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Anno X N° 432 1/9/10 |
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Bombe
a grappolo di Alessandra Potenza
Il Manifesto - 1 agosto 2010
Il
mondo le mette al bando ma l'Italia no. Le produce. Entra in vigore oggi la
Convenzione che le vieta
Dopo
anni di discussioni e negoziati, entra oggi in vigore la Convenzione sulle
munizioni cluster (Ccm), un trattato internazionale che mette al bando le
cosiddette «cluster bombs», le bombe a grappolo che hanno fatto migliaia di
vittime civili negli ultimi anni. Una grande vittoria per la comunità
internazionale e le vittime di queste armi disumane.
La
convenzione, di cui si cominciò a discutere nel febbraio 2007 a Oslo, è stata
già firmata da 107 paesi e ratificata da 38. Aperta alle firme il 3 dicembre
2008 a Oslo, grazie agli sforzi della Cluster munition coalition (Cmc) e altre
associazioni umanitarie nel febbraio 2010 erano state raggiunte le 30 ratifiche
necessarie perché la convenzione entrasse in vigore.
Fra
gli obblighi vincolanti per gli stati aderenti vi sono: la distruzione entro 8
anni degli stock di bombe a grappolo, l'assistenza alle comunità e alle vittime
delle bombe per un reinserimento nella società, l'identificazione e la bonifica
entro 10 anni delle zone inquinate da bombe a grappolo, e l'assistenza ai paesi
che necessitano aiuto per la distruzione degli stock e la bonifica dei terreni.
Naturalmente, sotto la convenzione, le nazioni aderenti non potranno più usare
né produrre questo tipo di bomba, considerata anche più letale delle mine
anti-uomo.
Le
cluster, infatti, quando vengono sganciate, rilasciano tanti ordigni più
piccoli che si sparpagliano sul terreno e vi rimangono per anni, anche dopo la
fine dei conflitti. Poiché tecnicamente non rientrano nella categoria di mine
anti-uomo, le bombe a grappolo furono escluse dal trattato internazionale di
Ottawa, che metteva al bando appunto le mine, entrato in vigore nel marzo 1999.
Tuttavia gli effetti delle bombe a grappolo sono gli stessi. Spesso quando
vengono sganciati, gli ordigni più piccoli rilasciati dalla bomba rimangono
inesplosi, andando così a costituire una minaccia ancora più grave dopo la
fine dei conflitti, in particolare per i civili. In Libano, per esempio, più di
200 persone sono morte dopo la fine degli scontri con le truppe israeliane
nell'agosto 2006. Questo perché l'esercito d'Israele, dopo il cessate il fuoco,
sganciò migliaia di bombe grappolo sui campi libanesi. Come è intuibile, non
esistono mappe che indichino l'ubicazione delle bombe, a differenza delle mine
anti-uomo, e questo rende il processo di bonifica ancora più difficile e
pericoloso. Inoltre le bombe cluster, per la loro forma e il colore, sono spesso
scambiate dai bambini per giocattoli: il risultato è che fra le vittime civili
almeno un terzo sono minori, secondo quanto riportato dalla Cluster munition
coalition (Cmc).
Di
fronte a questi fatti, va da sé l'importanza dell'entrata in vigore della
Convenzione sulle munizioni cluster. Eppure i principali paesi produttori e
utilizzatori (Stati uniti, Cina, Russia, Israele, India e Pakistan) non hanno
aderito, rendendo meno efficaci i benefici della convenzione. Da buon paese
civile, pronto sempre a dichiararsi contro le brutalità della guerra, neanche
l'Italia ha aderito in pieno: nel senso che ha firmato, ma la ratifica da parte
del parlamento non c'è ancora.
Perché
il nostro paese indugia a fare il passo decisivo nei confronti di un documento
così importante dal punto di vista umanitario? Prima di tutto perché noi le
bombe cluster le produciamo e le conserviamo nei nostri arsenali militari (anche
se la quantità degli ordigni non è conosciuta). Poi, perché la convenzione
richiede agli stati aderenti delle responsabilità concrete: ad esempio la
distruzione degli stock e l'assistenza umanitaria alle vittime, compiti onerosi
che, a quanto pare, il governo non si vuole assumere e non si può (vuole)
permettere.
A
sollevare il caso sono stati alcuni senatori del Pd, che il 28 luglio hanno
presentato un'interrogazione parlamentare al presidente del Consiglio e ai
ministri degli esteri e della difesa, affermando che sarebbe «inaccettabile»
se la mancata ratifica fosse «da ascrivere alle esigenze dei bilanci
ministeriali, anteposti ai diritti umani e al diritto internazionale».
La
petizione «Stop cluster» attivata dalla Campagna italiana contro le mine ha già
superato le 60mila adesioni e oggi, sul litorale romano, i volontari
dell'associazione distribuiranno volantini, raccoglieranno firme e invieranno
delle lettere ai parlamentari incitandoli a ratificare la convenzione.
Mai più bombe a grappolo, in vigore le norme che le vietano di Alberto Chiara
Famiglia Cristiana - 15 agosto 2010
Della notizia s'è rallegrato pubblicamente anche papa Benedetto XVI. Il primo agosto è entrata in vigore la Convenzione internazionale sulle cluster bomb che proibisce produzione, impiego, immagazzinamento e trasferimento delle bombe a grappolo. Queste consistono in contenitori pieni di submunizioni i quali, sganciati dagli aerei, si aprono lasciando cadere gli ordigni su un'area grande quanto due campi da calcio. Esistono cluster bomb sparate da cannoni. Le submunizioni colpiscono molto i civili. Quando non esplodono, e ciò accade spesso, diventano vere e proprie mine.
Finora la Convenzione che bandisce le cluster bomb è stata firmata da 108 paesi compreso il nostro (ma non da Usa, Russia, Israele, Turchia, India, Pakistan e Cina); 38 Stati l'hanno anche ratificata, integrandola pienamente nel loro ordinamento: questo l'Italia non l'ha ancora fatto.
36 i Paesi infestati dalle cluster bomb, dal Ciad al Vietnam |
15 le nazioni i cui militari hanno usato cluster bomb |
34 gli Stati che le hanno prodotte o le stanno ancora producendo |
Nel mondo sono in corso 24 conflitti
PeaceReporter - agosto - 2010
Medio
Oriente
1. Iraq 135.000 morti dal 2003
2. Israele-Palestina 7.000 morti dal 2000
3. Turchia (Kurdistan) 41.200 morti dal 1984
Asia
4. Afghanistan 50.000 morti dal 2001
5. Pakistan (Pashtunistan) 12.000 dal 2004
6. Pakistan (Balucistan) 1.300 morti dal 2004
7. India (Kashmir) 65.500 morti dal 1989
8. India (Assam) 51.800 morti dal 1979
9. India (Naxaliti) 7.200 morti dal 1980
10. Birmania (Karen) 30.000 morti dal 1988
11. Thailandia (Pattani) 3.500 morti dal 2004
12. Filippine (Npa) 40.500 morti dal 1969
13. Filippine (Mindanao) 71.000 morti dal 1984
Africa
14. Somalia 7.400 morti dal 2006
15. Etiopia (Ogaden) 4.000 morti dal 1994
16. R.D.Congo (Kivu) 6.000 morti dal 2004
17. Uganda 100.000 morti dal 1987
18. Sudan (Darfur) 301.200 morti dal 2003
19. Rep.Centrafricana 2.000 morti dal 2003
20. Ciad 2.000 morti dal 2005
21. Nigeria (Delta) 14.800 morti dal 1994
22. Algeria 150.500 morti dal 1992
Europa
23. Russia (Cecenia) 50 mila morti dal 1999
America Latina
24. Colombia 300.250 morti dal 1964
Grano alle stelle, un nuovo incubo fame di Alessandro Bonini
Avvenire - 8 agosto 2010
L'impennata dei prezzi del grano, dai primi di giugno quasi raddoppiati, fa temere una nuova crisi alimentare. A rischio sono soprattutto i Paesi emergenti, dove il fenomeno dell’inflazione è sempre in agguato e una fiammata dei prezzi può incendiare equilibri sociali già precari. Non sarebbe una crisi paragonabile a quella vissuta nei primi mesi del 2008, quando dal Centramerica all’Egitto scoppiarono tumulti con decine di vittime per contendersi una tortilla o un sacco di farina.
Le quotazioni, per quanto elevate, restano al di sotto dei record toccati durante la bolla delle materie prime (13,4 dollari per bushel nel febbraio 2008). Inoltre, secondo le stime della Fao, le scorte mondiali sarebbero più corpose di allora e tali da evitare, almeno per il momento, la ripetizione di uno choc pesantissimo come quello sperimentato due anni fa.
Tuttavia, per ritrovare un simile balzo nelle quotazioni bisogna tornare indietro di decenni. Le tensioni arrivano in una fase di difficile ripresa dell’economia mondiale. E la decisione della Russia di bloccare le esportazioni dal 15 agosto fino all’inizio del 2011 non può che aumentare le pressioni sui prezzi. Dopo l’annuncio fatto giovedì dal premier Vladimir Putin, ieri le quotazioni del frumento sul Chicago Board of Trade hanno aggiornato i massimi degli ultimi due anni. La tempestività dell’ex capo del Cremlino è stata tale che la stessa Unione cerealicola ha chiesto al governo di ritardare l’inizio del bando al primo settembre, per poter consegnare le partite già in viaggio attraverso il Paese.
La Russia nel 2009 è stata il terzo maggiore esportatore di grano, dopo Stati Uniti e Unione europea, ma quest’anno la sua posizione è destinata a precipitare, dopo che gli incendi e una siccità cui non si assisteva da 130 anni hanno decimato i raccolti. Un analista citato dall’agenzia Reuters, Matthew Kaleel di H3 Global a Sydney, ha stimato che verranno a mancare almeno 5 milioni di tonnellate di frumento russo destinato ai mercati esteri. Altri parlano di 15-20 milioni di tonnellate.
Una nota di Barclays Capital spiega che, «se gli aumenti nelle quotazioni saranno sostenuti nel tempo, allora si vedranno aggiustamenti al rialzo nei prezzi dei prodotti venduti al dettaglio». Tuttavia, «essendo i prezzi del cibo un argomento cui la politica è particolarmente sensibile, dobbiamo aspettarci interventi da parte dei governi». Misure d’emergenza, come quella pensata da Putin in un Paese dove l’inflazione incombe in maniera quasi strutturale, oppure tradizionali, come un rialzo dei tassi d’interesse da parte delle banche centrali, che in un momento di fragile ripresa non gioverebbero di certo all’economia ancora convalescente dalla crisi.
Nei Paesi emergenti, in particolare, i prezzi degli alimentari pesano più che altrove nei panieri sui quali è calcolata l’inflazione. Nella stessa Russia il cibo rappresenta il 35% del basket dei prezzi al consumo, di cui almeno due terzi sono potenzialmente colpiti dalla siccità, direttamente (come pane e patate) o indirettamente (carne e latte che sconterebbero i rincari dei mangimi animali). Per questo, dato che come dicono gli analisti «alzare i tassi di interesse non porterà la pioggia», il governo di Mosca sarà tentato di introdurre qualche misura dal sapore nostalgico, come un regime di prezzi controllati. Accadde anche nel 2008.
Il Paese più colpito dal blocco delle esportazioni russe sarà l’Egitto, il maggiore importatore. A rischio anche l’Indonesia, il maggiore importatore di frumento in Asia, e le Filippine. Cina e India, i maggiori consumatori mondiali, possono contare su scorte sufficienti. Mosca ha chiesto a Bielorussia e Kazakhstan di aderire al blocco, in virtù dell’unione doganale che lega i tre Paesi. L’arsura ha infatti colpito anche il "granaio" ucraino.
La scarsità di frumento potrebbe inoltre dirottare i consumi su altre coltivazioni. Così il riso è cresciuto a luglio del 9%, come non accadeva da ottobre, mentre l’indice dei prezzi alimentari della Fao, paniere che include carne, latticini, zucchero e cereali, si è riportato ai massimi degli ultimi cinque mesi.
''Chiudere
Guantanamo? Solo una promessa'' di Lorena De Vita
PeaceReporter - 4 agosto 2010
Asim Qureshi, dirigente esecutivo di Cageprisoners, organizzazione per la salvaguardia dei diritti umani, racconta a PeaceReporter cosa è cambiato dopo l'11 settembre e perchè Obama non ha ancora chiuso Guantanamo
"Le regole del gioco adesso sono cambiate" aveva dichiarato Tony Blair nel 2005, dopo gli attentati terroristici di Londra. A quel tempo però, a non tutti era stato chiaro che questo 'cambio' delle regole avrebbe avuto come diretta conseguenza la violazione dei diritti fondamentali di molte persone appartenenti alla comunità musulmana. Lo aveva invece capito un gruppo di professionisti londinesi, anche loro musulmani, che dal 2003 avevano messo in piedi Cageprisoners (www.cageprisoners.com), una ONG che tutt'oggi si occupa di dare sostegno ai detenuti ed ex detenuti di Guantanamo e alle loro famiglie. Asim Qureshi è il dirigente esecutivo di Cageprisoners e svolge attività di ricerca sulla violazione dei diritti umani a Guantanamo e non solo. Lo scorso anno ha pubblicato un libro nel quale racconta la 'guerra al terrorismo' vista dagli occhi dei detenuti di Guantanamo e delle loro famiglie. "Rules of the game" (www.rulesofthegame.info), appunto.
Perchè lavora per Cageprisoners?
L'attacco dell'11 settembre è avvenuto quando ero uno studente di Diritto Internazionale. Durante gli ultimi anni all'Università ho iniziato a studiare da un punto di vista legale le motivazioni date per giustificare la guerra in Afghanistan e più tardi quella in Iraq. Le contraddizioni mi erano sempre più evidenti. Ho deciso che per come stavano andando le cose, era importante cercare di essere coinvolti, magari per fare la differenza. A guardare le immagini dei prigioniei di Guantanamo, le immagini provenienti dall'Afghanistan e dall'Iraq, ho capito che c'era una parte della storia che doveva essere raccontata. Ho deciso di scrivere la tesi sugli abusi subìti dai prigioneri di Guantanamo, e in questo modo sono entrato in contatto con Cageprisoners. Molte persone dicono che la 'guerra al terrorismo' lanciata da George W. Bush dopo l'attentato alle torri gemelle mi ha 'radicalizzato'. E credo che la cosa si possa vedere anche così.
Cosa intende per 'radicalizzato'?
Per come la vedo io, 'essere radicale' può voler dire tutto. In questo senso è un termine neutro, che assume connotati positivi o negativi a seconda della situazione in cui viene utilizzato, e dal modo. Le parole giocano un ruolo fondamentale. A Cageprisoners cerchiamo di evitare alcune parole, come per esempio 'jihad': perchè in questo momento parole appartenenti a realtà particolari vengono utilizzate in contesti completamente diversi. E una volta che cadi nella trappola tesa dall'utilizzo costante di questa terminologia poi è molto difficile venirne fuori, perchè influenza il modo di percepire la realtà.
Come viene visto il lavoro di Cageprisoners dall'esterno? Deve essere molto facile essere bersaglio di sospetti quando il capo dell'organizzazione (Moazzam Begg) è un ex detenuto di Guantanamo, rilasciato nel Giugno 2005, senza nessuna accusa.
In realtà all'inizio i sospetti venivano soprattutto dalla comunità musulmana: non è stato facile convincere le persone che non siamo simpatizzanti dei terroristi, nè sostenitori dei talebani, cosa di cui ci hanno accusato negli anni. Ma poi la situazione è gradualmente cambiata. Quello per cui lavoriamo è il rispetto dei diritti fondamentali, e la protezione dello stato di diritto. Da quando è stato rilasciato, Moazzam ha svolto un'intensa campagna di informazione sulle condizioni dei prigioneri di Guantanamo e su quello che aveva subìto. La stupefacente assenza di rabbia nel tono della sua voce è riuscita a far capire a molte persone che il nostro non è un lavoro dettato dal rancore: riguarda qualcosa al di là, qualcosa di sacrosanto come la tutela dei diritti umani. Le dicerie magari circoleranno, come è normale che sia. Ma noi non ce ne preoccupiamo troppo e continuiamo a fare il nostro lavoro.
Avere a che fare quotidianamente con delle realtà così drammatiche come quelle che vivono i detenuti ed ex detenuti di Guantanamo non deve essere facile. Qual'è l'aspetto più difficile del tuo lavoro?
Sicuramente, il fatto di essere un membro di quella parte della società che viene spesso stigmatizzata come 'terrorista' e vedere altri membri pagarne conseguenze orribili è qualcosa di molto difficile. Eppure, è anche la mia forza. Voglio dire, praticamente tutti i membri di Cageprisoners sono stati fermati agli aeroporti di mezzo mondo, interrogati, guardati con sospetto, e sicuramente il fatto che alcuni siano ex detenuti di Guantanamo influenza il nostro punto di vista. Ma è proprio l'essere parte della comunità musulmana che ci permette di essere realmente a contatto con i nostri clienti. Questo facilita molto il nostro ruolo di ponte tra le famiglie, i detenuti e le autorità ufficiali, perchè la gente si fida di noi e noi quindi siamo in grado di supportarla nella battaglia per proteggere i propri cari dagli abusi e le violazioni cui sono sottoposti. L'altro elemento difficile, è quello di non essere in gradi di occuparci di tutti i casi di cui vorremmo, perchè siamo un'organizzazione relativamente piccola. Ma cerchiamo di fare del nostro meglio.
Obama aveva promesso di chiudere Guantanamo. Come stanno andando le cose?
Male. La chiusura di Guantanamo era una promessa mirata a demolire un simbolo delle violazioni di testi fondamentali quali la Costituzione e la Convenzione contro la Tortura. Adesso la situazione è in fase di stallo, anzi, pare che in futuro saranno le commissioni militari, e non le ordinarie corti federali come era stato promesso, a occuparsi dei casi dei detenuti di Guantanamo. Ma c'è un altro trend in corso, ancora più inquietante: il ricorso frequente dell'amministrazione Obama alle 'esecuzioni extragiudiziali'. Questa modalità in assoluto nega la possibilità ai sospettati di essere sottoposti ad un processo equo. Paradossalmente, mentre gli ex detenuti di Guantanamo, quelli che sono usciti, hanno avuto la possibilità di raccontare le loro esperienze e di tornare (in alcuni casi) nelle loro famiglie, la persona uccisa da un drone non ha avuto la possibilità di difendersi, nè tantomeno di raccontare. Per non parlare delle vittime civili degli attacchi dei droni.
L’Africa
potrebbe rinunciare al riso asiatico di Miriam Mannak
www.ipsnews.net
- Cape Town - 3
agosto, 2010
La
Tailandia, assieme ad altri paesi esportatori di riso, rischia di perdere
l’alleanza commerciale con l’Africa, se i prezzi continueranno ad aumentare.
Metà dei 10 milioni di tonnellate esportate dalla Tailandia lo scorso anno sono
destinate all’Africa. Nigeria, Benin, Costa d’Avorio e Sud Africa sono tra i
principali acquirenti.
“Alcuni
governi asiatici stanno considerando la possibilità di aumentare il prezzo del
riso per aiutare i loro contadini. In Tailandia l’80 percento della
popolazione lavora nell’agricoltura e costituisce quindi la maggior parte
degli elettori del governo”, dice Miguel Lima del Mozambico, direttore
commerciale di SeaRice Limited. La compagnia svizzera è specializzata
nell’esportazione di riso e Lima ha lavorato nel settore del riso in Africa
negli ultimi 25 anni. All’inizio di quest’anno la principale associazione di
agricoltori della Thailandia – dopo la Cina il più grande paese produttore ed
esportatore del mondo - ha chiesto al governo di intervenire per aumentare il
prezzo di questa coltura.
Motivazione,
il calo del prezzo del riso degli ultimi mesi e la possibilità che gli
acquirenti stranieri posticipino gli acquisti in attesa del taglio dei
prezzi. I paesi africani hanno acquistato 1.4 milioni di tonnellate di riso
tailandese durante i primi 5 mesi di quest’anno, secondo il governo
tailandese. Lo scorso anno, nello stesso periodo, sono state acquistate circa 2
milioni di tonnellate. Il calo ha portato ad un abbassamento dei prezzi. I
contadini tailandesi temono che senza l’intervento del governo il prezzo possa
scendere ulteriormente.
“Il
problema dell’aumento del prezzo – calato dopo essere salito alle stelle nel
2007 e nel 2008 - è che i paesi produttori di riso stanno dimenticando
l’importanza dei paesi africani, loro principali clienti”, sostiene Lima.
“La popolazione africana semplicemente non ha molti soldi da spendere”.
“E’giusto, gli agricoltori devono guadagnare decentemente ma occorre stare
attenti a non spingersi troppo oltre. I consumatori africani faranno marcia
indietro se il riso diventerà troppo costoso, cercheranno altri prodotti
alimentari di base e questo distruggerà il mercato”. Secondo la FAO la media
mondiale dei prezzi del riso è cresciuta del 217 percento tra il 2006 e il
2008.
Nel
2008 il prezzo del riso è aumentato dell’80 percento rispetto al 2007 e ha
battuto il record nel maggio di quest’ anno con 1,038 dollari a tonnellata.
Sebbene da quel momento i prezzi siano scesi, l’incertezza è rimasta. Uno dei
problemi è che non appena si cambierà il riso con un altro alimento di base,
come il miglio o la manioca, non si potrà più tornare indietro, fa notare
Lima. Questo è il caso“non solo perché la modifica di questi modelli
richiede un sacco di fatica, ma anche perché l’agricoltura e l’acquisto di
cereali come il miglio è molto più economico. Quando la gente se ne renderà
conto, non tornerà più ad un alimento così costoso”.
Moses
Adewuyi, del ministero dell’agricoltura e dello sviluppo rurale della Nigeria,
concorda. “Se il prezzo aumenterà, come è già accaduto nel 2007 e nel 2008,
i consumatori nigeriani cominceranno ad usare altri cibi come manioca, mais,
miglio, fagioli e patata dolce. “La Nigeria, così come gli altri paesi
africani, ha molti altri alimenti di base che possono sostituire il riso
diventato oramai troppo costoso”, dice Lima.
“Lo
scorso anno il prezzo nel mio paese è diminuito ma oggi i consumatori pagano
circa 450 dollari a sacchetto. Nel 2007-2008 lo stesso quantitativo costava 900
dollari. Non possiamo permettere che si ripeta di nuovo”, spiega Adewuyi. Una
delle possibilità per la Nigeria - importatore di due milioni di tonnellate di
riso all’anno, di cui la maggior parte proveniente dalla Thailandia – è di
sviluppare l’industria locale del riso così da eludere il problema
dell’aumento dei prezzi. “Il governo sta programmando di aumentare la
produzione così da essere meno dipendente dal mercato orientale”, afferma
Adewuy. La Nigeria è il più grande consumatore di riso in Africa così come è
anche il principale produttore del continente. “Noi produciamo 2.1 milioni di
tonnellate annue di riso lavorato o bianco e 4,2 milioni di tonnellate di riso
non lavorato”, Adewuyi spiega. “Vogliamo aumentare la nostra produzione e la
qualità dei nostri impianti di trattamento e credo che anche gli altri governi
africani debbano farlo”.
Duong Phuong Thao responsabile commerciale del dipartimento export e import in Vietnam, difende l’appello degli agricoltori asiatici per l’intervento del governo. Il Vietnam produce 24,3 milioni di tonnellate di riso all’anno, di cui circa otto milioni di tonnellate vengono esportate. Circa il 30 per cento di queste esportazioni è destinato all’Africa. “I contadini vietnamiti vendono attualmente il loro riso al di sotto del prezzo di costo, e questo non è sostenibile. Abbiamo bisogno di pensare anche ai nostri agricoltori”.
Bombe
«Ied» fatte con mine italiane di Giovanni Stinco, Claudio Magliulo
Il Manifesto - 31 luglio 2010
Ieri
a Roma i funerali solenni dei due artificieri italiani uccisi da un ordigno
artigianale (Ied). E tra i documenti pubblicati da WikiLeaks ne spunta uno
davvero imbarazzante: molti di questi ordigni improvvisati sono confezionati a
partire da vecchie mine italiane. Bombe anti-carro piazzate oltre vent'anni fa
contro i sovietici ma ancora attive e finite nelle mani dei taleban
Sono
italiane molte delle mine che esplodono ogni giorno sotto i blindati Nato, così
come sotto i passi dei soldati. Italiani compresi.
Un
gigantesco cortocircuito, che emerge dagli oltre 90mila documenti militari Usa,
diffusi dal sito di controinformazione WikiLeaks. Migliaia sono i rapporti che
parlano di Italia, e di questi, centinaia sono i resoconti di pattuglie o unità
di artificieri, che parlano di una sola cosa: mine. Mine italiane e congegni
artigianali ma micidiali, gli Ied («Improvised explosive devices»), fabbricati
dai taleban con i nostri stessi ordigni. Abbiamo reso un grande servizio
all'Afghanistan: prima imbottito di TC-6 («le Ferrari dell'esplosivo anti-carro»,
stando agli esperti), poi percorso dai nostri blindati. Le strade afghane
parlano di Italia a ogni chilometro. Morti e crateri inclusi. Unico neo: quegli
«unsufferables» di Emergency (come li definiscono i rapporti Usa), che
ricuciono i corpi dilaniati.
Il
database di WikiLeaks parla chiaro. Il primo report disponibile a riguardo è
datato 6 gennaio 2004. In una perquisizione all'interno di edifici governativi
che dovevano ospitare medicine e cibo, viene scoperto un deposito di armi,
munizioni ed esplosivi. Tra questi alcune mine italiane anti-carro di tipo 2.4 e
TC-6. Da quella data si susseguono senza sosta le testimonianze dei micidiali
Ied, in gran parte realizzati con parti di ordigni nostrani.
A
quanto pare sono proprio queste mine anti-carro il prodotto made in Italy più
diffuso in Afghanistan. Il 14 settembre 2006, quando un mezzo militare Nato
viene colpito da uno Ied, si analizza il cratere, e il responso è: mina
pakistana... o italiana. Il 5 maggio un'altra pattuglia italiana era stata
investita da un'esplosione da Ied vicino Kabul. Due morti e quattro feriti. Il
tenente Manuel Fiorito, 27 anni, e il maresciallo ordinario Luca Polsinelli, 29
anni, perdono la vita. Ma non compaiono nel documento Usa. Il 28 agosto 2008
un'altra mina distrugge un blindato italiano e ferisce i tre militari al suo
interno; questa volta è senza dubbio una mina italiana.
Sono
tre i tipi di ordigni italiani sepolti in Afghanistan, e in totale rappresentano
un quarto delle mine anti-carro. Le TC-6, prodotte dalla barese Tecnovar srl, e
le 2.4 e Valmara 59 prodotte dalla Valsella Meccanotecnica di Castenedolo,
Brescia. Sono dispositivi molto resistenti (durano oltre 50 anni sotto terra,
molto più di qualunque protesi) e sono in grado di generare voragini ampie
decine di metri. Come quella del 24 maggio 2006: un camion salta su una mina,
vicino Yaqubi. Due civili afghani muoiono, un terzo rimane ferito. Gli
artificieri Nato riportano: «Il cratere dell'esplosione era profondo 23 metri e
ampio 84. A giudicare dalla dimensione del cratere e dalla mancanza di
frammenti, era presumibilmente una TC-6 italiana».
Ma
come ci sono arrivati lì questi ordigni? Il generale Franco Termentini, esperto
di bonifiche, non ha dubbi: «Sono lì da prima del marzo 1989». Si
tratterebbe, insomma, di forniture di armi fatte dagli americani agli insorgenti
afghani in chiave anti-sovietica. Dopo il ritiro dell'Armata Rossa
dall'Hindukush, le mine sono rimaste là e negli anni hanno costituito una vasta
risorsa di esplosivi per i «nuovi nemici» taleban, dopo l'11 Settembre 2001.
Lo conferma un ufficiale del Pentagono citato dall'Asia Times: le TC-6 di
fabbricazione italiana sono «assai comuni» nelle zone sotto il controllo
taleban e «continuano a minacciare in modo significativo le forze della Nato».
Ma
da quale oscura fabbrica sono usciti questi strumenti di morte? Lo racconta
Franca Faita, ex operaia della Valsella Meccanotecnica. Un giorno il fondatore
di Emergency Gino Strada le presenta una cassetta piena di mine TC-6 e Valmara
59 chiedendole se le conoscesse e a cosa servissero.
«A
difendere il territorio dal nemico» dice Franca, perché questo le avevano
detto. Strada le parla delle vittime civili, dei bambini. E Franca cambia idea.
Con i suoi compagni in fabbrica lotta per chiedere la riconversione dell'azienda
in senso civile. «Perché per lavorare e vivere dobbiamo costruire mine che
uccidono?» chiedono. Alla fine, grazie a una legge approvata anche per gli
sforzi degli operai, la Valsella smette di produrre esplosivi.
Ma
le mine restano. Ieri nella chiesa di S. Maria degli angeli e dei martiri a Roma
si sono tenute le esequie del caporalmaggiore capo Pierdavide De Cillis e del
maresciallo Mauro Gigli, i due militari morti mercoledì in Afghanistan durante
la bonifica di un ordigno. I feretri sono stati accolti dal presidente della
Repubblica Napolitano e dalle massime autorità.
Non sappiamo se la mina che stavano disinnescando fosse italiana, di derivazione italiana o che altro. E forse non importa. Non è infatti l'ironia del destino ad aver portato in terra afghana prima le mine e poi i blindati Nato, ma la stessa cultura di morte.
Massacro dei taleban: «Uccisi 9 volontari cristiani»
Avvenire - 7 agosto 2010
Un
gruppo di medici stranieri (sei americani, un britannico ed un tedesco) di
una ong cristiana sono stati brutalmente assassinati a colpi d'arma da
fuoco insieme a due accompagnatori locali nell'Afghanistan
nord-orientale dai talebani che hanno rivendicato il gesto accusando le vittime
di aver svolto proselitismo, ma soprattutto di aver cercato di localizzare le
basi degli insorti in un distretto della provincia di Badakhshan. Li hanno messi
in fila e fucilati, ha raccontato un interprete che è stato salvato perchè, ha
raccontato, si è messo a recitare il Corano.
Poco dopo che le prime informazioni sul massacro dei sette uomini e delle
tre donne del gruppo sono state diffuse dai media afghani, il direttore della
International Assistence Mission (Iam), Dirk Frans, ha firmato a Kabul un
comunicato in cui ha confermato che «le vittime erano operatori della sua
associazione caritativa» senza scopo di lucro, in Afghanistan dal 1966.
In questa lunga storia la Iam ha perso nel conflitto quattro operatori,
prima di questa recente vicenda, e subito le violenze dei talebani che, al
potere nel 2001, espulsero i suoi membri per tre mesi dal paese. Lo stesso
Frans ha chiarito ai giornalisti che il capo della missione che si era recata
per due settimane nel Nuristan, al confine con il Pakistan, per un
progetto oculistico con la popolazione di vari villaggi, era
l'optometrista americano Tom Little. Di essa faceva parte anche una nota
professionista britannica, Karen Woo.
«I volontari di questa associazione sono persone molto preparate - ha
detto il medico afghano Aref Oryakhail, impegnato con la Cooperazione italiana -
e il loro lavoro è molto apprezzato negli ospedali dove operano a Herat, Kabul
e Jalalabad».
Terminato il lavoro in Nuristan, hanno riferito presso la sede dell'Iam,
il gruppo si è messo in viaggio per rientrare a Kabul. L'ultimo contatto
via telefono satellitare con la base è avvenuto mercoledì. Su quello che è
successo poi esistono solo notizie frammentarie.
Il governatore del Nuristan, Jamaluddin Badar, ha detto di avere saputo
che i medici, a bordo di tre fuoristrada, hanno attraversato il confine
con il Badakhshan ieri. «Si sono fermati - ha riferito - in un ristorante
per il pranzo nella impervia Sharron Valley delle montagne dell'Hindu Kush».
Dopo questo passaggio è venuto il cruento epilogo. Il capo della polizia
locale, generale Aqa Noor Kintoz, ha detto che in base a testimonianze di
residenti della zona, «un commando di uomini armati con barbe rosse hanno
aperto il fuoco sui veicoli catturando il gruppo e trasferendolo in una zona
remota dove i medici e due afghani sono stati barbaramente uccisi». Si deve
ricordare che è tradizione in certe zone tribali afghane e pachistane che gli
uomini si tingano le barbe con hennè.
Due le rivendicazioni dell'operazione. La prima da parte del gruppo
Hezb-i-Islami di Gulbuddin Hekmatyar, che effettivamente, opera a cavallo della
frontiera afghano-pachistana, e la seconda dei talebani del Mullah Omar. Gli
analisti sono propensi ad accreditare piuttosto quest'ultima. Prima, per
telefono, il portavoce degli insorti Zabihullah Mujahid ha sostenuto che i «missionari
cristiani» facevano proselitismo ed «avevano Bibbie in dari da distribuire
alla gente». Poi, in un comunicato pubblicato nella pagina web,ha assicurato
che svolgevano «nell'area una missione clandestina contro i mujaheddin,
con l'obiettivo di localizzare le loro basi nel distretto di Kuran Minjan».
Uno dei loro interpreti afghani sarebbe stato risparmiato dai talebani perché
ha recitato alcuni versetti del Corano. L'uomo, di cui è stato reso noto solo
il nome, Saifullah, ha raccontato alla polizia che il gruppo aveva «passato
diverse notti all'aperto. Poi l'ultimo giorno un gruppo di uomini armati è
arrivato, li ha messi in fila e li ha uccisi. Poi hanno rubato tutto». È stato
proprio nel momento dell'esecuzione che l'uomo ha recitato alcuni versetti del
Corano e i Talebani, rendendosi conto che era un musulmano, lo hanno graziato.
Cartoline dall'Algeria - 29 di p. Silvano Zoccarato
Touggourt - agosto 2010
Rendere
presente e credibile Dio
Il card Tauran, presidente del Pontificio Istituto per il dialogo interreligioso, il 17 nov. 2009 ha detto che cristiani e mussulmani hanno insieme una triplice sfida da affrontare : La sfida della identità, dell’alterità e della sincerità. La sfida dell’identità è sapere chi si è.
L’identità di cui parla il cardinale è la santità, come leggiamo in Levitico: “Siate santi perché io il Signore, vostro Dio, sono santo”(Lev 19,2). Dio ha affidato agli uomini il compito di far riconoscere e di testimoniare la sua santità. “Non profanate il mio nome perché santifichi me stesso tra i figli d’Israele”(Lev. 22,32).
I credenti in Dio hanno una stessa vocazione… missione …responsabilità, cioè rendere presente il Dio che amano, e rendere credibile il Dio in cui credono. La preghiera che Dio mette nel nostro cuore, non solo è parola da pronunciare, ma soprattutto parola da vivere.
Musulmani e Cristiani hanno preghiere simili ispirate da Dio stesso e Dio le ispira perché vuole che siano strumenti della sua volontà.
In queste preghiere c’è una espressione molto impegnativa: La misericordia di Dio.
Ecco la fatiha, la prima sura del Corano che i musulmani pregano spesso:
1. Nel nome di Allah, il Clemente il Misericordioso
2. Lode ad Allah il Signore dei mondi
3. Il Clemente, il Misericordioso
4. Signore del Giorno del Giudizio
5. Te noi adoriamo ed a Te ci rivolgiamo per aiuto
6. Mostraci la retta via
7. La via di coloro cui hai concesso la Tua grazia, di coloro che non suscitano la Tua ira e che non vagano nell'errore. Amen
Nella preghiera del Padre Nostro, dataci da Gesù, diciamo: “Padre… perdona a noi come noi perdoniamo…”
Cristiani e musulmani dobbiamo credere e vivere la misericordia che Dio vuol continuare in noi e per noi.
Mai siamo così vicini a Dio come quando viviamo la misericordia verso il nostro prossimo.
Anche noi saremo più credibili!
Touggourt - 8 agosto
Chi è l’altro?
Il card Tauran, presidente del Pontificio Istituto per il dialogo interreligioso, il 17 nov. 2009 ha detto che cristiani e mussulmani hanno insieme una triplice sfida da affrontare : La sfida della identità, dell’alterità e della sincerità.
Qual’ è la sfida dell’alterità. Chi è l’altro?
L’alterità è accettare la diversità come elemento di arricchimento comune, dice il Card. A questo hanno dedicato numerosi studi filosofi, sociologhi, psicologi, economisti, politici e i teologi che riconoscono la ricchezza di tutte le esperienze religiose. Ma più che le caratteristiche e i valori dell’altro, è l’altro stesso che va capito e riconosciuto. Il primo ad aiutarci a capire veramente il tema dell’alterità è Dio quando chiede a Caino: “Dov’è tuo fratello?” In ogni uomo c’è un fratello, un figlio di Dio. La domanda e la voce di Dio è la domanda e la voce del sangue.
Carlo Maria Martini nel giugno 1995 ha scritto: “Vorrei ricordare una parola di Italo Mancini in uno dei suoi ultimi libri Tornino i volti, quasi un testamento: «Il nostro mondo, per viverci, amare, santificarci, non è dato da una neutra teoria dell’essere, non è dato dagli eventi della storia o dai fenomeni della natura, ma è dato dall’esserci di questi inauditi centri di alterità che sono i volti, i volti da guardare, da rispettare, da accarezzare»”.
Benedetto XVI ai partecipanti al Convegno interaccademico su “L’identità mutevole dell’individuo” ha detto: “Ogni progresso scientifico sia anche progresso d'amore” e ha spiegato: “L’uomo non è frutto del caso, né di un fascio di convergenze e determinismi e neppure d’interazioni fisico-chimiche”. Come sottolineava Pascal, ha detto il Papa, “l’uomo supera infinitamente l’uomo”. Il mistero dell’uomo è “segnato dall’alterità”. L’uomo è creato da Dio, “è amato e fatto per amare”. In quanto uomo, ha ribadito, egli non è mai “chiuso in se stesso” ma è portatore d’alterità e sin dalle sue origini è in interazione con gli altri esseri umani. L'amore fa uscire da se stessi per scoprire e riconoscere l'altro; aprendo all'alterità, afferma anche l'identità del soggetto, poiché l'altro mi rivela me stesso….Il modello per eccellenza dell'amore è Cristo. È nell'atto di dare la propria vita per i fratelli, di donarsi completamente che si manifesta la sua identità profonda e che troviamo la chiave di lettura del mistero insondabile del suo essere e della sua missione”.
Tommaso D’Aquino vede in Paradiso un’alterità beata: “La vita eterna consiste nella società giubilante di tutti i beati, Gioia grande perché ciascuno possiederà tutti i beni dei beati. Ognuno amerà l’altro come se stesso e quindi gioirà del bene dell’altro come del suo proprio bene.”
E San Francesco di Sales : « Le belle amicizie di questa vita continueranno eternamente nell’altra”.
Il Concilio Vat. II dice ancora : “I Cieli nuovi e la terra nuova senza lacrime saranno anche il risultato dell’impegno dell’uomo. “I valori di dignità, di comunione fraterna e di libertà, frutti eccellenti di natura umana e di seria iniziativa che abbiamo propagati secondo la volontà del Signore e nel suo Spirito, noi li ritroveremo più tardi… purificati,… illuminati… trasfigurati.” E così possiamo concludere: “Il regno dei cieli si forma già qui, e sarà perfetto quando il Signore verrà!” (GS 39).
Padre Christian Marie De Chergé, priore del monastero di Notre-Dame d’Atlas, superiore dei sette monaci uccisi, ha scritto nel suo Testamento: “Se mi capitasse un giorno (e potrebbe essere anche oggi) di essere vittima del terrorismo ….Ecco che potrò, se piace a Dio, immergere il mio sguardo in quello del Padre, per contemplare con lui i suoi figli dell’islam come lui li vede, totalmente illuminati dalla gloria di Cristo, frutti della sua passione, investiti dal dono dello Spirito, la cui gioia segreta sarà sempre lo stabilire la comunione e il ristabilire la somiglianza, giocando con le differenze.
E anche a te, amico dell’ultimo minuto, che non avrai saputo quel che facevi. Sì, anche per te voglio dire questo grazie e questo ad-Dio … E che ci sia dato di ritrovarci, ladroni beati, in paradiso, se piace a Dio, Padre nostro, di tutti e due”. Tibhirine, 1 Gennaio 1994
Touggourt - 16 agosto
Cari
amici, vi auguro che siano belli anche gli ultimi giorni di vacanze, per chi li
fa e per chi non li fa. Vi devo dire che qui fa ancora terribilmente caldo,
raggiungendo anche i 50° all’ombra dove c’è. Pensate agli amici musulmani
che vivono il Ramadan. Eppure vedo i miei amici contenti … Stanno vivendo
anche dei bei valori di disciplina, di preghiera e di amicizia fraterna.
Ricordiamoli nella preghiera.
Sincerità nel condividere
E’ la terza sfida che hanno insieme cristiani e mussulmani come ha detto il card Tauran, presidente del Pontificio Istituto per il dialogo interreligioso, il 17 nov. 2009.
La sfida della sincerità è dialogare proponendo la propria fede, dentro i limiti del rispetto e la dignità di ognuno. E’ anche disponibilità a riconoscere la verità e a far conoscere ciò che pensa.
Mentre riflettevo su questo tema mi è arrivata la notizia della morte di Rania, donna musulmana che mesi fa, nel pellegrinaggio a Tamanrasset, era seduta accanto a me nel luogo della morte di De Foucauld e raccontava al gruppo alcuni momenti dell’eremita e dello studioso.
Chi è Rania? Traduco da un notiziario appena giuntomi:
“Rania, una giovane donna musulmana di 32 anni è deceduta pochi giorni fa, trasportata dalla corrente improvvisa di un oued a Tamanrasset. Tragedia per la sua famiglia e per tutta la comunità cristiana. Da alcuni anni era stretta collaboratrice del Piccolo Fratello Antonio Chatelard, negli studi su Charles de Foucauld. Accompagnava i gruppi di turisti soprattutto a visitare il « Bordj » dove era stato ucciso Charles de Foucauld. Fu presente a Roma alla beatificazione e diede una lunga testimonianza che ci aiuta a capire il cammino di una musulmana sui passi di De Foucauld. Alcuni stralci:
“I visitatori, anche musulmani, mi chiedevano, il perché del mio studio, lavoro, accompagnamento di Fr. Charles. Mentre cercavo di capire, mi accorgevo che stavo cercando di capire me stessa.
Lessi la sua ricerca nei momenti più difficili della sua vita e il suo sforzo per uscirne. C’è voluto del tempo. Non è stato facile. Avevo paura di perdere la mia identità e le mie radici. Mi sembrava di trovarmi in un crocevia di separazione. Al contrario lo vivo come un crocevia di incontro e di comunione. Attraverso lì, ho scoperto quanto c’è in me di ricco e di unico, senza aver perso la mia identità. Cammino sugli stessi passi di Fr Charles e trovo la forza di vivere il mio cammino senza paura”.
Comunicandoci la notizia, il vescovo, mons Rault scrive: “Molto vicina alla comunità cristiana è rimasta se stessa: donna musulmana di grande fede e ardore di vita. Rania appartiene a Dio. Ha raggiunto tutti coloro che come Maria hanno detto il loro “Si” , appartenenti a qualsiasi credo”.
E’ questo “si” che i membri del dialogo vivono e comunicano. Un “si” a se stessi, a Dio, agli altri, in una ricerca continua fedele al progetto di Dio su ciascuno di noi. E’ la sincera voglia di impegnare la propria vita, di darle un senso e di condividerlo. I membri del dialogo, musulmani e cristiani, si impegnano alla coscienza del “Dono di Dio” ricevuto e vissuto in uno scambio di valori vitali in sincerità, disposti continuamente anche alla revisione.
E lo studioso islamico Yahya ‘Abd al-Ahad Zanolo scrive: “La sincerità … potrà essere ciò che veramente accomuna i veri dialoganti, che in essa troveranno un mezzo per non confondere ciò che è universale e spirituale con i propri interessi particolari e materiali”.
In momenti sinceri che vivo con alcune persone, mi lascio sorprendere a qualcosa di bello. Cresce un rapporto. Nel dialogo e nell’amicizia, ognuno sente gioia a dire quello che trova e che vive in profondità. Percepisce e apprezza il cammino e le ricchezze dell’altro, sente che tutto ciò supera le diversità, e ognuno si sente bene com’è. Ma qualcosa cresce… senza paura di dargli spazio e senza paura di dover lasciare qualcosa.
Touggourt - 23 agosto
Ferragosto a Dhanjuri di p. Adolfo L'Imperio
Dhanjuri - 15 agosto 2010
Nei
diversi villaggi della missione di Dhanjuri da diversi anni gruppi di donne
cattoliche si riuniscono e formano il “Gruppo di Maria”. Hanno l’impegno
della recita del rosario, la preghiera insieme in sabato ed anche la raccolta in
quel giorno per motivi vari. Inoltre aiutano perché ci sia l’armonia nel
villaggio, specie quando gli uomini non ci riescono.
Questa
volta hanno deciso di convergere tutti i gruppi a Dhanjuri per celebrare insieme
la festa dell’Assunzione.
Da
15 villaggi, distanti anche 35 kilometri sono giunte con vari mezzi di trasporto
in 355. Il gruppo di Dhanjuri è stato responsabile dell’accoglienza e
dell’organizzazione. Gli arrivi sono iniziati alle 8 di mattina e sono
continuati a scaglioni sino alla 9. Dopo una colazione, ospitate dai ragazzi del
boarding di St.Benedetto, in processione danzando si sono avviate verso la
Chiesa. Qui il parroco P.Cherubim Bakla ha presieduto l’Eucarestia. Una
celebrazione di due ore che ha avuto momenti di danza e canti che l'hanno
accompagnata e resa viva. Molte delle persone presenti, nei loro villaggi
riescono ad avere l’Eucarestia tre-quattro volte all’anno. Durante la
preghiera si ricorda l’uccisione il 15 Agosto del 1975 di Seck Mujbur Rohoman,
padre del Bangadesh. Dopo una piccola sosta, la giornata continua con momenti di
riflessione condivisa:
1.
L’impegno della preghiera con la corona del rosario, presentata da Condona
Hembrom, Sr.Nohel (coreana) e Sr. Celestina, animatrici diocesane.
2.
Il posto della donna nella società degli aborigeni (Santal, Oraon) presentata
dalla Sig.ra Nomita Malo della World Vision.
3.
Il “gruppo di Maria” nella Chiesa del Bangladesh presentata da Sr. Rotna
Rosario.
La
riflessione è continuata sino alle tre del pomeriggio.
A
questo punto invito a tutti di recarsi a tavola per il pranzo servito dai
ragazzi del Baording.
Si
continua a chiacchierare prima di inziare il ritorno a casa. Sono le cinque del
pomeriggio ed il sole cala e chiude la giornata.
In
cucina ci sono le pulizie da fare, dopo che tutti hanno mangiato hanno il loro
riso anche coloro che hanno svolto il servizio “logistico”.
Stanchi
andremo a dormire sicuri che Maria ci segue e guida sulle vie di questa terra.
“Prega
per noi peccatori, ora e nell’ora della nostra morte. Amen”
Fr.Adolfo, cronista traduttore dal bengalese
Ferragosto bengalese di p. Quirico Martinelli
Suihari - 14 agosto 2010
Esami di Ferragosto... I nostri bambini hanno finito gli esami del secondo quadrimestre giovedi' 12 agosto: qui la scuola continua regolarmente tutta l'estate e termina ai primi di dicembre con gli esami finali dell'anno... dato che qui nessuno parla di ferie o di andare al mare o ai monti... |
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Pesca di Ferragosto... Appena finiti gli esami, grande pesca tutti insieme nel pukur (laghetto) dei pesci gatto: un grande divertimento e un grande bottino: 153 grossi pesci... tutti hanno mangiato a sazieta' e ne sono avanzati anche 12 da dare ai bambini del villaggio vicino... |
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Partita di Ferragosto... Poi una bella partita, interminabile, senza orologio e senza arbitro, nonostante il campo allagato: siamo nella stagione delle piogge e questo e' normale: ma ci si diverte lo stesso, anzi di piu'... |
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Gita di Ferragosto... con cinque giovani italiani che sono venuti a trovarci: c'e' stato qualche imprevisto sulle strade fangose dei villaggi; ma a tutto c'e' rimedio, con l'aiuto della gente del posto... |
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Digiuno di Ferragosto... I nostri fratelli mussulmani giovedi' 12 Agosto hanno iniziato il Ramadan: il mese di preghiera e digiuno, segno di purificazione e conversione. Con questo caldo certo non e' facile fare digiuno dall'alba al tramonto, senza mangiare e bere: infatti mangiano prima dell'alba e dopo il tramonto del sole. Alcuni giovani del college qui vicino vedendo passare la suor Luigina, la piu' anziana delle nostre suore, le hanno detto,chiamandola affettuosamente "nonna": "Nonna, prega per noi,perche' abbiamo a convertirci". Bellissimo! |
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Arcobaleno di Ferragosto... Qualche giorno fa e' apparso nel cielo un arcobaleno perfettamente circolare, rotondo, con il sole nel mezzo... un fenomeno mai visto da nessuno: tutti guardavano stupiti verso il cielo... qualcuno azzardava previsioni catastrofiche: " vedrai che verra' l'alluvione, come in Pakistan e in India..." Ma l'arcobaleno non e' il segno della pace di tutto il creato, dopo il diluvio? E allora speriamo che sia veramente portatore di pace e di speranza... Buon Ferragosto a tutti |
I miei 44 anni in Bengala (quinta ed ultima parte)
Servizio Speciale in Mondo e Missione - luglio 2010
Intervista di Piero Gheddo e Sandro Bordignon a p. Ferdinando Sozzi
Clicca qui per leggere l'articolo completo sul nostro sito. E' disponibile anche in forma compressa.
Alle tre di notte mi alzo a pregare
Questa può sembrare una filosofia da quattro soldi, ma nella vita un po’ di banale buon senso non guasta mai, anche ai più grandi filosofi e teologi. E soprattutto vorrei dire che dobbiamo essere ottimisti sul futuro del mondo e della chiesa. Tornando in Italia ho ammirato tanti giovani impegnati: il mondo giovanile, secondo me, oggi è più aperto alla comprensione degli altri, più disinteressato, più colto, più disponibile ad un discorso di fede, di quanto non lo fossimo noi ai nostri tempi. Il mio può essere un giudizio superficiale, perchè sono in Italia solo da pochi mesi, ma forse queste impressioni di uno che torna dopo tanto tempo sono quelle che valgono di più.
Mi dicono: mancano le vocazioni, i giovani non vogliono più impegnarsi. E’ vero, può anche darsi che sia una crisi momentanea, delle strutture che devono adeguarsi; ma è possibile che sia anche una crisi più profonda. Ho l’impressione che molti cristiani, giovani e vecchi, laici e preti e suore, non sappiano più pregare. Non c’è più un insegnamento costante sulla preghiera e sull’ascesi, sulla mortificazione: per cui i giovani, che pure sono disponibili ed hanno tante belle qualità che noi non avevamo, non ricevono un indirizzo giusto, non hanno l’illuminazione necessaria per scegliere Dio. E’ inutile illudersi: una vocazione sacerdotale o religiosa o anche di impegno apostolico laicale nasce e si matura solo a due condizioni: molta preghiera e molta mortificazione. Bisogna sapere dire di no a se stessi, essere capaci di donazione totale, altrimenti non si ha l’esperienza autentica di Dio e non si sente attirati da Lui. Qualche mese fa, appena tornato in Italia, è venuta a trovarmi una ragazza e mi dice che vuole farsi suora missionaria. Le dico che l’intenzione è buona, ma prima deve provare la gioia di incontrare personalmente Cristo, la gioia di passare un’ora in preghiera sola con Cristo. Così cerco di guidarla per qualche tempo, poi ad un certo punto le chiedo: ma perchè non riesci a gustare la preghiera? Mi dice: “Sa, forse perchè ho preso delle cattive abitudini in campo sessuale, da cui non riesco a staccarmi... ma il mio confessore mi ha detto che queste cose non sono peccato...”. Io non voglio giudicare un mio confratello che non conosco: ma certo ha indirizzato male quella ragazza che ormai, presa una certa strada in discesa, è difficile che si rimetta sulla strada in salita. Cosa c’entra se è peccato o non è peccato? Non è questione di legge, ma questione di amore, di generosità, di una misura più o meno grande di donazione a Dio. Io sono convinto che molti giovani non sono guidati bene, si ha paura di proporgli degli ideali forti, li si vuole accontentare in tutto o quasi... Ho visto anche molti genitori buoni, cristiani, ma che educano i figli ad avere tutto, gli concedono tutto, pensano di essere affettuosi perchè non dicono mai di no: ma che educazione è questa? E come volete che un giovane educato così non sia uno sposato a venti o venticinque anni? Torniamo alla preghiera e alla mortificazione. Solo chi è libero può donarsi a Dio; solo chi prega sul serio riesce ad essere mortificato. Di qui non si scappa. Voglio dire al lettore una mia esperienza e la dico quasi con vergogna, ma non è una cosa mia particolare, sebbene di molti missionari che io conosco, e anche io l’ho imparata dai missionari più anziani, quando andai in Bengala nel 1929. Bene, da quei primi anni di missione io ho preso l’abitudine di alzarmi molto presto tutte le mattine, per passare le prime due-tre ore continuate tutte le mattine con Dio, ci si sente trasformati e con una forza che non è propria. Io non vorrei adesso che qualche giovane rinunciasse al sonno per fare pazzie. Là in Bengala noi andiamo a dormire con le galline e possiamo alzarci comodamente anche alle tre del mattino. Ma voi che volete seguire Cristo, invece di alzarvi alle tre del mattino, rinunciate a qualche conversazione inutile e ritiratevi a pregare soli con Dio, non abbiate paura di dargli troppo tempo!
Ho un conto aperto con cobra e leopardi
Questa storia dell’alzarmi nella notte per pregare,mi è stata utile in almeno due circostanze: una volta mi ha permesso di salvare tutte le suppellettili della chiesa; l’altra volta mi ha salvato la vita... Dunque, una notte mi alzo e vado nella chiesa di Saidpur. C’erano due ladri che stavano rubando. Apro la porta e li trovo dentro, tutti stupiti che nel fondo della notte il padre fosse andato in chiesa. Grido: “Cosa fate, disgraziati, rubare in chiesa?” Erano due tipacci grandi e grossi di un villaggio vicino. Avevano già messo in due sacchi i candelieri, paramenti, calici e tutto quel che c’era in chiesa. Erano paralizzati dallo spavento. Vado, li prendo per il braccio e li porto fuori chiesa, per chiamare la gente che venissero a dargli una punizione. Ma mentre incomincio a gridare, loro si riprendono dallo spavento, si liberano facilmente di me e scappano a gambe levate... Un’altra volta, vado ancora in chiesa alle tre di notte. Verso le cinque sento che la gente grida. Esco e una decina di uomini armati di bastoni sono attorno alla mia casetta. Mi dicono: “Padre, il leopardo è entrato nella tua stanza da letto; meno male che tu eri in chiesa, altrimenti chissà cosa ti capitava... Adesso bisogna ucciderlo”. Prendo un grosso bastone e mi metto fuori della porta della stanza e dico: “Fate un gran fracasso, in modo che esca ed io lo possa tramortire con una bastonata”. Così fanno e io sto con il bastone alzato. Il leopardo, dopo un po’, esce piano piano. Io gli calo un gran colpo sul collo. Come se l’avessi accarezzato. Si gira col muso a non più di mezzo metro dalle mie gambe, fa un gran boato e poi spicca un salto verso la foresta e scompare. Che paura ragazzi! Era un bestione tale che se solo mi avesse toccato mi mandava al creatore. E io che volevo bastonarlo... Ma se dovessi raccontare tutte le avventure con gli animali, non finirei più e andrei fuori argomento. Ne conto ancora una. Mentre visitavo un villaggio cristiano, la notte vado a dormire nella chiesetta di fango. In un angolo per terra, stendo la mia stuoia, metto il cuscino e un’altra coperta sopra, per prepararmi il letto per la notte. Poi rimango alzato parecchio a chiacchierare con gli uomini. Vado a letto, dormi duro e al mattino, ripiegando la stuoia per portarla via, sapete cosa trovo sotto? Un cobra stecchito! Si vede che si era rifugiato sotto la stuoia mentre io non c’ero. Poi, andando a dormire, l’ho schiacciato e ucciso senza accorgermene. Bastava facesse in tempo a pungermi da qualche parte e io ero un uomo morto... Si vede proprio, in tante occasioni, che Dio ci protegge. Un’altra volta, in un altro villaggio cristiano, avevo fatto fare un gabinetto rudimentale in un boschetto di bambù: un buco in terra e un po’ di frasche attorno. Al mattino vado e, mentre sto per accovacciarmi, sento il fischio caratteristico del cobra proprio dietro di me. Mi vengono i sudori freddi alla nuca, ma faccio tempo ad alzarmi, mi giro e vedo il cobra tutto teso, pronto a colpire, già mezzo fuori dalle frasche, in posizione di attacco. Avete mai visto uno scappare con i pantaloni in mano?, Beh, io sono uscito dal boschetto in quel modo. I miei cristiani hanno riso per una settimana, io ho sofferto di stitichezza per quindici giorni.
I veri rivoluzionari sono i santi
Oggi si parla tanto di metodi pastorali, si fanno congressi per studiare metodi nuovi. Tutte belle cose: io però non credo ai metodi, ma allo spirito che anima qualunque metodo. Io le ho provate tutte in Bengala, ho fatto lavorare i catechisti, sono andato in giro per mesi nei villaggi, ho suonato la chitarra e mandolino come un saltimbanco ho provato le cooperative e le banche agricole, ho fatto la catechesi individuale e di gruppo, ho provato i teatri a sfondo religioso, insomma tutte le novità le ho tentate. Eppure, se debbo essere sincero, mi sono sentito veramente missionario, ho avuto conversioni e la fiducia della gente, quando pregavo di più. E’ giusto preoccuparsi dei metodi, delle forme pastorali, della teologia, ma non bisogna mai dimenticare che il lavoro non lo facciamo noi, ma lo Spirito; e chi redime, salva e libera l’uomo è solo Gesù Cristo. E l’uomo, gli uomini, anche i più poveri, non hanno tanto bisogno di noi, dei nostri aiuti, delle nostre opere, ma hanno bisogno di Gesù Cristo: se noi riusciamo ad essere strumenti adatti per Dio, bene, portiamo dei frutti; altrimenti facciamo fallimento anche se costruiamo grandi scuole e se facciamo i riformatori sociali. Ecco, io credo che ai giovani dobbiamo dare questa formazione profonda. E credo anche che siano disponibili a questo discorso, perchè è il vero discorso della fede. Molti invece illudono i giovani dicendo loro: dovete fare i rivoluzionari, dovete correre dietro tutte le novità della teologia e della sociologia, dovete abbattere le vecchie tradizioni e strutture, dovete contestare la società corrotta e via di questo passo. I giovani rischiano di illudersi che, quando si sono agitati un po’, hanno dato il loro contributo al miglioramento del mondo. Io dico: fate pure i rivoluzionari ed i contestatori, ma prima pregate due-tre ore al giorno; poi ne riparleremo. I veri rivoluzionari sono i santi, perchè l’unico rivoluzionario è Gesù Cristo, tanto più uno si avvicina a Cristo, tanto più rivoluziona veramente il mondo. Non c’è nulla che cambia veramente, radicalmente il mondo quanto la santità, la bontà, il sacrificio, l’altruismo, il donare la vita per gli altri. Questo vale soprattutto per le persone consacrate, i sacerdoti, le suore, i laici che vogliono veramente impegnarsi nell’apostolato. Dobbiamo lavorare fino a scoprire Cristo in noi. E’ bene essere aggiornati, io ho fatto venire i libri di Rahner perchè si basa tutto sulla formazione ascetica e poi ha delle pagine su Gesù Cristo che sono un qualcosa di formidabile... Dicevo che queste cose bisogna meditarle, starci su delle ore a pregare e bisogna maturarle fino al punto di incontrare Cristo nel nostro intimo, la gioia di trovare Gesù Cristo e viverci insieme con passione... Molte volte, invece, ci accontentiamo di parole, di paroloni, di teorie, e non incarniamo nella nostra vita gli ideali per cui ci siamo donati a Dio. I giovani devono partire con ideali grandi, il compito degli educatori è di aprire vasti orizzonti alla generosità giovanile, non intristire l’entusiasmo dei giovani nelle cose negative, pessimiste, ma indirizzarli nella giusta direzione, che è quella della preghiera, del sacrificio, dell’azione per amore di Dio. Diamo grandi ideali ai giovani: poi non li realizzeranno tutti, ma avranno sempre un respiro vasto come il mondo, faranno nella vita la scelta degli altri e non di se stessi, la scelta di Dio e non del proprio egoismo.
Le vocazioni mi pare che nascano dall’appello alla generosità. Quindi è una certa mentalità di fondo che bisogna curare: la mentalità del donarsi senza chiedere nulla in cambio, la disponibilità a spendere il proprio tempo, la propria vita per una causa nobile, senza guardare ai risultati immediati; la mentalità insomma a pagare di persona per gli ideali in cui si crede. Oggi, invece, mi pare che ci sia troppa educazione ad accusare gli altri, ad attribuire agli altri le colpe di tutti i mali della società: tutti protestano, tutti accusano, tutti vogliono verificare gli altri; è l’atteggiamento di fondo che rischia di non essere giusto se guardiamo solo agli altri e non a noi stessi. Kennedy diceva ai giovani americani: “Non chiedetevi solo cosa l’America fa per voi; chiedetevi anche cosa voi fate per l’America!”.
Un po’ di buon senso non guasta mai
C’è un progressismo che mi suona falso e che credo fasullo. E’ quello di chi non sa avere pazienza, di chi presume troppo di sè, di chi non è tollerante nei confronti degli altri e vuole imporre ad ogni costo il proprio passo anche a chi non sa tenerlo. Faccio un esempio pratico. In Bangladesh c’erano dei missionari e delle missionarie non italiani, ottimi elementi fino a che non è arrivata dall’Occidente la ventata della contestazione negli ultimi anni. Allora, in un momento, un buon numero di loro si sono cambiati, hanno incominciato a fare del progressismo fuori posto e fuori tempo. Belle idee, per carità, ero d’accordo anche io, ma come dicevo prima, un po’ di banale buon senso non guasta nemmeno nel più grande teologo. Fatto sta che ad una chiesa tutto sommato tradizionalista come quella del Bangladesh, in cui la grande massa dei cristiani sono contadini, pescatori, artigiani, tribali che vivono di caccia e di pesca, volevano imporre delle forme nuove e strane, togliere le devozioni e le tradizioni più care alla gente... Un padre, ad esempio, da un giorno all’altro, si mette a celebrare la Messa seduto per terra, per fare come gli indiani, ed a distribuire per comunione dei pezzi di pane che dava in mano a tutti... La gente si è ribellata, in duecento uomini e più hanno circondato la sua casa e gli hanno detto: o vai via subito o passi dei guai... Dovette scappare di volata: uno scandalo che non finiva più, in un ambiente così chiuso come quello rurale! Un altro voleva togliere S.Filomena che era protettrice di un villaggio e aveva una chiesetta molto frequentata anche dalle regioni vicine. Diceva che secondo le nuove ricerche S.Filomena non esiste e quindi bisogna eliminarla: anche lì è successa una mezza rivolta... Guai a chi tocca S.Filomena in quella zona! Bisognerà andarci dentro adagio, se proprio è necessario, non voler cambiare tutto da un giorno all’altro. Anche perchè qui la gente è cristiana solo in parte, e la parte che è ancora pagana sa dare buone bastonate anche a un prete, se necessario. Fatto sta che S.Filomena è restata al suo posto, a dispetto di ogni critica storica, e credo che ci resterà ancora per un bel pezzo. A Dacca, le suore americane avevano un grandioso ospedale, senza dubbio il migliore di tutto il Bangladesh, il più attrezzato, il più il più vasto, il più ospitale per tutti, ricchi e poveri, con medici di alta fama, pulito, con le suore che avevano fatto miracoli da tantissimi anni. Anche quelle povere suore sono state toccate dalla mania delle riforme troppo rapide: anche loro, da un giorno all’altro, hanno cominciato a togliere la cuffia, e passi, poteva anche essere una buona cosa: ma non lo facevano con lo spirito giusto. Poi contestavano la struttura dell’ospedale troppo vasta. Poi volevano un giorno di libertà la settimana. Poi non volevano più vivere in comunità, ma in gruppi. Insomma, un po’ oggi e un po’ domani, si sono sposate quasi tutte e le poche rimaste, incapaci di condurre avanti quell’immensa città ospedaliera, l’hanno gratuitamente data al governo. Io so che il governo ha implorato perchè restassero, ma non c’è stato nulla da fare: le vocazioni dall’America non venivano più e quelle che c’erano in Bangladesh si sono perse... Così adesso l’ospedale non è più nemmeno l’ombra di quel che era: c’è sporcizia, disordine, mancanza di medicine e di medici capaci, attrezzature che invecchiano e si rompono... Allora si capisce perchè parecchi vescovi e preti locali, del Bangladesh come dell’India, dicono: i missionari esteri non li vogliamo più. Hanno ragione. Se i missionari esteri vengono solo a portare disordine, è meglio che se ne stiano a casa propria. Qui di disordine ce ne è già fin troppo. Ma se vengono con retta intenzione e voglia di lavorare sul serio, allora tutti li cercano. Noi del PIME di Dinajpur siamo stati invitati in altre diocesi e adesso andiamo anche a servizio del vescovo di Chittagong. Forse noi italiani ci adattiamo di più, forse abbiamo un po’ di quel banale buon senso che non guasta mai. O forse più semplicemente, perchè non vogliamo comandare, ci sappiamo anche sottomettere cordialmente al vescovo indigeno o al funzionario governativo appena uscito dalla foresta. Nel terzo mondo bisogna andarci con questo spirito: altrimenti è meglio starsene a casa. E bisogna accettare la loro mentalità diversa, anche quella più conservatrice, non avere un atteggiamento di superiorità e non voler imporre la nostra mentalità secolarizzata e il nostro eccessivo progressismo, che in Italia forse può anche andar bene, ma che là diventa imperialismo culturale e religioso.
Giovani spendete bene la vostra vita
Per concludere, vorrei dire ai giovani italiani di oggi di spendere bene la loro vita: non sprecatela in cose di poco valore, la vostra vita vale molto e merita di essere impegnata in qualcosa di grande, di nobile, che sia di aiuto al più gran numero possibile di uomini e di donne. Il modo migliore di prepararsi alla vita è quello di incontrare Dio in Gesù Cristo. Non credete ad altri profeti, non lasciatevi illudere da messianismi umani. Tagore, il massimo poeta bengalese, che ha pagine bellissime sui giovani ha scritto: “Se ti chiedi quanto sei grande, la risposta te la darà la tua vita: solo se ti impegni al servizio di Dio farai cose degne di essere ricordate con ammirazione e riconoscenza”. Vorrei anche ripetere quello che ha detto S.Agostino: “Mio Dio, quanto tardi ti ho conosciuto! Tu eri in me e io ero fuori di me”.Questa frase è piena di significato. Bisogna controllare sè stessi, essere sè stessi per incontrare Dio: quando siamo padroni di noi stessi, allora possiamo donarci a Dio e al prossimo in modo pieno. Altrimenti ci accontentiamo di parole. Io sono ottimista per due motivi: primo, nessun periodo della storia umana è stato migliore di quello presente. E’ un miglioramento universale, di tutti i popoli: gli uomini vanno verso ideali cristiani, la fraternità, la pace, la comprensione e il rispetto vicendevoli, la fine di ogni oppressione. I giovani oggi sono migliori di quelli di ieri perchè sentono profondamente questi ideali: per questo io dico che devono impegnarsi radicalmente per realizzarli, non sprecare il proprio tempo con inutili contestazioni verbali, con discussioni teoriche, correndo dietro a tutti gli inconcludenti messianismi terreni. Solo Dio può realizzare pienamente gli ideali in cui tutti sempre più crediamo: solo Gesù Cristo, incarnato nella vita di tanti uomini del nostro tempo, può rivoluzionare in profondità la società umana. E sono ottimista per un secondo motivo: il bene ha sempre il sopravvento sul male, perchè dalla parte del bene c’è Dio. Le vie di Dio non sono le nostre vie, è vero: non sempre. Egli ottiene i suoi fini nel modo che noi vorremmo e a volte siamo delusi, scoraggiati perchè non riusciamo a vedere l’opera di Dio nel mondo. Ci pare che tutto vada a catafascio e invece tutto va per il meglio. E’ come noi nella guerra del Bengala: morti, distruzioni, il lavoro di decenni distrutto, milioni di profughi, odio e vendette...sembrava crollasse l’universo bengalese. Eravamo tutti scoraggiati e al limite dell’esaurimento psico-fisico. Ricordo che una sera, un vecchietto musulmano di un villaggio mi dice: “Padre, non essere triste, perchè Dio sa quel che fa e il Bengala rinascerà più bello di prima!”. Aveva ragione, nella sua fede semplice aveva cento volte ragione. I fatti degli ultimi anni stanno confermando in pieno quello che diceva quell’uomo dalla grande fede in Dio. E’ tutta questione di fede e di amore di Dio. Se la vostra vita spesa sotto questi due segni, sarete i più fortunati e i più felici degli uomini. E’ l’augurio che faccio a tutti i lettori, prima di tornarmene in Bengala, ormai quasi guarito da tutte le malattie che avevo. Vi chiedo solo una preghiera, perchè possa continuare a vivere a lungo fra i miei bengalesi, il popolo che Dio mi ha dato in eredità.
In
forte calo il tasso di tubercolosi nel paese...
ma
la malattia rimane ancora molto diffusa tra i poveri e gli analfabeti
Agenzia Fides - Dacca - 3 agosto 2010
Secondo il Nationwide Tuberculosis Disease-cum-Infection Prevalence Survey 2007-09, il tasso di prevalenza della tubercolosi (TB) in Bangladesh è sceso drasticamente a 79 per 100 mila persone dagli 800 negli anni 90, con la maggioranza dei casi registrati tra le zone rurali, tra i poveri e gli analfabeti. Il collegamento tra povertà e TB è ben noto, e i tassi più elevati di TB si riscontrano nei settori più poveri della comunità," ha dichiarato K Zaman, epidemiologo dell'International Centre for Diarrhoeal Disease Research, Bangladesh (ICCDR, B) che ha condotto la ricerca con il National Tuberculosis Control Programme (NTP). Nel 2009, sono stati registrati 109.311 nuovi casi in cui il batterio della TB è stato riscontrato nel muco dei pazienti, rispetto ai 38.457 del 2000. Il Bangladesh è tra i sei paesi con il più alto tasso di diffusione di TB nel mondo, 300 mila nuovi casi e 70 mila morti ogni anno, secondo l'Organizzazione Mondiale della Sanità. Nelle zone rurali soffrono di TB 86 adulti ogni 100 mila, contro i 51 nelle zone urbane; 159.7 per 100 mila guadagnano meno di 43 dollari americani al mese, contro 45.7 che ne guadagnano più di 143 al mese; 138.6 per 100 mila sono analfabeti, rispetto a 39.3 che hanno una istruzione secondaria. La conoscenza malattia e le relative cure non sono molto diffuse nelle zone rurali. Tuttavia, il governo ha esteso i trattamenti in tutto il paese, con 1.050 centri DOTS a livello sottodistrettuale dove il trattamento della TB è gratuito. Il Bangladesh ha raggiunto il Millennium Development Goal per il 70% per il rilevamento dei casi mentre l' 85% per il tasso di cura. (AP)
Suora
e "capo" nel cantiere della speranza di Viviana Daloiso
Avvenire - 28 luglio 2010
Non
chiamatela ingegnere. Suor Celine, voce squillante e risata contagiosa,
scuoterebbe la testa e immediatamente preciserebbe: "Io di ingegneria e
costruzioni non sapevo proprio un bel niente". Fino al 2004, almeno. Quando
la Congregazione delle Suore Terziarie di San Francesco l'ha "scelta".
Missione: entrare nel team di progettisti e tecnici impegnati nella costruzione
del primo centro di cardiochirurgia di tutta l'Africa Centro Occidentale,
l'ospedale di Shisong, realizzato dall'italiana Associazione bambini
cardiopatici nel mondo. E coordinarlo.
Suor
Celine, al secolo Celine Epie Mbolle, era tra i banchi di scuola quando le hanno
dato la notizia. Perché di mestiere lei - nata e cresciuta in Camerun, da una
famiglia che non poteva permetterle scuole facoltose, tanto meno l'università -
ha sempre fatto l'insegnante: lezioni di economia domestica, precisamente, e di
corretta alimentazione impartite ai ragazzini, ma spesso anche alle loro mamme,
fuori dagli orari scolastici. Immaginarsi la sorpresa della consacrata: "Ho
risposto 'Io? Ma davvero?'. Poi ho detto 'sì' - racconta -: era la mia
chiamata, e anche se sembrava un compito impossibile, ho capito che era Dio a
volerlo".
Così,
unica donna nel raggio di chilometri, con l'abito candido e il block notes alla
mano per imparare dagli ingegneri veri, suor Celine ha assunto il suo incarico
direttivo nel cantiere: "Inizialmente mi sono occupata della gestione del
personale - spiega-: alla costruzione dell'ospedale hanno partecipato circa 120
persone, tra operai e volontari, e il mio compito era quello di istruirli sulle
loro mansioni: geometri, architetti e ingegneri mi mostravano il progetto,
indicavano le priorità, spiegavano come doveva procedere il lavoro. E io, a mia
volta, illustravo tutto questo agli uomini in cantiere, e li seguivo". Ma
non basta.
Al
nuovo ospedale servono materiali: legno per le porte e per i tetti, acciaio per
le griglie e gli infissi, e ancora sabbia, cemento, vetro. Suor Celine conosce
bene il mondo artigianale locale e parla perfettamente lingue e dialetti: sa
quali sono i fornitori seri, quelli che lavorano meglio, quelli che lo fanno più
in fretta. Così, per i responsabili del progetto, è naturale affidare la
scelta di questi ultimi a lei: "Ho deciso con chi dovevamo lavorare,
sottoscritto i contratti. Ho imparato persino a distinguere, col tempo, quando i
materiali che ci fornivano andavano bene e quando no".
Scoppia
di nuovo a ridere, suor Celine, nella sua stanza d'albergo a Milano, dove oggi
la Facoltà di Architettura del Politecnico le consegnerà un attestato che
certifica "il suo valido lavoro quale 'capo cantiere' nella costruzione
dell'ospedale di Shisong": "Chi l'avrebbe detto -esclama -, quando
decidevo da chi acquistare il calcestruzzo, che questa avventura mi avrebbe
anche portata lontana dal Camerun, per la prima volta nella vita". Suor
Celine non era mai uscita, dal suo Paese, prima. E si legge tanta emozione, sul
suo volto, mentre si volta a cercare lo sguardo della superiora, suor Alfonsa
Kiven, arrivata con lei per ritirare il riconoscimento: "Io una laurea in
ingegneria non ce l'ho - continua -, però quello che mi riconoscono oggi è un
po' come se lo fosse, una laurea". Ci pensa su un attimo e subito aggiunge:
"Una laurea di famiglia, s'intende ". Perché, spiega, è quello che
si è davvero costruito in Camerun, nel distretto dimenticato di Kumbo, là dove
centinaia di bambini soffrono di problemi di cuore e non hanno cure: una casa,
una famiglia, e solo dopo, "ma molto dopo", un ospedale. "Senza
Dio, e senza quell'essere famiglia che siamo stati, non sarebbe stato possibile
nulla". Suor Celine, ingegnere sul campo della fede. Ponte tra uomini.
Costruttrice di speranza.
La
struttura - Nel centro operati al cuore già 50 bambini
Camerun,
tra i 40 paesi più poveri del mondo, dove il rapporto medio è di 1 chirurgo
ogni milione di abitanti e 1 team cardiochirurgico ogni 50 milioni. È qui - nel
distretto di Kumbo, e precisamente a Shisong, presso il St'Elisabeth Catholic
General Hospital gestito dall'Ordine Terziario delle Suore Francescane di
Bressanone - che nel novembre del 2009 è stato inaugurato il nuovo Centro
cardiochirurgico. Nella struttura, unica nel suo genere in Africa insieme a
quella di Emergency a Khartoum, sono già stati operati oltre 50 bambini. Il
centro conta su due sale operatorie, emodinamica, radiologia, terapia intensiva,
reparto degenze, pediatria e neonatologia. A realizzarla, e dotarla di tutte le
apparacchiature e del personale medico necessari a curare i pazienti -
soprattutto bambini - un progetto tutto italiano, guidato dall'Associazione
bambini cardiopatici nel mondo e a cui hanno collaborato la onlus Cuore
Fratello, il Policlinico di San Donato e lo stesso Ordine delle Terziarie di San
Francesco, di cui fa parte suor Celine. L'ospedale, che non lavora ancora a
pieno ritmo (parte dei lavori sarà completata nell'arco di un paio d'anni),
servirà un bacino d'utenza di circa 200 milioni di persone. (V. Dal.)
Dopo
le elezioni presidenziali (gennaio) e il sisma (febbraio) di Carolina
Meneses e Luca Robino
Missioni
consolata - Aprile 2010
Dietro i sorrisi, l'ombra del generale
Nella
terra di Pablo Neruda, l’anno del Bicentenario (1810-2010) inizia con una
serie di terremoti: la terra trema con rara violenza (febbraio), lasciando morte
e distruzione, e il panorama politico è scosso dalla fine dell’era della
Concertación, vent’anni ininterrotti di governo di centrosinistra che hanno
cambiato il paese. Mentre la presidenta Michelle Bachelet esce di scena con un
alto indice di gradimento, al governo del paese torna la destra, guidata da
Sebastián Piñera, imprenditore e miliardario. Su di lui e sul suo governo
saranno puntati gli occhi di chi teme un ritorno del pinochetismo, in cui una
fetta importante di cileni non ha mai smesso di credere.
C’è
una strana atmosfera in questa calda estate cilena. Densa di sensazioni
contraddittorie. In quest’ultimo angolo del continente americano dalla
geografia così particolare, una striscia di 4.300 chilometri - per intenderci,
quanto dal Circolo polare artico al deserto del Marocco - ritagliata tra le Ande
e l’Oceano Pacifico e ricca di contrasti, sta accadendo qualcosa che non era
non facile prevedere. Proprio nel momento in cui Michelle Bachelet, prima donna
presidente in un paese fondamentalmente machista, socialista con un passato di
tortura ed esilio (1), raggiunge un livello di approvazione dell’84%, la
coalizione di destra guidata dall’imprenditore Sebastián Piñera, spesso
definito «il Berlusconi cileno», ha appena vinto le elezioni presidenziali.
Per
cercare di comprendere un tale terremoto politico, bisogna conoscere un poco la
storia di questo paese che forse proprio la sua geografia rende così diverso
dal resto del continente sudamericano.
Duecento
anni, due dittature
Quest’anno
la República de Chile festeggia il suo Bicentenario: il 18 settembre 1810,
approfittando della prigionia del re deposto da Napoleone che aveva occupato la
Spagna, la colonia spagnola iniziò infatti, con la formazione della prima
giunta di governo, il processo che la porterà nel 1818 all’indipendenza.
Duecento anni di vita repubblicana con una stabilità inconsueta per
quell’area del mondo, interrotti però da due dittature.
La
più sanguinaria, quella del generale Augusto Pinochet, pose termine nel 1973
all’esperienza del governo di Salvador Allende, il primo socialista al mondo
eletto democraticamente, che aveva nazionalizzato le grandi miniere di rame e
cercato di introdurre riforme democratiche in una società polarizzata tra
povertà estrema ed estrema ricchezza.
Pinochet,
con l’appoggio degli Stati Uniti preoccupati per il pericolo di una diffusione
del socialismo che avrebbe minacciato i loro interessi economici nell’area,
instaurò un regime di terrore durato ben 17 anni con migliaia di oppositori e
comuni cittadini assassinati o scomparsi, e decine di migliaia incarcerati,
torturati ed esiliati. Fino al referendum perso dal dittatore nel 1998, e al
ritorno della democrazia nel 1990.
Da
allora vent’anni ininterrotti di governo della «Concertación de Partidos por
la Democracia» la coalizione delle forze di centro-sinistra, hanno cambiato
molto questo paese. E questo malgrado i limiti fissati da una costituzione
imposta dallo stesso Pinochet, che prevede un sistema elettorale binominale
unico al mondo, studiato apposta per impedire cambiamenti sostanziali,
equilibrando nel parlamento destra e sinistra.
La
Concertación e i difetti del miracolo cileno
In
questi vent’anni il tenore di vita medio dei cileni è cresciuto enormemente,
la povertà si è drasticamente ridotta - dal 45% dei tempi della dittatura al
10% attuale, Santiago è la capitale commerciale del Sudamerica e le sue
multinazionali investono in tutto il continente; le esportazioni di materie
prime e prodotti agricoli di qualità, a partire dal vino, continuano a
crescere. Prima del terremoto di febbraio, i conti dello stato, favoriti
dai prezzi del rame (di cui il Cile è il maggiore produttore) e da una gestione
oculata, andavano a gonfie vele, nonostante la crisi internazionale, permettendo
di costruire infrastrutture e organizzare una rete di servizi sociali che
ammortizzano in parte gli effetti della crisi e della disoccupazione. Il paese,
con una crescita media del 5% all’anno, è al primo posto in America Latina
per Indice di sviluppo umano (Isu) ed in molti altri indicatori di sviluppo, ed
è appena stato ammesso nell’Ocse, primo paese in quell’area del pianeta.
Certo
non tutto è perfetto, in Cile. Dal nord del deserto di Atacama, dove le miniere
di rame creano buona parte della ricchezza del paese, all’estremo sud della
Patagonia, o nella Araucania che resistette per tre secoli - ultima area del
continente - all’invasione dell’uomo bianco ed è ora minacciata da grandi
interventi voluti dalle multinazionali per sfruttarne le ricchezze naturali,
molti cittadini si sentono lontani e trascurati dalla capitale e dalla «Zona
Central» dove si concentrano le ricchezze e i grandi investimenti. Se a
Santiago, metropoli di quasi sette milioni di abitanti, la rete dei trasporti
pubblici, delle autostrade, dei servizi, continua a crescere avvicinandola
sempre più ad una moderna capitale europea, ed anche l’offerta culturale non
è da meno, lo stesso non accade in egual misura nel resto del paese.
Uno
dei punti deboli del Cile è il sistema educativo. Se il governo socialista di
Allende aveva cercato di garantire un sistema scolastico pubblico universale e
unitario, provocando le proteste delle classi più abbienti che preferivano
mantenere una separazione tra l’educazione di eccellenza riservata alle élite
e una di base per il popolo, il neoliberismo che ha ispirato la dittatura
pinochetista ha portato allo smantellamento del sistema pubblico. È stata così
garantita soltanto la gratuità di un’istruzione di base e affidato il resto
al mercato e all’investimento privato, accollandone dunque i costi alle
famiglie e contemporaneamente trasformando l’educazione in uno dei più grandi
business del paese, con la nascita di innumerevoli scuole e università private.
L’inadeguatezza del finanziamento del sistema scolastico pubblico, che anche
il governo della Concertación non è riuscito a superare (le tensioni
all’interno del mondo scolastico hanno portato negli ultimi anni a lunghi
periodi di occupazione degli istituti, nella cosiddetta «marcia dei pinguini»,
con riferimento alle uniformi scolastiche) produce un esodo sempre più marcato
verso quello privato.
Analogamente
il sistema sanitario, basato su un doppio binario pubblico («Fonasa», Fondo
Nacional de Salud) e privato (le cosiddette «Isapre», Instituciones de Salud
Previsional), pur garantendo una copertura gratuita agli indigenti, favorisce
ancora l’impresa privata lasciando al pubblico solo i contributi di chi non può
permettersi l’iscrizione alle assicurazioni private.
La
mancata risoluzione delle questioni relative all’educazione e alla salute
durante i vent’anni di governo della Concertación è forse una delle ragioni
del distacco dalla politica da parte di molti cileni, soprattutto giovani, i più
colpiti anche dall’aumento della disoccupazione.
Il
grigio Frei contro il magnate Piñera
Ma
ci sono anche altre ragioni che hanno portato alla vittoria della destra. Tra
queste certamente l’eccessiva fiducia in se stessa da parte di una
coalizione di governo logorata - soprattutto a livello locale - da tanti anni di
potere ininterrotto e di rigida alternanza tra le sue componenti democristiana,
socialista e radicale. E poi la scelta di un candidato poco carismatico come
Eduardo Frei, democristiano dall’immagine grigia - ex presidente e figlio di
un altro presidente - poco amato dalla sinistra soprattutto per la sua
deregulation del mercato del lavoro e le sue privatizzazioni, la cui immagine è
stata ulteriormente compromessa nello scontro fratricida al primo turno
con l’altro candidato di centro-sinistra Marco Enriquez-Ominami, che si
presentava come la novità contro il déjà vu.
Un
altro fattore decisivo è stata la capacità da parte della destra ex
pinochetista di rifarsi un’immagine presentandosi fin dal nome («Coalición
por el Cambio») come «il cambiamento», tappezzando il paese con uno slogan
molto obamiano come «Sumate al cambio», ripetuto ossessivamente su ogni
albero, su ogni palo della luce, in ogni giardino, e naturalmente in
televisione, alla radio, sui giornali, accompagnato dal sorriso fisso e
immutabile - molto berlusconiano - del suo candidato Sebastián Piñera,
imprenditore di successo divenuto tale anche grazie alla sua vicinanza con il
regime di Pinochet (di cui il fratello José era ministro). Sebastián Piñera,
populista al punto da farsi fotografare in costume mapuche per conquistare il
voto degli indigeni, e promettere che il suo primo atto di governo sarebbe stato
un buono una tantum di 40.000 pesos (circa 55 euro) per quattro milioni di
famiglie. E, naturalmente, impegnandosi a creare quello che è ormai un classico
delle promesse elettorali: «un milione di posti di lavoro».
Aerei,
televisioni, calcio e... scandali
Il
nuovo presidente eletto, spesso definito «il Berlusconi cileno», che ha fatto
fortuna introducendo nel paese le carte di credito ed è ora proprietario di una
importante quota della compagnia aerea di bandiera Lan, del network televisivo
Chilevisión, di una catena di farmacie, della maggior squadra di calcio del
paese e di innumerevoli altre imprese, attento alla sua immagine tanto da
ricorrere alla chirurgia estetica, è stato coinvolto in passato in alcuni
scandali, i più importanti dei quali furono forse quello del Banco de Talca di
cui era amministratore al momento del fallimento (si salvò dal carcere per un
intervento dell’allora ministro della giustizia del governo di Pinochet), ed
il caso di insider trading di cui fu accusato quando - pare approfittando di
informazioni riservate - acquistò una quota importante della compagnia aerea
Lan il giorno prima che il prezzo salisse...
Nelle
mani delle grandi imprese?
Piñera,
appoggiato dai partiti di destra Renovación Nacional e Unión Demócrata
Independiente - gli unici che avevano apertamente sostenuto il generale Pinochet
in occasione del referendum del 1988 - ha voluto dare un segnale di discontinuità
rispetto agli ultimi vent’anni nella scelta della compagine governativa: a
parte il ministro della difesa, già presente in due governi di centro-sinistra,
si tratta di personalità provenienti quasi esclusivamente dal mondo
dell’impresa privata, dalla «classe alta» del paese, con studi nelle più
esclusive università straniere, in buona parte direttamente coinvolte per i
loro interessi nei settori dei quali si dovranno occupare. Qualcosa di molto
vicino ai «Chicago boys», i professori che si erano formati alla scuola
neoliberista dell’Università di Chicago, ai quali si era affidato Pinochet.
Persone lontane dalla «gente comune» ed anche da quei tanti cileni che,
superata la povertà, hanno creduto di potersi lanciare alla conquista del
benessere votando per un imprenditore che prometteva ancora meno stato e più
mercato, ancora meno garanzie e più opportunità.
Tutto
questo ha permesso alla destra di tornare al potere democraticamente, per la
prima volta dopo cinquant’anni. Eppure la gente che festeggiava nelle strade,
sventolando ritratti e busti del generale Pinochet, gridando slogan contro i
comunisti, sbeffeggiando i desaparecidos e le vittime del regime militare e
inneggiando al ritorno del buongoverno dopo vent’anni di corruzione, è la
dimostrazione che buona parte della base elettorale di questa che vorrebbe
presentarsi come una destra moderna e liberale, persino progressista, è la
stessa del regime militare, di cui vede in Piñera una continuità, e questo
getta un’ombra sul futuro di un paese che, paradossalmente, proprio questa
alternanza pare dimostrare essere ormai una democrazia pienamente compiuta.
(1)
Per un ritratto di Michelle Bachelet, si legga: Paolo Moiola-Angela Lano, Donne
per un altro mondo, Il Segno dei Gabrielli editori, 2008.
(2)
Subito dopo la vittoria nelle presidenziali, le azioni della Lan sono schizzate
verso l’alto. Il neopresidente Piñera possiede un pacchetto azionario pari al
26,33 per cento del capitale.
L'acqua
che non c'è di Simone Pieranni
Il
Manifesto - 3 agosto 2010
La grande sete, Cina a caccia dell oro blu
L'ipersviluppo
cinese ha effetti collaterali importanti sulle risorse idriche: fiumi inquinati,
corsi d'acqua deviati in modo autoritario. Qualcuno prova a resistere.
Qualcun'altro vede nella «bonifica» nuove opportunità di business
Il
fiume delle Perle è qualcosa in cui non ci si può certo specchiare. Si può
tentare di scorgere nel suo letto oscuro qualche traccia della civiltà che ha
nutrito. Tempo fa, non oggi. La passeggiata che sovrasta il tratto di fiume a
Canton è un paesaggio tipico cinese, sospeso tra case diroccate e centri
commerciali avveniristici. È Blade Runner e Medio Evo, a guardarsi su acque
melmose, nere, piene di alghe e ogni tipo di spazzatura depositabile in un corso
d'acqua. Accanto al punto d'osservazione un cane scheletrico, di fronte una
pompa - grande, rumorosa e antiquata. Nell'acqua ci sono alcuni uomini su una
barchetta, intenti a creare una piccola diga. È un esperimento: nanotecnologie
provenienti da qualche fabbrica locale, nel disperato tentativo di ripulire la
risorsa che più soffre in Cina - l'acqua.
In
serata alcuni notabili del Partito esprimeranno il loro rammarico e la loro
necessaria impresa: 40 milioni di euro per risanare il tratto che attraversa
Canton, con sistemi tecnologici in grado di risucchiare melma e alghe,
consentendo al fiume di respirare. Se funzionerà l'esperimento verrà esteso a
tutta la regione. Negli occhi di un membro del partito si vede già la scalata:
dopo la regione, il paese. Un progetto in cui ambizione personale e necessità
hanno i contorni di quello specchio d'acqua che osserviamo in silenzio:
sbiaditi, opachi, cinesi. Eppure, qualcosa in Cina si muove, tra il fiorire di
Ong e associazioni di cittadini e piccole, ma importanti lotte ecologiste, che
movimentano i progetti governativi, creando un confronto tra popolazione e
funzionari.
Lo
spettro della siccità
Gli
ultimi dieci mesi di quest'anno sono stati il periodo più secco nella storia
della Repubblica Popolare. Secondo le cifre pubblicate dall'Ufficio di stato che
controlla inondazioni e siccità sarebbero almeno 19 milioni le persone che
soffrono di mancanza di acqua potabile e circa 6 milioni di ettari le aree
coltivabili completamente a secco nello Yunnan, Guizhou, Sichuan, Guangxi e
Chongqing. La siccità è ormai un pericolo naturale ricorrente negli ultimi
anni e ha colpito in tempi diversi e in circostanze diverse, tanto a sud quanto
a nord del paese per la mancanza di precipitazioni associate anche ai
cambiamenti climatici. Questo fenomeno naturale del resto è anche una
conseguenza della deforestazione e la rapida trasformazione industriale di un
paese agricolo, con il conseguente danneggiamento delle fonti di acqua naturale.
I progetti cinesi non facilitano la vita di corsi d'acqua e di fiumi:
recentemente è stato approvato il progetto di deviazione di una parte del fiume
Han che finirà per andare a riempire le bocche assetate della parte nord del
paese, specie i dintorni di Pechino, la capitale che non guarda in faccia
neanche i propri connazionali. «Il fiume Han scivola dolcemente attraverso il
cuore della Cina, si snoda da nord a sud per 1500 chilometri, attraverso una
valle fertile che copre più di 150.000 chilometri quadrati. Nella sola
provincia di Hubei, il fiume Han è un'ancora di salvezza per quasi 20 milioni
di persone» ha scritto la rivista cinese Caixin, sempre attenta a lanciare
allarmi economici ed ecologici. Le popolazioni toccate da questo mega progetto
hanno già protestato: non sono stati tenuti in considerazione, nulla è stato
fatto trapelare, in modo che non si potessero organizzare e tentare una manovra
disperata.
È andata diversamente a Wuhan, esempio di come la società civile stia trovando linfa sul tema della sostenibilità dello sviluppo. Il 25 marzo scorso, come riporta il sito chinastudygroup.net, il quotidiano di Canton, Time Weekly ha pubblicato un reportage dal titolo Indagine sullo sviluppo del lago est di Wuhan che ha rivelato informazioni su funzionari del governo locale corrotti e legati al piano di sviluppo, ottenuto senza le approvazioni necessarie. Si sono affittati una parte del lago, imbrigliato in un progetto che nega alla popolazione la possibilità di sfruttare un bene comune. La transazione è stata illegale perché gran parte dell'area interessata è compresa nell'Area panoramica del lago est, protetta dallo stato, e il governo locale non aveva ottenuto il permesso per i lavori dal governo centrale. Le proteste sono state immediate: è nato un gruppo su QQ (il social network più famoso in Cina), che ha organizzato una protesta, sotto forma di passeggiata: marcia bloccata dalla polizia che ha blindato tutti a casa, compresi gli studenti tirati dentro all'iniziativa.
No
tav alla cinese
Non
solo acqua: i conti con lo sviluppo economico cinese sono tanti, molti dei quali
sconosciuti e con visibilità nulla sui media abilmente controllati dal Partito.
Il progetto del Maglev, il treno super veloce a levitazione magnetica e già
presente a Shanghai, doveva avere una linea anche a Pechino. Sottoposto al
giudizio degli abitanti della zona interessata, il progetto ha trovato
l'opposizione della popolazione, attraverso una lettera dei cittadini in cui
denunciavano alcuni rischi dovuti all'impatto ambientale del treno, nonché alla
scarsa conoscenza riguardo le radiazioni cui sarebbero sottoposti i suoi
passeggeri. Zhao, uno dei pechinesi coinvolti nella lotta anti Maglev, alla
Beijing Review ha dichiarato: «queste tipologie di treni sono stati bloccati già
in molti paesi nel mondo a seguito di dimostrazioni: perché la Cina vuole
realizzare questi progetti in modo così frettoloso?» La linea pechinese
prevede circa 20 chilometri di rete: la Beijing Railway Mentougo o S1 Line come
è chiamata la Maglev futura della capitale, dovrebbe unire due distretti di
Pechino: 12 fermate e treno a velocità ridotta rispetto a quella shanghaiese,
circa 150 km all'ora.
Una parziale, ma importante, vittoria è arrivata il 12 maggio: la Eaec ha infatti annunciato l'allungamento della tratta prevista sotto terra, per ridurre l'impatto sulle case circostanti: da 455 metri a quasi a 3 chilometri. Una vittoria momentanea e per niente definitiva, in attesa della risposta del governo.
2010,
cancellate gli Uiguri di Beniamino Natale
L'Espresso - 23 luglio 2010
Avete
presente quello che è stato fatto al Tibet, cioè l'azzeramento dell'identità
di un popolo? Ora l'operazione si sta ripetendo con la minoranza d'origine turca
dello Xinjiang. Che l'anno scorso aveva osato ribellarsi. Il poliziotto
arriva strillando, in un vicolo della vecchia Kashgar. "State violando la
legge", grida mentre camminiamo per i vicoli di questa straordinaria città
sulla Via della Seta con Ahmed, un giovane agente di viaggio locale che
incautamente ha accettato di accompagnarci. "State conducendo un'attività
illegale", insiste. Non è vero. Cerchiamo solo informazioni sulle
demolizioni in corso nell'antico bazar. Ma da qualche mese a Kashgar la legge,
come molte altre cose, è sospesa. Tutta la regione della quale fa parte, la
Regione autonoma del Xinjiang nel nord-ovest della Cina, è tagliata fuori dal
resto del Paese, e dal mondo. L'isolamento è stato totale per dieci mesi e solo
a metà maggio è iniziata una graduale restaurazione delle comunicazioni.
Tutto
è iniziato il 5 luglio 2009 ad Urumqi, la capitale del Xinjiang, quando bande
di uiguri, la popolazione turcomanna e musulmana originaria di queste zone,
hanno attaccato gli immigrati cinesi con bastoni, coltelli, e pietre. Nei giorni
seguenti un massiccio schieramento di polizia ed esercito non è riuscito a
contenere la reazione dei cinesi. Risultato: secondo il governo almeno 197
persone (in maggioranza cinesi) hanno perso la vita, mentre i gruppi di uiguri
in esilio affermano che le vittime sono state molte di più, e in maggioranza
uiguri. Da allora per dieci mesi il Xinjiang è stato completamente isolato.
Internet è stata bloccata. Non è stato possibile inviare sms fuori dalla Cina.
Rispondiamo al poliziotto alzando la voce abbastanza da coprire il rumore dei
motorini e i belati delle pecore che i locali vendono e comprano in mezzo alla
strada. Alla fine si arrende all'evidenza: una legge del 2007 consente ai
giornalisti stranieri accreditati di viaggiare liberamente per tutta la Cina,
esclusa la Regione autonoma del Tibet e di intervistare chi vogliono. Così
possiamo proseguire nella nostra ricognizione accompagnati da Ahmed, al quale è
stato ingiunto di seguirci e di riferire i nostri movimenti. "Dal 5
luglio", racconta un giovane mentre camminiamo tra le rovine di un palazzo,
"sono bloccate anche le demolizioni, c'era troppa tensione e probabilmente
temevano che scoppiassero incidenti". Già, perché la vecchia Kashgar,
definita dallo storico dell'architettura George Michell "l'esempio meglio
conservato in tutta l'Asia centrale di una tradizionale città islamica",
è condannata a morte.
La
decisione di radere al suolo il bazar è stata annunciata la scorsa primavera.
Il tradizionale mercato del bestiame è già stato spostato fuori città ma il
luogo ha mantenuto il suo spirito. Le vecchie case di paglia e fango si
susseguono l'una all'altra in un interminabile labirinto di stradine e di porte
decorate di legno di pioppo. Nelle centinaia di negozietti che si affacciano
sulle strade i commercianti reclamizzano con alte grida i loro prodotti - vasi
di rame, statue di legno intagliato, pane appena sfornato, scimitarre con i
manici colorati, tradizionali copricapo per la preghiera - mentre le donne con i
pesanti veli scuri discutono animatamente con le loro figlie in tailleur e
stivali e il muezzin chiama alla preghiera da una vicina moschea.
I
vecchi e caratteristici edifici, secondo il governo cinese, non reggerebbero a
un terremoto, e Kashgar si trova in una zona sismica. Di qui la necessità di un
intervento radicale. Gli uiguri in esilio affermano invece che si tratta di un
modo per colpire al cuore la cultura uigura, della quale Kashgar è la
indiscussa capitale. Le 49 mila famiglie che ancora vivono nei bazar saranno
disperse in nuovi quartieri costruiti alla periferia della città, distanti tra
di loro e mischiate agli immigrati cinesi. Per ora sono stati demoliti solo due
isolati, due enormi cantieri che ora compaiono improvvisamente, abbandonati, tra
i vicoli della città vecchia. Gli abitanti sono stati trasferiti in periferia,
in un quartiere fatto di case a schiera costruite recentemente ma che già
sembrano vecchie. Quelli che sono rimasti mostrano con orgoglio le vecchie case,
spesso tirate su da un nonno o da un bisnonno. Al centro hanno un piccolo
cortile, al pianoterra la cucina e una grande sala dove si fanno accomodare gli
ospiti nei giorni di festa, mentre le stanze da letto si trovano al primo piano.
"Non sappiamo niente", affermano, "ci hanno detto solo che le
case verranno demolite e che in cambio avremo un appartamento moderno".
La
grande piazza sulla quale sorge la moschea di Id-Kah, la più vecchia del
Xinjiang, si riempie di gente nei giorni di festa e nelle sere d'estate. Pochi
guardano l'enorme schermo televisivo sistemato ad una delle estremità, che
trasmette a getto continuo i programmi della televisione locale, soprattutto
telegiornali che parlano dei progetti di sviluppo o trasmettono film sulla
"guerra di liberazione'' contro i giapponesi, mentre la maggior parte dei
cittadini preferisce comprarsi un kebab o della frutta fresca in una delle
bancarelle o farsi fotografare su uno dei cavalli o dei cammelli che stazionano
sulla piazza. Anche i bambini restano in giro fino a tarda sera, perché tutta
la vita, gli orari delle scuole e degli uffici, per esempio, è regolata secondo
l'ora del Xinjiang, che è due ore indietro rispetto all'ora di Pechino che il
governo impone per dimostrare l'unità della nazione.
Per
il resto della Cina, il Xinjiang è lontano (da Pechino a Kashgar ci vogliono
sei ore di aereo) e remoto. Un posto selvaggio, dove nel corso dei decenni
passati milioni di cinesi poveri hanno cercato fortuna sotto la protezione del
Xinjiang Production and Costruction Corps (Bing Tuan in cinese), un organismo
misto militare e civile probabilmente unico al mondo, che gestisce società di
produzione ed intere città e che è quotato alla Borsa di Shanghai. Oggi la
maggioranza dei circa 20 milioni di abitanti del Xinjiang sono cinesi (gli
uiguri sono 9 milioni). Recentemente Pechino ha sostituito Wang Lequan, il
65enne segretario regionale del Partito comunista che ha governato per 15anni il
Xinjiang con poteri poco meno che assoluti, col più giovane (57 anni) e
dinamico Zhang Chunxian. In una recente riunione del Comitato Centrale il
presidente Hu Jintao ed il premier Wen Jiabao hanno promesso maggiori
investimenti e una più equa distribuzione tra la regione ed il centro dei
profitti derivanti dallo sfruttamento delle risorse naturali del Xinjiang.
Finora ha prevalso la linea dura: almeno 26 persone (tutte con nomi uiguri meno
una) sono state condannate a morte, e almeno nove di queste sentenze sono già
state eseguite. Centinaia di anni di prigione sono stati inflitti agli altri
imputati processati per le violenze (198 secondo il governo locale).
Pechino
denuncia il rischio del terrorismo islamico rappresentato nel Xinjinag dal
Movimento islamico del Turkestan Orientale (il nome con il quale i nazionalisti
uiguri indicano la regione), ma per gli esuli uiguri il pericolo viene usato per
giustificare una politica di colonizzazione. Il Xinjiang è un territorio
enorme, che occupa un sesto della superficie della Cina e va dal deserto del
Taklamakan alle montagne del Kunlun e del Pamir. È ricco di materiali preziosi
come petrolio, carbone, gas naturale e uranio e si trova in una posizione
geopolitica cruciale, ai confini con Russia, Mongolia, Kazakhstan, Kirghizistan,
Tajikistan, Afghanistan, Pakistan e India. Forse è per questo che la Cina
continua a sostenere che la sua politica nella regione è "giusta",
nonostante le violenze dell' anno scorso. E che la vecchia Kashgar è destinata
a scomparire.
La
legge sulla trasparenza dei minerali...
è
un segno della solidarietà del popolo USA verso i congolesi affermano i Vescovi
Agenzia Fides - Kinshasa - 3 agosto 2010
I
Vescovi congolesi salutano l’adozione da parte del Congresso americano di
norme volte a creare un regime trasparente sulla commercializzazione di minerali
provenienti dalla Repubblica Democratica del Congo. Lo ha detto ieri, 2 agosto,
Sua Eccellenza Mons. Nicolas Djomo, Vescovo di Tshumbe e Presidente della
Conferenza Episcopale Congolese, nella conferenza stampa convocata per spiegare
la posizione della Chiesa cattolica sulla nuova legislazione americana che
impone alle aziende americane di rivelare quali procedure intendano adottare per
assicurare che i loro prodotti non contengano i cosiddetti “conflict
minerals”, ovvero i minerali venduti sul mercato internazionale dai gruppi di
guerriglia che da 15 anni seminano morte e distruzione nell’est della RDC.
“Da
10 anni la Conferenza Episcopale della Repubblica Democratica del Congo (Conférence
Episcopale Nationale du Congo - CENCO) dedica un’attenzione particolare al
problema dello sfruttamento delle risorse naturali della RDC” afferma Mons.
Djomo in una dichiarazione consegnata alla stampa. “È soprattutto a partire
dall’analisi delle cause dei ripetuti conflitti che la CENCO si è sentita
obbligata a levare la voce per sottolineare i legami tra lo sfruttamento delle
risorse naturali, i conflitti armati, le violazioni dei diritti umani, lo
sfollamento in massa delle popolazioni, l’accentuazione della povertà e della
miseria, e la distruzione dell’ambiente”.
“Teniamo
a ringraziare il governo americano, e attraverso lui la Camera dei
Rappresentanti e il Senato, per avere adottato le disposizione di legge
concernenti lo sfruttamento delle risorse naturali della RDC, specialmente sui
minerali che alimentano i conflitti nell’est della RDC e nella ragione dei
Grandi Laghi” scrive il Presidente della CENCO. “Si tratta di un segno
evidente della solidarietà del popolo americano al popolo congolese.
Ringraziamo anche tutti coloro che in un modo o nell’altro hanno appoggiato
l’adozione di questa legge. In particolare la Conferenza Episcopale degli
Stati Uniti ((United States Conference of Catholic Bishops : USCCB) e il
Catholic Relief Services (CRS). Siamo inoltre felici che il nostro governo abbia
calorosamente salutato l’adozione di questa legge”.
Per far sì che questa normativa contribuisca a riportare la pace nella RDC, Mons. Djomo afferma che occorre intensificare gli sforzi per rafforzare il processo democratico e il buon governo, consolidare l’economia legale, lavorare alla pace e alla riconciliazione, creare un quadro giuridico certo rinvigorendo il sistema giudiziario e incoraggiare i cittadini a impegnarsi nella vita pubblica. (L.M.)
L'isola
nella corrente di Roberto Livi
Il
Manifesto - 25 luglio 2010
Per l'esuberante Cuba è il tempo di cambiare
Il
presidente Raúl Castro sa che la situazione non permette di rinviare oltre le
necessarie riforme politiche e le dolorose riforme economiche annunciate in
aprile e finora rimaste senza effetti pratici. Dentro e fuori il paese ci
s'interroga sul senso del vistoso ritorno in campo di Fidel Economia in crisi,
per rimetterla in moto bisogna tagliare un milione di posti di lavoro. Domani,
26 luglio, parlerà Raúl
Alla
mattina presto, ben prima dell'apertura degli uffici, vi è già una piccola
folla di fronte al Poder popular di Alamar, grande sobborgo popolare dell'Avana
dell'est. Il governo (meglio, il passaparola) ha annunciato che è stata
riaperta la concessione di licenze per una serie di lavori por cuenta propria,
ovvero privati. Aspiranti barbieri, parrucchiere, idraulici e persino venditori
ambulanti di caramelle e dolciumi (fatti in casa) si dispongono pazienti ad
informarsi del papeleo - l'infinita serie di documenti - necessario per
lanciarsi in un'attività in proprio. Solo il settore alimentare non è ancora
riaperto ai privati - le licenze per i paladar, ristorantini a gestione
familiare, restano bloccate.
Non
tutti nella coda però sono tranquilli. Vi sono alcuni giovani che hanno appena
concluso gli studi superiori che sono venuti per chiedere l'assegnazione di un
lavoro (statale, ovviamente). Orlando, un tecnico di computer, esce dall'ufficio
apposito con la faccia scura. Gli unici posti a disposizione, afferma, sono nel
settore agricolo, nella costruzione o nei ranghi della polizia. "Non ho
studiato elettronica per andare a zappare la terra o per fare lavori giornalieri
come muratore", mastica amaro.
Pesanti
tagli nell'organico, super-affollato, del settore statale - che controlla il 95%
circa dell'economia - erano stati ventilati già in aprile in un discorso del
presidente Raúl Castro, il quale aveva parlato di un milione o più di esuberi,
su una popolazione attiva di 4.9 milioni di persone (Cuba ha 11.2 milioni di
abitanti). Poi era stata la volta di Salvador Valdés Mesa, segretario generale
della Confederazione dei lavoratori cubani il quale, in un articolo, aveva
rassicurato che non erano previsti licenziamenti e che "la
riorganizzazione" di tutto il settore pubblico avrebbe comportato
l'assegnazione di nuovi posti (appunto nell'agricoltura e nelle costruzioni) per
i lavoratori in esubero.
I
mesi passati da tali annunci non hanno che peggiorato la situazione di crisi -
economica e finanziaria - del paese. Situazione che non è più tenuta nascosta,
messa sotto il tappeto del giusto orgoglio della nazione che da 50 anni resiste
all'aggressione della più grande potenza imperiale del mondo e conserva la
propria indipendenza e dignità. Nell'ultima settimana il Granma, organo del
Partito comunista, ha pubblicato almeno un paio di reportages drammatici, più
che allarmanti. Uno sulle ruberie generalizzate di binari e traversine delle
disastrate ferrovie nella zona centrale dell'isola, dove, proprio per questo è
deragliato un treno. L'altro sulla ristrutturazione dell'acquedotto di Santiago,
con ritardi e ruberie. Come a dimostrare che non vi è più margine di attesa. E
che le più volte ventilate, riforme dovranno essere varate. E su questo punto
si sprecano le opinioni dei cittadini pubblicate nella speciale sezione del
venerdì del Granma.
Ma
quando? E di che ampiezza? Le voci sono molte, e se ne raccolgono di varie
opinioni parlando con economisti e intellighenzia. "Da mesi si sta
discutendo sull'argomento e i tecnici sanno quello di cui Cuba ha bisogno, ma
hanno di fronte un problema di fattibilità politica", è il parere di un
diplomatico europeo. Fattibilità politica significa che ai vertici del partito
e del governo non vi sarebbe accordo. Il condizionale è di rigore, perché
dell'argomento non vi è traccia nei mass media scritti e parlati. Sono in molti
però che associano la decisione di far uscire dal carcere 52 prigionieri di
coscienza annunciata all'inizio del mese da Raúl all'arcivescovo dell'Avana,
Jaime Ortega, e al ministro degli esteri spagnolo Moratinos, con la necessità
di preparare il terreno a riforme. Lunedì scorso, poi, a Ginevra il capo del
parlamento cubano, Ricardo Alarcón, ha fatto intendere che il governo sarebbe
disposto a scarcerare "ogni persona che non sia accusata di delitti di
sangue". Una misura che, ha commentato l'economista dissidente Óscar
Espinosa Chepe - uno del gruppo dei 75 arrestati nel 2003 e poi rimesso in
libertà -, "rappresenta un passo enorme, ma non servirà se non seguiranno
rapidamente riforme".
Del
resto, fonti della diplomazia spagnola e della chiesa cattolica hanno confermato
al giornale spagnolo El País che il tema delle riforme era stato affrontato da
Raúl Castro durante i colloqui per la liberazione dei prigionieri politici. Il
presidente e il "suo gruppo", così si esprime il diplomatico europeo,
penserebbero a una serie di riforme già ventilate e discusse - per esempio
nella sezione lettere al direttore di Granma -: affidare parte dei servizi a
cooperative, ampliamento delle licenze di lavoro ai privati, misure che portino
alla graduale eliminazione della doppia moneta (gli inutili pesos degli stipendi
e i Cuc, i pesos convertibili, necessari per comprare quello che serve) e,
ovviamente, una drammatica sforbiciata agli organici del settore statale.
Misure,
queste ultime due, che comportano un evidente impatto sociale. Oltre che
questioni di geopolitica. Almeno a credere alle tesi espresse da due giornali
economici, l'inglese Financial Times e l'americano Wall Street Journal. I quali
sostengono che le scarcerazioni di oppositori sono una sorta di scommessa
politica di Raúl per cercare di migliorare i rapporti con gli Stati uniti, in
vista appunto di riforme economiche strutturali. Il presidente cubano, secondo
questi giornali, non si fiderebbe più, non tanto della linea politica (e di
eventuali condizionamenti) del presidente venezuelano Hugo Chávez, quanto della
capacità del Venezuela di uscire dalla crisi e di continuare a sostenere
economicamente Cuba. La riapparizione in pubblico di Fidel dopo quattro anni
dalla sua grave malattia e il successivo attivismo - attraverso le sue
"riflessioni" giornalistiche - in materia di politica estera, fanno
però pensare che il senior dei Castro non intenda "sacrificare" il
suo alleato strategico sull'altare di un eventuale allentamento dell'embargo
Usa.
Grandi
strategie economiche e geopolitiche a parte, basta però frequentare i cubani
per rendersi conto che l'aspettativa di cambiamenti è generalizzata. La crisi
morde sempre più forte e i cubani - si può usare questa generalizzazione -
chiedono che quello che viene percepito come un incomprensibile immobilismo
seguito alle speranze suscitate dagli annunci di Raúl, finisca. E si passi a un
movimento di riforme, economiche prima ancora che politiche, almeno a partire
dal prossimo autunno.
La
discussione su questi tema ha già avuto, però, l'effetto di dividere la
dissidenza. Alcune figure di spicco come Espinosa Chepe, Héctor Palacios e
l'oppositore moderato, Manuel Cuesta Morúa, affermano che l'apertura di Raúl
costituisce "un'opportunità" e che sarebbe da irresponsabili
ignorarla. Dunque chiedono agli Usa e alla Ue di andare a vedere il gioco del
presidente cubano, in modo da favorirne possibili sviluppi positivi. Di parere
opposto gli scettici, come il democristiano Oswaldo Payá e l'attivista dei
diritti umani Elizardo Sánchez: loro sostengono che il governo vuole solo
guadagnare tempo e che bisogna dunque mantenere la pressione internazionale su
Cuba. A questa tesi si sono a"llineati i primi detenuti cubani giunti a
Madrid i quali hanno chiesto alla Ue di mantenere l'insostenibile e ostile
"posizione comune" del '96, mettendo in pericolo l'accordo per le
altre scarcerazioni, trattato dalla chiesa cattolica e dalla diplomazia
spagnola.
Il
dilemma di sempre - dialogo o pressione - divide ancor più decisamente le Damas
de blanco, le madri e parenti dei 75 incarcerati nel 2003 che con le loro
manifestazioni hanno portato il problema dei detenuti politici all'attenzione
internazionale. La promessa del presidente di scarcerare praticamente tutti i
detenuti ha indotto alcune di loro a sostenere che "la missione è stata
compiuta" e che il movimento deve sciogliersi. Laura Pollán, portavoce e
leader del gruppo, ha però risposto che continueranno a lottare fino a quando
le carceri cubane saranno svuotate di dissidenti. Ma ogni domenica sono sempre
meno. E soprattutto, sono sotto tiro le cosiddette Damas de apoyo, donne che
sostengono il movimento pur non essendo parenti di detenuti politici. La chiesa
ha chiesto che le Damas de blanco prendano le distanze, anche per le voci che le
"sostenitrici" sarebbero finanziate da fondazioni di anti-castristi di
Miami o del governo Usa.
Vi sono dunque motivi concreti per attendere con interesse il discorso che il presidente Raúl farà a Santa Clara domani, 26 luglio, anniversario dell'assalto alla caserma Moncada, in pratica l'inizio della rivoluzione guidata da Fidel.
Gli
Usa s'intromettono per togliere protagonismo alla chiesa e alla Spagna
di Roberto Livi
Il
Manifesto - 25 luglio 2010
Continuano i rilasci dei 52 detenuti di coscienza anche se il tema non è tema di discussione pubblica su giornali e tv statali
Sotto
la presidenza di Raúl Castro, l'Asamblea nacional del Poder popular , il
parlamento cubano, discuterà dal primo agosto la critica situazione economica e
produttiva del paese. Granma e Juventud Rebelde, i quotidiani del partito e
della gioventù comunista, hanno informato che, per la prima volta, l'Anpp
esaminerà il resoconto della finanziaria dell'anno passato, questione che
solitamente era affidata a una delle commissioni oarlamentari. Il fatto
sottolinea come il minore dei Castro sia intenzionato a controllare al massimo
le spese - e dunque a eliminare quanto più possibile sprechi e corruzione.
In
particolare i 611 deputati dovranno affrontare lo spinoso problema di circa un
milione di lavoratori - il 20% della forza lavoro del paese - che risultano in
esubero e le decisioni per creare nuovi posti per questa enorme massa di
lavoratori. Le opzioni sono varie ma tutte richiedono riforme, "perché le
scelte politiche attuali non si sono mostrate in grado di generare nuovi posti
di lavoro", afferma un economista governativo che non vuole essere citato
Proprio
per questa ragione Fidel sarebbe di fatto sceso in campo - in 9 giorni ha
partecipato a 4 eventi di alto livello, oltre a una visita all'acquario della
capitale - dopo 4 anni di recesso dopo la una grave malattia. Il líder maximo
ha conservato la carica di primo segretario del Partito comunista, ma
soprattutto ha mantenuto il suo grande carisma presso la popolazione cubana. Per
quanto nulla trapeli nei mass media, è assai probabile che la volontà espressa
da Raúl di risolvere il problema dei prigionieri politici, come pure la
riduzione del wellfare sociale siano tema di discussione all'interno del Pc e
del governo. "E' possibile che Fidel abbia deciso di elevare il suo profilo
pubblico proprio per dimostrare alla popolazione che è in buona salute, lucido,
e pronto a far sentire il suo peso, specie in politica estera", sostiene un
diplomatico europeo. Più netto Guillermo Fariñas, il dissidente che ha attuato
ben 135 giorni di sciopero della fame per ottenere la liberazione dei
prigionieri politici: "Si tratta di un sostegno seppur indiretto" alle
decisioni di Raúl, ha dichiarato.
La
questione della liberazione dei detenuti politici - ieri altri 5 sono giunti a
Madrid - non è tema di discussione pubblica, ma rimane in controluce. Anche
perché restano aperti molti interrogativi. E gli Stati uniti sembrano
intenzionati a non lasciare che la questione sia gestita solo dalla chiesa
cattolica cubana e dalla diplomazia spagnola. Nei giorni scorsi nella Sezione di
interesse Usa all'Avana (una sorta di ambasciata) vi è stata una riunione con i
familiari di sei detenuti ancora in carcere e che non intendono andare in Spagna
una volta messi in libertà. Ai quali è stato consigliato di chiedere un visto
individuale e non collettivo, per facilitare le operazioni di ammissione negli
Stati uniti come rifugiati politici. Alla riunione erano stati invitati
rappresentanti della chiesa cubana e della diplomazia spagnola. Entrambi hanno
declinato l'invito.
Petrolio, il doppiogioco di Quito di Stella Spinelli
PeaceReporter
- 5 agosto 2010
Quito ha siglato il fidecommesso con il Pnud per preservare la riserva Yasuni. Mancano le firme dei paesi esteri e le riserve di petrolio di quel paradiso resteranno lì per sempre. La distruzione del parco e dei suoi popoli è scongiurata. Forse
La
riserva naturalistica Yasuní-Itt, 982 mila ettari nella conca dell'alto Napo,
cuore dell'Amazzonia ecuadoriana, culla di civiltà indigene e prezioso
ecosistema dalla varietà unica, è sempre più a rischio. Il governo Correa,
che nel 2007 aveva lanciato, per bocca dell'allora braccio destro Alfredo
Acosta, una campagna ecologica internazionale assolutamente rivoluzionaria nel
tentativo di preservarla, adesso si dice disposto a procedere all'estrazione se
gli accordi susseguitisi a quella iniziativa non andranno a buon fine.
Tre
anni fa, l'Ecuador aveva fatto appello al mondo intero affinché lo aiutasse a
preservare quella eccezionale riserva di biosfera, contribuendo a fornire al
piccolo paese andino il denaro corrispondente alla somma che avrebbe ricavato se
avesse proceduto all'estrazione dell'oro nero dallo Yasuní. Un sacrificio
collettivo in nome della natura e contro il surriscaldamento globale. Una scelta
per il clima e dunque, secondo Correa, per l'intero pianeta, che quindi doveva
contribuire a sostenere. Da allora è nata una serie di incontri, riunioni,
discussioni che hanno portato molti paesi ad avvicinarsi al progetto. Ma tutti
pretendevano un garante super partes che sostenesse l'operazione ed è stato
tirato in ballo il Pnud, il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo con il
quale l'Ecuador ha già siglato una sostituzione fedecommissaria, o fedecommesso
che dir si voglia. Adesso mancano solo le firme dei paesi interessati - fra i
quali Italia, Belgio, Germania e Spagna - e gli 846 milioni di barili di crudo -
pari al 20 percento delle riserve ecuadoriane - nascoste in quel paradiso
resteranno lì per sempre. Eppure Quito si mostra più scettico che mai.
"Il
presidente ha annunciato che in caso che non ci sia da parte dei paesi del mondo
intero una risposta positiva, senza dubbio saremo costretti a estrarre questo
petrolio, attraverso la più moderna tecnologia che permetta" la
preservazione dell'ambiente", ha dichiarato il vice Lenin Moreno a TeleSur.
Quindi ha ribadito come questo apporto generoso del suo paese al mondo per la
conservazione della natura sia una responsabilità che devono spartirsi tutte le
nazioni del pianeta. "Nello Yasuní ci sono molte più specie che in tutto
il Nord America. Lì c'è il futuro ecologico. Ed è anche molto interessante
dal punto di vista turistico". Tutti punti a favore dell'accordo, che
parrebbe davvero fondamentale. Eppure il presidente Correa non si è nemmeo
presentato per siglare il fidecommesso con il Pnud. Cosa c'è sotto?
A
spiegare a PeaceReporter i retroscena di questo ambiguo comportamento è Paola
Colleoni, antropologa che da anni vive e lavora in Ecuador, esperta di indigeni
e questione amazzonica.
"A
pochi giorni dalla firma del fedecommesso che dovrebbe garantire che il petrolio
dell' Itt rimanga sotto terra, la dichiarazione del vicepresidente lascia
intravedere ancora una volta l'intenzione di non portare a termine l'iniziativa
di salvare il parco Yasuní dall'estrazione. E di applicare, piuttosto, il
"plan B", ovvero l'estrazione del petrolio, che per molti esponenti
della società civile ecuadoriana è, poi, la vera intenzione del governo. Che,
non a caso, sta ultimando una raffineria vicino alla città di Manta, finanziata
con investimenti della venezuelana Pedevesa e il cui funzionamento ha senso solo
in vista della raffinazione della riserva di crudo dell'Itt".
"La
questione dell'estrazione del petrolio nel parco Yasuní - prosegue - è solo
una delle arene in cui il presidente Correa si sta scontrando con coloro che ha
definito "ecologisti infantili",e che gli è costato lo scontro
diretto con Conaie, l'organizzazione nazionale indigena ecuadoriana. Il nodo
dello scontro è appunto il modello di sviluppo che dovrebbe sostenere la
"revolucion ciudadana". Correa - continua Colleoni - non è disposto a
rinunciare allo sfruttamento delle risorse naturali nei territori indigeni e
accusa chi ne difende i diritti di condannare il paese a "continuare a star
seduto, come un mendicante, su una miniera d'oro". Ma il prezzo di questo
sviluppo, a cui lui si appella in nome dei cittadini ecuadoriani, rischia di
provocare la distruzione dei territori indigeni, e anche i nativi sono una parte
importante dell'Ecuador. Anche sulla questione dei popoli in isolamento
Tagaeiri-Taromenane, il governo ha una posizione a dir poco ambigua: non hanno
ancora impedito che si sfrutti il petrolio in una zona in cui è ormai risaputo
risiedere uno di questi gruppi".
"Se
nella lotta contro il neoliberalismo - conclude l'antropologa - il movimento
indigeno aveva alleati tra quelli che oggi formano il governo e Allianza Pais,
oggi le posizioni nazionaliste e pro-sviluppo assunte dal governo stanno
portando a galla contraddizioni profonde. E la stessa cosa sta accadendo in
altri paesi dell'Alleanza bolivariana, come per esempio in Bolivia, dove gli
indigeni amazzonici sono in rottura con Evo Morales per analoghe ragioni".
Il
ruolo di donatore globale di Niccolò Lollini
www.ipsnotizie.it - 2 agosto 2010
Sin
dagli anni 80’ il Giappone si presenta come uno dei principali donatori a
livello mondiale. Importante forma di politica estera del Paese, quella degli
aiuti ai Paesi in via di sviluppo nacque e si connotò come un modello di
soft-power innovativo: un modello a lungo dibattuto e spesso criticato che oggi
il Giappone sta rivedendo nelle sue dimensioni e caratteristiche. Durante
l’incontro Kan ha parlato di politiche per lo sviluppo in Afghanistan
auspicando per un'efficace azione di governo e chiedendo inoltre che i fondi
donati dal Giappone al governo Afghano lo scorso novembre vengano utilizzati in
maniera costruttiva e soprattutto evitando sprechi. La donazione prevede un
trasferimento di 5$ miliardi lungo un periodo di cinque anni. Preoccupazioni
inerenti le modalità di impiego del finanziamento rimandano al rischio
rappresentato dai diffusi fenomeni di corruzione in Afghanistan: un uso poco
trasparente o clientelare di donazioni e fondi per lo sviluppo potrebbe infatti
coinvolgere lo stesso establishment politico. Il Giappone rappresenta oggi per
l'Afghanistan uno dei principali donatori bilaterali e precedenti sovvenzioni
hanno già contribuito alla realizzazione di importanti opere nel campo delle
infrastrutture (il nuovo aeroporto di Kabul e l’ampliamento della rete
stradale nazionale) e al finanziamento delle forze di polizia.
L’Afghanistan
è solo uno dei tanti paesi che ogni anno beneficiano dei fondi per lo sviluppo
stanziati dal Giappone, sin dagli anni 70' uno dei principali donatori sulla
scena mondiale. Il programma di aiuti: la Official Development Assistance Il
programma di aiuti (ODA, Official Development Assistance) nacque durante la metà
degli anni 60' come estensione del piano di risarcimento dei debiti di guerra
imposto dagli Stati Uniti durante l'occupazione del Paese. Con gli anni del boom
economico e a causa delle crescenti pressioni esercitate dalla Comunità
internazionale, i budget destinati dal Giappone ad aiuti e finanziamenti
continuarono ad aumentare con vario ritmo ma costantemente fino a raggiungere
maggior stabilità solo negli anni 90'. Durante gli anni 70' le donazioni,
principalmente destinate a Paesi in via di sviluppo e per contribuire al
processo di stabilizzazione del sistema monetario internazionale, rimasero
sostanzialmente a livelli inferiori rispetto a quelli attesi o comunque ridotti
se confrontati con quelli di altre nazioni industrializzate. Gli anni 80'
segnarono la vera svolta per il Paese dove gli ODA, tra il 1984 e il 1991,
raggiunsero un tasso di crescita medio annuo del 22,5%. Nel 1987 il Giappone
diventava il maggior donatore mondiale e solo nel 1991 (anno simbolo della crisi
economica giapponese), con un budget di ben 11$ miliardi, cedeva il podio agli
Stati Uniti. Degno di nota il dato che mostra come negli anni 80' gli ODA,
espressi in termini percentuali rispetto al Pil, non testimoniassero sostanziali
variazioni annuali attestandosi su una media dello 0,3%. In pratica il Giappone
non raggiunse l'apice della classifica dei donatori grazie ad una particolare
munificenza, ma solo per mezzo della straordinaria crescita del Pil verificatasi
in quegli anni. Nel 1991 ad esempio il rapporto ODA/Pil era dello 0,32% per il
Giappone (0,20% per gli Stati Uniti) a fronte di una media dello 0,35% dei paesi
aderenti all'OECD (Development Assistance Committee).
Le
tre principali istituzioni che in Giappone hanno operato per la distribuzione
degli ODA furono rappresentate dal Japan International Cooperation Agency
(JICA), L'Overseas Economic Cooperation Found (OECF), e il Japan Export-Import
Bank (Exim Bank). Nel 1999 OECF e Exim Bank, principalmente occupate in progetti
basati su prestiti a termine e microcredito, vennero poi unite in un unica
organizzazione, la Japanese Bank of International Cooperation (JBIC). JICA,
organizzazione governativa indipendente, opera per la distribuzione di
finanziamenti nei Paesi in via di sviluppo e per la creazione di network di
cooperazione internazionale. Con il nuovo statuto introdotto nel 2003 e
pienamente entrato in vigore nel 2008, l'organizzazione è stata sottratta alla
giurisdizione del Ministero degli esteri diventando una delle più grandi realtà
mondiali nell’ambito della cooperazione internazionale.
Con
circa 100 uffici attivi nel mondo e progetti in oltre 150 paesi, JICA dispone di
risorse annuali pari a 8,5$ miliardi. Grazie agli anni di esperienza sul campo e
agli alti budget, l'organizzazione si è inoltre configurata come think-tank
della cooperazione internazionale con una rete capillare di rapporti con
governi, agenzie multilaterali e ONG. Un recente programma ha reso possibile la
formazione professionale di oltre 8000 funzionari oggi sparsi nei vari Paesi e
la struttura sempre più decentrata e indipendente dell’organizzazione ha
aiutato a ridurre i costi della burocrazia favorendo iniziativa e lavoro sul
campo. Il contributo di JICA varia da programmi di aiuti umanitari, formazione
tecnico-scientifica, progetti di sviluppo nei settori di energia e agricoltura.
In Giappone i finanziamenti basati su rapporti bilaterali con i Paesi
destinatari delle donazioni si sono fino ad ora prevalentemente concentrati sui
paesi in via di sviluppo dell'Asia che ancora nel 1990 incassava il 60% dei
fondi stanziati (con un 11% verso l'Africa, 10% in paesi del Medio Oriente e 8%
in Sud America) e la percentuale saliva nel 1998 al 62,5%. Mentre in Asia
durante gli anni 80' fu la Cina a rappresentare il principale beneficiario degli
ODA stanziati dal Paese, nel 1990 questi erano ripartiti più omogeneamente tra
Indonesia (1,1$ miliardi), Cina (830$ milioni), Thailandia (440$ milioni),
Filippine (400$ milioni), Bangladesh (370$ milioni). Nel 1987 ad esempio il
Giappone rappresentò il principale finanziatore dello sviluppo di Paesi ASEAN
contribuendo al 55% dei fondi complessivi (gli Stati Uniti contribuivano per
circa l'11% mentre le organizzazioni internazionali non superavano il 10%).
I
rapporti con la Cina
La Cina rimase comunque uno dei principali fruitori degli ODA che per il Giappone si trasformarono negli anni in uno strumento di politica estera caratterizzato da luci ed ombre. Con riferimento ai soli rapporti bilaterali, la Cina ha sempre goduto di un trattamento speciale ottenendo dal Giappone uno stanziamento di fondi che superava perfino quello della Banca Mondiale, primo donatore multilaterale mondiale. La maggior parte dei finanziamenti venne sempre trasferito sotto forma di prestiti (circa il 75% del totale) in piani quinquennali. Che gli ODA verso la Cina rappresentino un importante strumento di politica estera è dimostrato dal fatto che i piani quinquennali sono da sempre annunciati personalmente dai capi di governo alle autorità cinesi durante importanti occasioni e con particolare enfasi. Donazioni bilaterali e fondi per lo sviluppo sono solitamente pratiche affidate alla burocrazia e non prevedono di norma, quale che sia il budget implicato, dichiarazioni formali a carico di personalità interne al governo. Ma contrariamente a quanto ci si possa aspettare gli ODA hanno più di una volta rappresentato motivo di attrito tra i due Paesi diventando soprattutto negli ultimi anni oggetto di un acceso dibattito. Mentre la Cina non ha gradito il calo lento ma costante dei fondi stanziati a suo favore a partire dal 1990, gli stessi giapponesi guardano con sospetto alle ingenti somme spese per costruire una lussuosa quanto inutilizzata metropolitana a Beijing quando occorrerebbe piuttosto rinnovare quella ormai obsoleta di Tokyo, oppure sempre a Beijing per costruire ben 51 ascensori ultraveloci nel nuovo aeroporto mentre Narita soffre di sovrappopolamento dovuto alle dimensioni ridotte. Coesiste dunque da un lato il malcontento dei cittadini giapponesi che considerano le sovvenzioni alla Cina come un inutile spreco di denaro pubblico, dall’altra le amministrazioni cinesi infastidite dal calo dei finanziamenti. E la beffa giunge dai sondaggi secondo cui i cittadini cinesi non sarebbero affatto a conoscenza delle generose donazioni e il Giappone viene tutt’ora considerato debitore per i danni della guerra. Ed è così che gli ODA si rivelano per le relazioni sino-giapponesi un’arma a doppio taglio; nate per smorzare tensioni e migliorare i rapporti tra i due paesi, appaiono oggi come dannose su innumerevoli fronti.
Le
critiche
Gli
ODA stanziati dal Giappone confluiscono per lo più in opere pubbliche e
infrastrutture, con particolare enfasi verso trasporti e comunicazioni
(ferrovie, strade, porti...). Sebbene negli ultimi anni le sovvenzioni siano
state impiegate in maniera più variegata, i vari programmi di donazioni furono
spesso criticati a causa delle modalità di erogazione e del fatto che la
realizzazione di molte opere infrastrutturali fosse spesso connessa a benefici
economico-commerciali per il Giappone. Durante gli anni 70' gli il piano di
sovvenzioni fu oggetto di critiche non solo a causa della sua inadeguatezza
relativamente alle risorse del Paese, ma anche perché quelli che sarebbero
dovuti essere finanziamenti a fondo perduto si rivelavano spesso buoni per
l'acquisto di beni di produzione giapponese. In realtà tale polemica,
insinuando appunto un maggior beneficio per le compagnie giapponesi che non per
i Paesi destinatari di aiuti, si rivelò in parte infondata (già nel 1976 la
percentuale di finanziamenti di questo tipo era ridotta al 28%). Principale
argomento oggetto di critica è invece rappresentato dal fatto che il Giappone,
contrariamente a ciò che avviene nella maggior parte dei Paesi donatori,
seleziona anticipatamente modalità e finalità di impiego dei fondi. La
necessità di implementare gli scambi commerciali specialmente con i Paesi
asiatici venne da subito riconosciuta come linea guida della politica economica
di Tokyo.
Per
garantire il funzionamento delle vie di comunicazione, nonché le forniture di
materie prime indispensabili per lo sviluppo dell'economia nipponica, la
costruzione di infrastrutture in molti Paesi in via di sviluppo si presentava
come imprescindibile necessità. L’impiego di immensi budget destinati negli
anni ad opere infrastrutturali di questo tipo soprattutto in Asia venne visto
dai critici come dettato da precise scelte politiche in funzione di strategie di
lungo periodo per lo sviluppo economico del Paese. Dai primi anni
90’,colpevole anche il tracollo dell’economia nipponica, tali polemiche
vennero smorzate grazie al nuovo e più variegato impiego fatto degli ODA dalle
successive amministrazioni. Oltre ad una maggiore presenza in diverse aree
geografiche, le sovvenzioni coprono ora in gran parte lo sviluppo di progetti
per la valorizzazione delle are rurali, aiuti umanitari, politiche ambientali e
politiche a favore dei processi di democratizzazione. ODA e diplomazia
Ribattezzata “Gift-giving diplomacy”, in giapponese omiage gaikō,
la diplomazia degli aiuti ha negli anni sopperito alle falle di politica estera
di Tokyo che soprattutto in Asia, dal Dopoguerra in poi, non poté che
instaurare fragili partnership economiche con quelle nazioni che pochi anni
prima erano state vittime dell’imperialismo nipponico.
Per
una riappacificazione con i Paesi dell’Asia Orientale e per adempiere ai
doveri richiesti dal ruolo di potenza economica globale, il Giappone scelse la
via degli aiuti come strumento per affermare il prestigio nazionale e
propagandare la propria immagine nel mondo. Vi è inoltre un altro elemento
significativo che potrebbe aver contribuito a giustificare gli ingenti budget
stanziati negli anni. Il Giappone non deve affrontare spese militari data la
dimensione forzatamente ridotta del proprio esercito e non contribuisce
attivamente controllo degli equilibri strategici regionali. Gli Stati Uniti,
veri tutori dell’ordine regionale e garanti della sicurezza nazionale del
Paese, potrebbero aver operato affinché Tokyo sopperisse alle proprie mancanze
in forma diversa, con un’assunzione di responsabilità tradotta in termini di
finanziamenti che contribuissero ad attutire tensioni e conflitti in aree a
rischio di instabilità. La connessione tra Paesi destinatari degli ODA e
necessità di politica estera americana furono a volte evidenti. Negli anni 80'
ad esempio due Paesi completamente estranei all’area di interesse delle
sovvenzioni giapponesi, Pakistan ed Egitto, entrarono nel novero dei destinatari
degli aiuti. In quegli anni entrambi i Paesi erano al centro degli interessi
strategici americani e i finanziamenti giapponesi giunsero con tempismo e
caratteristiche tali da non poter essere considerati in termini di semplici
coincidenze. Per il Giappone la sostituzione di una politica strategico-militare
con la omiage gaikō resta anche oggi una costante.
Il caso delle sovvenzioni per 5$ miliardi all’Afghanistan giunge nel periodo in cui il partito di centro-sinistra prende il potere e decide di sospendere l’unica operazione militare (logistica) attiva nell’area. Il Giappone ha scelto di non schierare alcuna truppa in Afghanistan ma alcune navi del Maritime Self-Defence Force (marina militare nipponica) operavano nell’Oceano Indiano garantendo rifornimenti di acqua e benzina alle forze di internazionali. L’equazione ha anche in questo caso previsto una soppressione della presenza diretta nell’area per un aumento dei fondi stanziati in aiuti. Conclusioni La politica degli ODA perpetuata negli anni dal Giappone si è rivelata col senno di poi sostanzialmente fallimentare. Gli aiuti sono spesso mal investiti, criticati, misconosciuti da cittadini e governi e soprattutto quando cessano di essere erogati si trasformano in motivo di risentimento. Vi è poi da considerare la sostenibilità di un simile sistema, troppo oneroso per un Paese dall’economia in difficoltà. Nel 2001 il Paese si è visto scavalcare dalla Gran Bretagna finendo al terzo posto nella classifica dei donatori mondiali. Le ragioni appaiono fin troppo semplici: il Giappone non è più ricco come una volta. Visto che il rapporto ODA/Pil non oscilla oltre il suo tradizionale livello e l’economia nipponica, dagli anni 90’ fino al tracollo del 2008, continua nel suo lento declino (relativo), il ruolo di brillante leader di donatore mondiale non potrà che venire offuscato ulteriormente. Tokyo ha inoltre tagliato i suoi contributi all’ONU dal 19,5% del budget totale al 16,6%. I budget continuano a diminuire e il Giappone ripensa alla propria strategia in nuovi termini, in base alle necessità e alle contingenze che cambiano: meglio spendere poco, magari in maniera più calcolata, più precisa. © Equilibri
Gli
Stati Uniti presenti per la prima volta alla cerimonia di Hiroshima
AsiaNews
- Hiroshima - 6 agosto 2010
Presenti anche rappresentanti di Francia e Gran Bretagna. Il premier Naoto Kan ribadisce l’impegno al disarmo nucleare mondiale. Anche Ban Ki-moon chiede l’eliminazione totale degli ordigni nucleari. Il minuto di silenzio e il lancio di 1000 colombe.
Per
la prima volta un rappresentante del governo americano ha partecipato oggi alle
cerimonie in ricordo della distruzione della città di Hiroshima, avvenuta 65
anni fa, per il lancio di una bomba atomica statunitense. La bomba, lanciata
alle 8.15 (ora locale) il 6 agosto 1945, ha fatto oltre 140 mila morti e di lì
a poco ha segnato la fine della Seconda guerra mondiale.
Per
la prima volta, anche Francia e Gran Bretagna – alleati degli Usa nella guerra
- hanno preso parte alla cerimonia presso il Memoriale della pace, insieme a
rappresentanti di più di 70 nazioni
Il
Giappone è il solo Paese al mondo ad essere stato vittima di un attacco
nucleare – il 6 agosto a Hiroshima e il 9 agosto a Nagasaki. Per questo, il
Paese chiede da tempo il disarmo nucleare mondiale.
“La
razza umana – ha detto il premier Naoto Kan durante il suo discorso – non
deve ripetere l’orrore e le sofferenze causate dalle armi atomiche… Il
Giappone, sola ed unica vittima dei bombardamenti atomici in tempo di guerra, ha
una responsabilità morale nella lotta per costruire un mondo senza armi
nucleari”.
John
Ross, ambasciatore Usa in Giappone, in rappresentanza del suo governo, ha
diramato un comunicato in cui si sottolinea l’importanza di “lavorare
insieme per realizzare un mondo senza armi nucleari”. La sua presenza a
Hiroshima è vista come una preparazione alla venuta nella città martire del
presidente Barack Obama e un rilancio del suo programma di denuclearizzazione
del pianeta.
Il
segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon, ugualmente presente per la prima
volta alla cerimonia annuale di Hiroshima, ha affermato che “l’unico modo
per assicurarsi che tali armi non saranno mai più usate è di eliminarle tutte.
Non deve esserci alcuno spazio nel nostro mondo per tali armi indiscriminate”.
Alle
8.15, nell’istante preciso in cui la bomba è esplosa sulla città, tutti
hanno osservato un lungo minuto di silenzio, seguito dal discorso del sindaco di
Hiroshima, Tadatoshi Akiba, e dalla liberazione di 1000 colombe nel cielo, come
segno di pace. “Noi – ha detto Akiba – salutiamo questo 6 agosto con la
determinazione rafforzata che nessun altro in avvenire dovrà sopportare tali
orrori”.
A
Hiroshima, almeno 140 mila persone sono morte all’istante o in seguito alle
ustioni provocate dalla bomba, che ha incenerito ogni essere vivente nel raggio
di centinaia di metri; più di 70 mila per la bomba al plutonio fatta scoppiare
a Nagasaki. Diversi gruppi in Giappone hanno chiesto che gli Usa domandino
perdono per le due bombe atomiche, ma gli Stati Uniti hanno sempre affermato che
le due bombe erano necessarie per far concludere la guerra.
La
tragedia dei bambini talibés per le strade delle città
Agenzia Fides - Gabu - 2 agosto 2010
Ogni anno una minoranza di studenti delle scuole coraniche, o 'talibés', affidati alla tutela di un leader religioso, rischiano di essere sfruttati ed abusati. Per cercare di arginare questo grave problema, alcune agenzie impegnate per la tutela dell'infanzia organizzano incontri con i familiari con l'obiettivo di reinserirli nelle famiglie di appartenenza. Tuttavia questa operazione rimane molto difficile in quanto gli ex-talibés hanno conosciuto i propri genitori a malapena e subito violenze sin dall'infanzia. Secondo un recente rapporto di Human Rights Watch (HRW), la grande maggioranza dei 50 mila talibés proviene dal Senegal o da Bafata e Gabu, rispettivamente 80km e 200km est di Bissau."Riuscire a rintracciare le famiglie di provenienza è un'impresa difficile in quanto molti bambini lasciano casa quando sono ancora molto piccoli e conoscono solo il nome della persona che li ha cresciuti fino a quel momento o il nome dei nonni," si legge in una dichiarazione del responsabile dell'ong 'Bissau-Guinean AMIC' (L'Association des Amis de L'Enfant), a Gabu, impegnata dal 2004 a riportare indietro, in Guinea-Bissau i bambini. Le famiglie in queste zone prevalentemente musulmane mandano i propri figli alle scuole coraniche di Tambacounda nel Senegal occidentale, o verso città del nord del paese, comprese Thiès, Dakar e St. Louis, ma spesso i leaders religiosi costringono i ragazzi all'accattonaggio, non danno loro da mangiare nè da vestire, e li picchiano regolarmente. In un rapporto del 2007 l'UNICEF, l'International Labour Organization e la World Bank, hanno registrato molti bambini dediti all'accattonaggio a Dakar, compresi i talibés, spesso seriamente malnutriti. Secondo HRW, molti vengono regolarmente picchiati, e sono molto diffuse malattie come vermi e scabbia a causa dei precari servizi sanitari. Il centro di transizione dell'AMIC può ospitare fino a 40 bambini alla volta, oltre altri 20 che vengono accolti subito. Da novembre del 2005 l'organizzazione ha riunito 253 ragazzi. Sostenuti dal Governo svizzero, dall'Organizzazione Internazionale per la Migrazione, e dall'Istituto di Ginevra per i Diritti Umani, l'AMIC si impegna a sostenere le spese scolastiche di ogni bambino fino al completamento della scuola secondaria. In passato, alcuni ragazzi non sono riusciti a reinserirsi nelle famiglie e sono tornati indietro: 30 nel 2006. La maggior parte delle famiglie che manda i bambini via da casa vivono in condizioni di estrema povertà, i loro villaggi sono distanti molte miglia dalle scuole o dagli ospedali più vicini. Non si sa molto su quanto accade ai talibés a lungo termine sebbene alcuni esperti sulla tutela dei minori sostengono che spesso diventino venditori ambulanti di schede telefoniche o prodotti di seconda mano per le vie della città.(AP)
Il
cricket fenomeno di aggregazione nazionale di Vivek John Cherian
www.ipsnotizie.it - Mumbai - 4 agosto 2010
In
un Paese che non può vantare di un'eredità sportiva, il Cricket è,
ironicamente, largamente diffuso. Esso emoziona la Nazione e unisce i sui
confini come nient'altro è riuscito a fare. Portando gli Indiani verso un pigro
passatempo dell'aristocrazia Britannica, durante i tre secoli di dominio, il
gioco ha avuto un ruolo importante nella storia del Paese. Secondo la
tradizione, i contadini indiani chiesero ai colonizzatori britannici di
eliminare la tassa obligatoria sulla terra a causa dei cattivi raccolti dovuti
ad una siccità senza precedenti. I britannici, attraverso la loro
amministrazione, finirono per impoverire i contadini, e promisero loro che le
tasse sarebbero state eliminate se avessero battuto l'Inghilterra in una partita
di cricket.Data l'incapacità degli agricoltori, che non capivano la dinamica
del gioco, si impegnarono in duri allenamenti e diedero prova di grande unione
per poter vincere la partita della vita.
Inutile
dire che riuscirono nell'impresa di battere l'Inghilterra; questo evento cambiò
il corso della lotta per la libertà.Nell'era della commercializzazione dello
sport, l'India è riuscita a creare una struttura di controllo finanziario del
gioco grazie al largo numero di fan e alla statura economica che ha saputo
acquisire a livello mondiale. Emulando l'avanzata e lunga tradizione del calcio
europeo, la “Indian Premier League” (IPL) è stata inaugurata nel 2008.
L'anno d'inaugurazione della IPL ha visto otto squadre partecipare alla
competizione. L'evento ha catturato l'attenzione non solo del grande business
manageriale, come la Ambani's e la Mallya's (Azienda di Pescatori), ma anche
l'interesse delle superstar Indiane come Shah Rukh Khan (produttore
cinematografico).
Così,
la proprietà di alcune squadre apparteneva a case manageriali o a conglomerati
di star della TV i quali hanno cominciato a trattare per acquistare i migliori
giocatori del mondo: giocatori dal Sud Africa, Australia, Pakistan, Sri Lanka,
India dell'Ovest, Zimbawe, Nuova Zelanda, Banladesh e naturalmente India; i
migliori sono stati scelti solo dopo intense ore di trattative. Tre anni dopo,
l'IPL è il più grande campionato di sport al mondo.Con un fatturato di un
miliardo di dollari americani (in una stagione invernale) il campionato ha
guadagnato più del baseball statunitense e del calcio europeo per ogni partita.
Altre due squadre sono state aggiunte quest'anno alla gara e la squadra del
“PUNE” è stata acquistata al prezzo record di 370 milioni di dollari dal
Sahara Group. Per fare un paragone, questa squadra costa più del Chelsea (280
milioni di dollari) o del Manchester City (310 milioni di dollari). I giocatori
erano pagati 1,5 milioni di dollari al mese per un anno. La più grossa fetta
degli introiti arriva dai diritti Tv seguiti poi da diversi altri redditi.
Google si è aggiudicato i diritti per far vedere le partite in diretta
attraverso You Tube per 100 milioni di dollari.
In
occasione della finale, l'IPL ha guadagnato almeno 1milione di dollari ogni
dieci secondi di pubblicità, che è paragonabile ai prezzi pubblicitari della
Coppa del Mondo di calcio e al Super Bowl statunitense.Diversamente dal calcio,
il cricket ha trenta secondi di pausa dopo ogni fine gioco. Anziché fare due o
tre pause come il calcio, il cricket ne fa almeno 40 durante ogni partita.
Mentre la restante parte dei guadagni Tv deriva da interviste esclusive, vendite
di biglietti e sponsor delle varie squadre.
La
regola secondo cui solo un massimo di quattro giocatori stranieri possono essere
impiegati in una partita fa in modo che i rimanenti spazi siano riempiti da
giocatori Indiani, aprendo delle buone opportunità per i giovani talenti.Si da
così l'opportunità ai giovani giocatori di partecipare a partite di grande
spessore con atleti di classe mondiale e aiutare lo sviluppo dell'accademia di
cricket e dei campionati minori composti da diverse squadre. In oltre il cricket
in India gode dell'appoggio delle corporations economiche per poter incrementare
la mole di lavori da effettuare come, ad esempio, accrescere le infrastrutture e
far alzare lo standard qualitativo del gioco.Nonostante le numerose accuse,
secondo le quali il gioco sia prevalentemente basato intorno all'intrattenimento
e al business (cheerleaders, alcolici e scommesse), esso continua a catturare
l'interesse del mondo, con il risultato che qualsiasi tentativo di discreditarlo
resta un fenomeno isolato.Il prossimo anno l'IPL ha promesso di migliorarsi:
numero maggiore di squadre, più partite, più stadi e la revisione dei
contratti di tutti i giocatori. Durante la stagione dell' IPL, il traffico
cittadino si riduce, le partite sono trasmesse al cinema e le soap opera
subiscono un interruzione di tre ore per permettere che il cricket sia uno show
con il massimo share e che attraversa tutta la popolazione: casalinghe, bambini
e uomini. In un Paese dove il Cricket è sinonimo di religione, l'IPL saprà,
nei prossimi anni, apportare i giusti accorgimenti che riusciranno a colpire la
sensibilità del popolo Indiano e ad avvicinarlo ulteriormente a questa “nuova
fede”.
©EquilibriTraduzione
di Alessandro Romano
L'università
di Buddha rinascerà dalle rovine vecchie di mille anni di Raimondo
Bultrini
L'Espresso
- 5 agosto 2010
Il complesso di Nalanda fu distrutto sul finire del XII secolo dai soldati di un re turco. Il governo di New Delhi porta in Parlamento un progetto per avviare i lavori di ricostruzione. Anche il nobel Amartya Sen in un comitato di saggi ed esperti
Le
cronache della distruzione dell'Università indiana di Nalanda risalgono
a quasi mille anni fa, ma narrano vividamente di come le fiamme e le
braci impiegarono tre mesi prima di spegnersi sui resti fumanti del più
grande ateneo di studi buddhisti del mondo. Ad alimentare il fuoco
furono le migliaia e migliaia di libri buttati giù dagli scaffali della
Biblioteca dove erano stati raccolti e catalogati per almeno sette
secoli. Quasi tutti i duemila insegnanti, i diecimila alunni e gli
ospiti giunti dall'intero Oriente, dalla Grecia e dalla Persia vennero
passati a fil di spada sul finire del XII secolo dai soldati di un re
turco, offeso - si dice - per non aver trovato tra tanta
letteratura nemmeno una copia del Corano.
La novità è che il governo indiano sta per portare in Parlamento (entro una settimana) la proposta di legge per avviare ufficialmente i primi lavori di ricostruzione di una delle più eccelse vestigia della civiltà indiana. Sorgerà a Rajgir, nel Bihar, dalle odierne rovine di mattoni rossi e sterpaglia visitate ancora da frotte di pellegrini, esattamente dove il Buddha in persona insegnò 2500 anni fa i più alti stadi del suo pensiero, celebre come Grande Veicolo, o Mahayana.
Non
solo il buddhismo divenne per secoli la religione di Stato in tutto il vasto
regno indiano delle dinastie Maurya e Gupta, ma l'influenza di Nalanda si estese
al Tibet e alla Cina sotto forme ancora più sofisticate e complesse. I suoi
docenti istruirono alti sacerdoti, re e imperatori di gran parte dell'Asia,
primi tra tutti i Dalai lama, i Khan mongoli e il Signore celeste della Cina.
Da
quattro anni il governo ha già affidato il compito di escogitare il modo
migliore di riportare in vita l'antica istituzione a un comitato di esperti e
saggi tra i quali il Nobel indiano Amartya Sen, un luminare cinese e il ministro
degli esteri di Singapore. Proprio la piccola e ricca isola ha promesso assieme
a Cina e Giappone cospicui finanziamenti per l'immane compito di rivitalizzare
non solo accademicamente, ma anche economicamente e socialmente, luoghi che
furono devastati palmo a palmo e restarono abbandonati a sé stessi con la
scomparsa del buddhismo nella sua patria d'origine.
L'area
di Nalanda, a poche ore dalla capitale di uno degli Stati più poveri del
Continente, è sottoposta a cicli costanti di alluvioni monsoniche e molte aree
sono ancora pericolose per gli agguati di briganti e rapinatori. Anche per
questo la sfida accademica di Nalanda International - appena all'inizio - resta
ancora tutta da giocare, e potrebbe cedere - come ha indirettamente
ammesso lo stesso Sen - alle pressioni di uno dei principali
sponsor, la Cina, che vuole tenere fuori dal progetto il Dalai lama. "Egli
guida una religione - ha spiegato Sen - E un uomo attivo
religiosamente potrebbe non essere appropriato per degli studi religiosi".
Contro
la sua esclusione si sono però già dichiarati storici e buddhisti che
considerano il leader tibetano erede per stirpe diretta dei docenti di Nalanda
come Nagarjuna, Shantideva, Dharmakirti. Tra i loro colleghi di cattedra c'erano
anche yogi che insegnavano le più segrete e complesse filosofie e tecniche dei
tantra, alla base di tutte le quattro principali scuole del buddhismo Vajrayana
che soppiantarono col tempo il culto ancestrale Bon degli spiriti e degli
elementi su tutto l'enorme altipiano tibeto-mongolo.
Ma
a Nalanda si insegnava di tutto, dall'alta matematica all'astronomia,
l'alchimia, l'anatomia. Sarà lo stesso anche con la sua rinascita? Il Nobel per
l'Economia Sen, a capo del Comitato dei Nalanda Mentor, i Maestri del progetto,
ha subito raffreddato l'entusiasmo di quanti si aspettano in tempi rapidi
un'istituzione scientifica su scala internazionale che "costerebbe molti più
soldi di un dipartimento di letteratura". Contro gli oltre 1000 milioni di
dollari necessari per creare strutture e aule, infatti, ce ne sono appena
la metà, stanziati per ora dal solo governo dell'India che punta a ottenere in
una settimana il sì delle Camere, quasi scontato. Per il resto si aspettano
donazioni private, nella speranza di ricreare una città di torri, padiglioni,
templi come quella visitata dal pellegrino cinese Xuangzang nel VII
secolo. Dove i monaci, scrisse, "potevano assistere dalle loro stanze sopra
la nebbia del cielo alla nascita dei venti e delle nubi".
Terrorismo,
l'America accusa l'Iran
L'Espresso - 5 agosto 2010
Ma
Obama: "Dialogo sul nucleare"
Nella
lista nera del Dipartimento di Stato, Teheran figura al primo posto. Ci sono
anche Sudan, Siria e Cuba. Manca la Corea del Nord. Il presidente riapre ai
negoziati: "Devono dimostrare che non stanno costruendo armi".
L'Iran
è il più grande sponsor del terrorismo. Lo afferma il Dipartimento di Stato
americano nel suo rapporto annuale sull'argomento. Nel documento si legge che
Teheran "minaccia il Libano, l'economia del Golfo e la pace
regionale". Nella "lista nera" degli esperti Usa figurano anche
Sudan, Siria e Cuba. Manca invece la Corea del Nord. Vietato abbassare la
guardia anche su Al Qaida. Anche se ha subito "rovesci significativi",
avverte la relazione, rappresenta una minaccia sempre più "diffusa".
L'Iran
destabilizza la regione. Nel rapporto si afferma che "Teheran appoggia
Hamas e Hezbollah" rendendo difficili, in questo modo, "gli sforzi
internazionali volti a promuovere la pace, minacciando la stabilità economica
nel Golfo, mettendo in pericolo la pace nel Libano meridionale e minando la
crescita della democrazia". La Corea del Nord resta fuori dalla lista,
nonostante le nuove tensioni tra Washington e Pyongyang, dopo l'affondamento
della corvetta sudcoreana Cheonan nei pressi del confine marittimo tra le due
Coree. Nell'incidente, accaduto a fine marzo, avevano perso la vita 46 marinai.
Gli Stati uniti hanno classificato l'episodio come un'operazione condotta da un
esercito contro un altro, non come un atto terroristico.
Al
Qaida, minaccia diffusa. Al Qaida, si legge nel rapporto del Dipartimento di
Stato, "ha subito numerose perdite importanti nel 2009", molte delle
quali inferte dall'esercito pakistano nelle regioni tribali del nord-ovest.
"Molti capi dell'organizzazione terroristica - prosegue la relazione - sono
stati eliminati e per al Qaida è diventato più difficile raccogliere
finanziamenti, addestrare nuovi militanti per preparare altri attentati al di
fuori della regione". Nello stesso tempo, però, "la minaccia di Al
Qaida è divenuta più diffusa rispetto agli anni precedenti, e questo ha
parzialmente compensato le perdite". Tra gli esempi di "minaccia
diffusa", il rapporto indica il fallito attentato di Natale sul volo
Amsterdam-Detroit.
Obama
apre all'Iran. Nonostante per il Dipartimento di Stato sia il pericolo numero
uno, proprio oggi il presidente americano ha riaperto la porta alle trattative
sul nucleare con Teheran. Gli Usa restano pronti a riavviare il dialogo con
l'Iran sul suo programma atomico, e a mettere da pare le sanzioni, se Teheran
seguirà "una chiara serie di passi". Lo ha detto Obama parlando con
dei giornalisti alla Casa Bianca.
"E'
molto importante - ha proseguito Obama - mettere l'Iran di fronte a una chiara
serie di passi da fare che noi consideriamo sufficienti a chiarire che non
stanno realizzando armi nucleari". E loro, ha aggiunto, devono sapere che
"possono dire sì a tutto questo" e seguire una via pacifica per
risolvere la situazione. Di fatto, per gli Usa, l'Iran potrà mantenere i suoi
programmi nucleari civili se fornirà "prove affidabili" per
verificare che non stia costruendo l'atomica. Nei giorni scorsi il presidente
iraniano Ahmadinejad aveva sfidato Obama a "un faccia a faccia"
televisivo sul problema nucleare. Incontro che il portavoce Robert Gibbs, aveva
escluso categoricamente. "Abbiamo sempre detto", aveva detto il
portavoce del presidente, "di essere pronti a sedere a un tavolo e a
parlare, ma solo seriamente. E a oggi questa serietà non sembra ancora
esserci".
Libano, una nuova estate calda di Christian Elia
PeaceReporter
- 4 agosto 2010
Lungo il confine più rovente del mondo, al centro di tanti interessi contapposti
In
Libano gli alberi sono importanti. Non a caso la nazione è nota in tutto il
mondo come il Paese dei Cedri, pianta millenaria, che fa bella mostra di sé
anche nella bandiera nazionale libanese. Qui, però, si esagera.
Pare
ormai assodato che il motivo dello scontro a fuoco avvenuto ieri tra l'esercito
libanese e quello israeliano, costato la vita a cinque persone (un giornalista,
tre soldati libanesi e un militare israeliano) è stato scatenato
dall'abbattimento di un frondoso albero che impediva la visuale alle sentinelle
dell'esercito d'Israele. I militari di Tel Aviv, a loro dire dopo aver
opportunamente informato i militari di Unifil (il contingente Onu stanziato nel
Libano meridionale dalla fine del conflitto del 2006), hanno passato la
frontiera per eliminare l'albero. A quel punto i militari libanesi hanno aperto
il fuoco. Gli israeliani hanno risposto. Scattata in men che non si dica la
diplomazia Onu, al di là delle accuse reciproche, l'incidente sembra rientrato.
Solo in apparenza, però, perché che il problema sia un albero - in fondo - non
ci crede nessuno.
La
tensione al confine tra Israele e Libano è alle stelle. La differenza, rispetto
al 2006 - quando Israele attaccò Beirut e il Libano meridionale con l'obiettivo
di cancellare dalla faccia della terra Hezbollah - è che adesso il problema non
è più solo il partito sciita guidato da Hassan Nasrallah, ma anche il governo
del premier Saad Hariri.
Il
primo problema è la situazione interna del Libano. Dopo le elezioni del 7
giugno scorso, il governo di Hariri si è detto pronto a inserire a pieno
Hezbollah, il partito armato sciita filo iraniano, nel novero delle realtà
politiche del Paese. Questo per Israele è un problema. Il fronte
settentrionale, per Israele, resta scoperto. Nessuna fiducia nell'Unifil che, ai
sensi della risoluzione 1701 del Consiglio di Sicurezza Onu che pose fine al
conflitto il 4 agosto 2006 dovrebbe vigilare sul confine e disarmare Hezbollah,
o perlomeno impedire che giungano armi dall'Iran. I militari israeliani non si
fidano, ancor più adesso che c'è il comando spagnolo (secondo Tel Aviv
intimidito dagli estremisti con l'attentato del 24 giugno 2007, costato la vita
a due militari spagnoli e tre colombiani) e caschi blu indonesiani (ritenuti
troppo musulmani per quel teatro), e temono un nuovo attacco di Hezbollah.
Hezbollah,
rispetto ai fatti di ieri, non c'entra nulla. Almeno sulla carta. Nasrallah si
è affrettato a garantire l'intervento immediato dei suoi uomini se si dovesse
ripetere un attacco come quello di ieri. Non è così, a ben vedere. La
divisione che ha ingaggiato lo scontro a fuoco con le truppe israeliane è la
Nona, composta in massima parte di sciiti. Una delle clausole che Hezbollah ha
sempre preteso rispetto al dispiegamento dell'esercito libanese nel sud del
Paese è che ci siano unità sciite. Non solo questo, visto e considerato che il
giornalista che ha perso la vita è Assaf Abu Rahhal, di al-Akbar, quotidiano
libanese nato proprio l'ultimo giorno della guerra del 2006 per raccontarne
l'orrore. Walid Jumblatt, leader druso libanese, ha sempre detto che il giornale
è una voce iraniana, ma non è questo il punto. La presenza di Rahhal e il
fatto che le prime immagini siano state trasmesse da al-Manar, la televisione di
Hezbollah, danno l'idea che gli ambienti vicini al partito armato sciita
sapessero che qualcosa stava per succedere. Ma a chi giova una nuova guerra
nell'area? Israele vorrebbe chiudere il conto lasciato aperto nel 2006, ma non
si sente più alle spalle un'Amministrazione Usa pronta a dire sempre si. Però
un problema, sul fronte settentrionale, resta.
Il
filo rosso che lega Hezbollah all'Iran, passando dalla Siria, gode di ottima
salute. L'intenso lavoro diplomatico degli Stati Uniti d'America, della Francia
e dell'Arabia Saudita per spezzare l'asse sciita (la Siria è un Paese a
maggioranza sunnita, ma il presidente siriano Bashar al-Assad è legato alla
setta alauita, d'ispirazione sciita) portando Damasco nell'orbita occidentale
non hanno dato i frutti sperati. Secondo l'intelligence d'Israele, nonostante i
colloqui che da anni (mediati dalla Turchia) vedono impegnati Damasco e Tel
Aviv, la Siria continua a consentire il passaggio sul suo territorio dei missili
iraniani destinati a Hezbollah. Gli Usa, mesi fa, erano pronti ad annunciare,
come grande successo diplomatico, la riapertura della loro ambasciata a Damasco.
Ma qualcosa è andato storto e la visita del presidente iraniano Mahmud
Ahmadinejad a Damasco è stata un successo. Gli Usa e la Francia hanno provato a
recuperare ancora, mandando il fidato re saudita Abdulaziz a trattare con Assad,
ma l'orientamento del leader siriano è chiaro: si gioca su più tavoli,
prendendo tutto quello che si può. Senza certezze per nessuno, tanto meno per
Israele.
Hezbollah
stesso, però, non è del tutto tranquillo, pur dopo il coinvolgimento a pieno
titolo nella politica libanese. Sul movimento incombe il Tribunale Speciale
voluto dall'Onu per l'omicidio di Rafik Hariri, ex premier (padre dell'attuale
primo ministro) assassinato a Beirut il 14 febbraio 2005 da un'autobomba. Hariri
era noto per le sue posizioni anti siriane e la rabbia popolare suscitata dalla
sua morte costrinse i militari siriani ad abbandonare il Libano in tutta fretta.
Il movimento anti-siriano, con Hariri a capo, ha abbandonato la logica di
contrapposizione contro Hezbollah e la Siria, ma se il Tribunale dimostrasse -
come si vocifera - il coinvolgimento nella morte di Hariri di Siria e di
Hezbollah sarebbe un problema. In particolare per il coinvolgimento di Badr
el-Din, personaggio importante del partito islamico. Wissam Eid, capitano
dell'esercito libanese, è l'uomo dell'intelligence di Beirut che ha individuato
in el-Din l'anello chiave della catena di comando dell'eliminazione di Hariri.
Il figlio dell'ex premier non potrebbe restare indifferente di fronte a prove
certe e continuare a governare con Hezbollah. Per la cronaca Eid è stato ucciso
da un'autobomba a Beirut nel 2008. Nasrallah si dice sicuro che ci sia Israele
dietro la morte di Hariri, per destabilizzare il Libano. Ha promesso, per il 9
agosto prossimo, di rivelare le prove del complotto. Inaugurando una nuova
estate calda in Medio Oriente.
L’impegno
della Caritas per gli alluvionati
AsiaNews
- Islamabad - 5 agosto 2010
La Caritas, attiva sin dalle prime ore dopo il disastro, sta operando per la distribuzione di generi di prima necessità alle famiglie colpite dalle alluvioni. Secondo l’Onu sono almeno 4 milioni le persone coinvolte nel cataclisma.
Il
Pakistan continua a combattere contro le più disastrose alluvioni della propria
storia. E mentre l’Onu annuncia che sono almeno 4 milioni le persone colpite,
la Caritas pakistana si è attivata per aiutare gli sfollati. Secondo gli
operatori dell’organizzazione cattolica, “nel Paese continua a crescere il
bilancio delle vittime e degli sfollati a causa delle abbondanti piogge
monsoniche e delle inondazioni. La difficoltà più grande è quella di
raggiungere molti villaggi rimasti isolati”.
Il
problema, spiegano ancora i volontari, “è che le strade sono completamente
allagate e quindi spesso occorre spostarsi a piedi, con linee elettriche e
telefoniche fuori uso. E purtroppo si prevedono ulteriori piogge. In molte zone,
come Shangla e Khyber Pakhtunkhwa, l’acqua potabile è sempre più scarsa e
c’è il rischio di colera e malattie intestinali”. La Caritas, attiva sin
dalle prime ore del disastro, ha già fornito tende, coperte, kit igienici nelle
aree del Balochistan, del Punjab e del Khyber Pakhtunkhwa.
Anche
la Conferenza Episcopale Italiana si è attivata per il disastro, stanziando un
milione di euro e invitando le comunità ecclesiali alla preghiera e al sostegno
delle iniziative di solidarietà promosse dalla Caritas. In Pakistan, proseguono
gli operatori, “la Caritas ha fornito a 1500 famiglie di Peshawar acqua, cibo,
utensili da cucina e kit igienico-sanitari. Sono stati distribuiti kit igienici
e per la depurazione dell'acqua anche a 1350 famiglie a Karkhan e Kohlu. Si
prevede anche di avviare progetti di cash-for-work, che permettono a quanti
hanno subito la distruzione di allevamenti e raccolti di ottenere compensi per
la partecipazione diretta alla ripresa delle attività di ricostruzione”.
Attivo
nella zona anche il Programma Alimentare Mondiale delle Nazioni Unite (Pam), che
ha lanciato oggi un’imponente operazione aerea utilizzando gli elicotteri per
accelerare le operazioni di soccorso e portare razioni alimentari urgentissime
alle persone isolate a causa delle devastanti inondazioni che hanno colpito il
nord del Pakistan.
Le
prime tre missioni hanno avuto luogo nella città di Kalam martedì mattina, con
il trasporto complessivo di 7 tonnellate di cibo, sufficienti a sfamare 2.500
persone per una settimana. “In mezzo a tante distruzioni, con le strade
interrotte e i ponti distrutti dalle acque, questi elicotteri sono davvero una
salvezza, essendo l’unico modo per portare il cibo a migliaia di persone
disperate e affamate”, ha detto il direttore esecutivo del Pam Josette
Sheeran.
Odissea senza fine 10 milioni di sfollati di Fulvio Scaglione
Avvenire
- 17 agosto 2010
La posta in gioco con gli aiuti per l'emergenza. L'occidente distratto che piace
ai fondamentalisti
Sarebbe ingiusto tentare una graduatoria del dolore che l'incredibile serie di calamità naturali sta provocando, dalla Russia all'Europa centrale all'Asia, in questa estate così crudele. È giusto, invece, sollecitare una maggiore attenzione per quello che, con ogni evidenza, pare il fronte più inquietante: il Pakistan. Intanto per le dimensioni della tragedia. Le inondazioni hanno devastato il 20% del territorio del Paese, uccidendo quasi duemila persone e provocando 20 milioni di sfollati. E il peggio potrebbe ancora venire, perché le condizioni meteorologiche sono tuttora incerte e la devastazione delle già precarie infrastrutture, con il pesante inquinamento delle condotte d'acqua, mette a rischio la vita di 3 milioni e mezzo di bambini che potrebbero contrarre malattie per loro fatali.
Il segretario generale dell'Onu, Ban Ki-moon, che si è precipitato in Pakistan, non ha esitato a parlare "del peggior disastro umanitario mai visto" e ha invitato la comunità internazionale a farsi più sollecita nell'inviare aiuti al governo locale. Servono per la prima emergenza almeno 640 milioni di dollari. Gli Usa, con la tradizionale capacità di mobilitazione, ne hanno subito versati 70, ma Ban Ki-Moon non ha parlato a caso. I fondi scarseggiano e, a una settimana dall'appello lanciato dall'Onu, è stato raccolto solo un quinto della somma richiesta. C'è grande sproporzione tra l'ampiezza della tragedia pakistana e la coscienza che ne ha l'opinione pubblica. Per dirla con le parole di Elizabeth Byrs, portavoce dell'ufficio per il Coordinamento degli Affari umanitari delle Nazioni Unite: "Il Pakistan patisce purtroppo un deficit di immagine in Occidente. Quindi è sempre, come per esempio lo Yemen, tra i Paesi poco finanziati". È un dramma nel dramma. Byrs non ha potuto dire apertamente, come fanno invece esponenti di Ong e associazioni, ciò che tutti sanno: senti Pakistan e pensi subito a taleban, terroristi, affari poco chiari dei servizi segreti, la bomba atomica, le scuole coraniche, l'Afghanistan. Pensi insomma alla politica di quell'area e, a quanto pare, ti passa la voglia di dare una mano. Ma queste sono proprio le ragioni che, al contrario, dovrebbero renderci tutti più attenti e solleciti. E la Chiesa italiana, con un immediato stanziamento di fondi dell'8 per mille da parte della Cei e con l'impegno della Caritas, ha già dato l'esempio.
Un Occidente distaccato e lontano fa, invece, il gioco dei fondamentalisti, che infatti in queste ore chiedono al governo del presidente Asif Ali Zardari di non accettare aiuti esterni per dimostrare, anche al prezzo di enormi sofferenze per la popolazione, la propria "indipendenza ". L'inefficienza dei soccorsi va a tutto vantaggio di gruppi come Jama'at-ud-Da'wah, associazione 'caritatevole' collegata ai terroristi di Lashkar-e-Toiba (responsabili degli attentati a Mumbai nel 2008, con 200 morti), in questi giorni assai attiva nelle zone più colpite dal disastro. L'indebolimento di una presidenza già non saldissima come quella di Zardari, che sarebbe inevitabile se il meccanismo degli aiuti fosse troppo debole o inefficiente agli occhi dei pakistani, contribuirebbe a indebolire l'intera regione, con gran soddisfazione di chi, in Afghanistan e anche altrove, lavora con tenacia e cinismo proprio a questo scopo.
Tra le nazioni, gli Usa sono stati i primi a intervenire concretamente perché sono anche i primi a subire, sul terreno, le conseguenze di tutto questo. Sanno quanto sia prezioso un Pakistan alleato e non ostile. Ma nessun Paese, in questo mondo interconnesso, può dirsi estraneo. Ecco un'occasione in cui l'alta politica delle cancellerie e l'umile solidarietà dei cittadini possono darsi una mano a vicenda.
Alle
urne con la paura di Alberto Tundo
PeaceReporter - 6 agosto 2010
Omicidi e intimidazioni, arresti e censura: così il presidente Kagame difende il suo potere e porta il paese al voto
Il Ruanda lunedì va alle urne per eleggere il successore del presidente Paul Kagame, il padre della patria trasformatosi in patrigno, in un clima di incertezza e paura. Non che l'esito sia aperto, tutt'altro. A voler semplificare, per Kagame, i suoi concittadini saranno liberi di rieleggerlo nuovamente e chi dovesse rinunciare a questa libertà, è meglio che si rassegni a fare una brutta fine.
Un candidato senza avversari. Come quella che hanno fatto coloro che hanno tentato di sbarrargli la strada. Non con agguati o intrighi ma semplicemente candidandosi contro di lui. Cosa impensabile, nella democrazia ruandese. Come novelli dieci piccoli indiani, i leader dell'opposizione sono usciti di scena uno dopo l'altro. A due partiti, il Democratic Green Party (Dgp) e lo Unified Democratic Forces (Udf) non è stato permesso nemmeno di iscriversi presso la commissione elettorale e pertanto non hanno potuto presentare candidati. Perché il messaggio fosse ancora più chiaro, a luglio è stato assassinato il numero due del Dgp, Andre Kagwa Rwisereka, scomparso dalla sua casa di Butare e ritrovato decapitato il giorno dopo. "E' scappato in Burundi", aveva detto la polizia mentre la notizia della scomparsa si diffondeva. Avrebbe fatto meglio. Un altro avversario, forse il più temuto da Kagame, Bernard Ntaganda, è stato arrestato per aver tenuto un comizio non autoriazzato e adesso il suo Partito socialista ruandese è rimasto senza leadership, visto che anche il segretario generale Theobald Mutarambirwa è finito in manette. Il potere centrale ha cerchiato in rosso la data del 9 agosto già molti mesi fa. A gennaio, quando era tornata in patria la leader dell'opposizione, Victoria Ingabire Unuhoza, vero punto di forza dell'Udf: da allora i comizi e i raduni sono stati puntualmente assaltati dalla polizia. Ad aprile il regime l'aveva anche arrestata con l'accusa di negare il genocidio del 1994 ed è stata liberata solo dopo forti pressioni della comunità internazionale.
L'ombra del genocidio. Il genocidio di sedici anni fa spiega molte cose, è alla radice della fragilità di un Paese che Kagame, con l'aiuto di ingentissime donazioni dall'estero, ha saputo rimettere in piedi dopo che era passato per l'inferno di una violenza etnica che aveva fatto 800 mila morti nei primi cento giorni. Oggi, nonostante il Paese cresca, nonostante l'economia corra (nel 2010 crescerà di un sette/otto per cento), nonostante il reddito medio sia aumentato, le basi sono ancora fragili. Le ferite non si sono rimarginate e il risentimento misto all'odio corre sotto traccia. Al potere ci sono quelli che furono le vittime del genocidio, i Tutsi, anche se sono minoranza nel Paese. E questo spiega perché il negazionismo sia allo stesso tempo un accendino acceso vicino ad una polveriera ma anche un qualcosa che toglie legittimità al regime. Che da mesi si è blindato e ha cominciato ad usare il pugno di ferro, quanto più il giorno del voto si avvicinava. I giornalisti sono quelli che hanno pagato il prezzo più alto. Due di loro, Patrick Kambale e Daidati Mukabibi, sono stati arrestati il 12 luglio, sempre con l'accusa di aver sostenuto teorie negazioniste. La stessa che ha portato in carcere Agnes Uwimana Nkusi, che ora rischia 30 anni di galera. Il suo giornale, Umurabayo, è stato chiuso come le altre due testate più autorevoli del Paese, Umaseso e Umuvugizi, il cui direttore, Jean Bosco Gasasira, vive in esilio; da qui ha pianto la morte del suo vice, Jean Leonard Rugambage, assassinato a giugno da due sicari. Stava indagando sul tentato omicidio di Faustin Kayumba Nyamwasa, un generale fuggito in Sudafrica, al cui governo aveva chiesto protezione, dopo essere entrato in rotta di collisione con Kagame, da lui accusato di corruzione. E Pretoria il 6 agosto ha richiamato il suo ambasciatore a Kigali, segno che la metamorfosi del presidente rischia di danneggiare il Paese sulla scena intenazionale. Mentre sul fronte interno, Kagame sembrerebbe aver perso, almeno in parte, l'appoggio incondizionato degli apparati di sucurezza, come dimostra il pronunciamento di Patrick Karegeya, ex capo dell'intelligence, consigliere ombra del presidente che adesso gli si è rivoltato contro e ha invitato i ruandesi a rovesciarlo. Da parte sua, proprio a ridosso del voto, Kagame ha sospeso per sei mesi 31 testate e ha risposto che "schiaccerà la mosca col martello", che userà la forza contro chiunque "provi a destabilizzare il regime".
Il Ruanda va alle urne in questo clima, mentre Stati Uniti, Inghilterra, Olanda e Unione Europea, i cui trasferimenti tengono in piedi il Paese, guardano da un'altra parte.
Grano russo e speculazione di Gabriele Battaglia
PeaceReporter
- 6 agosto 2010
Siccità
e carestia abbattono la produzione e fanno salire i prezzi. La finanza aumenta
l'effetto rincaro. La
Russia ha annunciato il blocco temporaneo delle esportazioni di grano.
In
una dichiarazione all'agenzia Interfax, il Primo ministo Putin ha dichiarato che
la misura si è resa necessaria a causa "delle temperature molto alte e
della siccità" e che riguarderà "grano e prodotti agroalimentari
derivati".
Quello
che sta affliggendo il Paese è il periodo secco più lungo degli ultimi
cinquant'anni, a cui si aggiunge il danno ambientale degli incendi che hanno già
distrutto oltre 712mila ettari di bosco (oltre 2500 chilometri quadrati), con il
corollario di almeno 50 morti.
E
così, secondo stime ufficiali, la produzione russa passerà quest'anno dai
consueti 90 milioni di di tonnellate a 70-75 milioni, determinando un aumento
dell'inflazione 2010 fino a 7-7,5 punti percentuali contro i 6,3 previsti.
Ma
il calo dell'export russo ha forti ricadute anche sui mercati internazionali.
A
luglio si è già registrato un aumento del prezzo del grano del 40 per cento; a
breve anche per le decisioni annunciate da Putin, si prevede un'ulteriore balzo
in alto.
Soffrono
soprattutto i Paesi che dipendono dall'import per nutrirsi.
L'Egitto,
il maggiore importatore di grano al mondo, ha appena acquistato 180mila
tonnellate di grano russo al prezzo di 270 dollari alla tonnellata. Il 31 luglio
costava 238 dollari.
A
livello globale, gli analisti prevedono un rincaro di tutti i prodotti
alimentari da qui a fine anno.
Questa
è l'economia tradizionale: quando c'è scarsità di un bene, il suo prezzo
aumenta.
Ma
non tutti sanno che il grano, come del resto tutte le commodities, movimenta il
mercato finanziario nella sua veste più speculatrice.
Stiamo
parlando di "prodotti derivati", intesi qui non come pasta o pane,
bensì come strumenti finanziari che "scommettono" sul fatto che un
titolo o - come nel caso del grano - un bene, aumenti o cali di prezzo in un
determinato periodo. E' quasi certo che queste "scommesse"
moltiplicano l'effetto rialzo.
Sul
mercato dei derivati non si scambia solo il grano che esiste effettivamente,
bensì anche il grano ipotetico - cartaceo come i titoli che lo rappresentano -
e questo determina la volatilità dei prezzi al di là della domanda e
dell'offerta reali.
Sul
sito di Nouriel Roubini, l'economista-guru salito all'onore delle cronache per
aver previsto la crisi finanziaria con un anno di anticipo, si ipotizza per
esempio che dopo i primi rialzi alcuni investitori istituzionali come gli hedge
fund si siano trovati "corti", cioè con pochi titoli a disposizione.
Sono quindi corsi a comprarne altri e il prezzo è salito una prima volta. Se
però un autorevole fondo speculativo (gestito magari da una nota banca
d'affari) fa incetta di un determinato titolo, tutti corrono a fare lo stesso. E
così si scatenano ulteriori rialzi.
Nessuno
sa quantificare esattamente il peso della componente finanziaria nei rincari del
grano.
Ma
sta di fatto che la carestia è un fatto per lo più naturale, la speculazione
no.
Viaggio in una nazione che «non c’è»
di Grazia Liprandi
Missioni
Consolata - Aprile 2010
Il
popolo dimenticato
Sono
le tre di notte quando la jeep si ferma nel deserto algerino. Non vedo nulla, i
fari illuminano a stento alcune corde che fungono da tiranti di una tenda.
Scendiamo confusi, storditi dal viaggio e ci guardiamo attorno senza orientarci.
Alì ci informa che siamo arrivati a Aaiuni, a sud di Tindouf, precisamente
nella sua «casa», in cui saremo ospitati. Scarichiamo le nostre valigie nella
polvere che si alza intorno, mentre qualcuno grida: «Avete visto il cielo?» e
tutti col naso in su, senza parole. Il cielo stellato più bello del mondo!
Tratteniamo il respiro, mai visto una tale bellezza …
Entrare
in un altro mondo
Senza
rendercene pienamente conto, ci troviamo in un altro mondo, in un campo profughi
del popolo saharawi, in Algeria, al confine con la Mauritania e il Sahara
Occidentale, lo Stato che non c’è, pur se tratteggiato su tutti gli atlanti.
Mi chiedevo da ragazzina, quando dovevo studiare l’Africa, cosa volessero dire
quelle righe diagonali che coloravano la cartina geografica e ricordo che
un’insegnante mi aveva parlato di contese nel definire a quale Stato spettasse
di diritto la terra a sud del Marocco. Ora, insieme ad altri 15 compagni di
ventura della delegazione italiana di Re.Co.Sol., mi trovo a due passi da quella
mappa, una delle terre più amate, sognate, desiderate, impossibili… un mondo
sconosciuto ai più, dove siamo venuti per osservare e ascoltare.
Alì,
la nostra guida, ci invita ad entrare nella tenda dove sua moglie ha preparato
il tè per noi. Così ha inizio la nostra full immersion nel luogo più povero
che abbia mai visto, dove i saharawi sono riusciti a ricostruire una società
organizzata, collaborativa ed efficiente. Lo stupore di questa dissonanza si
coglie sui nostri visi che si affacciano all’interno della tenda,
meravigliosa, tutta un tappeto, divani comodi sui tre lati e un tavolino lungo e
basso su cui è appoggiato il necessario per il nostro pasto; qui dentro, dove
pare che la sabbia del deserto sia lontana, Adì, bellissima ragazza, mamma di
un piccolo di sei mesi, avvolta nel suo musata in fantasia rossa, dà inizio al
rito che ci accompagnerà per una settimana: su un braciere portatile ha
preparato la bevanda che versa nei bicchierini appoggiati sul tipico vassoio
arabo. Il primo tè che ci offre è «amaro» come la vita e lascia in bocca un
retrogusto da cui prende il nome. Il tempo di assaporarlo e ne arriva un altro,
questa volta «dolce» come l’amore, e poi un terzo, l’ultimo, «soave»
come la morte.
Con
uno spagnolo stentato abbozziamo le prime parole di presentazione e di
ringraziamento, ma è più semplice spiegarci a gesti perché la donna e gli
autisti che ci hanno accompagnato fin qui conoscono solo l’arabo. A scuola, a
partire dalla terza elementare in poi, si impara lo spagnolo, ma molti adulti
non lo conoscono.
La
nostra prima notte «profuga» trascorre nella semplicità di questa
accoglienza, poi i padroni di casa se ne vanno e lasciano la tenda interamente a
noi. Qualcuno apre il sacco a pelo e cede al sonno, qualcun altro esce a
guardare incantato la volta celeste, avvolto dal buio totale e dal silenzio del
Sahara.
Vivere
nel deserto
La
tenda di Alì sorge al limite del villaggio. Lo scopriamo al mattino, quando
usciamo per andare «in bagno». Il deserto è disseminato di casupole e tende
che paiono cadute a caso sulla sabbia di questo luogo piatto, ampissimo, giallo
come è tutto qui, a perdita d’occhio.
Il
villaggio di Aaiuni è composto da sette centri, ciascuno con circa 7.000
persone che vivono in minuscole casette di mattoni di sabbia cotti al sole. Ogni
famiglia possiede una costruzione per l’inverno, quando le temperature
scendono verso lo zero, una tenda che va meglio d’estate quando si raggiungono
i 50/60 gradi, e poi un cubicolo con una turca e un secchio pieno d’acqua che
funge da sciacquone.
Sulla
soglia di ogni abitazione, un pannello solare, una batteria d’auto, una
parabolica. Ecco il necessario per accendere un neon nelle tende alla sera e per
riuscire ad avere notizie dal mondo con una radio. Qui non si possono caricare
cellulari né batterie delle macchine fotografiche, non si usano rasoi
elettrici, nessun elettrodomestico. E qui non c’è nessun lavandino né
doccia. L’acqua è portata dalle cisterne che arrivano da Tindouf e scaricano
nelle taniche di lamiera che il tempo ha arrugginito. Una gomma porta l’acqua
in prossimità delle abitazioni, ma tutto viene centellinato. A 20 minuti
dal villaggio esiste un pozzo che pesca a 150 metri di profondità acqua salata.
È lo scherzo che il deserto fa a questo popolo che abitava sul mare. Grazie ad
un desalinatore donato dalla provincia di Roma si può utilizzare quest’acqua
per tentare di coltivare piante medicinali di cui i vecchi sanno ancora servirsi
per guarire molte malattie.
Tra
le abitazioni si apre un varco che va verso il nulla: è la strada da cui
arrivano e partono le jeep in direzione degli altri centri. In realtà la strada
non esiste: è solo una traccia che il vento di sabbia copre presto. Eppure gli
autisti riescono a condurci dove dobbiamo andare: le scuole, il centro per i
disabili, l’ospedale, la casa del vice-governatore. Sono giorni intensi, il
tempo è breve e non va sprecato. Noi dobbiamo visitare e conoscere per poter
presentare la situazione in Italia al nostro rientro.
Sognano
il mare
Ci
accorgiamo presto che molte cose sono simboliche per i saharawi, in primis i
colori della bandiera: il verde indica la loro terra che si affaccia al mare più
pescoso dell’atlantico: El-Aiun, Dakhla, El-Argob erano i nomi delle città
costiere in cui essi risiedevano; il nero è l’oppressione subita per
l’invasione avvenuta 35 anni fa, il rosso è il sangue versato da molti di
loro, il bianco è la pace che desiderano e in cui sperano. Se il loro sogno si
avvererà, se riusciranno un giorno a tornare nelle città di un tempo, il verde
che ora sta in basso, prenderà posto in alto nella bandiera.
Ma
qual è la storia di questo popolo?
Durante
la Conferenza di Berlino del 1885 il Sahara Occidentale viene assegnato alla
Spagna. Nel 1957 vengono scoperti enormi giacimenti di fosfati nella zona
settentrionale della colonia che acquista molto interesse economico da parte di
varie potenze. Nel 1965 l’ONU sollecita la Spagna a lasciare il dominio
coloniale e ad organizzare un referendum per l’autodeterminazione del popolo
saharawi, ma la situazione resta immutata per un altro decennio. Nel 1970 il
popolo saharawi organizza una grande manifestazione contro il colonialismo che
viene repressa nel sangue. Tre anni dopo nasce il Fronte Polisario, il movimento
di liberazione saharawi. Tra il 1974 e il 1975 finalmente la Spagna decide per
il referendum, ma subito il Marocco e la Mauritania annunciano un’opposizione
con qualunque mezzo. Così, vista la forte pressione dei due Stati vicini, la
Spagna rinuncia all’idea.
Nell’autunno
del ’75 il Marocco annuncia una marcia di 350.000 uomini volontari verso nuove
terre da coltivare: la marcia verde, che dovrebbe essere pacifica, in realtà si
rivela una vera e propria invasione delle regioni in cui vivono i saharawi. La
Spagna cede l’amministrazione del nord del paese al Marocco e il sud alla
Mauritania in cambio di favori economici. Così, mentre l’esercito e i civili
spagnoli si ritirano dal Sahara Occidentale, il fronte marocchino e quello
mauritano entrano nella regione per prenderne possesso.
Per
i saharawi si aprono due possibilità: restare sotto questi nuovi dominatori che
non garantiscono nessun diritto, li allontanano dalle proprie abitazioni
costringendoli ai lavori più umili, li considerano cittadini di serie B, oppure
scegliere l’esodo verso l’unico sbocco possibile: l’Algeria. Colonne di
fuggiaschi partono dalle terre invase verso quello Stato. Alcuni si fermano
ancora nel Sahara Occidentale, dentro i propri confini, e organizzano i primi
campi profughi, ma nel 1976 il Marocco li bombarda con napalm e fosforo.
Il
Fronte Polisario e il Consiglio Nazionale del Saharawi velocemente concludono i
trasferimenti dei saharawi a sud di Tindouf, in Algeria, nel deserto di pietra,
luogo ostile e difficile dove vengono costruiti gli accampamenti per 300.000
profughi. Viene proclamata la R.A.S.D. (Repubblica Araba Saharawi Democratica)
che ottiene il riconoscimento da parte di più di 70 Paesi. Nel Sahara
Occidentale il Fronte Polisario inizia una dura guerriglia di resistenza. Nel
1979 la Mauritania ritira le proprie truppe, ma il territorio viene subito
occupato dal Marocco con l’appoggio di Spagna, Francia e Stati Uniti.
Nel
1980 il Fronte libera diverse zone dall’occupazione del Marocco che risponde
edificando una muraglia fortificata, minata ed elettrificata lunga 2.500
chilometri in cui racchiude i territori occupati. A ovest del muro, nella zona
costiera del Sahara occidentale inizia una massiccia colonizzazione: molte
famiglie marocchine sono invitate a trasferirsi in queste zone in cambio di
agevolazioni sociali e fiscali; i saharawi iniziano a denunciare la pulizia
etnica del loro popolo da parte degli invasori. Fuori dal muro la guerra
continua. Nel 1991 l’Onu riesce ad imporre il cessate il fuoco e
l’organizzazione di un referendum per l’autodeterminazione del popolo
saharawi. Ancora una volta però il Marocco boicotta in ogni modo la
preparazione del referendum, continuando le azioni militari e affermando
l’obbligatorietà di includere tra i votanti i coloni marocchini. Così la
consultazione viene rimandata e ancora oggi, a distanza di 19 anni, nulla è
accaduto. L’annessione del Sahara Occidentale da parte del Marocco continua a
non essere riconosciuta dalle Nazioni Unite.
Organizzare
da zero
Ci
sono profughi e profughi: quelli che aspettano, quelli che sognano e a poco a
poco si deprimono, quelli che si arrabbiano col mondo, quelli che perdono la
propria identità e provano a ritrovarsi in un’altra, …
Poi
ci sono i saharawi che, nonostante sia passato così tanto tempo - ben 35 anni
di esilio nel deserto di Tindouf -, non smettono di impegnarsi e lottare per
riavere ciò che spetta loro di diritto. Il Fronte Polisario ha accettato tutte
le risoluzioni Onu, il cessate il fuoco e la liberazione dei prigionieri, ma la
vita del suo popolo si svolge comunque ancora in estrema povertà, sollevata
solo dagli aiuti dell’ACNHUR e di molte associazioni europee (anche italiane)
che li sostengono. I saharawi si sono rimboccati le maniche, costruendo una
comunità organizzata secondo principi collettivistici e solidaristici che sono
un esempio per tutti noi: gli insegnanti, gli infermieri, i medici, ... tutti i
ruoli sociali e politici sono volontari, non stipendiati.
Visitiamo
le scuole, dall’infanzia alle superiori. è il giorno degli esami per gli
allievi della primaria e per i più grandi: serietà assoluta, banchi separati,
insegnanti in guardia. Poi suona l’intervallo, spuntano sorrisi e
presentazioni nel cortile polveroso dove i più piccoli corrono e giocano,
divorando pane e marmellata proprio come in tutti i paesi del mondo. Nonostante
le condizioni precarie, nonostante il tetto dell’asilo sia mezzo sfondato e
non ci siano libri per tutti e la polvere intasi ibanchi, gli abiti e i vecchi
computer su cui le ragazze provano i primi rudimenti dell’informatica, non
c’è un minore in tutto il campo profughi che non vada a scuola. Pensare che
gli insegnanti non percepiscono alcuna retribuzione adeguata, se non un compenso
simbolico di 50 euro al mese.
Anche
l’ospedale è gestito volontariamente: «Sarebbero necessari incentivi
economici per gli infermieri - dice il vice-governatore, quando gli chiediamo
quali siano le necessità più impellenti - non è facile dedicare
quotidianamente tempo ai malati, senza un ritorno economico sufficiente per
vivere un po’ meglio» Non è l’unica richiesta che ci viene presentata: «Qui
manca tutto, ma sicuramente l’acqua è alla base di qualunque sostentamento.
Le cisterne sono arrugginite, l’acqua si ossida e non è buona. Per voi ospiti
abbiamo cucinato utilizzando acqua minerale imbottigliata, ma noi usiamo
l’acqua delle cisterne e molti hanno problemi intestinali». Lo conferma il
pediatra che è con noi e nelle pause tra uno spostamento e l’altro nei
villaggi, visita i bambini del campo: la maggioranza ha problemi dovuti
all’acqua e alla sabbia del deserto che il vento porta ovunque, anche nei
polmoni.
«Servirebbero
serbatoi in materiale non ossidabile per ogni famiglia. Ci sono 4.600 famiglie
nei campi. Ogni serbatoio costa 150 € circa» – aveva concluso il
governatore. Ma servirebbe anche un ambulatorio permanente per il controllo
sanitario dei bambini, provvisto di medicinali di base. E biancheria lavabile
per l’ospedale e materiale scolastico e una nuova scuola materna più adeguata
e sicura…
È incredibile come qui, dove servirebbe tutto, si riescano a definire le priorità: al primo posto acqua, sanità e scuola. È la lezione che ci lasciano i saharawi. Pochi giorni che ci insegnano molto: a guardare nel deserto riconoscendo la vita, il coraggio, la costanza e la speranza; a stabilire priorità dove manca tutto. Una bella dimostrazione per noi. Anche i nostri politici avrebbero molto da imparare.
Amnesty Int. Rapporto 2010
Amnesty.it - Giugno 2010
Capo
di stato e di governo: Barack H. Obama
(subentrato
a George W. Bush a gennaio)
Pena
di morte: mantenitore
Popolazione:
314,7 milioni
Aspettativa
di vita: 79,1 anni
Mortalità
infantile sotto i 5 anni (m/f): 7/8‰
A
fine anno erano 198 i detenuti rimasti nel centro di detenzione di Guantánamo,
nonostante l’impegno assunto dalla nuova amministrazione di chiudere la
struttura entro il 22 gennaio 2010. Sono iniziate le revisioni
dell’esecutivo per determinare quali detenuti potessero essere rilasciati,
perseguiti o trasferiti in altri paesi. A fine anno, la maggior parte dei
detenuti di Guantánamo soggetti a istanze di habeas corpus erano ancora
in attesa dell’esame dei loro casi. Almeno cinque prigionieri sono stati
rinviati a giudizio davanti alle commissioni militari e un altro è stato
trasferito alla giurisdizione dei tribunali federali. Sono emersi
ulteriori dettagli relativamente ai casi di tortura e altri maltrattamenti
di detenuti, secondo il programma di detenzione segreta attuato dall’Agenzia
centrale d’intelligence (Cia), chiuso dal presidente Obama. Non
sono cessate le preoccupazioni riguardo alle condizioni nelle carceri, nei
penitenziari e nei centri di detenzione per immigrati. L’isolamento a
lungo termine di migliaia di prigionieri nelle strutture di super-massima
sicurezza hanno continuato a non rispettare gli standard internazionali. Decine
di persone sono morte dopo essere state colpite dalle taser (armi a
scarica elettrica) della polizia. Almeno 105 persone sono state condannate
a morte e durante l’anno sono state effettuate 52 esecuzioni. Le donne
appartenenti a minoranze razziali, etniche e nazionali hanno rischiato
maggiormente di morire a seguito di una gravidanza o di parto, rispetto
alle donne di altre fasce della popolazione, riflettendo una disparità
basata sulla povertà e sull’etnia nei servizi di assistenza sanitaria.
Controterrorismo e sicurezza. Detenzioni a Guantamano
A gennaio, è iniziato l’ottavo anno della detenzione indefinita senza accusa presso la base navale statunitense di Guantánamo Bay a Cuba di cittadini stranieri definiti come “combattenti nemici”. Il 22 gennaio, il presidente Obama ha firmato un ordine esecutivo per la chiusura della struttura di detenzione entro un anno. Ha disposto una revisione esecutiva per determinare quali detenuti potessero essere rilasciati o perseguiti e quali altri “mezzi legali” esistessero per i prigionieri che secondo la revisione non potevano essere né processati dalle autorità statunitensi né trasferiti ad altri paesi.
Le autorità statunitensi si sono continuamente rifiutate di concedere il
rilascio in territorio continentale statunitense di qualsiasi detenuto di
Guantánamo che non poteva essere rimpatriato nel paese di origine. A
febbraio, la corte d’appello ha ribaltato un’ordinanza emessa da un giudice
federale nel 2008 per il rilascio in territorio statunitense di 17 uomini
uiguri, trattenuti senza accusa a Guantánamo dal 2002 e che non potevano
essere rimandati in Cina. A giugno, quattro di loro sono stati trasferiti
alle Bermuda e a ottobre altri sei sono stati rilasciati a Palau. Il 18
novembre, il presidente Obama ha ammesso che la data fissata per la chiusura
della struttura di detenzione non sarebbe stata rispettata. A fine anno,
erano 198 i detenuti a Guantánamo. Durante l’anno erano stati 49 i
prigionieri trasferiti all’esterno della base. Un uomo yemenita, Mohammad al
Hanashi, è morto a Guantánamo a giugno, portando a cinque il numero dei
detenuti, di cui si è avuta notizia, che si sarebbero suicidati
all’interno della struttura.
Commissioni militari
A ottobre, in seguito alla revisione delle opzioni di perseguimento giudiziario per i detenuti di Guantánamo, il presidente Obama ha convertito in legge l’Atto di autorizzazione per la difesa nazionale del 2010, che comprende l’Atto sulle commissioni militari (Mca) del 2009, con il quale vengono emendate le disposizioni dell’Mca approvate tre anni prima. A novembre, il procuratore generale ha annunciato che il dipartimento della Giustizia stava per rinviare a giudizio davanti alla commissione militare cinque detenuti di Guantánamo. Il cittadino canadese Omar Khadr a fine anno continuava a essere sotto la custodia degli Usa, dovendo affrontare un processo davanti a una commissione militare per un presunto reato commesso all’età di 15 anni (cfr. Canada).
Trasferimenti presso le corti federali
A giugno, Ahmed Khalfan Ghailani, trattenuto per
due anni in detenzione segreta dagli Usa prima di essere trasferito nel
2006 a Guantánamo, è stato trasferito a New York per essere processato davanti
a una corte federale per accuse relative agli attentati dinamitardi del
1998 alle ambasciate Usa in Tanzania e in Kenya. A novembre, il ministro
della Difesa, Eric Holder, ha annunciato che cinque detenuti di Guantánamo i
quali dovevano essere in precedenza processati davanti alle commissioni
militari – Khalid Sheikh Mohammed, Walid bin Attash, Ramzi bin al-Shibh,
‘Ali ‘Abd al-‘Aziz e Mustafa al Hawsawi – sarebbero stati trasferiti per
essere processati presso corti federali per accuse riguardanti gli
attacchi agli Usa dell’11 settembre 2001. A fine anno i cinque uomini si
trovavano ancora detenuti a Guantánamo. A marzo, Ali Saleh Kahlah
al-Marri, un cittadino del Qatar trattenuto dal giugno 2003 in custodia militare
indefinita negli Usa, è stato trasferito sotto custodia civile per
rispondere delle accuse presso una corte federale. Egli si è dichiarato
colpevole del reato di “cospirazione finalizzata a fornire sostegno e risorse
materiale a una organizzazione terroristica straniera” ed è stato
condannato a 100 mesi di reclusione. Il giudice ha ridotto di nove mesi la
sentenza “per mettere in luce le gravissime condizioni” in cui Ali
Saleh Kahlah al-Marri era stato trattenuto tra il 23 giugno 2003 e la fine
del 2004.
Istanze di habeas corpus per i detenuti di Guantanamo
Alla fine dell’anno, 18
mesi dopo che la Corte suprema aveva sentenziato nel caso Boumediene v.
Bush che i detenuti di Guantánamo “avevano diritto a una tempestiva istanza
di habeas corpus” per contestare la legalità della loro detenzione, la
maggior parte di coloro che avevano presentato ricorso non aveva ancora
ottenuto un’udienza. Nella maggior parte dei casi in cui era stata raggiunta
una decisione, era stato stabilito che il detenuto era trattenuto
illegalmente. Alcuni prigionieri per i quali era stata raggiunta tale
decisione sono rimasti in detenzione indefinita a Guantánamo, mentre
l’amministrazione decideva come reagire. A novembre, il ministro
della Difesa ha riferito a una sessione del senato che continuava a sussistere
la possibilità che, una volta che la revisione dei casi di Guantánamo fosse
stata completata, ci sarebbero stati detenuti che l’amministrazione
avrebbe continuato a tenere in detenzione senza accusa, in base “alle
leggi di guerra”.
Detenzioni a Bagram, Afghanistan
I militari statunitensi hanno continuato a
trattenere centinaia di prigionieri, compresi alcuni minorenni, senza
accesso a un avvocato o a un tribunale nella base aerea di Bagram, in
Afghanistan (cfr. Afghanistan). Sono proseguite le cause presso le corti
federali statunitensi per stabilire se i prigionieri di Bagram potessero
accedere a un tribunale statunitense per contestare la legalità della loro
detenzione. Il 2 aprile, un giudice federale ha stabilito che, tre dei
quattro detenuti le cui istanze di habeas corpus erano state presentate
alla sua attenzione, potevano contestare la loro detenzione. I tre erano
cittadini non afghani mentre il quarto era un afghano. A settembre, il
governo si è appellato contro la sentenza. A fine anno l’esito
dell’appello rimaneva pendente.
Programma di detenzioni segrete della Cia
Ad aprile, il direttore della Cia ha
confermato che, nel dare attuazione a un’ordinanza esecutiva sugli
interrogatori firmata dal presidente Obama il 22 gennaio, la Cia non stava più
utilizzando “tecniche di interrogatorio spinte” nel gestire “centri
di detenzione o black sites”. Egli ha inoltre confermato che la Cia
aveva conservato l’autorità di detenere persone “in via temporanea
breve”. Ad aprile, l’amministrazione ha pubblicato quattro memorandum
del dipartimento della Giustizia dal 2002 al 2005, che sancivano
l’approvazione legale per varie “tecniche di interrogatorio rinforzate”,
nei confronti di prigionieri trattenuti in custodia segreta da parte della Cia.
Tali tecniche comprendevano il denudamento forzato, la prolungata
privazione del sonno e il “water-boarding” (annegamento simulato). Tra
le altre cose, i memorandum rivelavano che Abu Zubaydah, soggetto del memorandum
del 2002, era stato sottoposto a “water-boarding” più di 80 volte
nell’agosto 2002 e Khaled Sheikh Mohammed circa 183 volte nel marzo
2003. Il presidente Obama e il ministro delle Difesa Holder hanno
sottolineato che chiunque avesse fatto riferimento “in buona fede” alla
linea indicata dai memorandum non sarebbe stato perseguito. Ad
agosto sono divenuti di dominio pubblico nuovi particolari sulla tortura e altri
maltrattamenti di detenuti trattenuti nell’ambito del programma della
Cia. Il ministro della Difesa Holder ha annunciato una “revisione
preliminare” per stabilire se “fossero state violate le leggi federali in
relazione con l’interrogatorio di determinati detenuti in località
estere”. L’amministrazione si è opposta all’ulteriore pubblicazione
di dettagli sull’effettivo trattamento di detenuti nel programma segreto
della Cia ormai concluso, per motivi di sicurezza nazionale.
Interrogatori di detenuti e politiche di trasferimento
Ad agosto, l’unità speciale
sugli interrogatori e i trasferimenti, istituita con l’ordine esecutivo sugli
interrogatori del 22 gennaio, ha reso note le proprie raccomandazioni al
presidente. Queste comprendevano la formazione di un gruppo per
l’interrogatorio dei detenuti di alto profilo e una serie di linee guida
per gli interrogatori da parte dei militari e delle altre agenzie.
Impunità e mancati risarcimenti
È proseguita l’impunità e l’assenza di
risarcimenti per le violazioni dei diritti umani commesse durante quella
che l’amministrazione Bush definiva “guerra al terrore”. A gennaio,
la Convening Autority per le commissioni militari, Susan J. Crawford, ha
rivelato che aveva archiviato le accuse a carico del detenuto di Guantánamo
Mohamed al-Qahtani nel 2008, poiché egli era stato torturato in custodia.
A fine anno sul caso non era stata avviata alcuna indagine penale. Nel
contesto della “U-turn policy” (politica d’inversione di marcia), la nuova
amministrazione è intervenuta per fermare la pubblicazione di una serie
di fotografie che ritraevano gli abusi nei confronti di detenuti sotto
custodia statunitense in Afghanistan e Iraq. A ottobre, una nuova legislazione
ha conferito al Pentagono l’autorità di eliminare fotografie ritenute
dannose alla sicurezza nazionale. Il 4 novembre a Milano, in Italia, 22
agenti statunitensi o funzionari della Cia e un ufficiale militare sono
stati giudicati colpevoli di reato per il loro coinvolgimento nel caso di Usama
Mostafa Nasr (Abu Omar), il quale fu rapito a Milano e trasferito in
Egitto dove, stando alle accuse, fu torturato. I funzionari statunitensi
sono stati processati in contumacia.
Tortura e altri maltrattamenti. Armi a scarica elettrica
Almeno 47 persone sono
morte dopo essere state colpite dalle taser della polizia, portando a oltre
390 il numero di questa tipologia di decessi dal 2001. Tra queste vi erano tre
adolescenti disarmati coinvolti in episodi di poca importanza e un uomo
apparentemente in buona salute, che è stato colpito con queste armi
ininterrottamente per 49 secondi dalla polizia di Fort Worth, in Texas, nel mese
di maggio. Questi e altri casi hanno destato ulteriori preoccupazioni riguardo
alla sicurezza e all’uso improprio delle taser. Il quindicenne
Brett Elder è morto a Bay City, in Michigan, a marzo, dopo essere stato colpito
dalle scariche sparate dalla polizia che rispondeva alle denunce di
comportamento rissoso a una festa. Il coroner ha rilevato che il ragazzo,
di piccola statura, era morto per eccitazione indotta da eccesso di alcol e che
le scosse inflitte dalle taser erano state una concausa.
Condizioni carcerararie
Migliaia di prigionieri sono stati trattenuti in isolamento in
carceri di super-massima sicurezza degli Usa, nelle quali in molti casi le
condizioni non hanno rispettato gli standard internazionali per il trattamento
umano dei detenuti. Decine di prigionieri della struttura di Tamms Cmax in
Illinois, molti dei quali affetti da malattie mentali, avevano trascorso
10 o più anni in celle di isolamento per 23 ore al giorno, in assenza di cure
adeguate o di revisione del loro status. I prigionieri non avevano
programmi di lavoro, d’istruzione o ricreativi e potevano contare solo su
scarsi contatti con il mondo esterno. A settembre, in seguito agli appelli
della comunità e delle associazioni per i diritti umani, il nuovo
direttore degli istituti correzionali ha introdotto un piano di riforma in 10
punti, che comprendeva udienze di revisione dei trasferimenti per ciascun
recluso, un maggior monitoraggio della salute mentale e opportunità per i
prigionieri di accedere ai test per lo sviluppo educativo generale (istruzione
di base). A ottobre, una corte d’appello federale ha sentenziato che la
tutela costituzionale contro l’incatenamento delle donne incinte durante
il parto era stata chiaramente stabilita dalle decisioni della Corte
suprema degli Stati Uniti e dalle corti di grado inferiore.
Migranti e richiedenti asilo
Decine di migliaia di migranti, compresi richiedenti
asilo, sono stati arrestati di frequente, in violazione degli standard
internazionali. Molti sono stati trattenuti in condizioni dure e senza accesso
adeguato alle cure mediche, all’esercizio fisico e all’assistenza
legale. Ad agosto, il governo ha annunciato una serie di proposte di
cambiamento, compreso il rafforzamento della supervisione a livello federale
delle strutture di detenzione di immigrati e una consultazione sulle alternative
alla detenzione. Tuttavia, l’esecutivo non ha provveduto a stabilire standard
nazionali che regolamentassero per legge le condizioni di detenzione.
A maggio, il Relatore speciale sulle esecuzioni extragiudiziali, sommarie
o arbitrarie ha espresso preoccupazione per i decessi di migranti in
custodia dell’Immigration and Customs Enforcement (Ice), determinati da
inadeguate cure mediche. Egli ha rilevato che si erano verificati un maggior
numero di decessi rispetto ai 74 registrati ufficialmente dal 2003 e ha
richiesto che l’Ice fosse tenuto a denunciare tempestivamente e
pubblicamente tutti i decessi in custodia e che ciascuno di questi venisse
pienamente indagato.
Diritto alla salute e diritti riproduttivi
A maggio, il dottor George Tiller è
stato ucciso a colpi d’arma da fuoco a Wichita, in Kansas, da un
attivista antiabortista. Il dottor Tillet era stato vittima di una serie di
minacce e attacchi per aver praticato aborti legali in stato avanzato di
gravidanza, a donne il cui stato presentava un grave rischio per la loro
salute o il cui feto non sarebbe sopravvissuto. Dopo l’omicidio del dottor
Tiller, il governo federale ha aumentato la protezione per altri medici
abortisti. Tuttavia, le minacce e vessazioni nei confronti di medici e
sanitari sono continuate.
Diritto alla salute. Mortalità materna
Il numero di decessi prevenibili,
derivanti da complicanze collegate alla gravidanza è rimasto elevato:
centinaia di donne hanno perso la vita nel corso dell’anno. Vi sono state
disparità nell’accesso all’assistenza sanitaria prenatale sulla base
del reddito, dell’etnia o dell’origine nazionale, con le donne
afroamericane quattro volte più esposte al rischio di morire per cause legate
alla gravidanze rispetto alle donne caucasiche. Agli inizi dell’anno
erano circa 52 milioni le persone al di sotto dei 65 anni che non avevano
un’assistenza sanitaria, di più rispetto all’anno precedente.
Embargo commerciale contro Cuba
Il presidente Obama ha revocato alcune restrizioni
di viaggio verso Cuba, permettendo agli americani originari di Cuba di
visitare i loro parenti sull’isola caraibica e di inviare loro del denaro.
Tuttavia, ha esteso l’embargo commerciale contro Cuba in corso dal 47
anni, che limita l’accesso dei cubani ai farmaci, mettendo a repentaglio
la salute di milioni di persone (cfr. Cuba).
Obiettori di coscienza
Ad agosto, Travis Bishop, un sergente dell’esercito degli
Usa, è stato condannato a un anno di reclusione per essersi rifiutato di
prestare servizio in Afghanistan a causa del suo credo religioso. La sua
domanda di obiezione di coscienza era ancora all’esame quando è finito sotto
corte marziale. Si tratta di uno dei tanti soldati statunitensi
incarcerati negli ultimi anni per essersi rifiutati di servire
l’esercito in Iraq o in Afghanistan.
Processi iniqui
Ad agosto, la US Parole Commission ha negato il rilascio sulla
parola a Leonard Peltier, nonostante le preoccupazioni relative
all’equità della sua condanna per omicidio nel 1977. L’ex attivista
dell’American Indian Movement aveva trascorso più di 32 anni in carcere
per gli omicidi di due agenti dell’Ufficio investigativo federale (Fbi),
nel giugno 1975. A giugno, la Corte suprema degli Stati Uniti si è
rifiutata di esaminare un ricorso contro il verdetto di colpevolezza a
carico di cinque uomini incarcerati per aver agito come agenti non registrati
per conto del governo cubano e reati collegati. Nel maggio 2005, il Gruppo
di lavoro delle Nazioni Unite sulla detenzione arbitraria aveva affermato
che la loro detenzione era arbitraria perché non era stato loro garantito
un equo processo.
Pena di morte
Sono state 52 le persone messe a morte durante l’anno, portando
a 1188 il numero complessivo dei prigionieri di cui era stata eseguita la
pena capitale da quando la Corte suprema degli Stati Uniti aveva revocato
una moratoria sulla pena di morte nel 1976 e aveva autorizzato la ripresa delle
esecuzioni nel gennaio 1977. A settembre, l’Ohio ha tentato invano
di mettere a morte Romell Broom, un uomo afroamericano di 53 anni. Il
gruppo incaricato dell’iniezione letale ha impiegato circa due ore per trovare
una vena adatta, prima di rinunciare. A novembre, le autorità dello stato
hanno annunciato di aver deciso di impiegare nelle iniezioni letali non più
tre farmaci ma uno soltanto. L’8 dicembre l’Ohio ha messo a morte
Kenneth Biros con questo metodo. Il Texas ha messo a morte 24 persone
durante l’anno e a giugno ha effettuato la sua 200ª esecuzione sotto
l’attuale governatore, Rick Perry. Nel corso dell’anno, il governatore Perry
ha incontrato forti critiche in merito al caso di Cameron Willingham, il
quale era stato messo a morte in Texas nel 2004. Sono emersi dettagli
secondo cui gli omicidi per incendio doloso per i quali era stato condannato
potevano essere stati causati da un incendio accidentale. Nove persone
sono state rilasciate dal braccio della morte durante l’anno perché
innocenti, portando a oltre 130 il numero di casi analoghi dal 1976.
A marzo, il New Mexico è divenuto il 15° stato abolizionista degli Usa dopo
che il governatore ha controfirmato una legge con cui è stata abolita la
pena di morte.