulta essere un vero
racket, che rifornisce di braccia 'a perdere' le famiglie 'bene' del Paese. Il
fatto che poi queste siano di notabili musulmani e le giovani vittime provengano
in maggioranza dalle minoranze e in particolare quella cristiana rende solo più
triste la loro sorte segnata fin dall'infanzia da povertà, mancanza di
prospettive e, a volte, violenza.
In
particolare, la terribile vicenda di Shazia Bashir, la dodicenne cristiana
sottoposta a privazioni e abusi dalla famiglia in cui lavorava per essere poi
massacrata il 22 gennaio nella città di Lahore ha convinto le autorità che in
Pakistan esiste "un'organizzazione per la vendita, e la riduzione in
schiavitù dei bambini".
Nel
caso di Shazia, la ragazzina era stata portata nella casa dell'avvocato
musulmano Chaudhry Muhammad Naeem da un personaggio che aveva promesso alla
madre una vita dignitosa per la figlia e un salario in grado di alleviare almeno
in parte la povertà della famiglia. Sorte ben diversa era invece toccata a
Shazia, costretta a lavorare con orari interminabili, in condizioni anche
ambientali durissime. Uccisa dopo una probabile violenza carnale, alla fine, per
essersi lamentata con alcuni conoscenti del trattamento subito dal datore di
lavoro e dai suoi congiunti.
Un
destino, il suo (escluso il tragico epilogo), da piccola schiava, simile a
quello di migliaia di coetanee e, salvo per le motivazioni (ovvero debiti che
legano la famiglia a personaggi senza scrupoli) a centinaia di migliaia di
bambini di entrambi i sessi che lavorano nelle piantagioni, nella manifatture e
nelle fornaci di mattoni. Complessivamente, un fenomeno allarmante, un fardello
per la fragile democrazia pachistana, ma anche un elemento economico di grande
rilievo, di cui beneficiano imprenditori senza scrupoli e vasti interessi
politici. Secondo l'Organizzazione internazionale del lavoro, sono 12 milioni i
minori che in Pakistan sono impegnati in qualche attività lavorativa, sovente
in condizioni di vera schiavitù, in particolare nelle province del Punjab e
della Frontiera di Nord-Ovest.
Orissa,
le cristiane doppie vittime di persecuzioni e abusi di Stefano Vecchia
Non
c'è pace per la gente del Kandhamal, il distretto dello Stato indiano di Orissa
colpito nel 2008 dalle più gravi violenze settarie degli ultimi anni in India.
Vittima soprattutto la popolazione tribale di fede cristiana, ma 'l'onda lunga'
della persecuzione si riflette sulla società locale con una varietà di
aspetti. Nonostante gli sforzi del governo e della Chiesa, le comunità dei
villaggi e delle cittadine del distretto squassate dalle violenza, divise
dall'emigrazione, vedono ancora profonde divisioni e in molti casi ai cristiani
il ritorno è precluso dalla minaccia di conversione forzata. Ancora una volta
le donne subiscono una doppia discriminazione: quella di fede e quella di
genere, e su di esse finiscono con il ripercuotersi problemi e incertezze della
loro terra.
Il
salvataggio il 24 aprile di cinque ragazze minorenni in procinto di prendere un
treno nella stazione di Berhampur per lo Stato meridionale dell'Andhra Pradesh e
probabilmente destinate al mercato della prostituzione o della servitù
domestica ha messo in evidenza un problema finora coperto dai tanti altri
dell'Orissa. Solo tre giorni prima di quell'episodio, tre ragazze erano state
portate nel Tamil Nadu per essere impiegate in una manifattura tessile. I due
casi si connettono con uno di ancora maggiore entità meno recente, quando 12
giovani tra cui 5 minorenni furono salvate, sempre nel Sud.
Gocce
in un mare che si allarga mano a mano che si interpretano tanti episodi di
sparizioni e di fortuiti interventi per scongiurare il peggio. La situazione è
grave al punto da rendere - secondo le parole di suor Justine, che guida il
servizio di tutela della donna dell'arcidiocesi di Cuttack-Bhubaneshwar -
"la politica contro il traffico di esseri umano del governo dell'Orissa
lettera morta". Secondo i dati ufficiali, il governo ha perso ogni traccia
di 3.578 donne e, di queste, 1.418 tra 12 e 14 anni.
Cifre
che, secondo la combattiva religiosa, testimoniano, insieme alle modalità del
tutto casuali con cui sono stati effettuati i recenti salvataggi, "come le
autorità del Kandhamal lavorano al problema".
La
conferma arriva anche da monsignor Sarat Chandra Nayak, vescovo di Berhampur,
originario del Kandhamal. "Stiamo registrando una rapida crescita del
traffico di minori e di giovani donne, mentre le famiglie cercano di trovare
mezzi di sostentamento nelle regioni interessate dalle violenze. Quando risulta
impossibile soddisfare le necessità primarie, le bambine e le donne diventano
prede di profittatori che promettono loro e alle famiglie denaro e sicurezza.
Finisce così che i trafficanti fanno affari d'oro alle spalle di genitori che
ignorano la sorte delle loro figlie. Il governo guarda altrove, si spreca in
promesse vuote e nell'elaborazione di programmi di sviluppo primario che restano
inattuati". Come sottolinea Dhirendra Panda, attivista per i diritti umani,
"a incentivare la fiducia in personaggi senza scrupoli è soprattutto
l'incertezza, la paura di un riaccendersi della persecuzione. Non a caso le
ragazze oggetto del traffico sono soprattutto della minoranza cristiana".
Il
vero surriscaldamento globale è la crisi economica di Maurizio d'Orlando
AsiaNews - Milano - 10 giugno 2010
Ci
sono molti segni che la crisi è tutt'altro che finita. L'Europa, impegnata nel
salvataggio dell'euro, è in prima linea. Ma il Nord america sta peggio e anche
in Asia la situazione è precaria. Anche in Cina il quadro reale è ben diverso
da quello comunemente descritto, di un Paese in crescita stabile.
Per
decenni stampa televisione e perfino gli spettacoli d'intrattenimento ci hanno
martellato sul problema del surriscaldamento mondiale e sugli effetti
catastrofici che ce ne sarebbero derivati. Ci hanno detto, ma non ce l'hanno
potuto dimostrare scientificamente, che il surriscaldamento è causato
dall'attività umana.Oggi possiamo constatare che un forte surriscaldamento
terrestre effettivamente c'è ed è tutto opera dell'uomo, ma non è di tipo
meteorologico: è economico e sociopolitico. La sensazione più sgradevole è
che potrebbe essere il preludio di qualcosa di peggio. Nel prossimo G8 e poi G20
di Toronto a fine giugno di argomenti da discutere certo non ne mancheranno.
L'Europa
in prima linea
In
questi ultimi giorni in campo economico nei notiziari i titoli di testa
riguardano l'Europa, con l'euro in continua discesa. La crisi e la possibile
insolvenza greca non sono ancora state archiviate. Il pacchetto da 750 miliardi
di euro di prestiti è stato appena e solo concordato. I relativi fondi non sono
ancora stati reperiti perché i vari governi e parlamenti nazionali europei
devono ancora approvare i necessari tagli di bilancio e misure fiscali. Ci si
domanda quindi che cosa si potrà fare ora che il contagio pare chiaro che si
stia estendendo anche in altri Paesi oltre alla Grecia. In Germania il
presidente della Repubblica si è dimesso, mentre il governo della Merkel, anche
in relazione alla gestione della crisi greca, ha visto precipitare il proprio
consenso popolare al 20 %.
Per
il governo del presidente francese Sarkozy la percentuale del consenso interno
è simile. Il riflesso sulla finanza del continente non è da poco. A rischio
sono le grandi banche commerciali europee, cosiddette private - statali di
fatto, ed in certi casi anche di diritto. Questo è in effetti l'equivoco di
fondo: le grandi banche europee anche quando sono nominalmente private o ad
azionariato diffuso sono comunque enti pubblici con logiche pubbliche. Sono
troppo grandi da dover pagare per i propri errori ed essere quindi esposte al
rischio di fallire. Non sono perciò società private in cui un imprenditore o
un gruppo di imprenditori gestisce e rischia in proprio averi propri.
Relativamente
meno esposte al bubbone dei derivati rispetto alle consorelle americane e
britanniche, le banche europee ad ogni modo sembravano finora versare in
situazione meno precaria. Vediamo che non era così e la loro debolezza,
abilmente sottaciuta, sta emergendo solo ora, in un settore in cui le loro
consorelle americane si erano defilate. La gran parte dei finanziamenti
internazionali ai Paesi emergenti, ed all'Est europeo in particolare, sono stati
infatti erogati dalle maggiori banche continentali europee. In prima linea ci
sono le banche francesi (Société Général, ad esempio) e tedesche, ma non
solo, anche quelle svizzere, austriache (Raffeisen) e svedesi (esposte in
particolar modo verso i Paesi del Baltico) sono particolarmente sotto tiro. Per
aver incorporato due banche, una tedesca e l'altra austriaca molto esposta verso
l'est europeo è anche l'italiana Unicredit e, rimanendo all'Italia, per brevità
tralasciamo Generali ed Intesa.
Non
è perciò una sorpresa se traballa il debito degli Stati e non solo per quanto
riguarda Portogallo, Irlanda e Spagna. In base all'incremento dei CDS (Credit
Default Swaps, che misurano il rischio d'insolvenza) e dei differenziali di
rendimento, sono a rischio anche il debito pubblico dell'Italia e della Francia.
Inaudito, perfino un'asta di titoli di Stato tedeschi, ha dovuto registrare un
insuccesso! La Polonia ha visto i vertici dello Stato e della sua classe
dirigente perire in un incidente aereo alla vigilia di una progettata e davvero
destabilizzante svalutazione dello zloty, la valuta nazionale, poi non più
attuata. Oggi sul palcoscenico dei trucchi di bilancio e del pericolo
d'insolvenza è la volta dell'Ungheria. Che dire però dell'Ucraina alle prese
con un drammatico calo del Pil ?
Potremmo
continuare, ma preferiamo fornire due accenni ad alcuni sviluppi politici,
soffocati dal susseguirsi senza sosta di problematiche notizie finanziarie.
Ebbene, nel cuore dell'Europa, un Paese è prossimo a spaccarsi: in Belgio si
preannuncia, infatti, una secessione o una forma di separazione consensuale. Nei
Balcani, poi, il Kosovo è di nuovo in ebollizione e tutta l'area finirà per
risentirne. Per completare il quadro europeo ci sarebbero anche la Gran
Bretagna, che però dal punto di vista economico fa parte più del Nord America,
e la Russia, che è essenzialmente euroasiatica ed in fondo è un continente a sé.
Il tutto si traduce in una debolezza dell'euro, una vera boccata d'ossigeno per
l'economia di Paesi esportatori come Germania, Francia Italia e Paesi Bassi. Sia
chiaro però che il sollievo dell'euro basso sarà di molto breve periodo.
Il
Nord America sta peggio
Degli
Stati Uniti abbiamo già spesso scritto di recente ad AsiaNews[1]. Per non
ripeterci, ricordiamo solo che se si prende in considerazione nel debito USA
anche i debiti delle GSE, le imprese parastatali come AIG, Fannie Mae, Freddie
Mac ecc.,il costo dei salvataggi bancari (24mila miliardi di dollari secondo
Neil Barofsky), gli impegni senza copertura (unfunded liabilities) (108 mila
miliardi di dollari) per Medicare e Medicaid ecc. e senza considerare il debito
interno di Stati e municipalità, il rischio dell'insolvenza sul debito pubblico
è ben maggiore oltre Atlantico e nelle sue dipendenze, Regno Unito in primo
luogo.
Non
si tratta di preconcetto antiamericanismo. Conti alla mano, il (reale) rapporto
tra il totale del debito pubblico ed il Pil è - a seconda di cosa si preferisca
includere nella definizione di debito pubblico - tra il 450% ed il 900% del Pil.
Il rapporto è cioè ben peggiore negli USA che in Europa, senza considerare il
debito privato, delle imprese ed il deficit commerciale. Inoltre se le banche
europee soffrono per i crediti spensieratamente forniti a Stati che truccavano i
bilanci pubblici, non dimentichiamo il bubbone dei derivati, per la stragrande
parte in pancia al sistema finanziario statunitense. Secondo la Banca dei
Regolamenti Internazionali (BRI)si tratta di uno scherzetto da 600 mila miliardi
di dollari di valore attualizzato. Il valore nominale è addirittura una cifra
quasi inesprimibile, mille miliardi di dollari. Come si dirà in inglese, un
quadrilione di dollari ?
Da
un punto di vista interno, oltre all'emergere di una terza forza (il "Tea
Party"), fenomeno che di rado gli USA hanno conosciuto, si segnalano due
sviluppi finora imprevedibili. In primo luogo osserviamo una marcata
accentuazione delle differenze politiche e socioeconomiche tra le diverse
macro-aree del Paese (Costa orientale e Nuova Inghilterra, Stati del Sud a
maggioranza afroamericana, California e fascia mexico-americana, dorsale
centrale indiana e Costa pacifica settentrionale). La prossima ondata di
insolvenze nel settore immobiliare sarà significativamente diversa nelle varie
macro-aree ed i relativi problemi sociali sono chiaramente prevedibili e diversi
da zona a zona.
Un altro grave problema del Nord America è la crescente instabilità del Messico sia per il sempre più profondo insediamento mafioso del narcotraffico che di un problema spesso ignorato. Finora il Messico ha potuto usufruire degli introiti valutari garantiti dalle esportazioni petrolifere. Da tempo però la Pemex, la società statale che ha il monopolio degli idrocarburi, non investe a sufficienza. Si è perciò formata una divaricazione a forbice tra produzione decrescente e consumi interni crescenti. Tra poco il Messico sarà importatore netto di idrocarburi e questo comporterà un grave squilibrio nei suoi introiti valutari. Insomma mentre al Nord v'è una crescente tensione al confine con il Canada a causa dei controlli anti terroristici, anche al Sud con il Messico si profila una fascia di sempre maggiore instabilità. Si aggiunga che nel Golfo del Messico il problema della fuoriuscita di greggio dal giacimento della BP in base ad alcune informative sembra sia lontano dall'essere definitivamente risolto. Qualcuno parla di un secondo squarcio molto maggiore ad alcune decine miglia di distanza dal primo.
Anche
in Asia la situazione è precaria un po' dovunque
In
Giappone il governo del Partito Democratico, dopo solo pochi mesi ha perso dei
pezzi della coalizione ed è andato alle corde. Hatoyama, che aveva condotto il
partito ad una storica vittoria solo pochi mesi fa, ha dato le dimissioni ed al
suo posto è stato eletto primo ministro Naoto Kan, ministro del Tesoro nel
precedente governo. Solo poco fa, dopo decenni di governi liberal-democratici,
molti avevano festeggiato la nuova coalizione come l'avvento di una nuova era,
un cambiamento epocale ed il consenso era alle stelle, circa il 70 %. Per i
giapponesi era, infatti, la fine di un sistema di governo che nei primi decenni
del dopoguerra pareva aver ben meritato. Come di recente la Cina, la rinascita
giapponese dopo la sconfitta bellica aveva tratto forza dallo straripare delle
esportazioni sul mercato statunitense e su quelli di tutto il mondo, una sorta
di espansionismo, non più militare, come quello del Giappone imperiale di prima
della guerra, ma neo-mercantilista e comunque a spese del resto del mondo. Non
poteva durare e non durò.
Nel
1985, per arrestare "l'invasione" nipponica gli USA costrinsero il
Giappone a firmare gli accordi del Plaza che lo impegnavano a sviluppare il
mercato ed i consumi interni. Scrupolosi come sempre, i giapponesi adottarono
l'ideologia allora data per vincente, l'ortodossia keynesiana. Il risultato fu
lo scoppio della bolla immobiliare e della borsa. Seguirono, dal 1987, due
decenni di soffocante stagnazione e debito crescente. D'altronde, in Giappone,
come altrove, la ricetta keynesiana, il metadone finanziario, di per sé non è
stata e non è in grado di produrre né ricchezza né benessere di lungo
periodo. D'altro canto Keynes in questo era stato candido. A chi gli contestava
lo squilibrio nel lungo termine del suo modello economico, rispondevache nel
lungo termine saremo tutti morti.
Il
tempo, però, inesorabilmente passa ed il futuro è tra noi. Da un lato, per il
2010 il rapporto tra debito e Pil giapponese è ufficialmente attorno al 200 %
del Pil (quello reale, ovviamente, è ben superiore). Dall'altro lato, la società
giapponese si ritrova sprofondata in un vuoto, una pesante e prolungata crisi
non solo economica ma anche sociale, morale, familiare, di senso antropologico e
demografica. Era quasi inevitabile che il sistema di governo liberal-democratico
andasse progressivamente verso una forma di degenerazione irreversibile, in una
sorta di regime corrotto e, di fatto, inamovibile per mancanza di alternative.
L'iniziale entusiasmo per la nuova coalizione era perciò comprensibile.
Pertanto
l'impossibilità di mantenere un impegno promesso in campagna elettorale, lo
spostamento della base militare americana di Okinawa, è stata, certo,
nell'immediato, la causa episodica della crisi del governo Hatoyama. In realtà,
se il consenso popolare per la coalizione di governo, già prima delle
dimissioni, era precipitato sotto al 20 %, la questione della base militare di
Okinawa è solo la punta dell'iceberg. La disillusione ha cause più profonde e
Naoto Kan ha davanti a sé un compito molto arduo, se non impossibile. Non si
vede un progetto credibile e soprattutto il Paese percepisce un senso di
smarrimento di fronte ad una grave crisi interna, economica, finanziaria,
politica e sociale che si somma ad una gravissima crisi economica mondiale. Non
lo si dice apertamente, non solo perché così è nel carattere del Paese, ma
perché è quanto avviene anche nel resto del mondo. Seppur taciuta è, però,
diffusa la consapevolezza che il debito pubblico giapponese di fatto, non è
ripagabile e che perciò le speranze di risanamento e nuova crescita sono
comunque compromesse indipendentemente dal colore del governo. In base alla
logica ed alle umane considerazioni, ed a meno di un vero e
trascendentemiracolo, soluzioni reali e definitive perciò non sembrano esistere
e questa è la causa profonda del malessere.
La
penisola coreana
Nella
penisola coreana, la Corea del Nord è letteralmente alla fame e piagata dalle
malattie e, proprio da qui nasce l'affondamento della Cheonan, un vero e proprio
atto di guerra. Il regime del Nord, infatti, non vuole riconoscere il proprio
fallimento, né passare la mano, ma sfruttare il solito ricatto nucleare. Finché
è stato possibile, la crisi, è passata sotto silenzio, per quasi un mese,
anche perché, nel pieno della crisi finanziaria mondiale, la Corea del Sud non
voleva certo vedere schizzare alle stelle il costo del suo debito estero. È
esplosa quando non poteva più essere ignorata senza perdere del tutto la
faccia. Di fronte alle minacce nordcoreane di una guerra "totale" -
sottointeso, nucleare - qualcosa sembrava si fosse mosso. Gli USA non avrebbero
insistito sulla questione commerciale con la Cina e questa avrebbe tenuto buoni
i nordcoreani con quanto è loro necessario. L'equilibrio però è molto
precario e l'abisso potrebbe spalancarsi da un momento all'altro.
L'Afghanistan
e...
Della
continua guerriglia in Afganistan e della non pace in Iraq c'è forse qualcosa
ancora da dire che non sia stato detto e che i bollettini quotidiani ci
rammentano di continuo ? Che dire ancora della Thailandia e del Kirghizistan tra
insurrezioni e guerra civile a bassa intensità ? Tralasciamo Tibet, Uzbekistan,
ed altro ancora. Accenniamo solo ai problemi interni di India e Pakistan, senza
dimenticare il contenzioso sempre latente tra di loro a causa del Kashmir.
Abbiamo già più volte scritto di Israele e dell'Iran[2]. Delle tensioni in
Asia centrale, Kirghizistan ed Uzbekistan in primo luogo, pure abbiamo dato
notizia. In Thailandia una da tempo latente guerra civile ha conquistato per
qualche settimana le prime pagine dei giornali per poi di nuovo scomparirne,
senza che il conflitto interno si sia davvero risolto. Lo stesso si potrebbe
dire della perenne tensione tra India e Pakistan e dei problemi interni dei due
grandi paesi del subcontinente.
I
problemi della Cina
Il
nodo vero, però, in Asia (e nel mondo) è la Cina e sta venendo al pettine
quanto ad AsiaNews abbiamo ripetuto in più occasioni a partire da quanto
scrivevamo nel novembre 2003[3]. Il sistema economico cinese, al di là degli
apparenti successi, è molto inefficiente in termini di impiego delle risorse,
sia umane che materiali. Ad esempio per ogni punto percentuale d'incremento
annuo del Pil cinese, per anni ha corrisposto un incremento di quattro punti
percentuali del consumo annuo di energia. Altrettanto si può verificare per le
diverse materie prime. Per le risorse umane un paragone sintetico è da un lato
più difficile, dall'altra più semplice. Non ci sono solo i dati dei morti
nelle miniere cinesi di carbone o il recente caso dei suicidi alla Foxconn.
Basta ricordare che per decenni il tasso di cambio dello yuan attualmente
praticato è stato ben inferiore (per lo meno oltre il 40 % ed il più del tempo
il 55 %) rispetto a quello desumibile dal rapporto di parità di potere
d'acquisto.Per chiarirci, significa che la Cina per mantenere dei surplus della
bilancia commerciale ha sovvenzionato le esportazioni ed ha permesso che il
lavoratore cinese fosse sottopagato di un pari importo.
Come
per primi abbiamo sostenuto ad AsiaNews e molte volte ripetuto, il modello
economico adottato dalla Cina è quello mercantilista in cui il benessere della
nazione è misurato solo in base alle riserve valutarie detenute grazie al
crescendo di esportazioni rese possibili da un tasso di cambio arbitrario. Date
le dimensioni stesse della Cina - oltre 1,3 miliardi di persone - la distorsione
introdotta nel sistema economico mondiale, ha stravolto e stravolge quasi ogni
impresa, ogni industria, ogni Paese della terra. Di questo si deve ringraziare
la "globalizzazione". Nessuno più ricorda come tutto questo
sconquasso economico mondiale si sia prodotto, ma è molto semplice: aver fatto
finto che la Cina, governata con pugno di ferro dal Partito comunista, fosse un
Paese ad economia di libero mercato.
Era
solo una finzione politica, un accordo utile alle élite sia in Oriente che in
Occidente: serviva una transizione "dolce" al posto di quella aspra
conseguente all'implosione dell'Impero Sovietico. Si garantiva così agli uni il
mantenimento del potere ed agli altri profitti straordinari necessari a
puntellare un impero di carta, l'ennesima bolla, quella dei derivati e della
finanza fine a se stessa. La grande menzogna fu celebrata con grande enfasi, con
gli accordi di liberalizzazione doganale e tariffaria del WTO, l'Organizzazione
mondiale del commercio, come l'avvento di una nuova era. Oggi di tanto splendore
ne vediamo i detriti: una crisi di sovraccapacità inutilizzata, un turbine di
carta finanziaria e di debiti/crediti senza sottostante, una bolla immobiliare
fatta di intere città nuove di zecca, ma senza abitanti, una generazione che si
è immolata sull'altare della modernizzazione e che ora non ne può davvero più.
Salvateci
dai Premi Nobel
Che
non fosse possibile far convivere il libero scambio con un regime di tassi di
cambio fissati d'arbitrio dal PC cinese lo poteva capire qualsiasi persona di
buon senso, tranne ovviamente i celebrati esperti economici, i commentatori
della stampa e della televisione, soprattutto gli economisti.
Nel
1998 nel mezzo della crisi asiatica (1997) e russa (1998) al centro dei problemi
c'era la Long-Term Capital Management (LTCB) gestita da due premi Nobel, Myron
Scholes e Robert Merton. Insieme a loro c'era già tutta la coorte che abbiamo
rivisto in tempi recenti (Bear Stearns, Merrill Lynch, Goldman Sachs, AIG,
Berkshire Hathaway di Warren Buffett, Bankers Trust, Barclays, Chase, Credit
Suisse First Boston, Deutsche Bank, J.P. Morgan, Morgan Stanley, Salomon Smith
Barney, Société Générale).
Per
la crisi dei derivati, oltre ai politici Bill Clinton, George W. Bush, Larry
Summers, Tim Geithner e molti altri ancora, oltre cha agli ineffabili Alan
Greenspan, Ben Bernanke, Jean Trichet, Dominique Strauss-Khan, Mario Draghi,
presidente dell'International Stability Forum ( e "Gran maestro" di
laicità) dobbiamo ringraziare molti altri economisti e premi Nobel: Modigliani,
Miller, Black Scholes, Sharpe, Markowitz, il premio Nobel 2003 Robert Engle. Il
premio Nobel per l'economia (1976) Milton Friedman va aggiunto alla lista per la
sua influenza su Alan Greenspan.
Per
la nuova ondata conseguente al "quantitative easing" di Obama di cui
in questi giorni constatiamo il misero fallimento un particolare ringraziamento
lo dobbiamo a Paul Krugman, anche lui premio Nobel per l'economia ed
editorialista di punta dell'ineffabile New York Times (l'autorevole quotidiano
fustigatore del papa, Benedetto XVI, per la vicenda della pedofilia). Visti i
risultati, viste le sofferenze che infliggono a miliardi di persone nel mondo le
decisioni di pochi banchieri centrali imbambolati da prestigiosi economisti,
spesso insigniti di premi Nobel, ad AsiaNews avremmo una sommessa richiesta ed
un accorato appello da indirizzare ai luterani del Regno di Svezia, nostri
fratelli in Cristo mediante il comune battesimo, e soprattutto allaBanca
centrale svedese, cui compete il compito di assegnare i premi per l'economia.
Per cortesia smettetela di piazzare patacche. Il premio Nobel per l'economia
oggi è un vero e proprio titolo d'infamia. Soprattutto è l'origine di troppi
disastri in economia.
[1]
Vedi AsiaNews, MdO, 3/3/2010, Rischia di esplodere già quest'anno il debito
pubblico degli Usa
AsiaNews,
MdO, 29/12/2009, Ben Bernanke "uomo dell'anno", mentre si mattende
l'iperinflazione e un governo mondiale
[2]
Vedi AsiaNews, MdO, 14/04/2010 ,Venti di guerra e crisi economica, Israele
minaccia di impiegare armi nucleari tattiche contro l'Iran
[3]
Vedi AsiaNews, MdO, 18/11/2003, I successi economici apparenti; la-schiavitù, i
fallimenti
Vedi
anche asianews, Articoli vari MdO
Piccole patrie litigiose. Adesso l’Europa si spezza?
di Alberto Bobbio
ItaliaCaritas
giugno 2010
La
crisi che scuote l’euro,innescata dalla Grecia,non è una semplicequestione
monetaria.Rivela che sta fallendol’idea politica dell’Unione.Manca una
culturacomune: prevalgonogli egoistici interessinazionaliE adesso l’Europa si
spezza?
Il
dramma della Grecia e la crisi chescuote l’euro (e che minaccia economie che
hanno vissuto oltrele proprie possibilità) conduce la riflessione a
concentrarsi sul-l’Europa e sulla sua stessa idea. La scena è quella di un
continentespazzato dal vento della disunione e dei pregiudizi, mai sopiti, che
segnanoi rapporti tra popoli e paesi. In un tempo di risorse risicate,
ragionaresulla solidarietà, nell’Unione, è difficile. Dal punto di
vistaeconomico e politico. Il balletto tedesco, ti-aiuto-non-ti-aiuto,
hacoinvolto governi e istituzioni di Bruxelles ben al di là delle
ragionieconomiche e finanziarie alla base del
dramma di Atene. Ha messo in questione l’intera architettura della casa
europea e non si è certamente risolto con le decisione di Berlino di dare una
mano alla traballante situazione greca.
L’Europa
resta quello che è sempre stata: un enigma culturale e politico. E non basta un
pacchetto di Trattati, da Maastricht a Lisbona, per risolverlo. Né sono
sufficienti i muscoli mostrati dalla cosiddetta Eurozona nel confronti del
dollaro per mettersi al riparo da un futuro incerto. All’ombra della crisi di
Atene (e delle altre che potrebbero coinvolgere Spagna, Portogallo, forse
Italia) si dice che stia fallendo l’Europa dei mercanti, quella che ha puntato
sull’euro e che ha costruito attorno alla moneta unica una sorta di rivalsa
sul biglietto verde, in un mondo globalizzato dalle monete e dagli affari.
L’analisi sembra tuttavia troppo corta, e forse assolutoria.
Come
se bastasse qualche colpo di bacchetta magica monetaria e qualche leva fiscale
autorizzata, per tornare a sognare affari e unità. Mentre sta fallendo proprio
l’idea politica dell’Unione, che il solo euro non è stato sufficiente a
rendere coesa. Si è costruita, infatti, l’Europa dei mercanti, senza
preoccuparsi della disomogeneità culturale e politica, a volte persino
ideologica, degli attori sul palcoscenico.
Non tutti sono uguali Qualcosa si era capito attorno alladiscussione sul
Trattato di Lisbona esulla Costituzione europea. Ma siera fatto sempre finta di
niente. InEuropa non tutti sono uguali, anchese si tende a crederlo. La favola
del- l’Unione e dell’unità, la favola del- l’omogeneità europea si è
spezzatadi fonte alla prima grande crisi dicredibilità economica di uno
deipaesi dell’Unione.Bisognerebbe
domandarsi perché è potuto accadere.
La
Grecia è stato sempre un paese sotto tutela internazionale. Ammesso nel club
dell’euro solo perché non si poteva fare altrimenti. Insomma,
l’allargamento come ideologia buonista di un’Europa che però, all’atto
pratico, non ritiene affatto i suoi figli tutti uguali, e tutti da amare in modo
convinto (infatti anche i cosiddetti “paesi virtuosi” e le loro opinioni
pubbliche badano più a se stessi che all’Unione). L’euro è servito solo a
nascondere le divisioni: i critici della moneta unica, molti più di quanto si
creda, a cominciare dalla Bundesbank tedesca, lo hanno sempre sostenuto e
prefigurato. Ma i politici hanno scommesso sulla moneta, sperando che essa
compensasse gli altri problemi. La crisi di Atene e quelle prossime venture
riportano alla realtà, che è quella di un Europa delle piccole patrie,
litigiose ed egoiste. Purtroppo, è questa l’Unione che abbiamo di fronte,
dieci anni dopo l’euro, in un continente che ha dimenticato la lezione
di De Gasperi e di altri, a cominciare da Gualtiero Spinelli. Compreso chi aveva
sospettato che senza politica e senza cultura comune, di fronte a qualsiasi
crisi finanziaria e monetaria, l’Europa non avrebbe fatto quadrato, ma si
sarebbe divisa.
Schegge di Bengala - 59 (prima parte) di p. Franco Cagnasso
Dhaka, 25 giugno 2010
Lago
Sembra un fiume - e mi dicono che lo è, largo dai 50 ai 70 metri serpeggia fra case eleganti, baracche, strade, si ramifica, percorre in lungo e in largo vari grossi quartieri della città. Ma l'acqua e' ferma, dunque lo chiamano lago, il Gulshan Lake." E' una lunga striscia maleodorante, sporchissima, con le rive popolate da topi d'ogni genere, che convivono con baraccati del livello economico più basso, in "baracche" che in realtà sono tende, rifugi messi insieme con fogli di plastica, cartoni, bastoni, mattoni usati... Qua e là, due o tre mucche allevate con i rifiuti dei mercati, che danno un latte molto richiesto.
Un bel giorno qualcuno incomincia una campagna, cui varie associazioni e organizzazioni si associano. Le rive vengono vivacizzate da cartelli vari: "Non inquinate l'acqua", "Non turbate l'ecosistema", "Salviamo il Lago!" "Preserviamo la bellezza della natura"... Comitati e gruppi scoprono che molti palazzi sono stati costruiti allargando le rive a scapito della dimensione del lago, che rischia di essere completamente riempito. Proteste sui giornali, promesse delle autorità, manifestazioni di studenti e
boy scout. Dai e dai, finalmente qualcosa si muove: vengono cacciati i baraccati, le mucche, le bancarelle con i venditori di te o di succo di canna da zucchero. Poi il municipio costruisce sulle rive un marciapiedi in piastrelle che permette una passeggiata "ecologica" lungo tutto il lago.
I baraccati si spostano in strade e stradette vicine, in condizioni ancora più precarie. Aspettano. Benestanti vanno a fare jogging lungo il nuovo marciapiedi, qualche rara coppietta ne approfitta. Poi il marciapiedi frana da una parte, si alza dall'altra, perde piastrelle. Torna una famiglia di baraccati, poi un'altra, poi un venditore di te, un altro che cuoce e vende
"chapati"; riappaiono alcune mucche. Pian piano il lago torna a popolarsi, con i fuocherelli per cuocere il riso alimentati, per qualche tempo, anche dai cartelli pro-ecologia e dai bastoni che li reggevano.
Festa
I mercati durante l'inverno sono una festa di colori e abbondanza di verdure di ogni tipo, disposte sempre con molta cura e gusto nei cestini sui marciapiedi, bancarelle, risciò... Durante la stagione delle piogge i mercati sono una festa di colori e abbondanza di frutti, dal nobile, famoso, gustoso mango - quest'anno particolarmente abbondante - al nutriente jack-fruit (albero del pane), dal profumatissimo ananas all'umile boroi, senza dimenticare mele e arance importate e tanti altri.
Dhanjuri,
29 Giugno, Festa dei Santi Pietro e Paolo 2010
|
Miei
carissimi Amici, ….siamo
alle solite, scrivo poco, anzi sempre meno, anche se le cose che vorrei farvi
conoscere sono tante e sempre nuove. Forse è l’epoca “digitale” che pone
ostacolo ad un riflettere prima di scrivere. Tutto avviene in “tempo reale”
dicono, per cui ciò che capita oggi domani è scomparso o in via di estinzione
rapida. Questo è la mia impressione che crea angoscia nel non sapere cosa
veramente interessa l’altro. Oggi
sul telefonino puoi avere le notizie del globo in pochi secondi, puoi parlare in
diretta con chi vuoi collegato in pochi secondi con chi è lontano migliaia di
kilometri; sembra che il tempo abbia una nuova dimensione: la fretta. Scusate,
volevo scrivere per ringraziarvi che per 43 anni mi avete seguito con il
pensiero, la preghiera, l’amicizia, cioè da quando il 29 Giugno del 1967
Mons. Gargiulo imponeva su di me, Don Enzo Cicconardi e P.Bernardino Rossi le
mani e ci consacrava al Signore per essere Suoi Sacerdoti al servizio di Cristo.
Per me, e penso anche per D.Enzo e P.Bernardino, è un momento di riflessione e di supplica per chiedere la Misericordia del Padre per non essere stati all’altezza di tale responsabilità. |
Questo Lui lo conosce e la Suo Perdono è per noi fonte per essere ministri di Riconciliazione in una umanità piena di conflitti e contraddizioni. Mi
conforta il vostro essermi vicino suggerendovi la preghiera a Gesù Crocifisso
che tre anni fa consegnammo come ricordo di una bella giornata vissuta insieme.
“
Signore Gesù, che hai versato il tuo Sangue prezioso per tutti gli uomini, fa
che non manchino mai operai nella vigna del Padre. Veglia
sull’anima dei giovani e sul cuore del bambini. Aiutaci a superare le grandi
minacce morali e sociali che colpiscono la vita e l’amore sulla terra. Rendici
disponibili alla salvezza dei nostri fratelli e sorelle, e facci comprendere che
tutti possiamo offrire qualcosa : un pane, un sorriso, una preghiera, perché si
compia nel mondo il disegno di Dio e la salvezza della persona. Amen
|
|
Penso
sia importante guardare avanti ed operare perchè i bambini,
cittadini di domani possano essere segno di speranza nell’essere
protagonisti di una umanità nuova, in cui ogni persona venga accettata,
rispettata ed amata.
Per
questo assicuro la mia preghiera, perché solo rinnovando l’amicizia con Gesù
crocifisso saremo capaci di costruire una società capace di rispettare
l’altro e di essere rispettati per quello che siamo.
Fraternamente
in Cristo
Fr.Adolfo
Chiusura dell'anno sacerdotale a Dhanjuri di p. Cherubim Bakla
Dhanjuri - 25 giugno 2010
Traduco
liberamente per gli amici italiani una lettera che mi ha mandato p. Cherubim,
parroco di Dhanjuri.
Caro
Dada, Jisuki Barai… (nota: In Bangladesh Dada indica
il fratello maggiore mentre Jisuki Barai è corrispondente, per i Cristiani del
gruppo etnico Orao, al nostro "Il Signore sia benedetto".
L'equivalente in bengoli è Jisu Pronam e, per i Santal, Jusu Maran. Bruno)
Voglio
informarti che il 25 giugno (che è anche la data del tuo compleanno!) per
l'anno sacerdotale, la diocesi di Dinajpur ha organizzato la celebrazione
conclusiva nella nuova Chiesa di S. Francesco d'Assisi, a Dhanjuri.
Abbiamo
diviso il programma in varie sezioni.
Nella
prima parte tutti i rappresentanti dei villaggi della parrocchia (da 4 a 7 per
ogni villaggio, per un totale di 235 persone) si sono riuniti e si è loro
parlato del sacerdozio, di giustizia e pace, delle pratiche del gruppo Santal e,
soprattutto, dei progressi della parrocchia negli ultimi dieci anni.
Erano
presenti 24 sacerdoti. Gli oltre 300 bambini dei due boarding (quello di S.
Benedetto per i bambini e quello di S. Chiara per le bambine, che tutti voi così
generosamente aiutate) hanno proceduto alla processione di benvenuto e,
successivamente al lavaggio dei piedi, insito nella tradizione Santal ed alla
consegna dei regali.
È
stato poi possibile celebrare l'eucaristia all'interno della bella chiesa (in
quella vecchia non sarebbe entrato nemmeno un quarto dei partecipanti!) e poi
ogni sacerdote ha piantato, a ricordo della giornata, un albero di mango ed uno
di mogano nel piazzale antistante la chiesa. Purtroppo il vescovo Moses era
all'estero e la celebrazione è stata presieduta dal vicario generale, p. Joseph
Marandi.
I
capi dei vari villaggi hanno ricordato il contributo dato dai padri del Pime, in
cento anni di attività, a tutta la comunità santal degli oltre 150 villaggi
che componevano la parrocchia (ora una settantina sono passati ad una nuova
parrocchia: Kalippur, nata praticamente dal niente!)
Per
tanti anni (21!) ha lavorato a Dhanjuri p. Enrico Viganò e, per ricordarlo, si
è fatta una partita di calcio, che a lui tanto piaceva, tra i preti e i
capi-villaggio. I preti hanno vinto con tre goal di scarto (malignità… li
hanno fatti vincere per consolarli della disfatta italiana in Sudafrica??).
Le
donne dei vari villaggi si sono sfidate invece in una partita di wolley.
Per
fortuna il tempo, sempre incerto in questa stagione, ci ha assistito.
La
cerimonia finale era stata organizzata dal capo dei vari villaggi, Cherubim
Hembrom e da sua moglie in un villaggio da poco divenuto cristiano.
Il
villaggio è abbastanza distante dalla parrocchia ed un improvviso acquazzone ha
reso impraticabili le strade e tutti, giovani e vecchi, sono stati costretti ad
andare a piedi.
I
ragazzi del boarding stanno bene, con qualcuno, come capita spesso, abbiamo
qualche piccolo problema che speriamo di risolvere.
I
contadini sono tutti impegnati nei campi ed anche noi facciamo del nostro meglio
per avere la maggior quantità possibile di riso, così necessaria
all'alimentazione dei nostri ragazzi.
Finalmente
è stato anche possibile comprare i 4 computer per l'aula informatica che
avevamo predisposto, in quanto il giovane che abbiamo scelto come istruttore ha
terminato il suo corso. È, per Dhanjuri, davvero una cosa bellissima.
Adesso
mando a te, ma ti prego di estendere questo messaggio a tutti gli amici della
diocesi di Gaeta, ma anche a quelli di altre parti d'Italia (Milano, Padova,
Roma) i nostri ringraziamenti e gli auguri per le vacanze.
Con
affetto e gratitudine
p. Cherubim Bakla
Seminario su moralità e personalità
di William Gomes
AsiaNews - Dhaka - 9 giugno 2010
Gli
studenti vengono da diverse diocesi del Bangladesh per studiare nella capitale.
Nel 2008 il seminario contava 60 partecipanti. L'obiettivo è estenderlo a tutta
la capitale.
Il
4 giugno, 80 studenti cristiani provenienti da tutto il Bangladesh hanno
partecipato a Dhaka al "Seminario sulla moralità e lo sviluppo della
personalità", organizzato in una scuola cattolica. Nel suo intervento, il
vice-rettore dell'Holy Spirit major seminary P. Shorot Francis ha sintetizzato
così l'obiettivo del raduno: "Avere una personalità retta è fondamentale
per entrare in contatto con Dio e rispondere alla Sua chiamata". "I
giovani" ha aggiunto P. Stanley Costa, rettore del St. John Vianney
intermediate seminary "hanno bisogno di trovare il giusto scopo della vita.
E la vita è in Dio".
Gli
studenti, arrivati a Dhaka da diverse diocesi per frequentare la scuola
secondaria, sono 20 in più rispetto al 2008, primo anno in cui è stato
realizzato il seminario. P. Franco Cagnasso, del Pime, ha spiegato ad AsiaNews
che "sono previsti nove appuntamenti all'anno per i giovani cristiani che
arrivano nella capitale da diverse diocesi per la scuola secondaria".
Il
comitato organizzativo del seminario è composto da due membri del Pime, p.
Franco Ballan e p. Fabrizio Calegari, da p. Stanley Costa e da p. Shorot Francis
Gomes.
Insieme
a loro, fanno parte del comitato anche quattro suore. Una di loro, Tripti Gomes,
si è detta entusiasta del successo del seminario e ha dichiarato che
l'obiettivo è di raggiungere tutta la capitale, e non solo una zona di Dhaka
come ora.
Sukhen
Tigga, 21 anni, della diocesi di Dinajpur, ha dichiarato di "voler
diventare come P. Shorot Francis Gomes e come lui lavorare per i giovani".
Sukhen Tigga proviene da una famiglia molto povera e può studiare grazie
all'aiuto e al sostegno di P. Fabrizio Calegari del Pime.
P.
Stanely Costa, nel suo intervento, ha parlato di quanto sia importante capire
"cosa Dio ci chiede di fare nella vita" e quanto non sia necessario
"che ognuno diventi prete o suora".
Alla
fine del seminario, gli studenti hanno partecipato alla messa nella Mary Queen
of Apostles Church.
Ripristinato
l'accesso a Facebook; vacilla la libertà di stampa di William Gomes
AsiaNews - Dhaka - 7 giugno 2010
Il
governo riapre le connessioni al social network, oscurato il 29 maggio. Ma
Facebook ha ritirato le caricature di Maometto. Critica la situazione della
libertà di stampa: polizia e servizi segreti chiudono il quotidiano nazionale
Daily Amar Desh e imprigionano il direttore, l'editore e alcuni giornalisti
della testata.
Il
governo ripristina l'accesso a Facebook dopo che sono stati ritirati i contenuti
giudicati "offensivi". Il famoso social network era stato oscurato il
29 maggio, dopo che erano apparse caricature del profeta Maometto, perché
"lesivo dei sentimenti religiosi della maggioranza musulmana della
popolazione". I musulmani in Bangladesh raggiungono il 90% della
popolazione.
La
situazione della libertà di stampa rimane però critica.
Dal
primo giugno il governo ha chiuso il quotidiano nazionale Daily Amar Desh. La
polizia, insieme ai servizi segreti, ha fatto irruzione negli uffici del
giornale bloccando la stampa in corso del quotidiano.
Il
2 giugno sono stati arrestati Mahmudur Rahman, direttore della testata, con
alcuni colleghi e l'editore Hashmat Ali. Gli attivisti dell'Asian Human Rights
Commission (Ahrc) dichiarano che la National Security Intelligence ha agito
senza mandato d'arresto o ordine di detenzione.
La
famiglia dell'editore ha rivelato ad AsiaNews che Hashmat Ali, in prigione, ha
dovuto firmare fogli bianchi riempiti, in seguito, da ufficiali dei servizi
segreti. Hashmat Ali è stato così obbligato a rassegnare le dimissioni da
editore del Daily Amar Desh, e a fare dichiarazioni diffamanti contro il
direttore Mahmudur Rahman.
Il
Ministro dell'Informazione del Bangladesh Abul Kalam Azad ha detto ad AsiaNews
che la chiusura del quotidiano non è stata una decisione presa dal governo, ma
dal vice-commissario di Dhaka. Gli attivisti per i diritti umani dichiarano
"risibile" la lavata di mani e l'estraniazione del governo, visto che
questo non è il primo caso di soppressione della libertà di stampa in
Bangladesh, ma solo l'ultimo di un trend negativo in atto da molto tempo. Il
governo ha già soppresso due emittenti televisive private e diversi giornali.
Invocando
l'intervento del Consiglio Onu per i diritti umani, l'Ahrc chiede al governo,
accusandolo di porre in serio pericolo l'intero processo democratico, di
rilasciare immediatamente i giornalisti detenuti in prigione, di ripristinare le
pubblicazioni soppresse e di avviare un'inchiesta credibile sui soprusi
avvenuti.
Si torna a pescare e a lavorare sulle
acque del lago Ciad
Misna
- 10 giugno 2010
Il governo ciadiano ha ritirato il divieto di esportazione del pesce del lago Ciad, imposto nel Gennaio del 2009 per tentare di contenere i prezzi dei principali beni alimentari in rialzo sui mercati locali, ma che col passare del tempo ha messo in ginocchio un'attività che dava cibo e lavoro a circa 10 milioni di persone. Nell'annunciare la decisione, il ministro delle Comunicazioni ha riconosciuto il danno che il divieto di esportazione ha provocato all'industria ittica locale, sottolineando come l'arrivo di aiuti alimentari e il miglioramento della situazione dei prezzi consenta ora di dare "un po' di respiro anche ai pescatori e alle loro famiglie". Secondo le principali associazioni di categoria e le autorità locali delle comunità che affacciano sul bacino, il divieto di esportazione del pesce ha provocato un vero e proprio esodo dalle aree costiere che avrebbe interessato nell'ultimo anno e mezzo oltre il 30% della popolazione, costretta a lasciare la zona per trovare un altro lavoro. Con la fine dell'embargo i pescatori hanno ripreso la loro attività, così come gli intermediari e gli importatori di tutti i paesi confinanti a cominciare dalla Nigeria, principale mercato del pescato del lago Ciad. [MZ]
Si distrugge l'unica chiesa di Ordos per costruire una strada
AsiaNews - Hohhot - 10 giugno 2010
Mongolia
Interna, demolita l'unica chiesa cattolica di Ordos per costruire una nuova
strada
Per
ordine del governo, 100 persone hanno distrutto la Dongsheng church nel cuore
della notte. Il sacerdote e la guida dei laici sono stati imprigionati per 20
ore. I cattolici sono accampati tra le macerie per impedire l'avvio della nuova
costruzione.
L'unica
chiesa cattolica di Ordos, città della Mongolia Interna, provincia nel nord
della Cina, è stata demolita il 7 giugno. Il sacerdote Gao En e la guida dei
laici Yang Yizhi sono stati arrestati dalla polizia.
Circa
100 persone hanno raggiunto a mezzanotte la Dongsheng church (nella foto, prima
di essere demolita), appartenente alla comunità cattolica, e l'hanno distrutta.
P. Gao En e Yang Yizhi, svegliati dal rumore, hanno tentato di impedire la
demolizione ma sono stati ammanettati e portati via.
La
chiesa, frequentata da una comunità di circa 1000 cattolici sui 200000 di tutta
la Mongolia Interna, era regolarmente registrata dal maggio 2009. Il governo
locale aveva recentemente ordinato la demolizione della chiesa per fare posto a
una nuova strada. A nulla sono serviti i tentativi dei cattolici di farlo
tornare sui suoi passi.
Molti
fedeli si sono accampati in mezzo alle macerie per impedire l'inizio dei nuovi
lavori. Uno di loro ha espresso così la sua indignazione: "Come può il
governo demolire la chiesa segretamente nel cuore della notte, imprigionare il
sacerdote e il capo dei laici e allo stesso tempo parlare di armonia
sociale?".
Dopo
20 ore di detenzione, p. Gao En e Yang Yizhi sono stati liberati. Due preti
inviati dal vescovo di Hohhot, Paul Meng Qinglu, stanno trattando con il governo
locale per ottenere il risarcimento.
"Così in Colombia le multinazionali pagavano le Auc"
di Nello Scavo
Avvenire
- 12 giugno 2010
José Luis era un contadino. La multinazionale si aspettava che lui raccogliesse banane, prendesse la paga e non piantasse grane con noiose rivendicazioni. José Luis, invece, si mise alla testa del sindacato. La sua voce fu messa a tacere nel 2001 da Gregorio Mangones Lugo, uno dei capi delle Auc, gli spietati paramilitari di destra. La confessione di Mangones Lugo, arrestato nel 2006, sta facendo riaprire in Colombia e negli Usa i processi contro le due più grandi compagnie della frutta: Chiquita e Dole. Per anni le multinazionali hanno sostenuto di aver subito i tentativi di estorsioni dei guerriglieri, sebbene Dole ripeta ad ogni occasione di non aver mai pagato e di aver rispettato "le leggi di ogni Paese in cui la società fa o ha fatto affari". Dunque, caso unico in Colombia, non avrebbe mai avuto guai dai paramilitari. Il comandante Lugo racconta un'altra verità: "Ci pagavano per mantenere la sicurezza nelle loro piantagioni, per proteggere i loro dirigenti" ed anche per riportare alla ragione quanti reclamavano "condizioni lavorative e salari ingiusti o esagerati". Se Dole parla di "accuse false e stravaganti", al contrario Chiquita nel 2007 ha raggiunto un accordo con il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti. "Sulla base del patteggiamento - spiega una nota trasmessa ad Avvenire dalla multinazionale -, Chiquita pagherà in cinque anni una multa di 25 milioni di dollari". Il gruppo ha finora ammesso di avere versato alle Auc un totale di 1,7 milioni di dollari. Dazioni indirizzate anche alle Farc (la guerriglia di sinistra nota per i sequestri di persona, come quello di Ingrid Betancourt) quando queste avevano assunto il controllo delle aree dove Chiquita aveva i suoi centri produttivi. Le rivelazioni dell'ex leader guerrigliero, che si è autoaccusato di 500 omicidi fornendo prove molto circostanziate, sono state consegnate ai legali americani che curano gli interessi dei familiari delle vittime dei paramilitari. La dichiarazione giurata di Mangones Lugo, che Avvenire ha potuto ottenere da fonti legali colombiane e americane, è stata rilasciata in presenza dell'autorità giudiziaria di Bogotà e potrà essere utilizzata sia nei tribunali Usa sia in quelli del Paese latinoamericano.
I familiari di 393
vittime, la maggior parte agricoltori, hanno chiesto 20 milioni di dollari di
indennizzo per ogni persona uccisa. In totale 7,9 miliardi di dollari (5,4
miliardi di euro), cifra che decreterebbe il fallimento delle società
coinvolte. Per quanto vastissimo, il giro d'affari annuale di Chiquita è
infatti di 4 miliardi di dollari. "I pagamenti effettuati dalla compagnia
sono sempre stati motivati dalla preoccupazione sincera per la sicurezza dei
nostri dipendenti", ribadisce Chiquita dal quartier generale di Cincinnati.
Una versione che le autorità di Washington e Bogotà considerano ancora
insufficiente.
Sostiene
Jonathan Reiter, avvocato di parte civile, che la multinazionale dal bollino blu
"era coinvolta in una cospirazione con le Auc per controllare la produzione
e la distribuzione di banane in Colombia". Molto più di una sgradevole
estorsione. Il gruppo si difende sostenendo di essere stato costretto a pagare e
ricorda "tra gli innumerevoli attacchi sferrati dai paramilitari di destra
e di sinistra, il massacro nel 1995 di 28 lavoratori di Chiquita, colpiti con un
agguato al loro autobus" e l'assassinio nel 1998 "di altri due nostri
lavoratori in una piantagione, mentre i loro colleghi venivano costretti a
guardare". Reiter assicura di aver raccolto prove in base a cui Chiquita
avrebbe fornito alle Auc armi, mezzi di trasporto e infrastrutture.
"Chiquita è stata per molto tempo una vittima delle estorsioni in Colombia
- replica un portavoce dell'azienda - e non permetteremo di trasformarci in
vittima di estorsioni anche negli Stati Uniti. Ci difenderemo vigorosamente da
questo tipo di accuse".
Nelle
nuove denunce formulate da Mangones Lugo, l'ex guerrigliero racconta di quando
una formazione delle Farc denominata 'Frente 19', si infiltrò "nella
regione bananiera, provocando un caos totale. Noi - racconta Lugo - abbiamo
scacciato le Farc dalla regione. Abbiamo stabilito un perimetro di sicurezza e
mantenuto le Farc fuori dall'area". Tutto alla luce del sole.
"Chiquita, Dole e tutti gli abitanti dell'area sapevano". E non poteva
essere altrimenti.
Secondo
stime governative confermate da organizzazioni umanitarie le Auc, solo nella
regione sudorientale della Colombia dove si concentra la maggior produzione di
banane, negli anni '90 avrebbero ucciso 3.780 persone. L'avvocato Terry
Collingsworth annuncia battaglia: "Questo è forse il più grande caso di
terrorismo della storia. In termini di vittime è tre volte superiore a quelle
dell'attacco alle Torri gemelle ". Il movimento paramilitare si è
organizzato nelle Autodifese unite della Colombia (Auc) dopo il 1980 per opera
di Carlos Castano, che volle così compattare le forze contro la guerriglia
marxista delle di Eln e Farc. Per uccidere basta anche un sospetto. Come il 7
settembre 2001. Uno squadrone della morte trucidò tre contadini nell'azienda
agricola 'La Francesca'. Le vittime si chiamavano Jorge Alberto, Miguel Ange e
Gustavo Enrique Téran Pérez. "Ci fu segnalato che appartenevano alla
guerriglia", spiega Lugo. Dove per guerriglia si intendono i nemici delle
Auc, ovvero Farc e Eln. La soffiata secondo l'ex comandante paramilitare, arrivò
direttamente dagli uomini che lavoravano per le compagnie americane. Stessa fine
il 9 luglio 2004 faranno i fratelli Jimmy Antonio e Isaac Polo Orozco, falciati
da una scarica di piombo sulla strada Troncal del Caribe, anch'essi
"segnalati" quali "ausiliari della guerriglia".
L'ultimo
omicidio eccellente è del 20 marzo di quest'anno. Il giornalista Clodomiro
Castilla, direttore della rivista El Pulso, è stato ucciso sulla veranda di
casa a Monteria, nel Nord del Paese. Castilla si era fatto molti nemici, specie
da quando scriveva delle attività di Salvatore Mancuso, l'italo colombiano
figlio di emigrati calabresi diventato uno dei capi delle Auc, indagato negli
Stati Uniti e in Italia per traffico internazionale di cocaina in accordo con la
'ndrangheta.
Anche
Mancuso è in galera. E ha deciso di saltare il fosso, depositando una
impressionante mole di documentazione. Carte che raccontano di incontri con
uomini di governo. Negli anni '90 fu stretto un patto: creare un blocco
paramilitare a Bogotà, dove Farc e Eln stavano per mettere a segno alcuni
attentati, in modo da destabilizzare definitivamente il Paese innescando la
bomba a orologeria di una guerra civile che avrebbe aperto la strada a un colpo
di Stato.
C'era
però un rischio. La comunità internazionale avrebbe potuto reagire, con
conseguenze anche per le esportazioni. Ora i capiguerriglia potrebbero spiegare
perché e nell'interesse di chi si decise di rinunciare al golpe.
Minacce
a padre Giraldo: ha denunciato i crimini della lunghissima guerra sporca
Nelle
ultime settimane a Bogotà sono apparsi graffiti con minacce di morte dirette a
padre Javier Giraldo, membro del Cinep (Centro di investigazione ed educazione
popolare). Il motivo è da ricercarsi nelle denunce che il religioso gesuita va
facendo in seguito alle sue ricerche, che finora hanno permesso di individuare
201 crimini e assassinii commessi a partire dal 1996 a opera dell'Esercito
nazionale colombiano, dai gruppi paramilitari e dalla guerriglia. Inoltre, padre
Giraldo ha organizzato e firmato richieste per indagare innumerevoli azioni
illegali da parte di gruppi armati, la maggior parte delle quali rimaste
impunite. Il Cinep in un suo comunicato ha respinto "le minacce contro
padre Giraldo, che ha difeso i diritti umani e ha denunciato il sistema di
impunità verso crimini in violazione di leggi umanitarie internazionali, che
sono stati e ancora vengono commessi in Colombia". Il centro di ricerca
chiede poi al governo di fare chiarezza e disporre un sistema di protezione per
coloro che sono nel mirino.
Da
parte sua, padre Francisco de Roux, provinciale dei gesuiti della Colombia, si
è schierato a fianco del confratello, "uomo di altissimo valore morale, un
vero cercatore della verità, un lottatore instancabile a fianco degli esclusi,
un difensore a tutto campo della dignità umana, un uomo convinto che lo Stato e
le sue forze di sicurezza debbano essere al servizio della vita". Di
nemici, padre Giraldo ne ha parecchi. Recentemente il religioso ha chiesto, ma
non ancora ottenuto, investigazioni approfondite sull'esistenza di una struttura
paramilitare nella 'Hacienda La Carolina'. La tenuta appartiene alla famiglia
Uribe Vélez, quella del presidente uscente , Alvaro Uribe Vélez. ( N.S.)
Mezzo secolo d'indipendenza, i vescovi per 'un
Congo sempre più bello'
Misna
- 10 giugno 2010
Un
ciclo di conferenze dal titolo 'Prendere lo slancio per un Congo sempre più
bello' si è aperto oggi all'Università cattolica del Congo, a Kinshasa, in
occasione del cinquantenario dell'indipendenza del paese. Organizzata dalla
Conferenza episcopale nazionale (Cenco), l'iniziativa si articola su diversi
piani, con l'obiettivo di "contribuire alla ricostruzione del tessuto
sociale del paese, gravemente ferito in anni di conflitti e violenze",
precisa una nota dei vescovi secondo cui i tre giorni di lavori, fino al 12
Giugno, sono dedicati alle retrospettive, alle questioni attuali e alle
prospettive. "Il nostro Paese si appresta a celebrare il giubileo d'oro.
Celebrare un simile giubileo significa tre cose: chiedersi da dove veniamo, dove
siamo e dove stiamo andando" affermano i presuli ricordando che
"occorre, prima di tutto, rendere grazie a Dio per i benefici ricevuti, e
mettere in luce le realizzazioni dei 50 anni d'indipendenza, ma anche
effettuare, senza tergiversare, una diagnosi di ogni deviazione, negligenza ed
errore che hanno minato il bene del paese". Il tutto "per definire
nuovi comportamenti da adottare e sviluppare progetti di società per un futuro
migliore per tutti. [AdL]
Società civile in campo
di p. Davide Sciocco
MissiOnLine
- 7 giugno 2010
La
voce del direttore di Radio Sol Masi
Una
sequenza di colpi di Stato, un quadro politico molto critico. "La gente,
però, non sta a guardare....".
Agli
inizi di aprile azioni militari hanno portato alla detenzione temporanea del
primo Ministro e alla detenzione (ancora in corso, seppure illegale) del Capo
dell'esercito per opera del suo vice e di un altro graduato accusato gravemente
di commercio di droga.
Attualmente
la situazione rimane complessa, il Primo Ministro Carlos Gomes Junior è da
oltre 4 settimane all'estero, e il Presidente della Repubblica Malam Bacai Sanha
continua a visitare varie nazioni africane e a ricevere aiuti militari e
economici dalla Libia. L'Unione Europea, che ha gestito le varie crisi della
Guinea con una politica non chiara, ora ha preso una posizione dura, bloccando
tutti gli aiuti, tranne le emergenze umanitarie. "Perché proprio
ora?", si domandano i guineensi, quando nessuna decisione era stata presa
dopo l'uccisione del Presidente João Bernardo Vieira e del Capo dell'esercito,
generale Tagma Na Waie, e dopo altre uccisioni prima della campagna elettorale
nel 2009.
In
questo quadro fosco, resta il segnale positivo dato dalla popolazione, scesa in
piazza nelle ore in cui il primo Ministro era in mano ai militari, costringendo
questi ultimi a liberarlo. Un primo segno di una reazione popolare, che
probabilmente é l'unica che potrà rompere la catena di colpi di Stato,
sommosse e instabilità. Occorre una cultura nuova tra i politici, la societá
civile e la gente semplice.
È
questa mentalitá nuova che cerchiamo di trasmettere attraverso Radio Sol Mansi,
nei molteplici programmi ormai seguitissimi, che realizziamo insieme a varie
organizzazioni locali e internazionali, e insieme ai leaders delle altre
religioni. Per questo impegno per la pace, l'Associazione che sta lavorando con
più serietà e efficacia ("Voz di Paz") mi ha chiesto di far parte
dell'assemblea generale, in cui come Presidente è stato eletto il vescovo di
Bissau, mons. José Camnate Na Bissing, e come vice l'attuale Ministra degli
Interni, entrambi scelti non per la loro carica, ma per quanto stanno facendo
per la pace. Un cristiano e una musulmana, insieme per il bene della Guinea. E
un segno che anche tra i politici ad alto livello ci sono persone che si sono
conservate fedeli ai principi del bene comune e del servizio al popolo.
Anche
con i giovani e le scuole si sta facendo un grande sforzo di formazione alla
pace e alla giustizia, con sessioni di vari giorni di formazione, perché i
leaders dei giovani delle nostre parrochie, e gli insegnanti delle scuole
seguite dalle Missioni possano creare iniziative che favoriscano la crescita di
una cultura del dialogo e del servizio al bene. Tutto questo si traduce poi in
programmi radio, perché raggiungano la grande maggioranza che sempre rimane
fuori dagli incontri formativi. E lo facciamo spesso attraverso il teatro
radiofonico, un linguaggio che sta accattivando tantissimi giovani e adulti. Il
giovedí e il venerdí sera attraverso il teatro si trattano temi quali la
droga, la delinquenza giovanile, i maltrattamenti in famiglia, le speranze di
lavoro dei giovani, ... storie di vita che attraverso il linguaggio teatrale
fanno riflettere e sensibilizzano su grandi temi di attualità. Stiamo
preparando una seconda radionovela, dopo il grande successo della prima: episodi
della storia di un bambino la cui famiglia è stata coinvolta dal commercio
della droga e dalle sue conseguenze.
Sentenza su Bhopal, "simbolo" di una giustizia fallimentare
di
Nirmala Carvalho
AsiaNews - New Delhi - 9 giugno 2010
Lenin
Raghuvanshi, direttore Pvchr, parla di "giorno nero" per i
sopravvissuti alla tragedia. La condanna a due anni di prigione per gli imputati
- già liberi su cauzione - mostra le carenze di un sistema "impotente di
fronte alle elite internazionali". Il governo del Madhya Pradesh annuncia
un ricorso in appello.
"È
un giorno nero per i sopravvissuti della tragedia di Bhopal. La sentenza non è
frutto della legge, ma solo fumo negli occhi dopo due decenni di impunità"
oltre che il "simbolo di una giustizia fallimentare, in una democrazia
deficitaria". È durissimo il giudizio di Lenin Raghuvanshi, direttore
della Commissione indiana per i diritti umani (Pvchr) e premio Gwanju (il
"Nobel asiatico") nel 2007, sulla recente sentenza del tribunale
cittadino che ha condannato otto persone per l'incidente del 1984 alla Union
Carbide. Per l'ingente fuoriuscita di gas di cianuro, che ha causato oltre
15mila morti e 600mila intossicati, i giudici hanno emesso condanne a due anni
di carcere e 100mila rupie di multa (circa 1700 euro). Secondo l'attivista la
sentenza - che ha scatenato le proteste dei parenti delle vittime - "è un
fatto ancora più grave". Intanto
il governo del Madhya Pradesh ha deciso di ricorrere in appello contro la
sentenza, che ha sollevato proteste in tutto il mondo. Lo ha annunciato oggi il
Ministro capo Shivraj Singh Chouhan, che aggiunge: il Bharatiya Janata Party
(Bjp), partito di maggioranza nello Stato, formerà un comitato per studiare gli
aspetti legali, prima di presentare l'istanza. |
Sulla
vicenda è intervenuto anche Veerappa Moily, ministro della giustizia, che parla
di un caso "non ancora chiuso". Egli sottolinea che Warren Anderson,
capo di Union Carbide ai tempi del disastro, deve rispondere dei capi di
imputazione. Un funzionario del governo Usa, invece, spera che la sentenza metta
la parola "fine" sul caso.
Lenin
Raghuvanshi parla di "un ribaltamento" della giustizia: "cosa vi
può essere di più sovversivo - si domanda - che dare due anni di carcere a
quanti sono responsabili della morte di oltre 15mila persone", insieme a
"danni gravissimi alla salute per oltre mezzo milione di abitanti"
dell'area affetta dalla fuoriuscita di gas velenoso. Egli aggiunge che tutti gli
imputati, eccetto uno che è malato, "sono stati rilasciati su cauzione a
due ore dall'emissione del giudizio di colpevolezza". A questo si unisce il
fatto che Warren Anderson "non è mai comparso davanti ai giudici".
Il
"premio Nobel asiatico" sottolinea che "il verdetto ha,
giustamente, indignato non solo la gente in India, ma in tutto il mondo". E
aggiunge: "è un caso esemplare da studiare, per capire quello che non
funziona del sistema giudiziario indiano" ed è anche un esempio del
"celebre aforisma: la giustizia rinviata, è una giustizia negata". La
sentenza è arrivata a 26 anni di distanza dall'incidente e, per tutta la durata
del processo, "il pubblico ministero è stato dalla parte dei colpevoli,
piuttosto che delle vittime".
In
alcune zone dell'India fra cui Manipur, il Jammu-Kashmir, teatro di rivolte e di
conflitti, lo Stato centrale favorisce l'intervento di esercito e reparti
paramilitari, coprendone violazioni e abusi dei diritti democratici, "in
nome della legge e dell'ordine". "La sola cosa che cambia nel caso di
Bhopal - sottolinea Lenin Raghuvanshi - è il modus operandi. Invece di
sostenere nel concreto i criminali, lo Stato li aiuta con atti di
omissione".
Il
caso più clamoroso riguarda Warren Anderson, l'allora presidente di Union
Carbide Corporation degli Stati Uniti, che si è reso latitante per non
comparire in tribunale. "È frustrante che non vi siano provvedimenti -
puntualizza l'attivista - contro la compagnia multinazionale. Ciò dimostra che
la legge non può nulla di fronte alle potenti elite internazionali".
L'incidente, invece, avrebbe dovuto "assicurare norme rigorose in materia
di sicurezza industriale e nella responsabilità delle corporazioni".
La
conclusione di Lenin Raghuvanshi è amara e comprende l'intero modello della
democrazia indiana: "Il verdetto prova che l'India sta fallendo, se non è
già fallita in quanto Stato. Lontano dall'essere il modello della più grande
democrazia al mondo - chiosa - non è niente di più che una Repubblica delle
banane. È una nazione dove gli assassini dei cittadini comuni, che siano a
Manipur o nel Madhya Pradesh, possono circolare liberi e impuniti". L'India
è uno Stato, conclude l'attivista, che "protegge gli interessi delle
corporazioni, al prezzo della gente comune".
Nell'Orissa
ritorna la paura: torturato giovane cristiano di Stefano Vecchia
Avvenire
- 12 giugno 2010
Costretto
ad abiurare con la forza: è grave
In
quello che è solo l'ultimo episodio di una lunga serie di atti di intolleranza
e di violenza contro i cristiani nello Stato orientale indiano di Orissa, l'8
giugno un gruppo di estremisti religiosi ha assalito l'abitazione di una
famiglia cristiana in un villaggio del distretto di Nuapada. Dopo averla
devastata, hanno sequestrato l'unica persona che vi si trovava, un giovane di 19
anni che è stato picchiato, torturato e poi trascinato nel centro del
villaggio, dove è stato costretto ad abiurare la propria fede e convertirsi
all'induismo. Gravi le condizioni di Bhakta Vivar, i cui genitori erano assenti
al momento dell'irruzione. Secondo alcune testimonianze e i primi accertamenti
della polizia, obiettivo dei fondamentalisti - sei, di cui cinque individuati e
fermati il giorno successivo ma rimessi in libertà - era di costringere a
l'intera famiglia a rientrare in seno all'induismo e, in caso di rifiuto,
eliminarla.
Un
episodio che conferma ancora una volta il senso di immunità che muove fanatici
o a volte sicari contro la minoranza cristiana presente soprattutto tra la
consistente popolazione tribale dell'Orissa. A sottolinearlo anche Sajan K.
George, presidente nazionale del Consiglio globale dei cristiani indiani, che in
un'intervista all'agenzia AsiaNews , ha spiegato come "dietro le minacce e
le violenze contro le comunità cristiane dell'Orissa, ci siano interessi
nascosti" che, non ha caso, sono tornati a colpire "proprio mentre
questa minoranza riprendeva lentamente a vivere, dopo i pogrom del 2008".
Con una iniziativa che apre un ulteriore spiraglio di speranza nel clima di
violenza che permane in Orissa, nella notte tra giovedì e venerdì è stato
arrestato dalla polizia Pandit Bishimajhi, segretario di una sezione locale del
Bharatiya Janata, partito capofila della rappresentanza politica del radicalismo
induista, e personaggio noto per le sue attività illegali. Bishimajhi è
accusato di avere organizzato l'aggressione e lo stupro di suor Meena
nell'agosto 2008, di violenza carnale in relazione allo stesso fatto e di
aggressione contro padre Thomas Chellan, direttore del centro pastorale del
distretto. "Tra i 15 reati che il tribunale distrettuale di Balliguda gli
ha addebitato - comunica padre Ajay Singh della diocesi di Bhubaneshwar - vi è
anche quello di tentato omicidio dei due esponenti della Chiesa locale che
fortunosamente sfuggirono all'uccisione". L'arresto di questo personaggio
di snodo a livello locale tra malaffare politico, radicalismo indù e criminalità
è stato salutato con soddisfazione dagli attivisti cristiani, perché potrebbe
contribuire a fare luce su altri casi di violenza ancora impuniti.
Programma
di riabilitazione dei bambini di strada nello stato di Madhya Pradesh
Agenzia Fides - Bhopal - 12 giugno 2010
Secondo
l'ultimo censimento, in India ci sono 11,28 milioni di bambini lavoratori che
hanno meno di 14 anni. Il paese vanta il triste record di detentore del maggior
numero di bambini lavoratori in tutto il mondo. La maggior parte di questi
piccoli (85%) lavora nei campi delle zone rurali. Ci sono bambini 'usati' per
confezionare tappeti, gioielli, fare servizi domestici, sfruttati nell'industria
alberghiera, in cantieri, miniere, fabbriche di mattoni, oltre che abbandonati
alla prostituzione. Il compenso corrisponde sempre a paghe misere.
Oltre
1 milione di bambini lavoratori si incontrano per le strade dello stato di
Madhya Pradesh. La maggior parte sono di origine tribale o appartengono alle
caste più basse. Le loro famiglie vivono al di sotto della soglia della povertà
e completamente emarginate, e il lavoro dei bambini contribuisce a bilanciare le
entrate. Nei quartieri periferici di Khandwa, capitale del distretto, sono stati
identificati 1.500 bambini in questa penosa situazione. Per far fronte a ciò,
nel 2003, le suore della Congregazione Our Lady of the Garden hanno aperto tre
scuole-ponte dove ogni anno preparano 150 bambini e bambine di strada in vista
dei collegi ufficiali. Alcuni di questi centri si trovano nei paraggi di
stazioni ferroviarie e autobus, dove molti di questi bambini vagano in cerca di
elemosina sottoposti a tanti pericoli come la tratta, la prostituzione, lo
sfruttamento. I "centri" si trovano in baracche e in ognuno di queste
lavora una maestra con un'aiutante che ogni mattina va alla ricerca dei bambini
che non si sono presentati e si occupano di quelli più piccoli. Poco a poco
questi bambini, molti dei quali vittime delle mafie della droga, vengono
riabilitati e reinseriti nella vita scolastica e familiare. (AP)
Premio musulmano a un sacerdote cattolico
di Mathias Hariyadi
AsiaNews - Jakarta - 12 giugno 2010
P.
Vincentius Kirjito Pr ha speso la sua missione per il dialogo fra cristianesimo
e islam e per la salvaguardia dell'ecosistema del vulcano Merapi. Egli è stato
insignito del Maarif 2010, insieme a un musulmano attivo nel campo della
finanza. Il sacerdote sottolinea: "la fede si manifesta attraverso le
opere".
Il
suo impegno decennale per la pace, il dialogo interreligioso, la tutela
dell'ambiente e l'armonia fra le persone - al di là di ogni fede - gli sono
valsi un ambito premio, dedicato a un leader musulmano. Tuttavia, p. Vincentius
Kirjito Pr si schernisce affermando di "non aver mai pensato di poter
vincere il Maarif" e ringraziando, aggiunge: "la fede si manifesta
attraverso le opere, non solo a parole o con i discorsi". L'11 giugno
scorso a Jakarta, il 56enne sacerdote ha ricevuto il premio Maarif 2010 Ex aequo
con Habib Ali al-Habsy, musulmano attivo nel campo della finanza e del
micro-credito islamico.
P.
Vincentius Kirjito Pr è nato il 18
novembre 1953 nella reggenza di Kulon Progo, provincia di Yogyakarta, ed è
stato ordinato prete il 25 gennaio 1984. Egli ha iniziato come parroco in
un'area agricola e ha speso cinque anni per promuovere l'educazione di base su
temi ambientali e sulla cultura e l'ecosistema del monte Merapi, uno dei più
attivi e pericolosi vulcani di tutto lo Java Centrale.
Per
gran parte della società javanese, il monte Merapi gode di "buona e
cattiva fama" al tempo stesso. Alto 2698 m, il vulcano ha strappato
centinaia di vite e distrutto dozzine di centri abitati dell'area. Numerose le
eruzioni dalla portata devastante fra cui, nell'ultimo secolo, quelle del 1930,
1994, 1998, 2001 e 2003.
Tuttavia
il vulcano è anche fonte di leggende popolari e miti, ed è una delle località
turistiche più ambite della zona, oltre ad offrire un materiale assai prezioso:
la sabbia vulcanica. A lungo i locali hanno scavato le pendici usando metodi di
estrazione tradizionali. Nell'ultima decade le multinazionali hanno allungato i
tentacoli sull'area, alterando il fragile equilibrio con cave sempre più
grandi. Negli ultimi 12 anni la presenza di p. Kirjito Pr si è trasformata in
una "benedizione" per tutti gli abitanti della montagna, musulmani e
cristiani. Egli ha aiutato la popolazione a maturare l'idea di difesa dei propri
diritti e a promuovere un modello di sfruttamento sostenibile del territorio.
Attività che, unite alla promozione dell'evangelizzazione, del dialogo
interreligioso e della pace, gli sono valse il Premio Maarif, che porta il nome
dell'ex presidente del Muhammadiyah, seconda organizzazione musulmana
indonesiana.
L'attività
del prete cattolico ha riscosso apprezzamenti anche all'interno della comunità
islamica, tanto che alle celebrazioni per il 25mo
anniversario di sacerdozio - avvenuto nella diocesi di Semaramng nel 2009 -
hanno partecipato pure esponenti di altre fedi religiose. Nell'occasione sono
stati eseguiti canti e musiche della tradizione musulmana "rebana",
eseguite da Asyiqin Nasyid e dirette da Sodiq Asnawi.
"Se
devo essere sincero - ammette con candore p. Kirjito Pr ad AsiaNews - non avrei
mai pensato di ricevere il premio Maarif", ma "ringrazio tutti"
per il conferimento. Egli aggiunge che "essere un uomo di Chiesa nel
compito missionario nelle aree rurali" significa diventare "un
comunicatore efficace per tutti. La fede si manifesta attraverso le opere, non
solo a parole o con i discorsi".
Grazie
all'incontro con p. Kirjito Pr, Hermawan Kertajaya, esperto di finanza e
direttore di World Marketing Associations, ha trovato un nuovo modo per avviare
iniziative con la popolazione dell'area vulcanica. "Il sacerdote -
sottolinea Kertajaya - ha promosso in maniera eccellente la missione pastorale
come promotore di pace, tolleranza e compassione, a qualunque credo religioso si
appartenga".
Tehran sempre più isolata
di Marina Forti
Il
Manifesto - 10 giugno 2010
Si
allunga la lista di banche e persone colpite. Contrari Brasile e Turchia. Quarto
round di sanzioni all'Iran. Per Obama è «un messaggio inequivocabile»
Come
atteso, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite ha approvato ieri una
risoluzione che impone un nuovo pacchetto di sanzioni all'Iran: è il quarto dal
2006 , ma il primo da quando a Washington è insediata l'amministrazione di
Barack Obama.
E
il presidente degli Stati Uniti in persona ha voluto commentare quella
risoluzione, ieri, dichiarando che il Consiglio di sicurezza ha mandato «un
messaggio inequivocabile» all'Iran a proposito del suo programma nucleare. Noi,
ha detto Obama, «riconosciamo il diritto dell'Iran» a usare l'energia atomica
per fini pacifici, ma «questi diritti comportano delle responsabilità», tra
cui quella di «dimostrare la natura pacifica delle sue attività».
Immediate
le reazioni. Quella dell'Iran, in primo luogo. «La risoluzione è una mossa
sbagliata, ... non è stata un passo costruttivo per risolvere la questione
nucleare. Renderà la situazione ancora più complicata», ha dichiarato a
Tehran il portavoce del ministero degli esteri, Ramin Mehmanparast. Quella
risoluzione «finirà nella carta straccia come un fazzolettino usato», ha
detto il presidente Mahmoud Ahmadi Nejad, con la sua solita retorica fiorita.
L'Iran non fermerà le sue attività di arricchimento nucleare, ha aggiunto Ali
Ashgar Soltanieh, ambasciatore iraniano presso l'Agenzia internazionale per
l'energia atomica (Aiea): la risoluzione «non avrà nessun effetto». Ma un
effetto politico è prevedibile e sarà rafforzare a Tehran i contrari al
dialogo: ieri un deputato ha già annunciato che il parlamento «riesaminerà il
livello di cooperazione delll'Iran con l'Aiea».
Il
Consiglio di sicurezza ha approvato la sua risoluzione con i voti contrari di
Brasile e Turchia, oltre che con l'astensione del Libano. Anche questo era
atteso: Brasile e Turchia avevano negoziato il mese scorso un accordo con l'Iran
per uno scambio di combustibile atomico, riprendendo in parte una proposta
formulata dall'Aiea alla fine di ottobre scorso.
Per
Ankara e Brasilia, quell'accordo indicava una via negoziale e doveva escludere
per ora nuove sanzioni. Non così per gli Stati uniti e i loro alleati, ma anche
per la Russia: proprio ieri mattina, poche ore prima del voto al Consiglio di
sicurezza, i rappresentanti di Usa, Russia e Francia presso l'Aiea a Vienna
avevano consegnato una lettera al capo dell'Agenzia, Yukiya Amano, in cui
elencano le loro obiezioni all'accordo (la principale è che la quantità di
uranio arricchito al 3,5% coinvolta nello scambio, 1.200 tonnellate,
rappresentava il 70% del totale nell'ottobre scorso ma ormai solo la metà,
mentre l'Iran intanto ha cominciato ad arricchire uranio al 20%: il valore di «confidence
building» dello scambio così verrebbe meno).
Il
Brasile «non considera le sanzioni uno strumento efficace in questo caso», ha
insistito ieri l'ambasciatrice brasiliana all'Onu, Maria Luiza Ribeiro, mentre
il suo collega turco ha precisato: la Turchia vota contro per poter mantenere
aperto il dialogo con l'Iran.
Per
l'ambasciatore cinese all'Onu Li Baodong le sanzioni servono a «riportare
l'Iran al tavolo dei negoziati». Per il ministro degli esteri tedesco Guido
Westerwelle «l'obiettivo resta la diplomazia».
L'ambasciatore
russo all'Onu, Vitaly Churkin, ha detto che le sanzioni «sono state una misura
forzata, la cui applicazione richiede un approccio cauto e proporzionato».
Sempre la Russia sottolinea che la risoluzione esclude l'uso della forza
militare, come già le precedenti (vedi qui accanto). E' un punto delicato:
Obama ha auspicato che le sanzioni «siano applicate vigorosamente». Non solo:
le sanzioni Onu potrebbero essere seguite da sanzioni individuali di singoli
paesi: già oggi gli Stati uniti hanno rotto i rapporti con le maggiori banche
iraniane; lo stesso vale per l'industria petrolifera. e l'Unione europea
annuncia di voler seguire.
Il
nuovo pacchetto di sanzioni potrebbe innescare confronti pericolosi. Da un lato
allunga la lista di aziende, banche e persone sottoposte a congelamento dei beni
e bando di ogni transazione - entra in lista ad esempio Javad Rahiqi, scienziato
nucleare, capo del centro di ricerca atomica di Isfahan, e l'università Malek
Ashtar di Tehran, la cui ricerca è legata alle Guardie della rivoluzione. E'
sottoposta a embargo l'azienda iraniana di trasporto, Irisl. La risoluzione
inoltre chiede agli stati di procedere a ispezioni dei cargo da e per l'Iran, in
transito sul proprio territorio, porti o aeroporti, se hanno il «ragionevole
sospetto» che trasportino beni sottoposti a sanzioni. Il diritto di ispezionare
i cargo è una misura che ha alto potenziale di «incidente» - dipenderà
appunto se le sanzioni saranno applicate in modo «vigoroso» o «equilibrato».
Anche l'editoria missionaria contro la 'legge bavaglio'
Misna - 10 giugno 2010
"Cercare
informazioni è un lavoro difficile, ma significa cercare la verità, o almeno
tentare di avvicinarsi ad essa il più possibile. Questa la missione del
giornalista, questa la missione di ogni persona di buona volontà. Ma il disegno
di legge governativo sulle intercettazioni pone alla ricerca della verità
molte, troppe limitazioni che, impedendo di portare alla luce fatti e
circostanze, compromette alla radice il perseguimento di quel bene comune che è,
anche secondo il magistero sociale delle Chiese cristiane, il fine ultimo della
politica": è uno dei passaggi dell'appello messo a punto da realtà
informative del mondo missionario contro il disegno di legge contro le
intercettazioni che oggi ha ottenuto l'approvazione del Senato, in una votazione
caratterizzata dalla decisione del governo di mettere la fiducia per far passare
un provvedimento contestato in questi ultimi mesi dall'opposizione, ma anche da
associazioni di categoria (magistrati e giornalisti) e della società civile.
"Mai come in questi ultimi anni - prosegue l'appello dell'editoria
missionaria e religiosa che vede tra i suoi promotori l'agenzia Adista, il
mensile Missionari Saveriani, il mensile Cem Mondialità, Mosaico di Pace
promosso da Pax Christi - la dimensione etica del tessuto sociale e civile, nel
nostro Paese, è stata minacciata. La risposta non può essere un minore, bensì
un maggiore senso della verità. E quindi una maggiore tutela della libertà di
informazione. Oltre ai limiti posti alla magistratura e ai mass-media dal
disegno di legge in discussione, l'aggressione alla libertà di informazione
minaccia l'essenza stessa della democrazia. E l'essenza stessa del
cristianesimo, per cui "solo la verità rende veramente liberi" (Gv
8,32)". Nell'appello si evidenzia che "non possiamo sperare di
ricevere informazioni veritiere per sovrana concessione. Abbiamo il dovere di
cercarle e, una volta trovate, di verificarle, di soppesarle, di confrontarle e
di valutare se possano o meno avere una rilevanza pubblica. E quindi
pubblicarle".[MZ]
Appello
alle autorità sudafricane: giustizia e diritti a partire dai poveri
Clandestino.carta.org
- giugno 2010
Nel
Sudafrica dei Mondiali
Ecco
il testo di un appello inviato all'ambasciatrice sudafricana in Italia, primi
firmatari Alex Zanotelli e Carta, dopo il successo della campagna Mondiali al
contrario. Inviate la vostra adesione a carta@carta.org con oggetto
"Appello Sudafrica" e indicando nome e cognome, città, eventuale
qualifica professionale e o organizzazione di appartenenza. Il numero e i nomi
degli aderenti saranno riportati su carta.org. Un resoconto periodico
sull'andamento della raccolta di adesioni sarà trasmesso all'ambasciata del
Sudafrica a Roma. Importante: la campagna mira alla raccolta del massimo numero
possibile di adesioni nei primi giorni dei Mondiali, con termine entro domenica
20 giugno.
Appello
alle autorità sudafricane: giustizia e diritti a partire dai poveri nel
Sudafrica dei Mondiali
Sua
Eccellenza Ambasciatrice Thenjiwe Mtintso,
siamo
associazioni, movimenti di base, singoli cittadini. Tutti noi abbiamo a cuore la
storia del Sudafrica, la grande lotta del movimento di liberazione che in esso
si è sviluppato negli scorsi decenni e il destino delle popolazioni oppresse
che di quelle lotte sono state protagoniste. Riteniamo centrale nella
costruzione del nuovo Sudafrica la promozione dei diritti e del ruolo sociale e
politico dei poveri.
In
particolare, siamo oggi preoccupati per il trattamento subito dagli abitanti
delle baraccopoli e dai venditori di strada in occasione della Coppa del mondo.
Gli abitanti delle baraccopoli vengono forzatamente sfrattati e fatti vivere in
"transit camps", mentre ai venditori di strada è stato proibito di
vendere la propria merce durante tutta la durata della Coppa del mondo. Ai
poveri non è stato concesso di partecipare alla costruzione di un percorso
comune che portasse verso la Coppa del mondo. Al contrario la Coppa del mondo è
divenuta l'occasione per ristrutturare le città secondo criteri che favoriscono
solo le élite. I poveri vengono spinti fuori, lontani dagli occhi dei turisti e
dei giornalisti. Peraltro, le misure di sicurezza adottate in occasione dei
Mondiali limitano fortemente il diritto dei cittadini a esprimere
democraticamente il dissenso rispetto a questo stato di cose.
Il
movimento di base Abahlali baseMjondolo, costruendo ogni giorno una democrazia
reale, diretta e partecipata, sta cercando da anni di opporsi a tutto questo e
lotta per il riscatto dei più poveri, per il diritto alla terra, alla casa, ai
servizi di base e a un'esistenza dignitosa. Noi condividiamo le lotte di questo
straordinario movimento e siamo al suo fianco.
Il
movimento è stato oggetto di azioni di repressione e di attacchi violenti, il
più grave dei quali si è verificato nel settembre 2009 nell'insediamento
informale di Kennedy Road a Durban per opera di decine di persone armate, ed ha
causato alcuni morti, la distruzione di case e beni dei membri di Abahlali e la
fuga di molti di loro per sottrarsi alle violenze. Ciò nonostante, sono state
arrestate 13 persone tra quelle che avevano subito l'attacco. Abahlali
baseMjondolo e molti osservatori tra cui leader religiosi, associazioni, ONG,
accademici e semplici cittadini denunciano il ruolo ambiguo svolto dalla polizia
locale e dai dirigenti locali dell'African National Congress (ANC). Questi
ultimi hanno dichiarato alla stampa che l'insediamento di Kennedy Road era stato
"liberato" dalla presenza di Abahlali baseMjondolo.
Il
31 maggio una delegazione di Abahlali che era in Italia nel corso della campagna
"Mondiali al contrario" è stata ricevuta all'ambasciata sudafricana a
Roma. Durante l'incontro è stato chiesto che la Sua ambasciata si facesse
portavoce delle richieste del movimento presso il governo sudafricano. Ci uniamo
anche noi alle richieste di Abahlali baseMjondolo e per Suo tramite chiediamo
alle Autorità sudafricane:
-
che il Presidente Jacob Zuma risponda al Memorandum presentato da Abahlali
baseMjondolo il 22 marzo 2010;
-
che i "transit camps" vengano aboliti e che i poveri possano avere
pieno diritto a vivere nelle città;
-
che sia istituita una commissione credibile e indipendente per indagare sui
fatti avvenuti a Kennedy Road nel settembre 2009;
-
che vengano immediatamente rilasciati Khaliphile Jali, Stutu Koyi, Zandisile
Ngutshana, Siyabulela Mambi e Samukeliso Mkhokhelwa, le 5 persone ancora
detenute ingiustamente a Westville a seguito dell'attacco a Kennedy Road e non
ancora informate, dopo 9 mesi, sulle motivazioni della loro incarcerazione;
-
che le Autorità sudafricane nazionali e locali si impegnino a garantire il
pluralismo politico, il diritto di associazione e di espressione del dissenso in
tutti gli insediamenti informali così come nelle città interessate dalle
manifestazioni sportive della Coppa del mondo.
Certi
che vorrà dare alla nostra comunicazione il peso che merita, Le porgiamo
distinti saluti.
Primi
firmatari:
Alex
Zanotelli, missionario comboniano, Napoli
Filippo
Mondini, missionario comboniano, Castel Volturno
Antonio
Bonato, missionario comboniano, Castel Volturno
Pierluigi
Sullo, direttore di Carta, Roma
Gianluca
Carmosino, redazione di Carta, Roma
Michele
Citoni, giornalista e videomaker, Roma
Francesco
Gastaldon, ricercatore, Verona
Valentina
Iacoponi, ricercatrice, Roma
Fulvio
Tortora, volontario, Castel Volturno
La
firme raccolte sono su
http://www.carta.org/campagne/migranti/clandestino/19618
Consiglio
diritti umani: da Roma un "no" sul "pacchetto sicurezza"
Misna
- 9 giugno 2010
Nessuna
revisione del cosiddetto "pacchetto sicurezza", niente
depenalizzazione del "reato" di ingresso e soggiorno irregolare degli
immigrati "clandestini": così il governo italiano ha risposto al
Consiglio dei diritti umani dell'Onu che a Febbraio aveva indirizzato a Roma 92
raccomandazioni. Le risposte di Roma sono state comunicate dall'ambasciatore
italiano presso le Nazioni Unite, Laura Mirachian, durante l'ultima sessione di
esame periodico universale sui diritti umani in Italia tenutasi a Ginevra.
L'ambasciatore ha riferito della decisione di accogliere pienamente 78
raccomandazioni, due solo parzialmente e di respingerne altre 12. Il governo
italiano, pur avendo ratificato pochi giorni fa la Convenzione del Consiglio
d'Europa sulla lotta alla tratta degli esseri umani, si è rifiutato di
introdurre una definizione esplicita di tortura nel proprio codice penale così
come raccomandato dal Consiglio dei diritti umani. L'immigrazione, il rispetto
dei diritti dei migranti e la loro integrazione in Italia sono da mesi al centro
dell'attenzione del Consiglio, in particolare dopo i respingimenti nel
Mediterraneo di barconi di migranti provenienti dall'Africa, con a bordo
potenziali richiedenti asilo diretti nell'isola siciliana di Lampedusa.
Intervenute nel dibattito di Ginevra, diverse organizzazioni non governative
hanno nuovamente additato una pratica che viola il diritto alla richiesta di
asilo e accordi internazionali già firmati. Hanno anche espresso preoccupazione
di fronte al fenomeno crescente della xenofobia e del razzismo che presentano i
migranti, in particolare Rom e musulmani, come "criminali e
terroristi", si legge nel resoconto ufficiale della sessione. Le
organizzazioni hanno anche chiesto un maggior impegno nella lotta alla
discriminazione nei confronti dei migranti per garantire loro uguale accesso al
lavoro, all'istruzione e alla salute. Altre fronte critico per l'Italia è
quello della libertà di stampa e di informazione: anche se Roma ha accettato la
raccomandazione sull'indipendenza e la pluralità dei media, diverse
organizzazioni intervenute a Ginevra, come 'Reporter senza frontiere' (Rsf),
hanno criticato il progetto di legge sulle intercettazioni che
"bloccherebbe la possibilità per i giornalisti di informare l'opinione
pubblica sulle indagini in corso" e ricordato il perdurare del conflitto
d'interesse.[VV]
Obiettivi
del Millennio, si deve fare di più
Misna
- 9 giugno 2010
Per
lottare contro la povertà e difendere i diritti umani nel mondo bisogna
invertire la tendenza degli ultimi anni, onorando gli impegni internazionali e
rafforzando la cooperazione allo sviluppo: è il messaggio rilanciato oggi, a
Roma, durante un incontro promosso dalla "Campagna del millennio"
dell'Onu. "I paesi donatori - ha detto Sergio Marelli, portavoce della
'Coalizione italiana contro la povertà' - devono rispettare l'impegno di
devolvere alla cooperazione almeno lo 0,7% del Prodotto interno lordo e, per
altro, migliorare la qualità degli interventi". L'incontro si è tenuto
alla Camera dei deputati a poco più di una settimana da una riunione del
Consiglio europeo che, il 18 Giugno, definirà la posizione dell'UE rispetto al
raggiungimento entro il 2015 degli "Obiettivi del millennio" fissati
10 anni fa. I negoziati europei costituiscono una tappa importante in vista
dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite in programma a New York in
Settembre. In un quadro difficile, aggravato dalla crisi economica
internazionale, la posizione di Roma non sembra brillare. Secondo la
"Coalizione italiana contro la povertà", la percentuale del Pil
destinata agli aiuti allo sviluppo si è ridotta tra il 2008 e il 2009 dallo
0,22 allo 0,16. Una dinamica preoccupante anche secondo Flavio Lotti,
coordinatore della "Tavola della pace". "Nei prossimi giorni - ha
detto Lotti - il parlamento rischia di approvare una manovra finanziaria che
prevede una spesa militare compresa tra i 20 e i 25 miliardi di euro".
Risorse sottratte alla lotta contro la povertà, suggeriscono le istituzioni, le
associazioni e le realtà giornalistiche che hanno promosso l'incontro, tra le
quali anche la MISNA.[VG]
Tortura,
no dell'Italia all'Onu per definizione nel codice penale
Repubblica
- New York - 9 giugno 2010
Le
raccomandazioni formulate dal Consiglio per i diritti umani accolte parzialmente
da Roma. Fra i temi oggetto di preoccupazione, l'indipendenza della magistratura
e il "razzismo tra i politici"
L'Italia non ha accettato di introdurre una definizione esplicita di
"tortura" nel Codice penale così come raccomandato dal Consiglio
diritti umani dell'Onu che a febbraio ha esaminato la situazione italiana
formulando una serie di raccomandazioni (Roma ne ha accettate 80 respingendone
12). Lo ha riferito l'ambasciatore d'Italia presso le Nazioni Unite Laura
Mirachian presentando stamani a Ginevra le risposte dell'Italia al Consiglio
Onu. L'Italia si è invece detta determinata a ratificare il protocollo
facoltativo relativo alla Convenzione contro la tortura "quando si sarà
dotata di un meccanismo nazionale di prevenzione indipendente".
Tra
gli altri temi oggetto di preoccupazione da parte dell'organismo Onu per quanto
riguarda il nostro Paese, l'efficienza e l'indipendenza della magistratura; le
dichiarazioni e atteggiamenti "xenofobi e intolleranti" da parte di
alcuni politici; la discriminazione razziale, particolarmente ai danni dei
nomadi; la politica dei respingimenti dei migranti; il sovraffollamento delle
prigioni; la rappresentanza femminile in Parlamento e nei posti decisionali e,
non ultima, l'indipendenza dei media.
Continuano le violenze fra kirghizi e uzbeki: 49 morti e centinaia di feriti
AsiaNews - Bishkek - 12 giugno 2010
Gruppi
di giovani di etnia kirghiza raggiungono la città di Osh, roccaforte dell'ex
presidente Bakiyev, armati di pistole, spranghe e bastoni, e si scontrano con
gli etnici uzbeki e la polizia. Incendiate auto e abitazioni. Migliaia di
persone in fuga verso il confine con l'Uzbekistan. Il governo chiede alla Russia
l'invio di truppe per fermare gli scontri.
Sale
a 49 morti e 650 feriti il bilancio degli scontri etnici trapopolazione
kirghiza, polizia e minoranza uzbeka iniziati ieri a Osh nel sud del
Kirghizistan. Secondo fonti della polizia ad aumentare le violenze sono i gruppi
di giovani di etnia kirghiza che in queste ore hanno raggiunto la città da
altre parti del Paese armati di pistole, spranghe e bastoni. Essi hanno
incendiato auto e abitazioni e ingaggiato scontri con le forze dell'ordine e la
popolazione di etnia uzbeka. Oggi il governo ad interim ha chiesto alla Russia
l'invio di truppe per poter porre fine agli scontri.
Le
cause delle violenze sono ancora sconosciute. Osh è la seconda città del Paese
e ospita una numerosa comunità uzbeka che da sempre sostiene l'ex presidente
Kurmanbek Bakiyev deposto lo scorso 15 aprile.
"La
situazione nella regione di Osh è ormai fuori controllo - afferma la presidente
Roza Otunbayeva- tutti i tentativi di dialogo sono falliti e scontri e violenze
continuano ad aumentare". "Abbiamo bisogno - continua - del supporto
di forze esterne per poter fermare gli scontri". Da ieri l'esercito
presidia la città, dove resta lo stato di emergenza. Intanto migliaia di
persone stanno fuggendo in queste ore verso il confine con l'Uzbekistan.
La
rivolta è la peggiore dopo le violenze che nell'aprile scorso hanno determinato
la cacciata dell'ex presidente.
L'esodo
della forza lavoro dal Kirghizistan
AsiaNews - Bishkek - 9 giugno 2010
Sono
circa 800mila i lavoratori migranti, quasi il 14% della popolazione. I figli
restano affidati ai nonni, con poco denaro e senza vedere i genitori anche per
anni. Per molti giovani la speranza di una vita migliore è lasciare per sempre
il Paese e diventare cittadini russi.
Sono
circa 800mila, quasi il 14% su una popolazione di 5,3 milioni, i giovani
kirghisi che migrano all'estero per trovare lavoro, specie in Russia e
Kazakistan. Il massiccio esodo sta creando un'intera generazione di bambini
affidati ai nonni, che vede raramente i genitori. E rischia di innescare un vero
crollo demografico.
Un
rapporto del 2009 dell'Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in
Europa (Ocse) indica che sono numerosi i "villaggi abitati solo da vecchi e
bambini".
Il
Kirghizistan è tra i Paesi più poveri dell'Asia Centrale, privo di energia e
di minerali. La crisi finanziaria globale ha molto colpito l'economia e
aumentata la povertà. Dopo il colpo di Stato di marzo che ha fatto cadere il
presidente Kurmanbek Bakiyev, ora molti temono un'ulteriore peggioramento
dell'economia. Tutti gli esperti prevedono una contrazione dell'economia nel 2°
trimestre 2010, conseguenza dell'attuale instabilità politica.
Nel
villaggio di Ak-Kiya, tra i monti della provincia Naryn, l'inverno regna per
oltre metà anno. Shirin Kerimbekova, nonna di 51 anni, cresce i due nipoti,
mentre il figlio lavora in Russia. Ella spiega all'agenzia Eurasianet che senza
i soldi inviati dal figlio, ma in modo irregolare, non potrebbero nemmeno
comprare il carbone per riscaldarsi e cucinare. "Qualche volta - racconta -
non c'è cibo a sufficienza. A volte [i bambini] vogliono caramelle, e qualche
volta non abbiamo lo zucchero. Viviamo con la mia pensione di 1.500 som al mese
[circa 29 euro]. Il mio figlio minore qualche giorno fa ha dovuto fare il
passaporto, ho pagato 500 som".
Secondo
uno studio della ong Help Age International, circa il 38% dei migranti manda
denaro ai genitori. Sono soprattutto quelli che hanno lasciato i figli affidati
ai nonni. I nonni, con le loro misere pensioni, spesso non hanno abbastanza
denaro per sostenere anche i nipoti, e preferiscono impiegarli in lavoretti
utili anche a detrimento dell'istruzione. "Per esempio - dice Mukanbet
Ismakeev, insegnante di 63 anni di Ak-Kiya che, a propria volta, tiene con sé 5
nipoti - se la famiglia non ha abbastanza carbone, i bambini saltano la scuola e
vanno a cercare legna da ardere".
Il
problema è che con il passare degli anni la situazione economica del Paese è
peggiorata, anziché migliorare, le opportunità di lavoro sono diminuite, e i
migranti devono restare all'estero per lavorare. Il risultato è che molti
bambini crescono senza quasi mai vedere i genitori. Esperti osservano che molti
migranti preferiscono diventare cittadini russi e far venire con loro i figli.
Il Kirghizistan si impoverisce per popolazione e forza lavoro e le famiglie si
dividono.
Darika
Mambetova vive in un appartamento di due stanze con i 3 nipoti adolescenti, il
figlio e la nuora sono in Russia per lavoro e non tornano da due anni. Un'altra
sua figlia vive in Kazakistan. Dice che il figlio nemmeno può mandarle denaro
con regolarità, perché "stanno risparmiando denaro per diventare
cittadini russi". Così potranno fare venire i figli con loro. Mentre lei,
con probabilità, resterà nel suo villaggio.
Laura Boldrini: "La Libia ci manda via"
di Giulia Cerqueti
Famiglia
Cristiana - 9 giugno 2010
La
portavoce dell'Alto commissariato dell'Onu per i rifugiati spiega la decisione
delle autorità di Tripoli di chiudere il loro ufficio nel Paese nordafricano.
Cacciato
da Tripoli perché, secondo le autorità libiche, svolge sul territorio
"attività illecite". Così, l'Alto commissariato dell'Onu per i
rifugiati ha dovuto chiudere i battenti del suo ufficio nella capitale della
Libia, interrompendo le attività umanitarie che svolgeva da anni nel Paese
nordafricano, fulcro dei flussi migratori tra Africa ed Europa. Una notizia che
ha sconvolto, oltre all'Unhcr, anche i Paesi europei, preoccupati per le
conseguenze di una decisione del genere sulla politica internazionale in materia
di immigrazione. A spiegare la situazione è Laura Boldrini, portavoce
dell'ufficio italiano dell'Unhcr, che segue in questi giorni con grande
preoccupazione la vicenda.
-Laura
Bodrini, la Libia parla di attività illegali dell'Unhcr. Come si spiega tutto
questo?
"L'Alto
commissariato per i rifugiati ha cominciato a operare nel Paese nordafricano 19
anni fa, su richiesta delle autorità libiche stesse: in quel momento c'era
bisogno di un'assistenza. E da allora l'agenzia Onu che si occupa di rifugiati e
richiedenti asilo ha sempre continuato a svolgere normalmente le sue attività
nel Paese, senza un riconoscimento formale da parte della Libia. Fino
al giorno in cui ci hanno mandati via. I libici dicono che avevano già fatto
presente l'irregolarità della nostra presenza al coordinatore delle Nazioni
unite, perché noi operiamo sotto l'egida dell'Undp (Programma dell'Onu per lo
sviluppo). La Libia non ha firmato la Convenzione di Ginevra sui rifugiati, non
ha una legislazione in materia di asilo. Ma nel Paese sono presenti tanti
richiedenti asilo e rifugiati".
-Quale
scenario si prospetta nel Paese nordafricano?
"Noi,
come agenzia Onu, siamo gli unici che sono riusciti a fornire una forma di
assistenza e di protezione a rifugiati e richiedenti asilo in Libia. Se adesso
noi non siamo più presenti, si crea una situazione di vuoto: i rifugiati non
possono evidentemente tornare nei loro Paesi, ma neppure andare avanti, perché
l'Italia con la politica dei respingimenti adesso rimanda tutti indietro. Così,
i rifugiati si ritrovano come in trappola, in una sorta di limbo. Noi dell'Unhcr
ci occupavano di registrare la gente che arrivava in Libia, nei nostri uffici di
Tripoli, dove c'erano sempre code lunghissime, e provvedevamo alla procedura di
asilo. Adesso le persone che vengono respinte non possono neppure essere
rintracciate. Se già prima i respingimenti erano critici, ora la situazione
peggiorerà ulteriormente".
-La
Libia non vuole affrontare in qualche modo il problema di tutta questa gente?
"Le
autorità libiche sostengono che non si tratta di rifugiati ma di migranti
economici. Con questa premessa è difficile discutere e trovare un punto di
accordo. Ma noi ci auguriamo che si tratti di una fase transitoria, di una
situazione di passaggio che serva a fare chiarezza e ad arrivare a una
soluzione".
-Pensate
di avere un margine di trattativa con le autorità di Tripoli?
"Siamo
in una fase delicata. Ci auguriamo di sbloccare quanto prima la situazione
nell'ottica della riapertura del nostro ufficio. Le alternative diplomatiche che
possiamo mettere in campo sono diverse: dallo scambio di lettere a un accordo di
collaborazione. Speriamo che l'Unione europea e alcuni Stati membri in
particolare, fra cui l'Italia, svolgano un ruolo importante per risolvere la
situazione e convincere la Libia a firmare la Convenzione di Ginevra".
Come cambia il mio Marocco, senza il velo e l'estremismo islamico
di Souad
Sbai
ilsussidiario.net
- 3 giugno 2010
Solo
qualche giorno addietro è morto a Casablanca Abed Al-Jabri, filosofo marocchino
considerato in tutto il mondo arabo l'Averroè dei nostri giorni e criticato
dagli estremisti per il suo approccio riformista teso a divellere ciò che Tareq
Heggy, intellettuale egiziano, ha definito nel suo ultimo libro "le
prigioni della mente araba".
Tra
le pubblicazioni più note di Al-Jabri figura "Critica della ragione
araba", monumentale opera in quattro volumi che presenta i fondamenti di un
razionalismo, tradotta con il titolo "La ragione araba" in francese,
in inglese e in italiano. Il mondo arabo ha perso dunque un grande
intellettuale.
In Occidente invece si è ancora fermi al dibattito sulla liceità di indossare il velo integrale.
Mentre
ancora alcuni esponenti politici di una certa sinistra, che di
fatto appoggiano un pensiero estremista, si accaniscono a posizionarlo entro la
cornice degli obblighi legati al credo religioso musulmano, non solo la stampa
marocchina - Al Ahdath al Maghrebiya, nello specifico - ha pubblicato un
articolo dall'eloquente titolo "È tempo di abolire il niqab", ma
addirittura personaggi estremisti hanno chiaramente detto che il niqab non ha
nulla a che vedere con la cultura arabo-musulmana.
Nel
panorama dei Paesi musulmani, il Marocco manifesta oggi una grande energia
riformatrice che non riguarda solo le questioni legate a esigenze di revisione e
di riforme di istituti sociali ormai desueti, ma il riassetto di una
geomorfologia sociale ed economica che è tesa a creare le basi solide di uno
Stato moderno.
In
questo solco si situano le riforme in atto nello stato marocchino, avviate sotto
le spinte delle organizzazioni non governative, delle associazioni e della
società civile e che hanno avuto il loro primo traguardo con la riforma del
codice di famiglia, la Moudawana. Era il 2003 quando il Marocco, secondo paese
del mondo arabo, dopo la Tunisia, ha adottato misure in favore delle donne.
Grazie
all'iniziativa di un potente movimento popolare, con l'appoggio del re Mohammed
VI, le donne hanno ottenuto maggiore eguaglianza, in particolare il diritto di
sposarsi senza l'approvazione di un tutore - contrariamente a quanto oggi accade
in altri Paesi arabi dove le donne sono considerate minorenni a vita - e quello
di prendere l'iniziativa, in un procedimento di divorzio, su basi più
egualitarie. Il nuovo codice di famiglia, inoltre, per la prima volta fa
riferimento alle Convenzioni Internazionali sui diritti dei Minori che il
Marocco ha ratificato contribuendo a percorsi di maggiore tutela e responsabilità
nei confronti dei figli.
Il
ruolo e il peso delle donne va via via crescendo: prova ne è il numero di
candidate femminili che si sono presentate alle ultime elezioni amministrative
marocchine. Molte sono diventate sindaco: a Marrakech è arrivata al vertice
dell'amministrazione Fatima Al Mansouri che ha stracciato l'esponente - uomo -
di un partito di stampo islamico.
E
che dire ancora della crescita esponenziale di donne che lavorano nel
giornalismo cartaceo e audiovisuale, nell'imprenditoria, e che mano a mano
conquistano posizioni e professionalità una volta impensabili? Il ruolo della
società civile e dell'associazionismo che si batte per allargare la sfera dei
diritti civili e individuali in Marocco è stato fondamentale per il processo di
ammodernamento del Paese.
Possiamo
dunque affermare senza ombra di dubbio che il sistema-paese Marocco cresce
velocemente: come ha ricordato l'ambasciatore italiano a Rabat, Umberto Lucchesi
Palli, in un'intervista
rilasciata alla rivista "Diplomazia economica Italiana": Mohammed VI,
attuale sovrano,ha operato riforme profonde ed incisive in tutti i campi, dal
potenziamento delle infrastrutture all'incoraggiamento delle riforme economiche
ispirate a una crescente liberalizzazione dei vari settori; dai massicci
investimenti nelle energie rinnovabili (il Marocco si situa oggi al settimo
posto nel mondo con 9 miliardi di dollari investiti) all'accentuata
internazionalizzazione economica e commerciale del Regno.
In
questa linea si inserisce il partenariato privilegiato con l'Unione
Europeatramite la firma dello Statuto Avanzato volto all'approfondimento della
cooperazione in vari settori tra cui è importante menzionare il nuovo accordo
per la liberalizzazione degli scambi per tutti gli ortofrutticoli, in vista
dell'apertura della zona di zona libero scambio con l'Unione Europea prevista
per il 2012.
L'Alto
Commissariato per la Pianificazione, che ha presentato i principali indicatori
economici osservati nel quarto trimestre 2009 e quelli stimati e previsti per il
primo e il secondo trimestre 2010, ha reso poi noto che, nel primo trimestre del
2010, il Pil del Marocco è cresciuto del 4,6% su base annua. Grande rilievo
hanno poi i progetti per la creazione di un grande hub marittimo mediterraneo
nella località di Tangeri.
Tuttavia
i progressi che sta compiendo il Marocco non corrispondono agli atteggiamenti di
una parte della comunità dei suoi cittadini all'estero, che restano spesso
vittime di un'arretratezza culturale che ostacola il processo di sana
integrazione nei Paesi di immigrazione. In Italia, quasi l'80% viene dal mondo
rurale, mentre Paesi come il Canada hanno raccolto il fior fiore dei cervelli
emigrati.
Come
dunque sanare questa discrasia? È necessario lavorare sull'integrazione e sulla
seconda generazione per sollevarla dall'ignoranza e affrancarla dal pericolo
delle derive (religiose) identitarie di stampo radicale che si annidano in seno
alle comunità di origine.
Abbandonare
gli immigrati alla ricerca di un'identità affannosamente cercata significa
spalancare le porte del radicalismo che millanta, offrendola a buon mercato,
un'identità fallace, distorta, piegata a determinate logiche politiche e a un
certo estremismo.
Non
possiamo permetterci di dare spazio a tali derive: bisogna impegnarsi nei fatti,
con onestà, attraverso un reale onere finanziario tradotto in politiche di
integrazione di breve, medio e lungo termine, a rendere questi immigrati
italiani, a farli sentire a casa propria. Per non ripetere gli errori del resto
d'Europa, con i danni sociali che ne sono conseguiti.
Se
il Regno del Marocco ha ormia imboccato con decisione la strada del riformismo e
della modernità, i marocchini all'estero non possono, non devono compiere il
processo inverso.
Si può e si deve spezzare il circolo vizioso
di Fulvio Scaglione
Avvenire
8 giugno 2010
Per
l'ennesima volta, il confronto tra Israele e i palestinesi e in generale il
mondo arabo e islamico conferma la sua tradizionale schizofrenia. Stavamo appena
apprezzando il piccolo risveglio economico della Cisgiordania quando è tornato
a infiammarsi il fronte di Gaza. La provocazione della flottiglia pacifista (o
pseudo tale) e l'assurda strage israeliana, comunque precedute dal lancio di
centinaia di razzi dalla Striscia e da ripetute incursioni aeree israeliane. Poi
l'arrivo dell'altra nave, l'irlandese 'Rachel Corrie', la sparatoria tra una
motovedetta israeliana e un barchino di uomini-rana palestinesi (quattro morti
tra i sub), altri razzi, altre bombe. E ora la minaccia degli sciiti iraniani di
inviare un convoglio a forzare il blocco alla Striscia-polveriera governata da
Hamas. Una mossa destinata, già solo col suo annuncio, a far scoppiare chissà
quali scintille (non solo con Israele). A voler essere sinceri, questo non è il
bilancio di una pace in crisi ma il diario di una guerra a bassa intensità. E a
voler essere concreti, come tale andrebbe trattata la presente situazione.
Pesano,
è ovvio, le diffidenze e i rancori ereditati dal passato. Oggi, però, il vero
ostacolo a un miglioramento della situazione è la mancanza di coraggio politico
e il riflesso ormai quasi pavloviano nel negare una realtà sempre più
evidente. Per esempio: chi assedia chi, in Medio Oriente? Israele blocca la
Striscia di Gaza dal 2007 (e con scarsi risultati: Hamas non è stato cacciato,
il caporale Shalit è sempre prigioniero, armi e missili entrano comunque nella
Striscia), ma si sente assediato dalla generale ostilità degli altri Paesi
della regione. Questi, a loro volta, sono frenati e controllati dalla presenza
militare americana, dal peso politico della Casa Bianca, dagli aiuti erogati
dagli Usa, oltre che dalla discontinua ma non inutile pressione diplomatica di
Onu, Europa e Russia. E poi, chi fa paura a chi? Hamas pratica il terrorismo,
Israele lancia operazioni come Piombo Fuso e in generale dirige le sorti
economiche dei palestinesi. Hezbollah attacca ma Israele, quando risponde, rade
al suolo le infrastrutture dell'intero Libano. L'Iran minaccia di usare la bomba
atomica che non ha, Israele tace su quella che ha. E così via.
È
uno stallo che può preludere solo a ulteriori picchiate. Un cane che
eternamente si morde la coda, latrando comprensibili e intanto inutili
giustificazioni. Un circolo vizioso che può essere spezzato solo da due
elementi: analisi più profonde e oneste, come quella appena proposta
nell'Instrumentum
Laboris
per il Sinodo straordinario sul Medio Oriente, che tengano conto anche delle
ragioni economiche e politiche; e da un energico intervento politico esterno.
Gli
Usa devono premere perché Israele, massima potenza economica e militare della
regione, cominci a sentirsi parte integrante del Medio Oriente (come del resto
è nelle sue radici storiche e culturali), quindi partecipe dei suoi problemi e
delle sue potenzialità, e non solo un fortino della civiltà occidentale
adagiato come per sbaglio nel deserto. L'Europa e la Russia (oltre che gli Usa,
indispensabili da queste parti) devono pretendere che gli Stati arabi
disconoscano e smettano di sostenere chi pratica il terrorismo e ancora predica
la distruzione dello Stato ebraico e aprano le loro frontiere al commercio con
Israele. Tutto il resto, carri armati di ultima generazione e kamikaze sempre più
giovani, servirà solo a prolungare lo stallo politico, a garantire ulteriori
sofferenze e a incrementare le fuga di minoranze come quella cristiana che sono
sempre state, invece, il sale di quella terra, oltre che un lievito di
solidarietà sopra le parti in conflitto. Oltre ad accrescere la solitudine di
due popoli, l'israeliano e il palestinese, che a titolo diverso hanno invece
tantissimo da dare.
Intervista
alla segretaria generale di Caritas Gerusalemme
www.agenziasir.it
- 10 Giugno 2010
Gaza
- Una grande prigione
Bibite,
marmellate, insalate, succhi di frutta e dolci, dopo tre anni, potranno entrare
a Gaza. Sembrerebbe allentarsi la morsa israeliana sull'enclave palestinese che
dura ormai dal 2006 e resa ancora più rigida nell'anno successivo, quando Hamas
prese il controllo della Striscia, dopo aver espulso le forze di Fatah fedeli al
presidente dell'Anp, Abu Mazen. Da allora a Gaza fu vietata l'importazione, per
motivi di sicurezza, di apparecchi elettrici, materiale da costruzione ma anche
di diversi alimenti e oggetti d'uso quotidiano. La possibile concessione di
Israele, frutto anche delle pressioni internazionali, nonostante sul blocco pesa
ancora il caso Shalit (il soldato israeliano nelle mani di Hamas dall'estate
2006, ndr), ha suggerito un certo ottimismo per le sorti della pace in Medio
Oriente, nell'incontro del 9 giugno a Washington, tra il presidente Usa, Barack
Obama, e il leader palestinese Abu Mazen, al quale, peraltro, è stato garantito
un pacchetto di aiuti per 400 milioni di dollari. La situazione a Gaza, ha detto
Obama, "è insostenibile". Chi sin dall'inizio del blocco si sta
impegnando a Gaza per lenire le sofferenze della popolazione, in particolare con
progetti nel campo sanitario, è la Caritas Gerusalemme. Il SIR ha intervistato
la segretaria generale, Claudette Habesch.
-L'assalto
israeliano alla flottiglia delle Ong ha riproposto Gaza all'attenzione del
mondo. Ma di questi giorni è anche la notizia di un allentamento del blocco da
parte d'Israele. Che ne pensa?
"Il
blocco di Gaza non si addice ad un mondo civilizzato. Come si può accettare, a
livello internazionale, questo blocco che dura da più di tre anni? È possibile
accettare che un milione e mezzo di palestinesi soffrano per questo, costretti
in una prigione, la più grande del mondo, lasciando che Israele operi al di
sopra della legge? Bisogna immediatamente rimuovere il blocco, liberare il
popolo di Gaza e dargli la possibilità di vivere, lavorare, guadagnarsi la vita
con dignità. È una questione di rispetto dei diritti umani come sancisce la
Convenzione di Ginevra, ratificata anche da Israele. Il popolo palestinese
soffre l'occupazione già da 43 anni, la più lunga del mondo moderno".
-Ma
come conciliare le esigenze di sicurezza di Israele con quelle umanitarie di
Gaza?
"Chi
ha creato Hamas e perché Hamas è arrivato a queste posizioni? La sicurezza di
Israele non si raggiunge con il blocco di Gaza, chiudendo le frontiere o
mettendo check point. La sicurezza si raggiunge con la giustizia e la
riconciliazione. Bisogna accettare, pertanto, che il popolo palestinese veda
riconosciuti i propri diritti sanciti dalle leggi internazionali e dalle
risoluzioni Onu. Quando si parla di sicurezza bisogna riferirsi a quella dei due
popoli. Serve mettere in pratica quanto a livello internazionale è stato deciso
per dirimere i problemi sul tappeto. Non possono esserci due pesi e due misure.
La comunità internazionale si mobiliti per un cambiamento concreto, positivo
per i due popoli. Non può esserci la vittoria di un solo popolo. Palestinesi e
israeliani o vinceranno insieme la pace o la perderanno insieme".
-Qual
è l'impegno di Caritas Gerusalemme per la Striscia di Gaza?
"La
Caritas di Gerusalemme è in prima linea nel fronteggiare l'emergenza umanitaria
in atto nella Striscia soprattutto nel campo sanitario. Abbiamo molti progetti
in corso, tra questi una clinica mobile e sei punti di pronto soccorso medico.
Oltre a ciò abbiamo allestito un consultorio psicologico per lavorare
soprattutto con le persone più traumatizzate come bambini e anziani. Sosteniamo
migliaia di famiglie in tutta la Striscia anche sul piano alimentare e igienico.
La scorsa settimana abbiamo concluso un progetto di educazione igienica e
sanitaria, con la consegna di prodotti ad hoc, a 4.500 famiglie. Ci sono molte
cose che mancano a Gaza e, per questo, inviamo camion con derrate alimentari
necessarie alla popolazione. Va detto, comunque, che a Gaza si trovano diversi
prodotti, sapone, cioccolata, che arrivano attraverso i tunnel. Purtroppo i
prezzi sono molto alti e quindi inaccessibili per molta parte della popolazione,
segnata dalla disoccupazione. I prodotti disponibili nella Striscia hanno un
prezzo molto più alto degli stessi che si vendono fuori di Gaza".
-Lei
chiede di dare ai palestinesi di Gaza la possibilità di guadagnarsi la vita
dignitosamente. Ma come favorire la ripresa del lavoro?
"In
questo campo c'è molto da fare. Il nostro lavoro qui è quello di dare speranza
a tutti, specie ai più giovani e a coloro che devono provvedere alla loro
famiglia. È urgente provvedere alla ricostruzione delle infrastrutture, delle
abitazioni, ma è difficile ottenere finanziamenti per rispondere a questi
bisogni. Cerchiamo quindi di aiutare a trovare soldi per ricostruire la propria
casa. L'economia è bloccata, basti pensare alla pesca, praticata dagli abitanti
della Striscia. Le navi dei pescatori palestinesi vengono molto spesso bloccate
o perquisite dalla flotta israeliana che staziona al largo della costa con grave
danno all'economia locale. Mancano, poi, i materiali utili alla ricostruzione:
Israele non permette l'ingresso di vetro, legno ed altro per motivi di
sicurezza".
-C'è
ancora speranza per Gaza?
"Sì,
ma è riposta nell'azione della Comunità internazionale. Bisogna accompagnare
palestinesi e israeliani sul cammino di pace. Serve che il mondo intero prema
sulle parti per la giustizia e il diritto".
Amnesty
Int. rapporto 2010
Capo
di stato: senior generale Than Shwe
Capo
del governo: generale Thein Sein
Pena
di morte: abolizionista de facto
Popolazione:
50 milioni
Aspettativa
di vita: 61,2 anni
Mortalità
infantile sotto i 5 anni (m/f): 120/102‰
Alfabetizzazione
adulti: 89,9%
Quasi
2200 prigionieri politici sono rimasti dietro le sbarre. La maggior parte sono
stati tenuti in pessime condizioni e avevano problemi di salute ?sica e
psicologica. Le autorità hanno arrestato Daw Aung San Suu Kyi, segretaria
generale della Lega per la democrazia (Nld), il principale partito di
opposizione, e l'hanno condannata a ulteriori 18 mesi agli arresti domiciliari.
Sono andati intensi?candosi i combattimenti tra l'esercito e un gruppo armato di
minoranza etnica karen schierato, e il gruppo di opposizione armata Esercito di
liberazione nazionale Karen (Knla). Questi e altre gravi violazioni dei diritti
umani hanno portato migliaia di persone a cercare rifugio nella vicina
Thailandia. Le autorità hanno continuato a prendere di mira attivisti delle
minoranze etniche coinvolti in varie forme di resistenza contro politiche,
pratiche e progetti del governo.
Contesto
Ad
agosto, Daw Aung San Suu Kyi ha potuto incontrare un senatore statunitense e a
ottobre si è incontrata con il funzionario di collegamento con il governo, per
la prima volta dal gennaio 2008. A novembre, ha incontrato una missione
statunitense di alto livello.
Ad
aprile, in vista delle elezioni nazionali del 2010, le prime dal 1990, il
Consiglio di stato per la pace e lo sviluppo (Spdc, il governo militare) ha
proposto che i gruppi armati di minoranza etnica che avevano concordato il
cessate il fuoco con il governo diventassero forze di pattuglia delle frontiere,
sotto il comando dell'Spdc; ma i negoziati e i combattimenti con i suddetti
gruppi armati si sono susseguiti durante l'intero anno. Alla ?ne dell'anno
soltanto nove gruppi avevano accettato la proposta, la maggior parte aveva
citato quale motivazione del loro opposto ri?uto il timore di perdere territori
o il loro controllo.
Sono
proseguiti i soccorsi, il processo di riabilitazione e ricostruzione a seguito
del ciclone Nargis, abbattutosi su Myanmar nel 2008, mentre si sono veri?cate
gravi indisponibilità di cibo negli stati di Chin e Rakhine. Myanmar ha
iniziato la costruzione di un recinto al con?ne con il Bangladesh, che ha
accresciuto le tensioni tra i due paesi. La comunità internazionale ha
sollevato timori per la possibile intenzione del governo di Myanmar di aumentare
la sua capacità nucleare.
Sebbene
a febbraio e settembre il governo abbia rilasciato più di 13.000 prigionieri,
tra questi vi erano soltanto 158 riconosciuti come prigionieri politici,
compresi cinque prigionieri di coscienza, Ma Khin Khin Leh, U Saw Naing Naing, U
Soe Han, Ko Aung Tun e Khaing Kaung San. Queste persone si trovavano tutte
incarcerate da circa 10 anni. Almeno 50 persone sono state arrestate tra i
rilasci di settembre e la ?ne dell'anno mentre continuavano a esserci quasi 2200
prigionieri politici.
*A
gennaio, un tribunale ha condannato Bo Min Yu Ko (Phyo Gyi), membro della
Federazione generale studentesca birmana, a 104 anni di reclusione per vari capi
d'imputazione, compresi sei ai sensi della legge sull'immigrazione.
*A
maggio, dopo che un uomo non identi?cato di nazionalità statunitense era
entrato nella proprietà di Daw Aung San Suu Kyi, le autorità l'hanno arrestata
per violazione delle condizioni relative agli arresti domiciliari cui era
sottoposta dal 2003. Al termine di un processo celebratosi parzialmente a porte
chiuse presso il carcere di Yangon, Daw Aung San Suu Kyi è stata condannata a
tre anni di lavori forzati, immediatamente ridotti a 18 mesi di ulteriori
arresti domiciliari.
*A
settembre, le autorità hanno arrestato Kyaw Zaw Lwin (Nyi Nyi Aung), un uomo di
Myanmar con cittadinanza statunitense, al suo arrivo nel paese per far visita
alla famiglia, di cui quattro componenti sono prigionieri di coscienza. Mentre
era in custodia, agenti della sicurezza lo hanno torturato e gli hanno negato le
cure mediche. A ottobre, è stato processato per frode e contraffazione. Le
autorità hanno dichiarato pubblicamente che Kyaw Zaw Lwin, se giudicato
colpevole, avrebbe potuto essere condannato a morte.
Condizioni
carcerarie
Le
autorità hanno continuato a inviare e a trattenere i prigionieri politici in
carceri molto lontane dalle loro famiglie e dagli amici, nonostante avessero
dichiarato a marzo al Consiglio delle Nazioni Unite per i diritti umani che i
prigionieri ricevevano le visite e le necessarie cure mediche. Dal novembre 2008
erano almeno 220 i prigionieri politici spostati in carceri remote, rendendo
estremamente dif?cile per le famiglie fornire loro aiuti essenziali. Le
condizioni nelle prigioni hanno continuato a essere estremamente dif?cili, senza
suf?ciente cibo, acqua e cure mediche. Le autorità hanno frequentemente tenuto
i prigionieri politici in regime di isolamento.
*A
marzo, Hla Myo Naung, un attivista detenuto in un carcere a circa 1500 km da
casa, ha rischiato di perdere completamente l'uso della vista. Egli era già
rimasto cieco da un occhio dopo che gli erano state negate cure mediche
specialistiche.
*Agli
inizi di marzo, Ko Htay Kywe, un leader studentesco trattenuto a più di 1100 km
dalla sua famiglia, è stato detenuto in incommunicado e in isolamento. Le
autorità carcerarie hanno minacciato gli altri prigionieri di incorrere in
severe punizioni, nel caso in cui gli avessero rivolto la parola.
*Sempre
a marzo, Su Su Nway, un'attivista della Nld, è stata ricoverata nell'infermeria
della prigione, a oltre 1000 km da casa. Le autorità carcerarie le hanno
somministrato farmaci per la salute mentale che hanno provocato un peggioramento
delle sue condizioni. È stata tenuta in isolamento in maniera intermittente
quale punizione per vari reati e le sono state negate le visite dei familiari.
*A
maggio, Zarganar, un commediografo e attivista trattenuto a oltre 1400 km da
casa, necessitava di cure mediche urgenti per vari problemi di salute, compresa
una dilatazione cardiaca. Ad aprile, ha perso conoscenza ed è stato trasportato
in ospedale soltanto dopo 10 giorni. A seguito di una visita nel carcere di
Myitkyina il 7 dicembre, la cognata di Zarganar ha confermato che era affetto da
scabbia.
Minoranze
etniche nel mirino
Il
governo ha continuato a prendere di mira attivisti di minoranze etniche per il
loro lavoro su tematiche politiche, ambientali e/o religiose e per il loro reale
o presunto sostegno a gruppi politici etnici o armati.
*A
gennaio, le autorità hanno arrestato, percosso e incarcerato almeno 19 tra
uomini e donne rakhine, per possesso di documentazioni inerenti i diritti umani
e la democrazia e per aver dato vita a un'organizzazione politica. Essi sono
stati condannati a pene detentive dai cinque ai sette anni.
*A
gennaio, soldati hanno più volte percosso una donna shan, dopo averla accusata
di aver dato del riso ad alcuni insorti shan e aver fatto loro da guida.
*A
febbraio, la polizia ha arrestato due giovani locali kachin per aver navigato in
siti web su Myanmar messi al bando.
*A
marzo e agli inizi di aprile, le autorità hanno rafforzato la loro sorveglianza
sul gruppo per il cessate-il-fuoco Partito del nuovo stato di Mon (Nmsp),
nell'intero stato di Mon, interrogandoli a intervalli regolari sui loro contatti
con i mezzi d'informazione.
*A
giugno, le autorità dello stato di Rakhine hanno arrestato Soe Soe con l'accusa
di aver contattato gruppi di opposizione in esilio e l'hanno condannata a sei
anni di carcere.
Nello
stato di Rakhine, è proseguita inesorabilmente la persecuzione sistematica
della minoranza rohingyas, determinando la fuga di migliaia di suoi appartenenti
in Bangladesh, Thailandia o Malaysia, spesso su imbarcazioni. A gennaio, la
marina militare di Myanmar ha intercettato una di queste imbarcazioni che aveva
da poco lasciato Myanmar e ha trattenuto i 78 rohingyas a bordo per sei giorni,
picchiandoli duramente, prima di rimandarli indietro via mare. Ad aprile, nel
corso di una serie di incontri nel contesto del processo di Bali, il governo si
è pubblicamente ri?utato di riconoscere i rohingyas sia in quanto minoranza
etnica a tutti gli effetti sia in quanto cittadini di Myanmar.
Arresti
e carcerazioni nel contesto del ciclone Nargis
Almeno
29 persone che avevano fornito aiuti in via privata a seguito del ciclone
Nargis, abbattutosi su Myanmar nel maggio 2008, sono rimaste in carcere per
attività considerate politiche dalle autorità. Almeno 18 di loro sono state
condannate dai 10 ai 35 anni di carcere.
*A
ottobre, le autorità hanno arrestato almeno 10 persone per aver accettato
dall'estero donazioni per i soccorsi. Almeno sette erano membri
dell'organizzazione locale, Lin Let Kye ("Stella splendente"),
impegnata in attività sociali e di assistenza.
Conflitto
armato e sfollati
L'esercito
di Myanmar ha continuato ad attaccare vari gruppi armati di minoranze etniche,
spesso prendendo di mira civili e provocando sfollamenti su vasta scala. A
giugno, gli attacchi sferrati dall'esercito e dall'esercito democratico buddista
Karen (Dkba), sostenuto dal governo, hanno causato lo sfollamento di migliaia di
civili della minoranza etnica karen, costringendo 4800 rifugiati a fuggire in
Thailandia. Il Dkba ha reclutato con la forza persone durante l'offensiva, sia
come portatori sia per attività militari, ha distrutto i villaggi abbandonati e
posizionato mine terrestri sulla scia dell'esodo.
Ad
agosto, uno degli attacchi più intensi mai registrati in 10 anni contro
l'opposizione armata dell'esercito dello stato di Shan-Sud e i civili shan hanno
costretto più di 10.000 persone a spostarsi in altre località; la maggior
parte erano sfollate. Gli attacchi sono stati caratterizzati da esecuzioni
extragiudiziali e abusi sessuali. Sempre ad agosto, l'esercito ha attaccato
l'esercito dell'alleanza democratica nazionale di Myanmar, provocando la fuga in
Cina di oltre 30.000 persone, in larga parte appartenenti alla minoranza etnica
kokang, quasi la totalità delle quali sono state successivamente rimandate in
Myanmar. Gli sfollati all'interno di Myanmar sono aumentati ?no a superare le
500.000 persone.
Violazioni
legate a progetti di sviluppo
L'esercito
ha continuato a commettere violazioni dei diritti umani in relazione a progetti
di sviluppo uf?ciali, come lavori forzati, uccisioni, pestaggi, con?sche di
terreni, coltivazioni coatte, restrizioni alla libertà di movimento e sequestro
di proprietà. I battaglioni che fornivano servizi di sicurezza per i gasdotti
di Yadana, Yetagun e Kanbauk-Myiang Kalay, nella divisione di Tanintharyi e
nello stato di Kayin hanno costretto i civili a lavorare alla costruzione di
caserme, strade e postazioni di guardia. Le autorità hanno inoltre con?scato
terreni senza risarcimenti, in relazione al progetto del gasdotto Shwe nello
stato di Rakhine, prendendo di mira gli abitanti dei villaggi sospettati di
opporsi o di contestare il progetto. Le autorità hanno arrestato, detenuto e
interrogato gli abitanti dei villaggi locali, costringendone alcuni ad andarsene
dalla zona.
Bambini
soldato
L'esercito
birmano e le milizie sostenute dal governo hanno continuato a reclutare,
impiegare e incarcerare sistematicamente bambini soldato, sia direttamente sia
attraverso agenti di reclutamento. Diversi gruppi armati di minoranze etniche
hanno anch'essi continuato a reclutare bambini. Il governo non ha provveduto ad
allineare con gli standard internazionali il proprio piano d'azione contro il
reclutamento e l'impiego dei bambini soldato, nonostante un impegno verbale
assunto in tal senso nel settembre 2007, da attuarsi "nel prossimo
futuro". Il governo non è intervenuto per sviluppare un programma uf?ciale
per il disarmo, la smobilitazione e il reintegro che assicurasse che tutti i
bambini soldato fossero rilasciati e restituiti alle loro famiglie.
L'Ilo
ha continuato a ricevere e ad affrontare le denunce di reclutamento di bambini
soldato da parte delle autorità. A ?ne anno, l'Ilo aveva ricevuto 131 denunce
riguardanti il reclutamento di minorenni, dal febbraio 2007. Cinquantanove
bambini erano stati congedati dall'esercito. Le autorità hanno continuato a
sostenere che i bambini si univano all'esercito unicamente in modo spontaneo,
mentre punivano i responsabili del reclutamento minorile soltanto con un
richiamo. Le autorità hanno inoltre rilasciato dal carcere e congedato tre dei
quattro bambini soldato che erano stati condannati e incarcerati per diserzione.
Vaglio
internazionale
A
gennaio e febbraio, il Consigliere speciale del Segretario generale delle
Nazioni Unite ha visitato Myanmar e ha fornito un resoconto al Consiglio di
sicurezza delle Nazioni Unite il mese seguente. A febbraio, il Relatore speciale
delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani a Myanmar ha visitato il
paese e ha presentato un rapporto al Consiglio delle Nazioni Unite per i diritti
umani a marzo. Sempre a febbraio, il ministro degli Esteri tailandese ha
condotto colloqui informali con l'Unione nazionale Karen (Knu) con il permesso
del governo di Myanmar. L'Alto commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati
ha visitato Myanmar a marzo. Sia ad aprile che a giugno, si sono svolti gli
incontri del processo di Bali, ?nalizzato ad arginare la tratta e il
contrabbando di esseri umani e a impedire la migrazione illegale in Asia e nel
Paci?co, ed è stata discussa la situazione dell'etnia rohingyas in Myanmar.
A
seguito dell'arresto di Daw Aung San Suu Kyi a maggio, il Consiglio delle
Nazioni Unite per i diritti umani ha rilasciato un comunicato stampa in cui
esprimeva preoccupazione e invocava il rilascio di tutti i prigionieri politici.
L'Asean, l'Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, e il
Relatore speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani a
Myanmar hanno anch'essi rilasciato dichiarazioni sul suo arresto. L'Eu ha
rafforzato le proprie sanzioni economiche nei confronti di Myanmar.
A
febbraio, il Relatore speciale sulla situazione dei diritti umani in Myanmar ha
visitato il paese.
A
giugno, il Segretario generale delle Nazioni Unite a visitato Myanmar. Il
Rappresentante speciale delle Nazioni Unite per l'infanzia e il con?itto armato
ha visitato il paese a luglio. Ad agosto, le Nazioni Unite hanno discusso con il
governo lo sviluppo di un piano d'azione comune per affrontare il problema dei
bambini nel corso di con?itti armati, ai sensi delle Risoluzioni del Consiglio
di sicurezza delle Nazioni Unite 1612 e 1882. A ottobre, il Gruppo di lavoro del
Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha reso pubbliche le sue conclusioni
su bambini e con?itto armato in Myanmar, secondo le suddette risoluzioni. A
dicembre, l'Assemblea generale delle Nazioni Unite ha adottato una risoluzione
sulla situazione dei diritti umani in Myanmar.
Dopo
aver esteso a gennaio la loro lista di persone e reti commerciali sottoposte a
sanzioni economiche mirate e aver annunciato a febbraio che avrebbero riveduto
la loro posizione su Myanmar, a settembre gli Usa hanno concluso che avrebbero
mantenuto le sanzioni economiche ma che avrebbero avviato un dialogo con il
governo di Myanmar. Ad agosto, un senatore statunitense ha visitato il paese. A
novembre, il governo degli Usa ha inviato una missione di alto livello.
Pena
di morte
A ottobre, un tribunale di Laogai, nello stato di Shan, ha condannato a morte almeno un bambino soldato per l'uccisione di una persona che potrebbe anch'essa essere stata un bambino soldato.
Ogni bambino ha diritto a cibo e assistenza sanitaria
Agenzia Fides - Niamey - 8 giugno 2010
La
mancanza di mezzi di trasporto, lo stile di vita rurale e la pressione
esercitata sulle donne a lavorare nei campi, contribuiscono ad aggravare le
forme di malnutrizione nei bambini del Niger che non possono portare a termine i
programmi alimentari terapeutici ai quali sono sottoposti. In alcune zone rurali
remote, i centri sanitari dove vengono somministrati questi trattamenti, sono
troppo lontani da raggiungere. Purtroppo risulta che un bambino malnutrito su
cinque di quelli sottoposti a questi programmi, nelle province meridionali di
Zinder e Maradi, interrompe il trattamento in quanto proviene dalla Nigeria. La
terapia intensiva infatti dura in media otto settimane. A causa
dell'interruzione, il numero dei bimbi gravemente malnutriti che vengono
registrati nei programmi terapeutici aumenta settimana dopo settimana. Sono
stati riscontrati 8 mila casi la scorsa settimana.
Secondo
il coordinatore dell'Unicef nella capitale, Niamey, dall'inizio dell'anno le
agenzie umanitarie hanno preso in cura 84 mila bambini gravemente malnutriti.
Nella provincia sudorientale di Diffa, dove è impegnata l'Ong Save the Children
la situazione sta peggiorando. L'organizzazione sta programmando di allargare
gli aiuti a tutti i centri sanitari dei distretti di Diffa in cui è impegnata.
Da Zinder e Maradi ci vuole troppo tempo per andare e tornare dal centro,
inoltre i mariti non vogliono che le loro mogli e bambini stiano lì troppo a
lungo da soli e, in vista della stagione dei raccolti, le donne, che lavorano
nei campi, sono costrette a tornare a casa. In alcune zone, il 70% dei villaggi
distano oltre 15km dai centri sanitari, altri addirittura fino a 50km, ci
vorrebbero 3 giorni per andare e 3 giorni per tornare!
Il
tasso di malnutrizione acuta generale a Diffa è il più alto della regione, con
il 17.4%. Nella zona nord della provincia accade anche che tornando in un
villaggio a distanza di un mese questo non ci sia più. I bambini in terapia
devono essere controllati almeno una volta alla settimana per verificare se
stanno prendendo peso, se non abbiano contratto altre complicazioni, e che il
cibo ipercalorico a loro destinato non venga dato ad altri membri della
famiglia. In Niger l'assistenza sanitaria per i bambini con meno di cinque anni
e le donne incinte è gratis, tuttavia i farmaci non sono mai sufficienti. (AP)
Zamfara: miniere d'oro, per esperti un avvelenamento "senza
precedenti"
Misna
- 9 giugno 2010
"L'estensione
dell'avvelenamento non ha precedenti nella storia dei principali casi trattati
finora in tutto il mondo": recita così un comunicato diffuso oggi dal
Centro per il controllo e la prevenzione delle malattie statunitense (il Cdc di
Atlanta) relativo al grave episodio di avvelenamento da metalli pesanti (piombo
e mercurio) in corso da mesi in alcune aree dello Stato nord occidentale
nigeriano di Zamfara. Nella nota, il Cdc - che insieme all'organizzazione
mondiale della Sanità (Oms) delle Nazioni Unite e all'organizzazione sanitaria
internazionale Medici senza frontiere (Msf) si sta occupando della vicenda e sta
analizzando i campioni di sangue prelevati nelle aree interessate - spiega che
l'eccezionalità di quanto accade a Zamfara sta "nella gravità
dell'avvelenamento, nel numero delle vittime e nell'alto numero di bambini e
adulti con i sintomi dell'avvelenamento, oltre che nell'estensione della
contaminazione ambientale". Secondo gli ultimi bilanci in circolazione sono
centinaia le persone morte per l'avvelenamento dopo che i metalli pesanti
utilizzanti per l'estrazione dell'oro in alcune miniere informali nei distretti
di Anka e Bungudu hanno contaminato fonti d'acqua e pascoli. Se al momento le
cifre diffuse dal governo parlano di 163 decessi, fonti giornalistiche nigeriane
riportano oltre 300 morti e più di 400 persone ricoverate con sintomi da
avvelenamento; tutti confermano che ad essere colpiti sono soprattutto bambini
con meno di cinque anni d'età. Le autorità delle aree interessate hanno
chiesto l'intervento del governo federale e l'invio urgente di acqua potabile,
cibo, medicine ed esperti sanitari e ambientali per verificare la situazione.
L'area teatro della contaminazione da piombo è diventata da alcuni mesi una
nuova frontiera dello sfruttamento minerario nel paese. Solo a Maggio il governo
ha aperto una nuova grande fabbrica di trasformazione dell'oro in questa zona,
nella quale si troverebbero ingenti giacimenti di oro e columbite finora poco
sfruttati. All'estrazione ufficiale, si affianca già da tempo quella informale
che vede gli abitanti locali impegnati nella ricerca del prezioso minerale lungo
i corsi d'acqua e in improvvisate miniere illegali dove sono completamente
assenti le più elementari norme di sicurezza, ambientali e non. [MZ]
Talebanizzazione e cristiani vittime di nuovi attacchi
AsiaNews - Khanewal - 10 giugno 2010
Nel
Punjab un gruppo di musulmani ha attaccato un pastore protestante e la moglie
incita, ferendola alla pancia. Nella provincia 250 famiglie cristiane hanno
dovuto abbandonare le case, perché hanno denunciato abusi sessuali sulle donne.
Due coppie di cristiani accusate di blasfemia a Karachi.
Continuano
i casi di persecuzione a sfondo confessionale in Pakistan, nazione a larga
maggioranza islamica in cui le minoranze religiose sono spesso vittime di abusi
e violenze. Nel Punjab un gruppo di 14 musulmani ha attaccato un pastore
protestante e la moglie, in attesa di un bambino. In un distretto della stessa
provincia, il capo-villaggio musulmano ha ordinato a 250 famiglie cristiane di
abbandonare le loro case perché "donne e ragazze cristiane hanno
denunciato casi ripetuti di abusi sessuali". Nella provincia di Sindh,
infine, una coppia è incriminata per blasfemia e rischia persino la pena di
morte.
International
Christian Concern (ICC) riferisce che il 3 giugno scorso a Sahiwal, nel Punjab,
14 musulmani hanno assalito un pastore protestante, la moglie incinta e il
fratello dell'uomo. Alla base dell'attacco l'accusa di "evangelizzare"
rivolta a Mumtaz Masih, pastore della Full Gospel Church of Pakistan e alla
moglie Noreen. L'imam Maqsood Ahmed avrebbe guidato la spedizione punitiva,
ferendo l'uomo alle gambe e la moglie alla pancia e sulla mano. Il fratello è
stato assalito mentre cercava aiuto per i parenti. La coppia ha sporto denuncia
alla polizia, ma gli agenti non hanno voluto aprire un'inchiesta.
Jonathan
Racho, responsabile ICC per l'Asia del sud, condanna con forza "le violenze
contro il pastore Mumtaz e la sua famiglia". Egli aggiunge che i cristiani
pakistani sono vittime di assalti "perché esprimono la loro fede in
Cristo", ma i fedeli desiderano rimanere "con determinazione"
nella loro terra d'origine "nonostante le persecuzioni".
Nel
distretto di Khanewal, sempre nel Punjab, il capo di un villaggio a maggioranza
musulmana ha ordinato a 250 famiglie cristiane di lasciare la zona, perché
"denunciavano con troppo vigore violenze sessuali di musulmani verso donne
e ragazze". La maggior parte dei cristiani della zona lavora nei campi di
proprietà dei musulmani e le donne come domestiche nelle abitazioni. Gli abusi
sarebbero avvenuti all'interno delle case, con cadenza "quotidiana".
"I cristiani - denunciano gli sfollati - sono totalmente in balia del
volere dei musulmani".
Infine
nella cittadina di Gulshan-e-Iqbal, sobborgo di Karachi (Sindh), due coppie di
cristiani devono rispondere dell'accusa di blasfemia. Una folla di musulmani ha
rovistato nella spazzatura dei quattro, affermando di aver trovato pagine del
Corano stracciate. Il giudice ha emesso un mandato di cattura e la polizia ha
iniziato le ricerche. Le due coppie di cristiani hanno abbandonato la casa in
affitto e sono tuttora latitanti. Fonti cristiane denunciano che gli agenti
hanno minacciato i parenti, perché rivelino il luogo in cui i quattro sono
nascosti. Per il reato di blasfemia in Pakistan si rischia la pena di morteo
l'ergastolo .
Beatificazione di padre Popieluszko
www.radiovaticana.org
8 giugno 2010
Un
uomo libero che ha vinto il male con il bene
La
testimonianza eroica di padre Jerzy Popieluszko ci insegna che i regimi passano,
ma la Chiesa e i suoi figli restano: è uno dei passaggi forti dell'omelia
dell'arcivescovo Angelo Amato nella Messa di ieri a Varsavia per la
Beatificazione del cappellano di Solidarnosc, ucciso in odio alla fede dalla
polizia comunista 26 anni fa. Un evento che ha raccolto 150 mila fedeli e che ha
visto la concelebrazione di oltre cento vescovi e duemila sacerdoti. Il servizio
di Alessandro Gisotti
La
grande Piazza Pilsudski di Varsavia si è vestita a festa ieri per la
Beatificazione di padre Jerzy Popieluszko. Sotto un cielo terso, una moltitudine
di fedeli ha pregato per il suo amato padre Jerzy, con il Rosario tra le mani,
ma anche sventolando bandiere di Solidarnosc e innalzando poster con la foto del
sacerdote martire. Alla cerimonia, tra i tanti esponenti istituzionali ed
ecclesiali, c'era anche la madre novantenne di padre Popieluszko, Marianna.
"Prego Dio innanzitutto", ha detto con semplicità a quanti le
chiedevano se dopo la Beatificazione avrebbe pregato suo figlio. Dal canto suo,
l'arcivescovo di Varsavia, Kazimierz Nycz, ha dato inizio alla cerimonia
definendo l'evento "un grande giorno per la Chiesa di Polonia e la
patria". Nella sua omelia, il prefetto della Congregazione delle Cause dei
Santi, mons. Angelo Amato, ha ripercorso la vita dell'eroico sacerdote
assassinato a 37 anni perché diventato troppo scomodo al regime comunista
polacco. L'arcivescovo Amato ha iniziato la sua omelia rivolgendo il pensiero al
volto massacrato di padre Jerzy:
"Il
volto orrendamente sfigurato di questo mite sacerdote somigliava a quello
flagellato e umiliato del Crocifisso, senza più bellezza e decoro".
Perché
questo scempio, si è chiesto il presule? Padre Jerzy, ha affermato, non era un
omicida, un terrorista, ma solo un "leale sacerdote cattolico" che
annunciava Cristo. Ma il Vangelo, ha rilevato con amarezza, non era in sintonia
con l'ideologia marxista. Padre Popieluszko, ha detto, è stato "un
testimone eroico della bellezza e della verità del Vangelo di Gesù". Un
martire che "trovò la sua forza nel Signore presente
nell'Eucaristia". Con la sua testimonianza, ha affermato l'arcivescovo
Amato, padre Popieluszko ci ha mostrato che "i regimi passano come
temporali d'estate lasciando solo macerie, ma la Chiesa e i suoi figli restano
per beneficare l'umanità con il dono della carità senza limiti":
"Il
messaggio eterno che deve far battere il nostro cuore oggi, di fronte alle
rinnovate persecuzioni contro il Vangelo e la Chiesa, è quello che il Santo
Padre Benedetto XVI ripropone come sintesi della testimonianza martiriale del
Beato Jerzy Popieluszko, che - dice il Papa - fu sacerdote e martire, fedele e
instancabile testimone di Cristo: egli vinse il male col bene fino all'effusione
del sangue".
"Vinci
il male con il bene": questa esortazione di San Paolo fu scelta da padre
Popieluszko come motto della sua vita e della sua testimonianza evangelica. In
un'omelia del marzo 1983, padre Jerzy affermò: "Mostriamoci forti nella
carità, pregando per i fratelli che sbagliano; non condannando nessuno, ma
stigmatizzando e smascherando il male".
Coincidenza
particolarmente significativa, la Beatificazione di padre Jerzy Popieluszko è
avvenuta mentre si va concludendo l'Anno Sacerdotale voluto da Benedetto XVI.
Sull'attualità
della testimonianza di padre Jerzy per tutti i sacerdoti, si sofferma Annalia
Guglielmi, autrice del libro "Popieluszko. Non si può uccidere la
speranza", profonda conoscitrice della realtà polacca che conobbe il
cappellano di Solidarnosc in gioventù. L'intervista è di Alessandro Gisotti
R.
- Padre Jerzy era un sacerdote in tutto ciò che faceva, era un sacerdote che
viveva una profondissima unità personale e spirituale con Gesù Cristo ed era
un sacerdote per il legame profondissimo che lo univa al suo popolo. Padre Jerzy
si pone nella tradizione, nella grande scia dei grandi sacerdoti santi polacchi,
a cominciare proprio dai primi due santi polacchi, Sant'Adalberto e San
Stanislao, per continuare con padre Kolbe, con il cardinale Wyszynski, con Giovanni Paolo II. Sacerdoti innamorati di Cristo,
obbedienti alla Chiesa e totalmente dediti al popolo loro affidato e per questo
credo che sia una grande testimonianza per tutti i sacerdoti.
D.
- Questo legame con Cristo lo faceva un uomo libero ed è questo che lo ha
portato poi al martirio, la libertà non era consentita...
R.
- Padre Jerzy era un uomo assolutamente libero. Tanto è vero che una volta un
suo amico sospirando disse: potessimo essere un giorno finalmente liberi. Lui lo
guardò dicendo: ma io sono già libero, io sono libero adesso. Era un uomo
libero nel senso che non aveva bisogno di una conferma dalle condizioni esterne
per la propria libertà. Un regime totalitario ha sempre paura degli uomini
liberi. Un regime totalitario per la sua stessa natura e la sua stessa
definizione vuole avere il potere assoluto, innanzitutto, sull'anima dei propri
sudditi e il fatto che si possa essere liberi, anche se tutto ciò che è al di
fuori contraddice questa libertà, è una sfida inaccettabile per un potere
totalitario.
D.
- Lei ha conosciuto personalmente padre Jerzy Popieluszko: cosa le resta di
questo incontro con la persona?
R.
- Quello che mi viene da dire è che la santità è veramente una grazia che il
Signore accorda a chi gli si affida totalmente. Padre Jerzy, quando lo conobbi,
a me dava proprio l'impressione di un giovane sacerdote desideroso solo di
affidarsi alla volontà del Signore. La sua strada lo ha portato fino alla
cerimonia di ieri.
Guerra finita. Ma vengono stanziati più soldi per l'esercito che per
l'economia di Melani Manel Perera
AsiaNews - Colombo - 9 giugno 2010
Popolazione
incredula per i 201 miliardi di rupie (1,5 miliardi di euro) assegnati al
Ministero della difesa nonostante la guerra sia finita l'anno scorso.
Educazione, sanità e sviluppo economico restano in crisi.
Sconcerto
tra la popolazione dello Sri Lanka per lo stanziamento al Ministero della difesa
di 201 miliardi di rupie (1,5 miliardi di euro) per il 2010. È la somma più
alta degli ultimi 25 anni. L'anno scorso sono stati 177 miliardi (1,3 miliardi
di euro) i fondi assegnati all'esercito, ma era ancora in corso la guerra contro
le Tigri Tamil (Ltte), ufficialmente terminata il 18 maggio 2009.
Diverse
persone, che preferiscono restare anonime, hanno dichiarato ad AsiaNews che
"la guerra è finita. Che bisogno c'è di rafforzare l'esercito? L'intento
è chiaro: i conti bancari esteri di personalità importanti
aumenteranno...".
Il
progetto di legge per lo stanziamento, presentato l'8 giugno, prevede la
disponibilità, per l'anno finanziario 2010, di circa 975 milioni di rupie (7
milioni di euro) per i servizi offerti alla popolazione. Il costo della vita in
Sri Lanka è molto alto e i lavoratori non sopravvivono senza la dovuta
assistenza da parte dello Stato. I 201 miliardi di rupie assegnati al Ministero
della difesa indignano i cittadini, soprattutto se paragonati ai 61 milioni
(450mila euro) stanziati per il Ministero dello sviluppo economico, i 2750 (20
milioni di euro) per l'educazione e i 5310 (39 milioni di euro) per la sanità.
Il
segretario generale del World forum for fisher people (Wffp) ha commentato così
ad AsiaNews la notizia: "La situazione è patetica, non possiamo accettare
questo progetto di legge. Per quanto riguarda l'educazione, a parte i salari
degli insegnanti, tutto il resto deve essere pagato dai genitori. Non ci sono
medicine negli ospedali, i pazienti devono comprare il paracetamolo nelle
farmacie. Il governo si è sempre giustificato con la guerra, ma adesso la
guerra è finita".
Fonti
non ufficiali ritengono che i soldi servano al governo per aiutare ad instaurare
nel nord del Paese una dominazione singalese. I singalesi sono il gruppo etnico
di maggioranza in Sri Lanka, costituiscono circa il 74% della popolazione e
abitano soprattutto nel centro, nel sud e nell'ovest del Paese.
Dai
pescatori un aiuto concreto per il reinsediamento dei profughi di guerra di
Melani Manel Perera
AsiaNews - Batticaloa - 8 giugno 2010
A
Batticaloa, il governo si disinteressa dei problemi dei profughi tornati nei
villaggi distrutti dalla guerra civile. Occorre ricostruire tutto, occorrono
mezzi e denaro. Ora un gruppo privato aiuterà a bonificare la zona e a
ricostruire.
Un
aiuto concreto del movimento Solidarietà nazionale pescatori (Nafso) per i
profughi di guerra, per bonificare le vecchie abitazioni e prepararle ad
accoglierli di nuovo. Mons. Joseph Ponnaiah, vescovo ausiliare della diocesi di
Batticaloa, racconta ad AsiaNews come la solidarietà popolare sia una risposta
concreta al bisogno del vicino, nell'assenza prolungata degli aiuti pubblici.
Il
programma Praja Abhilasha del Nafso bonificherà il villaggio di Weligahakandiya
nel distretto Batticaloa e il vicino canale, per consentire agli ex abitanti di
tornare, rifare le case, ripristinare le coltivazioni, ricominciare una vita
normale dopo anni di campo-profughi.
Nel
2007 circa 600 famiglie Tamil sono fuggite dal villaggio, incalzate dalla
guerra, e si sono rifugiate a Mailanbawali. Il 29 giugno 2009, dopo la fine
della guerra e dopo che l'esercito aveva riconquistato la regione nordorientale,
32 famiglie sono tornate a casa. Ma hanno trovato le case danneggiate e tutto il
villaggio diventato una jungla. Non potendo tornare a casa si sono insediati
nella scuola. Hanno pulito una piccola parte del villaggio, ma occorre fare
molto di più. Il villaggio dista 18 chilometri dalla città più vicina, Maha
Oya.
L'iniziativa
è stata illustrata al vescovo da Francis Raajan, coordinatore del programma,
nel corso di un incontro al vescovado di Batticaloa. Raajan ha spiegato che
"la sola necessità di queste persone è un sostegno per reinsediarsi e
ricominciare una vita normale. Costoro non chiedono sussidi materiali, ma solo
un aiuto iniziale a pulire il canale e il villaggio". "E' un grande
lavoro e abbiamo bisogno di molte persone e sussidi finanziari, perché
occorrono equipaggiamenti costosi per pulire i circa 7,5 chilometri del canale
distrutti. Dovremo usare un bulldozer e tecniche di ingegneria".
Raajan
ha spiegato ad AsiaNews che si vuole pulire il villaggio a partire dal 14 giugno
e che poi sarà sgombrato il canale.
Mons.
Ponnaiah ha espresso "effettivo apprezzamento per l'aiuto sostanziale dato
a questi poveri".
L'Agente
governativo di Batticaloa Arumainayaham ha detto che il governo non ha fondi per
tale opera ma può fornire strumenti e materiali ai volontari che vogliono
bonificare il villaggio. Il lavoro è difficile perché la macerie sono pesanti
e il luogo è infestato da serpenti.
Le
32 famiglie già tornate a Weligahakandiya vogliono iniziare l'opera al più
presto, perché - dicono ad AsiaNews M. Maheswari e altre donne del villaggio -
"viviamo tra grandi difficoltà, senza abbastanza cibo né lavoro".
"All'inizio il governo ci dava riso, dhal, latte in polvere, olio di cocco
e altro, ma ora non più, da mesi non riceviamo nulla". A questi profughi
tornati a casa, il governo ha dato alimenti solo per 6 mesi.
Criminalizzare gli immigrati
di Saskia Sassen
Il
Manifesto - 10 giugno 2010
L'Arizona
non è l'eccezione è lo specchio dell'America
Le
misure repressive adottate dallo stato dell'Arizona nei confronti dei residenti
irregolari fanno parte di una politica più ampia diretta al controllo degli
immigrati. In questo campo gli Stati Uniti hanno fatto ricorso a un'azione
statale che si può considerare estrema. Si tratta di una lunga storia, che
comprende alti e bassi. L'attuale fase d'azione massiccia dello Stato è
incominciata negli anni '90 con Bill Clinton. Ma gli Stati Uniti non sono i
soli. Alcuni dei più potenti Stati nel mondo (Inghilterra, Francia, Italia)
hanno riorientato in maniera crescente gran parte delle loro burocrazie statali
per controllare, scovare, fermare, internare e deportare gli immigrati più
marginali e più vulnerabili.
Questi
stati sono disposti a sacrificare le loro leggi e più in generale lo spirito
stesso dello stato di diritto democratico, una delle più importanti conquiste
della storia collettiva occidentale. In altre parole, hanno sacrificato le
libertà dei loro cittadini per controllare gli stranieri. Negli Stati uniti, il
Patriot Act del 2001 autorizza la deportazione immediata di qualsiasi straniero,
regolare o irregolare che sia, senza bisogno di prove e senza udienza; basta che
il procuratore generale, che dirige i procuratori distrettuali, lo consideri
potenzialmente pericoloso. Inoltre, dopo il 2001 il governo federale ha
autorizzato gli stati a legiferare nel campo dell'immigrazione e, in seguito a
questa novità, nel 2007 ci sono state 240 leggi e approssimativamente 1700
progetti di legge, numero che è aumentato a partire da allora. 23 stati negli
Usa hanno firmato un accordo con il governo federale per collaborare agli
arresti. L'iniziativa delle autorità dell'Arizona di criminalizzare la
residenza degli irregolari (diventata legge il 23 aprile) si situa quindi
all'interno di questo contesto.
Quello
che sta succedendo in Arizona dunque non è per nulla anomalo. La decisione di
far diventare un crimine il trovarsi negli Stati Uniti illegalmente e di
obbligare la polizia a interrogare gli individui sul loro status di immigrati
sulla base di un "ragionevole sospetto" è invece parte di un disegno
più grande che dà la facoltà a governi e forze di polizia di compiere azioni
che abitualmente sarebbero ritenute estreme e inaccettabili.
Ma
il controllo dei confini non ha funzionato sotto diversi punti di vista. Non è
questione di quanto pesanti siano i deterrenti o il budget utilizzato per il
controllo delle frontiere. Entrambi infatti hanno perso credibilità, sia
riguardo ai cittadini sia nei confronti dei trafficanti (che hanno aumentato
ampiamente le loro operazioni). L'organizzazione mondiale del lavoro (Ilo) stima
che queste associazioni criminali abbiano fatturato nel 2006 ventinove miliardi
di dollari grazie al traffico di esseri umani per l'industria del sesso, con un
evidente incremento rispetto agli anni passati.
In
questo processo, gli Stati forti hanno reso visibili i limiti della propria
forza ed evidente il fatto che non conta il grado di militarizzazione dei
confini. Per esempio, il governo Usa ha aumentato il budget annuale per la
sorveglianza del confine con il Messico, che è salito dai 250 milioni di
dollari all'anno dei primi anni '90 sino al miliardo e seicento milioni di
dollari dei primi anni del 2000. Ciononostante è raddoppiata la popolazione
senza documenti, dai 6 ai 12 milioni (secondo alcune fonti si arriverebbe ai 13
e perfino a 15 milioni).
Nel
2008 il budget dell'ex Servizio immigrazione e naturalizzazione (Ins, che dal
2003 fa parte del Dipartimento della sicurezza del territorio nazionale) è
arrivato a 35 miliardi di dollari. Nel periodo che va dal 1986 al 2008 il
personale impiegato nel pattugliamento del confine è aumentato da 3.700 a
18.000 agenti e il budget da 151 milioni a 7.9 miliardi. Anche in questo caso i
risultati ottenuti, quando ci sono, sono molto ambigui.
Tutte
queste risorse sono state spese nell'ottica di controllare persone impotenti e
vulnerabili, che nella maggior parte dei casi chiedono solo di poter lavorare.
L'enorme discrepanza fra i costi etici ed economici di questo approccio
repressivo delle "libertà democratiche" diventa nel lungo termine
sempre più alta. Nel 2007-2008 negli Stati uniti 320 mila immigrati sono stati
incarcerati senza processo solamente perché la burocrazia li ha considerati
alla stregua di immigrati irregolari. È più che probabile che fra questi 320
mila ci fossero persone di nazionalità americana.
Quando
uno stato concede poteri arbitrari ai governanti e alle forze di polizia, prima
o poi le pratiche del libero arbitrio prenderanno di mira i cittadini.
*
professore di sociologia alla Columbia University di New York e alla London
School of Economics
(www.opendemocracy.net,
traduzione di Fabrizio Dentini)
Esercito
espanso di Manlio Dinucci
Il
Manifesto - 10 giugno 2010
Il
Pentagono dei democratici: la guerra c'è ma non si vede.
Non
solo Iraq e Afghanistan: forze armate schierate in 75 paesi, rispetto ai 60 di
un anno fa.
La
guerra non è solo quella che si vede. Oltre alle operazioni belliche in
Afghanistan e Iraq, il Pentagono conduce una guerra segreta, in cui l'Iran è
uno degli obiettivi centrali. La coordina il Comando delle operazioni speciali
(Ussocom), che dispone di circa 57mila specialisti dei quattro settori delle
forze armate. La loro missione ufficiale comprende: raccolta di informazioni sul
nemico; azione diretta per distruggere obiettivi, eliminare o catturare nemici;
guerra non-convenzionale condotta da forze esterne, addestrate e organizzate
dallo Ussocom; controinsurrezione per aiutare governi alleati a reprimere una
ribellione; operazione psicologica per influenzare l'opinione pubblica straniera
così che appoggi le azioni militari Usa. Come emerge da un'inchiesta del
Washington Post, le forze per le operazioni speciali sono oggi dispiegate in 75
paesi, rispetto a 60 un anno fa. La loro crescente importanza è testimoniata
dal fatto che «i comandanti delle forze speciali sono oggi più presenti alla
Casa bianca di quanto lo fossero all'epoca di Bush».
L'area
in cui si concentrano tali operazioni, il cui finanziamento è salito
ufficialmente a 10 miliardi di dollari, comprende il Medio Oriente, l'Asia
centrale e l'Africa orientale. Esistono però «piani per attacchi preventivi o
di rappresaglia in numerosi posti in tutto il mondo, da mettere in atto quando
si scopre un complotto o dopo un attacco». L'uso delle forze per le operazioni
speciali offre il «vantaggio» di non richiedere l'approvazione del Congresso e
di rimanere segreto. Tali operazioni, secondo funzionari dell'amministrazione
citati dall'agenzia Upi, «potrebbero aprire la via ad attacchi militari contro
l'Iran se si acuisce il confronto sul programma nucleare di Teheran».
Nel
quadro della «guerra non-convenzionale», lo Ussocom impiega compagnie militari
private, come la Xe Services (già Blackwater, nota per le sue azioni in Iraq)
che risulta impegnata in varie operazioni speciali, tra cui la raccolta di
informazioni in Iran. Qui lo Ussocom sostiene direttamente o indirettamente i
gruppi ribelli, soprattutto quelli nella zona sud-orientale a maggioranza
sunnita. Senza guardare troppo per il sottile: uno di questi, «I sacri
guerrieri del popolo», figura nella lista delle organizzazioni terroristiche
redatta da Washington. La stessa politica viene condotta in Afghanistan, dove le
forze per le operazioni speciali si avvalgono di signori della guerra locali.
Uno di questi - riporta The New York Times - è Matiullah Khan: con il suo
esercito privato, combatte gli insorti insieme alle forze speciali Usa (il cui
quartier generale è a un centinaio di metri da quello di Matiullah Khan) e
assicura il transito dei convogli della Nato, che gli paga un pedaggio di 1.200
dollari a camion. E' così divenuto, nella sua provincia, il più potente e
ricco signore della guerra. Grazie a quella che il Pentagono chiama «guerra
non-convenzionale».
Il dramma del Darfur nelle cifre dell'Onu: 600 morti il mese scorso
www.radiovaticana.org
- 8 giugno 2010
Nella
tormentata regione sudanese del Darfur, secondo fonti delle Nazioni Unite e
dell’Unione Africana sono morte il mese scorso oltre 600 persone, durante
scontri tra ribelli e governativi. Si tratta di cifre che mettono in evidenza le
sfide che gli operatori sul terreno devono affrontare dopo sette anni di
conflitto, e nonostante l’intervento dei tribunali internazionali per punire i
crimini contro l’umanità commessi nell’area. Tutto questo avviene proprio
mentre a Doha, in Qatar, stanno per ripartire i colloqui di pace tra il governo
di Khartoum e un gruppo che riunisce rappresentanti di varie fazioni di ribelli
in Darfur, ad esclusione del Jem, ritiratosi dai negoziati. Per Vittorio Scelzo,
della Comunità di Sant’Egidio, attiva nella mediazione sul Darfur, si tratta
comunque di una situazione che non compromette del tutto i margini delle
trattative. Lo ha intervistato Stefano Leszczynski:
R.
– La situazione in Sudan in generale è molto complessa. Ci avviamo ad un
tornante decisivo, che sarà quello del referendum per l’indipendenza del sud,
che sarà celebrato nel gennaio del 2011. Quindi, tutte le carte si rimescolano.
E’ necessario avere un approccio complessivo. Si tratta di un momento
difficile, in cui tutte le alleanze cambiano, in cui gli equilibri della regione
sono a rischio e quindi è necessario un impegno maggiore della comunità
internazionale. Va detto che il fatto che siano ripresi degli scontri non deve
però portare a pensare che non ci sia più la possibilità di una soluzione
negoziale.
D.
– Una situazione molto complessa, pericolosa, tra l’altro, anche per i Paesi
confinanti. E’ tutta una zona che è molto sensibile a quello che avviene in
Darfur...
R.
– Anche perché tra Darfur, Sudan, Ciad, Repubblica Centrafricana i confini
sono effettivamente molto labili e soprattutto tra il Darfur, il Sudan e il Ciad
le popolazioni si intersecano, si mescolano: i problemi del Ciad si riversano
sul Sudan e quindi di nuovo sul Ciad. La nota positiva di questi mesi è un
riavvicinamento, un chiarimento direi definitivo tra il governo di Karthoum e
quello di ‘Ndjamena. Si tratta di un momento delicato, in cui anche le
alleanze regionali stanno cambiando. I fatti di questi ultimi giorni sono il
risultato di queste mutevoli alleanze internazionali.
D.
– Può avere avuto o può avere un peso critico sul processo di pace il fatto
che sia stato rieletto un presidente sudanese ritenuto da una parte della
comunità internazionale responsabile di gravi crimini contro l’umanità in
Darfur?
R.
– La situazione personale del presidente Bashir sicuramente è uno dei
problemi sul tavolo. Va detto che anche alcuni dei capi ribelli sono stati
incriminati dalla stessa corte. Il quadro generale è soprattutto un quadro
politico, nel quale si mescolano le recenti elezioni in Sudan, con le evidenti
pressioni che ci sono state sull’una e sull’altra parte e il prossimo
referendum sull’indipendenza del sud, che a mio avviso è il tornante decisivo
per la storia recente del Sudan.
Il
doppio gioco del Sudan Promesse e appoggio ai ribelli di Giulio Albanese
Avvenire
- 8 giugno 2010
Il
dramma dimenticato di Darfur e regioni del Sud.
Restano
incandescenti le questioni del Darfur e del Sudan meridionale.
Nell'aprile
scorso, Omar Hassan el-Bashir è stato confermato presidente, affermando con
toni altisonanti che farà di tutto per scongiurare una divisione del Paese, con
un esplicito riferimento al referendum previsto il prossimo anno per sancire
l'autodeterminazione delle regioni a Sud. E mentre continua a pesare su di lui
il mandato di cattura internazionale spiccato dalla Corte penale internazionale,
Bashir continua a usare la politica del bastone e della carota. Da una parte,
dice di voler concludere i negoziati di pace di Doha con le formazioni ribelli
darfuriane; dall'altra, chiede alla Libia l'estradizione di Khalil Ibnrahim,
leader dei ribelli del Jem (Movimento per la giustizia e l'eguaglianza), che si
trova a Tripoli dopo aver ricevuto il rifiuto di accoglierlo dalle autorità
ciadiane. Sebbene il governo libico si sia rifiutato domenica scorsa di
consegnare ai sudanesi il capo ribelle, non si capisce quali siano gli assetti
all'interno degli stessi Paesi filoislamici.
Il
Ciad ha infatti ricucito lo strappo con Khartum, riallacciando un dialogo
insperato, anche se tra i due governi la diffidenza reciproca è sempre alle
stelle proprio per l'esito ancora indeciso del conflitto che dal febbraio del
2003 insanguina il Darfur.
Intanto
è giunta notizia che Bashir, proprio perché ricercato dal Tribunale dell'Aja,
non prenderà parte al summit dell'Unione Africana (Ua) in programma a Kampala
(Uganda) dal 19 al 27 luglio. Un avvertimento simile era giunto al presidente
sudanese la settimana scorsa dal suo omologo sudafricano, Jacob Zuma, il quale
l'aveva messo in guardia sul fatto che se avesse avuto intenzione di seguire i
Mondiali di calcio sarebbe stato arrestato. Come se non bastasse, la situazione
è incerta anche nel Sudan meridionale. Perché se è vero che Bashir assegnerà
il ministero del Petrolio a un esponente degli ex ribelli dello Splm (Movimento
per la liberazione popolare del Sudan) - i quali, a loro volta, dovranno
rinunciare agli Esteri, destinati al Partito di Beshir, il National Congress -
dall'altra Khartum continua a intrattenere relazioni con i ribelli nordugandesi
dell'Esercito di Resistenza del Signore (Lra) che stanno facendo disastri sia
nella Repubblica Democratica del Congo sia in quella Centrafricana. A questo
proposito, la rivelazione più inquietante viene da fonti della società civile,
secondo cui i ribelli dello Lra, sotto il comando del sanguinario Joseph Kony,
hanno raggiunto, tra gennaio e febbraio scorsi, dopo un'estenuante marcia, il
territorio darfuriano dove sarebbero stati foraggiati dall'esercito sudanese con
armi e munizioni. Il piano di Khartum sarebbe quello di utilizzare i ribelli per
destabilizzare, nei prossimi mesi, il Sud Sudan al fine di far saltare il
referendum per l'autodeterminazione.
Referendum
che peraltro non è gradito negli ambienti dell'Ua che temono costituisca un
precedente contro il dogma africano sull'intangibilità delle frontiere. Viene
da chiedersi se la comunità internazionale sia ancora disposta a rimanere alla
finestra.
Amnesty
Int.
rapporto 2010
www.amnesty.it
Capo
di stato: Nguyen Minh Triet
Capo
del governo: Nguyen Tan Dung
Pena
di morte: mantenitore
Popolazione:
88,1 milioni
Aspettativa
di vita: 74,3 anni
Mortalità
infantile sotto i 5 anni (m/f): 27/20‰
Alfabetizzazione
adulti: 90,3%
Non
si sono allentate le forti restrizioni alla libertà di espressione e di
riunione. La repressione del dissenso si è intensi?cata con nuovi arresti di
attivisti politici e dei diritti umani, la maggior parte dei quali avevano
criticato la dilagante corruzione e le politiche del governo relative alla Cina.
Alcuni blogger sono stati brevemente detenuti. Nella maggior parte dei casi, le
preoccupazioni sulla sicurezza nazionale sono state usate come pretesto per
arresti e indagini penali. Proteste paci?che attuate dai cattolici riguardo alla
proprietà della terra sono state gestite con un uso eccessivo della forza e
arresti parte della polizia. Membri di gruppi di minoranze etniche e religiose
sono stati vittime di minacce e vessazioni. L'Assemblea nazionale ha approvato
l'abolizione della pena di morte per otto reati, ma sono stati mantenuti 21
reati capitali. Sono state comminate almeno 59 condanne a morte e i media hanno
dato notizia di nove esecuzioni. Non sono state rese pubbliche statistiche
uf?ciali sulla pena capitale.
Contesto
La
corruzione ha continuato a rappresentare una problematica cruciale nel dibattito
pubblico. Il 30 giugno, il Vietnam ha rati?cato la Convenzione delle Nazioni
Unite contro la corruzione. Il governo ha rigettato le principali
raccomandazioni derivanti dall'Esame periodico universale. In particolare si è
ri?utato di emendare o abrogare le disposizioni in materia di sicurezza
nazionale del codice penale del 1999 non allineate con il diritto
internazionale; di eliminare altre restrizioni sul dissenso, il dibattito,
l'opposizione politica e i diritti alla libertà di espressione e di riunione; e
di rilasciare i prigionieri di coscienza. Un numero crescente di rivendicazioni
sulla terra ha portato a ottobre all'adozione di un provvedimento per fornire
risarcimento, riallocazione e opportunità di lavoro ai residenti sfollati a
causa di progetti di sviluppo.
Libertà
di espressione - Dissidenti
Sono
proseguiti i rigidi controlli sulla libertà di espressione, compresi i mezzi
stampa, di trasmissione e Internet. Una nuova ondata di arresti è iniziata a
maggio, prendendo di mira avvocati indipendenti, blogger e attivisti
?lo-democratici che avevano criticato le politiche del governo. Le autorità
hanno sostenuto di aver scoperto un complotto "che danneggiava la sicurezza
nazionale", in cui erano coinvolte 27 persone. Uno degli arrestati è stato
condannato a cinque anni e mezzo di carcere a dicembre e almeno altri quattro
alla ?ne dell'anno si trovavano in detenzione preprocessuale. Essi sono stati
accusati ai sensi dell'art. 79 della sezione sulla sicurezza nazionale del
codice penale, per aver tentato di rovesciare lo stato, reato che comporta la
pena di morte. Erano af?liati al Partito democratico del Vietnam, un gruppo
politico in esilio che invoca una democrazia multipartitica. Tutti avevano
criticato pubblicamente i controversi accordi commerciali e le politiche di
con?ne con la Cina.
*Le
Cong Dinh, un noto avvocato, è stato arrestato il 13 giugno. Il governo ha
immediatamente lanciato una campagna propagandistica contro di lui attraverso
gli organi d'informazione controllati dallo stato. Ad agosto, la televisione di
stato ha interrotto le normali trasmissioni per mandare in onda alcuni video
delle sue "confessioni". Egli è stato trattenuto in incommunicado,
senza poter accedere alle visite dei familiari o degli avvocati. Il ministro
della Giustizia ha revocato la sua licenza, vietandogli di praticare la
professione.
Prigionieri
politici/Prigionieri di coscienza
Almeno
31 prigionieri politici, tra cui il prigioniero di coscienza padre Nguyen Van
Ly, Nguyen Van Dai e Le Thi Cong Nhan, sono rimasti in carcere dopo essere stati
condannati al termine di processi iniqui. Tra gli altri ?guravano avvocati,
sindacalisti, membri di gruppi politici indipendenti e di associazioni per i
diritti umani. La maggior parte era stata giudicata colpevole di "aver
guidato la propaganda" contraria alla stato, ai sensi dell'art. 88 del
codice penale.
A
ottobre, nove dissidenti arrestati nel settembre 2008 sono stati processati per
aver dispiegato striscioni, distribuito volantini, postato su Internet notizie
che criticavano le politiche del governo e per aver invocato la democrazia. Sono
stati tutti accusati ai sensi dell'art. 88. Il primo processo si è svolto
presso il tribunale del popolo di Ha Noi, dove i poeti Tran Duc Thach e Pham Van
Troi sono stati condannati rispettivamente a tre e quattro anni di carcere.
*Vu
Hung, un docente di ?sica, al processo è stato condannato a tre anni di
reclusione. Ha iniziato uno sciopero della fame alla ?ne del 2008, dopo che
agenti della sicurezza lo avevano ripetutamente percosso durante un
interrogatorio. Ha iniziato nuovamente uno sciopero della fame al termine del
suo processo per protestare contro la sentenza a suo carico e le condizioni di
detenzione. Agenti di polizia lo avevano arrestato già durante una
manifestazione paci?ca nell'aprile 2008, quando fu picchiato prima di essere
rilasciato.
Nel
secondo processo, sei uomini, tra cui gli scrittori Nguyen Xuan Ngia, di 60
anni, e Nguyen Van Tinh, di 67, sono stati condannati dai tre ai sei anni di
carcere.
Tutti
i nove imputati hanno inoltre ricevuto ?no a quattro anni di libertà vigilata o
di arresti domiciliari al momento del rilascio.
Discriminazione
di gruppi etnici e religiosi
Agenti
della sicurezza hanno continuato ad arrestare, vessare e porre sotto stretta
sorveglianza membri di gruppi religiosi ritenuti essere oppositori del governo.
Thich Quang Do, sommo patriarca della Chiesa buddista uni?cata del Vietnam
(Ubcv) messa al bando, è rimasto agli arresti domiciliari de facto e altri
leader sono incorsi in restrizioni alla libertà di movimento e sono stati posti
sotto stretta sorveglianza.
Le
forze di sicurezza si sono scontrate con cattolici e membri della minoranza
khmer krom in dispute riguardo alla proprietà della terra, ricorrendo a un uso
non necessario della forza e arrestando manifestanti paci?ci.
A
settembre e dicembre, le autorità hanno spinto la folla, tra cui vi erano
poliziotti in borghese, a intimidire, vessare e aggredire ?sicamente quasi 380
seguaci del monaco buddista Thich Nhan Hanh, per costringerli a lasciare il loro
monastero nella provincia di Lam Dong.
Almeno
sei membri della minoranza montagnard degli altipiani centrali sono stati
condannati ad aprile e settembre da otto a 12 anni di carcere con l'accusa di
"compromettere la solidarietà nazionale". Un numero imprecisato di
persone rimaneva in carcere a seguito delle proteste su vasta scala riguardanti
la con?sca della terra e la libertà di culto religioso del 2001 e 2004.
Pena
di morte
A
seguito del dibattito presso l'Assemblea nazionale, i membri hanno votato
l'abolizione della pena di morte per otto reati, tra cui quattro di natura
?nanziaria, riducendo il numero dei reati capitali a 21; il ministero della
Giustizia aveva proposto l'abolizione per 12 reati. È stata mantenuta la pena
di morte per traf?co di droga, reato per il quale viene comminata la maggior
parte delle pene capitali. Il governo ha conservato la propria politica di
segretezza riguardo ogni aspetto della pena di morte, statistiche comprese.
Secondo le notizie dei media, durante l'anno sono state condannate a morte 59
persone e ci sono state nove esecuzioni.