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Anno X N° 435 22/9/10 |
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La
porta dell'amicizia di Gianni Criveller
Mondo
& Missione - agosto/settembre 2010
Benedetto
e Matteo missione e ragione
Annuncio
del Vangelo e incontro con la cultura: sta qui l'esemplarità del grande
gesuita.
"Matteo
Ricci è un caso singolare di felice sintesi fra l'annuncio del Vangelo e il
dialogo con la cultura del popolo a cui lo si porta. (...) Ricci non si reca in
Cina per portarvi la scienza e la cultura dell'Occidente, ma per portarvi il
Vangelo, per far conoscere Dio". Sono parole di Benedetto XVI, pronunciate
il 29 maggio, nel corso di una storica udienza, tutta dedicata a Matteo Ricci.
L'aula Paolo VI era gremita di ottomila fedeli e personalità della vita sociale
e culturale, provenienti dalla diocesi di Macerata, città natale del grande
gesuita, e dalle altre diocesi marchigiane. Il Papa ha pronunciato un bellissimo
discorso, mostrando di stimare grandemente Ricci e di conoscerne l'opera. Papa
Ratzinger, che fa della "ragionevolezza della fede" il centro del suo
insegnamento, non poteva non trovare straordinariamente esemplare il grande
missionario umanista e scienziato di cui si celebra il IV centenario della
morte.
L'esemplarità
di Ricci sta nella sintesi di due elementi portanti in ogni azione missionaria:
l'annuncio del Vangelo e l'incontro con la cultura. Il Vangelo deve essere
annunciato da un missionario: come dire che è un dono nuovo e inaspettato, che
viene da fuori, non è frutto della sapienza umana, ma un sorprendente dono
dall'alto. La fede deve esprimersi nel pluralismo delle espressioni culturali,
anch'esse dono del Creatore all'umanità. Troppe volte nella storia missionaria
si è indebitamente esaltato uno solo di questi due elementi, svuotando di
significato l'altro. Si è preteso di annunciare il Vangelo facendo tabula rasa
dei doni già elargiti dal Creatore alle comunità degli uomini. Viceversa si è
talvolta registrata, da parte di alcuni missionari, un'immersione nei contesti
umani così esasperata da dimenticare di donare la perla preziosa del Vangelo.
In
Ricci, ricorda il Papa, "scienza, ragione e fede trovano una naturale
sintesi. Chi conosce il cielo e la terra - scrive Ricci nella prefazione alla
terza edizione del mappamondo - può provare che Colui che governa il cielo e la
terra è assolutamente buono, assolutamente grande e assolutamente uno. Gli
ignoranti rigettano il Cielo, ma la scienza che non risale all'Imperatore del
Cielo come alla prima causa, non è per niente scienza".
Benedetto
XVI ha sottolineato che l'amicizia, un altro tema centrale nella vita di Ricci,
non fu solo un valore che accumunava la civiltà umanistica europea e quella
cinese, ma soprattutto uno stile e una pratica vissuta dal missionario gesuita.
Le scelte di Ricci infatti "non dipendevano da una strategia astratta di
inculturazione della fede, ma dall'insieme degli eventi, degli incontri e delle
esperienze che andava facendo, per cui ciò che ha potuto realizzare è stato
grazie anche all'incontro con i cinesi; un incontro vissuto in molti modi, ma
approfonditosi attraverso il rapporto con alcuni amici e discepoli". Tra
tutti, ha ricordato il Papa, svetta Paolo Xu Guangqi, nativo di Shanghai,
letterato, scienziato e statista, ma soprattutto uomo integro, di grande fede e
vita cristiana, dedito al servizio del suo popolo e della piccola Chiesa
nascente in terra di Cina.
Il
missionario Matteo ha portato la novità della fede, il discepolo Paolo l'ha
accolta, vissuta ed espressa dentro la sua cultura, portando così a compimento
il processo di evangelizzazione. Per entrambi è stata avviata la causa di
beatificazione. Ci auguriamo di cuore che questi due amici, uomini di
eccellenza, che tanto si sono stimati e voluti bene nella loro vita terrena,
vengano un giorno elevati alla venerazione della Chiesa universale.
Il
dono prezioso della testimonianza di Gerolamo Fazzini
Mondo
& Missione - agosto/settembre 2010
Il
martirio di Padovese ci ricorda il prezzo che pagano i cristiani in Turchia. E
ci sprona a una più coraggiosa scelta di fede
Noi
tutti viviamo qui in una situazione di minoranza rispetto ai nostri fratelli
musulmani. Io vi invito a guardare a questa situazione come a un'occasione per
diventare sempre più coscienti della nostra fede. In altri Paesi, dove la
maggioranza è cristiana, è più grande il rischio di dirsi cristiani senza
esserlo. Qui da noi dobbiamo esserlo e mostrare di esserlo". Ancora:
"Il nostro impegno non è di convertire altri alla nostra fede, ma di
mostrare semplicemente che è bello essere cristiani. Si tratta di parlare con
la vita più che con le parole". In queste poche frasi, contenute nella sua
prima lettera apostolica come vicario dell'Anatolia, mons. Luigi Padovese non
solo ha tracciato il suo programma pastorale, ma ha, per così dire, condensato
il senso della sua missione. E persino il significato della sua morte, causata
dalla brutalità di una persona che a lungo gli era stata amica: rendere
testimonianza della bellezza della fede cristiana in mezzo ai "fratelli
musulmani".
Mons.
Padovese questa testimonianza l'ha resa fino al dono della vita, in una terra
che ha sempre chiesto ai cristiani una fede coraggiosa. Come egli stesso
ricordava: "Tra tutti i Paesi di antica tradizione cristiana, nessuno ha
avuto tanti martiri come la Turchia. La terra che noi calpestiamo è stata
lavata con il sangue di tanti martiri che hanno scelto di morire per Cristo
anziché rinnegarlo".
Valeva
ieri, vale oggi. Dirsi ed essere cristiani oggi in Turchia - un Paese che a
lungo è stato additato come casa di un islam "laico" e moderno -
costa fatica e sofferenza, significa affrontare prove, patire discriminazioni,
talora subire violenza. Negli ultimi anni - dall'uccisione di don Andrea Santoro
a quella di mons. Padovese - sono stati numerosi gli episodi di ostilità
anti-cristiana. Il vescovo ucciso non ignorava certo le responsabilità e i
rischi connessi alla sua missione quando ha accettato l'incarico di custodire il
piccolo gregge dell'Anatolia. Ma ha interpretato tale vocazione non con
rassegnata obbedienza, bensì con un entusiasmo che andava oltre la passione del
raffinato studioso. Padovese ha vissuto la sua missione in Turchia come la
chiamata a una sequela più radicale, a una fede ancor più convinta e gioiosa.
"Sono migliaia i martiri della nostra amata terra di Turchia - ha scritto -
. Essi ci invitano a essere coscienti e felici della nostra identità
cristiana". Rileggendo queste parole oggi, potremmo avere la sensazione di
un sogno andato in frantumi. Lui, che chiamava fratelli i musulmani, è stato
ucciso da un amico musulmano, preda di turbamenti irrisolti e probabilmente
indottrinato da estremisti.
Meglio
allora calare il sipario su una vicenda dolorosa e inspiegabile? No. La fede ci
suggerisce - e il cardinale Dionigi Tettamanzi l'ha ricordato con forza, il
giorno dei funerali in Duomo - che il chicco di frumento, quando muore, porta
frutto. L'omicidio di monsignor Padovese rimane ancor oggi un rebus (dal punto
di vista delle circostanze e dei mandanti) e può suonare come una sconfitta;
ma, se letto con gli occhi della fede, è un sacrificio che già sta portando
frutto. Misteriosamente, come misteriosi sono i disegni di Dio.
Del
vescovo ucciso si può dire, infatti, quanto ha detto nel febbraio scorso, nella
Messa per l'anniversario della morte, lo stesso Padovese in riferimento a don
Santoro: "Pensiamo a quanti fratelli e sorelle in tutto il mondo hanno
conosciuto il sacrificio di don Andrea e sono stati confermati nella volontà di
vivere per Cristo e, se necessario, di morire per Lui. Questo umile sacerdote,
conosciuto da pochi, con la sua morte è divenuto testimone per molti. Chi
voleva farlo scomparire in realtà ha prodotto l'effetto contrario". È
l'inspiegabile eloquenza del martirio cristiano.
La
missione salva la chiesa di p. Gabriele Ferrari , sx
Missionari
Saveriani - settembre 2010
Siamo
un popolo al servizio dell'umanità
I
mesi scorsi sono stati mesi di immensa sofferenza per la chiesa: lo scandalo
della pedofilia, i sospetti sulle implicazioni affaristiche di uomini di chiesa
con le "cricche"..., non sono che gli ultimi fatti che hanno provocato
in molti cristiani un disagio che sfiora la sfiducia e potrebbe far perdere alla
chiesa molto della sua credibilità.
Certi
mass media non hanno mancato lo scoop contribuendo ad aumentare la confusione.
Non è il caso di lasciarci prendere dal panico o di pensare che la chiesa sia
in declino o, come certi dicono, sia ormai alla fine. Siamo sicuri che Dio non
permetterà alla sua chiesa di affondare.
Da
parte di certi uomini di chiesa si sono viste e udite delle reazioni improprie,
come se la chiesa fosse oggetto di un attacco da parte delle "forze del
male"; e quindi maldestri tentativi di difesa ad oltranza che finivano per
dimenticare la sofferenza delle vittime; oppure di auto - consolazione, dato
che... queste cose capitano anche fuori della chiesa.
Occorre
una riforma spirituale
Bene
ha fatto invece il papa a chiedere, con molta energia, di fare chiarezza
permettendo alla giustizia di fare il suo corso nei confronti dei responsabili.
Benedetto XVI, dietro il volto mite e gentile, ha mostrato un'insospettata forza
d'animo e un grande coraggio, non permettendo che "si lavassero i panni in
casa", ma chiedendo alla chiesa di fare auto - critica e di intraprendere
un'urgente "riforma spirituale" per uscire da questa pesante
emergenza.
Questo
è un momento di crisi e, come tale, porta con sé un aspetto di fatica e di
difficoltà, ma anche una sfida: quella di ritrovare la verità della chiesa. Il
vero rischio per la chiesa oggi non sta nel danno di immagine o nei danni
economici che la possono colpire, con la prevedibile diminuzione dell'8 per
mille o delle altre offerte, ma nel perdere l'occasione per una coraggiosa
ripresa della vita ecclesiale delle comunità, e per una rinnovata
consapevolezza della loro vocazione e missione di popolo di Dio, corpo di Cristo
e sacramento universale di salvezza.
Popolo
di poveri peccatori
"Noi
siamo il popolo di Dio", afferma il concilio Vaticano II. Un popolo che si
trova in mezzo al mondo e immerso nella storia, sottoposto alle stesse fatiche
del mondo, che subisce gli urti e i contraccolpi della storia. Un popolo di
peccatori, che tuttavia Dio ama, e che è chiamato a essere un segno e un
richiamo per raccogliere i popoli della terra nell'unica famiglia di Dio.
La
nostra responsabilità in questo momento difficile è accresciuta. Siamo
chiamati a essere il segno e il luogo di quella comunione fraterna che è la
chiesa, la famiglia di Dio aperta a tutti. In essa non c'è spazio per logiche
di potere. E nessuno, neppure i ministri ordinati, è autorizzato a farla da
padrone sugli altri, meno che meno sui più deboli, e ancor meno sulle eventuali
vittime.
Siamo
un popolo al servizio dell'umanità. Un popolo di pellegrini che hanno come
orizzonte il regno di Dio, una realtà che non raggiungeremo pienamente qui
sulla terra, ma che già ora spunta ovunque noi viviamo e lavoriamo per la
comunione e la verità, per la giustizia e la pace, per il rispetto delle
persone. Il popolo di Dio non ha bisogno di accumulare potere o denaro per
sentirsi al sicuro. Gli basta Dio, perché è un popolo di poveri amati da Dio.
La chiesa dovrà tornare ad essere "chiesa dei poveri".
Popolo
missionario di Dio
E
chissà che non sia la volta buona per realizzare meglio la dottrina del
concilio secondo lo spirito del vangelo. La chiesa riscopra ancora una volta la
sua profonda natura di popolo missionario e ritroverà la sua verità. Apra le
sue porte, si guardi attorno e sentirà di nuovo la gioia di essere inviata al
mondo, la gioia della missione: non il dovere, ma il privilegio di essere
missionaria.
Riesca
di nuovo la chiesa a guardare con amore coloro che non sono dei
"nostri", che non frequentano più la comunità o l'hanno
silenziosamente abbandonata, perché non rispondeva più alle loro attese o se
ne sentivano esclusi. Riesca a dialogare con coloro che cercano - senza
conoscerlo - il Dio della misericordia e della tenerezza, della giustizia e
della pace, della speranza e del futuro: in una parola, il Dio di Gesù Cristo.
A
tutti noi, suoi discepoli e discepole, incombe questa missione. Perché la
chiesa esiste per la missione e solo quando sarà missionaria, si rinnoverà e
ringiovanirà.
Profeti
di sventura o di speranza? di Piero Gheddo
MissiOnLine
- 1 settembre 2010
Ieri,
31 agosto 2010 scorso (27° anniversario della sua morte), ho celebrato, come
tutti i mesi, la S. Messa per la glorificazione del servo di Dio dottor Marcello
Candia(1916-1983), industriale milanese che a 48 anni ha venduto le sue
industrie ed ha speso gli ultimi 18 anni della vita con i missionari
nell'Amazzonia brasiliana, spendendo tutti i suoi averi per aiutare i poveri e i
lebbrosi, condividendone la vita. E' un modello per il volontariato
internazionale ed è sulla via per essere proclamato Beato.
Ha
ricevuto numerosi premi e riconoscimenti di prestigio. Nel 1971 il Presidente
del Brasile, Emilio Garrastazu Medici, gli ha conferito il grado di Ufficiale
dell'Ordine nazionale del "Cruzeiro do Sul", la massima onorificenza
brasiliana per i benemeriti della nazione, conferita solo ad una ventina di
viventi, Marcello unico straniero.Nel 1975 il settimanale "O Cruzeiro"
ha pubblicato un lungo servizio sulla sua vita e le sue opere in Brasile,
definendolo "L'Uomo più buono del Brasile".
Il
25 novembre 1982, all'Accademia dei Lincei il Presidente della Repubblica
Italiana, Sandro Pertini, gli ha consegnato, assieme a letterati e poeti, il
"Premio Feltrinelli", attribuitogli "per un'impresa eccezionale
di alto valore morale e umanitario". Candia era accanto a Gùnther Grass,
candidato al Premio Nobel, emerso nel dopoguerra come un astro della letteratura
tedesca e considerato uno dei "profeti" della nostra epoca. E Grass,
nel discorso ufficiale di accettazione del Premio, parlando in rappresentanza
degli altri quattro premiati, descrive un futuro nero per il mondo e per l'uomo:
fame, povertà, morte, guerra, aria inquinata e acque avvelenate, boschi
distrutti ed animali estinti, corsa folle alle armi atomiche.
Grass
non propone alcuna soluzione a questo sfascio del pianeta e dell'umanità. Calmo
e cupo, in abito nero, ha il tono di un profeta, ma "profeta di
sventura" che non vede altro se non l'annientamento dell'uomo e la fine del
mondo. "Rimane la protesta - conclude - indebolita da attacchi di
impotenza. Una paura balbettante, che presto non troverà più parole e si
rivelerà un terrore muto perché, di fronte al nulla, nessun uomo ha più
senso".
L'assemblea
attonita guarda nel vuoto senza reazioni. Forse ciascuno pensa a come salvarsi
dall'apocalisse o a come meglio godere gli ultimi spazi di vita che il caos
prossimo venturo ancora ci lascia. Marcello, seduto vicino a Grass, non riesce
ad atteggiare il volto a tristezza o meditazione, come la circostanza
richiederebbe. La risposta al catastrofismo di Grass lui l'ha già data con la
sua vita donata al prossimo: una vita di pace e di aiuto ai più poveri, che
costruisce e non solo protesta. Anzi, una vita che è stata la più autentica
protesta contro le tendenze nichiliste del nostro tempo. Marcello ha dimostrato
che nulla è perduto per l'uomo e l'umanità, fin che rimane l'amore capace di
dare la vita per il prossimo, fin che l'uomo ha fiducia in Dio che dà speranza
e capacità di reagire positivamente, con energia e creatività.
Mai
come in quel momento della consegna del "Premio Feltrinelli" molti
hanno avuto ho avuto la chiara percezione di quel che Marcello Candia
rappresenta per il mondo d'oggi: anche lui profeta, ma profeta di speranza e di
ottimismo. Un segno concreto di amore all'uomo, contro ogni tendenza al
pessimismo radicale che corrompe il nostro popolo.
Esperienza missionaria in Albania, il paese delle aquile
Don Luca Garbinetto della parrocchia Sacro Cuore di Crotone ci fa pervenire queso articolo, pubblicato da un giornale locale, su una esperienza missionaria vissuta questa estate da un gruppo di giovani. (ndr)
"Siamo fatti per partire, per cercare sempre la fonte. Per vivere in viaggio, come pellegrini..." recita l'esordio di una preghiera di madre Teresa di Calcutta: proprio il tema dell'avviarsi e dell'andare, accompagnati dalla figura dell'esile 'mother' per 'incontrare' è stato il filo conduttore della terza edizione del progetto Gonxha 'esperienze di volontariato in terra di missione' organizzato dall'associazione Meklaie in collaborazione col gruppo Mondialità della Parrocchia Sacro Cuore e col Centro missionario diocesano di Crotone. Dopo un percorso formativo, quattro giovani donne calabresi, la reggina Monica Fontana, e le crotonesi Roberta e Simona Guzzo e Claudia Rubino, accompagnate da don Luca Garbinetto, hanno deciso di spendere parte delle loro ferie estive per partire alla volta dell'Albania, alla scoperta del popolo albanese e delle comunità religiose operanti nel Paese. Solo per un inconveniente burocratico Roberta si ferma a Bari, vivendo un'esperienza parallela, presso le suore monfortane attive nell'accogliere, con pasti caldi, docce ed indumenti, i senza tetto presso la stazione della città. L'esperienza del resto del gruppo inizia con l'imbarco da Bari alla volta di Durazzo, per poi giungere a Lushnje, cittadina del sud dell'Albania, dov'è attiva una comunità di missionari costituita da don Zeno e don Giuseppe, appartenenti alla Pia Società San Gaetano, congregazione religiosa di cui lo stesso don Luca fa parte.
La gioiosa accoglienza dei delfini nel porto di Durazzo, polverosa città dai marciapiedi disastrati su cui operano ancora i lustrascarpe, anticipa le emozioni contrastanti che segneranno il processo di scoperta dell'Albania, rendendo più evidenti le contraddizioni di un Paese che, con riferimento ai principali indicatori socio-economici, è ancora considerato in via di sviluppo.
Ancora una volta, sono proprio le contraddizioni, le stridenti evidenze della realtà, che consentono di scoprire, apprendere ed interiorizzare e che inducono ad 'incontrare', 'andare in direzione di', parola d'ordine di un viaggio capace di garantire tre tipi di incontro, ognuno importante e tutti e tre strettamente concatenati: l'incontro con la società albanese, l'incontro con le persone, l'incontro con se stessi.
Non è dai libri di storia che si possono comprendere le radici dell'Albania odierna, lo si vede dai souvenir: tazze e magneti con la fotografia dell'ex dittatore, Enver Hoxha, ma, soprattutto, dal racconto commosso dei sopravvissuti, in particolare di Maria, un'arzilla ottantenne che, senza mai abbassare lo sguardo, narra quelli che sembrano ricordi in bianco e nero, le nefandezze del regime che ancora tanto pesano sul popolo albanese.
L'Albania di oggi è, infatti, il risultato di cinquant'anni di regime comunista, sotto la dittatura di Enver Hoxha, controversa figura che, per tenere il popolo sotto controllo, insufflava quotidianamente il terrore per una prossima invasione nemica, da fronteggiare con la costruzione continua ed esponenziale di bunker (se ne conterebbero oltre 500.000 in un Paese che ha un'estensione di poco superiore alla Sicilia). La storia del regime dittatoriale albanese coincide con quella di molti regimi: esecuzioni e condanne come esiti di processi sommari e di torture, ma soprattutto il tentativo di appiattire la personalità dei cittadini mediante la negazione di qualsiasi forma di religiosità, divieto espresso materialmente con la distruzione dei luoghi di culto cristiani, cattolici e ortodossi, e musulmani o con la loro trasformazione in teatri e palestre.
Eppure scorre ancora nelle vene degli albanesi il sangue dell'eroe nazionale Giorgio Castriota Skanderbeg, che per l'intera sua vita difese con coraggio l'Albania dall'attacco degli ottomani, non prostrandosi neanche davanti alla sfida di eserciti di gran lunga superiori alle proprie forze e guadagnando così i titoli di "difensore impavido della civiltà occidentale" e "atleta di Cristo". E' la figura del coraggioso Skanderbeg che riconduce il gruppo alle origini e che ricollega l'Albania all'Italia, alla Calabria ed in particolare Crotone, ritornando nei nomi dati all'anagrafe presso le comunità arbreshe e riecheggiando nel titolo di uno dei primi lavori del noto scrittore Carmine Abate a ricordare passati gloriosi e imprese da favola.
E' sulle orme di figure leggendarie come Skanderbeg che risplende l'Albania più bella, quella capace di spargere per il mondo semi di speranza e di dare frutti di grande spiritualità: uno tra tutti madre Teresa, chiamata dai suoi genitori Gonxha, 'bocciolo', nomignolo da cui il progetto dell'associazione Meklaie trae appunto il titolo.
Nonostante la forzata povertà, determinata dalla eliminazione di qualsiasi proprietà privata e dall'isolamento internazionale in cui Enver Hoxha teneva il Paese, faticano a spegnersi le luci di umanità, i doni di un popolo che sa accogliere come pochi: con sorrisi, baci, abbracci e offrendo i frutti della terra, in particolar modo angurie e meloni.
Iniziano a ricrescere, oggi, quegli alberi tagliati di netto appena pochi anni fa quando, a causa della crisi, venivano usati come legna da ardere per scaldarsi, ed accompagnano fino alla scoperta di perle storiche e potenziali mete turistiche: da Kruje, antica fortezza di Skanderbeg a Berat, città monumento atta a catapultare in una surreale atmosfera senza tempo, dal monastero ortodosso di Ardeniza, serafico nel suo silenzio di legni ed icone dorate, fino al monastero di clausura nei pressi di Scutari, dove un coro di giovani suore carmelitane, dal viso trasfigurato dalla pace interiore, eleva le sue preghiere per la rinascita dell'Albania e per un mondo migliore.
Anche Tirana nella sua quasi modernità di capitale, in cui vive circa la metà della popolazione rimasta in Albania dopo l'emigrazione che è seguita alla caduta del regime del 1991 e alla crisi del 1997, si differenzia dal resto del Paese ed in particolare dai villaggi, da poco raggiunti dall'acqua e avvicinabili solo percorrendo strade sterrate e tortuose.
Proprio nei villaggi l'incontro con le persone può essere approfondito, entrando in luoghi che di casa hanno a malapena il nome o una parvenza di tetto, accettando e gustando un corposo caffè turco, abbracciando bambini dai vestiti sporchi ma dal sorriso grande e gli occhi magnetici di colori inimmaginabili, prendendoli per mano e comunicando con un linguaggio che trascende la comunicazione verbale.
E' nei villaggi, come Plug, Gungas e Bubullime, che i volti e gli sguardi di chi dà e di chi riceve si confondono e si scambiano in un costante abbraccio. Basta ricordare Suor Riccarda, delle suore della Divina Volontà, forte come una partigiana di altri tempi, che gestisce un ambulatorio per i più bisognosi, poiché in Albania la sanità è pubblica e dovrebbe essere gratuita ma la popolazione è continuamente vessata con richieste in danaro in cambio dei servizi sanitari anche di base, dispensati in ospedali malridotti e decadenti. O, ancora, la comunità delle Piccole Ancelle del Sacro Cuore che accoglie nella scuola materna bambini di qualsiasi religione, come raccontano Suor Nadia, Suor Maria Stella e Valentina, orgogliose del loro angolo di tranquillità: un piccolo prato verde vegliato dalla statua di una madonnina, realizzata da alcuni volontari, tra i quali anche alcuni mussulmani, valido esempio della pacifica convivenza interreligiosa di cui l'Albania è simbolo. Le giovanissime suore della Piccola Famiglia dell'Assunta presenti ad Uznova, quartiere di Berat, e la loro casa aperta ad accogliere disabili e bambini abbandonati. Non per ultima, Gentiana, giovane albanese proveniente da una famiglia di tradizione mussulmana e in cammino verso la consacrazione religiosa tra le Sorelle nella Diaconia della Pia Società San Gaetano, che con mitezza e pazienza accompagna il gruppo di calabresi nel loro viaggio, anche ripercorrendo la dolorosa storia del Paese delle aquile.
E' nelle strade dissestate dei villaggi che si scorgono pagliericci come letti e piccoli sudici bagni all'esterno, che si visitano scuole senza banchi e con poche sedie, dove i bambini devono fare a turno per sedersi.
Se il senso di arretratezza tecnologica è una costante nella visita all'Albania, è nei villaggi che si nasconde la malattia e mal si cela la povertà.
E' proprio lì, nei villaggi di campagna, che negli stessi giorni opera, infatti, Chiara Manetta e la sua equipe. Lei, fisioterapista romana giunta con un consistente gruppo di colleghi italiani e di studenti di fisioterapia dell'Università di Tirana (40 in tutto), è ideatrice di un'esperienza di volontariato volta a dare aiuto alle persone più disagiate dell'area di Lushnje, ma soprattutto a far incontrare l'Italia con l'Albania nonché gli albanesi di Tirana con i connazionali più poveri ed emarginati dei villaggi e delle campagne nel sud del Paese.
L'incontro con la più varia umanità, la condivisione della strada con i giusti compagni di viaggio, la saggia ed amorevole conduzione di don Luca, la protezione di don Ottorino Zanon, fondatore della Pia Società San Gaetano, che da lassù dissemina consigli ed indicazioni, accompagnano il gruppo verso la conclusione dell'esperienza, aprendo le porte ad una nuova consapevolezza: ogni cuore ha un nome ed è unico. E' negli occhi di un bambino che pascola le pecore, nella dignità di una mamma che accudisce i suoi bambini sporchi di terra e fango, in un vitale girasole che si erge su un arido sfondo in scala di grigi, in una manina che ti stringe senza lasciarti che si percepisce la vicinanza con Qualcuno di superiore. Piccole epifanie che riportano l'essere umano sul sentiero interiore, quello in salita ed a volte impervio ma capace di aprirti gli occhi e ridare un senso alla vita.
c.g.r.
E' tornato al Padre un amico
e lettore di Banglanews: padre Enrico Galimberti, missionario comboniano.
Padre Enrico, 84 anni di cui 58 di sacerdozio, ha operato in Brasile per ben 45 anni dedicandosi alle popolazioni rurali, ai "senza terra" ed ai ragazzi di strada. Banglanews lo ricorda ai lettori con un articolo a lui dedicato in occasione dei suoi 55 anni di sacerdozio. |
Armi, il mercato che non è mai in crisi
di Rodolfo Casadei
Mondo
& Missione - agosto/settembre 2010
La
spesa militare ha fatto segnare aumenti record in tutto il mondo. Anche tra i
Paesi più poveri.
Crisi
economica mondiale che prosegue dalla fine del 2008, tagli ai bilanci statali,
elezione di un presidente degli Stati Uniti che afferma di voler privilegiare la
via multilaterale per la soluzione delle crisi: nulla di tutto ciò ha frenato
l'aumento delle spese militari nel mondo, che nell'anno alle nostre spalle hanno
toccato la cifra record di 1.531 miliardi di dollari, pari a un incremento del
5,9 per cen¬to rispetto al 2008. Ad aumentare gli esborsi per armi e truppe sia
gli Usa sia i Paesi in via di sviluppo, in particolare le potenze emergenti.
L'unica area che fa eccezione, paradossalmente, è il turbolento Medio Oriente
(i dati però sono parziali e stimati).
Gli
Stati Uniti restano i leader assoluti della spesa, con 663 miliardi di dollari,
cioè oltre il 43 per cento del totale mondiale. Al secondo posto la Cina, che
dieci anni fa era solo settima con 33 miliardi di dollari e oggi ne spende più
di 100 (più 217 per cento contro il più 75 per cento Usa). Ha ripreso a
spendere la Russia, che nel 2009 ha aumentato il proprio bilancio militare di
2,7 milioni di dollari, ma più di essa in Europa hanno incrementato il budget
il Regno Unito impegnato in Afghanistan (più 3,7 miliardi) e la Turchia (più
2,9). Fra i Paesi emergenti hanno cominciato a spendere il Brasile (più 3,8
miliardi di dollari rispetto al 2008) e l'India (più 4,3 miliardi). Il record
dell'incremento regionale spetta all'Asia meridionale, che nel 2009 ha speso il
10,9 per cento in più che nel 2008. Anche l'Africa, la regione del mondo più
povera, l'anno scorso ha registrato un aumento della spesa militare superiore a
quello medio mondiale: più 6,5 per cento.
Le
ipotesi che spiegano questo andamento sono varie. Riguardo agli Usa, le opinioni
sono divise fra chi parla di un effetto-inerzia che richiederà tempo per
invertirsi e chi sostiene che, al di là dei discorsi presidenziali, gli Stati
Uniti intendono mantenere il loro ruolo egemonico. Riguardo alle potenze
emergenti, si può immaginare che esso sia collegato alla volontà di svolgere
ruoli strategici più ambiziosi a fronte dell'asserito ridimensionamento
geopolitico degli Usa. Infine gli aumenti di spesa militare fra i Paesi a indice
di sviluppo umano basso e medio-basso si spiegano spesso con incrementi del
reddito nazionale dovuti alla valorizzazione di giacimenti di petrolio e gas. È
il caso di Algeria, Azerbaigian, Ciad, Ecuador, Kazakistan, Nigeria e Timor Est,
che tra il 2000 e il 2009 hanno registrato aumenti fra il 100 e il 600 per cento
Giornata
per la salvaguardia del Creato: lo stretto rapporto tra ambiente e pace
Misna
- 1 settembre 2010
"Custodire
il creato, per coltivare la pace": questo il tema scelto quest'anno per
celebrare la Quinta giornata per la Salvaguardia del Creato. Il legame tra pace
e tutela dell'ambiente è stato esplicitamente sottolineato da Benedetto XVI
che, ricordando le celebrazioni per la giornata di oggi nell'Angelus di
domenica, ha detto: "quest'anno ci ricorda che non ci può essere pace
senza rispetto dell'ambiente. Abbiamo infatti il dovere di consegnare la terra
alle nuove generazioni in uno stato tale che anch'esse possano degnamente
abitarla e ulteriormente conservarla". Come sottolineano i vescovi italiani
in una nota che accompagna le celebrazioni della giornata odierna: "Spesso,
infatti, l'ambiente viene sottoposto a uno sfruttamento così intenso da
determinare situazioni di forte degrado, che minacciano l'abitabilità della
terra per la generazione presente e ancor più per quelle future. Questioni di
apparente portata locale si rivelano connesse con dinamiche più ampie, quali
per esempio il mutamento climatico, capaci di incidere sulla qualità della vita
e sulla salute anche nei contesti più lontani". A sottolineare ancora di
più il legame tra pace, giustizia e tutela ambientale i vescovi aggiungono:
"Bisogna anche rimarcare il fatto che in anni recenti è cresciuto il
flusso di risorse naturali ed energetiche che dai Paesi più poveri vanno a
sostenere le economie delle Nazioni maggiormente industrializzate. La recente
Assembla Speciale del Sinodo dei Vescovi per l'Africa ha denunciato con forza la
grave sottrazione di beni necessari alla vita di molte popolazioni locali
operata da imprese multinazionali, spesso col supporto di élites locali, al di
fuori delle regole democratiche". E se il Papa ha ricordato il "dovere
gravissimo" di consegnare la terra alle nuove generazioni attraverso una
profonda revisione del modello di sviluppo, una vera e propria "conversione
ecologica", nel segno di "una solidarietà che si proietti nello
spazio e nel tempo" guardando alla generazione presente e a quelle future,
il Patriarca ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo, ha evidenziato il rapporto
tra crisi economica e tutela. "È importante osservare che la gravità
dell'attuale crisi economica potrebbe comportare un cambiamento fondamentale
nello sviluppo vitale dell'ambiente, la messa in atto, cioè, di un modello
economico e sociale la cui priorità sarebbe la considerazione dell'ambiente e
non più i guadagni finanziari senza freni (...) Di conseguenza, riteniamo che
esista ai nostri giorni un bisogno inalienabile di cooperazione fra il consenso
sociale e le iniziative politiche, al fine di permettere alla situazione di
cambiare e di impegnarsi a favore di uno sviluppo ambientale sostenibile e
duraturo" ha scritto Bartolomeo nel messaggio inviato per la Giornata del
Creato. Il Consiglio delle Conferenze episcopali d'Europa (Ccee), invece, avvierà
a partire da oggi un pellegrinaggio "verde" per "presentare
all'Europa qual è lo sguardo della Chiesa sui doni della creazione". Il
pellegrinaggio, al quale parteciperanno vescovi e delegati delle Conferenze
episcopali d'Europa responsabili per la custodia del creato e che attraverserà
Ungheria, Slovacchia e Austria, inizierà oggi nella basilica di Esztergom, in
Ungheria, con una celebrazione eucaristica e la benedizione del pellegrino da
parte del cardinale Peter Erdo, arcivescovo di Esztergom-Budapest e presidente
del Ccee. I partecipanti si dirigeranno poi, il 2 settembre, verso Bratislava
(Slovacchia) riflettendo sui temi dell'acqua e dell'energia. Venerdì 3 tavola
rotonda sulla formazione alla custodia del creato; poi, nel pomeriggio, i
pellegrini si trasferiranno in Austria a St. Pölten, dove è prevista in
cattedrale una celebrazione ecumenica. Sabato 4 si raggiungerà Bürgeralpe e
domenica 5, infine, celebrazione eucaristica conclusiva a Mariazell.[CO]
La
domanda più grande oltre ogni disciplina di Carlo Cardia
Avvenire
- 5 settembre 2010
L'astrofisico
Hawking e le "prove" su Dio
Con
periodica cadenza filosofi e scienziati rendono noto di aver trovato la prova
definitiva che Dio non esiste, che è morto, che non c'è più bisogno di lui.
Quest'ultima affermazione sembra sia contenuta nel libro del celebre astrofisico
inglese Stephen Hawking, The Grand Design,
che
sta per uscire e che preluderebbe alla scoperta della teoria unificata, della
teoria che spieghi i passaggi dell'origine dell'universo, le leggi che lo
regolano, e cancellino il mistero sino a oggi conservato nelle galassie e nelle
particelle infinitamente piccole. Hawking è scienziato tra i più seri, in
passato ha riconosciuto che la scienza procede per tappe e approssimazioni, ha
rivisto alcune sue teorie, senza escludere l'esistenza di una dimensione
religiosa che non appartiene alla sfera della scienza. A quanto sembra,
privilegerebbe attualmente la teoria dell'eternità dell'universo, capace di
autoriprodursi, e la possibile pluralità di universi.
L'enfatizzazione
che la stampa ha dato ad alcuni brani del volume di Hawking, e pubblicati dal
Times, va quindi relativizzata e verificata nella lettura del testo. Resta, però,
l'importanza dell'interrogativo che gli scienziati ancora pongono circa la
possibilità che Dio sia fondamento del cosmo, perché è la grande, eterna,
domanda, dell'uomo sulla propria origine e sul proprio destino. E' una domanda
alla quale non può dare una risposta né una scienza particolare, sia essa la
fisica o la chimica, la paleontologia o l'astronomia, la medicina o la
psicologia, né le scienze tutte insieme perché Dio le trascende e le supera
pur essendone la fonte e l'origine.
Le
scienze svolgono un'eccezionale funzione per la crescita della conoscenza, ci
avvicinano alla comprensione del cosmo, e i loro risultati sono decisivi perché
la mente umana ottenga sempre più risposte alle domande che si pone da quando
esiste. Ma lo scienziato è di fronte al mistero nella stessa posizione in cui
è il poeta di fronte all'infinito, il musicista che cerca melodie e armonie: lo
scienziato, il poeta, il musicista, rispondono alla domanda su Dio senza bisogno
di equazioni o di coordinate scientifiche, di poesia o di musica, o con
ragionamenti più o meno coerente, ma con tutto il proprio essere, con la
ragione e il cuore, con la conoscenza e il sentimento, con una sintesi cioè che
rappresenta il mistero dell'uomo in sé.
Non
è facile trovare un uomo che scelga Dio, o lo rifiuti, perché ha studiato
fisica o psicologia, come è difficile che la conoscenza della storia dell'uomo,
dell'universo, e di tante altre storie, determini la scelta interiore a favore
di Dio. È assai frequente, invece, che scienziati, poeti, storici, musicisti,
muovendo dalla speciale propensione (o vocazione) al vero, al bello, al giusto,
siano meglio motivati per l'opzione a favore di un Dio che rappresenta la
sintesi della verità, della bellezza, della giustizia.
Compiuta
la scelta di fede, si forma nell'uomo una corrente ascensionale che trasfigura
anche ciò che l'uomo vede e studia, perché l'universo apparirà agli occhi del
credente nella sua grandezza e meraviglia, anziché come la somma di tante
particelle insignificanti; l'universo, il creato, la natura, faranno sentire una
musica che parla all'animo con mille e mille note che si scompongono e si
ricompongono in armonie sempre più perfette; anche la storia dell'uomo si
presenterà come il grande scenario della nascita e dello sviluppo di una umanità
che cerca di raggiungere ideali e traguardi che la trascendono.
La
ricorrenza con la quale gli scienziati si pongono la domanda su Dio, al di là
delle risposte che danno alternativamente, è il riflesso dell'aspirazione
all'infinito che esiste nella coscienza dell'uomo. Ma la scelta di fede non è
riducibile ad una legge di natura, ad una teorica scientifica più o meno
esauriente, perché è un atto libero e volontario di adesione ad un progetto
che dà senso e significato alla vita, alla sofferenza e all'amore, all'impegno
e alla speranza più alta: questo concetto, oltre che nella Bibbia, è contenuto
nella Critica della ragion pratica di Immanuel Kant per il quale senza la realtà
di Dio e dell'immortalità dell'anima viene meno per l'uomo il fondamento della
libertà, della moralità, della felicità. La libera scelta di fede è compiuta
nelle profondità della coscienza, con motivazioni e modalità che nessuna
disciplina saprà mai decrittare perché appartengono alla dimensione
dell'infinito.
Migranti
costruttori di pace, da un incontro a Bogotà
Misna
- 31 agosto 2010
"È
possibile che le migrazioni favoriscano il superamento dei conflitti, l'incontro
tra le civiltà, come pure il dialogo fra le diverse esperienze religiose, fra
concezioni e modi di vita differenti?" L'interrogativo è posto da
monsignor Agostino Marchetto, segretario del Pontificio consiglio della
Pastorale per i migranti e gli itineranti, a Bogotà per un incontro
internazionale destinato a rovesciare semplificazioni e luoghi comuni che
ruotano attorno al concetto di "sicurezza". Una prima risposta alla
domanda suggerita da monsignor Marchetto la dà la denominazione stessa
dell'incontro colombiano, il "Secondo forum internazionale sulle migrazioni
e la pace". Il segretario del Pontificio consiglio parte dal dato concreto,
cioè dalle "nuove realtà di società dimensionate sulla coesistenza tra
identità molteplici, frutto di un mondo in cui la mobilità umana è fenomeno
strutturale e non occasionale, fenomeno di fronte al quale si pone ormai
l'urgenza di offrire testimonianza, assistenza e solidarietà".
Nell'intervento di monsignor Marchetto la prospettiva è pastorale, il passaggio
obbligato l'impegno "a educare a superare mentalità e azioni che
nascondono un rifiuto dell'altro o si riducono alla sua esclusione, fino a più
ampie limitazioni di diritti e libertà o a ingiustificate criminalizzazioni nei
confronti di coloro che spinti dai motivi più diversi lasciano la terra di
origine per installarsi in un altro paese". Difficile non pensare alle
leggi che, in diversi paesi d'Europa, introducono il reato di "clandestinità"
e subordinano a un permesso di soggiorno in regola diritti essenziali come
quello di ricevere assistenza medica di base. Frutto delle convenienze dei paesi
ricchi, queste chiusure contribuiscono ad ampliare il divario tra Nord e Sud del
mondo. "Un divario netto - sottolinea il segretario del Pontificio
consiglio - evidente altresì in termini demografici oltre che strutturali,
economici e di programmazione dello sviluppo, che motiva in larga misura i
flussi migratori, giungendo finanche a farli ritenere ancora 'limitati' rispetto
all'effettivo potenziale determinato, tra l'altro, dall'aggravarsi delle
condizioni di povertà, dal desiderio di migliori condizioni di vita,
dall'attrattiva che quanti già immigrati rappresentano e, non ultimo, da una più
facile fruibilità e disponibilità delle comunicazioni". Il Forum di Bogotà,
in programma tra Domani a Giovedì, è l'occasione per riflettere in modo
diverso e "positivo" sulla mobilità umana. Il tema ufficiale
dell'incontro, che segue l'edizione del Gennaio 2009 ad Antigua, è
"Migrazioni, coesistenza pacifica e indipendenza: verso nuove prospettive
di cittadinanza e democrazia".[VG]
Obiettivi
del Millennio. Il colpo di reni finale di Fabio Pipinato
Unimondo.org
- 02 Settembre 2010
Scoramento.
Credo sia ciò che provano le organizzazioni di solidarietà internazionale
nell'aver visto trascorrere due terzi del tempo utile, dall'anno 2000 all'anno
2015, per raggiungere gli Obiettivi del Millennio senza risultati importanti.
Anzi. Con risorse finanziarie sempre minori (leggi farmaci, cure) vengono a
mancare le risorse umane - beneficiari, orfani, malati, collaboratori - nei
territori oltremare ove, da anni, s'è impegnati. In quei momenti "la
voglia di mollare tutto" sembra aver la meglio.
Malaria,
Hiv/Aids e tubercolosi, sono le maggiori sfide della salute pubblica che minano
lo sviluppo nei sud del mondo. Decimano gli staff delle organizzazioni
controparti. Malattie che mettono in ginocchio prima le persone, le loro comunità
ed infine le relazioni internazionali.
L'
Obiettivo del millennio numero 6 si prefigge prima di arrestare e poi
d'invertire, entro il 2015, la diffusione dei virus delle "tre grandi"
pandemie. A riguardo, il segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon, non ha dubbi
riguardo la concentrazione di queste 3 malattie: sono laddove v'è fame, povertà,
malnutrizione e violenza (disparità di genere). Ove non vengono perseguiti gli
altri obiettivi del millennio. Insomma le malattie chiamano in causa
direttamente la povertà; di essa è espressione e continuo alimento.
Nei
Sud del mondo fattori come l'analfabetismo, la poca scolarizzazione, lo scarso
accesso ai mezzi d'informazione e, quindi, la possibilità d'esser informati sul
contagio e la prevenzione, concorrono ad alimentare il rischio di contrarre il
virus. Ciò accade soprattutto tra le ragazze costrette subito al lavoro, a non
frequentare la scuola, e, ove la povertà è più estrema, impossibilitate a
rinunciare ai rapporti od osare di chiedere una protezione per gli stessi.
Insomma, la povertà alimenta la diffusione delle malattie che a loro volta
concorrono ad aumentare l'impoverimento e, quindi, lo sviluppo di comunità. La
sola AIDS ha fatto perdere all'Africa il 10% del PIL ed entro il 2020 i nove
paesi sub sahariani più colpiti perderanno tra il 13 ed il 26 % della forza
lavoro agricola. Le famiglie colpite vedranno ridurre di un terzo il proprio
reddito a causa di cure e funerali.
La
perdita di capitale umano, soprattutto di giovani e donne, risulta essere
drammatica per la sicurezza alimentare. Ciò crea instabilità, sofferenza e
fuga da condizioni di vita non dignitose. Ha fatto quindi bene il governo
italiano ad istituire nel 2001, al G8 di Genova, il fondo contro le tre grandi
malattie. Meno bene nel non rispettare i patti diventando morosi nell'impegno.
La cosa gli è costata un richiamo alla recente Conferenza di Vienna sull'Aids.
Bene, invece, l'impegno della cooperazione decentrata che combatte direttamente
malattie e povertà. Non v'è priorità a riguardo. Anche chi scava un pozzo o
erige una scuola contribuisce a fermare il circolo vizioso.
Siamo
nel 2010. Mancano ancora 5 anni all'ora X. Stiamo entrando nella terza parte del
tempo che c'eravamo prestabiliti per dimezzare la povertà. Dopo aver
fallito
anche noi nell'individuale (grazie all'individualismo) troviamo la stessa intesa
di Tania e Francesca, il sincro, l'assieme, la sintonia tra organizzazioni
governative e non per il colpo di reni finale. Solo allora, raggiungeremo
l'obiettivo.
Il
presente editoriale è un'anticipazione del dossier che Unimondo pubblicherà
sul sesto obiettivo del millennio e che sarà disponibile a metà settembre on
line in pdf. Non perdetelo.
Quei
tumori moltiplicati dal mercato - Il cancro uccide il Sud di Gianni Beretta
Il
Manifesto - 3 settembre 2010
Nel
2025 saranno 30 milioni le nuove neoplasie nel pianeta, l'80% concentrate nel
sud del mondo. Ne spiega il motivo Franco Cavalli, oncologo, esponente
socialista svizzero, che in Nicaragua (con la ong Aiuto Medico al Centro
America) cura i bambini leucemici con livelli di guarigione prossimi al primo
mondo
È
una figura sfaccettata quella di Franco Cavalli, oncologo svizzero-italiano di
fama internazionale nonché esponente del Partito Socialista, di cui è stato
prima capogruppo al parlamento a Berna e successivamente segretario nazionale.
Franco ci è particolarmente caro visto che, fra le altre cose, è stato (oltre
vent'anni fa) fra i promotori de il manifesto nel Ticino, dove convinse
distributori ed edicolanti a diffonderlo a cambio che, per un certo tempo, si
assumesse (lui e alcuni altri intrepidi) l'onere delle copie invendute.
Franco
Cavalli oggi è in pensione. Ma è attivo quanto e più di prima. È nella terna
di presidenza dell'Unione internazionale contro il cancro (Uicc); anima la
rivista Prospettive socialiste della sinistra socialista ticinese (dove ha
sollevato una controversia interrogandosi sull'opportunità che il Partito
socialista seguiti a co-governare con le altre forze politiche nazionali); ed è
tra i fondatori di Amca, Aiuto medico al Centro America, una ong che da 25 anni
opera nella salute materno-infantile in Nicaragua (soprattutto nel campo dei
tumori) e, con differenti modalità, a Cuba. Di volontariato e di lotta al
cancro nel mondo abbiamo parlato con lui alla vigilia della festa per il XXV°
di Amca che si terrà domani a Giubiasco.
«Il
risultato più significativo - racconta Cavalli - lo abbiamo ottenuto
all'ospedale pediatrico «La Mascota» di Managua dove abbiamo sviluppato (in
collaborazione con il reparto di emato-oncologia dell'ospedale di Monza) un
progetto di cura delle leucemie infantili che in vent'anni ha portato le
guarigioni dal 10-15% a quasi il 60% (rispetto all'80% dei paesi ricchi). A tal
punto che la Uicc ha preso la Mascota come modello da estendere in altri 16
paesi del Sud del mondo. Nell'85 avevamo anche lanciato, all'ospedale
gineco-ostetrico Bertha Calderon, un piano per la diagnosi precoce del tumore
dell'utero (pap-test) che se preso in tempo è facilmente guaribile. Promuovemmo
fra l'altro il servizio di radioterapia, contribuendo alla costruzione di una
nuova installazione dotata di bunker. Ma la sconfitta dei sandinisti nel 1990 ci
costrinse ad abbandonare il progetto, perché la destra era interessata solo
alle cliniche private. Alla Mascota invece riuscimmo a proseguire la
collaborazione senza interruzioni. Mentre oggi, col governo attuale (di Daniel
Ortega, ndr) pur ben lontano da quello rivoluzionario di un tempo ma sempre
interessato alla salute pubblica, abbiamo rilanciato la prevenzione e cura del
cancro del collo dell'utero; tanto che, dove montammo il bunker, ora sta
sorgendo quello che un giorno sarà l'Istituto nazionale dei tumori
nicaraguense.
Ottenere
risultati duraturi è la sfida di sempre di ogni attività di volontariato e
cooperazione. Il primario oncologo de La Mascota, Fulgencio Baez, assicura che,
pur con prevedibili difficoltà, ora potrebbero continuare anche da soli. Come
ci siete arrivati.
Credo
sia decisivo innanzitutto lavorare e pianificare a lunga scadenza. Certo
all'inizio tendevamo a inviare volontari talvolta troppo giovani; o a trasferire
le nostre tecnologie non tenendo nel debito conto le peculiarità locali. Ma poi
via via, grazie anche a interscambi nella formazione, di qua e di là
dell'Atlantico, si è instaurato una sostanziale relazione alla pari tra
operatori, in una cornice di totale rispetto. Senza contare quello che noi
stessi abbiamo appreso. Determinante si è rivelato infine il rapporto con le
autorità sanitarie del Nicaragua, che poco a poco hanno partecipato con proprie
risorse ai progetti, fino a inglobarli nelle politiche nazionali.
Per
l'appunto, dalla tua postazione della Uicc, quali sono oggi le politiche di
lotta al cancro nei paesi del Sud del mondo?
Le
politiche neo-liberali degli ultimi vent'anni, adottate dalle oligarchie locali,
hanno praticamente demolito la sanità pubblica di questi paesi. Di conseguenza
oggi essi sono molto meno attrezzati ad affrontare il problema tumori, i cui
piani di intervento necessitano di tempi lunghi. Nell'anno duemila ci sono stati
11 milioni di nuovi casi di cancro nel mondo. Nel 2025, solo seguendo
l'incremento demografico, saranno 25 milioni. Se si considera poi la crescita
dei fattori di rischio si arriverà a 30 milioni. Di questi l'80% si concentrerà
nei paesi poveri, dove ai tumori dovuti all'indigenza (collo dell'utero, fegato,
esofago) si aggiungeranno quelli dovuti alla "mcdonaldizzazione" delle
abitudini alimentari (seno, polmoni, prostata, intestino).
Come
si muove allora la Uicc?
L'Unione
internazionale contro il cancro (nata 75 anni fa in Svizzera, ndr) è
un'organizzazione mantello che raggruppa 330 entità nel mondo; ed è l'unica a
coordinare a livello planetario la lotta contro i tumori in tutti i suoi
aspetti: diagnosi, prevenzione, trattamento, ricerca, cure palliative... Fino al
1989 solo la Uicc convocava ogni quattro anni un incontro mondiale sul tema. Poi
si sono moltiplicati i congressi internazionali, concentrati quasi
esclusivamente sulla ricerca (e finanziati dalle grandi ditte farmaceutiche
statunitensi). Per questo la Uicc da alcuni anni ha deciso di riorientare
strategicamente la propria attenzione sui problemi socio-sanitari,
emidemiologici e di prevenzione nella lotta ai tumori. Cercando per esempio di
sensibilizzare il G8 che dovrebbe forse cominciare ad occuparsene, visto che il
cancro uccide oggi più che la tubercolosi, l'Aids e la malaria messi assieme.
La
questione dei farmaci dovrebbe essere decisiva in tal senso.
Da
quando le amministrazioni repubblicane Usa hanno sancito il principio secondo
cui le ditte farmaceutiche (quelle statunitensi controllano il 60% del mercato
dei farmaci tumorali) sono libere di fare il prezzo che vogliono, i bilanci
sanitari dei paesi ricchi sono andati in tilt. Figuriamoci quelli del sud del
mondo. Un esempio recente e scandaloso per tutti: il vaccino contro il virus del
papilloma che provoca i tumori al collo dell'utero. Il suo impiego sarebbe
decisivo nelle nazioni povere (dove è il tumore più diffuso) mentre è
superfluo nei paesi benestanti dove ci sono adeguate condizioni d'igiene e le
donne si sottopongono in massa al pap-test. Invece, come sempre succede, le
grandi aziende del farmaco hanno stabilito un prezzo di 500 euro (per le tre
somministrazioni necessarie del vaccino) che può essere pagato solo dal 5%
della popolazione mondiale; dichiarando apertamente che non erano interessate a
venderlo a dieci volte meno coprendo l'intero fabbisogno del pianeta. Obama
promise che avrebbe messo un tetto al costo dei farmaci. E alla sua elezione le
azioni delle aziende del farmaco caddero. Ma per ora...
Qual
è la situazione della lotta contro il cancro nei colossi asiatici come l'India
e la Cina.
L'India
sta un po' meno peggio della Cina in questo settore, perché mantiene qualche
grande istituzione pubblica (o mista) nelle grandi città. In Cina invece le
strutture sanitarie pubbliche (salvo i servizi di emergenza e le aree rurali,
che non contano) sono state praticamente smantellate. Del 6% del Pil che la Cina
occupa per la salute solo l'1% viene dallo stato; il resto dai privati ricchi.
Di conseguenza oggi in Cina gli oncologi trattano esclusivamente chi può
pagare. Tant'è che le condizioni sanitarie (pur non precipitate come nella ex
Urss) non hanno registrato alcun miglioramento con il boom economico. Ora però
è stato nominato ministro della sanità proprio un oncologo che intenderebbe
dare una svolta. Vorrei segnalare invece il pur piccolo Vietnam che ha mantenuto
una sistema sanitario di base efficiente tanto che noi della Uicc possiamo
sostenere e dispiegare lì, con risultati tangibili, le campagne di prevenzione
contro la diffusione dei tumori.
Come
si possono far tornare i conti di una sanità pubblica efficiente e uguale per
tutti con le continue conquiste della scienza medica che non possono che
determinare una crescita dei costi?
Il
discorso è molto complesso. Ma una cosa è stata abbondantemente dimostrata:
quanto più la sanità viene privatizzata, tanto più costa e diventa
discriminatoria. Pensiamo soltanto al sistema sanitario Usa, pur corretto da
Obama, o all'abbandono pressoché totale in ogni dove della ricerca farmaceutica
pubblica.
"Gheddafi
e islam? Va preso sul serio" di Luigi Geninazzi
Avvenire
- 31 agosto 2010
"Roma
è la capitale del cattolicesimo. Eppure il leader libico è andato avanti lo
stesso. È una provocazione con cui dobbiamo fare i conti Dobbiamo svegliarci:
qual è l'Europa che vogliamo" Padre
Samir: starei attento a liquidare quelle parole come una boutade. Le previsioni
sono preoccupanti
Attenzione
al Colonnello di Tripoli in visita a Roma. La tenda beduina, le amazzoni che gli
fanno da guardia del corpo, le belle ragazze che vuole indottrinare, tutto
questo fa parte del solito teatrino di cui ama circondarsi il leader libico. Ma
non è solo folklore. "Lo spettacolo sarà anche un po' ridicolo ma quel
che ha detto Gheddafi a proposito di una futura Europa musulmana va preso
terribilmente sul serio". È l'opinione di Samir Khalil Samir, islamologo
di fama internazionale. Gesuita di origini egiziane, padre Samir è docente al
Pontificio Istituto Orientale di Roma, alla Cattolica di Milano e all'università
di Beirut, impegnato nel dialogo interreligioso e consulente del Vaticano. E sul
presidente della Jiamahiria ha un giudizio molto chiaro.
Gheddafi
arriva a Roma e dice che l'islam, prima o poi, sarà la religione d'Europa. Se
uno andasse a Tripoli e invitasse i cittadini libici ad abbracciare il
cristianesimo cosa succederebbe?
Scoppierebbe
il finimondo ed il malcapitato predicatore verrebbe immediatamente arrestato e
condannato per il reato di proselitismo. In Libia, così come in ogni altro
Paese islamico, non ci puoi neanche metter piede se sei sospettato di voler
esercitare un'attività missionaria. Ma quel che è vietato ai cristiani è un
dovere per i musulmani. Non soltanto per i singoli credenti ma anche per gli
Stati. Ogni Paese musulmano ha un ufficio per la 'Dawa', il termine arabo che
indica il proselitismo. La Libia ad esempio ha un ufficio incaricato della
'Dawa' per tutto il continente africano. Gheddafi ne ha idelamente aperto uno
anche per l'Europa.
Qualcuno
la considera una buffonata, qualche altro una provocazione. Lei come la vede?
Iniziamo
col dire che Gheddafi è abituato a tenere simili discorsi. L'ultima volta l'ha
fatto davanti all'Assemblea generale delle Nazioni Unite il 23 settembre dello
scorso anno. Lui sa bene che, a differenza dei leader degli altri Paesi islamici
che non lo degnano di grande considerazione e lo trattano alla stregua di un
giullare, i popoli musulmani lo ammirano perchè predica il Corano a tutto il
mondo. E devo dire che, dal punto di vista della religione islamica, il suo
discorso non fa una grinza. Nei suoi incontri romani ha affermato che l'islam è
l'ultima religione rivelata e che per questo ha cancellato il giudaismo e il
cristianesimo. Nessun musulmano lo può contraddire.
Ma
ha pure aggiunto che l'Europa è destinata a diventare islamica. Va preso sul
serio?
Diciamo
che si tratta di una previsione non certo campata in aria. Ed io starei attento
a liquidarla come una boutade di poco conto. Guardiamo ai fatti. Gli europei
hanno un tasso di natalità molto basso, in media l'1,38%, vale a dire la metà
di quello degli immigrati di provenienza extracomunitaria, in gran parte
musulmani. I demografi prevedono che entro il 2050 un quarto della popolazione
europea sarà islamica. Se il trend non cambia l'Europa un giorno si ritroverà
abitata in maggioranza da musulmani. E di fatto, se la Turchia entrerà nella
Ue, ciò significherà che un grosso pezzo del mondo islamico, almeno a livello
sociologico, farà parte dell'Europa. C'è poi il fattore culturale: nel nostro
continente diminuisce progressivamente la pratica cristiana, dilaga
l'indifferentismo religioso ed il cristianesimo viene spesso deriso e osteggiato
mentre l'islam diventa sempre più propagandistico e intollerante.
Mentre
noi, permettendo a Gheddafi di tenere il suo discorso a Roma, abbiamo dato una
bella dimostrazione di tolleranza...
È
così, e lo dico senza alcuna ironia. Anche se mi permetto di notare che Roma
non è Hyde Park ma la capitale del cattolicesimo. Io penso che dobbiamo fare i
conti con la provocazione lanciata da Gheddafi. Dobbiamo svegliarci: qual è
l'Europa che vogliamo? Ha un valore e un'influenza solo economica?
Forse
è proprio per questo che Gheddafi a Roma può dire quel che vuole sull'islam:
la Libia è un importante partner economico dell'Italia, meglio non
contrariarla...
Capisco
queste considerazioni, ma dobbiamo agire con coerenza. Non possiamo riempirci
continuamente la bocca di belle parole sui diritti umani quando ci rivolgiamo
all'interno dell'Europa, e poi far finta di niente con un capo di Stato
straniero che è al potere da 41 anni e spesso ha mostrato disprezzo per i
dirtti fondamentali della persona umana. Lo ha dimostrato anche recentemente con
centinaia di eritrei rinchiusi nei campi di detenzione. Lui non parla solo di
affari, si atteggia a predicatore dell'islam. Qualcuno gli faccia notare che per
noi gli affari non sono tutto.
La Cina è sempre più vicina
MissiOnLine
- 30 agosto 2010
Conclusa
la visita di Zuma a Pechino con accordi economici e intesa politica
Quella
del presidente sudafricano Jacob Zuma in Cina è una visita che va al di là di
un semplice gesto di "galateo" istituzionale. La visita infatti ha
avuto interessanti aspetti sia politici che economici a conferma del rapporto
sempre più stretto (e interessato) della Cina con l'Africa. Ad accompagnare il
presidente a Pechino vi erano oltre 370 manager e imprenditori.
Gli
accordi stipulati prevedono fra l'altro la costruzione di impianti per la
produzione di energia solare in Sudafrica; l'intesa impegna la società cinese
Suntech Power, un gigante del settore, a realizzare impianti in grado di
produrre 100 megawatt di elettricità. L'annuncio dell'accordo ha seguito la
firma da parte di Zuma e del presidente cinese Hu Jintao di un documento
intitolato "Partnership strategica globale", che definisce le linee
guida per una cooperazione economica e commerciale sempre più stretta.
Alla
visita in Cina della delegazione sudafricana, che si è conclusa il 26 agosto,
la stampa di Johannesburg ha dedicato molto spazio. Il quotidiano finanziario
"Business Day" scrive che a Pechino Zuma ha di fatto candidato il
Sudafrica a divenire paese membro del "Bric", il gruppo costituito
l'anno scorso da Brasile, Russia, India e Cina.
Dopo
la sua elezione nell'Aprile 2009, ricorda il giornale, il presidente ha
effettuato visite in tutte e quattro queste potenze emergenti. "Sta
cercando - commenta Business Day - di legare il Sudafrica ai nuovi colossi
mondiali, ai paesi che da un punto di vista demografico ed economico saranno i
più importanti". Oggi la Cina è il principale importatore di prodotti
sudafricani e, allo stesso tempo, il primo esportatore verso il Sudafrica. Nei
primi sei mesi del 2010 le transazioni tra i due paesi hanno raggiunto un valore
di oltre otto miliardi e mezzo di euro, con un aumento su base annua del 56%.
Dirigenti politici e osservatori sudafricani, però, evidenziano - nota
l'agenzia Misna nel suo dispaccio - che i rapporti commerciali bilaterali sono
molto squilibrati: minerali e risorse naturali dal Sudafrica, prodotti con un
forte valore aggiunto dalla Cina.
L'Africa
che spera di Luciano Scalettari
Famiglia Cristiana 27 agosto 2010
Di casa a Kibera
Nella
più grande baraccopoli di Nairobi sorgono nuove costruzioni. Tra mille
contraddizioni, è comunque un primo segnale di cambiamento.
Un
milione di baraccati. Un immenso intrico di case di lamiera e viottoli
puzzolenti. Una città nella città. A Kibera, la più grande bidonville di
Nairobi, non c'è un solo possessore di automobili, e c'è un milione di persone
che in qualche modo vivono. Ce ne sono altri 200 di slum, intorno a Nairobi, due
milioni e mezzo di persone sui quattro milioni di abitanti della capitale
keniana abitano nelle baraccopoli. Qui a Kibera, riguardo agli Obiettivi del
Millennio, c'è tutto da fare: uscire dalla povertà estrema, poter andare a
scuola, avere l'accesso alle cure mediche e ai farmaci anti-Aids, avere acqua
potabile.
Tutto
da fare, o meglio quasi tutto: il Governo, in collaborazione con l'Agenzia
dell'Onu per lo sviluppo (Undp), ha da poco terminato un grande lotto di palazzi
con l'obiettivo di trasferire dalle baracche alle nuove case 250 mila persone.
Altri due lotti di case sono in progetto. Le polemiche introno alle nuove
costruzioni non mancano. C'è chi dice che in quegli appartamenti non ci sono
andati i più poveri, perché l'affitto richiesto è di mille scellini al mese
per stanza (circa 10 euro), mentre per una baracca si paga da 300 a 500
scellini. C'è chi dice che tanti appartamenti sono stati affittati a famiglie
venute da fuori e non dallo slum.
"La
prova? - dicono - Semplice. Tra gli affittuari c'è chi ha la macchina".
"Fatto sta che le case ci sono", commenta Jack Matika. "Ancora
pochi anni fa era un miraggio. È comunque un segno di crescita, di
emancipazione per la gente di Kibera". Jack è un operatore di Koinonia, la
comunità e arcipelago di attività messe in piedi dal missionario comboniano
Renato Kizito Sesana. Jack è il responsabile del "Drop in", il centro
di prima accoglienza dei bambini di strada della baraccopoli. Ogni anno, intorno
a gennaio, si passa un mesetto a girare di notte per lo slum, "a
caccia" di bambini di strada a cui proporre di entrare nella casa
d'accoglienza, che poi educa per un anno a ritrovare una vita normale, per poi
rientrare in famiglia (quando c'è) o integrarsi nelle case-famiglia di Koinonia
e andare a scuola. È con lui che ci accingiamo ad attraversare Kibera per
entrare in una delle nuove case: l'appartamento numero 27, palazzo
"G".
Il nuovo Kenya
Storie
di una vita migliore da uno dei Paesi più poveri del mondo: due bambini
sottratti alla strada e tre giovani donne alle prese con le tecnologie più
moderne.
Obama
e Melvin: "Ora nella baraccopoli possiamo giocare"
Camminano
spediti attraverso i viottoli, s'infilano in improbabili passaggi fra le
baracche, saltellano sui rivoli di fogna a cielo aperto che scendono dalla
collina. Obama e Melvin, i nostri accompagnatori insieme a Jack (il responsabile
della casa di prima accoglienza per ragazzi di strada della comunità
missionaria di Koinonia) ci portano a visitare una delle nuove case costruite a
margine della smisurata baraccopoli di Kibera. Lo slum è adagiato fra due
colline. Occorre scenderne un declivio e risalire quello opposto. In alto,
incombente sul mare di casupole di lamiera, c'è il nuovo complesso di palazzi.
Melvin conosce bene la strada. L'appartamento 27 del fabbricato "G" è
casa sua. Obama è il suo amico e compagno di giochi. Si sono conosciuti in
strada, dove erano "scivolati" lentamente come accade a tanti bambini
di Kibera le cui famiglie non ce la fanno a mettere insieme per loro pranzo e
cena, oppure perché la madre o il padre se ne vanno e la famiglia si disgrega.
Melvin ha incontrato Jack Matika, una notte di gennaio 2008 e ha accettato di
cambiare vita: è entrato al centro di prima accoglienza creato da padre Renato
Kizito Sesana, vi è rimasto un anno. Nel frattempo, la sua famiglia, o meglio
il padre, ha ottenuto un appartamento nelle nuove costruzioni. Così Melvin è
rientrato a casa. "Naturalmente dobbiamo controllare che non si ripetano le
condizioni che avevano fatto di Melvin un bambino di strada", spiega Jack.
"Sosteniamo la famiglia, e garantiamo tutto il necessario perché il
bambino frequenti la scuola". David, il padre, ci accoglie e ci spiega la
differenza: "Abitavo laggiù, a metà della collina. Non c'era acqua
corrente, non avevamo la corrente elettrica, non c'erano servizi igienici. La
baracca era di una stanza soltanto e i bambini non avevamo alcuno spazio per
giocare. Qui, come vedete, è tutto diverso". C'è chi si può permettere
una stanza sola, allora più famiglie condividono lo stesso appartamento, spiega
David, "io sono riuscito ad affittarne uno tutto per noi, tre stanze più
il bagno". Di sotto, nel cortile, è tutto un vociare di bambini che
saltano alla corda o giocano a calcio con un pallone fatto di pezza. Fra un
palazzo e l'altro si vende frutta e verdura o altre mercanzie, nei banchetti
tipici dei mercatini informali africani. Proprio come prima: chi faceva il
piccolo commercio fra le baracche di Kibera ha semplicemente trasferito
l'attività nei cortili. Ora lo spazio per giocare non manca, a Melvin e Obama.
L'Uganda sorride
Kampala
è una cosa, il resto dell'Uganda un'altra. Dal traffico perennemente intasato e
immerso nella nebbiolina grigia di smog che avvolge la capitale siamo saliti in
direzione Nord, verso Acholiland (la terra degli Acholi) e la Karamoja. Il
nastro d'asfalto - e poi della rossa pista di terra battuta - corre immerso nel
verde del bush, la boscaglia ugandese, nel continuo sali-scendi di dolci
colline. Occorrono molte ore di fuoristrada per arrivare nel "profondo
Nord". Entrando nella regione degli Acholi, si incrociano una dopo l'altra
le città e i paesi divenuti tristemente famosi durante la guerra civile: Lira,
Soroti, Pader, Gulu, Kitgum, fino a Kalongo, la nostra meta. Ancora solo due
anni fa, percorrere questa strada di notte sarebbe stato un rischio mortale.
Fino a due anni fa in queste terre impazzava il Lord Resistence Army, l'Lra
(Esercito di resistenza del Signore), il movimento di guerriglia guidato dal
pazzo visionario Joseph Kony che fin dal 1986, quando in Uganda prese il potere
Yoweri Museveni, l'attuale presidente, ha tenuto sotto scacco l'esercito
regolare e seminato terrore e morte per centinaia di migliaia di persone. Negli
ultimi cinque anni di guerra i ribelli avevano costretto milioni di ugandesi a
vivere in campi di sfollati sotto la custodia (peraltro pochissimo efficace) dei
soldati. L'Lra ha commesso ogni sorta di efferatezza: saccheggi e stupri,
incendi dei villaggi, massacri indiscriminati. Avevano elevato a sistema il
rapimento dei bambini e delle bambine, per trasformare i primi in baby-soldier,
e per fare delle seconde le piccole "prostitute da campo" o le schiave
tuttofare (anche combattenti, in molti casi). Un programma preciso di
reclutamento e feroce addestramento, che comportava spesso
l'"iniziazione" di partecipare al primo combattimento andando a
saccheggiare e bruciare il villaggio d'origine del nuovo bambino-soldato.
Addestramento selvaggio, uso di droghe, libertà di commettere ogni sorta di
violenza, l'Lra di Kony ha distrutto un'intera generazione: sia quella dei
carnefici, sia quella delle vittime, costrette a vivere nel terrore e sradicate
dal proprio villaggio. Due anni fa è finita. Kony ha accettato di intavolare un
dialogo di pace. L'accordo non è mai giunto, ma la lunga trattativa ha ottenuto
di allontanare i ribelli dell'Lra dal territorio e spostarli oltreconfine (ora
seminano morte fra Repubblica democratica del Congo e Sudan). Con la pace, la
popolazione lentamente torna nei propri villaggi e prova a ricominciare una vita
normale. Fra enormi problemi e un tessuto sociale tutto da ricostruire. Perciò
siamo venuti a vedere cosa si sta facendo a Kalongo.
Dossier a cura di Luciano Scalettari
Accra,
uniti per la "rivoluzione verde"
Misna
- 3 settembre 2010
"A
lungo abbiamo chiesto ai governanti africani di porre fine a politiche che
finanziano poco l'agricoltura e limitano lo sviluppo del settore privato. Ora
qualcosa si sta muovendo in questa direzione. I governi africani stanno operando
grandi cambiamenti": lo ha detto l'ex-Segretario generale delle Nazioni
Unite, Kofi Annan, aprendo ieri ad Accra, in Ghana, il 'Forum per la Rivoluzione
verde in Africa' (Agrf), convocato per la prima volta sul continente dopo
precedenti incontri in Norvegia. Fino a domani più di 800 delegati, tra cui
governanti, donatori, rappresentanti del settore privato e delle organizzazioni
contadine, si confronteranno sulla posta in gioco in termini politici,
economici, sociali ma anche ambientali. "E' giunta l'ora di affrettare il
passo per attuare la 'Rivoluzione verde' con l'obiettivo di mettere il
continente sulla strada della prosperità e dell'autosufficienza
alimentare" ha insistito il diplomatico ghanese in qualità di presidente
dell'Alleanza per la Rivoluzione verde dell'Africa (Agra), deplorando che ancora
oggi il continente sia ciclicamente in preda alla fame e dominato dalla povertà.
Secondo Annan servono innanzitutto fondi - stimati in 39 miliardi di dollari
l'anno per l'intero continente - per attuare politiche agricole in grado di
sradicare la fame in Africa oltre a raggiungere le piene potenzialità del
settore e adattarsi agli effetti dei cambiamenti climatici. Per ottenerli, Annan
ha lanciato un appello ai singoli governi africani, a donatori internazionali ma
anche a dirigenti del settore pubblico e privato chiamati a stringere
partenariati con agricoltori, piccoli produttori inclusi, e società civile in
generale con l'obiettivo comune di fare del settore agricolo il motore della
crescita economica e della stabilità continentale. Per il segretario del Nuovo
partenariato economico per lo sviluppo dell'Africa (Nepad), Ibrahim Assane
Mayakia, "nel XXI secolo il successo dell'Africa dipenderà dagli sforzi
rivolti al settore dell'agricoltura e delle infrastrutture". Tra i punti di
forza dell'Africa per vincere la 'sfida verde', quello di "aver a
disposizione tutte le necessarie risorse naturali" secondo il
vice-presidente del Ghana, John Dramani Mahama. Diversi esperti che partecipano
al forum di Accra ricordano che il continente possiede il 60% delle riserve
mondiali di terre coltivabili non ancora sfruttate mentre negli ultimi anni
paesi come Malawi, Tanzania e Rwanda hanno fatto passi da gigante per gli alti
tassi di produttività agricola conseguiti, consentendo ad esempio a Lilongwe di
diventare un esportatore netto di granturco. Attraverso un apposito programma un
gruppo di 19 paesi africani ha già registrato un tasso di crescita della
produzione agricola del sei per cento, raggiungendo l'obiettivo prestabilito dal
Programma globale di sviluppo dell'agricoltura africana (Caadp). Tanti motivi
per cui l'Africa "ha non soltanto il potenziale di nutrire la propria
popolazione ma anche quello di diventare il granaio del mondo" secondo la
'Rete di analisi della politica alimentare, agricola e ambientale' (Farnpan),
una rete regionale di esperti con sede a Pretoria (Sudafrica). Un'opportunità
che non sfugge agli investitori internazionali: esperti di finanza hanno
riscontrato di recente un profondo mutamento nella percezione dell'Africa e del
suo potenziale agricolo che ha portato a un netto aumento del volume degli
investimenti pubblici e privati non africani in quel settore. Tra i primi sono
alcuni paesi emergenti che affittano terreni agricoli in Africa, una tendenza -
da alcuni definita "land-grabbing" - da ricollocare nella corsa
mondiale alle risorse ambientali e alimentari.[VV]
Lotta
ai cambiamenti climatici, il futuro del continente
Misna
- 2 settembre 2010
"I
cambiamenti climatici in corso in Africa potrebbero causare più vittime di
quelle finora dovute alla malaria o al virus dell'Aids" è il drammatico
allarme ambientale lanciato nei giorni scorsi a Entebbe, in Uganda, dalla
'Conferenza dei vescovi di tutta l'Africa (Aabc)' alla quale hanno partecipato
oltre quattrocento presuli della Comunione anglicana presenti nel continente. La
relazione alla riunione di Entebbe sul grave stato di degrado ambientale in cui
versano molte regioni africane è stata svolta da Rose Mwebaza, consigliere
della sicurezza ambientale presso l'Institute of Security Studies di Nairobi in
Kenya. Secondo l'esperta - riferisce oggi il quotidiano l'Osservatore Romano - i
grandi bacini d'acqua dolce presenti nel continente si stanno velocemente
restringendo e prosciugando. Inoltre si assiste alla progressiva riduzione dei
terreni coltivabili dovuti all'opera di deforestazione senza criteri che provoca
anche più frequenti inondazioni. "Nel 1973 la superficie del lago Ciad
ricopriva vaste zone di frontiera di diversi Paesi - ha sottolineato l'esperta
nel corso dell'intervento - Attualmente il lago è quasi scomparso e la
superficie acquatica residua è davvero irrisoria. La scomparsa del lago Ciad
dalla faccia del Continente sta avvenendo proprio davanti ai nostri occhi".
Un altro esempio posto dalla studiosa è stato quello del Kilimanjaro, la più
elevata formazione montuosa in Africa, la cui cima "fino a pochi anni or
sono appariva perennemente innevata mentre ora vi è solo qualche ridotta
chiazza bianca che va rapidamente estinguendosi. Entro pochi anni la neve sul
Kilimanjaro sarà definitivamente scomparsa a causa del riscaldamento
ambientale". Rose Mwebaza ritiene di avere "fondati motivi per credere
che i cambiamenti climatici ormai in atto in Africa stiano provocando prolungati
periodi di siccità alternati a forti alluvioni che favoriscono il diffondersi
delle malaria e di altre malattie anche in zone che fino a poco tempo fa erano
indenni. Il rapido estinguersi delle sorgenti di acqua dolce, come già accade
in Africa orientale dove i fiumi della non più fertile Rift Valley sono ormai
quasi prosciugati, è la principale causa di carestie e potrebbe presto
provocare conflitti armati tra le popolazioni locali sempre più assetate".
L'esperta sollecita in particolare i religiosi a svolgere un ruolo sempre più
attivo per combattere il degrado ambientale e ridurre le sofferenze della
popolazione. "Si possono promuovere programmi di riforestazione a livello
locale, si può incrementare l'uso di energie alternative e, soprattutto, si può
svolgere presso le comunità una approfondita opera d'informazione, in modo da
rendere tutti i fedeli protagonisti della lotta per la difesa
dell'ambiente".[CO]
Stupefacente
Sahara di Anna Pozzi
Mondo
& Missione - agosto/settembre 2010
Nel
cuore del grande deserto africano si incrociano trafficanti di droga e
terroristi islamici. E molti altri traffici...
UOMINI,
DROGA, ARMI. Sono infinite le vie dei traffici africani, ma sempre più spesso
si incrociano negli spazi immensi del Sahara. Ovvero dove il vuoto si riempie di
business e di morte.
Rotte
di rabbia e di sofferenza, di affari sporchi e di sporche guerre. Mauritania,
Mali, Niger, Ciad, Libia, Algeria, Marocco, Sudan, confini di sabbia, tracciati
sulle mappe, violati sulla terra. Ci passa soprattutto quello che non dovrebbe.
Rotte di migranti disperati e disposti a tutto, trafficati dai nuovi mercanti di
"merce" umana; rotte di contrabbandieri e di cartelli della droga, di
armi e di terrorismo, di sequestri e di ribellioni. Gruppi criminali diversi si
spartiscono commerci e bottini. Anche tra di loro, tuttavia, i confini labili e
fluidi: alqaedisti, banditi, narcos, ribelli, bande giovanili, a volte mischiati
gli uni agli altri. È un vuoto pieno il Sahara. Un immenso e inospitale ventre
di sabbia e sassi, che cela molte verità e tanti inganni.
Secondo
i dati del United Nations Office for Drug and Crime (Undoc), un terzo delle 146
tonnellate di cocaina che si consumano in Europa ogni anno arriva dal Sudamerica
attraverso l'Africa. "Ormai gran parte del traffico di cocaina destinata
all'Europa passa dai Paesi dell'Africa Occidentale e, cosa ancora più grave,
anche gli oppiacei che arrivano dall'Afghanistan passano dall'Africa Orientale.
Questi due traffici si incrociano nel Sahel, in particolare in Niger, Ciad e
Mali e anche in Sudan e sono gestiti da gruppi di insorti locali e da Al Qaida
Ma¬ghreb". Chi parla è il direttore di Unodc, Antonio Maria Costa. Che,
lo scorso dicembre, ha lanciato l'allarme al Consiglio di sicurezza. Punto
cruciale: il crescente utilizzo di fondi provenienti dal traffico di droga
"da parte di terroristi e di forze antigovernative", in tutta la
regione del Sahel, per finanziare le proprie operazioni.
"Le
droghe - sostiene Costa - non arricchiscono solo il crimine organizzato. I
terroristi e le forze antigovernative attingono risorse dal traffico di droga
per finanziare le loro operazioni, acquistare equipaggiamenti e pagare le loro
truppe".
TRADIZIONE
e tecnologia. Carovane e Internet. Ruderi di camion e mega-aerei. Come il Boeing
727 ritrovato lo scorso novembre su una pista di terra battuta nei pressi di
Gao, nel nord-est del Mali, schiantato al suolo in fase di decollo. Pare avesse
appena scaricato dieci tonnellate di cocaina e altre sostanze illecite
provenienti dal Venezuela. "Disperse" nel Sahara e oggi certamente sui
mercati europei.
Secondo
Costa, "questi traffici stanno assumendo una dimensione nuova, più rapida
e più perfezionata". Approfittano della mancanza di copertura radar nel
nord del Mali - ma anche della presenza di cellule di Al Qaida Maghreb, della
ribellione tuareg e di trafficanti vari - per lasciare la loro
"merce". Merce che viene poi caricata su camion insieme alla
"merce-migranti". O su potenti pick-up. Destinazione Nordafrica. Lungo
le antiche piste carovaniere, dove un tempo transitava il sale, ora passano coca
ed eroina. Da qui raggiungono l'Europa.
Non
si tratta tuttavia solo di flussi nord-sud. Ma anche est-ovest e viceversa. Con
l'arrivo di massicce quantità di eroina dall'Afghanistan sulle coste orientali
(circa 35 tonnellate l'anno), si è prodotto uno scambio: coca dall'ovest in
cambio di eroina dell'est. E così oggi si trova molta cocaina anche in Paesi
come Sudan, Kenya e Tanzania, mentre l'eroina finisce nei circuiti dell'Africa
Occidentale e Saheliana, gestiti prevalentemente da nigeriani, che hanno basi
sia nel loro Paese che in quelli limitrofi, ma anche in Pakistan (per l'oppio
afghano) e in Brasile (per la coca colombiana).
Altre
due importanti e preoccupanti novità stanno modificando lo scenario africano.
Il continente, infatti, e in particolare alcuni Paesi, stanno diventando non
solo zone di transito della droga, ma anche di raffinazione. Questo riguarda, a
detta di Costa, soprattutto Paesi come la Guinea, dove sono stati scoperti
"sette laboratori artigianali, individuati nel centro di Conakry, uno dei
terminali della coca. I laboratori ci hanno dimostrato che l'attività era
progredita. Non ci si limitava più a ricevere, stoccare e poi distribuire verso
l'Europa. Si producevano sul posto gli stupefacenti. In particolare anfetamine,
ecstasy e si raffinava la pasta base per il crack".
L'ALTRO
ASPETTO di novità è rappresentato dal consumo locale. Sempre secondo Costa,
"interi Stati si sono trovati alle prese con l'emergenza dei
tossicodipendenti. Un fenomeno che l'Africa non ha mai conosciuto con queste
dimensioni". Questa escalation interessa soprattutto le bande di
microcriminalità giovanile che oggi, per procurarsi la droga, si rendono
responsabili di crimini sempre più gravi. Più in generale, la droga ha un
effetto destabilizzante sui Paesi in cui transita da tutti i punti di vista,
specialmente se i governi sono deboli e manipolabili aumenta la corruzione,
infiltra il sistema politico, utilizza le imprese locali per il riciclaggio del
denaro, diventa più accessibile alla gente... E quindi ha effetti politici,
economici e sociali disastrosi.
Consumo
e traffico di droga rappresentano, dunque, due enormi sfide per molti Paesi già
estremamente fragili: la loro stabilità è sempre più spesso legata alle
vicende del narcotraffico.
Due
casi sono emblematici: la Guinea Bissau a ovest, dove si susseguono colpi di
Stato più o meno mascherati, manovrati dai cartelli della droga colombiani; e
la Somalia a est, diventata il crocevia privilegiato di ogni traffico: dalla
droga ai rifiuti tossici, dalle armi ai migranti. Anche qui l'inquietante
collusione tra narcotrafficanti ed estremisti islamici di Al Qaida conferma la
duplice emergenza che vive l'Africa: quella appunto del narcoterrorismo
Congresso a Seoul: I Messaggi al papa e ai laici cattolici dell'Asia
di
Bernardo Cervellera
AsiaNews - Seoul - 4 settembre 2010
Il
grazie a Benedetto XVI per il conforto ricevuto. I cattolici asiatici sono un
"piccolo gregge", ma con una missione importante perché questo
continente "ha sete dell'acqua viva" che solo Cristo può dare. Nel
Messaggio ai laici cattolici vi è il grazie a tutti coloro che testimoniano la
fede nella persecuzione. Il contributo dei cristiani è necessario all'Asia
proprio in questo momento di grande sviluppo economico, per garantire anche un
pieno sviluppo umano. Il prof. Thomas Han, anima del Congresso, nominato nuovo
ambasciatore della Corea presso la Santa Sede.
Con
un Messaggio a Benedetto XVI e uno ai laici cattolici dell'Asia, si sono
conclusi oggi i lavori del Congresso dei laici cattolici asiatici nella capitale
coreana.
Il
Messaggio al pontefice, molto affettuoso, è una risposta alla lettera,
anch'essa piena di affetto, che il papa ha inviato al Congresso.
In
esso si sottolinea la "più profonda coscienza" maturata in questi
giorni della missione specifica affidata ai laici, "non solo per edificare
le loro comunità cristiane locali, ma anche per aprire nuovi sentieri per il
Vangelo in ogni settore della società".
Il
Messaggio a Benedetto XVI esprime anche "inadeguatezza" per il compito
affidato al "piccolo gregge" dei cristiani in Asia. Nonostante tutto,
i partecipanti al Congresso esprimono entusiasmo perché sanno che "i
popoli dell'Asia hanno bisogno di Gesù Cristo e del suo Vangelo" e che
questo continente "ha sete dell'acqua viva che solo Lui può dare".
"Santo
Padre - continua il Messaggio - viviamo in tempi difficili e sembra che quasi
ovunque la Chiesa debba affrontare forti venti contrari e onde che vogliono
ricoprirla. A volte, temiamo perfino di naufragare. Ma in questi momenti
sentiamo di nuovo le parole rassicuranti del Signore: Coraggio, sono io; non
temete (Mt 14:27)".
Il
Messaggio ai laici cattolici dell'Asia riafferma "la grandezza e l'urgenza
della missione che sorge dalla grazia del battesimo". "Testimoniare
Gesù Cristo, il salvatore universale" è la "grande missione" ,
il "servizio supremo e il più grande dono che la Chiesa può offrire ai
popoli dell'Asia".
"L'Asia
- si dice ancora - è attualmente in preda a un processo di crescita e di
trasformazione sociale senza precedenti. La sua immensa popolazione e la rapida
crescita economica ne fanno un epicentro importante a livello internazionale.
Nonostante ciò, essa deve affrontare seri problemi nella promozione della
libertà della giustizia, solidarietà e nello sviluppo di condizioni di vita più
umane. Alla luce di ciò, siamo convinti che lo specifico contributo cristiano
può essere essenziale alla soluzione di questi problemi per il bene del nostro
popolo".
Il
Messaggio è pieno di gratitudine per "coloro che danno coraggiosa
testimonianza alla loro fede nelle società dove la libertà religiosa
dell'individuo è negata o ristretta, o coloro che soffrono ostilità dal
fondamentalismo religioso, o quelli che a causa della fede sono minacciati e
perseguitati dalle autorità dei loro governi". Ed è pieno di entusiasmo:
"Come è vero, anche nei nostri tempi e nel nostro continente, la frase di
Tertulliano: Il sangue dei martiri è seme di nuovi cristiani!".
E
ancora: "Coraggio, amici! Il Cristo risorto ha vinto per noi la vittoria
finale! Il male non ha più l'ultima parola. L'amore si è mostrato più forte
della morte, dell'odio, dell'indifferenza! Il potere della grazia di Dio
rafforza la nostra debolezza".
Il
Messaggio ai laici cattolici dell'Asia è stato letto dal prof. Thomas Han,
ispiratore e organizzatore di questo Congresso. Alla fine, nei ringraziamenti,
il card. Stanislaw Rilko ha comunicato a tutti che il prof. Han, membro del
Pontificio consiglio per i laici, è stato nominato nuovo ambasciatore della
Corea presso la Santa Sede.
Cristiani
dell'Asia, coraggiosi testimoni della fede fino al martirio di Bernardo
Cervellera
AsiaNews
- Seoul - 3 settembre 2010
Una
giornata dedicata al martirio delle Chiese dell'Asia e alla persecuzione nel
presente. La vivacità delle comunità è frutto proprio di questa testimonianza
fino al sangue. Le violazioni alla libertà religiosa sono un tentativo di
opprimere non solo la fede, ma la società. Il "supersviluppo" senza
Dio porta a un "sottosviluppo morale", che è nemico del vero sviluppo
dell'uomo. I casi della Cina, dell'India, del Vietnam. Come sostenere le comunità
perseguitate.
Al
Congresso dei laici cattolici in Asia quest'oggi è la giornata dedicata ai
martiri e alla libertà religiosa. Le Chiese asiatiche sono quelle che nella
storia hanno avuto più martiri, con periodi di persecuzione che sono durati
secoli intere. Ancora oggi la persecuzione e le violazioni alla libertà
religiosa segnano in profondità la vita delle comunità cristiane asiatiche.
L'impegno per la libertà religiosa e la condivisione verso le comunità
perseguitate è parte della missione di tutta la Chiesa e in particolare dei
laici. Il tema del martirio e della libertà religiosa è stato affidato stamane
al direttore di AsiaNews, p. Bernardo Cervellera, che ha svolto una relazione
dal titolo "Coraggiosi testimoni della fede". Ad esso è seguito un
ricco dibattito, dove sono emerse tante esperienze di preghiera, di sostegno
alle comunità perseguitate in India, Cina, Sri Lanka, Corea del Nord. La
situazione della vicina Corea del Nord è molto sentita dai cattolici locali,
che cercano in tutti i modi di alleviare le fatiche e premono per spiragli di
libertà nel regime del Nord. Un sacerdote ha proposto che la giornata dei
martiri coreani - i padri della fede di questa regione - che in Corea del sud si
celebra a settembre, sia anche la giornata dei martiri della Corea del Nord,
quelli di oggi. I cattolici definiscono la Corea, "la terra dei
martiri", quelli di ieri e quelli di oggi. Nel pomeriggio, tutti i
partecipanti al congresso fanno visita al santuario dei martiri, costruito sul
luogo dove è avvenuto il loro supplizio (Jeoldusan, la collina delle
decapitazioni) e celebrano la messa in onore dei martiri coreani.
Ecco
la relazione completa del direttore di AsiaNews.
Vorrei
esprimere tutta la mia gratitudine per l'invito che mi è stato fatto per
partecipare a questo Congresso. Il mio ringraziamento va al Pontificio consiglio
per i laici, alla Conferenza episcopale coreana, a tutti voi rappresentanti
laici delle Chiese dell'Asia, Chiese fra le più eroiche e le più vive in tutta
la Chiesa universale.
Permettetemi
di indirizzare la mia gratitudine anche a coloro che sono i padri della fede qui
in Corea che, grazie all'universalità della Chiesa, posso definire anche come
"miei" padri nella fede.
Abbiamo
da poco celebrato i 400 anni della morte di un missionario italiano, Matteo
Ricci, che portando il Vangelo in Cina, ha creato un solido ponte culturale e
religioso fra Oriente e occidente. Durante le celebrazioni per Matteo Ricci,
purtroppo non si è sottolineato a sufficienza che il Vangelo in Corea si è
diffuso grazie a laici che hanno letto un volume di Matteo Ricci in cinese e da
lì è nata l'evangelizzazione della Corea. Molto presto è sorta anche la
persecuzione e il primo battezzato coreano, Pietro Yi Sung-hun, figlio di un
dignitario, è stato ucciso per la fede nel 1801, insieme a molti altri suoi
compagni. La nostra fede di oggi, questo stesso convegno deve la sua esistenza
alla testimonianza di questi nostri padri nella fede.
Pietro
Yi Sung-hun è stato battezzato nel 1784. In quegli stessi anni, il compositore
Wolfgang Amadeus Mozart, in Austria, componeva i Vespri solenni del Confessore,
uno dei vertici della musica sacra di Mozart e forse della storia.
In
quest'opera vi è tutto il ventaglio delle espressioni della confessione della
fede: la drammatica promessa di vittoria del Messia di fronte ai suoi nemici
(Dixit Dominus - Ps 108); la saldezza dell'uomo che teme Dio e la cui
misericordia, compassione e giustizia si diffondono fra i poveri e nella società
(Beatus Vir, Ps. 111); fino alla dolcezza ariosa del "Laudate Dominum"
(Ps 116), che avvolge nella vittoria della Pace e della Verità tutti i popoli
della terra. A questi segue il robusto Magnificat, che nel trionfo dei suoni
proietta nella luce l'umile serva Maria e tutti gli umili, in un contrasto fra
forti e piano, un'armonia fra acuti e bassi che uniscono il cielo e la terra.
Un
fatto curioso è che ancora oggi nessuno sa a quale confessore sono dedicati
questi Vespri solenni. Io penso sia giusto applicarli anzitutto a Pietro Yi
Sung-hun, contemporaneo - anche se sconosciuto - di Mozart e poi a tutti i
martiri, noti e meno noti, quelli che Giovanni Paolo II definì "militi
ignoti della grande causa di Dio". Nell'enciclica da lui scritta in
preparazione al Giubileo del 2000, la Tertio Millennio Adveniente, egli dice:
"Al termine del secondo millennio, la Chiesa è diventata nuovamente Chiesa
di martiri. Le persecuzioni nei riguardi dei credenti - sacerdoti, religiosi e
laici - hanno operato una grande semina di martiri in varie parti del mondo. La
testimonianza resa a Cristo sino allo spargimento del sangue è divenuta
patrimonio comune di cattolici, ortodossi, anglicani e protestanti... Nel nostro
secolo sono ritornati i martiri, spesso sconosciuti, quasi " militi ignoti
" della grande causa di Dio. Per quanto è possibile non devono andare
perdute nella Chiesa le loro testimonianze". (n.37).
Martirio
e benedizione
Il
martirio è una benedizione per le Chiese. "Il sangue dei martiri, dice
Tertulliano, è seme di nuovi cristiani". Nelle nostre comunità non
apprezziamo mai a sufficienza quanto siamo debitori al martire, anche per le
conversioni che il suo dono suscita. In Cina, grazie alla persecuzione e al
martirio di tanti cristiani, giovani universitari, intellettuali si domandano se
non è proprio il cristianesimo ciò di cui la Cina ha bisogno per fondare una
società sul rispetto dell'uomo, sui diritti inalienabili dell'individuo. E
nella nuova Cina del capitalismo selvaggio, molti professionisti si domandano
cosa vi è di così importante nel cristianesimo da far vincere l'amore ai
soldi, al benessere, alla tranquillità, spingendo gente comune a dare la vita
per Cristo.
Vale
la pena ricordare che "grazie" alle persecuzioni comuniste in Cina i
cattolici sono più che quadruplicati negli ultimi 60 anni. Nel '49 erano solo 3
milioni; oggi, cattolici sotterranei e ufficiali sono più di 12 milioni e vi
sono decine di migliaia di nuovi battezzati (adulti) ogni anno.
Il
martirio è una benedizione anche per le società: che nei tanti inferni del
pianeta ci siano persone che danno la vita per amore a Cristo e all'uomo,
perdonando e riconciliando, ci dà la possibilità di vedere la terra non come
un luogo apocalittico, destinato alla distruzione e alla violenza, ma un luogo
passibile di speranza.
Con
molta sensibilità pastorale i vescovi giapponesi, il 24 novembre 2008 hanno
beatificato 188 martiri di Nagasaki. Un mio confratello del Pime, missionario in
Giappone ha commentato allora: "La gente in Giappone è alla ricerca di
valori forti. Essi sono di fronte ogni giorno a problemi dolorosi come i
suicidi, la delinquenza giovanile, lo sbriciolamento delle famiglie, la crisi
economica... Tutte queste cose distruggono le sicurezze di una volta e questo li
porta a cercare valori che siano più duraturi ed esigenti.La gente è davvero
alla ricerca di Dio. La beatificazione dei martiri può suggerire una risposta a
questo desiderio di verità per la vita"[1].
Due
tipi di martirio
Non
tutti i cristiani sono chiamati al martirio. Il teologo Hans Urs von Bathasar ha
detto che vi sono due tipi di martiri: vi sono quelli che danno il sangue una
volta per tutte e quelli che offrono il loro sangue "goccia dopo
goccia", nella testimonianza quotidiana della loro fede e della
trasformazione della loro vita. Anche questo secondo tipo di martirio è una
benedizione per la Chiesa e la società.
In
una catechesi dell'11 agosto scorso, papa Benedetto XVI ha spiegato che il
martirio è fondato sull'invito di Gesù ai suoi discepoli a "prendere ogni
giorno la propria croce e seguirlo sulla via dell'amore totale a Dio Padre e
all'umanità". Il martire esprime perciò un amore totale a Dio, che
"arricchisce" ed "esalta" la sua libertà: "Il martire
- ha detto - è una persona sommamente libera, libera nei confronti del potere,
del mondo".
Naturalmente,
ha precisato Benedetto XVI, non tutti sono chiamati al martirio, "ma
nessuno di noi è escluso dalla chiamata divina alla santità, a vivere in
misura alta l'esistenza cristiana e questo implica prendere la croce di ogni
giorno su di sé".
E
ha concluso: "Tutti, soprattutto nel nostro tempo in cui sembrano prevalere
egoismo e individualismo, dobbiamo assumerci come primo e fondamentale impegno
quello di crescere ogni giorno in un amore più grande a Dio e ai fratelli per
trasformare la nostra vita e trasformare così anche il nostro mondo".
Libertà
religiosa
Per
permettere alla fede e ai cristiani di trasformare il mondo c'è però una
condizione: è necessaria la libertà religiosa, un diritto umano che fa ancora
fatica ad affermarsi in Asia.
La
libertà religiosa - anche per l'Onu - implica la libertà di praticare o non
praticare una fede; la libertà di associarsi a persone della stessa fede; di
viaggiare; di essere guidati da maestri della propria fede; di cambiare
religione seguendo la propria personale ricerca della verità.
La
libertà di religione non è solo uno dei diritti affianco ad altri. Essa è in
un certo modo la sintesi di tutti i diritti umani. Come hanno sempre affermato
Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, la libertà di religione è la base di tutti
i diritti[2], la cartina di tornasole[3] che verifica se davvero in una società
vi è libertà.
Soffocare
la libertà religiosa vuol dire pure soffocare le libertà civili di un gruppo.
Libertà religiosa infatti implica la libertà di professare ed esprimere
pubblicamente le ragioni del proprio credo (libertà di coscienza); libertà di
diffondere con la voce, gli scritti, i filmati e altri mezzi di comunicazione la
propria fede (libertà di espressione e di stampa); libertà di incontrare
membri della propria comunità in patria e all'estero (libertà di
associazione). Le limitazioni alla libertà religiosa divengono di fatto
limitazioni delle proprie libertà civili di espressione, di stampa,
pubblicazione e diffusione; di associazione; di movimento.
L'Asia,
il continente delle violazioni della libertà di religione
L'Asia,
questo continente divenuto ormai protagonista nell'economia e nella politica
internazionale, presenta ancora troppi squilibri e violenze sulla libertà
religiosa. Nel 2008, "Aiuto alla Chiesa che soffre" ha pubblicato il
"Rapporto 2008 sulla Libertà Religiosa nel mondo". AsiaNews collabora
da tempo alla stesura della sezione asiatica di tale rapporto. Da esso si vede
con chiarezza che è largamente l'Asia il continente delle violazioni della
libertà di religione. In una lista di 13 Paesi nei quali vi sono "gravi
limitazioni alla libertà religiosa", 10 sono asiatici: Arabia Saudita,
Yemen, Iran, Turkmenistan, Pakistan, Cina, Bhutan, Myanmar, Laos e Corea del
Nord. A far loro compagnia, gli africani Nigeria e Sudan, insieme a Cuba.
E
non basta: altri 15 Stati asiatici sono indicati tra quelli ove, comunque, si
registrano "limitazioni alla libertà religiosa". Anche qui, in tutto
il resto del mondo ce ne sono solo altri nove.
Le
violazioni sono fra le più varie: si va dall'Arabia Saudita, che dichiarandosi
"integralmente" islamica, continua a vietare ogni manifestazione
pubblica di fede non musulmana (avere Bibbie, portare un crocifisso, un rosario,
un ciondolo del Buddha, pregare in pubblico, avere un luogo di ritrovo); al
Bhutan, dove è impedito l'ingresso a missionari non buddisti; è limitata o non
permessa la realizzazione di edifici religiosi non buddisti; è perfino
richiesto che tutti i cittadini indossino le vesti della etnia Ngalop, che è
soprattutto buddista, negli uffici pubblici, nei monasteri, nelle scuole e
durante le cerimonie ufficiali.
Si
va dal Myanmar, con la sanguinosa repressione dei monaci buddisti, alla Corea
del Nord, ove è vietato praticare la fede e dove continua a non esserci neppure
un sacerdote o un monaco, tutti con ogni probabilità uccisi nei decenni
passati. Secondo testimonianze raccolte dai pochi cristiani che praticano in
segreto la loro fede, subito dopo la divisione della penisola coreana, nel Nord
sono stati trucidati 300mila cristiani.
E
ci sono l'India, resa tristemente famosa per i pogrom anticristiani dell'Orissa,
e la Cina, con l'oppressione sistematica delle Chiese, dei buddisti tibetani e
dei musulmani uiguri e con sacerdoti e pastori in prigione, fino al paradiso
turistico delle Maldive dove la Costituzione riserva ai musulmani tutte le
cariche politiche, giudiziarie e amministrative, il governo applica la sharia ed
è vietata qualsiasi manifestazione pubblica di altre religioni.
Attualmente,
su 52 Paesi asiatici, almeno 32 limitano in qualche modo la missione delle
religioni: i Paesi dell'Islam (dal Medio oriente al Pakistan, all'Indonesia,
alla Malaysia) mettono difficoltà a chi vuole convertirsi a una religione
diversa dall'Islam, ma creano difficoltà e violenze anche a gruppi islamici
minoritari. Basta vedere in Pakistan la violenza che si scatena ogni tanto da
parte dei sunniti contro gli sciiti o contro le minoranze ahmadi.
Anche
India e Sri Lanka spingono sempre di più per leggi anti-conversione. In India,
anzi, vi sono 5 Stati che la contemplano nel loro corpus legislativo.
I
Paesi dell'Asia centrale limitano la libertà religiosa: basta vedere come
trattano gruppi legati ai Testimoni di Geova, a protestanti e perfino a qualche
Islam non garantito dagli Stati in questione.
I
Paesi comunisti (Cina, Laos, Vietnam, Nord Corea) soffocano o addirittura
perseguitano la Chiesa cattolica, le chiese protestanti domestiche, il buddismo,
tutte le religioni.
Violenza
contro le scuole e lo sviluppo
Le
violenze contro la libertà religiosa sono anzitutto attentati contro delle
persone. Ma esse sono pure attentati contro la società e il progresso sociale
ed economico di un paese. Chi opprime o soffoca la libertà religiosa di fatto
sceglie di tenere in condizioni di sottosviluppo il suo popolo.
Il
pogrom contro i cristiani dell'Orissa nel 2008-2009 aveva come slogan:
"Uccidiamo i cristiani; distruggiamo le loro istituzioni". Per
eliminare la libertà religiosa non ci si accontenta di sopprimere gli
individui, ma si cerca di distruggere le istituzioni: ospedali, centri sociali e
soprattutto scuole.
Quello
della distruzione delle scuole (o del loro imbavagliamento) è un elemento di
persecuzione che è ormai quasi un trend: Cina, Hong Kong, Indonesia (perfino
università - nelle Molucche), Nepal, India, Pakistan. In questo caso non si
vuole solo imbavagliare la fede di una comunità (che magari attraverso
l'insegnamento potrebbe comunicare la propria fede alle giovani generazioni): si
vuole distruggere la possibile influenza sociale delle religioni, in particolare
di quella cristiana.
Scuola
significa fine dell'analfabetismo, apprendimento di un mestiere, conseguimento
di una laurea, educazione, carriera, trasformazione sociale. Si distrugge quindi
non solo per uccidere la fede, ma anche per impoverire, per frustrare il popolo,
per avere meno prospettive sociali.
Gli
induisti che combattono contro le scuole cattoliche e protestanti vogliono
tenere i paria nella condizione di schiavi dominabili; i musulmani (in combutta
con l'esercito) che bruciano l'università di Ambon vogliono che i cristiani non
trovino lavoro e che le Molucche siano preda delle politiche dall'esterno.
In
Cina il governo ha dato l'OK per le scuole private. Ma ha posto un veto: no alle
scuole di matrice religiosa. Le altre scuole insegnano tecniche, carriere,
produzioni, ma non libertà. I regimi cercano sempre schiavi, non interlocutori.
Ad
Hong Kong le scuole cattoliche sono riconosciute da tutti come le migliori per
qualità di insegnamento, di modernità, di spessore. Eppure Pechino sta facendo
di tutto per chiuderle o per controllarle.
Nei
mesi scorsi si è diffusa la notizia di un pullman di 50 giovani cristiani
colpiti da un attentato nel nord dell'Iraq[4]. Gli studenti "si stavano
recando in autobus all'università di Mosul, nonostante le costanti minacce
sotto cui vivono", ha detto Nissan Karoumi, sindaco di Hamdaniya. L'ateneo
è già da cinque anni nel mirino di gruppi estremisti islamici che lottano per
la conversione dei giovani studenti. Spesso in università circolano volantini
che promettono di "uccidere tutte le irachene che non indossano il
velo" e minacciano di morte chiunque indossi vestiti
"all'occidentale".
In
Iraq la persecuzione contro i cristiani va di pari passo con l'eliminazione
dell'intellighenzia irakena. La violenza sunnita e sciita sta infatti colpendo
anche gli intellettuali e i professori universitari, fisici, ingegneri,
giornalisti cosiddetti musulmani moderati, che aprendosi al dialogo con altre
culture, rischiano di "inquinare" la purità islamica fondamentalista.
Da questo punto di vista, l'uccisione, i rapimenti di intellettuali e scienziati
in Iraq stanno impoverendo la nazione e la stanno condannando al sottosviluppo
come e più che la guerra e l'insicurezza.
Nei
paesi islamici i governi sostengono le scuole coraniche e fondamentaliste,
creando le basi per i terroristi islamici di domani (Malaysia, Indonesia,
Pakistan), invece di sostenere la libertà di educazione e dando spazio alle
diverse religioni.
La
conclusione è che il potere che soffoca la libertà religiosa, mette le basi
per la distruzione della società. Nei Paesi islamici perché vi sarà una
crescita di fondamentalismo. Nei Paesi atei, perché la mancanza di libertà
religiosa crea un conflitto sociale sempre più intenso. Senza dignità
dell'uomo garantita dalla dimensione religiosa e senza solidarietà sociale, il
progresso tecnico crea ingiustizie, divisioni e conflitti. Pensiamo a quanto
succede in Cina. Secondo cifre del Ministero della sicurezza cinese, lo scorso
anno vi sono state oltre 100 mila "incidenti di massa", cioè scontri
fra popolazione e polizia o esercito, con morti da entrambe le parti.
Sviluppo
economico e libertà religiosa
Si
potrebbe obbiettare che Cina, India, Maldive, Vietnam, sebbene soffochino la
libertà religiosa, sono Paesi ormai ad avanzatissimo sviluppo. In realtà la
violenza sulle religioni è segno di un profondo squilibrio presente nelle loro
società, che mette in crisi la "qualità umana" di tale sviluppo.
Analizziamo
ad esempio il prezzo pagato dalla Cina per questo sviluppo: morti in miniera;
disoccupati, pensionati senza aiuto, famiglie senza sanità e scuole, migranti
che lavorano come schiavi, giovani disperati e suicidi; condanne a morte;
corruzione.
A
questo si aggiungono gli enormi problemi ecologici e agricoli creati da questo
sviluppo selvaggio e "non religioso", non rispettoso di Dio, della
natura e dell'uomo. Secondo dati ufficiali, in Cina sono inquinati il 90% dei
fiumi e dei laghi. Oltre 320 milioni di contadini non hanno fonti d'acqua
potabile e circa 190 milioni bevono acqua inquinata, che usano anche per
irrigare i campi. Tra loro ci sono altissime percentuali di malati di cancro.
Secondo esperti statali i problemi causati dall'inquinamento costano al Paese
tra l'8 e il 13% del Prodotto interno lordo[5].
Perfino
l'alfabetizzazione, l'orgoglio di Mao, è divenuto un bene di lusso: almeno
l'80% dei figli dei contadini lasciano la scuola dell'obbligo per andare nelle
città lavorare come disperati migranti.
Come
si sa il veloce e disordinato sviluppo economico sta generando una valanga di
proteste in Hunan, Guangdong, Henan, Hebei, Zhejiang, Shaanxi con decine di
morti e di arresti.
Secondo
lo stesso Partito comunista, le ingiustizie sociali - emerse dallo sviluppo
squilibrato - sono divenute il pericolo più grande per la stabilità della
Cina.
Anche
il caso del Vietnam è significativo: qui la persecuzione religiosa è legata al
tentativo di eliminare o perlomeno emarginare i gruppi minoritari dei cosiddetti
montagnards, le tribù dei monti ai quali si nega non solo l'espressione della
fede, ma anche i servizi minimi per il loro sviluppo: scuole, sanità, strade,
terreni, case. Quanto più il Vietnam tende a decollare nello sviluppo
industriale e nella ricchezza, tanto più case, chiese, terreni vengono
espropriati in nome del Partito e intascati da qualche leader locale come
proprietà private per essere rivendute nel mercato immobiliare. In questo vi è
anche la probabile connivenza di quelle ditte occidentali che stanno investendo
in Vietnam, trasferendo le loro catene produttive in questo meraviglioso Paese
per bellezza naturale e per capacità produttiva.
Questi
squilibri e ingiustizie nascono dalla mancanza di libertà religiosa,
dall'emarginazione della dimensione religiosa nella società. Vale la pena
ricordare qui quanto Benedetto XVI ha sottolineato nella sua ultima enciclica,
Caritas in Veritate: che "Dio è il garante del vero sviluppo
dell'uomo", per cui, "la promozione programmata dell'indifferenza
religiosa o dell'ateismo pratico da parte di molti Paesi contrasta con le
necessità dello sviluppo dei popoli, sottraendo loro risorse spirituali e
umane".
E
ancora: "Quando lo Stato promuove, insegna, o addirittura impone, forme di
ateismo pratico, sottrae ai suoi cittadini la forza morale e spirituale
indispensabile per impegnarsi nello sviluppo umano integrale e impedisce loro di
avanzare con rinnovato dinamismo nel proprio impegno per una più generosa
risposta umana all'amore divino".
Senza
la libertà religiosa, il "super sviluppo" di tanti Paesi asiatici,
rimane afflitto da "sottosviluppo morale" che danneggia "lo
sviluppo autentico"[6].
In
conclusione
Mi
sembra di poter affermare che le violazioni alla libertà religiosa avvengono
sempre più per motivi di potere e in disprezzo allo sviluppo umano e sociale
dell'uomo. In passato erano molto più frequenti le motivazioni del
fondamentalismo fanatico che vuole annientare le altre comunità confessionali;
il rifiuto di religioni (come il cristianesimo), legate a un passato coloniale;
le motivazioni ideologiche marxiste, che volevano distruggere le religioni come
"oppio del popolo". Ora invece è chiaro che anche nei Paesi comunisti
la lotta contro le religioni è una lotta contro la libertà, per salvare il
potere e gli affari dell'oligarchia del Partito.
Perfino
le persecuzioni in India, pur con una forte dose di integralismo religioso indù,
sono motivate dall'interesse di partiti politici e proprietari terrieri a
mantenere come schiavi i tribali e i dalit che convertendosi al cristianesimo,
si aprono a una nuova emancipazione sociale ed economica della loro vita.
Da
questo punto di vista imbavagliare le religioni significa imbavagliare le voci
che parlano di libertà di espressione, di giustizia contro la corruzione; di
sviluppo e di dignità. Le forze di potere che lottano contro la libertà
religiosa vogliono Paesi chiusi, bloccati, senza sviluppo economico, per
conservare i loro monopoli e interessi.
Va
pure detto che c'è sempre meno interesse dei governi mondiali verso questo tema
della libertà religiosa. La globalizzazione ha reso la società civile mondiale
più solidale; la stessa ha reso i governi più succubi dell'economia. E io temo
che con la recessione planetaria a cui stiamo assistendo, questo disinteresse
diverrà sempre più abissale.
È
pur vero che nel mondo vi sono parti della società civile che prendono a cuore
questa o quella situazione, si informano, dimostrano, sostengono, solidarizzano.
Questi legami e questi rapporti che si creano controcorrente - contro
l'indifferenza e il bieco mercantilismo - sono anche dei semi di speranza per il
mondo.
A
questo i cristiani devono dare un contributo offrendo la testimonianza di un
impegno per la dignità dell'uomo, fatto a immagine di Dio e amato da Gesù
Cristo. Tutto questo è un dovere che viene dalla nostra missione.
Vorrei
terminare con le parole di Benedetto XVI nella sua enciclica "Deus caritas
est", citata in abbondanza nella sua Lettera ai cattolici cinesi. Quanto
dice il nostro Santo Padre si può applicare a tutti noi, asiatici ed europei,
orientali e occidentali: " la Chiesa non può e non deve prendere nelle sue
mani la battaglia politica per realizzare la società più giusta possibile. Non
può e non deve mettersi al posto dello Stato. Ma non può e non deve neanche
restare ai margini nella lotta per la giustizia. Deve inserirsi in essa per la
via dell'argomentazione razionale e deve risvegliare le forze spirituali, senza
le quali la giustizia, che sempre richiede anche rinunce, non può affermarsi e
prosperare. La società giusta non può essere opera della Chiesa, ma deve
essere realizzata dalla politica. Tuttavia l'adoperarsi per la giustizia
lavorando per l'apertura dell'intelligenza e della volontà alle esigenze del
bene la interessa profondamente"[7].
Che
fare?
Cosa
fare dunque per promuovere la libertà religiosa in Asia?
Anzitutto
informarsi e informare sulle violazioni alla libertà religiosa. L'agenzia per
cui lavoro, AsiaNews, ha fatto dell'informazione sulla libertà religiosa uno
dei suoi capisaldi. E questo non per amore per uno scoop giornalistico. Ormai,
nel nostro mondo preoccupato solo per i propri interessi l'arresto di un
vescovo, l'uccisione di un cristiano non è una notizia importante, a meno che
non si possa sfruttare per i propri interessi politici. È importante informare
perché possiamo condividere le sofferenze di altri nostri fratelli e sorelle.
Un vescovo sotterraneo cinese viene di continuo arrestato e sequestrato per
mesi, per costringerlo a rifiutare il rapporto con il papa. Alcune settimane fa
è stato liberato e mi ha scritto ringraziando me e AsiaNews per il nostro
lavoro, perché diamo voce al suo silenzio e al suo isolamento e lui percepisce
la comunione con la Chiesa universale.
Occorre
pregare per i perseguitati. In Italia alcuni miei amici hanno cominciato da
alcuni mesi a celebrare il rosario dei martiri: ogni decina è dedicata a una
qualche situazione di persecuzione o a qualche persona. Questa preghiera, mi
dicono, serve a infondere coraggio nella loro vita quotidiana: i martiri
divengono la misura della nostra dedizione a Cristo. In questo modo la preghiera
per loro brucia le nostre meschinità, il nostro borghesismo, i nostri piccoli
conflitti fra preti e laici. Pregare per i perseguitati è anche un modo per
superare i propri confini locali, abbracciando i confini universali della
Chiesa.
Occorre
servire la Chiesa perseguitata, visitandola, sostenendola, sulla linea di quanto
dice la Lettera agli Ebrei: "Ricordatevi dei carcerati, come se foste loro
compagni di carcere, e di quelli che soffrono, essendo anche voi in un corpo
mortale" (13,3). Posso dire che la mia vocazione di sacerdote è nata
proprio dall'esempio che mi hanno dato i molti cristiani perseguitati in Europa
dell'est e in Cina.
Impegnarsi
a difendere la libertà religiosa significa difendere la bellezza del
cristianesimo anche nei momenti di buio. Due giorni fa il coro delle bambine
della scuola media di Inchon hanno continuato a cantare il Gloria sia con la
luce piena, che nel buio delle torce. Io credo che questo sia un simbolo della
Chiesa in Asia: che sa cantare la bellezza di Dio e del mondo anche quando
domina per un momento l'oscurità.
[1]
Cfr. AsiaNews.it, 24/11/2008I 188 martiri per saziare la sete di Dio dei
giapponesi.
[2]
Cfr Benedetto XVI, Discorso al Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa
Sede, 7 gennaio 2008, n.11: "La libertà religiosa, esigenza inalienabile
della dignità di ogni uomo e pietra angolare nell'edificio dei diritti umani,
è spesso compromessa. Effettivamente, vi sono molti luoghi nei quali essa non
può esercitarsi pienamente. La Santa Sede la difende e ne domanda il rispetto
per tutti. Essa è preoccupata per le discriminazioni contro i Cristiani e
contro i seguaci di altre religioni".
[3]
Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti all'Assemblea Parlamentare
dell'OSCE, 10 ottobre 2003, n.1.
[4]
AsiaNews.it, 03/05/2010 Autobomba contro un pullman di studenti cristiani vicino
a Mosul .
[5]
AsiaNews.it, 14/03/2007 Da un mese senza acqua potabile 80 mila contadini di
Yixing.
[6]
Cfr. Caritas in Veritate, n. 29.
[7]
Deus caritas est, n. 28; Lettera... , n.4.
Laici
cattolici in Asia: un "gigante dormiente" che si risveglia di Bernardo
Cervellera
AsiaNews - Seoul - 2 settembre 2010
L'impegno
nelle strutture ecclesiali non deve soffocare la testimonianza nel lavoro, nella
famiglia, nella politica. La missione specifica dei laici è essere a contatto
con il mondo e con i non cristiani. L'insegnamento di Ratzinger. Le
testimonianza di mons. Dao e di Jess Estanislao, già membro del governo
filippino.
I
laici cattolici in Asia sono come "un gigante dormiente", tenuto a
freno da troppi impegni all'interno delle strutture clericali. È tempo ormai di
risvegliarlo e di far compiere ad essi la loro missione specifica, che è quella
di vivere dentro il mondo come lievito, trasformandolo; mostrando la diversità
della loro vita di fede tanto da suscitare l'ammirazione e la domanda di chi non
crede. È questo in sintesi il contenuto del dibattito e delle conversazioni
tenutesi oggi, secondo giorno del Congresso dei laici cattolici asiatici qui a
Seoul che hanno sottolineato il momento presente come una transizione verso una
missione laicale a 360 gradi, nella famiglia, nel lavoro, nei media, nella
politica.
Un
sostegno autorevole a questa spinta verso il mondo è venuto dalla relazione
presentata da mons. Josef Clemens, segretario del Pontificio consiglio per i
laici. Grazie alla sua personale esperienza di vicinanza con Josef Ratzinger,
fino alla sua elezione a papa (è stato suo segretario personale), mons. Clemens
ha messo in luce molti interventi di Ratzinger nel difendere un impegno dei
laici "non nelle strutture ecclesiali, ma come responsabili nella società",
a contatto con il mondo.
Egli
ha pure mostrato tutta l'attualità dell'Esortazione apostolica Christifideles
laici, chiedendone l'attuazione, a 22 anni dalla sua promulgazione.
Ma
i contributi che hanno destato più interesse sono quelli dei primi due asiatici
che hanno preso la parola al Congresso.
Il
primo, mons. Dinh Duc Dao, professore al seminario di Xuan Loc (Vietnam), ha
sottolineato che ogni impegno della Chiesa che non preveda la missione ad gentes
(ai non cristiani), non è vero impegno ecclesiale. Tale impegno è a carico
soprattutto dei laici, che vivono a contatto quotidiano con il mondo. Ciò che
è da temere, ha detto, è avere dei laici che "servono solo nelle
strutture della Chiesa e sono insignificanti nella società".
La
missione nel mondo non deve confidare in slogan abusati, ma tendere a innervare
la fede nella cultura. Per questo, egli ha aggiunto, non basta "servire i
poveri": occorre che il Vangelo raggiunga "anche i ricchi, i potenti,
gli intellettuali, le persone influenti, gli studenti universitari perché il
destino dei poveri dipende anche da loro".
Il
secondo, il primo laico asiatico che ha preso la parola, è Jess Estanislao, già
impegnato in politica, membro del governo filippino e ex imprenditore. Membro
dell'Opus Dei, Estanislao ha presentato il ventaglio della missione dei laici:
il lavoro, vissuto con professionalità e perfezione; l'impegno per la famiglia
e per la vita (egli stesso lotta ancora con la Chiesa filippina contro la legge
per il controllo della popolazione che il governo di Manila vorrebbe approvare);
libertà e responsabilità personale nelle scelte sociali, lottando perché i
preti non si impegnino in modo diretto in politica; vivere l'amicizia con tutti;
coltivare amici nei media. A questo proposito, come esempio, egli ha raccontato
quanto sia importante intrattenere rapporti di amicizia con gli autori
televisivi delle soap-opera filippine, piene di sesso, di ambiguità e di
ignoranza verso il cristianesimo. "Solo attraverso queste amicizie - ha
detto - potremo aiutare questi autori a cambiare il loro lavoro e a riempirlo di
nuovi valori".
Tutti
gli interventi hanno sottolineato pure l'importanza della formazione dei laici,
dando molto valore allo studio e alla comprensione del Catechismo della Chiesa
cattolica e del Compendio della dottrina sociale della Chiesa.
Fra
i segni di un "nuovo approccio" nell'impegno dei laici, mons. Martinus
Situmorang, vescovo di Padang (Indonesia), ha citato due fatti: una scuola
rurale nella sua diocesi, fondata da soli laici, senza "l'imbeccata"
dei sacerdoti; l'impegno di un imprenditore cristiano che vuole strutturare le
sue miniere dando una vita migliore e più dignitosa ai suoi minatori.
La
prima mattinata del Congresso è stata caratterizzata da un forte tifone,
passato al largo di Seoul, che ha causato venti fortissimi e piogge, senza però
frenare i lavori.
Laici
cattolici, una "minoranza creativa" per l'Asia di Bernardo Cervellera
AsiaNews - Seoul - 1 settembre 2010
L'intervento
del card. Rilko, di p. Felipe Gomes di Manila e del card. Toppo. Riscoprire il
battesimo per affrontare le sfide dell'Asia: globalizzazione, povertà,
violazione dei diritti umani, relativismo e fondamentalismo. Il continente ha
visto molte ondate di evangelizzazione, ma anche molte persecuzioni. La storia
piena di successo della conversione dei tribali. Il canto nella luce e
nell'oscurità.
I
laici cattolici in Asia sono una "minoranza creativa" e hanno un ruolo
decisivo per il presente e il futuro del continente: è quanto sottolinea il
card. Stanislaw Rilko, presidente del Pontificio consiglio per i laici ai membri
delle Chiese asiatiche radunate nel Congresso che si è aperto oggi a Seoul, sul
tema "Proclamare Gesù Cristo nell'Asia oggi".
Radunati
in una sala modernissima, presso la cattedrale di Myongdong, dedicata
all'Immacolata, vi sono circa 400 laici da 20 Paesi dell'Asia (escluso il Medio
oriente): fedeli delle nuove Chiese dell'Asia centrale e della Mongolia; Chiese
mature come quella dell'India o della stessa Corea; Chiese povere come quelle
del Nepal e del Pakistan; moderne e ricche come quella del Giappone.
Le
uniche comunità che non hanno risposto all'appello del Pontifico consiglio sono
quelle della Cina popolare (ma sono presenti Hong Kong e Taiwan), la Cambogia e
il Bangladesh, oltre naturalmente alla Corea del Nord, soffocata da una
dittatura spietata.
Da
oggi fino al 5 settembre sono previste diverse relazioni e discussioni tutte
tese a rendere più missionarii laici di questo continente che è ormai presente
da protagonista nella ribalta economica, sociale, politica mondiale.
Il
card. Rilko ha presentato il quadro della situazione, che è anche quello delle
sfide che si offrono alla testimonianza dei cristiani. L'Asia è il continente
che abbraccia i due terzi dell'umanità ed è forse l'area in cui in modo spesso
violento crescono di più la globalizzazione e l'economia. Ma questo sviluppo
galoppante è anche portatore di enormi problemi sociali: estrema povertà in
molte zone; abusi dei diritti umani. A causa della modernizzazione selvaggia che
penetra e scardina molte tradizioni e religioni, nel continente cresce anche il
fondamentalismo (islamico, indù, buddista,...), mentre nelle città si diffonde
un modo di vivere dettato dal materialismo commerciale e dal relativismo.
Il
card. Rilko e tutti i relatori di oggi hanno sottolineato il carattere
minoritario che la Chiesa cattolica riveste in Asia: solo 120 milioni di fedeli
su una popolazione di circa 4 miliardi; una percentuale che a fatica raggiunge
il 2%. Eppure, questa "minoranza" cresce del 4-5% ogni anno e non è
"timida", ma "piena di vitalità".
L'enorme
compito che attende i cattolici asiatici non è risolvibile con strategie e
organizzazioni, ma con un affondo personale nel rapporto con Gesù Cristo. Per
questo, il primo passo che il card. Rilko ha chiesto all'assemblea è di
"riscoprire il proprio battesimo" per essere ancora di più
"sale" e "lievito" del continente. "Anche il sale nel
cibo è in minoranza - ha detto - ma dà sapore". Il vero problema - ha
sottolineato - "non è essere minoranza, ma essere irrilevanti" nella
società.
Ai
fedeli è chiesto di essere parte organica della Chiesa e insieme "essere
cristiani non solo nel culto, ma nella società", mostrando senza complessi
di inferiorità tutta la gioia, la libertà, la bellezza dell'essere cristiani.
Altri
due relatori hanno mostrato nella storia della Chiesa in Asia questo mistero di
"grandezza e povertà". Il p. Felipe Gomes, insegnante all'East Asian
Pastoral Institute di Manila, ha mostrato che l'Asia è il continente segnato da
Gesù Cristo (che è "asiatico"); dove sono morti la maggioranza degli
apostoli; dove si sono avute epopee missionarie che già nei primi secoli hanno
diffuso il cristianesimo in Armenia, in Persia, in India, in Cina, tanto che
fino al 1200 vi erano almeno 21 milioni di cristiani. Poi però, la crescita
dell'islam, la mancanza di comunicazioni, la fatica ad adattarsi alle culture
locali e le persecuzioni hanno decimato la Chiesa. In compenso, la Chiesa
asiatica ha il primato dei martiri: persiani (190 mila); giapponesi (200 mila);
coreani (10 mila); cinesi (oltre 32 mila solo nella persecuzione dei Boxer, nel
1900); armeni (2,1 milioni); ecc...
"Forse
- ha concluso p. Gomes - l'orologio di Dio batte per l'Asia un ritmo diverso e
noi dobbiamo riverire il mistero".
Una
storia molto positiva e di successo è invece quella dell'evangelizzazione dei
tribali in India, presentata dal card. Telesphore Toppo, lui stesso tribale.
Nell'800, grazie al gesuita p. Constant Lievens, in soli 7 anni a Chotanagpur
(una fascia dell'India centrale) si sono convertiti oltre 80 mila tribali. La
loro conversione è stata anche segnata da uno sviluppo educativo e sociale
impressionante, che ha dato frutti anche alla Chiesa: ora nell'area vi sono 12
diocesi con vescovi locali, migliaia di sacerdoti e migliaia di religiose.
Prima
delle relazioni, dei saluti e dei messaggi del papa e del presidente Lee Myung
Bak, tutta l'assemblea ha partecipato alla messa presieduta dal cad. Rilko nella
cattedrale dell'Immacolata, a cui ha partecipato anche il card. Nicholas Cheong
di Seoul.
Il
raduno - organizzato in modo magistrale dalla Commissione per i laici della
Corea, guidata dal prof. Thomas Han - ha avuto anche un momento molto
accattivante: l'esibizione di un coro di bambine della scuola media di Incheon,
che ha cantato un canto polacco, uno ispirato a Rossini e un Gloria. Mentre
eseguivano il Gloria a piene luci nella ribalta, con un passo previsto dal
copione, si sono spente le luci e il coretto ha continuato a cantare il Gloria
al buio, alla luce flebile di alcune torce colorate. E questo Gloria nella luce
e nell'oscurità è come un simbolo per la testimonianza della Chiesa dell'Asia,
piccola "minoranza creativa" nel grande continente, che non teme
neanche il buio della persecuzione.
Laici
cattolici, testimoni di speranza per il bene dei popoli dell'Asia di Card.
Stanislaw Rilko
AsiaNews
- Seoul - 4 settembre 2010
Nella
relazione finale del presidente del Pontificio consiglio per i laici vi è il
bilancio dei lavori e una nuova visione della missione dei laici. Anche l'Asia
è segnata dal nichilismo post-ideologie e dal relativismo che annacqua
l'annuncio. Proclamare Gesù Cristo non è una negazione del dialogo.
Riaffermato il valore dei movimenti e la loro collaborazione con i vescovi. La
gratitudine per la testimonianza dei martiri contemporanei e alla Chiesa
coreana.
Pubblichiamo
di seguito l'intervento che il card. Stanislaw Rilko, Presidente del Pontificio
consiglio per i laici, ha tenuto oggi a conclusione del Congresso dei laici
cattolici asiatici, sul tema "Proclamare Gesù Cristo in Asia oggi",
svoltosi nella capitale coreana. Nella sua relazione finale, il porporato mette
in luce alcuni importanti aspetti emersi durante i lavori: la ricchezza delle
esperienze laicali di evangelizzazione in Asia; il bisogno di speranza nel
nichilismo dominante nel continente e nel mondo; l'identità cristiana
testimoniata senza complessi o relativismi; la sintesi fra annuncio e dialogo,
movimenti e parrocchie. Pur segnati dal martirio e dalla mancanza di libertà
religiosa, i laici hanno un compito insostituibile.
1.
Il Congresso dei Laici Cattolici dell'Asia volge al termine e il nostro cuore è
pieno di gioiosa gratitudine per il dono che esso è stato per ciascuno e
ciascuna di noi e per la Chiesa che vive in questo continente. Davvero benedetti
dal Signore, i giorni che abbiamo trascorso insieme sono stati tempo di una
profonda e indimenticabile esperienza della comunione ecclesiale: vescovi,
sacerdoti, religiosi e religiose riuniti insieme ai fedeli laici - tutti in
attento ascolto di ciò che lo Spirito dice in questo specifico momento storico
alla Chiesa in Asia. Abbiamo avvertito, quasi tangibile, il clima della
Pentecoste, a conferma delle parole di Cristo: "Avrete forza dallo Spirito
Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni [...] fino agli estremi
confini della terra" (At 1, 8). Nell'intenso lavoro di questi giorni ci
siamo sentiti, poi, spiritualmente accompagnati dalle schiere dei santi, dei
martiri e dei confessori asiatici elevati agli onori dell'altare e di tutti quei
"militi ignoti della grande causa di Dio" (Giovanni Paolo II) in Asia,
di cui solo il Padre eterno conosce il nome. E ci è stato d'incoraggiamento
l'esempio luminoso dei grandi missionari che hanno portato l'annuncio di Gesù
Cristo in questa terra sconfinata: san Francesco Saverio, il servo di Dio padre
Matteo Ricci...
Oggi
ci scorrono dinanzi agli occhi le immagini delle toccanti celebrazioni
liturgiche che hanno come scandito il ritmo della nostra riflessione e
riecheggiano dentro di noi le testimonianze ascoltate, i tanti colloqui
personali, le conferenze, gli interventi nelle tavole rotonde. Questo Congresso
ci ha fatto scoprire aspetti insospettati della vita e della missione della
Chiesa in Asia, una pluralità e una ricchezza di contenuti dinanzi alle quali
è inevitabile chiedersi quale sia il denominatore comune delle esperienze
emerse nel corso dei lavori e quale sia stato il filo conduttore di questo
evento. Ebbene, io penso che la risposta sia racchiusa in una sola parola,
"la speranza". Credo che per tutti - Pastori, religiosi e fedeli laici
- questo Congresso sia stato sopra ogni altra cosa una scuola di speranza,
quella speranza di cui parla magistralmente papa Benedetto XVI nell'enciclica
Spe salvi. Viviamo in un mondo che, nonostante i suoi eclatanti e celebrati
progressi scientifici e tecnologici, è permeato da una dolorosa incapacità di
sperare. L'umanità postmoderna, dimentica di Dio e scottata dal fallimento dei
falsi paradisi promessi dalle ideologie di un passato non troppo lontano, dà
segni di smarrimento profondo e non di rado cade vittima di un nichilismo
pratico che svuota di significato la sua stessa esistenza. Perché l'uomo non può
vivere senza speranza! Scrive il Papa: "Chi non conosce Dio, pur potendo
avere molteplici speranze, in fondo è senza speranza, senza la grande speranza
che sorregge tutta la vita (cfr Ef 2, 12). La vera, grande speranza dell'uomo,
che resiste nonostante tutte le delusioni, può essere solo Dio - il Dio che ci
ha amati e ci ama tuttora "sino alla fine", "fino al pieno
compimento" (cfr Gv 13, 1 e 19, 30)".1 Questa speranza che ci viene da
Cristo non è una speranza solo per me, individualistica, ma comunitaria -
spiega il Santo Padre - perché "è legata all'essere nell'unione
esistenziale con un "popolo" e può realizzarsi per ogni singolo solo
all'interno di questo "noi"".2 È questa la speranza che la
Chiesa e ogni singolo cristiano sono chiamati a testimoniare al mondo, rendendo
così un servizio importantissimo all'umanità del nostro tempo. San Pietro
incoraggia così i destinatari della sua Prima lettera e tutti noi: "Se
anche doveste soffrire per la giustizia, beati voi! Non vi sgomentate [...] né
vi turbate, ma adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a
rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi" (1
Pt 3, 13-15). Ecco qual è la grande missione che si profila dinanzi ai
cristiani in Asia: rendere ragione della speranza che è in loro... Ecco qual è
la consegna che Cristo ci dà al termine del nostro Congresso: annunciare la
speranza a questo continente. "La parola e la vita di ciascun cristiano
possono e devono far risuonare questo annuncio: Dio ti ama, Cristo è venuto per
te, per te Cristo è "Via, Verità e Vita!" (Gv 14, 6)",3 ha
scritto il servo di Dio Giovanni Paolo II nella Christifideles laici. E questo
è possibile sempre, anche quando ci è negata la libertà religiosa. Ma,
riprendiamo ora insieme - e proprio alla luce di questa parola: la speranza -
alcune questioni chiave di cui si è trattato nel corso del nostro Congresso.
2.
"La Chiesa deve fare oggi un grande passo in avanti nella sua
evangelizzazione, deve entrare in nuova tappa storica del suo dinamismo
missionario".4 Quest'affermazione della Christifideles laici è tuttora
attualissima, e insostituibile rimane il ruolo che in tale processo hanno i
laici cattolici. Perciò durante il Congresso è risuonato come un leitmotiv
l'invito di Cristo: "Andate anche voi nella mia vigna" (Mt 20, 3-4),
che i fedeli laici - uomini e donne - devono intendere sempre più numerosi come
chiaro richiamo ad assumersi la propria parte di responsabilità nella vita e
nella missione della Chiesa, vale a dire nella vita e nella missione di tutte le
comunità cristiane (diocesi e parrocchie) sparse in questo vasto continente e
delle quali essi sono parte. L'impegno evangelizzatore dei laici sta, di fatto,
già cambiando la vita ecclesiale,5 e questo rappresenta un grande segno di
speranza per la Chiesa in Asia.
La
vastità della messe evangelica dà carattere di urgenza in questo continente al
mandato missionario del Divino Maestro: "Andate in tutto il mondo e
predicate il Vangelo ad ogni creatura" (Mc 16, 15). Ma oggi, purtroppo,
anche fra i cristiani attecchisce e si diffonde una mentalità relativistica che
genera non poca confusione riguardo alla missione. Qualche esempio: la
propensione a rimpiazzare la missione con un dialogo nel quale tutte le
posizioni si equivalgono; la tendenza a ridurre l'evangelizzazione a semplice
opera di promozione umana, nella convinzione che sia sufficiente aiutare gli
uomini a essere più uomini o più fedeli alla propria religione; un falso
concetto del rispetto della libertà dell'altro che fa rinunciare a ogni
richiamo alla necessità di conversione. A questi e altri errori dottrinali
hanno risposto prima l'enciclica Redemptoris missio e poi la dichiarazione
Dominus Jesus e la Nota dottrinale su alcuni aspetti dell'evangelizzazione della
Congregazione per la Dottrina della Fede - tutti documenti che meritano di
essere fatti oggetto di studio approfondito. Esplicito mandato del Signore,
l'evangelizzazione non è attività accessoria, bensì stessa ragion d'essere
della Chiesa sacramento di salvezza.
L'evangelizzazione,
asserisce la Redemptoris missio, è una questione di fede, "è l'indice
esatto della nostra fede in Cristo e del suo amore per noi".6 Come dice
Paolo, "l'amore di Cristo ci spinge" (2 Cor 5, 14). Perciò non è
fuori luogo ribadire che "non vi può essere vera evangelizzazione senza
esplicita proclamazione che Gesùè il Signore"7 mediante la parola e la
testimonianza di vita, poiché "l'uomo contemporaneo crede più ai
testimoni che ai maestri, più all'esperienza che alla dottrina, più alla vita
e ai fatti che alle teorie".8 Inoltre - e cito ancora la Redemptoris missio
- "la Chiesa non vede un contrasto fra l'annuncio del Cristo e il dialogo
inter-religioso; sente, però, la necessità di comporli nell'ambito della sua
missione ad gentes. Occorre, infatti, che questi due elementi mantengano il loro
legame intimo e, al tempo stesso, la loro distinzione, per cui non vanno né
confusi, né strumentalizzati, né giudicati equivalenti come se fossero
intercambiabili".9
3.
A guida del nostro impegno missionario sarà grandemente utile porre le tre
fondamentali leggi dell'evangelizzazione enunciate dal futuro Benedetto XVI in
una conferenza pronunciata nell'anno 2000 e che qui vale la pena ricordare. La
prima è quella che l'allora cardinale Joseph Ratzinger chiamava legge di
espropriazione. Noi cristiani non siamo padroni, ma umili servi della grande
causa di Dio nel mondo. Scrive san Paolo: "Noi infatti non predichiamo noi
stessi, ma Cristo Gesù Signore; quanto a noi, siamo i vostri servitori per
amore di Gesù" (2 Cor 4, 5). Perciò il cardinale Ratzinger sottolineava
con forza che "evangelizzare non è semplicemente una forma di parlare, ma
una forma di vivere: vivere nell'ascolto e farsi voce del Padre. "Non
parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito" dice il Signore sullo
Spirito Santo (Gv 16 ,13) [...] Il Signore e lo Spirito costruiscono la Chiesa,
si comunicano nella Chiesa. L'annuncio di Cristo, l'annuncio del Regno di Dio
suppone l'ascolto della sua voce nella voce della Chiesa. "Non parlare nel
nome proprio" significa: parlare nella missione della Chiesa".10
L'evangelizzazione non è dunque mai un affare privato, perché dietro c'è
sempre Dio e c'è la Chiesa. Diceva Joseph Ratzinger: "Non possiamo
guadagnare noi gli uomini. Dobbiamo ottenerli da Dio per Dio. Tutti i metodi
sono vuoti senza il fondamento della preghiera. La parola dell'annuncio deve
sempre bagnare in una intensa vita di preghiera".11 Questa certezza è per
noi di grande sostegno e ci dà la forza e il coraggio necessari per raccogliere
le sfide che il mondo lancia alla missione della Chiesa.
La
seconda legge dell'evangelizzazione è quella che affiora dalla parabola del
granellino di senapa, "il più piccolo di tutti i semi che sono sulla
terra; ma [che] appena seminato cresce e diviene più grande di tutti gli
ortaggi" (Mc 4, 31-32). "Le realtà grandi cominciano in umiltà",12
sottolineava l'allora cardinale Ratzinger. Anzi, Dio ha una predilezione
particolare per il piccolo: il "piccolo resto d'Israele", portatore di
speranza per tutto il popolo eletto; il "piccolo gregge" dei discepoli
che il Signore esorta a non aver paura perché proprio a esso il Padre ha voluto
dare in dono il suo Regno (cfr Lc 12, 32). La parabola del granellino di senapa
dice che chi annuncia il Vangelo dev'essere umile, non deve pretendere di
ottenere risultati immediati - né qualitativi né quantitativi. Perché la
legge dei grandi numeri non è la legge della Chiesa. E perché il padrone della
messe è Dio ed è lui a decidere dei ritmi, dei tempi e delle modalità di
crescita della semina. Questa legge dunque ci tutela dal farci prendere dallo
scoraggiamento nel nostro impegno missionario, pur senza esimerci dal mettercela
tutta perché, come ci ricorda l'Apostolo delle genti, "chi semina
scarsamente, scarsamente raccoglie e chi semina con larghezza, con larghezza
raccoglierà" (2 Cor 9, 6).
La
terza legge dell'evangelizzazione è, infine, la legge del chicco di grano che
muore per portare frutto (cfr Gv 12, 24). Nell'evangelizzazione è sempre
presente la logica della Croce. Diceva il cardinale Ratzinger: "Gesù non
ha redento il mondo con belle parole, ma con la sua sofferenza e la sua morte.
Questa sua passione è la fonte inesauribile di vita per il mondo; la passione dà
forza alla sua parola".13 Di qui il peso che nell'opera di evangelizzazione
ha la testimonianza dei martiri della fede. Scrive a ragione Tertulliano:
"Più numerosi diventiamo, ogni volta che [...] siamo mietuti: è semenza
il sangue dei cristiani",14 frase più conosciuta nella versione: "Il
sangue dei martiri è seme dei confessori". La testimonianza della fede
sigillata con il sangue dei suoi tanti martiri è il grande patrimonio
spirituale della Chiesa in Asia e un luminoso segno di speranza per il suo
avvenire. Con l'apostolo Paolo i cristiani d'Asia possono dire: "Siamo
[...] tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non
disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi, portando
sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di
Gesù si manifesti nel nostro corpo" (2Cor 4, 8-10).
4.
Per la missione evangelizzatrice della Chiesa è di capitale importanza la
giusta impostazione del rapporto tra fede e cultura. E ciò vale specialmente
per l'Asia, culla di culture e religioni millenarie. Lo hanno compreso molto
bene grandi figure di missionari, quali il gesuita Matteo Ricci, la cui opera
papa Benedetto XVI ha definito "un caso singolare di felice sintesi fra
l'annuncio del Vangelo e il dialogo con la cultura del popolo a cui lo si porta,
un esempio di equilibrio tra chiarezza dottrinale e prudente azione
pastorale".15 Vastissimo e delicato il campo che si apre qui alla missione
dei laici e che richiede una solida e approfondita preparazione teologica.
L'inculturazione dell'annuncio cristiano è questione assai complessa, di forte
valenza dottrinale, e non riconducibile alla mera logica dell'efficienza. Ne
hanno trattato con somma chiarezza gli ultimi Pontefici. "Occorre
evangelizzare - non in maniera decorativa, a somiglianza di vernice
superficiale, ma in modo vitale, in profondità e fino alle radici - la cultura
e le culture dell'uomo",16 scriveva Paolo VI nella storica esortazione
apostolica Evangelii nuntiandi. Poiché, egli aggiungeva, "la rottura tra
Vangelo e cultura è senza dubbio il dramma della nostra epoca, come lo fu anche
di altre".17 Pure il venerabile servo di Dio Giovanni Paolo II ha dedicato
grande attenzione alla questione, a proposito della quale ha affermato tra
l'altro che "se [...] è vero che la fede non si identifica con nessuna
cultura ed è indipendente rispetto a tutte le culture, non è meno vero che,
proprio per questo, la fede è chiamata ad ispirare, ad impregnare ogni cultura.
È tutto l'uomo, nella concretezza della sua esistenza quotidiana, che è
salvato da Cristo ed è, perciò, tutto l'uomo che deve realizzarsi in Cristo.
Una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non
interamente pensata, non fedelmente vissuta".18 E nella Redemptoris missio,
un testo fondamentale per questo tema, sulla scia della Evangelii nuntiandi egli
ha definito l'inculturazione come "l'intima trasformazione degli autentici
valori culturali mediante l'integrazione nel cristianesimo e il radicamento del
cristianesimo nelle varie culture".19 Pertanto, aggiungeva, si tratta di
"un processo profondo e globale che investe sia il messaggio cristiano, sia
la riflessione e la prassi della Chiesa. Ma è pure un processo difficile, perché
non deve in alcun modo compromettere la specificità e l'integrità della fede
cattolica".20 Sempre, infatti, è in agguato il rischio di sincretismo e di
un pericoloso irenismo, come osserva la Commissione Teologica Internazionale nel
documento Fede e inculturazione, dove si legge: "Per quanto grande [...]
debba essere il rispetto per ciò che è vero e santo nell'eredità culturale di
un popolo, un tale atteggiamento non richiede però di attribuire un carattere
assoluto a quella eredità culturale. Nessuno può dimenticare che, sin dalle
origini, il Vangelo è stato "scandalo per i giudei e stoltezza per i
pagani"".21
Anche
Joseph Ratzinger, da prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, ha
dedicato pagine memorabili alla questione dell'inculturazione. In una conferenza
tenuta a Hong Kong proprio ai vescovi della Federazione delle Conferenze
Episcopali Asiatiche (FABC) egli ebbe a dire che "non dovremmo più parlare
propriamente di inculturazione, ma di incontro delle culture o [...] di
inter-culturalità. Infatti, l'inculturazione presuppone che una fede, per così
dire, culturalmente spoglia si trasponga in una cultura religiosamente
indifferente [...] Ora, questa rappresentazione è artificiosa e irreale, perché
non esiste una fede priva di cultura e, al di fuori della moderna civiltà
tecnica, non esiste una cultura priva di religione".22 Spiegava poi che
"come prima cosa dobbiamo affermare che la fede stessa è cultura. Essa non
esiste nuda, come mera religione. Già per il fatto che dice all'uomo chi egli
sia e come debba attuare il suo essere-uomo, la fede crea cultura, è cultura
[...] Di conseguenza sarebbe assurdo offrire un cristianesimo per così dire
"pre-culturale" e "deculturalizzato", che sarebbe destituito
della forza storica che gli è propria e degradato a vuoto insieme di
idee".23 Egli traeva quindi la conclusione importante che "chi entra
nella Chiesa deve avere coscienza di entrare in un vero e proprio soggetto
culturale, con una propria interculturalità storicamente sviluppatasi e
stratificatasi. Senza una sorta di esodo, senza una svolta radicale della vita a
tutti i livelli - terminava - non si può diventare cristiani".24
Quest'ultima affermazione è rilevante e ci ricorda che l'"essere
cristiano", che nasce dall'incontro personale con Cristo, va sempre di pari
passo con lo stupore profondo per la sorprendente novità di vita che nel
Battesimo il Maestro dona ai suoi discepoli. Nella vita di fede del cristiano -
come nella vita di Abramo, nostro "padre nella fede" - tutto inizia da
un esodo: "Esci dalla tua terra e va...". Perciò, quando si parla di
inculturazione del Vangelo non si deve mai dimenticare che la fede non si
identifica con nessuna cultura, ma è capace d'impregnare ogni cultura.
5.
Centrale nei lavori del Congresso è stata pure la questione della formazione di
un laicato maturo, consapevole della propria vocazione e missione nella Chiesa e
nel mondo. I Padri del Sinodo sui laici hanno raccomandato che "la
formazione dei fedeli laici [venga] posta tra le priorità della diocesi e [...]
collocata nei programmi di azione pastorale in modo che tutti gli sforzi della
comunità (sacerdoti, laici e religiosi) convergano a questo fine".25 La
formazione è, infatti, un dovere e al tempo stesso un diritto dei fedeli
laici,26 e ha lo scopo di condurli alla costante verifica del proprio impegno
cristiano, all'attiva partecipazione alla vita ecclesiale e al continuo
approfondimento della loro corresponsabilità per la missione della Chiesa nel
mondo. I Pastori devono perciò sentirsi interpellati a promuovere questo
processo in seno alle parrocchie, affidando ai fedeli laici i compiti, servizi e
uffici che gli competono in quanto battezzati e puntando a valorizzare sempre più
la presenza e il contributo delle donne, conformemente a quanto afferma la
Christifideles laici sulla necessità "di passare dal riconoscimento
teorico della presenza attiva e responsabile della donna nella Chiesa alla
realizzazione pratica".27 Nell'ambito di questa collaborazione dei laici
occorre tuttavia tener ben presente l'Istruzione interdicasteriale che richiama
a una "particolare diligenza perché siano ben salvaguardate, sia la natura
e la missione del sacro ministero, sia la vocazione e l'indole secolare dei
fedeli laici. [Perché] collaborare non significa [...] sostituire".28 Ed
è pure da contrastare una "mentalità clericale" che rischia talvolta
di rendere i sacerdoti incapaci di instaurare rapporti di vera collaborazione
con i laici. Néè meno importante scongiurare un ripiegamento del laicato
cattolico all'interno delle comunità cristiane. Secondo le possibilità
garantite dalle leggi civili dei rispettivi Paesi, i fedeli laici - in virtù
della loro indole secolare - sono infatti chiamati a dare il proprio contributo
alla vita della società, guidati dai principi della dottrina sociale della
Chiesa, felicemente sintetizzati nel noto Compendio,29 e che sono parte
integrante del processo di evangelizzazione.30 La formazione, quindi, riguarda
tutti: laici e sacerdoti. Sarebbe perciò auspicabile che ogni nuova generazione
di sacerdoti e di laici prendesse in mano i documenti conciliari che li
riguardano, e i fedeli laici soprattutto l'esortazione apostolica Christifideles
laici, che rimane la loro vera magna charta.
Luogo
primario della formazione dei fedeli laici sono le parrocchie: vere palestre di
vita cristiana, importanti punti di riferimento, scuole di comunione e di
testimonianza della fede. In esse la Chiesa s'incarna come significativo fatto
sociale. Dinanzi alle sfide che il mondo lancia alla Chiesa, anche in Asia la
parrocchia deve essere oggi sostenuta e aiutata nella sua missione di educare
alla fede da piccole comunità, quali ad esempio le apprezzate "comunità
di base". Ma non solo. Vorrei qui fare riferimento alla nuova e rigogliosa
stagione aggregativa dei fedeli laici che nel nostro tempo è motivo di grandi
speranze per la Chiesa.31 Scriveva Giovanni Paolo II nella Redemptoris missio:
"Ricordo, quale novità emersa in non poche Chiese nei tempi recenti, il
grande sviluppo dei "Movimenti ecclesiali", dotati di dinamismo
missionario. Quando si inseriscono con umiltà nella vita delle Chiese locali e
sono accolti cordialmente da Vescovi e sacerdoti nelle strutture diocesane e
parrocchiali, i Movimenti rappresentano un vero dono di Dio per la nuova
evangelizzazione e per l'attività missionaria propriamente detta. Raccomando,
quindi - aggiungeva il venerabile Servo di Dio -, di diffonderli e di
avvalersene per ridare vigore, soprattutto tra i giovani, alla vita cristiana e
all'evangelizzazione, in una visione pluralistica dei modi di associarsi e di
esprimersi".32 Quante persone, adulte e giovani, grazie a questi nuovi
carismi elargiti generosamente dallo Spirito Santo alla Chiesa, hanno scoperto
la bellezza di essere cristiani! Quanti battezzati hanno ritrovato slancio e
coraggio missionario! Papa Benedetto XVI ravvisa in queste realtà aggregative
le sempre nuove irruzioni dello Spirito nella vita della Chiesa e incoraggia i
Pastori ad aprirsi sempre più a questo grande dono: "Dopo il Concilio -
egli ha dichiarato - lo Spirito Santo ci ha donato i "movimenti" [...]
luoghi di fede in cui i giovani e gli adulti sperimentano un modello di vita
nella fede come opportunità per la vita di oggi. Per questo vi chiedo di andare
incontro ai movimenti con molto amore. Qua e là devono essere corretti,
inseriti nell'insieme della parrocchia o della diocesi. Dobbiamo però
rispettare lo specifico carattere dei loro carismi ed essere lieti che nascano
forme di fede in cui la parola di Dio diventa vita".33 Grazie perciò, di
cuore, ai rappresentanti dei movimenti ecclesiali e delle nuove comunità che
operano in questo continente. Grazie per la preziosa testimonianza che hanno
portato al nostro Congresso e grazie per tutto quanto fanno al servizio della
Chiesa che vive in Asia. Una Chiesa che non potrà trarre che beneficio dalla
valorizzazione dei nuovi carismi, da una sempre maggiore apertura nella carità
pastorale a questo dono dello Spirito Santo, che è prezioso segno della
speranza che non delude.
La
prospettiva ultima di ogni processo di formazione autenticamente cristiano è la
santità. È importante parlarne a conclusione di questo Congresso che ha visto
la partecipazione di una significativa rappresentanza del laicato cattolico
asiatico. Come dicevo all'inizio, in questi giorni ci siamo sentiti sostenuti
dai santi, dai martiri e dai confessori della fede dell'Asia. E ne abbiamo
avvertito fortemente la vicinanza spirituale soprattutto durante la celebrazione
della memoria dei Martiri coreani nel bellissimo Santuario a loro dedicato. I
santi sono grandi maestri di vita cristiana. Ci parlano della centralità di Dio
- il Dio che si è rivelato nel volto di Gesù Cristo - nella vita dell'uomo. Ci
infondono il coraggio di scommettere tutta la nostra vita su Dio e col loro
esempio ci confermano che vale la pena, che dà felicità. E così ci sfidano ad
uscire dalla gabbia delle nostre sicurezze, da una mediocrità che ci rende
accomodanti con lo spirito di questo mondo, inclini ai compromessi con la
cultura laicista che oggi domina la scena anche qui in Asia, insignificanti e
invisibili. I santi ci ricordano che il sale deve dare sapore e la lucerna,
diffondere luce. Che la sequela del Maestro comporta scelte radicali, significa
andare controcorrente, essere "segno di contraddizione" là dove ci
chiama il Signore. Non ultimo, i santi - e soprattutto i martiri - sono
straordinari costruttori di unità. Giovanni Paolo II parlava
dell'"ecumenismo dei martiri": cattolici, protestanti, ortodossi uniti
al di là delle confessioni dallo stesso amore a Cristo: "Amor Dei usque ad
contemptum sui" (l'amore di Dio fino al disprezzo di sé), come ha scritto
sant'Agostino nella Città di Dio. Porgiamo orecchio alla voce dei santi,
lasciamoci convincere che la santità non è un'utopia, ma l'affascinante
traguardo che Cristo prospetta a tutti i battezzati. Ecco, un altro motivo di
speranza che ci viene da questo Congresso.
6.
La portata dei compiti che la Chiesa deve affrontare in Asia all'inizio del
terzo millennio dell'era cristiana ci fa sentire inadeguati e impotenti. La
grande causa di Dio e del Vangelo nel mondo è costantemente ostacolata e
contrastata da forze ostili di vario segno. Ma a rincuorarci sono ancora le
parole di speranza di Benedetto XVI. Diceva in una omelia sui "fallimenti
di Dio", tenuta ai vescovi svizzeri in visita ad limina: "Inizialmente
Dio fallisce sempre, lascia esistere la libertà dell'uomo, e questa dice
continuamente "no". Ma la fantasia di Dio, la forza creatrice del suo
amore è più grande del "no" umano [...] Che cosa tutto ciò
significa per noi? Innanzitutto significa una certezza: Dio non fallisce.
"Fallisce" continuamente, ma proprio per questo non fallisce, perché
ne trae nuove opportunità di misericordia più grande, e la sua fantasia è
inesauribile. Non fallisce perché trova sempre nuovi modi per raggiungere gli
uomini e per aprire di più la sua grande casa".34 Ecco perché la speranza
non deve abbandonarci mai. Il Successore di Pietro ci assicura che Dio
"anche oggi troverà nuove vie per chiamare gli uomini e vuole avere con sé
noi come suoi messaggeri e servitori".35
Carissimi
fratelli e sorelle, concludo facendo mia per voi l'esortazione dell'Apostolo
delle genti: "Camminate dunque nel Signore Gesù Cristo, come l'avete
ricevuto, ben radicati e fondati in lui, saldi nella fede come vi è stato
insegnato" (Col 2, 6).
*
Presidente del Pontificio Consiglio per i laici
1
Benedetto XVI, Lettera enciclica Spe salvi, n. 27.
2
Ibidem, n. 14.
3
Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica Christifideles laici, n. 34.
4
Ibidem, n. 35.
5
Cfr. Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Redemptoris missio, n. 2.
6
Ibidem, n.11.
7
Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica Ecclesia in Asia, n. 19.
8
Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Redemptoris missio", n. 42.
9
Ibidem, n. 55.
10
J. Ratzinger, La nuova evangelizzazione, "L'Osservatore Romano", 11-12
dicembre 2000, p. 11.
11
Ibidem.
12
Ibidem.
13
Ibidem.
14
Tertulliano. Liber apologeticus 50, 13.
15
Benedetto XVI, Discorso durante l'udienza alle diocesi marchigiane per il quarto
centenario della morte di Matteo Ricci, "L'Osservatore Romano", 30
maggio 2010, p. 8.
16
Paolo VI, Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, n. 20.
17
Ibidem.
18
Giovanni Paolo II, Ai partecipanti al Congresso nazionale del Movimento
Ecclesiale di Impegno Culturale, "Insegnamenti" V, 1 (1982), p. 131.
19
Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Redemptoris missio, n. 52.
20
Ibidem.
21
Commissione Teologica Internazionale, Documenti 1969-2004, Edizioni Studio
Domenicano 2006, p. 373.
22
J. Ratzinger, Fede, verità, tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del
mondo, Cantagalli 2003, p. 66.
23
Ibidem, pp. 70 e 72.
24
Ibidem, p. 73.
25
Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica Christifideles laici, n. 57.
26
Cfr. Ibidem, n. 63.
27
Ibidem, n. 51.
28
Istruzione su alcune questioni circa la collaborazione dei fedeli laici al
ministero dei sacerdoti, Libreria Editrice Vaticana 1997, p. 7.
29
Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della Dottrina
sociale della Chiesa, Libreria Editrice Vaticana 2004.
30
Cfr. Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Centesimus annus, n. 5.
31
Cfr. Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica Christifideles laici, n. 29.
32
Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Redemptoris missio, n.72.
33
Benedetto XVI, Discorso ai presuli della Conferenza episcopale della Repubblica
Federale di Germania in visita "ad limina", "Insegnamenti"
II, 2 (2006), p. 637.
34
Benedetto XVI, Omelia durante la concelebrazione eucaristica con i vescovi della
Svizzera, "Insegnamenti" II, 2 (2006), pp. 570 e 573.
35
Ibidem.
Tra elezioni e partizioni
di Nicola Sessa
PeaceReporter
- 26 agosto 2010
Preoccupazioni
in vista delle elezioni parlamentari. Nelle urne ci sarà anche il futuro della
coalizione in Afghanistan
Il
18 settembre gli afgani sceglieranno i 249 rappresentanti da mandare in
Parlamento. Come sostengono dagli uffici della Commissione indipendente
elettorale (Iec), tutto è pronto e anche le schede di voto sono state già
consegnate. Ma tutto dipenderà, ovviamente, dalla sicurezza. Rimane costante
l'incognita di quanti tra i 17 milioni e mezzo di aventi diritto riusciranno ad
esprimere le loro preferenze e quanti altri dei 2500 candidati verranno indotti
a ritirarsi dalla corsa, rapiti o uccisi (tre, nelle ultime settimane).
L'aumento delle truppe Nato e il costante addestramento dell'esercito afgano non
hanno fermato l'escalation di violenza e di attacchi da parte dei talebani, che
anzi aumentano in misura proporzionale. Il presidente Hamid Karzai - non si sa
quanto creda veramente alle sue stesse parole - è, invece, molto fiducioso: sarà
l'occasione per dimostrare - dice - i progressi di esercito e polizia afgana in
fatto di sicurezza e controllo del territorio. I numeri presentati dalla Iec di
Kabul sembrano però fiaccare i proclami di Karzai. Difatti, secondo la
Commissione 938 seggi elettorali sui 6853 inizialmente previsti rimarranno
chiusi proprio perché nessuno è in grado di garantire che le operazioni
possano svolgersi in sicurezza, scongiurando atti intimidatori o di violenza.
Quasi tutte le stazioni elettorali in questione si trovano nella parte
meridionale del paese, posta sotto il saldo controllo talebano. Il risultato è
che anche queste elezioni (come quelle presidenziali dell'anno scorso) rischiano
di rivelarsi una farsa, dal momento che in metà dell'Afghanistan o non si voterà
affatto o lo si farà tra infinite difficoltà.
La
netta spaccatura dell'Afghanistan, che vede un'ostinata resistenza nel sud a
maggioranza pashtun e una più accomodante posizione nei confronti degli
Usa&Co nel nord hazara-tagiko-uzbeko, rappresenta un incontrovertibile dato
di fatto che sta spingendo think tanker ed esperti di diplomazia ad elaborare
soluzioni alternative alla strategia della Counter insurgency (Coin) cavalcata
dalla Casa Bianca che mira alla "conquista delle menti e dei cuori"
della popolazione afgana strappandoli all'influenza talebana.
In
un recente articolo sul Politico, Robert Blackwill - già ambasciatore Usa in
India e consigliere delle amministrazioni Bush padre e Bush figlio - ha
affermato che le scelte operate dalla Casa Bianca sono destinate a fallire e il
motivo fondamentale è la programmazione a lungo termine che richiede
l'attuazione della Coin in contrasto con il disimpegno della missione annunciata
per luglio del 2011. Secondo il navigato diplomatico statunitense, Washington ha
una sola alternativa: procedere alla partizione territoriale dell'Afghanistan,
cedendo il sud pashtun ai talebani e mantenendo il controllo sulla parte
settentrionale e occidentale del paese - che, per inciso, sono le zone in cui
recenti indagini esplorative hanno rilevato ingenti giacimenti di gas, petrolio
e litio. Le teorie di Blackwill hanno trovato facile sponda anche nella stampa
europea sulle cui pagine editorialisti ed esperti si sono profusi in commenti
accordanti. Una prassi, quella della divisione su base etnica, che per la
diplomazia Usa è sempre a portata di mano quando la situazione diventa troppo
ingarbugliata (si veda da ultimo la Bosnia Erzegovina disegnata dopo la guerra
del 1992 - 1995 da Richiard Holbrooke, oggi inviato speciale di Washington per
Afghanistan e Pakistan).
Sul
Financial Times, però, Ahmed Rashid, il giornalista pakistano che è
sicuramente tra i più profondi conoscitori di quell'angolo di mondo, ha
lanciato il suo monito bocciando questa sbrigativa soluzione: l'Afghanistan è
una nazione dal 1761 e benché vi siano grandissime differenze al suo interno,
il popolo afgano ha sempre combattuto per tenere il paese insieme. Rashid senza
risalire alla controversa Linea Durand del 1893, ricorda in poche righe i
falliti tentativi di dividere il popolo afgano: nel 1989 il generale uzbeko
Dostum rimise al mittente sovietico la proposta di creare uno stato cuscinetto
per proteggere l'Urss dai mujahedeen, così come il tagiko Ahmed Massud - il
leone del Panshir - si rifiutò di cedere alle avances per la costituzione di un
Grande Tajikistan e ancora il buco nell'acqua di Teheran che cercò di portare
dalla sua parte gli sciiti e gli hazara dell'Afghanistan.
Le
elezioni parlamentari non terranno sulle spine solo gli uomini di Kabul: anche
la poltrona di pelle nello Studio Ovale risulterà scomoda e traballante. Quello
che conterà non sarà l'esito politico del voto (che in fin dei conti non
importa poi tanto), quanto la riuscita formale delle operazioni. La exit
strategy di Washington passa anche dalle urne afgane e l'opinione pubblica
statunitense, sempre più stanca del conflitto e sempre più convinta che la
guerra sia persa, seguirà da vicino ciò che accadrà tanto lontano da casa.
Gioventù d'Albania il sogno infranto del mito Occidente
di Giovanni Ruggiero
Avvenire
- 5 settembre 2010
Nei
villaggi di montagna i ragazzi vivono ancora come vent'anni fa ma sono tentati
dal peggio del mondo "ricco": droga e prostituzione. Ma un piccolo
gruppo di sacerdoti e religiose, attraverso la scuola, cerca di preparare loro
un futuro
Non
ci sono soltanto i ragazzi di Tirana, quelli che vestono alla moda, che hanno
visto l'Occidente e lo stanno imitando, e che la sera rendono allegro e vivace
quel block protetto una volta da cavalli di frisia a cui nessun albanese poteva
avvicinarsi. Non ci sono soltanto le ragazze di Tirana che osano con i vestiti
come si vedono solo in televisione e che il chador, che qualcuno sta proponendo,
non metterebbero mai. Ci sono anche i ragazzi di quelle città dove l'Occidente
non si è ancora mostrato così rutilante e smargiasso. Qui i giovani albanesi
sono rimasti più o meno com'erano venti anni fa, ma tentati dal peggio che
l'Occidente poteva portare: la droga e la prostituzione, mentre la scuola è a
molti negata.
A Elbasan, nelle belle montagne nel cuore dell'Albania, a Berat più a Sud e al Nord, dove il Paese mostra i monti più alti, da una decina d'anni operano sacerdoti e suore che se le sono inventate tutte per alleviare questo malessere. Ne sanno qualcosa, ad esempio, i sacerdoti del Don Orione di Elbasan. Raccolgono nella loro struttura i ragazzi di tutti i paesini delle montagne e della città, più di duecento, dai 6 ai 18 anni. Don Emilio Valente è uno di loro. Fa un elenco ed è triste, come il catalogo che va enunciando: "Abbandono scolastico, disoccupazione e fosse soltanto questo!". Alle autorità hanno presentato un documento sofferto. Inascoltati. "Abbiamo voluto denunciare - dice - la mancanza di identità, di appartenenza e anche di legami con la propria storia. I giovani sono come sradicati e ancora poco è stato costruito".
Questo malessere sfocia dove si può immaginare: la droga e la
prostituzione come uniche alternative. Da un po' di anni, in tutta l'Albania,
cresce il consumo interno di marijuana e di "hashash" (lo chiamano così),
e in queste belle montagne, nei posti più inaccessibili, ad esempio intorno a
Gurizi, le coltivazioni di erba sono destinate al consumo interno. Ci vuole
l'elicottero per scoprirle, e qualche volte la polizia ci riesce. Nessuno però
finisce in galera, perché l'erba è coltivata su terreni demaniali. Elbasan è
tutto un fiorire di casinò e di bingo e i più giovani rubano per poter
scommettere. Sono "rugash", ragazzi di strada, e il termine raramente
ha un'accezione bonaria.
"Lavoriamo
sui singoli - dice don Valente - e anche il recupero di un solo ragazzo è un
successo". Sta pensando a Genij che è arrivato ai suoi 18 anni facendo a
pugni con tutti e che adesso ha ripreso la scuola e, dopo il cammino
catecumenale, vuole farsi battezzare.
Molti
giovani albanesi, vissuti in famiglie tradizionalmente musulmane, hanno espresso
lo stesso desiderio. A Berat, un centinaio di chilometri più a sud, incontriamo
diversi ragazzi giovanissimi che hanno già ricevuto il battesimo o lo
riceveranno fra poco. Fanno parte della comunità che orbita attorno al Centro
S. Lucia Filippini con la scuola "Ylli i Mengjezit", la Stella del
Mattino, frequentata da circa duecento bambini, tra materne ed elementari. È
gratis per tutti. Soltanto le famiglie che possono offrono 1.500 lek al mese,
meno di dieci euro. Per gli altri, le religiose, guidate da suor Maria Bortone,
hanno tessuto una rete di adozioni a distanza. La struttura è un porto sicuro,
al riparo dei pericoli della droga e della prostituzione.
Le
ragazzine le troviamo intente a piccoli lavori di cucito; ognuna di loro conosce
almeno una persona che a 15 anni già fuma "hashash" o si ubriaca con
il "raki". "Un'altra droga - dice suor Rita Baffa - è internet.
Le loro case sono povere, ma internet non manca. Chi non ce l'ha, passa le
giornate negli "internet point" della città. E Facebook non è un
vero incontro".
Adesso
che non c'è scuola, questa piccola oasi ai piedi del monte Tomor, ospita gruppi
di scouts che vengono dall'Italia e con i sacchi a pelo hanno invaso le canonica
di don Giovanni Vaccari. "Il giorno che saranno liberalizzati i visti -
dice - Berat sarà senza gioventù". È lui che porta per mano i giovani
nel catecumenato. "Ognuno - spiega - arriva alla fede per proprie strade.
In tutti c'è forse questo desiderio di riempire un vuoto che sentono dentro e
al quale non sanno dare un nome".
Il
vuoto è fatto di tante cose desiderate. Il lavoro ad esempio, nonostante le
ottimistiche statistiche governative e la difficoltà a procurarsene uno. Da
diversi anni a Elbasan le Suore della Carità di Santa Giovanna Antida formano
infermieri per l'Albania. Da quando poi la scuola "Elena Gjika" è
stata riconosciuta come facoltà di infermieristica, con il titolo di studio
conseguito, gli infermieri di Elbasan possono sperare anche a un impiego nella
Ue. I novanta studenti dei tre corsi, ragazze in gran parte, sono in vacanza, e
l'istituto è vuoto. Suor Alessandra, suor Rita e suor Shalom si sono fatte
un'idea precisa e sanno che la scuola, oltre a rappresentare un'occasione di
lavoro, è un modo per riempire questo vuoto: "Forse - dicono riferendosi
alla generazione cresciuta negli anni della rinata democrazia e dell'ubriacatura
occidentale - nemmeno loro sanno cosa vogliono. Molti vivono di apparenze, sono
preoccupati della loro immagine esteriore, per cui è anche difficile capire
cosa li angustia dentro". Suor Shalom, torinese, la più giovane, precisa:
"Hanno però chiaro un obiettivo. Fare soldi, apparire e diventare
famosi". Come mostra la tv. Sono decenni che la televisione determina la
vita e scandisce ancora i passi e le illusioni di ogni giovane albanese.
La
storia - "Mi sono convertita di nascosto da papà"
Può
una conversione avere una data precisa? Miranda Mulgeci è convinta di sì,
almeno per quanto riguarda la sua. "Potrei risalire anche all'ora esatta -
ricorda -. Avevo nove anni e la televisione italiana trasmetteva una Messa
celebrata da Giovanni Paolo II. Era il 1991. Ho nelle orecchie la musica dolce
che mi trasportava non so dove, in luogo delizioso, e ricordo solo tre parole:
Dio, Gesù e amore. Vidi per la prima volta il volto di Cristo, ed era bello. Me
ne innamorai ". Miranda oggi ha 29 anni, vive ancora in una famiglia di
religione musulmana ed è cresciuta in un paese bellissimo delle montagne,
Tropoje, dove i cattolici sono sì o no quattrocento su diecimila abitanti. Sono
visti come ignoranti e persone sporche. Immaginate dunque cosa può essere
successo quando i suoi hanno capito che voleva farsi battezzare. Anni di
divieti, di rimproveri e i suoi Vangeli strappati, perché lei non fosse di
tutti la pecora nera. A 16 anni le regalano un Vangelo, ma deve leggerlo di
nascosto. Se suo padre le strappasse anche questa copia, lei potrebbe citarne
passi a memoria. In segreto, inizia il percorso di catecumenato, confidando la
verità (ma non tutta) soltanto a nonna Shkurt, l'unica che possa affrontare il
figlio e dirgli: "Lasciala credere in ciò che vuole. L'importante è
credere". Miranda Mulgeci intanto si è laureata in filosofia a Tirana e
per l'Avsi dirige un corso di formazione per insegnanti ed educatori. Inizia il
cammino di conversione con alcuni amici di Comunione e Liberazione, ma solo
quattro anni fa è riuscita ad entrare in una chiesa. Non qui, ma dove i suoi
non potessero vederla. A Bucarest nel 2006: "Fu una emozione uguale a
quella di quando ero bambina - racconta Miranda -. Ho pianto senza sapere perché.
Mi sembrava che i polmoni fossero grandi così ", e spalanca le braccia per
rendere l'idea.
Adesso
aspetta il battesimo. A nonna Shkurt lo ha fatto capire. L'anno scorso finì per
un infarto in ospedale, e Miranda corse ad abbracciarla. "Piccola mia - le
disse la nonna - perché non diciamo insieme una di quelle tue preghiere?".
"Allora - disse Miranda - cominciamo con il segno della Croce ".
Glielo insegnò, e recitarono insieme il Pater. "Mi battezzerò
presto", annuncia Miranda, ed è felice. Lo saprà anche suo padre.
"Mio padre è sempre mio padre", dice e lascia intendere che si
aspetta un gesto da lui. Forse la sua benedizione. Chissà come. Chissà quando.
Cartoline dall'Algeria - 30 di p Silvano Zoccarato
Touggourt - settembre 2010
Messaggio
dei vescovi francesi ai cristiani d’Oriente
“Lo sappiamo, la maggior parte di voi è tra i nostri fratelli cristiani del mondo che soffrono più di noi a causa della loro fede. State vivendo troppo spesso paura, umiliazioni, violenze. Alcuni di voi hanno pagato con la vita il loro amore per Cristo. Non dimentichiamo la parola dell’apostolo Paolo: - Quando un membro soffre, tutti condividono la sofferenza - ( 1 Co 12, 26 ).
Ringraziamo Dio per il vostro coraggio nella fede. Vi diciamo il nostro affetto fraterno e la certezza che continueremo a sostenervi attraverso i diversi organismi di solidarietà.
E preghiamo perché in tutte le nazioni siano rispettate la libertà di coscienza e la libertà religiosa.
Con tutto il cuore… con voi tutti.”
A volte mi giungono notizie dirette da amici che mi dicono che non ce la fanno più. L’unica speranza è quella di poter fuggire.
Intensifichiamo la nostra preghiera. Possiamo, o meglio… Dio… può fare qualcosa.
Con
Maria
Mi piace questo inno che traduco dal breviario francese. Mi parla di attesa, di offerta, di silenzio, di gioia, di dolcezza.
E’ anche la Chiesa…, il cristiano, ovunque è presente!
Aurora prima del giorno
Madre vergine
Donna promessa all’inizio dei tempi
Casa sui voleri di Dio
Non paura… o rifiuto
All’opera della grazia
Il cuore pieno d’attesa
Offerta a Dio di silenzio
Dove abita la parola
Sotto lo sguardo che le risponde
I nuovi tempi gioiscono in lei
Arrivo misterioso del regno nascente
Lo spirito la prende sotto la sua ombra
E dolcemente la guarda
Ecco la sposa non sposata
Maria serva e regina
Porta in segreto la salvezza del mondo
Il sangue di Cristo la redime
Lei ne è la sorgente.
Cari amici. Belle feste con Maria! Vostro p. Silvano
Dopo tre anni in Bangladesh
di p. Arduino Rossi , sx
Missionari
Saveriani - settembre 2010
Un
ripasso di vita da condividere
Dopo
tre anni in Bangladesh sono rientrato in Italia per un periodo di riposo e di
controlli medici, visto che gli anni passano e qualche acciacco inizia a farmi
compagnia. Questa pausa mi dà la possibilità di ripensare un po' alla mia
storia che mi accomuna ormai da tanti anni con il Bangladesh e che volentieri
condivido con voi, amici di "Missionari Saveriani".
Anni
indimenticabili
Nel
1959, dopo l'anno di studio della lingua bengalese, ebbi il compito di gestire
la nuova tipografia "San Giuseppe", dono dei saveriani al primo
vescovo saveriano della diocesi di Khulna mons. Dante Battaglierin. Il primo
scopo della scuola era di insegnare un mestiere a ragazzi orfani e portatori di
handicap.
Durante
gli undici anni di permanenza a Khulna, il vescovo mi ha anche dato la gioia di
collaborare con il parroco della cattedrale, p. Marino Rigon. Così, ho
incontrato i cristiani provenienti dal Faridpur, vittime del catastrofico
ciclone che nel 1960 aveva provocato 600mila morti. Visitavo gli ammalati e
facevo catechismo nelle scuole elementari. Sono stati anni indimenticabili, nei
quali ho sperimentato la gioia e l'entusiasmo di lavorare in una missione
difficile e povera, ma con la prospettiva di uno splendido futuro per la chiesa
in Bangladesh.
La
Sardegna... nel mezzo
Dopo
l'indipendenza (16 dicembre 1971), ho vissuto in una delle parrocchie più
antiche e promettenti dei cristiani fuoricasta: Shimulia. Ero insieme a p. Mario
Veronesi e p. Valeriano Cobbe: uomini di preghiera, di grande dedizione e amore,
testimoni autentici e capaci di dare la propria vita per il popolo loro
affidato.
Richiamato
in Italia nel 1996, per dieci anni sono stato animatore missionario nelle varie
parrocchie della Sardegna. Poi, i superiori mi hanno dato la possibilità di
ripartire per il Bangladesh.
Sono
stato destinato alla parrocchia della cattedrale di Khulna, dove avevo lavorato
48 anni prima come "fratello". Dopo dieci anni di assenza, ho ripreso
con coraggio lo studio della lingua bengalese e mi sono inserito pienamente nel
piano pastorale della diocesi. Ho offerto la mia disponibilità nel ministero
insieme ai sacerdoti bengalesi della parrocchia e del seminario. Ho accolto
anche la proposta del vescovo di stare vicino ai giovani seminaristi con le
confessioni, i ritiri e i colloqui spirituali. È stata un'occasione preziosa di
intenso apostolato missionario, in comunione con questa nuova comunità.
"A
obbedire non si sbaglia!"
Dopo
due anni di intenso lavoro a Khulna, il superiore dei saveriani in Bangladesh,
p. Domenico Pietanza, mi ha proposto il trasferimento a Dhaka, nella casa di
formazione per i giovani bengalesi aspiranti alla vita missionaria nell'istituto
saveriano. Ho dovuto sostituire il responsabile p. Gianvito Nitti, che tornava
in Italia per "l'anno sabbatico". La casa della formazione ha sede
nella parrocchia più grande della capitale, con 18mila cattolici.
In
quel momento, mi sono ricordato delle parole di mia madre Caterina: "A
obbedire non si sbaglia, mai!". Èstato un anno davvero provvidenziale, in
quanto ho potuto esercitare il mio ministero sacerdotale a piene mani, inserito
nella comunità ecclesiale di Tejgaon.
Oltre
a seguire gli aspiranti saveriani, ho offerto il mio modesto contributo di
sacerdote e missionario per confessioni, incontri e ritiri spirituali alle
quatro comunità di religiose presenti in parrocchia: le suore del Pime, le
salesiane, le suore di madre Teresa, le suore laiche. I due corsi di esercizi
spirituali durante il primo semestre di quest'anno sono stati per me il dono più
bello.
Di
tutto ringrazio il Signore, perché credo fermamente che sia Lui a operare
meraviglie nella nostra vita, anche attraverso le nostre povertà e i nostri
limiti.
"Era
più teologa lei di noi teologi" di Francesco Rapacioli
MissiOnLine
- 25 agosto 2010
Madre
Teresa di Calcutta nel ricordo di mons. Paulinus Costa, arcivescovo di Dhaka.
"In questi giorni mi viene alla mente la sua determinazione ad aiutare il
Bangladesh colpito dalle alluvioni nel 1992..."
Quando
ha incontrato Madre Teresa di Calcutta?
Ho
avuto occasione di incontrare ripetutamente Madre Teresa. Molte volte insieme a
tanti altri e qualche volta personalmente. La prima occasione in cui incontrai
la Madre personalmente fu nel lontano 1979, da rettore del seminario maggiore di
Dhaka, quando la invitai per una conferenza ai seminaristi. Fece un'enorme
impressione su tutti noi. Tutti furono entusiasti della sua presenza e di quello
che ci disse in quella circostanza. La incontrai poi ancora nel 1987, in
occasione di una visita a Calcutta, e successivamente a Tajgaon, una parrocchia
di Dhaka, dove era venuta ad inaugurare una casa della congregazione. Anche in
questa occasione, dove era presente tantissima la gente, ebbi la fortuna di
poterla incontrare a tu per tu per qualche minuto. Nel 1992, quando il
Paese era afflitto da una gravissima alluvione, Madre Teresa riusci' ad inviare
un cargo di biscotti dall'India per la gente del Bangladesh. Lei stessa venne
personalmente ad accompagnare il carico. Quando la Madre capì che il governo
del Bangladesh, al quale donava i biscotti per la gente, non era disponibile al
trasporto del cargo dall'aeroporto alla parrocchia, disse chiaramente che
avrebbe rimandato l'aereo in India! L'ufficiale governativo cambiò idea e mandò
una autocarro per il trasporto... La incontrai infine nel 1994, quando fu
invitata da parte del Lions Club a presenziare una cerimonia all'hotel Sonargaon
di Dhaka.
Quale
è stata l'impressione che ha tratto da questi incontri?
Fui
colpito, in occasione della conferenza che tenne in seminario, dalla profondita'
teologica e spirituale delle sue parole. Pur essendo laureato in teologia, mi
resi conto che Madre Teresa era piu' teologa di me. Madre Teresa parlava sempre
dell'amore di Dio e dell'amore per il prossimo, soprattutto il piu' povero.
Ella, che era chiamata "Madre", madre la era davvero, con tutte le
fibre del suo essere. Appariva fragile e debole, ma aveva una forza eccezionale,
come dimostro' quando era addirittura pronta a rimandare il carico in India se
il governo non avesse provveduto a trasportare il carico dall'aeroporto al punto
di distribuzione. Era anche una donna estremamente coraggiosa. In un'altra
occasione, il governo del Bangladesh si rifiuto' di concedere il visto di
entrata alle sue suore. Colui che accompagno' Madre Teresa dal ministro che
rilasciava i visti, mi disse, dopo l'incontro, di aver ammirato il coraggio e la
forza di Madre Teresa. Quando il ministro disse a Madre Teresa di non aver
bisogno di suore straniere in Bangladesh, ella replico' che la sua congregazione
aveva la sacrosanta autonomia di decidere chi dovesse lavorare e dove,
aggiungendo che questo non era affare del governo! Alla fine il ministro
concesse i visti. Ovviamene la sua visita era stata preceduta da una serie di
incontri con gli ufficiali governativi, ma l'incontro tra Madre Teresa e il
ministro fu decisivo. Madre Teresa era anche molto umile. Una volta un uomo le
sputo' addosso: Teresa non ebbe nessuna reazione di risentimento e cio'
letteralmente disarmo' colui che aveva voluto umiliarla pubblicamente.
Pensa
che Madre Teresa sia santa?
Senza
voler ovviamente anticipare il giudizio della Chiesa, personalmente non ho il
minimo dubbio al riguardo: Madre Teresa e' una santa!
In
che senso Madre Teresa era missionaria?
Madre
Teresa e' venuta in Bangladesh come missionaria ed ha inviato le suore in India
e in tutto il mondo come missionarie della carita' di Dio. Ella era capace di
coinvolgere tutti - cristiani e non - nella sua opera a favore dei piu' poveri.
Cosa
può dire circa la sua vita di preghiera?
La
Madre partecipava quotidianamente e con molto trasporto all'Eucaristia. E'
attribuita a lei la frase che si trova ormai in qualsiasi sacrestia del
Bangladesh riferita ai presbiteri "Oh sacerdote, celebra questa S. Messa
come se fosse la tua prima Messa, l'ultima tua Messa e la sola Messa che
celebri". Ricordo che quando fu chiamata dal Lions Club, arrivo' con largo
anticipo (anche se il costume vuole che l'invitato speciale arrivi con un certo
ritardo!) e si mise tra la gente a pregare il rosario. Quando fu tempo, con
molta semplicita' sali' sul palco e solo allora i presenti la riconobbero! Madre
Teresa pregava continuamente il rosario e chiedeva benedizioni a presbiteri e
vescovi. Aveva un grande amore per i sacerdoti, per la cui santificazione ella
pregava e faceva pregare. Aveva un rapporto molto speciale con papa Giovanni
Paolo II, il quale la rispettava e l'amava molto.
Qual
è il suo messaggio alle Chiese dell'Asia?
Madre
Teresa ha evangelizzato l'India e il mondo intero soprattutto attraverso
l'azione. Ella e' stata una grande missionaria. La sola presenza delle sue suore
e' una forma di proclamazione del Vangelo. Spero e desidero che sia dichiarata
santa presto e che le sue suore possano continuare la sua missione di carità.
Prime Comunioni al St. Francis of Assisi di p. Adolfo L'Imperio
Dhanjuri - 12 settembre 2010
Il
12 settembre 2010 è stato un grande giorno per la Parrocchia di S. Francesco
d'Assisi Dhanjuri.
Abbiamo celebrato la Giornata della Prima Comunione per 103 bambini (45 maschi e
58 femmine) provenienti da 25 villaggi attorno alla Parrocchia.
Il
parroco Fr.Cherubim Bakla e Fr.Adolfo L'Imperio del PIME hanno officiato Messa e
durante l'omelia, il celebrante principale, Fr.Cherubim, ha sottolineato
l'importanza di ricevere la prima comunione nella loro vita e l'importaza
dell'Eucarestia nella vita della diocesi.
Per rendere questa giornata memorabile e significativa per i candidati della
prima comunione, è stato organizzato un laboratorio di sette giorni in cui ai
bambini è stato insegnato le dottrine della Chiesa, come ci si confessa , i
canti ecc.
E' stato un momento importante per tutti noi. Infine un ringraziamento a tutti
voi per la vostre preghiere e supporto.
Br.Sobuj - Corrispondente locale Missione di Dhanjuri
Aggiungo alla cronaca del local corrispondent, Br. Sobuj, la mie note, in quanto sono giunto Venerdi’ sera, un poco stanco e nervoso. Sapete e’ l’eta’.
Sabato ha piovuto dal mattino sino a mezzogiorno e questo ha rinfrescato l’aria facendo diminuire il caldo e l’afa di questi giorni.
Domenica mattina, cielo sereno, alle sei e trenta in due file i centotre sono entrati in Chiesa preceduti dalla Croce e seguiti dai Sacerdoti.
Nella Chiesa piena di gente la celebrazione e’ stata seguita con attenzione da tutti. Guardando i loro occhi, ho messo la macchina fotografica in tasca e mi sono concentrato nella preghiera.
Certo che questi ragazzi/e non hanno avuto chi faceva le riprese con la cinepresa, da tenere come ricordo. Niente bomboniere o regali, Non c’erano i fari che tante volte disturbano, i loro vestiti semplici e comuni ma puliti li rendevano rappresentanti delle loro comunita’ desiderosi di ricevere nel loro cuore Gesu’ con il Quale e per il Quale la vita riceve un impegno di Amore.
La foto di gruppo sulle scale della Chiesa spero vi porti vicino questa realta’ lontana ma anche tanto vicina per molti di voi.
Tornate ai vostri villagi e state uniti a Gesu’ per il bene di tutti.
Dei piccoli è il Regno dei Cieli.
Fr.Adolfo
In forte aumento il tasso di malnutrizione infantile nel nord del paese
Agenzia Fides - Kousseri - 31 agosto 2010
Nella
zona settentrionale del Camerun, come in gran parte della regione del Sahel
nell'Africa occidentale, si registra un alto tasso di malnutrizione infantile.
Sei bambini sono morti per questo motivo nell'ospedale di Kousseri, nella zona
nord del Camerun, nel mese di luglio, cifra insolitamente elevata rispetto alla
norma. "Presso i 10 centri sanitari di Kousseri, i casi di malnutrizione
moderata e acuta, sono aumentati da 75 del mese di maggio a 166 a luglio,"
si legge in una nota di un ufficiale locale del Ministero della Sanità. La
scarsa alimentazione è molto comune in questa regione, dove la maggior parte
dei 5 milioni di persone non hanno accesso all'acqua potabile e ai servizi
igienici. Secondo l'Unicef, 55 mila bambini con meno di cinque anni di età
soffrono di malnutrizione acuta nelle regioni del Camerun del nord, il 70%.
I
bambini morti di recente, o che sono in condizioni precarie presso l'ospedale di
Kousseri, arrivano in stato di malnutrizione avanzata e con complicazioni
mediche, e in alcuni casi è impossibile salvarli. Anche l'accesso alle cure
costituisce un problema; 20 dei 43 distretti sanitari di queste regioni hanno
personale qualificato, attrezzature e mezzi di soccorso, ma i rimanenti sono
ancora privi di ogni assistenza. Come in molti altri paesi dell'Africa centrale
ed occidentale, le cause in Camerun sono principalmente dovute ai mancati
raccolti, che portano ad una conseguente povertà cronica, alla mancanza dei
servizi di base e alle scarse pratiche alimentari infantili. Inoltre le
inondazioni e una epidemia di colera hanno recentemente aggravato la situazione
nel paese dove i raccolti sono andati distrutti. (AP)
L'abbraccio
al reale di P. Marco Pagani
www.
padremarco.com - settembre 2010
Carissimi,
un
saluto all'inizio di questo nuovo "anno sociale", che credo vi ritrovi
ormai tutti al lavoro (speriamo...), o tra poco a scuola per i più giovani tra
voi!
Anche
qui da noi l'anno scolastico sta per ricominciare e questo ritma anche a molte
attività economiche legate al rientro tra i banchi sia degli studenti del Liceo
che degli Universitari, oltre ai piccoli della Scuola Materna e Primaria.
I
numerosi Taxisti (qui è il mezzo di trasporto più diffuso e popolare)
attendono con impazienza l'inizio delle scuole. I negozi di cartolerie e generi
vari hanno già venduto quaderni, libri e "Bic" a tantissimi studenti.
Per
tanti di loro si tratterà di avere solo qualche quaderno e la biro con cui
scrivere. I libri sono un lusso che molti ragazzi non possono permettersi. Altri
prenderanno un mezzo di trasporto per recarsi a scuola, invece dei due
necessari. Il resto del tragitto, a volte veramente lungo, si farà a piedi, e
la grande stagione delle piogge sta per iniziare in concomitanza con la ripresa
delle scuole.
Tanti
di questi ragazzi, sia delle Scuole Primarie che Secondarie e qualche
Universitario, riesco ad aiutarli grazie al Programma di "Adozioni a
Distanza" del "Pime", che pur non coprendo tutte le spese da
affrontare, dà un buon contributo... Mi fa sempre impressione guardare gli
occhi rossi di pianto di chi non può andare a scuola per ragioni economiche.
Come una ragazzina di 12 anni, ultimamente, una Chierichetta, che mi ha pregato
di aiutarla, perché la sua mamma non ha le risorse economiche. Pensate, fa la
"colf" per 20 Euro al mese, che anche qui sono una vera miseria.
Comunque Denise andrà a scuola!
In
questi mesi è successa una cosa che vi voglio raccontare, perché mi ha colpito
in modo particolare.
Agli
inizi di Giugno, dopo il mio rientro a Yaoundé, è venuta meno una ragazza che
aveva l'"Aids" e che seguivo da qualche anno. Faceva il
"Call-Box" fuori dalla Parrocchia e così, tra un sorriso e una
chiacchiera, ci eravamo conosciuti. Qualche tempo dopo aveva iniziato a star
male e, purtroppo, era andata al villaggio per curarsi, e l'avevo rivista quando
pesava 30 chili. Sua madre mi aveva cercato per questo, perché si erano resi
conto della gravità della malattia. Ricoverata in Ospedale, eravamo riusciti a
riprenderla, come si dice, "per i capelli"! Le avevo poi indicato una
Dottoressa vicina a dove lei abitava perché potesse essere seguita. Aveva già
una bambina che aiutavo per la scuola con le "Adozioni a Distanza" del
"Pime". Mentre alcuni di voi mi avevano aiutato per le sue cure
mediche. Rimasta ancora incinta, ha partorito una bimba, Xaverie Merveille, agli
inizi di Aprile, e poi ha iniziato a star male. L'"Aids" in lei si
manifestava con delle meningiti, che ormai avevano intaccato la sua capacità di
ragionamenti normali. Era come se fosse, a volte, assente. Curata da me e dalla
famiglia, si era apparentemente ripresa. L'avevo salutata al mio ritorno dal
Monastero Cistercense, un Venerdì pomeriggio. Ma la sera stessa, verso le 23,
è morta, abbastanza improvvisamente ed inaspettatamente! Vedendola nel
pomeriggio, non me lo immaginavo. Ha lasciato due bambine, una di 9 anni e
l'altra di pochi mesi. Che fare? Normalmente, in questi casi, la famiglia
Africana allargata, interviene. C'è sempre una nonna, una zia che prende i
bambini, ma qui non è successo. E così, sorprendentemente, una vicina di casa
e di lavoro (aveva il "Call-Box" vicino al suo), senza dire nulla,
senza proclami, semplicemente, ha preso con sé le due bimbe. Questa donna ha già
figli suoi, e vive in una "stamberga", ve lo assicuro. Come lavoro
anche lei si arrangiava con il "Call-Box", suo marito non ha un grande
lavoro, eppure non ci ha pensato due volte! C'erano queste due creature che
avevano bisogno. Basta! E non è tutto. Si pensava che la piccola potesse essere
"siero-positiva", e lei l'ha presa con sé comunque. Poi, grazie a
Dio, i risultati del "Test" sono stati negativi, per cui la bambina è
sana. Ma lei all'inizio non lo sapeva.
Mi
ha molto colpito questo fatto, questa capacità di fare spazio nella propria
esistenza all'altro, senza calcolare innanzitutto i pro e i contro, ma
lasciandosi colpire da ciò che accade. Lei è una donna che frequenta la
Parrocchia, ma non è sposata in Chiesa, per cui non può ricevere i Sacramenti.
E non è nemmeno una che corre tutte le volte che suonano le campane.
Ma
se la parola "avvenimento" ha per me un senso concreto, mi viene in
mente questo suo gesto. Una cosa imprevista accade, ti sta davanti, e tu la fai
entrare e ti cambia la vita. Non ci ragioni prima sopra, non la scomponi in
mille pezzetti per vedere se ti conviene. Ci stai davanti seriamente, ti lasci
interrogare e cambia qualcosa!
Dio
viene e diventa famigliare alla nostra vita così, esattamente dentro le
circostanze, belle o brutte che siano, di tutti i giorni.
Chiediamo
la Grazia di lasciarci provocare dalla realtà, dalle cose che accadono attorno
a noi. Tutto è per noi, per il nostro bene, anche se a volte misteriosamente.
Un
grande abbraccio a tutti, in modo particolare ai più piccoli!
Il governo apre ai Mapuche
PeaceReporter - 1 settembre 2010
Dopo anni di indifferenza, il governo ha deciso di 'attutire' la Legge antiterrorista applicata sin dai tempi di Pinochet contro gli oppositori. E da sempre arma inumana contro gli indigeni e i loro diritti
La protesta di un gruppo di prigionieri politici indigeni mapuche in sciopero della fame dal 12 luglio, ricordata ieri anche dai minatori cileni sepolti vivi, ha sortito il primo effetto, andando a scuotere il governo, finora indifferente. La Moneda ha infatti deciso di modificare la legge antiterrorista e limitare il raggio d'azione della giustizia militare. Parola del ministro degli interni cileno, Rodrigo Hinzpeter. Al
Parlamento sarà presto presentato un progetto di legge per
"perfezionare" la Ley Antiterrorista e limitare il potere dei
militari, finora pressoché illimitato. Altra pesante ennesima eredità della
dittatura. Venne infatti varata dal generale Augusto Pinochet (1973-1990) per
perseguire gli oppositori del regime, e in venti anni di governo di
centro-sinistra, la cosiddetta Concertación, nessuno l'ha toccata e per alcuni
crimini è stata usata senza batter ciglio. In particolare contro gli indigeni.
E questo nonostante più volte le Nazioni Unite l'abbiano criticata perché
discriminante. |
"Il
Governo è disposto a rivedere il nostro ordinamento giuridico", ha
scandido Hinzpeter, che si è anche impegnato a cercare dei mediatore per
convincere i 32 mapuche in carcere a smettere lo sciopero. Si tratta di nativi
arrestati durante alcuni scontri nella Región de Araucanía (centro), dove è
in atto una lotta serrata per il riconoscimento delle terre ancestrale indigene.
Dal 2009, la regione è militarizzata e questo è considerato un sopruso dai
mapuche, che non accettano divise e fucili, simbolo di un potere prepotente che
non rispetta i diritti atavici di un popolo che dalla notte dei tempi vive in
quei luoghi. Per questo si sono dichiarati prigionieri politici e rigettano il
fatto di dover essere giudicati da tribunali militari.
"Il
progetto di legge tende a riformare e limitare l'applicazione della giustizia
militare nel nostro paese. A abbiamo un sistema in cui la legge militare scatta
molto più spesso rispetto ad altri sistemi democratici. E una riforma del
genere era già presente nel nostro programma di governo. La invieremo alle
Camere con la massima urgenza", ha precisato Hinzpeter a 'El Mercurio'. Ma
il ministro ha ammesso anche che la Legge Antiterrorista include una eccessiva
gamma di crimini, per questo il governo inizierà un giro di incontri con tutti
i partiti in modo da discutere di eventuali modifiche. Precisando però che si
impegnerà affinché la riforma non ammorbidisca troppo il quadro giuridico.
Si
è quindi detto preoccupato per la sorte dei Mapuche in sciopero, e ha chiesto
loro ufficialmente di tornare a mangiare, interrompendo una protesta che sta
mettendo in serio pericolo la loro vita.
La
comunità Mapuche rappresenta quasi il dieci percento della popolazione cilena e
il suo principale insediamento si trova proprio nell' Araucanía, a circa 600
chilometri a sud di Santiago, la regione occupata da centinaia di uomini in
divisa pronti a tutto pur di non far vivere con dignità quella gente.
Intervista a Stephen Chan sul modello cinese di aiuti allo sviluppo
di
Emanuele Schibotto
equilibri.net
- 4 settembre 2010
Equilibri
ha intervistato Stephen Chan, docente di Relazioni Internazionali alla School of
Oriental and African Studies di Londra. Il Professor Chan è un esperto di Cina,
ed in particolar modo delle relazioni tra la Cina ed il continente africano. Con
il Prof. Chan Equilibri ha discusso del modello di aiuti allo sviluppo
intrapreso da Pechino.
Equilibri:
Quando la Cina ha iniziato ad intraprendere politiche di aiuto allo sviluppo?
Chan:
La Cina iniziò ad aiutare Paesi del terzo mondo a seguito della Conferenza
afro-asiatica di Bandung, nel 1955. Nel 1956 Pechino accordò il primo enorme
prestito al continente africano, segnatamente all'Egitto. Non si è più fermata
da allora, benché i suoi obiettivi siano cambitati. Nei primi tre decenni,
dietro agli aiuti vi erano motivazioni derivanti dalla Guerra fredda, ma ora gli
impulsi muovono dall'intento di consolidare un alto livello di interazione
economica per il futuro, con in mente sia il proprio sviluppo economico che
quello africano.
EQ:
In cosa si differenzia il modello di cooperazione allo sviluppo cinese rispetto
a quello adottato dai Paesi occindentali?
C:
Esso prevede tre caratteristiche principali. Anzitutto, è libero da
condizionamenti di qualsiasi natura, intesi in ogni senso e soprattutto nel
senso dell'imposizione di requisiti ad agire in determinate modalità politiche.
In secondo luogo, si caratterizza per l'uso dell'ingegneria civile e delle
infrastrutture: i cinesi sono fenomenali nella costruzione di strade e ponti.
Infine, i progetti di ingegneria civile prevedono spesso un pacchetto
"Total Chinese": qualsiasi cosa, inclusa la forza lavoro, viene
portata dalla Cina, e tutti lavorano con gli standard cinesi. Ciò porta
all'isolamento e alla mancanza di trasferimento di tecnologia, ma i progetti
vengono completati a velocità impressionanti e con pochissima
"dispersione" di denaro.
EQ:
Pechino usa gli aiuti allo sviluppo come parte della propria strategia di
politica estera?
C:
Certamente, ma così fanno tutti gli Stati. Farsi degli amici è sempre stato
uno degli obiettivi fondamentali dei cinesi: lo vediamo con l'attuale
configurazione globale in mutamento, ad esempio l'avvento del G20, il sogno
cinese di essere alla testa di un nuova massa politica globale che prenderà il
posto delle potenze occidentali.
EQ:
Quali sono le regioni o Paesi che la Cina aiuta maggiormente?
C:
La maggior parte degli investimenti diretti estericinesi raggiungono l'Africa,
ma la maggior parte del commercio avviene con l'Occidente: le linee guida di
Pechino devono tenere in considerazione strategie multiple e conseguenze
inaspettate.
EQ:
Lei conviene con chi sostiene che il sistema di aiuti allo sviluppo cinese ha
dimostrato di essere più efficiente di quello dei Paesi occidentali?
C:
Ciò dipende da quale prospettiva esso viene giudicato. Da una lato, possiamo
chiaramente vedere il marchio cinese: la costruzione di impressionanti quantità
di stadi da calcio e teatri significa che quando ricchi e poveri vanno ad
assistere ad una partita di calcio o ad un concerto di musica classica sono
seduti su qualcosa realizzato dai cinesi. Dall'altro, non ho dubbi sul fatto che
le politiche di aiuti dei Paesi occidentali sono troppo legati a condizionamenti
di diversa natura. Ci siamo tagliati la gola da soli. In definitiva, il
beneficio principale derivante dagli aiuti cinesi risiede nel fatto che ora
l'Africa può scegliere - sia l'opzione occidentale che quella cinese. Questo è
il vero valore aggiunto ad uso dei policy makers africani.
La morte corre su Facebook
di Alberto Tundo
PeaceReporter
- 27 agosto 2010
Una
lista di vittime prescelte, tre omicidi: l'unica pista è il social network, che
negli ultimi tempi è diventato un'appendice della cronaca nera
Tra
la Rete con le sue autostrade invisibili e un marciapiede sporco di sangue, la
distanza si accorcia con un niente. Il caso colombiano delle misteriose morti
annunciate su Facebook dimostra quante e quanto insospettabili possano essere le
connessioni tra virtuale e reale, e confermano quanto la criiminalità sappia
sfruttarle.
Il
mistero di Puerto Asis. Quei tre omicidi erano passati quasi inosservati,
inghiottiti dalle impressionanti statistiche sulla violenza in Colombia. Diego
Ferney Elbert e Alejandro Ruiz sono morti il 15 agosto. Avevano 16 e 17 anni;
viaggiavano su un motorino tra Puerto Caceido e Puerto Asis, nel distretto di
Putumayo, nella Colombia meridonale. Cinque giorni dopo i sicari hanno freddato
Norbey Alexander Vargas, 19 anni e ferito un altro sedicenne, Juan Pablo
Zamorano Anacona. Tra la prima e la seconda esecuzione, però, è successo
qualcosa; alle 4 del mattino del 16 agosto è comparso su internet un messaggio
contenente una lista di ragazzi, tutti identificati per nome e cognome, e una
minaccia raggelante: andatevene o sarete uccisi. Da internet era arrivato
l'annuncio e dalla rete è arrivato anche l'indizio decisivo, indicato da un
utente di Twitter: le tre vittime erano tutte presenti nella lista postata su
Facebook, cui, nei giorni successivi, se ne sono aggiunte altre due. L'ultima
lunedì sera ,con i nomi di 31 ragazze con precedenti per prostituzione. E così,
tracimando dal mondo virtuale, il panico ha preso forma nel mondo reale: in
queste ore nei municipi di Puerto Asis, Puerto Caceido ma anche nel dipartimento
di Narino, che confina con quello di Putumayo, è cominciato un esodo di
probabili condannati a morte.
Il
direttore della Policia Nacional, Oscar Naranjo, ha invitato alla calma e
rassicurato la popolazione ma anche gli inquirenti hanno preso molto sul serio
la minaccia, tanto che le indagini sono subito passate ai federali, che hanno
messo in campo un'unità speciale, quella per i crimini informatici. Una squadra
molto allenata perchè, a quanto pare, in Colombia la criminalità organizzata
sta imparando a sfruttare le possibilità offerte da internet. Social network
come Facebook e Twitter sono luoghi virtuali di aggregazione ma anche mezzi
ideali per agganciare un target mirato. L'utenza ha una età media piuttosto
bassa. Sono ragazzini e ragazzine influenzabili, facilmente recrutabili. Dei
buoni hacker, inoltre, possono fornire ai cartelli o ai gruppi criminali tutte
le informazioni sulle loro "prede", studiare il loro menù di
navigazione, capire chi sono e cosa vogliono. Ma la rete è utile, come dimostra
quest'ultimo caso, anche per lasciare e lanciare messaggi: è più semplice, e
molto meno rischioso, scrivere un post o far girare un elenco che imbucare una
lettera o fare una telefonata.
Indagando,
si scopre che in Colombia la morte è stata annunciata su Facebook più di una
volta e che a seguire il filo del social network si arriva lontano. Un'inchiesta
pubblicata sul quotidiano El Tiempo de Bogotà ha rivelato che di recente altri
episodi simili si sono verificati ad Arbelàez, nel dipartimento di Cundinamarca
(Colombia centrale), e nella capitale del Narino, Pasto. Ma secondo utenti del
posto che hanno urlato il loro sdegno su Twitter, nella sola Puerto Asis i morti
annunciati su Facebook sarebbero già una ventina.
Sempre
dal celebre social network, lo scorso dicembre, erano arrivate minacce di morte
per il figlio del presidente della Colombia, Alberto Jeronimo Uribe, ma in quel
caso si era mossa addirittura l'Fbi per identificare gli autori del messaggio. E
sempre via Facebook è stato preannunciato l'omicidio del candidato alle
presidenziali, Antanas Mockus, del Partito Verde. La rete, però, è stata anche
un mezzo per avvicinare la vittima. Un caso ha scosso l'opinione pubblica del
Paese, quello di Ana Maria Chavez, una ragazza di 19 anni assassinata a
settembre nell'appartamento di Bogotà che divideva col fratello, in quel
momento negli Stati Uniti per un master. Inspiegabile l'omicidio per i parenti
ma anche per la polizia. Fino a quando non si è deciso di passare al setaccio i
suoi duemila contatti su Facebook. La pista era buona: così è stato
identificato un primo sospetto. Con Google, gli amici sono riusciti a procurarsi
anche gli estremi della sua carta di identità. Catturato a Medellin, otto ore
di treno dalla capitale, il ragazzo ha confessato di aver ucciso Ana Maria
insieme ad un suo amico. L'avevano conosciuta due giorni prima sul social
network. Lei aveva li aveva invitati a casa sua perché non poteva immaginare
che i due l'avrebbero rapinata e uccisa. Sono stati condannati a 25 anni di
carcere e a una multa di 130 milioni di pesos. Che la rete faccia perdere ogni
traccia è un mito ma in Colombia qualcuno ci crede ancora.
Sul Ruanda l'ombra del genocidio
di Alberto Tundo
Peacereporter - 29 agosto 2010
Un
massacro sistematico di Hutu compiuto in Congo dalle forze ruandesi. Lo
dice un rapporto Onu che ipotizza il reato di genocidio
A puntare una torcia su quel pozzo buio che è diventato il Congo, si può solo prendere spavento. E infatti vengono i brividi a leggere il rapporto firmato dall'Alto Commissariato per i diritti umani dell'Onu, il primo tentativo di ricostruire e mappare la violenza consumatasi nel Paese africano tra il 1993 e il 2003. E' una parola in particolare che sintetizza tutte le atrocità elencate nelle 545 pagine: genocidio.
Non
ci sono innocenti. Un paio di premesse sono necessarie prima di cominciare
questo viaggio al centro della guerra: il documento redatto dall'Unhchr è solo
una bozza e comunque anche nella sua forma definitiva non avrà il valore di
un'indagine giudiziaria: non è quindi un elenco di prove ma, semmai, di
elementi di prova sui quali si dovrà pronunciare poi un tribunale per decidere
se ci sia stato un genocidio. Nel monumentale dossier trovano posto tutti i protagonisti disonorati di quel massacro: i soldati di Angola, Ciad, Uganda, i pretoriani di Mobutu Sese Seko (padre e padrone dello Zaire, poi diventato Congo) e quelli di Laurent Kabila (che i ruandesi portarono al potere nell'ex colonia belga) e di suo figlio Joseph, le milizie Mai Mai, i paramilitari hutu dell'Interahamwe in fuga dal Ruanda e altre formazioni di macellai. D'altronde, la guerra in Congo del 1998-2003 è anche nota come Guerra Mondiale africana e vi si riversarono massacratori e saccheggiatori da ogni dove. |
Ma c'è un imputato in particolare
che esce a pezzi dal documento: è il Ruanda. L'ombra del genocidio si allunga
soprattutto su Kigali, vale a dire sul presidente Paul Kagame.
I
paragrafi sul Ruanda. E' il 1994. In Ruanda si è appena consumato il genocidio
dei Tutsi (800 mila morti) ad opera delle milizie Hutu che, sconfitte
dall'esercito ruandese (Rpa), battono in ritirata. Una parte dei paramilitari si
rifugerà in Congo dove verrà inseguita dai militari Tutsi. E' in questo
contesto che matura un altro genocidio, quello di cui adesso potrebbe essere
accusato il Ruanda, perché i massacri che seguirono gli assalti ai campi
profughi non colpirono solo i membri dell'Interhamwe. Il rapporto insiste in
molti passaggi sulle responsabilità di Kigali e dimostra come la violenza cui
si abbandonò il suo esercito non è soltanto il frutto del clima di guerra ma
il risultato di un piano politico diretto contro gli Hutu in quanto tali. Il
paragrafo 512, ad esempio, parla di "attacchi sistematici che hanno fatto
vittime nell'ordine di decine di migliaia tra Hutu di ogni nazionalità (non
solo ruandesi, quindi, ndr)...la maggior parte delle vittime erano donne e
bambini che non costituivano una minaccia per l'Rpa". Nel paragrafo 513
vengono esaminati i massacri di Rushturu (30 ottobre 1996) e Mugogo (18 novembre
1996): in queste due località del nord Kivu, i miliziani ruandesi separarono
gli Hutu dalle altre etnie, dimostrando come la loro violenza avesse un
obiettivo specifico. Nella pianura di Ruzizi, invece, furono allestite barriere
per filtrare il flusso di profughi burundesi e ruandesi, in fuga dopo che i loro
campi erano stati distrutti, per identificare i profughi Hutu e separarli dagli
altri disperati. Il 514 contiene un elenco sterminato di villaggi attaccati
dall'esercito ruandese, in cui "il massacro sistematico dei superstiti,
l'uccisione di donne e bambini, gli stupri, l'uso di armi come bastoni, machete
e martelli", raccontano di una violenza che non ha nulla a che fare con la
guerra, tanto più che in molte località venivano convocate finte assemblee per
radunare i profughi e trucidarli. Più esplicito il paragrafo 515, che descrive
di assalti in cui sarebbero stati uccisi quasi esclusivamente donne e bambini,
come a Kibumba, Osso, Mugunga, Hombo, Biriko, Kashusha, Shanje. Nel paragrafo
516 è descritto l'atto finale di una tremenda caccia a profughi Hutu cominciata
nell'ottobre 1996 nei due Kivu e terminata con gli eccidi di Mbandaka e Wendji,
il 13 maggio 1997, a duemila chilometri dai confini ruandesi: li hanno inseguiti
per mesi e poi massacrati. E ad un "piano genocida" fa riferimento il
517.
Un
problema politico. Ma qui la questione è solo in parte giuridica, perché
qualsiasi giudizio di colpevolezza comporterà ricadute politiche e questo
spiega perché il draft non si sia ancora trasformato in un documento ufficiale.
Per il Ruanda, l'accusa di genocidio sarebbe un colpo tremendo. Kagame, che ha
rimesso in piedi il Paese senza riuscire a pacificarlo, rischia di vedere la sua
immagine di uomo dei miracoli offuscata irrimediabilmente, con la conseguente
chiusura dei rubinetti delle donazioni internazionali. E la minaccia di
ritorsione non si è fatta attendere, nella forma di un ritiro delle truppe
ruandesi dai contingenti Onu. Per questo, la versione provvisoria del documento
non piace nemmeno al Segretario Generale Ban Ki-Moon. Questo report rischia di
mandare in fumo gli sforzi di Kagame di accreditarsi definitivamente come il
pacificatore del Ruanda e di indebolirlo politicamente. Ipotesi che non piace
nemmeno agli Stati Uniti, per i quali il presidente ruandese si è rivelato una
pedina particolarmente utile nel continente. E' facile immaginare che la
versione definitiva sarà quindi meno netta nelle accuse. Le ombre, però,
rimangono tutte.
L'isola nella corrente
di Roberto Livi
Il
Manifesto - 1 settembre 2010
Senza
gli afro-cubani non esisterebbe Cuba. Nonostante gli sforzi della rivoluzione,
il problema non è risolto.
Dar
voce al silenzio. Quello sui neri
Intervista
a Gloria Rolando, film-maker che lavora da anni sulla cultura nera dell'isola e
regista del documentario «1912, voces para un silencio». Dal '59 il governo
castrista ha «combattuto e combatte il razzismo» e «ha fatto tanto per
abbattere ogni forma di discriminazione». Ma «eliminati nel campo
giuridico-legialativo e in quelli politico e del lavoro, i pregiudizi razziali
sono rimasti nella testa dei cubani».
Il
20 maggio 1912 il Partito indipendente di colore (Pidc) si solleva in armi a
Cuba. Non è un tentativo di rivolta o di colpo di stato. Ma l'estrema protesta
contro l'esclusione del Pidc dalle elezioni politiche, voluta dalla maggioranza
razzista del parlamento e ratificata dal presidente Gómez. La risposta del
potere sarà un massacro: più di tremila i militanti neri e mulatti uccisi,
molti passati per le armi dopo essersi arresi. I corpi dei leader, i mulatti
Evaristo Estenoz e Pedro Ivonet (generale della guerra di liberazione contro la
Spagna il secondo, ufficiale dello stato maggiore del generale Bandera, il
primo) vengono esposti al pubblico nella caserma Moncada (dove nel '53 inizierà
la rivoluzione di Fidel) a Santiago di Cuba. Il massacro (appoggiato, quasi
richiesto, dagli Stati uniti che in quel periodo avevano praticamente un
protettorato sulla maggiore delle isole antillane) porta non solo alla
sparizione di una forza politica autonoma dei cubani di colore, ma, con essa, a
una decapitazione dell'intellighenzia nera e mulatta. Fino alla rivoluzione di
Fidel, si possono contare sulle dita di una mano leader politici e intellettuali
neri di spicco a Cuba.
Il
documentario 1912, voces para un silencio (presentato di recente qui all'Avana),
che la regista Gloria Rolando (nella foto) - la cui opera è rivolta a indagare
le origini della cultura nera afro-cubana - ha dedicato a questo episodio della
storia dei cittadini di colore, ha come sottotitolo «Le parole per dirlo». E
ancor più chiaro, nella versione in inglese - presentata negli Usa - «Breaking
the silence».
Il
silenzio della storia ufficiale dell'epoca , il silenzio, proseguito anche negli
anni successivi, sugli obiettivi della lotta del Partito indipendente di colore
- che non erano affatto il potere ai neri, bensì uguaglianza e giustizia
sociale -, infine il silenzio sulla storia dei neri a Cuba. Per questa ragione
quello presentato nei giorni scorsi è solo il primo documentario di un progetto
di ricostruzione del massacro del 1912 che si articola in tre fasi: la prima
informa sui fatti che precedono la rivolta, l'inizio della lotta dei neri per
emanciparsi dalla schiavitù, i primi giornali fatti da neri, i loro leader come
Antonio Maceo che comandò l'esercito ribelle, la lotta di indipendenza contro
la Spagna (conclusasi nel 1898 con l'intervento degli Stati uniti) combattuta in
grande maggioranza da mambí neri e mulatti che partecipavano alle operazioni da
uguali ai combattenti bianchi, le aspettative che i neri nutrivano dall'esito
vittorioso di tale guerra: non solo l'indipendenza, ma l'uguaglianza sociale e
razziale.
Insisto,
perché silenzio? Su quei fatti e sulla questione razziale a Cuba sono state
formate tre commissioni, una del parlamento, una del governo e una dell'Uneac,
l'Unione degli scrittori e artisti cubani
E'
vero. Ma io ho iniziato a lavorare a questo progetto nel 2003, quando sulla
questione razziale a Cuba vi era una vera e propria reticenza, sia in ambito
politico che intellettuale. Inoltre le commissioni a cui ti riferisci, sono sì
importanti - formate in modo interdisciplinare- ma restano in ambito politico e
intellettuale. Mentre nella popolazione cubana persiste una preoccupante assenza
di coscienza della questione razziale, che rischia di diventare un fattore
pericoloso per la stessa rivoluzione, che pur ha fatto tanto per abbattere ogni
forma di discriminazione.
Eliminati
nel campo giuridico-legislativo e in quello politico e del lavoro, i pregiudizi
razziali sono però rimasti nella testa dei cubani, per così dire nella cultura
familiare. Ancor oggi si pensa che è necessario adelantarse (portarsi avanti),
in pratica di unirsi (in matrimonio o solo sessualmente) con i bianchi. Dunque
che schiarendo la pelle dei propri figli si assicura loro un progresso sociale.
E che restando neri di pelle si è quasi condannati a una marginalità sociale.
Ripeto, questo non è la politica ufficiale e la rivoluzione ha combattuto e
combatte il razzismo. Infatti nelle scuole, nel lavoro, ecc., i cittadini hanno
per legge uguali possibilità. La rivoluzione ha distrutto le barriere legali e
sociali razziste, ma non quelle che esistono nella testa della gente.
Esteban
Morales, che ha scritto un libro (Desafíos de la problématica racial en Cuba)
sostiene che «in questo paese si educano le persone a essere bianchi, in quanto
essere bianchi rappresenta un vantaggio e essere neri uno svantaggio». E che
quando Fidel nel 1962 dichiarò risolta la questione razziale «peccò di
idealismo».
Il
mio impegno va proprio in questa direzione, contribuire a una coscienza
razziale. Un compito non certo facile. Il mio documentario - presentato alla
Mesa redonda ( in onda in tv tutti i pomeriggi, uno spazio di analisi di
questioni politiche e sociali nazionali e internazionali, ndr) - ha lo scopo di
portare questo tema fuori dal dibattito intellettuale, nei cinema, in tv, nelle
scuole, nelle biblioteche, insomma tra la gente, perché è a questo livello che
bisogna lavorare. Ho parlato con vari spettatori, in maggioranza hanno
sottolineato l'importanza di portare questo lavoro nelle scuole. Molti giovani,
specialmente neri, non vanno al cinema. In questo settore della popolazione vi
sono nuovi canoni di circolazione: la musica, i video - ovvero la gran parte di
«cultura» che viene «consumata» - sono copiati in memorie e così circolano.
Dunque ci stiamo organizzando, anche con la partecipazione di giovani rappers
neri. Più difficile la penetrazione nel settore bianco della popolazione, ancor
meno interessato alla questione razziale, ovviamente.
La
crisi economica, sostengono analisi sociologiche, aumenta la «frattura sociale»
e vede i neri sovra-rappresentati nelle situazioni di nuova povertà e
marginalità (per esempio nelle carceri). E' vero?
La
popolazione nera patisce la caduta di tensione politica e la sempre maggiore
spinta al consumismo. Fattori che si sommano al fatto che non vi è,
nell'insegnamento e nella società, una conoscenza e un riconoscimento del
contributo dei neri alla storia del paese (Ortiz diceva che senza i neri non
esisterebbe Cuba). Nel mio documentario una donna si chiede: ma che hanno fatto
i neri per questo paese? Al massimo si riconosce il loro contributo nello sport
e nella musica. Nell'insegnamento non si parla di intellettuali neri, con
l'eccezione forse di Juan Gualberto Gómez, identificato però solo come amico
di José Martí. Tutto questo porta a un pericoloso abbassamento dell'autostima
della popolazione di colore.
"L'Ecuador non capisce gli indigeni"
di Mauro Castagnaro
Mondo
& Missione - agosto-settembre 2010
Il
presidente Correa vuole eliminare la povertà, ma i popoli originari sono poveri
"atipici", con identità e culture da rispettare
Economista
e docente universitaria, Nidia Arrobo ha lavorato dal 1985 al 1988 a fianco di
mons. Leonidas Proaño, vescovo di Riobamba, come segretaria del Dipartimento
della pastorale indigena della Conferenza episcopale ecuadoriana e del
Segretariato internazionale cristiano di solidarietà con l'America latina Oscar
Romero. Attualmente dirige la Fundación Pueblo Indio, fondata dallo stesso
presule.
Con
l'arrivo alla presidenza della Repubblica, nel 2007, di Rafael Correa, l'Ecuador
sembra entrato in una nuova fase della propria storia. Che ne pensa?
L'attuale
esecutivo rappresenta una svolta rispetto a quelli precedenti. Si è insediato
dopo un quindicennio in cui i movimenti sociali, soprattutto quello indigeno,
avevano a più riprese rovesciato governi corrotti e legati all'oligarchia, per
cui il Paese viveva un'instabilità politica, che aveva minato la legittimità
delle istituzioni. Correa ha interpretato il sentire popolare e ha avviato un
progetto di cambiamento. Ha compiuto scelte molto importanti, non rinnovando il
contratto che garantiva agli Stati Uniti la base militare di Manta, o
promuovendo la convocazione di un'Assemblea costituente per trasformare lo
Stato. La nuova Costituzione rappresenta un grande passo avanti, perché, per
esempio, riconosce il carattere plurinazionale dell'Ecuador, come chiedevano i
popoli indigeni dal 1990, e dichiara l'accesso all'acqua un diritto umano.
Inoltre l'esecutivo ha drasticamente ridotto i costi delle prestazioni
sanitarie, mettendo l'intera popolazione in condizione di accedervi, presta
grande attenzione all'infanzia e ai portatori di handicap, e ha investito molte
risorse per modernizzare le strutture scolastiche, anche grazie al blocco del
pagamento della quota del debito estero giudicata illegittima da un'apposita
Commissione di revisione.
Quali
sono invece i punti deboli?
C'è
una grande concentrazione di potere nelle mani di Correa, che ha una capacità
di lavoro impressionante e impone scadenze rigide all'attività legislativa,
forse perché vuole dimostrare l'efficienza del suo governo e del Congresso in
un paese in cui la vecchia partitocrazia rendeva lentissima l'approvazione delle
leggi, salvo quando favorivamo gli interessi dell'oligarchia. È un attivismo
che piace alla gente, però ricorrere a leggi di emergenza - lo ha fatto più
volte - che possono favorire arbitrii e favoritismi. D'altro canto Correa non ha
alle spalle un vero partito, perché nell'Alleanza Paese convergono molte
tendenze diverse, comprese quelle di estrema destra. Quindi i risultati sono
contraddittori e alcune scelte sono state negative, come la Legge sull'attività
mineraria, che incentiva gli investimenti stranieri a scapito della tutela
ambientale, privilegia lo sfruttamento del sottosuolo rispetto ai diritti delle
comunità locali e permette l'apertura di impianti a cielo aperto che
distruggono la biodiversità.
Ciò
ha provocato forti proteste sociali.
Secondo
me la mancanza più grave di questo governo è che non capisce i popoli indigeni
e disprezza i movimenti popolari tradizionali. Correa e il suo esecutivo non
contano su una base sociale organizzata, ma su un consenso
"d'opinione", di per sé volatile. D'altro canto Correa ha molto
osteggiato i movimenti indigeni, prima consentendo la partecipazione delle
popolazioni autoctone alla Costituente solo attraverso i partiti, poi togliendo
il rango di ministero al Consiglio nazionale dei popoli e delle nazionalità
indigene dell'Ecuador, infine privando dell'autonomia la Direzione nazionale di
educazione interculturale e bilingue, per cui oggi è il ministero
dell'Educazione a nominare il direttore e decidere i curricula, non più le
comunità native. Correa vuole eliminare la povertà, ma non capisce che gli
indigeni sono poveri "atipici", con identità e cultura proprie. La
stessa idea di "rivoluzione dei cittadini" è una proposta
omogeneizzante, perché tutti siamo cittadini, mentre qui abbiamo diversità
etniche da riconoscere.
Qual
è la situazione dei movimenti indigeni e popolari?
Faticano
a capire che posizione prendere di fronte alle ambiguità di Correa e del suo
esecutivo. La gente sta ricevendo benefici a livello sociale e l'economia
registra un andamento positivo. L'oppo¬sizione popolare viene da gruppi
ridotti, per esempio nelle zone minerarie, che non riescono ad acquisire una
dimensione nazionale. Molta gente tradizionalmente di sinistra giudica il
governo Cor¬rea uguale a quello repressivo del presidente socialcristiano León
Febres Cordero (1984-1988), ma non è così. Però quanti non si uniscono
all'Alleanza Paese vengono considerati avversari e ogni posizione autonoma viene
demonizzata dall'esecutivo. Il movimento indigeno non si è ancora ripreso dal
colpo subito col fallimento del governo di Lucio Gutiérrez (2003-2005), che
aveva appoggiato, e la Confederazione delle nazionalità indigene dell'Ecuador,
che aveva guidato le lotte sociali dal 1990, si è indebolita, anche perché
molti quadri si sono lasciati cooptare dal potere.
Che
ruolo svolge in questo contesto la Chiesa cattolica?
La
Chiesa cattolica in Ecuador si è sempre sentita a proprio agio con governi
espressione dell'oligarchia, che le davano spazio e sostegno. Mons. Proaño
ruppe questo matrimonio tra potere ecclesiastico e potere politico, cercando di
creare un nuovo modello di Chiesa, il che gli valse molta ostilità anche
all'interno dell'istituzione ecclesiastica. Oggi, soprattutto a livello di
vescovi, nessuno ha assunto il suo ruolo profetico. Dopo la sua morte, nel 1988,
mons. Alberto Luna Tobar, arcivescovo di Cuenca, ne ha un po' raccolto il
testimone, divenendo punto di riferimento per i movimenti popolari, ma ormai ha
87 anni. Mons. Victor Corral, suo successore a Riobamba, si fa sentire poco. Il
popolo si è trasformato grazie alle idee e alle lotte di mons. Proaño, al suo
vivere il Vangelo con estrema coerenza, mentre nella Chiesa si sono rafforzate
le correnti conservatrici.
Come
interpreta l'elezione di un membro dell'Opus Dei come mons. Antonio Arregui a
presidente della Conferenza episcopale dell'Ecuador?
L'elezione
dell'attuale presidente della Conferenza episcopale, mons. Antonio Arregui,
arcivescovo di Guayaquil, membro dell'Opus Dei, è coincisa con l'ascesa di un
governo, almeno sulla carta, favorevole a un cambiamento nel Paese. Si è
prodotta una "sfasatura" tra Chiesa e potere, confermata dal fatto che
nel 2008 proprio mons. Arregui ha assunto la leadership dell'opposizione alla
nuova Costituzione, che il popolo ha invece ratificato nel referendum col 70 per
cento dei voti validi. Ma in generale l'episcopato tace, né approvando il fatto
che Correa abbia reso gratuita l'educazione o che gli ospedali stiano finalmente
funzionando di nuovo, né criticando la Legge sull'attività mineraria o i
soprusi compiuti nei confronti del popolo.
E
gli altri settori della Chiesa, come la Conferenza ecuadoriana dei religiosi e
delle religiose (Cer) o le Comunità ecclesiali di base?
Purtroppo
manca una voce della Chiesa che rivendichi diritti per i poveri o solidarizzi
con le lotte popolari. Ci sono pochissimi spazi. Le congregazioni religiose
fanno molta riflessione e formazione interna, anche per offrire un servizio
migliore ai settori popolari in cui sono inseriti, ma la Cer non interviene
pubblicamente da molto tempo. Alcuni sacerdoti o religiose appoggiano proposte
del governo e in occasione del referendum sulla nuova Costituzione qualche
gruppo di preti ha annunciato pubblicamente che avrebbe votato a favore. Ma non
è un settore organizzato.
LEONIDAS
"TAITA" PROAÑO
Il
29 gennaio 1910 nasceva mons. Leonidas Proaño, vescovo di Riobamba dal 1954 al
1985, considerato dal teologo p. José Comblin uno dei "santi padri della
Chiesa latinoamericana". Fautore del metodo
"vedere-giudicare-agire" e poi sostenitore della Teologia della
liberazione, svolse il suo episcopato nel Chimborazo, la regione più povera del
Paese, con la maggiore percentuale di indigeni. Per la loro
"promozione" fondò nel 1960 il Centro studi e azione sociale, che
forniva assistenza tecnica alle cooperative cui aveva distribuito le terre della
diocesi, anticipando la riforma agraria; nel 1962 creò le Scuole radiofoniche
popolari dell'Ecuador (Erpe), un sistema di alfabetizzazione ispirato al motto
"Educare è liberare", e nel 1972 favorì la nascita del Movimento dei
popoli indigeni dell'Ecuador (Ecuarunari), che riuniva le etnie del centro
montagnoso del Paese.
Per
tutti gli anni '60 Riobamba fu un laboratorio di sperimentazione ecclesiale e
sociale, il che consentì a mons. Proaño di partecipare da protagonista al
Concilio Vaticano II e poi tentare, quale presidente del Dipartimento della
Pastorale d'insieme del Consiglio episcopale latinoamericano (Celam), di
applicarne le conclusioni al continente, svolgendo un ruolo di primo piano nella
II Conferenza generale dell'episcopato latinoamericano, tenutasi a Medellín, in
Colombia, nel 1968. Qui trovò eco la sua pionieristica esperienza delle Comunità
ecclesiali di base, su cui aveva riorganizzato la diocesi. La sua opzione per la
liberazione dei popoli indigeni gli valse l'appellativo di "Taita"
("papà" in lingua kiwchua), ma gli costò il semi-isolamento nella
Conferenza episcopale, culminato nel 1974 con l'invio di un visitatore
apostolico da parte della Santa Sede, (che però confermò la bontà del suo
lavoro), e l'ostilità dell'oligarchia, tanto da essere arrestato per
"sovversione" nel 1976 dalla dittatura militare insieme ad altri 17
vescovi latinoamericani.
Candidato
al Premio Nobel per la pace nel 1986 e definito "vescovo degli indios"
da Giovanni Paolo II, mons. Proaño morì di cancro nel 1988.m.c.
Ordinato il primo sacerdote guineano del PIME
Agenzia Fides
- Bissau - 30 agosto 2010
Si
sono conclusi il 27 agosto, con la Concelebrazione Eucaristica presieduta da due
Vescovi della Guinea Bissau, i lavori del Corso di formazione missionaria che
era iniziato il 2 agosto. Secondo le informazioni inviate all'Agenzia Fides
dalla Curia di Bissau, al corso hanno partecipato 20 missionari, religiosi e
laici, di 13 nazionalità diverse, che hanno avuto l'occasione di apprendere i
fondamenti della lingua locale e sono stati introdotti nella realtà
socio-culturale della Guinea Bissau. Tra i temi illustrati durante gli incontri
figurano: dialogo interreligioso e inter-etnico, iniziazione e inculturazione,
forme di evangelizzazione, la situazione politica e sociale del paese. L'atto di
chiusura del corso è stato caratterizzato dalla Concelebrazione Eucaristica
presieduta da Sua Ecc. Mons. José Câmnate na Bissign, Vescovo di Bissau,
mentre il Vescovo di Bafatà, Mons. Carlos Pedro Zilli, si è rivolto ai nuovi
missionari esortandoli a sentirsi sempre inviati, cercando di condividere nelle
comunità più la loro presenza che le cose materiali. Alla vigilia
dell'apertura del corso per i nuovi missionari, la Chiesa della Guinea Bissau
aveva vissuto un evento di gioia e di intensa preghiera per l'ordinazione
sacerdotale di p. Gaudêncio Francisco Pereira, 35 anni, primo sacerdote della
Guinea-Bissau ad essere ordinato nel PIME (Pontificio Istituto Missioni Estere),
e 2º africano per l'istituto. L'ordinazione è stata celebrata nella parrocchia
di Nossa Senhora de Fátima, il 31 luglio, presieduta dal Vescovo di Bissau,
Mons. José Câmnate na Bissign. Gaudêncio Pereira proviene da una famiglia
religiosa. Un anno dopo aver ricevuto il battesimo, nel 1996, è entrato nel
Seminario minore São Kizito, quindi ha deciso di entrare nel PIME. Ha studiato
filosofia e teologia in Brasile e in Italia. I missionari del PIME sono presenti
in Guinea-Bissau dal 1947. (SL)
Soprusi e conversioni forzate per oltre 4mila cristiani dell'Orissa
di Santosh
Digal
AsiaNews - Bhubaneswar - 3 settembre 2010
In
20 villaggi del distretto di Kandhamal, già colpiti dai pogrom anticristiani
del 2008, la comunità indù impedisce ai cristiani di partecipare alla vita
sociale. Vietato anche l'uso di fontane pubbliche e della legna dei boschi.
Arcivescovo di Cuttack - Bhubaneswar: "Essi hanno diritto a vivere una vita
dignitosa e il governo dell'Orissa ha l'obbligo di proteggere i cristiani da
questi trattamenti disumani".
A
due anni dai pogrom anticristiani dell'Orissa, in 20 villaggi del distretto di
Kandhamal oltre 4mila persone soffrono ancora discriminazioni sociali e
conversioni forzate da parte della comunità indù. Oltre alla paura di minacce
e la totale esclusione dall'economia locale, ai cristiani è proibito anche
usare l'acqua delle fontane pubbliche e raccogliere legna nella foresta.
In
una conferenza avvenuta lo scorso 30 agosto, mons. Raphael Cheenath,
arcivescovodi Cuttack - Bhubaneswar, ha affermato: "La gente vive ancora
nella miseria. Hanno diritto a vivere una vita dignitosa e il governo
dell'Orissa ha l'obbligo di proteggere i cristiani da questi trattamenti
disumani".
Il
prelato ha invitato le autorità locali a risarcire le persone colpite dai
pogrom rimaste senza abitazione, denunciando l'insufficienza delle compensazioni
erogate finora. A tutt'oggi l'entità dei risarcimenti è stata di circa 800
euro, per le case completamente distrutte, e di 300 euro per quelle parzialmente
danneggiate.
"Lo
Stato - ha continuato mons. Cheenath - dovrebbe aumentare i finanziamenti, da
800 euro ad almeno 3mila a seconda del danno. Solo così, potranno essere
ricostruite chiese, scuole, sedi di organizzazioni e istituti".
L'arcivescovo ha aggiungeto che "è stata fatta un'assegnazione arbitraria
dei finanziamenti, senza consultare le vittime e le loro esigenze."Circa
12.500 persone - ha affermato -hanno fatto ritorno nelle proprie abitazioni, ma
ve ne sono ancora 17.500 rimaste senza una casa e che attendono di essere
risarcite".
Tra
dicembre 2007 e agosto 2008, gli estremisti indù hanno ucciso 93 persone,
bruciato e depredato oltre 6500 case, distrutto oltre 350 chiese e 45 scuole. A
causa dei pogrom, oltre 50mila persone sono rimaste sfollate. A tutt'oggi, gran
parte degli autori dei crimini è in libertà e al processo presso il tribunale
di Kandhamal i testimoni sono stati messi a tacere, con minacce e
discriminazioni. Dal 22 al 24 agosto vittime, attivisti per i diritti umani e
leader religiosi hanno organizzato un tribunale popolare a New Delhi, per fare
luce sui fatti e sollecitare l'intervento del governo centrale indiano.
Le rivelazioni di Mousavi, una minaccia per il governo?
www.ipsnews.net - San Francisco - 26 agosto 2010
In
risposta alle critiche del governo iraniano, il leader dell'opposizione Mir
Hossein Mousavi ha detto più volte negli ultimi mesi che avrebbe rivelato
"segreti mai divulgati" risalenti al periodo del suo mandato.
Mousavi
è stato primo ministro dell’Iran dal 1981 al 1989, fino a quando modifiche
costituzionali abolirono la carica, e candidato dell'opposizione nelle
controverse elezioni presidenziali iraniane dello scorso anno.
Secondo
Abolhassan Banisadr, il primo presidente iraniano dopo la Rivoluzione Islamica
che oggi risiede in Francia, la vita di Mousavi è in pericolo: "Molte
delle persone che in passato hanno avuto accesso ai segreti del regime o hanno
tentato di rivelarli, sono state uccise”. Il mese scorso, Banisadr ha
pubblicato sul suo sito web, Enghelabe-Eslami, la lettera di dimissioni di
Mousavi del 1988, indirizzata all'allora Presidente Seyed Ali Khamenei, oggi
Leader Supremo dell'Iran. Il documento non ha suscitato nessuna reazione né di
Mousavi né delle autorità governative iraniane.
Nella
lettera, Mousavi parla di attività terroristiche svolte all'estero, di cui a
suo dire il governo non era a conoscenza. La ragione delle dimissioni, spiega,
sarebbe stata l'impossibilità di esercitare le proprie funzioni:
"Le
operazioni all'estero… si svolgono senza che il governo ne sia informato. Lei
conosce meglio [di me] le conseguenze catastrofiche e inauspicabili per il
paese. Veniamo informati solo dopo che un aereo è stato dirottato, o che una
mitragliatrice ha aperto il fuoco sul Libano. Io vengo informato solo dopo che
ordigni sono stati lanciati contro i nostri pellegrini a Jeddah. Purtroppo…
queste operazioni possono avvenire in qualunque luogo e momento a nome del
governo", scriveva Mousavi.
Molti
intellettuali e politici iraniani hanno chiesto a Mousavi di esprimere la sua
opinione e spiegare il suo ruolo nelle esecuzioni di massa di migliaia di
prigionieri politici avvenute nel 1988.
Di
recente, in occasione del Reporters' Day in Iran, ha dichiarato:"Dobbiamo
guardare ai fatti del 1988 da un punto di vista storico e poi chiedersi: il
governo ne era a conoscenza? Ha avuto un ruolo negli eventi? Poteva interferire
in qualche modo? C'è qualche riferimento al governo nei documenti e nelle
sentenze?”.
Banisadr,
primo presidente iraniano eletto nel 1980, è fuggito a Parigi dopo essere stato
messo sotto accusa dal Parlamento iraniano nel 1981. In un'intervista ha parlato
dell'autenticità della lettera, dei pericoli che corre Mousavi dopo aver
minacciato di svelare i segreti del suo mandato e dell’importanza delle
rivelazioni sulle esecuzioni di massa del 1988. Alcuni estratti
dell’intervista:
D:
Come ha avuto accesso alla lettera?
R:
La lettera era stata pubblicata nel 1988. La sua autenticità è stata
confermata da alcune ricerche, e lo stesso Mousavi non l’ha mai smentita in
tutti questi anni.
D:
Qual era l'obiettivo di chi le ha consegnato il documento?
R:
All'epoca ipotizzammo che la lettera provenisse dall'ufficio di [Ruhollah]
Khomeini. Potrebbe averla diffusa lo stesso Mousavi. Oppure Khamenei, per
mettere Mousavi in cattiva luce davanti a Khomeini per aver rivelato i segreti
del regime.
D:
Diversi funzionari di governo hanno detto di non voler rivelare alcuni segreti.
Pensa che rivelarli avrebbe un impatto sulla politica interna dell’Iran?
R:
Diverse persone sono state assassinate per impedire la divulgazione di alcuni
segreti. Ad esempio, gli omicidi nella cospirazione della “sorpresa
d’ottobre”, o la storia degli accordi segreti sulla liberazione degli
ostaggi americani. In Iran, Mehdi Hashemi, Omid Najafabadi e i loro colleghi
sono stati uccisi a causa delle notizie pubblicate sull’Irangate [o affare
Iran-Contras].
D:
Perché le autorità iraniane sono preoccupate per le possibili rivelazioni di
Mousavi?
R:
Minerebbe la loro legittimità la loro legittimità a livello nazionale e
regionale tra i paesi islamici.
D:
Ci sono crescenti pressioni intorno alle dichiarazioni di Mousavi sulle
esecuzioni politiche del 1988, uno dei periodi più bui dell’Iran. Che effetti
avrebbero su di lui?
R:
È sicuramente pericoloso. L'importanza di Mousavi per questo regime non è
maggiore di quella di Ahmad Khomeini [figlio dell’Ayatollah Khomeini]. Ahmad
Khomeini aveva molte informazioni, suo figlio lo ha definito il depositario dei
segreti del regime. Quando ha iniziato a fare rumore è stato eliminato. Io
credo che invece di minacciare di parlare, dovrebbe semplicemente rivelare ciò
che sa, come ho fatto io. Questo potrebbe salvargli la vita, perché se
volessero fargli del male il popolo iraniano e il mondo intero saprebbero perché.
D:
Perché l'autenticità della lettera di Mousavi non è stata negata dalle
autorità iraniane?
R:
Perché è autentica. Se ammettessero il loro coinvolgimento negli eventi,
dimostrerebbero al mondo di essere davvero un governo terrorista. Se lo
negassero, il mondo non gli crederebbe, perché quei fatti sono realmente
accaduti. L'unica dichiarazione fatta in passato era che alcuni agenti sleali
avevano fatto cose di cui il regime non era a conoscenza. Oggi, un ex primo
ministro sta dicendo che il regime sapeva e che gli agenti eseguivano gli
ordini.
D:
Perché a Mousavi non è successo nulla, mentre il nipote è stato ucciso prima
delle elezioni lo scorso anno?
R:
La ragione principale è che Mousavi e [Mehdi] Karroubi erano candidati alla
presidenza, al momento della grande frode elettorale, e il movimento di protesta
si è formato per opporsi ai risultati del voto. Questo movimento non è solo
iraniano, ha coinvolto l'opinione pubblica mondiale.
D:
Ma ci sono stati tantissimi morti, e si è detto che i responsabili erano
organizzazioni come il M.E.K. o i rivoltosi.
R:
Queste persone non avevano lo stesso peso dei due candidati presidenziali, che
si è mantenuto anche dopo le elezioni. Gli arresti non avrebbero comportato una
scarsa credibilità, piuttosto il contrario.
È
stato recentemente pubblicato uno scritto di Khamenei, secondo cui i due
candidati potrebbero essere arrestati in qualunque momento; ma lui vuole
convincere la popolazione che Mousavi and Karroubi non sono ciò che sembrano.
D:
Cosa accadrebbe se in Iran si parlasse di un tema come quello delle esecuzioni
di massa del 1988? Considerando che oggi l'Ayatollah Khomeini non c’è più...
R:
Avrebbe un forte impatto. Khomeini aveva scritto una nota in cui diceva di
giustiziare i prigionieri rispondendo semplicemente con un "sì" o con
un "no". Si sa che tre persone erano state incaricate di svolgere
questo compito. E c'era chi incoraggiava Khomeini a farlo, anche se lui non
aveva bisogno di incoraggiamenti. Chi era stato? Khamenei era il presidente e
Hashemi Rafsanjani il portavoce del Parlamento [Majlis].
Quindi,
è chiaro che queste due figure non si opposero minimamente all’esecuzione.
Avevano incoraggiato e convinto loro Khomeini a commettere quel crimine? È
fondamentale chiarire questo punto. Perché? Da oggi uno di loro è il Leader
supremo, e l'altro è il capo dell’Assemblea degli esperti e capo del
“Consiglio per il discernimento”. Mousavi era primo ministro. Era a
conoscenza dei fatti oppure no? Era d' accordo o no? © IPS(FINE/2010)
It's Over
di Luca Galassi
PeaceReporter
- 1 settembre 2010
Niente
'mission accomplished', ma un sospiro di sollievo per Obama. L'intervento del
generale Mini
Missione
tutt'altro che compiuta. Le truppe americane lasciano l'Iraq, ma nel suo
discorso alla nazione il presidente Obama si guarda bene dall'usare la
terminologia del suo predecessore. Nel 2003 George W. Bush lanciò il
propagandistico slogan dalla portaerei 'Lincoln': "Mission
accomplished". Oggi Obama parla con sobrietà e cautela da uno Studio Ovale
completamente rinnovato (solo la scrivania è rimasta la stessa), e usa toni che
non hanno nulla di trionfalistico. "Un sacrificio enorme", pagato a
caro prezzo con oltre quattromila morti.
La
chiave di lettura del ritiro, secondo il generale Fabio Mini, è proprio nel
fattore umano. Il teatro di guerra internazionale coinvolge troppi fronti, le
truppe sono stanche e stressate. Sarebbe irresponsabile stiracchiare
ulteriormente una coperta già abbastanza corta.
"Obama
ha accuratamente evitato di dire che la missione è compiuta. La missione è
conclusa, e per dirlo il presidente Usa ha utilizzato le parole 'it's over'. E'
finita, quasi con un sospiro di sollievo. Era una promessa che Obama aveva fatto
al momento del suo insediamento: riportare a casa le truppe dall'Iraq lasciando
nel Paese mediorientale una situazione ragionevolmente sicura. Quello che aveva
promesso è stato, diciamo così, mantenuto".
A
che prezzo?
Il
punto è questo. In una lettera invita ai cittadini che lo sostengono,
all'interno di una mailing list selezionata, Obama parla della missione per il
dieci percento. Per il novanta percento, invece, spiega come la nazione si debba
occupare dei soldati che sono tornati in patria. Ovvero come fare ad assistere
le vittime da stress post-traumatico.
Già
il mese scorso Obama aveva parlato di un 'dovere solenne', quello di aiutare i
veterani colpiti da stress post-traumatico.
Proprio
nella lettera in questione, Obama parla della necessità imprescindibile di
prendersi cura dei soldati. Non dice che i soldati rientrati o che rientranno
dovranno poi andare in Afghanistan. La cosa verrà comunque fatta, ma di
ricambio Obama non ha parlato affatto. Ha invece parlato di problemi di
reinserimento dei soldati nella società, degli aiuti e del sostegno sociale e
sanitario da offire sia a loro che alle loro famiglie.
Perché
secondo lei Obama ha messo l'accento in maniera così forte su questo problema?
Mi
fa venire qualche dubbio sul fatto che la politica in Afghanistan sia quella di
inviare più uomini.
Addirittura?
Mi
fa pensare che Obama non abbia più a disposizione uomini 'equilibrati' per il
Medio Oriente. Ho l'impressione che in campo internazionale gli americani stiano
prosciugando le risorse, raschiando il fondo del barile come si suol dire.
Secondo me hanno dati importanti sullo stress delle truppe di ritorno
dall'Afghanistan e dall'Iraq. Non ci sono più le forze per sostenere operazioni
serie e prolungate, e la Casa Bianca lo sa.
E'
una chiave di lettura diversa da quella politica, o meglio, geopolitica...
La
chiave di lettura per l'Iraq è questa: partiamo dal Sofa (Status of Forces
Agreement). Si tratta di un accordo sullo status delle forze militari. Era da
decidere tra iracheni e americani chi sarebbe rimasto lì. Gli iracheni sono
riusciti a imporre una terminologia, all'interno del Sofa, secondo la quale gli
americani erano occupanti e se ne dovevano andare entro il 2011. Gli iracheni
hanno vinto una battaglia di dignità, imponendo il Sofa. Punto secondo: gli
americani se ne sono andati secondo il calendario del Sofa, stabilito e regolato
dagli stessi iracheni. E soprattutto se ne sono andati senza poter reclamare
vittoria. La parola non era: abbiamo vinto, con tutta la retorica di Bush, ma
sono state due paroline veramente significative: It's Over, è finita. Di questi
tempi, la frase 'it's over' è già una vittoria. Il che è tutto dire sulla
capacità attuale degli Usa di portare avanti una guerra prolungata.
Il
grande ritiro Usa di Carlotta Caldonazzo
Il Manifesto - 1 settembre 2010
Ma
a quasi sei mesi dalle elezioni ancora non c'è un governo
Il
premier Al Maliki: «Ora siamo un paese sovrano e indipendente»
«L'Iraq
e il suo popolo sono riusciti a chiudere il capitolo della guerra settaria che
non si riaprirà, non lo permetteremo, perché gli iracheni vivano in un paese
sovrano e indipendente, soddisfatti del fatto che le nostre forze di sicurezza
sono in grado di assumersi la responsabilità».
Con
questo messaggio trasmesso dalla tv locale al-Iraqiya, il primo ministro
iracheno Nuri al-Maliki ha commentato la fine ufficiale della missione militare
statunitense, celebrata dalla visita ufficiale del vice presidente americano
Joseph Biden - anche se, partite le «truppe combattenti»,restano ancora 50mila
soldati Usa in Iraq.
Al-Maliki
ha dato un'immagine rosea del futuro: le relazioni tra Iraq e Stati Uniti, ha
detto, saranno ormai relazioni tra due stati sovrani. Rispondendo indirettamente
a chi avanza dubbi sulla capacità delle forze di sicurezza irachene, ha
aggiunto che queste «giocheranno un ruolo di primo piano nel consolidare la
sicurezza del paese, sconfiggendo tutte le minacce che l'Iraq affronterà,
esterne e interne». Questo non significa che non ci saranno più attacchi
terroristici, ha precisato ieri in un'intervista al quotidiano libanese
al-Akhbar, perché «nessuno riesce a fermarli una volta per tutte, neanche le
truppe americane». Aggiunge che la soluzione non sono le truppe regolari ma
l'intelligence, oltre alla riconciliazione nazionale e all'impegno continuo «contro
al-Qaeda e i fuorilegge». Gli attacchi degli ultimi giorni rappresentano,
secondo al-Maliki, solo il colpo di coda dei «terroristi», anche so proprio
ieri il «Fronte per il jihad e il cambiamento» ha affermato che il ritiro
delle truppe americane è dovuto soltanto alla sua resistenza armata, che
continuerà per «liberare l'Irak» da un'occupazione che non è solo militare
ma anche «politica ed economica».
Altrettanto
ottimista si è detto al-Maliki sulla formazione del nuovo governo, nonostante
il perdurare della crisi istituzionale e delle divergenze nel parlamento a quasi
sei mesi dalle elezioni. I contrasti, secondo quanto ha dichiarato ad al-Akhbar,
non riguardano chi sarà primo ministro, ma «la forma dello stato», la
sicurezza e le relazioni interne ed estere e l'importante è tenere «la porta
aperta a tutte le parti in causa».
Per
delineare una via verso la formazione del governo il vicepresidente Biden ha
incontrato ieri il leader dell'Alleanza Nazionale Irachena, Iyad Allawi e altri
membri della stessa coalizione. Per oggi sono previsti invece incontri con
l'Alleanza Patriottica del Kurdistan a Irbil, per discutere il peso dei curdi
nella formazione del nuovo governo. Tuttavia Aliya Nssayef, membro di
al-Iraqiyah, ha dichiarato ieri all'agenzia irachena Aswat al Iraq che il
problema non è tanto la divisione dei poteri in termini di avvicendamento,
quanto piuttosto trovare un equilibrio per integrare tutte le forze politiche in
uno stesso governo. Il cammino per uscire dalla crisi istituzionale in corso si
profila dunque ancora lungo. L'Alleanza Nazionale Irachena ha dichiarato proprio
ieri di non ritenere al-Maliki capace di portare avanti un programma degno di un
governo forte, proponendo dunque all'Alleanza Stato di Diritto la scelta di un
altro candidato.
A
proposito di accordi esterni, nel suo discorso al-Maliki ha invitato i paesi
vicini a sostenere l'Iraq sul piano della stabilità e nella lotta contro il
terrorismo. Un messaggio (a proposito di accordi interni) quasi opposto a quello
pronunciato dal ministro degli esteri iracheno Hoshiyar Zebari, che attraverso
l'agenzia britannica Reuters ha avvertito che in caso di «problemi» spetterà
soltanto agli iracheni risolverli.
Intanto
il quotidiano inglese Daily Telegraph ha pubblicato ieri inteviste a diversi
cittadini iracheni e a un capo tribù, preoccupati dal ritiro americano - simili
timori aveva espresso in una recente intervista l'ex ministro degli esteri
iracheno Tareq Aziz. Shaykh Mohammed Naji ad esempio aveva guidato la sua tribù
nella resistenza contro l'invasione» statunitense a Falluja, perché era una «questione
d'onore». Ora vorrebbe che le truppe americane non andassero via, perché il
paese rischia di finire nelle mani di «nemici» come «al Qaeda, il governo
iracheno e i chierici iraniani». Prove tecniche di indipendenza, compresa la
paura del futuro.
Con la Libia profitti e ipocrisia, la denuncia dei missionari
Misna
- 1 settembre 2010
"Un
trattato di ipocrisia firmato dal sangue dei migranti e dalla complicità degli
interessi economici bilaterali": la Conferenza degli istituti missionari
italiani (Cimi) definisce in questi termini l'accordo "di amicizia"
italo-libico celebrato nei giorni scorsi con una visita a Roma del colonnello
Muammar Gheddafi. "Come missionari - si afferma in una nota diffusa dalla
Commissione giustizia e pace della Cimi - non ci riconosciamo in questo
'trattato di amicizia', che è in realtà un'associazione a delinquere di stampo
liberista". In primo piano la critica agli accordi sulle politiche
migratorie, che hanno per altro consentito alla Marina militare e alla Guardia
costiera italiane di respingere in Libia decine di barconi carichi di migranti.
Nel documento della Cimi si denuncia che nei rapporti tra Roma e Tripoli l'unica
legge a essere rispettata "è quella del profitto economico". Durante
la visita a Roma, che si è conclusa ieri, Gheddafi ha incontrato più volte
dirigenti e manager delle più importanti aziende d'Italia, dalla banca
Unicredit al gruppo energetico Eni al fornitore di tecnologie militari
Finmeccanica.[VG]
Trattato
italo-libico firmato con il sangue dei migranti
Nigrizia
- 1 settembre 2010
Interviene
la Commissione giustizia e pace degli istituti missionari in Italia
Secondo
i missionari italiani, si tratta di un accordo che bada solo al tornaconto
economico. Critiche anche al Meeting di Rimini.
Chiuso
il sipario sulla visita di Gheddafi in Italia, c'è da registrare una dura presa
di posizione della Commissione giustizia e pace della Conferenza degli istituti
missionari in Italia (Cimi).
"Come
missionari - si legge nel comunicato - non ci riconosciamo nel "trattato di
amicizia" tra Italia e Libia. In realtà è un'associazione a delinquere di
stampo liberista. È un trattato di ipocrisia firmato dal sangue dei migranti e
dalla complicità degli interessi economici bilaterali. Sotto i riflettori della
vergogna che sembra avere abbandonato la nostra politica. Nella totale impunità
e sotto la plaudente assemblea di Rimini, quindi di parte del popolo cristiano,
hanno fatto passerella i fautori di questo accordo".
E
ancora: "Come missionari ci dissociamo da questa vergogna e dalle menzogne
dei ministri che dicono di rispettare la legge. L'unica ad essere rispettata è
quella del profitto economico. Non siamo complici di ciò".
I
missionari rimandano anche alla lettera-documento, intitolata "Non possiamo
tacere", in cui viene fatta una puntigliosa analisi del fenomeno migratorio e delle
inadeguate leggi italiane.
Lunedì
scorso, in merito alla dichiarazione di Gheddafi sull'Europa "che deve
convertirsi all'islam" si era espressa la presidenza della
Cimi.
Cenerentola
d'Europa nel sostegno alle famiglie
Famiglia
Cristiana - 5 settembre 2010
Adesso
che le elezioni anticipate appaiono scongiurate, il Governo s'appresta a portare
in Parlamento un'agenda di cinque punti su cui chiedere la fiducia. Il piatto
forte, naturalmente, è la giustizia. O meglio, il "processo breve"
che, per renderlo meno indigesto all'opinione pubblica, si chiamerà
"processo in tempi ragionevoli". E che avrà una corsia preferenziale,
grazie a risorse e investimenti straordinari. Da reperire, a ogni costo, sia
pure in tempi di ristrettezze.
Ma
a settembre, con la ripresa scolastica, le famiglie avranno altre priorità:
lavoro e lotta alla povertà, innanzitutto. Le fabbriche riaprono i cancelli, ma
circa cinquecentomila posti sono a rischio. E qualche azienda, da subito, non
aprirà nemmeno i cancelli. Al ministero dello Sviluppo, dove da mesi si è in
attesa di un nuovo ministro, più di duecento tavoli di crisi sono aperti. E non
se ne vede la soluzione.
Sul
fronte della famiglia, dopo tante promesse e qualche timida apertura sul
quoziente famigliare, tutto si è arrenato. Per i politici il benessere della
famiglia non è bene prioritario, ma merce di scambio, in una logica mercantile
che mira ad interessi di parte e non al bene comune. A ricordarci questo
disinteresse, che ha radici lontane e riguarda tutti i partiti, è il ministero
dell'Economia. L'Italia è la cenerentola dell' Europa, fanalino di coda nel
sostegno alle famiglie. Dedica alla spesa familiare solo l'1,4 per cento del
Prodotto interno lordo, contro una media europea del 2,1 per cento e punte del
3,7 in Danimarca. Nel welfare familiare ci superano Paesi come Cipro, Estonia e
Slovenia. Peggio di noi fanno solo Malta e Polonia.
La
Francia, che potrebbe esserci d'esempio, ha invertito il declino demografico con
una politica amica della famiglia e dei bambini. Con servizi e sussidi alla
maternità, asili nido, sgravi fiscali per baby-sitter, agevolazioni sugli
affitti per le case degli studenti e sconti sui treni per famiglie numerose. I
tagli e i risparmi si fanno altrove, su privilegi e sprechi della casta. Non
sulla famiglia.
Il
mancato investimento sulla famiglia blocca anche la ripresa e la crescita
economica. Ne è convinto Ettore Gotti Tedeschi, presidente dello Ior, che
propone un patto a livello europeo, che vincoli i Paesi dell'Unione a destinare
il 3 per cento del Pil alle famiglie; che obblighi i Governi a investire nelle
politiche di accesso dei giovani al lavoro (rapido, stabile e ben remunerato); e
che permetta alle famiglie di dedurre le spese per la formazione dei figli.
Ricorda il presidente dello Ior: "I figli producono crescita, ricchezza e
risparmi. La famiglia che forma i suoi figli e assiste i suoi anziani fa
welfare, con meno costi per lo Stato. Non capire questo è stato un grave errore
economico, cui si aggiunge quello morale: la tendenza progressiva a scoraggiare
la famiglia tradizionale". Altro che "processo breve". O meglio,
"in tempi ragionevoli.
Il Colonnello e il Cavaliere
di Christian Elia
PeaceReporter - 27 agosto 2010
Il
secondo anniversario del trattato italo libico è un'occasione per
nuovi, lucrosi, affari. Sulla pelle dei migranti e in barba alla Lega
Nord
L'ultima
trovata arriva al mattino, con caffè e giornali. una lezione di Islam a
uso e consumo della squadra di hostess che il governo italiano gli ha
fatto trovare a Roma. Questa offusca quella dei passaporti libici che verranno stampati in futuro avranno, tra le immagini olografiche, la stretta di mano tra Gheddafi e Silvio Berlusconi che il 30 agosto 2008 ha sancito (a Bengasi) la firma del Trattato di Amicizia Italia - Libia. In
occasione del secondo anniversario dell'accordo, il leader libico restituisce la
visita ricevuta dal premier italiano l'anno scorso. Quest'anno, come un anno fa,
i media saranno rapiti dal corollario di trovate che caratterizzano i viaggi del
colonnello Gheddafi: tende beduine nel cuore di Roma, squadre di cavalieri arabi
in abiti tradizionali e il corpo di guardia tutto al femminile del leader
libico. |
Una
sorta di cortina di fumo che, alimentata dalle costanti dichiarazioni di amore
eterno tra i due personaggi politici, nasconde tutta una serie di elementi ben
più interessanti della nuova stagione di relazioni tra l'Italia e la Libia
inaugurata due anni fa.
Per
cominciare l'alta, anzi, altissima finanza. Berlusconi, in tempo di crisi
politica, ha una nuova gatta da pelare. Il rapporto della Consob, l'organismo di
controllo della Borsa italiana, ha rilasciato una nota il 4 agosto scorso nella
quale rendeva noto che la Libia possiede il 6,7 percento di Unicredit. Per la
precisione, il 4,6 con la Banca centrale di Tripoli e il 2,1 con la Libyan
Investment Authority, società controllata dal governo libico. I gerarchi della
Lega Nord non l'hanno digerita: l'incubo della scalata araba (e islamica) a uno
dei principali istituti di credito italiano è un problema per un partito che
della barriera anti islamica ha uno dei temi di fidelizzazione del suo
elettorato. Come spiegarlo ai militanti, gli stessi aizzati al grido di
''bruceremo le loro palandrane'' (deputato Mario Borghezio, piazza Duomo a
Milano)?
''Basta
sospetti sui soldi arabi. La Libia non ha alcuna intenzione di scalare
Unicredit. I soci arabi non vanno trattati diversamente dagli altri'', ha detto
il finanziere franco-tunisino Tarek Ben Ammar, ritenuto da molti osservatori
l'architetto della svolta di due anni fa nei rapporti italo-libici. Un
Berlusconi in miniatura, questo Ammar. Produttore cinematografico, anche della
contestata Passione di Cristo di Mel Gibson, proprietario di una delle più
grandi aziende di comunicazione in Francia, ma anche ex manager di Michael
Jackson e proprietario del canale tv Sportitalia. Cariche e affari che gli sono
valsi un posto nel consiglio di amministrazione di Mediobanca, la centrale
operativa della finanza italiana.
Per
convincere la Lega a sorridere all'ospite scomodo servirà una delle trovate di
Berlusconi. L'uomo giusto ha già un nome: Massimo Ponzellini. Presidente della
Banca Popolare di Milano e di Impregilo, il colosso delle costruzioni, che guida
la truppa di ventuno aziende italiane che hanno presentato la loro candidatura
per la costruzione dell'autostrada costiera (1700 chilometri) in Libia. Un
appalto enorme, sul quale si pronuncerà la commissione mista italo-libica il 30
ottobre prossimo. Il Trattato del 2008, infatti, prevede un risarcimento per i
danni di guerra del periodo coloniale italiano in Libia di 5 miliardi di
dollari. Una fetta di questa soldi, andrà all'azienda che costruirà l'arteria
di comunicazione che congiungerà i due punti estremi della costa libica.
Ponzellini è considerato molto vicino alla Lega e la banca che presiede sembra
sempre più indicata come quella 'banca padana' che la Lega Nord cerca da anni.
La
Lega, di Gheddafi, non si fida. L'ultima frizione è giunta il 25 luglio scorso,
quando il leader libico ha ordinato la liberazione dei circa tremila migranti
rinchiusi nelle carceri libiche. Almeno duecento di questi, sono stati vittime
dei respingimenti in mare dell'Italia che, in violazione del diritto
internazionale, ha applicato una delle clausole del Trattato che prevede
l'intercettamento in acque internazionali dei migranti partiti dalla Libia e il
riaccompagnamento coatto sulle coste di partenza, senza identificarli e senza
verificare se a bordo ci siano persone che possono chiedere lo status di
rifugiato politico. Ed ecco che etiopi, eritrei e somali sono stati sbattuti
nelle fatiscenti carceri libiche, vittime di soprusi di ogni genere. Il
colonnello Gheddafi, messo sotto pressione dai media e dalle organizzazioni non
governative di tutto il mondo che si battono per il rispetto dei diritti umani,
li ha scarcerati, abbandonandoli al loro destino nel deserto. La Lega, che ha
sempre accusato Gheddafi di usare i migranti come elemento di pressione
sull'Italia, non ha gradito.
Gli
affari tra l'Italia e la Libia, però, sono un bel bottino. Solo l'Eni, il
gigante energetico guidato da Paolo Scaroni, ha in cantiere nuovi investimenti
per 25 miliardi di euro, come annunciato dallo stesso Scaroni nei giorni scorsi.
Gli affari diretti tra Berlusconi e Gheddafi, poi, non sono da meno. Un articolo
pubblicato dal quotidiano britannico The Guardian aveva un titolo chiaro: ''The
Gaddafi-Berlusconi connection''. Secondo l'autore, una società libica chiamata
Lafitrade ha acquisito il dieci per cento della Quinta Comunication, di Tarak
Ben Ammar (ancora lui). La Lafitrade è controllata da Lafico, il braccio
d'investimenti della famiglia Gheddafi. Un altro partner di Ben Ammar nella
Quinta Comunication è, con circa il ventidue percento, una società registrata
in Lussemburgo di proprietà della Fininvest, la finanziaria di Berlusconi. Non
basta: Quinta Comunication e Mediaset possiedono ciascuna il venticinque
percento di una nuova televisione via satellite araba, la Nessma Tv, che opera
anche in Libia.
Troppa
roba per lasciare che la Lega, per quanto sempre più influente nel governo
Berlusconi, si metta di traverso. D'altronde l'ossessione migrante dei leghisti,
sempre nelle clausole del Trattato, trova un'altra soddisfazione: l'accordo che
Finmeccanica, colosso italiano della produzione di armi e tecnologia
sofisticata, tramite la controllata Selex Sistemi Integrati, ha firmato con la
Libia per un valore di trecento milioni di euro. La commessa prevede la
costruzione di un grande sistema di protezione e sicurezza dei confini libici,
in particolare quelli con Niger, Ciad e Sudan da dove arriva il grosso dei
migranti dall'africa subsahariana. L'appalto, come da Trattato, sarà finanziato
al 50 percento dai contribuenti italiani e al 50 percento dall'Unione europea.
A
volte basta un po' di buona volontà (e di soldi) per trovare un accordo.
«Li colpiremo ovunque»
di Pietro Calvisi
Il
Manifesto - 4 sttembre 2010
13
gruppi armati palestinesi legati a Hamas uniscono le forze e minacciano Israele.
Grandi
critiche per i negoziati di pace avviati sotto l'egida di Obama
Mentre
la diplomazia internazionale guarda con favore alla ripresa dei negoziati di
pace fra israeliani e palestinesi, che l'altro ieri si sono aperti a Washington,
il braccio armato del movimento estremista di Hamas, le Brigate Ezzedin
al-Qassam, annuncia la ripresa degli attacchi contro «gli occupanti sionisti».
Il portavoce dell'ala militare, Abu Obeidah, durante una conferenza stampa
tenuta ieri a Gaza ha così spiegato la decisione di innalzare il livello dello
scontro: «Annunciamo che siamo entrati in una nuova fase della resistenza
palestinese e si tratta di una fase avanzata del lavoro jihadista, che lascerà
il segno sul nemico occupante». Gli israeliani saranno colpiti, ha aggiunto
Obeidah, in «ogni luogo e in ogni momento», non solo con i razzi lanciati
dalla Striscia di Gaza, ma forse con il ritorno dei kamikaze.
Altri
dodici gruppi militari palestinesi hanno raggiunto un accordo di cooperazione
con le Brigate Ezzedin al-Qassam. Fra questi è presente la Jihad islamica e i
Comitati di resistenza popolare, già in orbita di Hamas, ma anche le Brigate
Saif al-Islam e le Brigate al-Ansar. C'è inoltre Humat al-Aqsa, una piccola
componente della nota formazione dei martiri di al-Aqsa, braccio armato di
al-Fatah, il partito del presidente dell'Autorità nazionale palestinese (Anp),
Abu Mazen.
«Il
30 agosto - ha concluso Obeidah - abbiamo deciso di creare un centro di
coordinamento per le nostre operazioni contro il nemico». L'escalation dello
scontro dovrebbe portare il caos in Cisgiordania dove, secondo alcuni analisti,
alcune cellule dormienti vicine ad Hamas potrebbero rientrare in azione, così
come è accaduto pochi giorni fa con l'attacco ad Hebron, dove sono rimasti
uccisi quattro coloni israeliani. La colonnina di mercurio sale anche nei
rapporti interni fra palestinesi. Da Gaza Khalil al-Haya, dirigente di Hamas, ha
a detto che se Abu Mazen, dovesse fare delle concessioni a Tel Aviv «le teste
dei dirigenti dell'Anp saranno calpestate dai miliziani di Hamas». Dello stesso
tono le dichiarazioni di Khaled Mashaal, leader del movimento islamico, che da
Damasco ha accusato Abu Mazen di aver condotto la questione palestinese «al
mercato degli schiavi», nel momento in cui si è accettato di negoziare su
invito dell'inquilino della Casa bianca, Barack Obama.
I
venti di guerra intestina soffiano da Gaza in direzione della Cisgiordania,
tanto che Mahmud al-Zahar, uomo forte di Hamas nella Striscia, ha spiegato che
«la Cisgiordania dovrà essere liberata, così come fu liberata Gaza» nel
giugno del 2007. Il tam tam corre sulla rete dove, su diversi siti vicini al
gruppo radicale, le minacce contro i leader dell'Anp ormai non si contano. C'è
chi scrive che «Ramallah sarà una nuova Baghdad», dove i moderati
filo-occidentali saranno presi di mira e chi addirittura chiede «tribunali
popolari» per coloro che trattano con Israele. Dal canto suo l'Anp starebbe
correndo ai ripari con decine di arresti (secondo l'organizzazione umanitaria
Pchr sarebbero già 150) operati sui militanti di Hamas. Per il quotidiano
israeliano Haaretz, le voci di presunti finanziamenti provenienti dall'estero,
che sarebbero giunti nelle casse del movimento e che potrebbero essere
utilizzati per l'acquisto di armi da usare in Cisgiordania, avrebbe allertato la
polizia dell'Anp.
La
dura presa di posizione delle ali più radicali del movimento di liberazione
palestinese è arrivata appena cinque ore dopo la chiusura degli incontri tra il
premier israeliano. premier Benyamin Netanyahu, e Abu Mazen. Dopo venti mesi di
stallo i negoziati riprendono con i due leader decisi ad incontrarsi ogni due
settimane. Il prossimo appuntamento è fissato per il 14 e 15 settembre prossimo
a Sharm el Sheikh, in Egitto.
Le
difficili nozze in un campo minato di Fulvio Scaglione
Avvenire
- 4 settembre 2010
Primo
round di negoziati sul Medioriente
Essere
ottimisti sui colloqui di pace tra Israele e palestinesi, in una qualunque delle
infinite declinazioni a cui abbiamo assistito negli ultimi vent'anni, è sempre
stato il sistema più sicuro per passare da ingenui. Giusto quindi chiedersi:
perché dovremmo cambiare atteggiamento adesso? Perché Barack Obama dovrebbe
riuscire in ciò che non è riuscito ad altri presidenti americani, forse
persino più solidi di lui?
Proprio
in questo caso, invece, ci pare che essere almeno un poco fiduciosi sia la cosa
giusta da fare. Intanto per non ritrovarsi allineati con i disfattisti di
professione, quelli appunto impegnati a distruggere, dagli assassini che
fiancheggiano Hamas ad Ahmadinejad ai fanatici che vorrebbero solo cacciare
tutti i palestinesi e farli deportare altrove. Ma poi, e più concretamente,
perché questo inizio di dialogo tra israeliani e palestinesi già cambia un
poco le cose per il solo fatto di essersi manifestato.
Da
20 mesi le due parti non si parlavano, ora lo fanno. Sarà una scena già vista
e stravista, con altri nomi e altri volti, ma quella in cui Netanyahu e Abu
Mazen si stringono la mano sta già facendo il giro del mondo.
Dietro
quella foto c'è un fatto sostanziale: il rinnovato impegno della Casa Bianca.
Quando si giudica con scetticismo e ironia quanto sta avvenendo, si dimentica un
dato fondamentale: per dieci anni gli Usa si sono totalmente disinteressati
della questione, accettando così il lento degenerare di un equilibrio che
comunque non piaceva ad alcuno. George Bush andò in Israele per la prima volta
a pochi mesi dalla scadenza del secondo mandato, una visita di protocollo a un
vecchio e tradizionale alleato da cui, infatti, non uscì nulla. Obama accetta
le insidie dell'ennesima sfida mediorientale proprio nel momento per lui più
difficile, di fronte a un elettorato che per il 18% ancora lo considera di
religione musulmana ed è dunque gonfio di pregiudizio. Un fallimento dei
colloqui sarebbe pericoloso per tutti ma mortale per Obama il quale, a questo
punto, dovrà gettare tutto il peso diplomatico degli Usa nella trattativa.
Dal
punto di vista politico è una specie di 'vincere o morire' che,
paradossalmente, conforta nell'ottimismo. La difficoltà maggiore, in Israele e
Palestina, non è far passare l'idea della pace. La mission impossible finora è
stata far capire che per arrivare alla pace, cioè a un guadagno per tutti, sono
necessari sacrifici da parte di tutti. Nessuno vuol fare la prima concessione e
il risultato qual è? I palestinesi sono spaccati in due, tra Gaza e
Cisgiordania, Hamas e Al Fatah, una maggioranza che ha ormai accettato l'idea di
Israele e una minoranza armata tuttora convinta che Israele potrà un giorno
essere cancellato. Israele si ritrova oggi con una minoranza ultraortodossa
molto agguerrita e folta, ostile alla prospettiva di uno Stato palestinese e
capace di condizionare le scelte del Paese. Oggi gli insediamenti non sono più
un'esigenza della sicurezza, ma la concessione da fare a una serie di potenti
gruppi di pressione.
Israeliani
e palestinesi potranno accettare quelle che Netanyahu ha definito ieri
"dolorose concessioni specifiche da entrambe le parti" solo se si
sentiranno costretti e insieme appoggiati dagli Usa e, per conseguenza, dalla
comunità internazionale. Obama e la Clinton provano a farlo ed è un'ottima
cosa. Intanto Netanyahu e Abu Mazen potranno utilmente segnarsi una celebre
frase di Shimon Peres, attuale presidente di Israele: "Il processo di pace
è come una notte di nozze in un campo minato". Vero. Ma o così o niente
nozze.
Esplode la rivolta del pane
di Stefano Liberti
Il
Manifesto - 4 settembre 2010
Scontri
in gran parte del paese. Almeno sette morti. Il governo: «Incremento dei prezzi
irreversibile». E si teme già una riedizione della crisi alimentare del 2008
Terzo giorno di scontri a Maputo e in altre città La gente protesta per
l'aumento dei generi alimentari
Tre
giorni di scontri. Folle inferocite. Almeno sette morti e quasi 300 feriti.
Questo il bilancio - ancora provvisorio - delle manifestazioni che stanno
infiammando le strade di alcune città del Mozambico. Proteste determinate
dall'aumento di alcuni generi di prima necessità, in primis il pane.
Tutto
ha avuto inizio mercoledì scorso nella capitale Maputo, quando gruppi di
giovani hanno dato fuoco a pneumatici e si sono scontrati con la polizia che
cercava di disperderli. Sono stati sparati lacrimogeni e pallottole di gomma.
Sette persone sono rimaste sul selciato. La rabbia è esplosa a causa
dell'aumento del 30 per cento del prezzo del pane imposto dal governo, in
seguito all'aumento del valore del grano sui mercati internazionali.
Ieri
la rivolta si è estesa ad altre città del paese, nello specifico a Chimoio,
760 chilometri a nord della capitale, dove ci sono stati alcuni feriti - di cui
due in gravi condizioni. A Maputo sono continuati gli scontri, anche se in tono
ridotto rispetto ai giorni precedenti. Ma non è da escludere una nuova fiammata
di violenza generalizzata nelle prossime ore: gli annunci del governo, che per
bocca del ministro del commercio e dell'industria Antonio Fernando ha detto che
«gli aumenti di prezzi sono irreversibili», non contribuiscono certo a placare
gli animi.
Dopo
i tumulti del 2008, quando in mezzo mondo centinaia di migliaia di persone sono
scese in strada per protestare contro l'aumento del prezzo di beni di prima
necessità (pane, ma anche riso), i moti di Maputo sono i primi di questo genere
nel 2010. Ma sono un segnale che altri paesi potranno seguire: alcuni elementi
congiunturali, come il blocco russo alle esportazioni di grano, hanno eccitato
gli speculatori e fatto schizzare alle stelle il valore di quella commodity alla
Borsa di Chicago, scatenando un meccanismo che, sia pure in dimensioni minori,
presenta notevoli analogie con la cosiddetta «crisi alimentare» del 2008.
Paese
con un tasso di crescita vicino al 10 per cento, il Mozambico non si è ancora
del tutto ripreso dai danni della lunga guerra civile, che si è conclusa
formalmente con gli accordi di Roma del 1992. Il tasso di disoccupazione
giovanile supera il 50 per cento. Il 70 per cento della popolazione vive al di
sotto della soglia di povertà. L'economia informale è l'unico orizzonte di
sopravvivenza per decine di migliaia di persone. L'aumento del prezzo del pane -
insieme alla perdita di valore del metical, la valuta nazionale, che ha ceduto
quest'anno il 33 per cento al rand sudafricano - hanno messo in ginocchio
diverse famiglie.
Dal
momento che il paese vive soprattutto di importazioni, i prezzi sono schizzati
rapidamente alle stelle per le due ragioni di cui sopra - l'aumento del valore
del grano e il deprezzamento del metical. Il governo ha affermato di voler
correre al riparo diminuendo la dipendenza dall'estero rispetto alla produzione
agricola. Ma proprio il Mozambico è uno dei paesi in prima linea nella
concessione di terre a investitori stranieri per un'agricoltura estensiva di
prodotti da destinare alle esportazioni, soprattutto colture da sfruttare per i
biocarburanti. Un fenomeno noto tra i suoi detrattori con il termine spregiativo
di land grabbing («accaparramento di terre») che ha scarsissime ricadute sulla
popolazione locale.
Aprendo
il paese agli investitori internazionali - e promuovendo la creazione di zone
industriali speciali dove aziende straniere possono produrre merci da esportare
o raffinare minerali estratti altrove - il governo ottiene sulla carta tassi di
crescita vertiginosi (il 9,5 per cento del primo trimestre 2010 è un record per
un paese non petrolifero). Ma trascura la quotidianità della stragrande
maggioranza della popolazione, che non gode dei benefici della crescita record.
Con
la conseguenza che la situazione finisce per esplodergli in mano. Ieri la Fiera
internazionale del commercio di Maputo (Facim), appuntamento importantissimo per
gli investitori stranieri, era deserta. La tensione per le strade ha spinto gli
ospiti a restare chiusi in albergo.
Emergenza continua
PeaceReporter - 30 agosto 2010
Duecentomila
sfollati, 80 mila capi di bestiame morti nelle inondazioni, raccolti
devastati, rischio epidemie: la cronaca di un disastro
Prima
la carestia, poi il diluvio ma il risultato è sempre lo stesso. In
Niger si muore in silenzio, nella disperazione di chi è stato
dimenticato. L'ufficio delle Nazioni Unite responsabile del
coordinamento degli interventi umanitari (Ocha) venerdì scorso stimava
intorno a duecentomila le persone sfollate a causa delle inondazioni, 90
mila delle quali solo nell'ultima settimana.
Emergenza nell'emergenza. E adesso il quadro è davvero drammatico.In Niger "ci sono almeno tre emergenze: la crescita esponenziale dell'insicurezza alimentare, quella nutrizionale - soprattutto per quanto riguarda i bambini con meno di cinque anni - e quella legata alla pastorizia con l'aumento della mortalità degli animali", ha detto John Holmes, Sottosegretario generale e Coordinatore delle attività di assistenza umanitaria degli Stati Uniti. |
E' un'emergenza nell'emergenza. Il Paese era già stato
duramente colpito da una spaventosa crisi alimentare; l'anno scorso le piogge
torrenziali avevano innescato una catena distruttiva:la devastazione dei
raccolti si è tradotta in poco cibo, anche per gli animali, che quindi sono
morti a migliaia, colpendo duramente un Paese la cui economia poggia ancora su
agricoltura e allevamento. Poi è arrivata la carestia.
Ancora
a metà agosto, il governo - che si è distinto positivamente nel panorama
africano per la percentuale del budget statale dedicata al potenziamento
dell'agricoltura - era impegnato nel contenimento dell'emergenza alimentare in
un quadro che complessivamente era comunque spaventoso, con gli ospedali che
registravano sei-settemila nuovi casi di bambini malnutriti ogni settimana. Metà
dei circa 15 milioni di nigerini sono a rischio fame, il 60 per cento della
popolazione vive con meno di un dollaro e un bambino su cinque muore prima di
aver compiuto cinque anni. Le organizzazioni umanitarie erano al lavoro per
distribuire aiuti: centri d'emergenza erano stati aperti in alcune delle regioni
più colpite, come Tahoua e Zinder ma poi sono arrivate le piogge: settimane di
precipitazioni intense da fine luglio che hanno distrutto i raccolti, demolito
strutture e ucciso circa 80 mila capi di bestiame. Le strade sono impraticabili,
regioni come Agadez (nord) e Diffa (sudest) sono completamente isolate e non
hanno ancora ricevuto assistenza; se si pensa che il 45 per cento della
popolazione vive ad almeno 10 chilometri dall'ospedale più vicino, si capisce
quanto sia difficile gestire questa emergenza. Se già prima si era ad un passo
dalla catastrofe, ora la situazione sembra fuori controllo.
Una goccia nel mare.
Si teme l'esplosione di epidemie, soprattutto tra i bambini
malnutriti, il cui numero negli ultimi mesi è aumentato a dismisura, nonostante
l'impegno delle agenzie umanitarie, il cui sforzo è titanico ma non regge di
fronte all'entità del disastro. Eppure nei mercati di cibo ce n'è ma è troppo
caro e rimane invenduto. Il governo nigerino ha già stanziato 200 mila dollari
per l'acquisto di cibo dall'estero da far arrivare alla popolazione affamata e
ha già distribuito 400 tonnellate di alimenti, ma si tratta di una goccia nel
mare. Secondo le stime del World Food Programme delle Nazioni Unite, per far
fronte al food gap (il cibo che serve per coprire i mesi che mancano al nuovo
raccolto), servirebbero 215 mila tonnellate di cibo solo per i mesi tra agosto e
dicembre e uno stanziamento da 213 milioni di dollari, cifra fissata per la
gestione dell'emergenza nigerina. Sono stati raccolti però solo 90 milioni di
dollari e questo ha costretto il Wfp a distribuire razioni solo al 40 per cento
circa dei bisognosi. E adesso, che le piogge equatoriali cadono su un terreno già
disastrato, si moltiplicano gli appelli per uno sforzo in più, da parte di
tutti. Da parte della popolazione, alla quale si chiedere di reggere anche di
fronte a quest'ennesimo dramma, da parte dei volontari e da parte dei donatori,
perché aprano, e in fretta, i cordoni della borsa.
Orrore in Pakistan: "allagamenti guidati" su altri 4 villaggi
di
Lucia Capuzzi
Avvenire
- 3 settembre 2010
Non
è un'eccezione, accade durante tutti i cataclismi naturali: i poveri diventano
bersagli privilegiati. È quasi implicito, chi ha meno risorse ha maggiori
difficoltà a proteggersi dalla furia della natura. Le "inondazioni
guidate" - che si consumano nel Pakistan sconvolto dalle alluvioni - sono,
però, qualcosa di ben più crudele.Il "sacrificio" dei deboli qui non
è il drammatico effetto collaterale della catastrofe ma una strategia
deliberata per difendere i forti.
I
potenti latifondisti - con la complicità di qualche funzionario
"compiacente" - fanno costruire dighe e sbarramenti per proteggere i
loro possedimenti dalle violente alluvioni, che vanno avanti da un mese. L'acqua
dei fiumi in eccesso viene deviata sui villaggi più miseri e sperduti, abitati
da contadini indifesi, spesso appartenenti a minoranze religiose. La distruzione
pianificata di Khokharabad - popolato da cristiani, da sempre oggetto di
discriminazioni e abusi - non è un caso isolato. Dopo la denuncia di tre giorni
fa, dell'Agenzia Fides, sono emersi altri agghiaccianti episodi. Ad almeno altri
quattro villaggi del Sindh - Mirpur Bathoro, Jati, Dharo, Laiqpur, i cui
residenti sono in prevalenza cristiani o indù - è toccata la stessa sorte. Le
2.800 famiglie - secondo quanto riferisce Fides - hanno ricevuto dalle autorità
civili l'ordine di sgombero immediato. Hanno fatto appena in tempo a
improvvisare un fagotto. Poi, è arrivata l'acqua. Violenta, devastante. Le
modeste case sono state ridotte a un ammasso di assi di legno. Uno scempio
creato artificialmente - secondo le testimonianze - per salvare i latifondi
vicini. "Ancora una volta la forza dei potenti schiaccia i poveri", ha
dichiarato il capo del villaggio di Jati. "Vi sono personaggi influenti che
hanno contatti col governo o sono presenti nei partiti politici: i loro
territori hanno la "priorità" di essere salvati dalle alluvioni - ha
dichiarato Dominic Gill, segretario della Caritas di Karachi -. I villaggi dei
poveri, siano essi musulmani, cristiani o indù, sono invece abbandonati a se
stessi". A confermare questo agghiacciante sistema è l'ambasciatore
pachistano all'Onu Abdullah Hussain Harron che alla Bbc ha dichiarato: "Vi
sarebbero prove che i proprietari terrieri hanno fatto costruire barriere"
per difendere i loro possedimenti. A questo orrore, si aggiunge quello della
discriminazione delle minoranze religiose nei soccorsi. "A Kot-Adu, Leia e
Rang Pura, nel Sindh - secondo quanto racconta ad Avvenire, Shahid Mobeen, della
Pontificia Università Lateranense, citando fonti locali -, i cristiani sono
sistematicamente esclusi dalla consegna di cibo e acqua, col pretesto che gli
aiuti provengono dai mullah o sono stati acquistati con la "zakat",
l'elemosina prevista per ogni buon musulmano dal Corano. Lo stesso accade ad
Hassan Abadal e Jacoabad, nel centro-Nord, nei confronti di sikh e indù".
Nei
campi profughi allestiti dal governo a Muzafar Gard, vicino a Peshawar, Thatta e
Jacobabad, nel Sindh, inoltre - afferma Mobeen - è impedito l'accesso ai non
islamici. Cristiani e indù sarebbero rimasti senza rifugio se non fossero stati
accolti negli accampamenti della Chiesa nazionale, in cui tutti - di qualunque
fede - trovano assistenza.
Pirati, più difficile processarli che catturarli
di Aprille Muscara
www.ipsnews.net
- Nazioni Unite - 27 agosto 2010
Al
Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite questa settimana, gli Stati membri e
le organizzazioni regionali hanno affrontato il delicato tema dei processi
contro i pirati della Somalia, dopo la diffusione di un recente rapporto del
Segretario generale Ban Ki-moon che illustrava le diverse opzioni legali
possibili.
Nel
dossier si analizzano i vantaggi e gli svantaggi di ciascuna opzione, che
comprendono il supporto ai tribunali nazionali, la creazione di una nuova camera
all'interno dei tribunali nazionali, o l’istituzione di nuovi tribunali,
regionali o internazionali, per il processo agli individui accusati di
pirateria.
Durante
l’incontro , il Segretario generale ha anche annunciato la creazione di un
nuovo Consulente speciale per gli affari legali legati alla pirateria al largo
delle coste somale. L'ambasciatore americano Susan Rice si è congratulata con
Jack Lang, ex inviato speciale francese in Corea del Nord e docente di diritto
internazionale, nominato per l’incarico.
La
pirateria è cresciuta fino a diventare una serio pericolo, oltre che una
minaccia per la vita stessa della gente di mare, per l’aumento dei costi
dell’industria marittima globale e per i gravi ostacoli causati nelle consegne
degli aiuti umanitari. E il fenomeno si sta diffondendo anche al di fuori del
Golfo di Aden e dell'Oceano Indiano.
"Il
costo umano della pirateria al largo della costa della Somalia è incalcolabile,
con omicidi e sequestri di marinai, che già devono affrontare un lavoro pieno
di rischi. Il consulente legale di Ban Ki-moon, Patricia O'Brien, ha parlato
degli “alti costi commerciali”.
Negli
ultimi tre anni, diversi paesi hanno inviato navi militari nella zona,
coordinando e rafforzando la comunicazione tra loro. Ma la questione delle
eventuali azioni penali è rimasta in sospeso, mentre le persone sospette sono
in attesa di processo in Francia, Germania, Kenya, Spagna, Seychelles e Stati
Uniti.
Il
comandante James Kraska, professore di diritto internazionale presso la Naval
War College, ha pubblicato diversi scritti sul tema della pirateria.
"Il
principale problema delle potenze marittime non è la mancanza di risorse
operative per contrastare la minaccia, ma cosa fare con gli arrestati", ha
scritto nell’Armed Forces Journal lo scorso anno. " La soluzione a lungo
termine per la pirateria non è la forza armata ma la collaborazione
regionale".
Accrescere
le potenzialità dei tribunali nazionali esistenti è anche possibile, in
particolare in Kenya e Seychelles. Negli ultimi 18 mesi, sono stati processati
600 pirati in 11 paesi, riferisce il Segretario generale dell’Onu.
Di
recente, il Kenya ha intensificato gli arresti per il reato di pirateria, con
circa 100 indagati detenuti e 18 condanne solo nel mese di giugno. Nel corso del
dibattito, il rappresentante permanente del Kenya presso l'Onu ha espresso
preoccupazione sulla gestione della situazione al momento attuale.
"Gli
accordi attuali, che vedono i pirati consegnati e processati in Kenya e nei
paesi limitrofi, rappresentano un peso insostenibile per questi paesi nel lungo
periodo", afferma l'ambasciatore keniano Zachary Muburi-Muita.
Il
Giappone ritiene però che la strada migliore sia migliorare le strutture
giuridiche attuali, ed esprime riserve sulla creazione di nuovi tribunali.
"Per
il Giappone, gli stati costieri dovrebbero perseguire i pirati, e bisognerebbe
rafforzare la capacità di questi paesi di giudicare gli atti di
pirateria", ha detto l'ambasciatore giapponese Tsuneo Nishidia alla sua
prima apparizione al Consiglio di Sicurezza come nuovo rappresentante permanente
del suo paese. "Il Giappone sta pensando di creare un nuovo tribunale,
considerando i tempi e le risorse necessarie per istituirlo".
Le
altre possibilità discusse nel dibattito prevedono la creazione di strutture
legali totalmente nuove, che secondo O'Brien richiederebbero una forte volontà
politica e finanziaria, visto l’alto numero di sospettati, i tempi previsti, e
il fatto che i tribunali si limiterebbero a eliminare le conseguenze del
problema ma non le cause.
Anche
la necessità di trovare uno stato ospite e la questione del rimpatrio e della
capacità delle carceri sono stati elementi chiave nel dibattito.
“Dato
il gran numero di indagati detenuti in mare da parte delle forze navali, è
chiaro che trovare luoghi di detenzione adeguati è altrettanto importante che
istituire i procedimenti legali", ha detto O'Brien.
Si
è poi convenuto che la stabilità della Somalia, dilaniata dalla guerra, da tre
anni consecutivi al primo posto nell’Indice “Foreign Policy's Failed
State”, è la chiave per risolvere il problema della pirateria.
"La
pirateria somala è direttamente legata al fallimento delle istituzioni di
governance dello stato somalo", ha affermato Muburi-Muita."Nel cercare
di risolvere il problema, è importante puntare ad una soluzione duratura alla
situazione politica in Somalia, anche affrontando gli imperativi socio-economici
che hanno fatto della pirateria un mezzo di sussistenza per la gioventù
somala".
Il
quaranta per cento della popolazione somala ha bisogno di assistenza umanitaria,
e la popolazione guadagna in media meno di due dollari al giorno. Appena al
largo della costa di uno stato devastato dalla guerra, degradato e fallito -
dove secondo l'Onu è in corso una delle peggiori crisi umanitarie al mondo -
piccole bande di pirati armati di fucili AK-47 guadagnano da uno a due milioni
di dollari per il riscatto.
Dall'inizio
dell'anno, sono stati 139 gli incidenti legati alla pirateria, 30 le navi
dirottate e 450 i sequestri, sottolinea Ban Ki-moon. Secondo Kraska, circa un
terzo delle azioni di pirateria viene portata a termine con successo.
"Ricordiamoci
sempre che ridurre e limitare la pirateria nella regione significa reagire non
solo in mare ma anche sulla terra, dove la pirateria ha origine".
Somalia
ferita sotto il tallone degli shabaab di Giulio Albanese
Avvenire - 5 settembre 2010
Qualcuno
li ha definiti "taleban d'Africa". Anche loro vanno in giro con
kalashnikov e Rpg, ostentando la stessa intransigenza dei miliziani
afghani. Basta dare un'occhiata ai dispacci lanciati in questi giorni da
Mogadiscio e dintorni, per rendersi conto dei disastri che questi invasati
stanno perpetrando nella capitale somala. Stiamo parlando degli aderenti
al famigerato movimento alShabaab (dall'arabo, "La Gioventù"),
noto anche come Ash-Shabaab, Hizbul Shabaab (dall'arabo, "Il Partito
della Gioventù").
Dicono di voler rovesciare il governo di transizione del presidente Sheik Sharif Sheik Ahmed, che controlla a malapena pochi scampoli di territorio nella capitale, ormai ridotta a un cumulo di macerie.
Se
non fosse per il dispiegamento dei peacekeeper dell'Amisom, sotto l'egida
dell'Unione Africana, sarebbero già al potere da tempo. Combattono in nome del
jihad ("la guerra santa") con in tasca il masbah, il tradizionale
rosario musulmano, sgranando e recitando gli appellativi di Allah tra una
sparatoria e l'altra. Il sistema giurisprudenziale, che intendono imporre con la
forza, è fondato sulla Sharìa, la legge islamica; per cui non hanno problemi a
lapidare adultere e a mozzare mani a ladri e malfattori. Hanno impedito alla
gente di seguire in televisione i Mondiali di calcio del Sudafrica, giudicando
la manifestazione espressione della bieca propaganda occidentale. Recentemente
si sono sparpagliati per le strade della città costiera di Chisimaio, nella
Somalia meridionale, vietando ai residenti d'indossare jeans o pantaloni di
fattura non autoctona. Hanno addirittura tagliato pubblicamente i capelli ai
giovani, ordinando loro di lasciarsi crescere la barba. Come se non bastasse,
rifuggono la danza, il cinema e il teatro, e pure le suonerie telefoniche e i
videogiochi, vietandone l'uso perché indecente e peccaminoso.
Gli
shabaab dicono d'essere seguaci di Osama Benladen e vanno fieri per questa loro
identità. L'elemento "qaedista" è sicuramente la novità che oggi
inquieta maggiormente la comunità internazionale, di fronte al progressivo
disgregamento della società somala e delle leggi consuetudinarie che per
millenni hanno retto i rapporti tra i diversi clan del Paese. Una nuova
generazione si affaccia, formata dalle scuole coraniche, che dovrebbero
imprimere il nuovo corso rivoluzionario. Ma chi sono davvero gli shabaab e
soprattutto chi li ha foraggiati d'armi e munizioni? Quando, nella seconda metà
del 2006, le Corti islamiche controllavano Mogadiscio, i ribelli erano poche
centinaia e rappresentavano l'ala radicale del movimento somalo che in quel
momento era al potere. Le Corti, è bene rammentarlo, raggruppavano anche altre
realtà moderate della società somala, che erano stanche del predominio dei
"Signori della guerra", i quali fino a quel momento avevano il
controllo della capitale. Nonostante il parere contrario della diplomazia
europea, l'allora presidente Usa George W. Bush sostenne l'invasione della
Somalia da parte del governo etiopico. Con il risultato che quella spedizione
militare non solo fu fallimentare, ma rafforzò politicamente e militarmente
al-Shabaab. A finanziarli, dietro le quinte, sono stati in molti. Anzitutto, vi
sarebbe- ro forti legami col movimento salafita saudita, lo stesso che ha
generato il fantasma di Benladen; avrebbero inoltre legami per le forniture di
armi con la sponda yemenita. Ma in questi anni il loro grande alleato è stato
il presidente eritreo Isaias Afewerki, che ha dato ai ribelli appoggio logistico
e militare. Attualmente pare che la cooperazione con Asmara si sia attenuata,
anche se i legami politici rimangono saldi. Com'è noto l'Eritrea vede come il
fumo negli occhi il governo etiopico; tra i due Paesi è praticamente in atto
dal 2000, a seguito degli accordi di Algeri, una sorta di "guerra
fredda", i cui effetti hanno contaminato fortemente in questi anni la
Somalia. Soprattutto quando, alla fine del 2006, gli etiopici presero il
controllo di Mogadiscio, la resistenza degli shabaab e di altri gruppi
estremisti diventò una sorta di vessillo della libertà del popolo somalo
contro gli atavici nemici stranieri.
Questo
fenomeno si è acuito a dismisura col ritiro degli uomini di Addis Abeba nel
2009, facendo prevalere la linea fondamentalista, a scapito dei moderati che un
tempo costituivano l'ala maggioritaria nell'ambito delle Corti. A nulla è valso
l'accordo di Gibuti, raggiunto un paio d'anni fa tra le opposte fazioni, che ha
permesso all'ex leader delle Corti, Sharif Ahmed, di diventare presidente del
Governo di transizione. Essendo mancato il sostegno politico e finanziario della
comunità internazionale, e degli americani in primis, che hanno sempre creduto
nell'opzione armata, Gibuti si è risolto in un clamoroso "fiasco", le
cui conseguenze sono oggi più che mai evidenti. Gli shabaab hanno cominciato a
terrorizzare la popolazione locale, nel tentativo di ripristinare uno Stato
islamico radicale con lapidazioni, amputazioni di arti e censura. E poi molti
attentati suicidi, anche all'estero. Quelli di Kampala in Uganda, dell'11 luglio
scorso, sono stati i primi ad essere compiuti al di fuori del territorio somalo.
E
dire che questi fanatici non sono una legione come qualcuno sarebbe portato a
pensare. A Mogadiscio, fonti indipendenti della società civile, ritengono che
non superino le 1.500-2.000 unità, e che vi siano per la Somalia
centromeridionale un altro migliaio o poco più di loro affiliati. Ed è questo
il punto fondamentale che non andrebbe sottovalutato per ogni serio ragionamento
sulla Somalia. Ammesso pure che fossero quattro/cinquemila in tutto, come
scrivono altre fonti, gli shabaab costituiscono un'esigua minoranza rispetto ai
milioni di somali che patiscono le loro angherie. Il loro punto di forza è
stato quello di saper manipolare la cronica parcellizzazione del Paese, diviso
in aree d'influenza in cui i riottosi capi clan fanno da anni il bello e il
cattivo tempo. Allora, guardando alla geografia dei clan, quella che conta di più
alla prova dei fatti, bisognerebbe tentare di rilanciare l'iniziativa politica
di dialogo tra le varie componenti sul territorio, il cui unico collante, al
momento, è rappresentato paradossalmente da al-Shabaab. Ma i ribelli, con il
passare del tempo, sono sempre più detestati dalla gente, che scrive sui propri
carretti e sugli stipiti delle case: "Maanta waa adun", "Oggi
siamo ancora vivi".
Dengue: 26.824 contagi, l'intera popolazione del paese è in grave
pericolo
Agenzia Fides - Colombo - 31 agosto 2010
Nei
primi sette mesi e mezzo di quest'anno sono morte 192 persone a causa della
febbre emorragica dengue. E' quanto riporta l'Asian Human Rights Commission
(AHRC). Il numero totale delle persone contagiate è di 26.824 e l'intera
popolazione dello Sri Lanka è in grave pericolo. Tuttavia non sono state ancora
prese misure di sicurezza per combattere la diffusione di questa malattia
mortale che ha colpito quasi tutti i distretti del paese, e in particolare sta
minacciando l'intera popolazione, ricchi e poveri, da Jaffna nord a Matara sud e
da Batticaloa est a Colombo ovest e Kandy Central. Secondo le cifre, importanti
epidemie di dengue si verificano in media ogni cinque o sei mesi a causa dei
cicli stagionali. Nella seconda metà del 2009 nello Sri Lanka si è registrata
la situazione più allarmante mai avuta prima, con 349 decessi e circa 22 mila
contagi. Le attuali condizioni climatiche, l'inquinamento ambientale, la rapida
urbanizzazione, l'affollamento delle città costituiscono un buon habitat per i
mosquitos e favoriscono la diffusione della malattia.
La
dengue è endemica in oltre 100 paesi ed è particolarmente diffusa in molte
aree tropicali come l'Argentina e l'Australia settentrionale, il Bangladesh, le
Barbados, la Bolivia, il Belize, il Brasile, la Cambogia, la Colombia, il Costa
Rica, Cuba, la Repubblica Dominicana, la Polinesia Francese, Guadalupe, El
Salvador, Guatemala, Guyana, Haiti, Honduras, India, Indonesia, Giamaica, Laos,
Malesia, Melanesia, Messico, Micronesia, Nicaragua, Pakistan, Panama, Paraguay,
Filippine, Porto Rico, Samoa, Arabia Saudita Occidentale, Singapore, Sri Lanka,
Suriname, Taiwan, Tailandia, Trinidad, Venezuela e Vietnam, e continua ad
aumentare nella Cina meridionale. Le zone più gravemente colpite sono l'Asia
sud orientale e il Pacifico occidentale. Secondo l'Organizzazione Mondiale della
sanità circa 2.5 miliardi di persone, due quinti dell'intera popolazione
mondiale, sono a rischio dengue e si stimano 50 milioni di casi in tutto il
mondo ogni anno. Attualmente la malattia è endemica in oltre 100 paesi. (AP)
"Senza
il Beato Vaz, lo Sri Lanka non avrebbe nemmeno un sacerdote" di Melani
Manel Perera
AsiaNews - Colombo - 3 settembre 2010
Così
mons. Vianny Fernando ha presentato la proiezione del film dedicato alla vita
del beato Joseph Vaz, considerato il secondo fondatore della Chiesa nel Paese.
Il suo apostolato, durante la persecuzione dei protestanti olandesi. In corso
l'Anno giubilare per il 300mo anniversario della sua morte.
"Il
Beato Joseph Vaz è stato il nostro Apostolo. E' stato un pioniere per la storia
del nostro Paese e per la fede cristiana. E' considerato il secondo fondatore
della Chiesa cattolica. Infatti, dopo la persecuzione olandese, che è durata
150 anni [nel 17° secolo l'isola fu dominata dagli olandesi, protestanti, che
operarono una sistematica persecuzione contro i cattolici, esito anche della
precedente presenza portoghese], senza di lui non avremmo avuto nemmeno un
sacerdote". Il vescovo Vianny Fernando, presidente del Segretariato
nazionale Joseph Vaz, ha così presentato un film sulla vita del Beato Vaz, il
25 agosto presso l'auditorium della Caritas-Sri Lanka a Colombo.
"E'
la storia - ha proseguito mons. Vianny Fernando - di una persona che brucia per
l'amore di Cristo, che affronta tutti i pericoli e serve la Chiesa nello Sri
Lanka".
Il
film, un'ora e 40 minuti in lingua Sinhalese, ha ricevuto ampi consensi per la
qualità della regia, delle scene, per le musiche e le luci. E' la storia di un
missionario che dedica l'intera vita a porre le fondamenta e a sviluppare la
Chiesa cattolica nello Sri Lanka (nella foto: una scena del film). Hanno
partecipato alla presentazione il nunzio apostolico Joseph Spiteri,
l'arcivescovo Malcolm Ranjith e numerosi altri vescovi, sacerdoti e suore, come
pure numerose persone e qualche politico, insieme agli attori.
La
proiezione avviene nel corso delle celebrazioni per il 300mo anniversario della
morte del beato Vaz, che cadrà il 16 gennaio 2011. L'Anno giubilare per il
beato Vaz è stato dichiarato aperto da mons. Malcolm Ranjith lo scorso 17
gennaio 2010, festa del Beato, nellaChiesa a lui dedicata a Makola,
nell'arcidiocesi di Colombo. Per tutto il periodo, fino alla chiusura del 16
gennaio 2011, un inno e preghiere speciali sono recitati nella gran parte delle
Chiese del Paese al termine delle messe festive.
Padre
Alex Dassanayake, vice-postulatore del Segretariato nazionale Joseph Vaz, che ha
fatto il film, ha ringraziato lo scrittore della storia dalla quale è stato
tratto il film, Sanjaya Nirmal, che ha pure collaborato alle riprese. Il film è
stato finanziato con aiuti del ministero per gli Affari cristiani per 800mila
rupie cingalesi (circa 5.600 euro) e grazie a donazioni di vescovi e fedeli. Si
spera che il film possa uscire nei cinema a dicembre, con sottotitoli in inglese
e Tamil.
Mons.
Winston Fernando, vescovo di Badulla, ha spiegato ad AsiaNews che "questo
film è una vera fonte di ispirazione, specie per chi non è cristiano. La vita
del beato Vaz è descritta davvero bene. Ho molto apprezzato il talento dello
scrittore. Sembra quasi che abbia ricevuto un'ispirazione divina".
L'attrice
cattolica Neeta Fernando dice ad AsiaNews che è stata felice di lavorare nel
film, "è stato molto emozionante, con la maggior parte degli attori che
non era cristiana. E' stato incredibile riuscire a finire le riprese in 10
giorni".
Il
beato Vaz, "l'Apostolo dello Sri Lanka", nacque il 21 aprile 1651 a
Goa. Ha iniziato la sua opera missionaria nello Sri Lanka nell'aprile 1687,
durante la persecuzione dei colonizzatori olandesi, e l'ha proseguita fino alla
morte nel 1711. Papa Giovanni Paolo II lo ha dichiarato beato nel 1995.
Dopo le foglie, gli uomini
di Piergiorgio Pescali
Avvenire
- 1 settembre 2010
In
Vietnam a 35 anni dalla guerra l'"Agente arancio" colpisce ancora
I
C-130 americani diffondevano sulla foresta una polvere bianca. Si trattava di un
potente diserbante. In pochi giorni cadevano tutte le foglie, lasciando in vista
i combattenti Ma la diossina, fino a 30 volte superiore al limite consentito
dagli standard sanitari, penetrava nei polmoni, modificando il Dna
Tra
le innumerevoli foto della Guerra del Vietnam, ce n'è una che mostra un carro
armato T59 di fabbricazione cinese mentre entra all'interno del Palazzo
presidenziale di Saigon abbattendone la cancellata. Era il 30 aprile 1975 e
quell'immagine suggellò un conflitto sanguinoso costato milioni di morti. Molti
appesero elmetti e armi al chiodo, ma altri continuarono a combattere. Non più
in opposizione agli odiati capitalisti americani o ai loro 'lacchè'
sudvietnamiti, bensì contro qualcosa di più infido e insidioso: l'Agente
arancio, il defogliante che conteneva diossina, sparso sulla giungla vietnamita
dagli aerei statunitensi per scovare gli accampamenti dei guerriglieri.
Un
nemico invisibile, l'Agente arancio, che penetra nella pelle, nei bronchi, si
radica nelle cellule alterando il Dna. Le cellule trasmettono la loro pazzia
attraverso generazioni; da allora sino ad oggi, per continuare anche domani,
dopodomani e chissà per quanto tempo ancora.
Per
questi vietnamiti la guerra non è ancora finita. Basta andare all'ospedale Tu
Du di Ho Chi Minh Ville, alla Liberation School di Hanoi o nei villaggi della
regione di Quang Tri, Dong Ha, Da Nang per osservare i soldati di questa nuova
guerra. Soldati di tre, dieci, vent'anni. Tutti sconfitti, irrimediabilmente
sconfitti. Pur non avendo conosciuto la guerra, ne sono, paradossalmente, le
vittime.
Cronologicamente
appartengono alla generazione fortunata, quella che avrebbe dovuto vedere un
nuovo Vietnam risorgere dalle ceneri del vecchio. Geneticamente, invece, sono
legati al conflitto del passato. Hoang Ngoc Kien, classe 1945, è stato
arruolato nel 1961 nell'esercito nordvietnamita. Ha combattuto a Quang Nam, Hue,
e poi giù, giù, attraverso il Sentiero Ho Chi Minh fino a raggiungere Ban Me
Thuot. "Viaggiavamo di notte, ci sentivamo al sicuro nella foresta: la
vegetazione era nostra alleata, ci riparava. Di giorno vedevamo i C-130
americani passarci sopra lasciando una polvere bianca che si adagiava sugli
alberi, che in pochi giorni perdevano tutte le foglie". Oggi è un eroe di
guerra, ma i suoi tre figli, rispettivamente di trenta, venti e undici anni,
sono tutti handicappati. Hoang Van Son ciondola continuamente sulla sedia, Hoang
Nhat Dong rimane legato al letto per evitare che si martirizzi gli arti, Hoang
Quang Lam, il minore, macrocefalo e privo di occhi, vegeta mugugnando. Ngoc Kien
è eroe per la nazione, ma un emarginato nel villaggio. "Un figlio
handicappato è una disgrazia, due una sfortuna, tre una maledizione"
afferma Trin Bang Hop, della Croce rossa vietnamita, secondo cui nel paese ci
sarebbero tra i due e i tre milioni di vittime dell'Agente arancio.
L'emarginazione,
dovuta all'ignoranza e alla superstizione, è l'altra battaglia che devono
combattere le famiglie vittime dell'erbicida. Solo nelle zone più colpite,
nella provincia di Quang Tri, dove la percentuale delle vittime è
impressionante, l'abitudine di abitare accanto ad un 'Agent Orange Victim' evita
l'indifferenza dei compaesani. A Cam Nghia, uno dei villaggi più colpiti, si
sono concentrati gli aiuti di numerose associazioni internazionali, che hanno
permesso la costruzione di un asilo, una scuola, un dispensario ed un ospedale.
Per una famiglia prendersi cura delle vittime, oltre che essere snervante, è
economicamente dispendioso. Lo Stato vietnamita assicura per ogni figlio
riconosciuto come vittima dell'Agente Arancio tra i 120 e i 600mila dong al mese
(5-24 euro), che raramente coprono le spese per le medicine. "L'uso
dell'Agente arancio dovrebbe essere considerato alla stregua di un crimine di
guerra" dice Nguyen Trong Nhan, Presidente della Vava, l'Associazione
Vietnamita delle Vittime dell'Agente Arancio. Nel 2004 la Vava ha querelato le
36 imprese che, tra il 1961 e il 1970, hanno prodotto l'Agente arancio per il
governo degli Stati Uniti chiedendo un risarcimento morale e materiale per le
vittime. Nel 2005 il giudice distrettuale di New York, Jack B. Weinstein, ha però
respinto l'accusa nonostante nel 1987 la Multidistrict Litigation 381 avesse
imposto a 7 delle 36 compagnie il pagamento di 180 milioni di dollari a titolo
di risarcimento per i 291mila americani riconosciuti vittime dell'Agente
arancio. Oltre al danno anche la beffa, quindi. "È un atto discriminatorio
che umilia tutto il popolo vietnamita" accusa Nguyen Trong Nhan. La Dow
Chemical e la Monsanto, due dei principali produttori di Agente arancio, si
difendono affermando che la diossina era un sottoprodotto del processo
produttivo le cui fasi erano imposte dal governo stesso. Ma da recenti documenti
è emerso che gli scienziati delle stesse compagnie avevano notato che la
quantità di diossina prodotta era fino a trenta volte il limite consentito
dagli standard sanitari dell'epoca. "Sapevamo che la formula militare
dell'erbicida aveva un contenuto di diossina maggiore di quello usato per usi
civili - ha confessato James Clary, scienziato della Chemical Weapons Branch,
all'epoca in Vietnam. - Dato però che il materiale sarebbe dovuto essere usato
contro il nemico, nessuno di noi se n'era preoccupato". Ed oggi che il
nemico si è trasformato in un alleato economico, chi si preoccupa degli 'Agent
Orange Victims'?
Sostanza
Killer
Le
vittime dei lanci di diossina 4 milioni di persone ieri, tre oggi
L'Agente
Arancio è uno dei 15 erbicidi utilizzati dalle forze armate Usa in Vietnam tra
il 1961 e il 1971.
L'intento
era quello di defogliare le foreste dove si pensava si celassero i guerriglieri
vietnamiti e l'esercito regolare del Nord Vietnam, in modo da privarli dei loro
nascondigli naturali. Il nome Arancio deriva dal colore della striscia che
identificava i bidoni da 208 litri in cui era contenuto il defogliante.
La
diossina, il composto che produce ancora oggi menomazioni fisiche genetiche, era
un sottoprodotto del processo di produzione che, per limitare i costi, aveva un
tenore di impurità più elevato di quello imposto dagli usi civili. Nelle
19.905 missioni aeree, vennero sparsi 73 milioni di litri di defoglianti (in cui
erano contenuti 400 chili di diossina) contaminando 26.312 chilometri quadrati
di territorio, di cui 14mila nel Sud Vietnam, un'area pari al 10 per cento della
superficie totale della repubblica. I vietnamiti colpiti direttamente dalle
irrorazioni furono stimati tra i 2,1 e i 4 milioni, mentre oggi si stima che nel
solo Vietnam ci siano 2-3 milioni di vittime direttamente collegate all'Agente
Arancio. (P.Pes.)