Bangl@news |
|
Anno XI N° 456 16/2/11 |
|
La malaria? Si può vincere… parola di George Clooney
Unimondo
- 27 gennaio 2011
La
malaria può essere risolta in dieci giorni. Ne è la prova l’attore americano
Clooney. “George è guarito dalla malaria che ha contratto mentre era in Sudan
la prima settimana di gennaio - ha detto il suo portavoce. E’ stata la seconda
volta. Questo dimostra che con le opportune medicazioni, la più letale malattia
del continente africano può essere risolta in dieci giorni”. Il 49enne
protagonista di Ocean’s eleven, figlio del grande giornalista Tv Nick Clooney,
ha visitato il Sudan in occasione del referendum sull’autodeterminazione del
Sud (9-15 gennaio), con l’obiettivo di far accendere i riflettori su questo
Paese che sta cercando di uscire da una ventennale guerra civile.
È
proprio in Sudan che George ha contratto la malaria. Durante l’intervista tv
in cui l’ha dichiarato è riuscito a scherzarci su, dicendo che le zanzare che
gli hanno inoculato il virus «saranno state forse al servizio di Al Bashir»,
il presidente del Sudan. Non sono state altrettanto fortunate le 781mila persone
che nel 2009, secondo i dati più recenti dell’Organizzazione mondiale della
sanità, sono morte di malaria. La malattia, causata dal parassita Plasmodium,
è trasmessa dal morso di zanzare infettate e colpisce fino al 10% della
popolazione mondiale uccidendo circa un milione di persone l’anno, in modo
particolare donne incinte e bambini.
Sul
fronte della lotta alla malattia molti progressi sono stati fatti, sia sul
fronte della prevenzione che della ricerca. «In Eritrea, Ruanda, Zambia,
Zanzibar e Sao Tome e Principe le morti a causa della malaria sono crollate del
50%, grazie soprattutto alla diffusione delle zanzariere e alle campagne di
sensibilizzazione» afferma Kristina Köning, della campagna Stop Malaria Now,
creata da un consorzio di dieci ong europee, africane e statunitensi.
Un’altra
recente buona notizia è il successo della sperimentazione in Africa del primo
vaccino contro la malaria. Secondo la rivista “The Lancet” i risultati dello
studio di fase II condotto sui bambini in Kenya e Tanzania hanno mostrato una
protezione a 15 mesi del 46 per cento, giudicata molto positiva dagli scienziati
coinvolti. Quali passi allora mancano per vincere la battaglia contro la
malaria? “La barriera più alta è l’insufficienza di fondi, insieme alla
debolezza dei sistemi sanitari nei Paesi dove la malattia è presente” -
afferma la Köning.
Sebbene
l’ONU abbia proclamato il periodo 2001-2010 il decennio per combattere la
malaria nei paesi in via di sviluppo, l’impegno effettivo dei paesi membri
mostra tutt’altre intenzioni. Kofi Annan ha calcolato in 8 miliardi di dollari
all’anno il denaro necessario per il fondo mondiale contro AIDS, tubercolosi e
malaria, istituito durante il vertice del G8 a Genova. Ma per il momento i paesi
più ricchi del mondo hanno promesso soltanto 1,9 miliardi di dollari.
Dall’Australia
arriva una notizia che farà fare passi da gigante alla ricerca. Grazie ad un
sistema di microscopia ad altissima risoluzione, gli scienziati sono riusciti
per primi a catturare immagini dei parassiti della malaria mentre penetrano
nelle pareti delle cellule dei globuli rossi umani e le invadono. La nuova
tecnologia fornisce immagini su una scala molto più piccola dei normali
microscopi luminosi e offre conoscenze inedite sul comportamento dell'infezione
e sulle migliori maniere per combatterla. ''La svolta decisiva di questa
tecnologia è di costruire un'immagine tridimensionale dei processi cellulari ad
un'altissima risoluzione'', spiega Jake Baum dell'Istituto Walter and Eliza Hall
di Melbourne, principale autore della ricerca pubblicata sulla rivista
"Cell Host and Microbe".
E' possibile così catturare una visione dettagliata di ciò che avviene quando il parassita scava attraverso le cellule. Una volta entrato si moltiplica rapidamente, creando decine di nuove versioni che si diffondono nel flusso sanguigno della persona infettata, ormai febbricitante. ''Abbiamo ora una piattaforma per capire come opera il parassita e per capire come poter creare anticorpi contro la malaria, e quindi un vaccino che protegga dalla malattia ma allo stesso tempo permetta di sviluppare una risposta immunitaria'', aggiunge Baum. Grazie alle immagini, sarà inoltre possibile osservare nel dettaglio più preciso la maniera in cui il parassita reagisce a farmaci esistenti e sperimentali.
I
lettori di Unimondo possono scaricare la nuova “Carta di Trento” per una
migliore cooperazione internazionale incentrata sul sesto Obiettivo del
millennio per combattere l’AIDS, la
tubercolosi e, per l’appunto, la
malaria.
Disoccupazione,
precariato, salari da fame di Vittorio Longhi
Repubblica
- 25 gennaio 2011
A
tinte fosche il quadro del lavoro nel mondo
L'Ilo
fa il punto sulle tendenze globali: 40 milioni di occupati poveri in più
rispetto al 2007, i giovani senza impiego sono due volte e mezzo gli adulti, la
metà dei posti perduti riguarda i Paesi ricchi. E non si prevede un
miglioramento a breve
Giovani,
precari, poveri o disoccupati. E' la descrizione poco rassicurante che fa il
rapporto annuale sulle tendenze globali dell'occupazione, appena diffuso
dall'Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo).
Anche
se gli indicatori economici principali, come il Pil mondiale, gli investimenti,
il commercio internazionale e i mercati finanziari hanno mostrato segnali di
ripresa negli ultimi mesi, i mercati del lavoro sono ancora fragili. Persiste un
livello di disoccupazione alto, in modo particolare nelle economie avanzate e
riguardo ai giovani, mentre nei Paesi in via di sviluppo nuovi posti non
significano necessariamente lavori migliori, dignitosi e produttivi.
Il
numero dei disoccupati nel mondo si attesta oggi a circa 205 milioni. Non è
aumentato molto tra 2009 e 2010 ma è ancora forte lo scarto rispetto al 2007,
prima della crisi, di 27,6 milioni. Secondo i ricercatori dell'agenzia Onu nel
2011 il numero complessivo dovrebbe scendere a 203,3 milioni.
In
ogni caso, il dato più eloquente è la differenza tra Paesi avanzati e Paesi in
via di sviluppo. Oltre la metà dei posti persi riguarda le economie sviluppate
e l'Unione Europea, nonostante la regione rappresenti solo il 15 per cento della
forza lavoro mondiale. Il lavoro nell'industria europea, ad esempio, è crollato
di 9,5 milioni fra il 2007 e il 2009. Al contrario, in Paesi come Brasile,
Kazakistan, Sri Lanka, Thailandia e Uruguay l'industria si sta riprendendo e il
tasso di disoccupazione è tornato al di sotto dei livelli pre-crisi.
La
minore disoccupazione non si traduce automaticamente in migliore occupazione,
però. I lavori precari, quelli dell'economia informale, non sono cresciuti
rispetto al 2008 ma è significativo che questo tasso di "occupazione
vulnerabile" abbia interrotto il lungo calo registrato fino al 2007.
Infatti oggi ci sono 40 milioni di lavoratori poveri in più, con un aumento
dell'1,6 per cento rispetto ad allora. Per "poveri" si intende quei
lavoratori che vivono con meno di 1,25 dollari al giorno.
L'altro
dato preoccupante è relativo al numero dei disoccupati giovani: sono due volte
e mezzo il numero dei disoccupati adulti e sono sempre più scoraggiati. Nei 56
Paesi per cui si hanno i dati sono scomparsi dal mercato del lavoro 1,7 milioni
di giovani. Si tratta di quelli non calcolati come disoccupati perché non
risultano più essere alla ricerca attiva di un posto.
"Questa
situazione dimostra l'incapacità dell'economia mondiale di garantire un futuro
ai giovani", ha dichiarato il direttore generale dell'Ilo, Juan Somavia.
"E questo mina la famiglia, la coesione sociale e la credibilità delle
politiche realizzate".
Ma
il lavoro non è necessario solo per la coesione sociale, quanto per la ripresa
stessa e per uno sviluppo che si possa dire davvero sostenibile, dato il legame
stretto tra salari reali, consumi e investimenti. E' troppo forte ancora la
differenza fra crescita del prodotto e crescita dell'occupazione, così come non
corrispondono gli aumenti di produttività e quelli dei salari reali.
A
pochi giorni dal Forum economico mondiale di Davos, il messaggio dell'Ilo è
chiaro: "Non ci si può concentrare solo sulla riduzione dei deficit
pubblici senza affrontare la questione della creazione di posti di lavoro".
Soprattutto, vanno estese le protezioni sociali e incoraggiati gli investimenti
nell'economia reale, per avere mercati del lavoro inclusivi e una crescita vera,
basata sui redditi.
Capire
i conflitti e provare a fermarli di Giampaolo Cadalanu
Repubblica - 25 gennaio 2011
E'
l'"Atlante delle guerre" del mondo
Presentata
a Roma la seconda edizione del volume che raccoglie, in 35 schede, le vicende
dell'aggressività umana attualmente in corso. I pacifisti italiani chiedono che
si rendano noti gli orrori e le motivazioni, anche le più nascoste
ROMA
- Il rumore delle armi è soffocato, troppo lontano dalle nostre case. Nei
telegiornali le immagini dei bambini soldato o dei corpi offesi dalle bombe
durano pochi secondi, senza fissarsi nella memoria. Della guerra e del suo
racconto resta poco: lo sforzo di una piccola parte della stampa, che cerca di
ragionare sulle ragioni degli scontri, sugli interessi in palio, sulla
motivazione delle parti. Per questo uno strumento di base come l'"Atlante
delle guerre e dei conflitti" 1è prezioso. È un progetto allo stesso
tempo umile e ambizioso, nato per riempire una lacuna e fornire una prospettiva
per comprendere il presente.
Sono
duecento pagine, 35 schede semplici e scorrevoli, per descrivere l'ultimo stadio
dell'aggressività umana e sottolineare anche gli orrori dimenticati. A
presentare la seconda edizione del volume curato da Raffaele Crocco c'era Flavio
Lotti, coordinatore nazionale della Tavola della pace 2: perché la comprensione
dei conflitti è uno strumento in più per disinnescarli. A cinquant'anni dalla
prima marcia Perugia-Assisi indetta da Aldo Capitini, i pacifisti italiani
chiedono che sulla guerra si faccia più luce, che l'orrore sia riferito nei
dettagli, che le motivazioni non siano nascoste.
La
presentazione del volume e l'annuncio della prossima marcia, il 25 settembre,
diventano insomma un appuntamento per ragionare sul lavoro dell'informazione,
per sottolineare con fermezza le carenze del servizio pubblico Rai e soprattutto
per ribadire che l'articolo 11 della Costituzione è ancora in vigore. Dice che
l'Italia ripudia la guerra, argomenta Lotti, ed è un principio che resta
vincolante. "Non si deve essere pacifisti per riconoscere che in
Afghanistan c'è una guerra e noi ne prendiamo parte", dice Lotti,
ricordando che l'articolo 11 troppo spesso viene ignorato. "L'Italia spende
23,5 miliardi in spese militari, e questo è insopportabile", aggiunge il
coordinatore della Tavola.
E
se alla fine, una volta comprese le guerre, si sceglie la pace, è meglio agire:
magari, dice Lotti, aderendo all'appello della Tavola per tagliare le spese
militari e investire la stessa cifra per rimettere in piedi l'Università o
sostenere le famiglie, investire nei giovani e nell'ambiente.
Rivolte
per il caro prezzi: il frutto della politica della Fed di Maurizio d'Orlando
AsiaNews
- Milano - 26 gennaio 2011
L'Asia, l'Africa, l'America latina e l'Europa registrano aumenti enormi nei prezzi delle derrate alimentari e dei carburanti. I prezzi del grano e altri prodotti agricoli salgono anche se vi è carenza. Tutto dipende dall'inflazione provocata dalla Fed.
Si allarga l'abisso fra le elite economiche e la popolazione.
Negli
ultimi tempi AsiaNews ha fornito non pochi resoconti sull'aumento dei prezzi
delle derrate alimentari, riferiti soprattutto alla Cina [1] ed
all'India [2], le
due maggiori economie dell'Asia, mettendo in guardia da possibili rivolte.
Rivolte
contro il caro prezzi dei generi di prima necessità sono avvenute anche in
molti altri Paesi come ad esempio in Laos, Oman e Giordania. Per altri il
malcontento popolare è dovuto agl'incrementi dei combustibili. Notizie simili
provengono non solo dall'Asia, ma da un po' tutti i continenti. Vi sono stati ad
esempio blocchi stradali in Cile, un Paese in cui a causa della sua
conformazione geografica, una lingua di terra molto stretta ma molto estesa da
Nord a Sud, è determinante il costo del trasporto e quindi dei carburanti.
Proteste e blocchi stradali vi sono stati anche in Bolivia, dove il 26 dicembre
la benzina è aumentata dell'80 %.
In
Nord Africa, per l'aumento del prezzo della semola di grano duro, la base del
principale piatto della zona, il cous-cous, ci sono stati moti di piazza in
Algeria e forte malcontento in Marocco. In Tunisia il presidente è scappato
(portandosi via 1,5 tonnellate d'oro), il governo si è dimesso e sembra che
l'insurrezione inizi a prendere le forme di una rivoluzione popolare. Un simile
sviluppo si teme anche in Egitto, tanto che le autorità doganali hanno
intercettato e bloccato negli aeroporti 59 spedizioni d'oro [3] effettuate da
chi, avendo perso fiducia nel Paese, era evidentemente disposto a rischiare la
confisca e l'accusa di contrabbando.
Da
moti ed incidenti di piazza è toccata anche l'Europa. A parte le vicende di
guerriglia urbana nei mesi scorsi legate ai problemi del debito greco,
portoghese, spagnolo ed irlandese, a parte le manifestazioni degli studenti
inglesi, in questi ultimi giorni ci sono stati tre morti nei moti di piazza in
Albania. In generale, in tutto l'Est europeo vi è una situazione molto pesante,
come ad esempio in Estonia o in Moldavia, dove la benzina ed i generi di prima
necessità hanno avuto forti aumenti di prezzo.
La
situazione non sembra migliore nei Paesi occidentali, anche se i dati sono
apparentemente contraddittori. Infatti, secondo quanto dichiarato dal Ministero
dell'Agricoltura, negli Usa l'inflazione ed in particolare quella dei prodotti
agricoli e dei beni di largo consumo o di prima necessità è ai minimi dal 1992
[4]; i dati ufficiali nei Paesi europei sono simili. In realtà chi va
regolarmente a far la spesa del livello generale dei prezzi ha un'altra
impressione [5]: per costoro l'inflazione dei prodotti alimentari ed agricoli non
sembra più solo una vaga ipotesi teorica. Nei Paesi occidentali, infatti
l'inflazione ha solo assunto forme "astute": ad esempio, le catene
della grande distribuzione ed in generale i produttori, laddove possibile non
hanno aumentato di molto i prezzi, ma hanno diminuito invece o la qualità o la
quantità delle confezioni (aumentando le verdure o il condimento contenuti
nelle scatolette di tonno o di altri generi, per esempio). La Corea del Nord,
infine, ha reagito al deficit alimentare a suo modo: sparando cannonate, come
suo solito, data la carestia endemica provocata dal regime. Questa volta, però,
per sottolineare, l'urgenza e la gravità della propria situazione di carenza
alimentare, non si è più tuttavia limitata a sparare a salve o a lanciare
missili in mare, ma ha colpito dei centri abitati provocando morti tra la
popolazione civile.
Singolarmente
prese, tutti questi eventi sembrano vicende ed insorgenze causate da contingenze
locali. Non è però così. Certo, è vero che in base ai dati della Fao,
l'organizzazione mondiale dell'agricoltura, l'incremento dei prezzi delle
derrate agricole, ed in particolare dei cereali, lo scorso anno è stato di
circa il 40-60 %. Il rialzo dei generi di prima necessità che ha colpito questo
e quel Paese è quindi davvero un fenomeno mondiale. La causa però non è
dovuta ad un deficit della produzione o ad eventi climatici: la siccità che ha
colpito le colture di grano in Russia ed in Kazakistan o le inondazioni in
Canada e nell'Europa del Nord, in Australia (quella umanamente devastante del
Pakistan ha avuto un impatto minore in termini di incidenza sulla produzione
agricola mondiale). Lo stesso se ne deve dire delle gelate in Argentina che
hanno colpito il mais, la soia, il grano o la perdita del raccolto delle patate
sempre in Russia e di altri casi. Le sommosse popolari non si possono imputare
alla carestia e di certo non nelle forme in cui l'umanità l'ha conosciuta per
migliaia di anni. La produzione di cereali [6] è diminuita lo scorso anno circa
del 2 % e questa diminuzione proprio non spiega gli incrementi di prezzo
registratisi. In primo luogo è evidente la sproporzione tra gli incrementi di
prezzo ed il decremento della produzione mondiale. In secondo luogo è facile
verificare come si è potuto facilmente ovviare al calo produttivo contingente
facendo ricorso alle scorte, cioè utilizzando le eccedenze rispetto ai consumi
accumulatesi negli stoccaggi grazie ai raccolti record ottenuti nei precedenti
anni. Dei dati Fao è anche interessante notare la forte progressione dei prezzi
negli ultimi sei-sette anni: in certi casi rispetto al 2002-2004 l'incremento
dei prezzi è stato quasi del 400 %, nonostante gli incrementi della produzione.
L'inflazione
dei prezzi all'origine non ha dunque cause tecniche o climatiche, ma
finanziarie. Nasce cioè dall'enorme liquidità immessa sul mercato dalle banche
centrali, ed in particolare dalla Federal Reserve americana, come da anni ormai
AsiaNews è andata documentando. Da molto, infatti, i prezzi delle materie prime
non riflettono più - o lo fanno solo in maniera molto marginale - il rapporto
tra domanda ed offerta dei beni fisici contrattati. Il fattore di gran lunga
determinante per i prezzi di quasi tutte le materie prime sono gli acquisti e le
vendite degli operatori finanziari in grado di spostare in tempi brevissimi
ingenti somme dal mercato dei titoli di Stato, alle obbligazioni, alle azioni o
alle cosiddette merci. Per chi è inserito nei circuiti giusti i profitti sono
enormi ed i rischi relativamente bassi: potendo disporre di enormi risorse, ai
fini pratici quasi illimitate, è facile conseguire i risultati voluti. Si
tratta di una sistematica distorsione dei valori di mercato, attribuibile non
esclusivamente, ma certo in maniera non del tutto trascurabile al " Plunge
Protection Team" (traducendo letteralmente Squadra Protezione Tonfi,
ovviamente finanziari). È un termine giornalistico statunitense molto colorito
che si riferisce ad un organismo di cui si parla poco ma che per la sua
stessa composizione è in grado di esercitare un notevole influsso sui mercati.
Il nome ufficiale di tale organismo è "Gruppo presidenziale di lavoro per
i mercati finanziari" (in inglese President's Working Group on Financial
Markets). Fu costituito nel 1988 ed è formato dal Ministro del Tesoro, il
governatore della Fed, il presidente della Sec (l'equivalente americano della
Consob) e dal presidente della Commissione sulle Borse dei contratti a termine -
i "future" - e delle Merci. Ad esso va ad
aggiungersi l'operato che un tempo era straordinario ma ora è di fatto
diventato quotidiano del Fomc, il comitato della Federal Reserve Bank di New
York per le operazioni di mercato aperto. Al seguito di questi gruppi
istituzionali si muove un ristretto numero di operatori, grandi banche d'affari
- come Goldman Sachs e JP Morgan ad esempio - e grandi fondi d'investimento
speculativi, i cosiddetti hedge fund. Gli interscambi, anche di ruoli, tra i
gruppi istituzionali e questi grandi gruppi privati sono ovviamente all'ordine
del giorno e non c'è da meravigliarsi se ad esempio un pugno di gestori di tali
fondi speculativi riesce a percepire compensi annuali che in alcuni casi hanno
superato il miliardo di dollari, solo come emolumenti.
Il
lato piacevole non è dato tanto dalla potenza di "fuoco" in mano ad
un gruppo molto ristretto di persone (si pensi che il valore dei
"derivati" finanziari è pari a circa 15 volte il valore del Pil
mondiale, del valore cioè di tutte le merci ed i servizi prodotti annualmente
nel mondo). Il dato più confortante per chi è inserito nel meccanismo è la
certezza che il rischio di pagare fino in fondo per i propri errori è davvero
minimo. Valga un semplice esempio.
In
un precedente articolo [7] avevamo notato come nel bilancio (diciamo così per
brevità) della Federal Reserve (che di fatto è la Banca Centrale degli Usa, ma
non la può chiamare così perché la Costituzione Americana vieta l'istituzione
di una banca centrale), i "Titoli con attivo sottostante" (MBS secondo
l'acronimo inglese) costituivano al 3 novembre 2010 il 44,91% dell'attivo
di bilancio della suddetta Fed. Avevamo anche osservato che, da un punto di
vista giuridico, tali MBS sono di fatto privi di valore. La conseguenza sarebbe
ovvia: il rischio che la Fed (un organismo di diritto privato istituito in base
alla legge del 23/12/1913 promulgata da Woodrow Wilson) possa divenire
insolvente e fare bancarotta a causa del buco derivato da tali titoli sarebbe in
teoria elevato. Da pochi giorni non è però più così. Ci informa infatti
l'agenzia Reuters [8] che, la Fed, quatta quatta, senza avvertire nessuno ha
autonomamente cambiato le proprie regole contabili. La ragione è che da circa
il 6 gennaio di quest'anno le obbligazioni detenute dalla Fed, tra cui i
suddetti MBS, non sono più un rischio a carico della Fed, ma gravano come
responsabilità del Ministero del Tesoro americano. Insomma, in base a tali
nuove regole, la Fed non corre più il rischio, anche solo teorico, di fare
fallimento. Quando sarà chiaro a tutti che le obbligazioni comprate dalle
banche commerciali per evitarne il tracollo sono prive di valore, la
responsabilità sarà del Tesoro americano. In questa maniera, alla faccia della
democrazia ed all'insaputa praticamente di tutti, i rischi d'insolvenza sono
stati trasferiti a carico dei cittadini statunitensi, attuali e delle future
generazioni, vecchi e lattanti compresi. Ovviamente, le ricche commissioni
a suo tempo percepite dalle banche e dalle grandi finanziarie e finite negli
emolumenti percepiti dai dirigenti, non corrono più nemmeno il rischio
remotissimo della revocatoria. Pedro Nicolaci da Costa, l'articolista della
Reuters, commenta: potessero autonomamente cambiare le regole contabili anche le
famiglie americane come fa la Fed! Potessero fare così le famiglie di Cina ed
India per le quali circa il 40 % dei propri magri bilanci vanno per la spesa
alimentare, commentiamo noi ad AsiaNews!
Il
risultato di tutto ciò è che i divari economici tra le élite ed il resto del
mondo si accrescono sempre più ed aumentano i rischi di insurrezioni
dappertutto nel mondo, ma questo non sembra preoccupare granché le élite che
ad un conflitto di grandi dimensioni da tempo vanno preparandosi.
Infine
s'impone un'ultima notazione: quei dirigenti politici che sembra non vogliano
adeguarsi ai gusti ed ai modi delle potenti élite finanziarie vanno eliminati.
[1]
Vedi
tra i numerosi articoli ad esemp.
a)
AsiaNews, Wei Jingsheng, 30/12/2010, L'inflazione in Cina causerà il collasso
del regime
b)
AsiaNews, 20/01/2011, Teme l'inflazione l'economia cinese in crescita
[2]
Vedi tra i numerosi articoli ad esemp.
a) AsiaNews, Nirmala Carvalho, 17/01/2011, In India sale il prezzo della benzina: i
poveri soffrono, i ricchi aumentano
b) AsiaNews, Nirmala Carvalho, 20/01/2011, Il caro cipolle mette in crisi la
crescita indiana e può far cadere il governo
[3]
Vedi
: http://news.egypt.com/arabic/permalink/854581.html
[4]
Il Ministero dell'Agricoltura americano, in una nota riportata dalla Reuters lo
scorso 25 agosto, l'inflazione dei prodotti alimentari è la più bassa dal
1992, vedi Reuters, 25/8/2010, Food price inflation lowest since 1992:USDA
[5]
Vedi
CS Monitor, 8/11/2010, Food price inflation isn't theoretical anymore
[6]
Vedi: Fao. Food Outlook, novembre 2010. Food Outlook Global Market
Analysis
[7]
Vedi AsiaNews, 18/11/2010, MdO, La guerra delle valute e la scomparsa
della Fed
[8]
Vedi Reuters,21/1/2011, Pedro Nicolaci da Costa , Accounting tweak could save
Fed from losses
Deforestazione,
una minaccia per la terra e i suoi abitanti
Misna
- 26 gennaio 2011
La
deforestazione minaccia la sopravvivenza di oltre 1,5 miliardi di persone che
traggono il loro sostentamento quotidiano da alberi e la natura circostante
mette in guardia le Nazioni Unite per il 2011, "l'anno internazionale delle
foreste", un'iniziativa che mira a proteggere polmone verde 'del World' -
oltre 31 % della superficie della Terra, o quattro miliardi di ettari - e dei
suoi abitanti. "Le foreste interessare tutti gli aspetti della vita umana.
[...] Dobbiamo integrare la voce del popolo delle politiche forestali per
costruire un futuro sostenibile per le foreste e le persone che fanno
affidamento su di loro ", ha detto Jan McAlpine, direttore del Forum delle
Nazioni Unite per la Promozione dello Sviluppo Sociale, la lotta alla povertà e
la gestione sostenibile degli ecosistemi, che sarà in corsa per le prossime due
settimane a New York. L'Onu dice che degli oltre 1,6 miliardi di persone che
dipendono direttamente da foreste, circa 60 milioni di appartenenza e comunità
locali autoctone mancanza di risorse economiche. Secondo i dati messi in luce
dalle Nazioni Unite, circa 13 milioni di ettari di foresta vengono cancellate
ogni anno a causa dello sviluppo urbano o richiedi agricoli. [ BO ]
Pew
Forum: un quarto della popolazione di Israele sarà musulmano nel 2030
AsiaNews - Washington - 27 gennaio 2011
Il
rapporto su "Il futuro della popolazione musulmana globale" dimostra
un forte calo (dal 2.2 all'1.7 annuo) nel tasso di fertilità dell'islam nei
prossimi 20 anni. Il Pakistan diventerà il più popoloso Paese islamico del
mondo.
Il
rapporto del Pew Forum intitolato "Il futuro della popolazione musulmana
globale" sostiene che nei prossimi 20 anni i musulmani che vivono in
Israele (esclusi Gaza e la Cisgiordania) saranno il 23.2% della popolazione
globale dello Stato ebraico, passando a due milioni 100mila unità nel 2030 da
un milione e settecentomila unità del 2010.
In
generale, anche se i musulmani registrano un tasso di crescita doppio rispetto a
tutti gli altri gruppi presi in considerazione, è evidente un calo molto forte
della fertilità previsto per i prossimi 20 anni. Si passerà da un tasso del
2.2% calcolato negli anni che vanno dal 1999 al 2010 a un tasso dell'1.5% annuo
da ora fino al 2030.
"Il
declino del tasso di crescita è dovuto in primo luogo alla minore fertilità in
molti paesi a maggioranza musulmana" afferma il rapporto, sottolineando che
la decrescita è legata a una maggiore istruzione femminile e a standard di vita
più elevati, oltre che all'urbanizzazione.
Nel
2030 il 60% dei musulmani del mondo vivrà nella regione Asia-Pacifico; il 20%
nel Medio oriente, il 17.6% nell'Africa sub-Sahariana, il 2.7% in Europa e lo
0.5% nelle Americhe. Il Pakistan supererà l'Indonesia come Paese musulmano più
numeroso, mentre l'India manterrà il terzo posto per numero globale di
musulmani.
Bagnasco:
minacce alla libertà religiosa anche in occidente, per l'aggressività laicista
AsiaNews - Ancona - 24 gennaio 2011
Il
presidente della Cei apre l'assemblea dei vescovi italiani chiedendo che le
istituzioni internazionali si facciano carico dell'esistenza nei singoli stati
di un minimo di libertà per tutte le fedi. Europa e cristianofobia: "Un
male sottile sta affliggendo l'Europa, provocando una lenta, sotterranea
emarginazione del cristianesimo, con discriminazioni talora evidenti".
Il
presidente della Cei, card. Angelo Bagnasco, ha aperto oggi i lavori
dell'Assemblea dei vescovi italiani. Nella sua prolusione ha ricordato le
minacce alla libertà religiosa e alla vita dei cristiani in varie parti del
mondo e soprattutto in Medio Oriente, facendo memoria degli attentati di Baghdad
e di Alessandria d'Egitto. Egli ha anche focalizzato la sua attenzione
sull'occidente, denunciando che "subdole minacce ad un'effettiva libertà
religiosa esistono anche nei Paesi di tradizione democratica, a partire da
quelli europei. Dovremmo guardarci infatti dai sottili tranelli dell'ipocrisia,
che induce a cercare lontano ciò che invece è riscontrabile anche
vicino".
Il
card. Bagnasco ha ricordato le polemiche sul crocifisso esposto nelle scuole o
in ambito pubblico, e ha detto che "la libertà religiosa è un perno
essenziale e delicatissimo, compromesso il quale è l'intero meccanismo sociale
a risentirne, solitamente anche oltre le previsioni. C'è talora un argomentare
infastidito sulla neutralità dello Stato che si rivela non poco capzioso. E c'è
un'aggressività laicista dalle singolari analogie con certe ossessioni
ideologiche che ci eravamo lasciati alle spalle senza rimpianti. Colpisce, in
questo senso, la denuncia che nel mese scorso è stata diffusa durante un
convegno viennese dell'Osce secondo la quale un'astratta applicazione del
principio di non discriminazione finisce paradossalmente per comportare
un'oggettiva limitazione al diritto dei credenti a manifestare pubblicamente la
propria fede".
Il
presidente della Cei ha denunciato che "un male sottile insomma sta
affliggendo l'Europa, provocando una lenta, sotterranea emarginazione del
cristianesimo, con discriminazioni talora evidenti ma anche con un soffocamento
silente di libertà fondamentali. Il caso su cui ci si sofferma è quello
dell'obiezione di coscienza sui temi di alta rilevanza etica che, in più
nazioni, si tenta ormai di ridimensionare. Ciò segnerebbe un regresso sul
crinale della libertà. Emarginare simboli, isolare contenuti, denigrare persone
è arma con cui si induce al conformismo, si smorzano le posizioni scomode, si
mortificano i soggetti portatori di una loro testimonianza in favore di valori
cui liberamente credono".
Per
quanto riguarda la "cristianofobia" in molti Paesi, il porporato si è
augurato che "il problema delle più elementari garanzie negate alle
minoranze religiose - in non poche situazioni nazionali - venga posto con la
lucidità e l'energia necessarie. Si apre qui, è noto, un problema drammatico
di reciprocità, che non si risolve minacciando ritorsioni o attenuando, in
Italia e in Occidente, le garanzie dei cittadini provenienti dagli Stati che non
assicurano parità di trattamento". Ma è necessario invece
"urgentemente porre la questione della libertà religiosa nelle sedi
internazionali - Unione Europea, Onu...- al fine di aprire gli occhi e
mantenerli aperti, insistendo affinché nei singoli Stati vi sia un sistema
minimo di garanzie reali per la libertà di tutte le fedi".
"Traffico
di esseri umani Business da 32 miliardi" di Paolo Lambruschi
Avvenire
- 26 gennaio 2011
Calvani
(Asean): crescono i collegamenti tra le bande
Alessandro Calvani è una delle persone che meglio conosce la realtà sommersa
del traffico di esseri umani per averla combattuta per anni come direttore
dell'Unicri, l'ufficio Onu che contrasta il crimine internazionale. Oggi vive a
Bangkok dove dirige il Centro Asean per lo sviluppo. Secondo le Nazioni Unite,
sono 12 milioni le vittime del lavoro forzato. Ogni anno sono tra 700.000 e
900.000 le nuove vittime del traffico internazionale che si aggiungono a 2,5
milioni di persone già nel giro. Circa il 20% sono minorenni; quasi l'80% di
sesso femminile. Il 79% è stato vittima di sfruttamento a fini sessuali.
-Quali
sono i volumi di affari dei nuovi mercanti di schiavi e i trend per i prossimi
anni?
Abbiamo
stime incomplete. Ad esempio oltre 70.000 persone all'anno sono vittime della
tratta tra l'Europa orientale e la Russia verso l'Europa occidentale, che crea
un guadagno per i trafficanti di quasi tre miliardi di euro l'anno. Il valore
della tratta di esseri umani a livello globale corrisponde a circa 32 miliardi
di dollari all'anno, di cui 9,7 appartengono al mercato asiatico, dove sono
trafficate circa 1,4 milioni di persone all'anno. E solo in Messico la tratta
procura ai trafficanti tra i 15 e i 20 miliardi di dollari annui. Se nulla
cambia, il trend sarà di crescita, pari almeno alla crescita dell'economia
lecita.
-Quali
sono le caratteristiche del traffico in Asia?
Le
vittime potenziali aumentano in fretta ovunque c'è distruzione dei tessuti
sociali, delle famiglie soprattutto, causati da conflitti e disperazione
economica. Il governo thailandese continua il suo impegno per ridurre il
fenomeno delle vittime nell'area dei paesi del Mekong. Ma in Myanmar la miseria
è cronica soprattutto tra le minoranze etniche, che sono il 40% della
popolazione. A volte sono le famiglie a vendere una bambina ai trafficanti per
avere il riso per altri tre mesi. In Cambogia è diminuita la povertà ma è
cresciuta la disuguaglianza. Il Laos rimane uno dei paesi più poveri della
regione. C'è una forte crescita del traffico verso il Sud-Est Asiatico da altre
aree del mondo.
-Come
sono strutturate le reti dei trafficanti? C'è una regia unica?
Non
c'è una Spectre globale di tipo piramidale come le mafie. C'è però una forte
rete diffusa di collaborazioni e collusioni che rende efficienti i traffici in
termini di collegamenti tra domanda e offerta, sistemi finanziari, impunità,
corruzione di ogni forma di resistenza. Ogni anello della catena del traffico
conosce solo l'anello precedente e quello seguente e ottimizza solo quelle due
relazioni. Questo metodo minimizza anche l'impatto, peraltro scarso, delle
investigazioni e della repressione.
-Nella
vicenda degli eritrei rapiti nel Sinai si sospetta vi sia la regia di Hamas e di
Al Qaeda. I proventi del traffico di esseri umani vanno a finanziare le attività
terroristiche?
Il
prodotto criminale mondiale è una specie di borsa mondiale dei titoli delle
imprese di saccheggio globale. Il capitale va dove è più remunerato, dove le
azioni crescono più in fretta e con meno rischi. Ovvio che tutte le sinergie
sono cercate dovunque possibile. Se un trafficante di persone paga per
garantirsi che un camion passi un posto di frontiera o perché un peschereccio
entri ed esca da un porto senza che nessuno ci guardi dentro, vuole che non
venga massimizzata l'opportunità mettendoci dentro anche soldi, e armi, oltre
che esseri umani? In trent'anni in prima linea nelle crisi umanitarie più gravi
e nei conflitti più sanguinosi, non ne ho mai visto uno dove capitali illeciti,
conflitti e crimini non fossero associati. Il terrorismo ha bisogno di armi,
soldi, risorse umane. Il crimine organizzato può fornire soldi e armi in cambio
di copertura dei suoi traffici, compresi i rifiuti tossici e i beni forestali.
Le risorse umane le forniscono invece l'assenza di dialogo negli scenari di
crisi e gli stati falliti laddove l'economia illecita funziona meglio di quella
lecita.
-È
migliorata la collaborazione tra polizie per stroncare il traffico ci persone?
Le
forze di polizia collaborano molto meglio di dieci anni fa. Ma non si può
fermare un fenomeno sociale, economico e in qualche modo un'omissione politica
solo usando le manette.
-Che
tipo di protezione va assicurata alle vittime della tratta?
Le
vittime della tratta hanno diritto alla protezione come vittime, come testimoni
del modus operandi di uno dei crimini più mostruosi del nostro tempo e, in
molti casi, anche come rifugiati, visto che la loro vita sarebbe minacciata se
tornassero nel paese di origine.
-Secondo
lei l'opinione pubblica è adeguatamente informata?
Mi
pare di no. Se tutti sapessero quello che c'è dietro a queste rapine di dignità
umana parecchi si ribellerebbero all'ignavia delle autorità o sfonderebbero le
porte di certi postriboli per liberare le vittime.
Nord Africa: Pane e dignità
Unimondo
- 29 Gennaio 2011
È
un 2011 critico quello di molti paesi dell’area mediterranea che, anche grazie
ai social network, ha portato migliaia di persone in piazza a manifestare contro
disoccupazione, rincari alimentari, corruzione e cattive condizioni di vita. Ha
cominciato la Tunisia questa “cyber-rivolta” il 17 dicembre quando Mohamed
Bouaziz, un giovane diplomato di 26 anni si è dato fuoco avviando gli scontri
che hanno costretto il 14 gennaio il presidente Zine El Abidine Ben Ali ad
abbandonare il Paese. Hanno continuato l’Algeria il 7, l’Albania il 22,
l’Egitto il 24, il Libano il 26 gennaio e anche Yemen, Marocco e Libia
sembrano non essere immuni alle continue richieste di “pane e dignità”.
Ovunque le stesse ragioni, la stessa voglia di cambiamento e la stessa violenta
reazione del potere che ha portato morti, feriti e centinaia di arresti. E
l’Europa?
L’Europa
guarda e mentre i blogger diventano la prima linea dell’organizzazione e
dell’informazione, l'Associazione per i Popoli Minacciati (APM) si è
appellata ai governi europei affinché si impegnino maggiormente e da subito per
il rispetto dei diritti umani, in primis nei paesi nordafricani. Secondo l'APM,
l'Europa “che finora non ha fatto molto per sostenere la democrazia in questa
regione”, deve finalmente “esercitare pressione sui governi nordafricani
affinché possa migliorare la situazione dei diritti umani”.
“La
visita in Germania del presidente algerino Abdelaziz Bouteflika avvenuta nel
dicembre 2010 è un chiaro esempio dell'immobilismo europeo - ha spiegato APM -
infatti, nonostante il partito al governo, il Front de Libération Nationale
(FLN) di Bouteflika, sia considerato corresponsabile della morte violenta di
oltre 120.000 persone durante la guerra civile che ha sconvolto il paese tra il
1991 e il 2001, nonché della scomparsa di oltre 20.000 algerini, [...] Angela
Merkel non ha nemmeno menzionato le parole diritti umani" o le persecuzioni
del popolo Cabili.
Così,
sottolinea APM, “Invece di parlare di diritti umani, la Merkel si è
preoccupata dell'incremento delle relazioni economiche, della cooperazione
energetica [...] e dell'immigrazione clandestina, nonostante si sappia che il
FLN e ambiti importanti delle forze di sicurezza algerini siano implicati nella
tratta di persone” anche grazie al bavaglio sull’informazione denunciato da
Human Rights Watch.
Non
differente il trattamento in guanti bianchi dell’Europa nei confronti del
Marocco. I colloqui del 15 novembre 2010 tra il ministro degli esteri tedesco
Guido Westerwelle e il suo collega marocchino Taib Fassi Fihri rispecchiano
perlopiù lo stesso schema: “si è parlato di cooperazione energetica e
avvicinamento del Marocco all'UE, mentre si è taciuto sui diritti violati dei
Berberi, dei politici dell'opposizione e della limitata libertà di stampa dei
giornalisti”.
“Perlomeno
Westerwelle - ha concluso APM - ha accennato all'irrisolto conflitto del Sahara
occidentale, ma l'impegno di Berlino riguarda unicamente il fatto che
l'occupazione illegale del Sahara occidentale da parte del Marocco impedisce la
firma di un accordo di pesca tra l'UE e il Marocco” e non del diritto
all’autodeterminazione del popolo Saharawi.
Sull’urgenza
di una presa di coscienza dell’Europa e dei paesi coinvolti nei disordini è
anche Amnesty International che ha chiesto pochi giorni fa, questa volta alle
autorità tunisine, di “revisionare a fondo il sistema giudiziario e
l'apparato repressivo di sicurezza del paese”. L'organizzazione intende
sottoporre al nuovo governo di Tunisi una "Agenda per il cambiamento in
tema di diritti umani", che possa introdurre riforme profonde e stabili,
"in grado di rompere definitivamente con un passato fatto di decenni di
violazioni dei diritti umani”.? ?
"È
un momento decisivo per la Tunisia - ha dichiarato Claudio Cordone, direttore
della ricerche e dei programmi regionali di Amnesty International - e occorrono
cambiamenti reali e non di facciata. Come primo passo, il governo deve
immediatamente riprendere il controllo delle forze di sicurezza e fare in modo
che siano chiamate a rispondere del loro operato. I diritti umani devono essere
il nucleo centrale, e non un’opzione del programma del nuovo governo”. ?”È
semplicemente irresponsabile garantire il potere di sparare a vista - ha
dichiarato Hassiba Hadj Saharaoui, vicedirettrice del Programma per il Medio
oriente e l'Africa del Nord di Amnesty - non è continuando a sparare ai
dimostranti che sarà ristabilito l'ordine pubblico”.
Qualcosa
di analogo si può dire dello Yemen? “Lo Yemen non è la Tunisia", ha
fatto notare il ministro dell'Interno Motahar Rashad al-Masri, affermando di non
essere affatto preoccupato per le manifestazioni poiché "il nostro è un
Paese democratico". Una democrazia che vede da 32 anni lo stesso
presidente, dove circa metà dei 23 milioni di yemeniti vive con due dollari al
giorno, un terzo della popolazione soffre la fame e come ricorda Human Rights
Watch “le violazioni dei diritti umani sono evidenti e verificabili su larga
parte della società civile yemenita”.
Appare
quindi chiaro, come sottolinea lo scrittore Tahar Ben Jalloun, che “se gli
algerini e i tunisini [e non solo] continuano ad essere stretti nella morsa di
regimi totalitari, se in questi giorni la rabbia dei giovani senza speranze nel
futuro sta esplodendo nelle strade da una parte all'altra dei due paesi
maghrebini, lasciando sul terreno morti e feriti, è colpa anche dell'Italia e
della Francia, che da anni continuano ad ignorare le violazioni delle libertà
più elementari e l'indigenza delle popolazioni, pur di fare affari con Tunisi e
Algeri, dove la democrazia non è certo di casa”. Occorre l’appoggio
dell’UE per ripartire dai diritti del nord Africa, e occorre farlo in fretta,
senza dimenticare il Marocco di Jalloun e la Libia di Gheddafi. [A.G.]
Pari
opportunità: la Liberia prima in Africa
Misna
- 26 gennaio 2011
Il
primo capo di Stato donna del continente, Ellen Johnson Sirleaf, presidente
della Liberia, è la vincitrice del Premio africano per la parità tra sessi
2011 (African gender award, Aga) del Centro panafricano per la parità tra i
generi, la pace e lo sviluppo per aver applicato in Liberia le convenzioni
internazionali sulle pari opportunità ed aver protetto i diritti delle donne.
La cerimonia di premiazione, tenuta ieri ad Addis Abeba a margine della 16ª
conferenza dell'Unione Africana, è stata coordinata dall'ex presidente del
parlamento panafricano, Gertrude Mogella. "Il principale obiettivo di
questo premio - ha detto Mogella - è dare una valutazione delle presidenze
africane e di quanto hanno fatto per le donne". Gli organizzatori dell'Aga
hanno evidenziato le politiche introdotte da Sirleaf nel settore scolastico e,
in particolare, il sostegno garantito alle madri non in grado di assistere
economicamente i propri figli. Quella di quest'anno era la quarta edizione del
premio che nel 2005 (anno dell'esordio) era andato a Thabo Mbeki, ex presidente
del Sudafrica, e Abdoulaye Wade, presidente del Senegal, per il lavoro svolto
nei rispettivi paesi. [CO]
Gli
ostacoli all'evangelizzazione e alla promozione umana in Africa: concluso
l'incontro del FIAC
Agenzia Fides
- Dakar - 28 gennaio 2011
Le
povertà e le ingiustizie sociali, il malgoverno, la persistente insicurezza, il
cattivo avvio della democrazia in parecchi Paesi, la corruzione, l'urgenza della
riconciliazione e della formazione integrale della persona: queste le sfide
all'evangelizzazione e all'affermazione della dignità umana analizzate nel IV
incontro continentale del FIAC (Forum Internazionale di Azione Cattolica) per
l'Africa occidentale che si è concluso il 23 gennaio a Dakar, in Senegal (vedi
Fides 19/1/2011).
Secondo
il comunicato conclusivo inviato all'Agenzia Fides, all'incontro sul tema
"Vita, pane, pace e libertà. Per un'Africa prospera, in pace,
riconciliata" hanno partecipato 100 rappresentanti dei Movimenti di Azione
cattolica di Benin, Burkina Faso, Costa d'Avorio, Ghana, Mali, Nigeria e
Senegal, insieme a membri del Segretariato internazionale del FIAC di quattro
Paesi (Italia, Spagna, Romania e Burundi).
Al
termine dei lavori, i partecipanti hanno assunto l'impegno, in particolare, di
"promuovere e difendere i valori cristiani in tutti gli ambiti di
vita", di "conoscere meglio e integrare le nostre culture in maniera
consapevole e coerente alla luce del Vangelo", di approfondire "il
dialogo interreligioso e interculturale" e la riflessione
"sull'ecclesialità, la laicità, l'organicità e la collaborazione con la
Gerarchia": le quattro note dell'Apostolicam Actuositatem (n° 20) che
caratterizzano i Movimenti di Azione Cattolica.
I
laici di Ac dell'Africa occidentale hanno anche raccomandato alla gerarchia
ecclesiastica di "promuovere la formazione dei laici per una maggiore
efficacia della missione della Chiesa" e di "creare una sinergia di
riflessione e di azione, a tutti i livelli, tra Pastori, consacrati e laici,
fondata sulla corresponsabilità nella comunione", senza dimenticare di
"dotare le strutture di coordinamento dell'apostolato dei laici di
conseguenti risorse umane, materiali e finanziarie per il raggiungimento degli
obiettivi". Hanno, inoltre, chiesto di "creare le condizioni di
dialogo con i politici ed i responsabili della società civile in vista della
promozione del bene comune e dello Stato di diritto". Al Segretariato del
Fiac, infine, è stato richiesto di continuare a "promuovere questo tipo di
seminari di formazione a livello internazionale, continentale, regionale e
diocesano".
IL
FIAC ha ricordato Mons. Jacques Sarr, Vescovo di Thiès e Presidente della
Commissione Episcopale per l'Apostolato dei Laici del Senegal, morto il 18
gennaio (vedi Fides 21/1/2011), come "uomo di Dio dedito totalmente al
servizio della Chiesa, che aveva uno sguardo di speranza per l'Africa".
(L.M.)
Le
"rivoluzioni democratiche" di Costa d'Avorio e Sud Sudan
al
centro del Vertice dell'Unione Africana
Agenzia Fides - Addis Abeba - 29 gennaio 2011
Gli
avvenimenti egiziani di queste ore e le altre crisi in corso in altri Paesi
africani, sono al centro del 16esimo Vertice dell'Unione Africana (UA), in corso
nella capitale dell'Etiopia, Addis Abeba. In agenda vi è anche la situazione
della Costa d'Avorio, dove il Presidente uscente Laurent Gbagbo, afferma di aver
vinto il secondo turno delle elezioni del 28 novembre, negando la vittoria ad
Alassane Ouattara, Presidente riconosciuto dalla maggior parte degli Stati
stranieri.
L'Unione
Africana e la Comunità degli Stati dell'Africa Occidentale (CEDEAO/ECOWAS)
sembravano essere unite nell'appoggiare Ouattara, ma nel corso del Vertice sono
emerse divergenze tra i Paesi africani. Gbagbo ha il sostegno esplicito
dell'Angola, mentre alcuni Stati africani sono sempre meno convinti di
appoggiare un'eventuale operazione militare condotta dalla CEDEAO per rovesciare
Gbagbo e installare al potere Ouattara. Nei giorni scorsi si sono tenute
riunioni preparatorie per un'azione militare in Costa d'Avorio, sotto l'egida
della Nigeria. Alcuni membri della CEDEAO hanno però fatto sapere di non essere
disponibili ad inviare proprie truppe. Anche altri importanti membri dell'UA,
come il Sudafrica, hanno preso le distanze da una possibile soluzione militare.
Un
altro argomento affrontato dal Vertice è il referendum sull'indipendenza del
sud Sudan, i cui risultati ufficiali non sono stati ancora resi noti, anche se
è data per scontata la vittoria degli indipendentisti. L'UA si prepara così ad
accogliere un nuovo Stato membro.
La
situazione in Tunisia e in Egitto dimostra che si sta diffondendo la richiesta
di maggiore democrazia non solo nel mondo arabo, ma anche nell'Africa
sub-sahariana (per domani, 30 gennaio, sono previste dimostrazioni in Sudan
contro il carovita e per chiedere maggiori spazi democratici). Ma l'UA si
appresta ad eleggere come suo Presidente di turno, il Capo dello Stato della
Guinea Equatoriale, Teodoro Obiang Nguema, non certo famoso per il rispetto
della democrazia. (L.M.)
La competizione India-Cina arriva sul Mar Arabico
AsiaNews - New Delhi - 27 gennaio 2011
Pechino
sviluppa il porto pakistano di Gwadar e progetta collegamenti viari diretti con
il Pakistan attraverso le vette del Karakorum. New Delhi sostiene il porto
iraniano di Chabahar e cerca rapporti privilegiati con Afghanistan e Asia
centrale. Si estende il confronto tra i 2 colossi asiatici.
La
competizione commerciale, militare e geografica tra Cina e India arriva sul Mar
Arabico, dove le due superpotenze asiatiche aiutano la costruzione di due porti
"rivali".
La
Cina ha finanziato e aiutato la costruzione del porto pakistano di Gwadar, sul
Golfo di Oman. Da lì Pechino ha un accesso diretto all'Oceano Indiano e alla
penisola arabica ricca di energia. Pechino vuole anche realizzare un'autostrada
e una ferrovia da Gwadar fino alla Cina, ma ci sono costi elevati e notevoli
problemi tecnici.
L'autostrada
del Karakorum vuole collegare la regione pakistana di Gilgit-Baltistan con lo
Xinjiang cinese. Ma corre tra vette altissime, con il punto più alto a
4.693 metri; sarebbe impraticabile da dicembre ad aprile per le nevi e il
maltempo. In alcuni tratti la zona è franosa, per cui non è adatta agli
autocarri più grandi.
La
ferrovia di tremila chilometri dovrebbe collegare Gwadar alla cinese Kashgar. Ma
il costo è enorme, oltre 30 milioni di dollari al chilometro nel tratto di alta
montagna.
Questi
hanno anche ostacoli politici: la regione pakistana del Baluchistan è molto
instabile, con forti movimenti ribelli e autonomisti. Alcuni ingegneri cinesi
sono stati rapiti a Gwadar ed uccisi.
In
ogni caso il porto di Gwadar rimane essenziale per la Cina per osservare le
attività navali nell'Oceano Indiano, come scalo per l'energia, come base per
navi e sottomarini cinesi.
New
Delhi vede nel porto di Gwadar una minaccia, anche per la sua vicinanza allo
Stretto di Hormuz e per il potenziale controllo sul trasporto di energia verso
l'India. Ha reagito con una nuova base militare da 8 miliardi di dollari a
Karwar, Karnataka, nell'India occidentale, ma soprattutto aiutando l'Iran a
sviluppare il porto di Chabahar. Chabahar è a 72 chilometri a ovest di Gwadar.
Inoltre
aiuta la realizzazione della strada Chabahar-Milak-Zaranj-Dilaram, dall'Iran in
Afghanistan. India, Iran e Afghanistan hanno un accordo per la vendita di merci
a New Delhi a condizioni preferenziali e con riduzioni fiscali.
Ma
anche l'Afghanistan ha una grande instabilità politica per i ribelli talebani.
Inoltre le opere procedono con lentezza: il porto di Chabahar nel luglio 2010
aveva una capacità di 2,5 milioni di tonnellate, rispetto ai 12 milioni
preventivati.
Infine
New Delhi di recente si è molto riavvicinata agli Stati Uniti, che propugnano
l'isolamento di Tehran per la sua politica nucleare. In questo confronto
politico, il grande alleato dell'Iran è proprio la Cina.
"Medio
Oriente, cristiani a rischio di estinzione" di Franco Serra
Avvenire
- 28 gennaio2011
Dal Consiglio d'Europa sì alla risoluzione: "Cessino le violenze". Ma la Turchia si sfila
L'assemblea
del Consiglio d'Europa si schiera a grandissima maggioranza nel condannare le
violenze contro i cristiani in Medio Oriente e nell'auspicare precise iniziative
in loro difesa: chiede ai governi europei un elenco di misure contro i Paesi che
"deliberatamente non tutelano la libertà di religione, compresa la libertà
di cambiare la propria "; li invita a istituire un "organismo
permanente di vigilanza" e a varare "d'urgenza" una vera
"strategia" di difesa di questo elemento essenziale dei diritti
dell'uomo; li incita a tenere conto del problema con una "clausola di
democrazia " quando negoziano o gestiscono accordi di cooperazione.
Nell'assemblea
formata dai parlamentari dei 47 Paesi del Consiglio - l'organismo paneuropeo per
i diritti umani - la risoluzione redatta e presentata dal presidente del gruppo
Ppe-Cd Luca Volontè (Udc) è stata approvata con 125 "sì", nove
"no" e 13 astensioni. "È un risultato di grande soddisfazione
per il Ppe-Cd - ha commentato Volontè citando in particolare la solerzia dei
colleghi italiani e francesi - ed è un segno di impegni chiari dopo la recente
posizione dell'Europarlamento, forse meno dettagliata della nostra". Di
tutta evidenza la risoluzione approvata ieri potrà influire sulla posizione che
i ministri degli Esteri dell'Ue (tutti i Ventisette sono membri del Consiglio
d'Europa) prenderanno lunedì sulla questione. La risoluzione infatti invita i
governi a tener ben presente che "se non vengono adeguatamente affrontati i
problemi della bassa natalità e dell'emigrazione, aggravati in alcune zone
dalla discriminazione e dalle persecuzioni, le comunità cristiane rischiano di
sparire dal Medio Oriente, regione nella quale ha avuto origine il cristianesimo
". D'altro canto, si legge testo, "la scomparsa delle comunità
cristiane dal Levante metterebbe in pericolo anche l'islam perché sarebbe un
segnale di vittoria del fondamentalismo ". Nel ricordare che il 75% delle
violenze anti-religiose sono patite dai cristiani, il documento cita i massacri
di fedeli nella cattedrale cattolica siriana di Baghdad e in una chiesa copta di
Alessandria d'Egitto come "eventi particolarmente tragici " in una
catena di "attacchi contro le comunità cristiane che si stanno
moltiplicando in tutto il mondo". Tra i primi a commentare il voto, il
presidente dell'Udc Rocco Buttiglione ha detto che "cominciamo a passare
dalle parole ai fatti " e ha constatato che, grazie al Ppe, l'Europa
riconosce la "centralità di questo problema impegnando i Paesi membri ad
agire concretamente". Dichiarandosi esponenti "di una folta corrente
cattolica " nella sinistra, i parlamentari del Pd, Andrea Rigoni e Paolo
Giarretta, hanno sottolineato insieme che "la difesa della cristianità
deve partire da casa nostra e la Chiesa va difesa non solo nelle assemblee
istituzionali ma soprattutto in seno alla società civile" perché "la
cristianità sia più forte e soprattutto più libera, come tutti, uomini e
donne, dovrebbero essere dovunque nel mondo". Per le senatrici Idv,
Patrizia Bugnano e Giuliana Carlino, l'importanza del testo "sta nel
riaffermare che lo sviluppo dei diritti umani, della democrazia e delle libertà
civili deve essere la base comune per tutte le relazioni internazionali".
Al momento del voto l'unica delegazione nazionale a non approvare la risoluzione
è stata quella turca, con sette no e quattro astensioni. Hanno votato no anche
l'azero Fazil Mustafa (musulmano del gruppo liberale) e lo svizzero Andreas
Gross, socialista. Si sono astenuti anche tre azeri, e singoli parlamentari di
Russia, Svizzera, Olanda, Belgio, Danimarca e Islanda.
La
delegazione turca ha votato contro dopo aver tentato inutilmente di far
eliminare un paragrafo che invita Ankara a "chiarire appieno le
circostanze" dell'interruzione di Messe di Natale nel Nord di Cipro e di
far processare i responsabili. "Chi mi conosce sa quanto io apprezzi gli
sforzi che si stanno facendo in Turchia - ha commentato Volontè - e mi dispiace
che i colleghi turchi abbiano votato in questo modo: quel paragrafo non era un
attacco ma piuttosto un incoraggiamento da cogliere in positivo ma purtroppo così
non è stato".
Sospesi a Calais
di Marco Benedettelli e Gilberto Mastromatteo
Avvenire
- 28 gennaio 2010
Migranti
verso l'Inghilterra: un'odissea all'ultima tappa
Sono
sospesi fra due mondi. Da una parte, oltre la Manica, c'è l'Inghilterra. Alle
loro spalle, i Paesi di provenienza: l'Afghanistan, l'Iraq, il Sudan, la
Somalia, l'Eritrea. Nei dintorni di Calais, la cittadina dell'estremo nordest
della Francia, un migliaio di migranti irregolari attende il momento per
attraversare quei 34 chilometri di mare, sferzati dal vento gelido che rimbalza
sulle scogliere di Dover. Il metodo è sempre lo stesso: nascosti nelle pance
dei Tir, a bordo dei traghetti. Ma nel frattempo vivono accampati, con mezzi di
fortuna. Alcuni sotto i ponti dei canali, altri nei boschi attorno alla città,
altri ancora nelle vecchie fabbriche abbandonate. Qualche parola in italiano,
qui, la masticano tutti. Perché tutti, prima di arrivare in questo estremo
confine nord dell'Unione Europea, in Italia ci sono passati.
Come
Mahmoud, sbarcato nel 2007 a Porto Empedocle insieme ad altri 200 tra somali ed
eritrei partiti dalla Libia. Lui viene dall'Asmara e ha 22 anni. In uno spiccato
accento siciliano ci racconta la sua esperienza di cuoco in un ristorante di
Cassibile, in provincia di Agrigento, dove è vissuto per due anni e mezzo,
lavorando in nero. Ma il suo sogno era un altro. Il suo tormentone preferito è
Voglio andare in Inghilterra, ritornello di un pezzo rap di Fabri Fibra che la
radio trasmetteva nei pomeriggi di lavoro. E l'italiano lo conosce alla
perfezione anche Mohamed, 19 anni, arrivato dal Ciad. Lui in Europa ci è
entrato attraverso il passaggio a sudest. Dalla Turchia è sconfinato in Grecia
poi ha attraversato l'Adriatico nascosto in un tir per sbarcare al porto di
Ancona. A Calais vive in uno squat che tutti chiamano l'Africa House, un
gigantesco mobilificio abbandonato, divenuto il disperato rifugio di alcune
decine d'africani. Quasi ogni mattina vi fa irruzione le Compagnies Républicaines
de Sécurité, il reparto celere della Police nationale, per controllare i
documenti e portare in caserma i sans papier che non riescono a nascondersi in
tempo. "I poliziotti vengono qua e danneggiano le poche cose che abbiamo -
accusa - imbrattano i nostri vestiti di olio e persino di urina, lanciano gli
zaini sulle architravi inaccessibili della fabbrica". La vecchia Africa
House, quella storica, sorgeva a pochi minuti dal centro di Calais. È stata
sgomberata lo scorso anno dalle Crs. Ora eritrei, etiopi e somali dormono qui,
su materassi improvvisati tra la sporcizia e la polvere o su soppalchi fradici
che potrebbero schiantarsi da un momento all'altro. I sudanesi, una cinquantina,
vivono in alcune case abbandonate, poco distanti. "Qualche giorno fa -
racconta Mohamed - uno di loro è finito in ospedale dopo essere stato picchiato
da sette agenti ". In Italia Mohamed è vissuto due anni, cercando di
procurarsi da vivere senza riuscirci. Per otto mesi è rimasto a dormire nei
capanni tra le grotte che costellano la spiaggia del Passetto di Ancona. Poi ha
puntato verso la Francia. "In Italia si sta bene solo se hai soldi e
lavoro, altrimenti sei abbandonato a te stesso", ricorda.
Sono
centinaia gli afgani e i curdi, fermi a Calais, che hanno seguito la sua stessa
rotta. Conoscono le città italiane di Bari, Brindisi, Ancona, Venezia, Bologna
meglio di Marsiglia, Parigi o Lione. Molti di loro sono rifugiati politici, come
Mohamed e Mahmoud, ma continuano a sentirsi braccati. La polizia da queste parti
non dà tregua. Le irruzioni, i controlli, gli sgomberi sono continui. L'unico
momento di pace sembra essere quello dei pasti, distribuiti dall'associazione
Salam, due volte al giorno. Sotto le tettoie in vetroresina, immortalate dal
film Welcome di Philippe Lioret, si assiepano circa duecento persone. A Calais e
nella vicina Dunkerque, al confine con il Belgio, qualche anno fa erano arrivati
ad essere migliaia. Oggi, stando a quanto riporta il quotidiano The Telegraph ,
sono in mille a nascondersi sulla costa della Francia del nord e ogni settimana
circa in 50 riescono ad arrivare in Inghilterra. Secondo quanto dichiarato dal
direttore della polizia di frontiera inglese Carole Upshall, nel 2009 le persone
fermate mentre tentavano di attraversare illegalmente la Manica sono state 29
mila e i camion controllati circa un milione, con l'ausilio di unità cinofile,
scanner, rivelatori di anidride carbonica e di battito cardiaco.
Calais
è la valvola migratoria d'Europa. Lo è ormai da oltre dieci anni. Un confine
interno all'area Schengen, così lontano eppure così simile alle frontiere che
cingono la 'fortezza' a sud. I primi migranti sono arrivati alla fine degli anni
Novanta e ad ogni guerra è seguita una nuova ondata, prima gli afgani, poi i
curdi, infine gli africani.
Mohamed
ci racconta che il giorno prima del nostro arrivo la polizia ha raso al suolo
una baracca dove i migranti erano soliti lavarsi. Le uniche docce vere si
trovano all'Ospedale di Calais. Qui i sanitari forniscono un numero e ci si
mette in fila. C'è anche un ragazzo afgano che zoppica sulle stampelle, è
appena stato dimesso e ha un braccio e una gamba ingessati. Se li è fratturati
nel tentativo di aggrapparsi ad un treno, di quelli che percorrono a 160
chilometri orari l'Eurotunnel per arrivare a Dover. È caduto. Gli è andata
bene. Decine sono stati i morti negli ultimi anni, sventrati dai treni,
schiacciati dai tir in imbarco nei porti di Calais e Dunkerque, o soffocati al
loro interno, con sacchetti di plastica sulla testa per sfuggire ai rivelatori
di anidride carbonica, nel disperato tentativo di portare a termine il loro
lunghissimo viaggio.
L'Afghanistan oggi. Guerra e riforme mancate
di Alberto Cairo*
Famiglia
Cristiana - 30 gennaio 2010
Anni
fa, mi colpì l'effetto che l'improvviso rincaro degli alimenti base, farina e
riso soprattutto, ebbe su numerose famiglie afghane. Essendo una gran parte
delle entrate spesa per il cibo, chi era senza risparmi non ebbe scelta:
accontentarsi di pane e tè o saltare i pasti. Scoprii che moltissime persone
vivevano a cavallo della soglia di povertà, un niente li tirava giù, una
malattia, un lutto, uno sfratto.
Ora, quasi al decimo anno dall'intervento straniero, l'Afghanistan vive la
precarietà a tutti i livelli. È un Paese in bilico. Per quanto i cambiamenti
appaiano evidenti (nuove costruzioni, automobili e Tv, annunci di riforme), si
tratta per lo più di maquillage o rattoppi. Spesso incompiuti. Si prenda la
sanità. Il progetto di garantire le cure di base a tutti resta teorico.
"L'80 per cento del Paese è assistito", dicono. Basta fare un giro in
molti ospedali governativi... Chi ci va, se può pagare scappa subito in quelli
privati, tantissimi e senza controllo. L'assistenza ai disabili è tutta
lasciata alle organizzazioni come quella per la quale lavoro, con lo Stato che
sembra pensare non sia affar suo.
E la scuola? L'entusiasmo per il programma back to school del 2002 è scemato.
Emergono le falle: docenti senza aggiornamento, paghe misere, classi di 50
alunni. L'economia resta di sopravvivenza: i contadini lottano con siccità e
parassiti, tanti bambini a sei anni fanno già i garzoni.
Ma
perché tutto ciò, malgrado i milioni dall'estero e le capacità lavorative
degli afghani? É la sicurezza che manca. Se a Kabul e nelle grandi città il
pericolo è molto contenuto, zone sempre maggiori del Paese sono in mano a chi
si oppone al Governo, la gente ride amara sentendo gli eserciti stranieri
elencare vittorie. Il nostro programma di assistenza domiciliare si ferma appena
a sud di Kabul. Oltre non va, non ci sono garanzie. Peggio degli anni scorsi.
Che cosa ci porterà il 2011?
*
Responsabile del progetto ortopedico della Croce rossa internazionale in
Afghanistan
La responsabilità del potere
PeaceReporter
-26 Gennaio 2011
I
fatti che hanno sconvolto Tirana lo scorso 21 gennaio hanno lasciato molti
disorientati. Nella crisi politica che si trascina dal giugno del 2009 covavano
i germi di nuova violenza ed ora sono in molti a temere un vero e proprio
collasso del Paese, come nel 1997. L'analisi su quanto avvenuto, e quanto potrà
avvenire nelle prossime settimane e mesi, non può prescindere da alcuni
elementi.
Il
primo, di carattere generale, è che quando la polizia apre il fuoco sulla
folla, la responsabilità ricade sul governo in carica. E' a quest'ultimo
infatti che spetta il controllo degli strumenti per garantire l'ordine pubblico,
la tutela della sicurezza e della vita dei cittadini. Non è quindi possibile
porre il premier Sali Berisha e il principale leader dell'opposizione, Edi Rama,
sullo stesso piano. Non tanto per le intenzioni o obiettivi politici dei due, o
per i toni utilizzati da entrambi in questi giorni, tutt'altro che concilianti,
ma per il ruolo istituzionale da loro attualmente ricoperto. Uno al governo,
l'altro all'opposizione.
Altro
elemento che va messo in risalto è il parallelismo con la situazione del 1997 e
del collasso economico-politico e della sicurezza in Albania a seguito della
cosiddetta crisi delle piramidi finanziarie. In quel caso Sali Berisha ricopriva
il ruolo di Presidente della Repubblica e, assieme al resto della classe
dirigente albanese del tempo, portò il paese al crollo istituzionale e
politico.
Il
21 gennaio Sali Berisha, con la violenza nei confronti dell'opposizione, ha
perso un'occasione per dimostrare che la classe dirigente da lui rappresentata
è cresciuta politicamente rispetto a 10 anni fa ed è in grado di far uscire il
Paese da una situazione di profonda crisi. Nei giorni successivi inoltre Berisha
ha scelto la via della non mediazione: andando allo scontro con la procura
generale in merito all'arresto dei poliziotti coinvolti nell'uccisione dei
manifestanti e optando per la creazione unilaterale da parte della maggioranza
di governo di una commissione parlamentare d'inchiesta.
A
questo è da aggiungere una corruzione pervasiva sino ai più bassi livelli ed
alimentata dalle alte sfere. Il video che incastra l'ex vicepremier, Ilir Meta,
ne è un esempio lampante. Benché i socialisti abbiano denunciato a più
riprese i gravi fatti di corruzione che vedono coinvolto l'attuale governo è
evidente però che neppure loro sono immuni da questo problema. Va detto infatti
che sono in molti, all'interno del partito, ad esprimere interessi del tutto
privati e spesso l'unico legame che li unisce è l’odio verso Berisha. La
stessa opposizione inoltre fa fatica ad affrontare il compromesso politico,
problema che caratterizza la classe politica albanese nel suo complesso.
Guardiamo
quindi con preoccupazione alle due manifestazioni indette rispettivamente da
opposizione e governo venerdì e sabato prossimi. La comunità internazionale, e
l'Italia in particolare, hanno il dovere di favorire il dialogo tra le parti
condannando duramente l'uso della violenza. La classe politica albanese, dal
canto suo, deve dimostrare che lo spettro del 1997 è stato sepolto, e che crisi
anche profonde possono essere affrontate con gli strumenti previsti dalla
dialettica democratica.
Davide
Sighele e Luka Zanoni
Fonte:
Osservatorio Balcani e Causaso
Schegge di Bengala - 69 (seconda parte) di p. Franco Cagnasso
Dhaka, 5 febbraio 2011
Liberalità
Gli abitanti del Bangladesh sono per l’85% musulmani.
Durante l’anno sono riconosciute come vacanze civili alcune feste islamiche, due o tre feste indù, una festa buddista e una cristiana, il Natale.
A scuola la religione è obbligatoria, e ogni gruppo religioso può fornire i suoi insegnanti. Se non c’è insegnante, si può dare al Direttore un test, da sottoporre agli studenti (foss’anche uno solo) al momento degli esami. Verrà corretto e valutato da un altro insegnante, anche se di religionre diversa.
Le conversioni – anche dall’Islam - sono permesse, dopo aver ottenuto un nulla osta notarile che dichiara trattarsi di una scelta libera e responsabile.
Non ci sono ostacoli legali alla costruzione di chiese o all’avvio di attività sociali da parte delle religioni di minoranza.
Ogni anno, in occasione di questa o quella festa, islamica o no, non pochi quotidiani e riviste pubblicano commenti e spiegazioni sull’argomento.
Ogni tanto si fanno sentire fondamentalisti e fanatici, anche violenti; ma queste sono le regole, e il clima generale.
Trasloco
Dopo quasi nove anni nel seminario nazionale di filosofia e teologia, dove si formano tutti i preti del Bangladesh, da gennaio ho traslocato. Al mio posto è venuto un giovane diocesano di Dhaka, P. Stanley Chonchol Costa, e con lui lo staff che dirige il seminario è ora formato tutto da bangladeshi.
Mi accoglie la parrocchia “Regina degli Apostoli” nel quartiere Mirpur 2. Costruita una quindicina di anni fa come sotto-centro della parrocchia di S. Cristina, fondata dal PIME, la chiesa era quasi isolata. E’ stata rapidamente circondata e quasi soffocata da innumerevoli edifici ed è diventata punto di riferimento dei cristiani che vengono in città per lavoro. Quanti siano è difficile dirlo, dispersi come sono in questi quartieri popolari densissimi. Tre anni fa il PIME ha consegnato S. Cristina alla diocesi, e ha assunto la responsabilità di Regina degli Apostoli, a sua volta eretta a parrocchia, che ha già un altro grande sotto-centro nella zona industriale di nord-ovest, pensato specialmente per gli operai.
La popolazione, cristiana e no, è molto fluttuante: le famiglie si muovono spesso alla ricerca di case a costi meno alti, e naturalmente il movimento va verso la periferia.
Parroco è P. Paolo Ballan del PIME, aiutato da P. Chonchol Brian Gomes, diocesano che fino a due anni fa era mio alunno. Io darò una mano, continuando ad insegnare in seminario due giorni la settimana.
p.
Franco Cagnasso
Io, musulmano convertito, ho incontrato Cristo a Medina
Dal mensile Asianews
AsiaNews ha raccolto la testimonianza di un cristiano bangladeshi convertito
dall’islam. Per motivi di sicurezza abbiamo deciso di omettere le generalità
e ogni riferimento a lui riconducibile. Egli ha subito torture e violenze a causa della fede e i parenti lo
hanno privato dell’eredità. Tuttavia, non ha voluto rinunciare al suo compito
di testimonianza e missione. Ora ha deciso di diffondere l’annuncio del
Vangelo fra i musulmani. Ecco la sua storia.
La vita umana è creata splendidamente per adorare quello che di più bello vi è al mondo. Tutti i peccati e le inquietudini cambiano forma quando vengono toccati dalla bellezza e diventano fertili, scorrendo come un fiume che si muove da un luogo all’altro. La nostra società è in disfacimento e gli uomini della nostra comunità sono torturati e soffrono a causa di regole sociali efferate e un ambiente ostile; non esiste un luogo in cui vivere in piena pace, bellezza e armonia. Tuttavia, questo è l’ambiente in cui ci è dato vivere, così come nascere ed essere educati – volenti o nolenti – avvolti nell’oscurità delle tenebre. Questa è la storia dolorosa di un uomo, che colpisce dritto al cuore: perché mi sono convertito al cristianesimo? Questo è il ritratto della mia vita, spesa alla ricerca della verità. Uno dei miei amici, il reverendo xxxxx mi ha incoraggiato a scrivere questa testimonianza. Mi auguro che i lettori avranno la pazienza di accettarla.
Sono nato xxxxx in una rispettabile famiglia musulmana praticante, di un villaggio in un’area remota del Bangladesh. All’età di quattro anni e mezzo mio padre mi ha permesso di studiare l’arabo, grazie agli insegnamenti di un professore musulmano. Da quel momento ho iniziato l’apprendimento della lingua araba e a pregare Allah cinque volte al giorno. Sempre a quel tempo, ho iniziato a indossare una lunga veste chiamata Jubba e il cappellino. Mio padre voleva che ascoltassi il Tablig Jamat, il sermone recitato dall’imam in moschea. Qualche volta mi portava con sé facendomi reggere i cuscini sui quali sederci e il secchio per le abluzioni. Raggiunta una certa età, mio padre mi ha permesso di iniziare gli studi di primo livello, poi di frequentare la Hefz School, sotto la guida di un professore del distretto di xxxxx. In seguito mi hanno ammesso alla classe quarta di una scuola elementare della zona. Qui ho frequentato le classi quarta e quinta e poi sono entrato nel college Madrasa a xxxxx.
Nel mio villaggio natale nessuno si curava di conoscere il mio nome, ma per tutti ero il piccolo xxxxx. In seguito mi sono unito ad un’associazione studentesca universitaria chiamata xxxxx. Nel frattempo ho superato con successo gli esami (Dakhil), ho aderito a una organizzazione politica denominata xxxxx e ho iniziato gli studi di letteratura islamica, per approfondire gli elementi della fede. Per me a quel tempo l’islam era la sola religione al mondo e le altre fedi e i loro praticanti dei Kafir, degli infedeli. Un giorno, al termine di una riunione politica ho visto un uomo che vendeva quattro libri al prezzo di un taka (circa un centesimo di euro). Ho acquistato i libri e ho scoperto che si trattava di testi cristiani. Per questo abbiamo malmenato l’uomo, gli abbiamo sequestrato i libri e la Bibbia e li abbiamo gettati a calci in un tombino. Ancora, in un secondo episodio ho picchiato un pastore protestante e gli ho consegnato 100 taka per andarsene via in treno
Nella zona in cui sono nato e vissuto i cristiani provengono dalle classi più umili, molti di loro sono convertiti e i religiosi si prendono cura di loro. Nel 19xx sono entrato all’Università islamica di xxxxx a xxxxx e ho frequentato un corso per conseguire il titolo di xxxx nella madrassa di xxxxx a xxxxx. Nel 19xx ho conseguito il titolo di maulana. Nel 19xx mi sono laureato in storia dell’islam, poi ho iniziato il dottorato a Medina, in Arabia Saudita. Giunto nel Paese arabo, ho compiuto l’hajj – il pellegrinaggio maggiore alla Mecca – e altri pellegrinaggi minori.
L’incontro con Cristo nel regno Saudita
Un anno dopo sono andato a Riyadh per assistere a un’esecuzione pubblica mediante decapitazione. Nel pomeriggio, mentre uscivo dal luogo dell’esecuzione, un uomo si è avvicinato e mi ha consegnato un volantino scritto in arabo. Appena tornato a Medina, dopo aver cenato e recitato le preghiere della sera, ho iniziato a studiare il contenuto del volantino seduto da solo in un angolo. Qui ho letto per la prima volta le parole di San Giovanni evangelista, capitolo 3 verso 16, in cui vi era scritto che “Dio ha tanto amato il mondo che ha dato il suo unigenito Figlio, affinché chiunque crede in Lui non perisca ma abbia la vita eterna”. Non ho mai visto versi simili in nessun libro dell’islam. Allora ho capito da dove tutto proviene. Ho saputo che è parte di un libro celeste chiamato Vangelo, che è stato scritto prima del Corano. Ho protetto con cura quel foglietto, rileggendolo più volte. Ho speso due anni in questa condizione. Una notte, verso le 3 del mattino, ho visto un uomo vestito di bianco entrare nella mia stanza e chiedermi: “A cosa stai pensando? Imbocca la via della redenzione e accetta la chiamata del Messia”. All’improvviso, l’uomo è scomparso ma io continuavo a tremare per la paura. Non ho avuto il coraggio di raccontare a nessuno l’esperienza. Ho passato alcuni giorni in questo stato, poi ho deciso di condividerla con la mia fidanzata, una ragazza egiziana. Mi guardava pallida e con gli occhi persi nel vuoto, poi ha detto: “In realtà, l’espressione del tuo volto è cambiata”. E quindi ha aggiunto: “Se decidi di diventare cristiano, ti sposerei lo stesso”. Per tutta risposta le ho detto: “Fai ciò che credi, ma ti ho detto la verità”. Ho trascorso diversi giorni in questa condizione. All’improvviso, ho visto e udito un uomo molto ben conosciuto. Egli mi ha domandato: “Hai finito di riflettere?”. Io gli ho risposto: “Signore, cosa posso fare?”. Egli di rimando: “Credi il prima possibile nel Messia, altrimenti non giungerai mai sul cammino della verità. Questo è il mio comando”. Ho pensato e ripensato a quelle parole. Il mio esame finale era alle porte. Mi sono presentato e ho avuto la possibilità di visitare 16 nazioni musulmane in un viaggio di istruzione. In primis l’Iraq, dove sono rimasto per 17 giorni. Laggiù mi sono messo alla ricerca di una chiesa. Un giorno mi sono imbattuto in una e ho parlato con il pastore xxxxx. Successivamente, egli mi ha battezzato con l’acqua: era il 19xx.
Il
rientro in Bangladesh e la predicazione
Al rientro in Bangladesh ho avuto la possibilità di insegnare xxxxx come assistente di xxxx. Non leggevo il Corano e i colleghi iniziavano a nutrire dubbi nei miei confronti. Un giorno una persona mi ha sorpreso intento a leggere una Bibbia in arabo. Cercavo di fare dei paragoni con il testo in lingua bangladeshi. Poco dopo, il vice-rettore mi ha convocato nel suo ufficio e mi ha domandato: “Ti sei convertito al cristianesimo?”. Ho risposto in tutta sincerità: “Sì, signore. Sono un seguace del Dio cristiano”. Egli ha ribattuto: “Vedi, un infedele non può insegnare in una università islamica”. Di rimando, in modo gentile, ho concluso: “Ha ragione, signore”.
Alcuni giorni più tardi, il Gruppo islamico studentesco (Shibir) mi ha fermato nel distretto di xxxxx e mi ha condotto a xxxxx, fra i miei parenti. Essi volevano uccidermi. Mi hanno tagliato la vena della gamba e mi hanno battuto con un’ascia cinese in diversi punti del corpo davanti ai miei parenti e alcuni fanatici musulmani locali. Come conseguenza, ho riportato una quarantina di ferite in diversi punti del corpo. Ho ripreso i sensi quattro giorni più tardi. Il mio corpo era fasciato da bende e non potevo nemmeno parlare, ma ho visto un anziano indù del mio villaggio. Le lacrime sgorgavano dagli occhi e ho provato a parlare. Questo anziano indù mi ha spiegato che mi trovavo al xxxxx Hospital di xxxxx e ha aggiunto: “Resterò con te fino a quando non ti sarai completamente ristabilito. Tua madre mi ha dato 85mila taka perché ti portassi qui e mi prendessi cura di te”. Dopo tre mesi e 21 giorni, mi hanno dimesso dall’ospedale. Sono tornato a casa e alcuni membri della moschea mi hanno malmenato di nuovo. Più volte mi hanno assunto come impiegato in una banca o in gruppi e associazione e, ogni volta che scoprivano la mia fede cristiana, venivo regolarmente licenziato. Il 21 settembre 20xx l’intera famiglia mi ha convocato per rivolgermi una serie di domande. Tutti mi chiedevano quali fossero le mie intenzioni, di tornare all’islam altrimenti non avrei ricevuto un soldo dell’eredità, nessuna proprietà terriera, le case. A quel punto ho slacciato i vestiti e ho mostrato le ferite, per far capire loro le sofferenze vissute. Quando ho rivolto loro queste parole, mi hanno persino impedito di vedere il cadavere di mio padre. Alla fine ho detto loro: “Mi hanno torturato e credo ancora nel Dio cristiano. Non ho intenzione di indietreggiare di un solo passo. Voi, piuttosto, andate incontro alla salvezza convertendovi al cristianesimo”.
È così che sono tornato dalla mia famiglia, da mia moglie e i figli, lasciandomi alle spalle tutti i miei beni e proprietà. Pregate per me, perché possa essere al servizio del Regno di Dio secondo il suo volere. Credo fermamente in tutto questo, e mi prenderò cura della mia famiglia. Sono un convertito dall’islam al cristianesimo. Voglio dedicare tutta la mia vita all’annuncio della Buona Novella fra i musulmani.
Khalippur, una splendida realta’
di Bruno Guizzi
Ormai da dieci anni Khalippur è diventata una tappa obbligata durante i miei viaggi in Bangladesh. Il motivo è semplice, lo avevo visitato per la prima volta nel febbraio del 2001, invitato dal Vescovo Moses. Allora, di tutti i fabbricati che vedete rappresentati nella piantina (gentilmente eseguita dall'amico Alberto Malinverno lo scorso anno) non c'era niente: per essere precisi c'era solo qualche pilastrino del Community Center (in basso a destra). Oggi gli amici di Banglanews possono invece avere una visione dettagliata della missione, con tutte le foto, visitando il nostro sito Per decenni la situazione non era cambiata e quando Mons. Moses, Vescovo di Dinajpur dal 1996, aveva programmato di creare una missione in quell'area, prevalentemente abitata dai Santal, le difficoltà che si presentarono erano enormi. |
Scordavo di dirvi che Khalippur faceva allora parte della vastissima missione di Dhanjuri, da cui dista un'oretta di macchina (quando non piove!). Allora a Dhanjuri vi erano soltanto due padri per tutta la missione, comprendente oltre duecento villaggi!
Nel lontano 2001 per me si trattava del primo contatto con il Bangladesh e vi lascio immaginare il mio stupore durante quella visita a Khalippur. Eravamo reduci dall'inaugurazione di una cappella a Phaarpur, poco lontana, e già avevo subito lo shock di mangiare per la prima volta senza l'ausilio di posate e di piatti, col riso posto su una foglia di banano, e per di più in una chiesa, appena benedetta, in cui si era svolta una cerimonia di benvenuto, con canti e danze. Arrivati a Khalippur ci troviamo festeggiati da tanti bambini, raccolti alla meglio in un fabbricato appena iniziato (c'erano solo i pilastri e nemmeno le lamiere del tetto).
Dopo i soliti canti e danze il vescovo mi dice che c'è una piccola riunione con gli abitanti del villaggio (i rifugiati musulmani di cui vi
parlavo) ed allora, dopo qualche decina di metri su una landa desolata, coperta da una polvere rossa (probabilmente ottima come fondotinta per le nostre ragazze, ma certamente non gradita da noi), eccoci seduti su due sedie sgangherate.
Allora (come d'altronde anche adesso) non capivo una sola parola di bengoli, ma mi accorgo che il tono delle voci pian piano si alza, i partecipanti alla discussione si sbracciano, si urla… si insinua in me la paura che forse la giornata finirà con qualche bastonata!
Per me, vedere un Vescovo che si sbraccia ed urla come e più dei suoi interlocutori, è quanto meno "inconsueto". Per farla breve l'incontro termina con un nulla di fatto ma, successivamente, in macchina, Mons. Moses mi rassicura che il tutto è solo servito per dimostrare ai caporioni del villaggio che, questa volta, siamo davvero decisi ad andare avanti! Era un po’ una sceneggiata bengalese. |
La missione è ormai pronta a diventare parrocchia: viene chiamato da Dhaka padre Apolo Rozario, della Congregazione della Santa Croce, che dal 2005 è il parroco residente: quattro anni che sono
volati!
Le contestazioni del passato sono ormai un ricordo. la scuola ed il dispensario sono in piena attività e, cosa impensabile qualche anno fa, a Khalippur è attiva ed in continua espansione la cooperativa di risparmio (nota nella diocesi come Credit
Union). I rapporti con la comunita’ musulmana sono ottimi, non potrebbe d’altronde essere altrimenti, visto che la missione ha portato la scuola e il dispensario, aperti a tutti.
Ogni anno, a partire dal 2001, a Khalippur ho trovato qualcosa di nuovo, non solo nella missione principale ma anche nei villaggi vicini (sono oltre quaranta!).
Quest'anno la novità consiste nel boarding dei bambini della scuola elementare. Attualmente esisteva soltanto un boarding di bambine, nel sottocentro di Radhanagor (qualche lettore forse ricorderà che due anni fa il vescovo di Como, Mons. Diego Coletti aveva presenziato, assieme a Mons. Moses alla benedizione della relativa chiesa) mentre i bambini dovevano andare nei boarding di Dhanjuri. Oggi Radhanogor e’ un sottocentro della missione ed un sacerdote, padre Dominic, fa la spola tra questo villaggio e Khalippur.
La suddivisione della parrocchia ha cosi’ permesso ai padri della missione di Dhanjuri, che da non molto ha celebrato i 100 anni dal primo battesimo, di poter espandere la propria attivita’ ad altri villaggi, ad esempio a Kodbir, in cui aveva iniziato a lavorare padre Sandro Giacomelli, tragicamente scomparso 3 anni e mezzo fa in un incidente automobilistico.
La presenza della Chiesa in questi remoti villaggi ha anche permesso di difendere gli abitanti tribali dai soprusi dei musulmani che hanno fatto di tutto per togliere la terra ai poveretti. Solo tre mesi fa alcuni tribali sono stati malmenati da un gruppo di malintenzionati, e sono finiti in ospedale. Solo l’intervento del Vescovo Moses, sempre pronto ad aiutare i piu’ poveri, aveva permesso di denunciare i responsabili e di ottenere i certificati di proprieta’ della terra.
Ora vi sarà la possibilità per una cinquantina di bambini abitanti in villaggi remoti, di poter andare a scuola, il boarding sara’ operativo tra qualche mese. È molto probabile che, se verrà attuato in Bangladesh il nuovo piano dell'istruzione, recentemente approvato, sarà necessario portare la scuola dell'obbligo sino alla classe VIII (nostra terza secondaria). Per il momento a Khalippur esiste solo la scuola primaria (circa 200 alunni) e sara’ necessario formare gli insegnanti per le classi superiori.
Khalippur è ormai una realtà consolidata nella storia dell'evangelizzazione della diocesi di Dinajpur, la tanto deprecata polvere rossa, che tanto mi aveva impressionato nel 2001, è stata coperta da fiori ed alberi di ogni tipo (uno degli hobbies di padre Apolo); da quest’anno, udite...udite..., esiste addirittura una strada asfaltata; e sarà sempre tappa obbligata durante i miei viaggi ma altre missioni avranno, nella diocesi uno sviluppo simile.
Una tra le tante sarà appunto Kodbir, tanto cara al compianto padre Sandro. Molto si sta facendo in questo villaggio, padre Michele Brambilla e Suor Elena lo visitano ormai almeno settimanalmente e sono sicuro che avremo modo di sentire qualche bella novità già in quest'anno.
Inizio
pagina
Festa della Madonna di Lourdes – Giornata del malato di Bruno Guizzi
Dinajpur - 11 febbraio 2011
Da vari anni padre Adolfo, se ricordate, ci aveva abituato a ricevere una lettera proprio nella ricorrenza della festività della Madonna di Lourdes...
Quest'anno
ritarderà di qualche giorno (o settimana...) ma cerco almeno di darvi un'informazione su quello che si
è fatto a Dinajpur, in questa giornata particolare.
Oggi ricorre, a qualche giorno di distanza dalla giornata del Lebbroso, anche quella del malato e, nella nostra diocesi il Vescovo ha voluto celebrare questa giornata con una Messa speciale, celebrare nella bella chiesa di Suihari, dedicata al Sacro Cuore di
Gesù una Messa solenne, concelebrata con una decina di sacerdoti.
I malati erano tutti nelle prime file ed il Vescovo si è rivolto particolarmente a loro, affidandoli nelle loro sofferenze alla Madonna di Lourdes. I bambini (oltre 350!) del boarding si sono prodigati con
i loro bellissimi canti.
La devozione alla Immacolata Concezione è molto diffusa tra i Cristiani del Bangladesh: in ogni parrocchia esiste la riproduzione della Grotta di Lourdes, presso cui specialmente nei mesi di maggio e di ottobre si recita il rosario; ma anche
i musulmani spesso vengono ad affidare alla santa Madre le loro pene.
Dopo la Santa Messa tutta la comunità di Suihari ha voluto offrire una colazione ai malati e, con l'occasione, a due rappresentanti della Caritas di Parma, molto attiva nella nostra diocesi con il programma di adozione a distanza.
Don Matteo e Flavia, rappresentanti della Caritas di Parma, che vedete nella foto, sono poi venuti alla Bishop House dove sono stati accolti dai bambini e dalle bambine dei boarding, che oggi non sono andati a scuola in quanto, come sapete, in Bangladesh la giornata festiva
è venerdì. Canti, danze, fiori non sono mancati.
Chiudo questa brevissima nota informandovi che padre Adolfo, quando gli verrà l'ispirazione, ci ha promesso che scrivera'... d'altronde a novembre/dicembre ci aveva scritto
più volte nella stessa settimana... perciò... aspettiamo fiduciosi.
Un saluto a tutti voi anche da parte sua e del Vescovo Moses
Bruno
Storia di Jacki di Martin Erich
Traduzione
dall’originale inglese a cura di Banglanews
Salve, mi chiamo Jacki Simsumg Sono "Mandi" (anche chiamato Garo) che è una delle 16 diverse tribù che lavorano nelle 52 piantagioni di tè che si trovano nell’area di Sreemangal, nel Sylet, a nord-est del Bangladesh. Molti anni fa, quando il Bangladesh faceva parte dell’impero britannico, gli inglesi portarono migliaia e migliaia di persone da diversi stati dell’India per farli lavorare nelle piantagioni di tè che si trovavano nelle basse colline di Sreemangal. In particolare avevano bisogno di donne, per raccogliere le foglioline delle piante, infatti solo le donne sono capaci di raccogliere le tenere foglie nella maniera appropriata. I mussulmani (che sono la stragrande maggioranza in Bangladesh) non permettono alle loro donne di lavorare al di fuori della propria abitazione. Nei villaggi noi siamo isolati non soltanto perchè non abbiamo strade asfaltate ma anche perchè siamo differenti per la nostra cultura, le nostre tradizioni, la nostra religione. Nei villaggi delle piantagioni la maggioranza è costituita da Hindu e Cristiani mentre nei villaggi circostanti è costituita da musulmani. Sono nato nel villaggio di Nasimabad nella piantagione di tè della National Company. Sono il maggiore di quattro tra fratelli e sorelle, mia madre lavora nelle piantagioni. Ogni giorno deve raccogliere almeno 23 chili di queste piccole e preziose foglioline per avere una paga di 48 taka, meno di 0,50 €. Ho frequentato la scuola elementare nel mio villaggio, in una piccola scuola cattolica che, in mancanza di alunni e maestri aveva nella stessa classe i bambini della scuola d’infanzia, della prima e della seconda. Vi era un altro gruppo che comprendeva le classi 3, 4, 5. Non avevamo nè banchi nè sedie ed eravamo costretti a scrivere per terra. |
Quando
mia madre Sriti Simsung torna a casa dopo una giornata di lavoro si prende cura
di noi, e durante la sua assenza, ce la caviamo da soli, prendendoci cura dei più
piccoli. (ndr: Non vi stupite se il cognome del ragazzo
corrisponde a quello della mamma e non a quello del papa'. I Mandi (Garo) sono
una delle poche tribù matrilineari, la discendenza viene cioè per via
materna... è lo sposo che si trasferisce a casa della sposa... ed è lei a
portare i pantaloni... in senso figurato!
Mio padre Alos Chisim lavora in un villaggio differente, che spesso cambia perchè lavora come salariato giornaliero e spesso cambia il posto di lavoro ogni giorno. Ha tentato anche di lavorare a Dhaka, la capitale del paese, ma senza successo. Viene a casa ogni mese ma ci manda del danaro regolarmente.
Questo mese di gennaio 2011 ho iniziato la classe 8 (III media) nella scuola parrocchiale di Notre Dame, Sreemangal, Moulovi Bazar district, Sylhet division, Bangladesh.
I padri della congregazione della Santa Croce e le suore della congregazione RNDM hanno iniziato ad ospitare in un piccolo fabbricato i ragazzi e le ragazze che avevano terminato, nei loro villaggi, la scuola primaria per permettere loro di frequentare le classi superiori, ma da tempo si sono accorti che i risultati non erano soddisfacenti e questo per vari motivi: una lingua madre differente, scarsa preparazione nelle scuole dei villaggi ed inoltre la mancanza di elettricità nelle nostre case, che non permetteva di studiare.
Tre anni fa i Padri e le suore hanno iniziato ad istruirci, dopo le ore di lezione nella scuola pubblica, per permetterci di colmare le nostre lacune, ci hanno in effetti messo in condizione di proseguire negli studi, anche se la nostra scuola non è ancora riconosciuta, finalmente abbiamo potuto avere dei libri gratis, come tutti gli altri studenti del Bangladesh. Ci permettono anche di fare dello sport nel campo sportivo di un’altra scuola, in quanto nella nostra non abbiamo lo spazio necessario.
In questi ultimi tre anni il numero dei ragazzi che sono stati promossi agli esami della classe 8 è aumentato e così la percentuale che è gradualmente salita al 70%, contro il 61% della nostra regione (il Sylet)
Purtroppo la scuola può ospitare soltanto 50 dei 396 bambini che hanno terminato la scuola elementare dei 35 villaggi delle piantagioni di tè.
A partire dal 2010 i fratelli Maristi Javier Pena e Marti Erich ci stanno aiutando in particolare per quanto riguarda l’inglese ma anche in altre attività. Essi stanno ancora prendendo lezioni di bengoli (la lingua nazionale del paese) ed hanno il progetto di costruire due ostelli per i bambini e le bambine ed una scuola completamente dedicata ai bambini dei villaggi delle piantagioni. E’ importante che in questa scuola i bambini tribali saranno messi in contatto sia con altri gruppi etnici che con i bengalesi, onde avere una mutua comprensione e cooperazione tra popoli che hanno culture, tradizioni e religioni differenti. I fratelli Maristi sono con noi anche perchè vogliono meglio conoscere la nostra cultura e le nostre tradizioni ed hanno capito l’importanza di migliorare la qualità delle scuole primarie dei villaggi ma anche di dare l’opportunità a chi lo vuole di frequentare le scuole superiori.
Nei villaggi delle piantagioni la terra e le nostre case appartengono alle aziende che ci danno il minimo indispensabile: ad esempio per 150 famiglie del nostro villaggio, di cui 42 cristiane, vi sono solo 5 pompe per l’acqua.
Lo scorso anno nostra madre, onde migliorare la nostra alimentazione aveva comprato una capra, col cui latte ci nutrivamo; ma sfortunatamente un giorno essa è entrata in un campo piantato a riso ed il proprietario la ha uccisa, in quanto stava distruggendo la sua coltivazione.
Talvolta penso a come aiutare la mia famiglia, sono andato a lavorare con mio papà e ho guadagnato per una giornata di lavoro nella foresta (pulizia intorno agli alberi) 0,50 €, con questo piccolo contributo posso pagare una piccola quota della mia retta. I padri della Holy Cross ci aiutano ma non possono darci tutto gratuitamente: hanno 60 maestri e catechisti ed oltre 300 tra bambini e bambine da ospitare in vari ostelli, inoltre visitano i piccoli villaggi sparsi per oltre 100 km e, dovendo naturalmente andare in moto, anche i costi del carburante sono per loro un problema.
Nel nostro piccolo cerchiamo di fare del tutto per aiutarli.
Editoriale di Congo Attualità n° 119
paceperilcongo.myblog.it
- 30 gennaio 2010
Tra altre situazioni, il popolo congolese si vede costretto ad affrontare la questione dell’attività mineraria, che continua malgrado l’attuale sospensione voluta dal governo.
L’attività mineraria è prevalentemente controllata da gruppi armati e, addirittura, da certi settori dell’esercito regolare. Tra le cause: l’autofinanziamento dei gruppi armati e la ricerca di un arricchimento sfrenato da parte di alcune personalità, politiche e militari, sia a livello locale che nazionale. Ciò avviene a scapito della popolazione locale, esclusa dai vantaggi economici che potrebbero derivare da tale attività.
La misura di sospensione temporanea, voluta dal Presidente della Repubblica e adottata dal Governo per sanare la situazione del settore minerario, è stata un buco nell’acqua e non ha risolto i problemi, dal momento in cui gruppi armati e settori militari regolari continuano, indisturbati, la loro corsa verso l’oro, la cassiterite, il coltan e il legname. Anzi, la sospensione ha di gran lunga peggiorato la situazione della popolazione locale che viveva attorno a tale attività.
Di più, sembra che le varie operazioni militari condotte contro i vari gruppi armati, locali e stranieri, siano servite solo ad allontanarli dalle miniere per poi rimpiazzarli. C’è stato anche un tentativo, da parte del governo, di permutazione dei militari implicati nello sfruttamento illegale delle risorse minerarie, ma fallito, a causa del rifiuto opposto dai militari e truppe interessate.
Sul tema, si sono recentemente espressi il gruppo di esperti dell’Onu per la RDCongo, pubblicando un eccellente rapporto il 29 novembre 2010, i Capi di Stato e di Governo dei Paesi membri della CIRGL, riunitisi a Lusaka il 15 dicembre 2010, la Società Civile dei Paesi membri della GIRGL, riunita in un vertice alternativo dall’11 al 12 novembre 2010 e l’Ong Global Witness, pubblicando, metà dicembre 2010, un suo rapporto intitolato “La collina appartiene a loro”.
Tra le proposte emerse, se ne possono citare alcune:
- Instaurare un sistema di certificazione di origine dei minerali, per evitare di importare prodotti provenienti da zone controllate da gruppi armati o da militari regolari implicati nello sfruttamento e commercio illegali delle risorse naturali.
- Instaurare dei meccanismi che obblighino le società minerarie occidentali e le multinazionali ad agire con trasparenza nella gestione delle loro attività, dichiarando chiaramente i loro investimenti, i luoghi in cui sono presenti, le tasse pagate, i proventi ottenuti, …
- Instaurare un meccanismo di trasparenza nel sistema bancario internazionale, capace di sradicare il fenomeno dei paradisi fiscali.
- Appoggiare il Governo Congolese in una riforma della giustizia tesa a combattere l’impunità, arrestando e processando i presunti implicati nello sfruttamento illegale dei minerali di sangue.
- Appoggiare il Governo Congolese nella riforma e nella formazione dell’esercito e dei servizi di sicurezza, affinché siano in grado di svolgere la loro missione che è quella di garantire la sicurezza dei cittadini e di difendere l’integrità del territorio e la sovranità dello Stato.
- Instaurare un dialogo permanente con i gruppi armati, nazionali e stranieri, ancora attivi, per risolvere pacificamente le divergenze, in vece di ricorrere a costose ed inutili operazioni militari.
Altre notizie e informazioni sul sito di Pace per il Congo
Sanità in Ecuador, uno Stato in emergenza
di Sandro Bozzolo
PeaceReporter
- 27 gennaio 2011
Il
presidente Correa ha proclamato lo stato di Emergenza Sanitaria per combattere
la logica del mercato della salute. Un passo importante, che però non modifica
la base di un sistema corrotto e inumano
Era
il 12 febbraio 2010, quando Edison Alcivar, vent'anni appena compiuti, arrivò
in gravi condizioni alla clinica privata Pichincha, uno tra gli ospedali privati
più rinomati di Quito. Una banale discussione in discoteca si era conclusa con
una coltellata sulla spalla, ed Edison, giovane appassionato di rap, si è
ritrovato su un'ambulanza a sirene spiegate. Tre ore più tardi, quando i
genitori raggiunsero l'ospedale, il ventenne era immerso in una pozza di sangue,
ormai agonizzante. La sua unica colpa - oltre alla discriminante non secondaria
di essere afroecuadoriano - era un portafoglio privo di carta di credito, o, in
alternativa, di qualche migliaia di dollari in contanti.
La
tragedia di Edison purtroppo non è l'unica, in questo Ecuador che culla
ambizioni di "Revolucion Ciudadana", ma che continua a ritrovarsi
gestito dai soliti pochi. La gestione del sistema sanitario ne è un esempio.
Nel settembre 2009 destò scalpore il caso di Charlotte Mazoyer, giovane
vulcanologa francese, vittima di un tentativo di furto concluso con uno sparo.
Anche lei era ancora viva quando arrivò alla Clinica Pichincha, ma nemmeno lei
aveva una carta di credito in tasca, o la garanzia di poter pagare le prime
cure. Morì su una barella.
E'
anche per combattere questa logica di "mercato della salute" che il
Presidente Rafael Correa ha dichiarato, lo scorso 10 gennaio, lo stato di
"Emergenza Sanitaria", che rimarrà vigente per sessanta giorni
almeno. Obiettivo dichiarato è aumentare l'efficienza del servizio pubblico in
termini territoriali e numerici, potenziando soprattutto le infrastrutture e le
apparecchiature tecniche, nelle varie provincie. Dal 2006 il numero dei pazienti
che hanno avuto accesso agli ospedali pubblici è aumentato del 140 percento, e
il nuovo decreto prosegue la politica di democratizzazione della salute
inaugurata da Correa. Le risorse economiche destinate al progetto ammontano a
406 milioni di euro, e proverranno da una nuova imposta su alcol e tabacchi. Le
buone intenzioni politiche, però, continuano a scontrarsi con la fitta rete di
interessi economici che, in Ecuador come nella maggior parte dei Paesi
latinoamericani, soggiace sotto il settore sanitario.
"La
vita è un diritto, non una mercanzia". Da quel disgraziato giorno di
febbraio che costò la vita a suo figlio, Enrique Alcivar, giornalista
radiofonico, ha fatto della sua tragedia personale una battaglia collettiva.
Insieme alla moglie Alexandra, sociologa, ogni martedì mattina, alle 11, chiede
giustizia di fronte alla clinica incriminata (appartenente al potente gruppo
finanziario Pichincha), una giustizia che non si misura in termini economici, ma
strettamente morali.
"Semplicemente,
nessun altro genitore deve subire un crimine così orrendo", spiega Enrique
a chi si avvicina incuriosito. "La sanità è un settore troppo importante
per lasciarlo nelle mani dei privati, ed è ora che la gente inizi a reagire. La
nuova Costituzione ecuadoriana del 2008 riconosce ad ogni cittadino il diritto a
ricevere da qualsiasi clinica i primi soccorsi, ma quotidianamente dobbiamo
assistere a speculazioni macabre, da parte dei padroni della sanità. Basti
pensare che al processo per l'omicidio di mio figlio, l'avvocato della clinica
Pichincha difendeva anche l'omicida".
Il
livello di corruzione imperante è apparso chiaro a tutti nella seconda metà
del 2010, quando un'inchiesta giornalistica nazionale ha smascherato il mercato
dei pazienti che coinvolgeva cliniche private e alcuni responsabili del servizio
911, il locale 118. Ogni staff d'emergenza che trasportava i feriti nelle
cliniche private - anziché nei pubblici ospedali - veniva omaggiato con 50
dollari, 150 nel caso in cui il paziente fosse stato dirottato in terapia
intensiva. Come extra, uno spuntino, a base di pollo allo spiedo. "E' per
questo che non abbiamo molta fiducia in nessuno Stato d'Emergenza",
commentano Enrique e Alexandra. "Queste cliniche private operano come
organizzazioni criminali, e non hanno nessuna intenzione di rinunciare ai loro
profitti. Se il Presidente Correa volesse lanciare un messaggio veramente forte,
potrebbe dichiarare lo Stato di Eccezione, previsto dalla Costituzione, che gli
assegnerebbe il potere di nazionalizzare l'intero settore, o quantomeno, di
destinare i numerosi posti letto vuoti delle cliniche private, ai troppi
pazienti del settore pubblico". I genitori di Edison Alcivar rimangono per
un istante in silenzio, pensierosi. Poi sollevano un'altra volta il megafono, e
tornano realisti: "Non lo farà, l'Ecuador non è diverso da nessun altro
Paese. Anche qua, è il potere economico, e non quello politico, a prevalere su
tutti gli altri".
Il tramonto del Faraone
di Christian Elia
PeaceReporter
- 29 gennaio 2011
Nominato
il nuovo governo, pieni poteri al capo dell'intelligence, ma tutti i grandi si
allontanano dal presidente mentre il Paese brucia. Forse cento le vittime
Il
coprifuoco non basta: secondo al-Jazeera sono più di cento le vittime degli
scontri tra manifestanti e polizia in Egitto, mentre per l'emittente concorrente
al-Arabiya, che cita fonti mediche locali, il bilancio è di almeno 73 vittime e
mille feriti. La stessa al-Arabiya, per far capire che aria tira, ha fatto
appello alla popolazione: donate il sangue, gli ospedali del Cairo e delle altre
grandi città sono allo stremo.
Se
qualcuno si fosse illuso che sarebbe bastato il videomessaggio del presidente
Hosni Mubarak di ieri notte, che ‘dimissionava' il governo e annunciava
riforme, per placare la folla si sbagliava di grosso. Oggi Mubarak, che tenta di
dare ancora l'immagine di solida guida del Paese - ha nominato come nuovo primo
ministro l'ex militare ed ex ministro dell'aviazione civile Ahmed Shafik, ma
soprattutto ha nominato il generale Omar Suleiman, capo dei servizi segreti
egiziani, vicepresidente.
Le
immagini che mostrano i due giurare nelle mani di Mubarak danno più l'idea di
un passaggio di consegne che di una normale amministrazione. Non a caso prendono
corpo le voci della fuga a Londra della moglie e dei figli del presidente, che
avrebbero raggiunto la famiglia del figlio prediletto, Gamal, che si troverebbe
da giorni nella capitale britannica.
Ecco
che, dopo il rumoroso silenzio dei giorni scorsi, spunta Suleiman. L'uomo chiave
della regione, al centro di ogni mediazione e trattativa in Medio Oriente, era
stranamente defilato. In molti, in passato, vedevano il futuro dell'Egitto
legato all'esito della lotta tra Gamal - punto di riferimento della borghesia
ricca, con studi all'estero, giovane - e il vecchio Suleiman, snodo chiave di
ogni forma di potere - interno ed esterno - del regime egiziano. Israele, per
fare un esempio, o gli stessi Usa, fino all'Europa, si fidano del vecchio agente
segreto. La sua nomina a vicepresidente potrebbe essere l'ultima mossa del
Faraone - come i suoi ‘vecchi' sudditi chiamano Mubarak - per una transizione
gestita. Basterà mettere il potere nelle mani (magari con le dimissioni di
Mubarak nelle prossime ore) per fermare i manifestanti che ancora oggi
invadevano tutte le strade d'Egitto? Difficile dirlo, ma la sensazione è che la
rabbia popolare chiede di più di un papavero di regime al posto di Mubarak.
ElBaradei
lo sa. L'ex premio Nobel per la pace ed ex segretario generale dell'Agenzia
Atomica ha scelto il momento ideale per tornare, per non farsi sorprendere
all'estero nel momento della lotta. Oggi, commentando il discorso notturno di
Mubarak, per tutta risposta ha chiamato "all'Intifada fino alla cacciata
del presidente". Blandisce la piazza, sa che è il momento giusto e sa che
l'Occidente non accetterà un Egitto allo sbando (come forse sarebbe se la folla
non ritenesse Suleiman un vero cambio di regime). Lui ha il curricula giusto per
imposrsi. Idem per Amr Moussa, segretario generale della Lega Araba. Il
diplomatico egiziano ha rifiutato oggi il posto che Suleiman ha accettato. Non a
caso, perché si rende conto che potrebbe essere lui l'uomo giusto. E' stato
abbastanza all'estero, come ElBaradei, per potersi salvare la verginità
politica di fronte alla folla inferocita. Come ElBaradei non sarebbe gradito a
Israele, viste le sue dure condanne verso lo Stato Ebraico. L'ostilità
israeliana è costato la presidenza dell'Agenzia Atomica a ElBaradei, ritenuto
troppo accondiscendente con Iran e Iraq. Suleiman, invece, si è guadagnato la
fiducia di Tel Aviv e Washington, ma ha forse perso quella della sua gente.
Mancano
all'appello i Fratelli Musulmani - ritenuti estremisti solo da chi non ha mai
davvero voluto capire questo movimento - che si sono defilati dal momento
politico. Molto più ghiotto, ben sapendo che l'Occidente non accetterebbe mai
una loro ascesa al potere, battere la via parlamentare, finalmente liberi del
bando con il quale Mubarak li ha tenuti fuori gioco dagli anni Ottanta. E
aspettare il momento giusto, consolidandosi nel sociale, mondo che dominano da
anni. Altro grande assente, da tempo, l'avvocato Nour.
Oggi
emerge sui media di tutto il mondo il solito documento WikiLeaks a orologeria:
già nel 2008 gli Usa si preoccupavano di un cambio di regime ‘gradito' in
Egitto. Troppo importante l'Egitto, troppo vecchio e incorreggibile Mubarak, con
le sue percentuali del 90 percento di consensi.
Ecco
spuntare il movimento (al-Gahd) più vicino al format delle cosiddette
rivoluzioni ‘arancioni' viste all'opera in Ucraina, Georgia e altrove. Un
movimento sostenuto dal Dipartimento di Stato Usa che prese posizione diretta
contro l'arresto di al-Nour. Questo, però, non è tempo di fantocci che la
società civile egiziana già in passato ha mostrato di rigettare.
Suonano,
più o meno, come un addio anche le parole del presidente Usa Obama. Per trenta
minuti, ieri sera, al telefono con Mubarak. Poi, in conferenza stampa, ne
ridimensiona - fino alla sconfessione pubblica - la portata del messaggio video.
"Non bastano le parole", "servono i fatti", "garantire
il confronto democratico" sono frase fatte del linguaggio della diplomazia
che - in buona sostanza - suonano come un addio a Mubarak.
Una
nebulosa complessa. Resta l'esercito che, sempre più, solidarizza con la
popolazione, mentre la polizia continua a mostrare i muscoli, ben sapendo di
aver rappresentato per trenta anni il braccio del regime. E che una caduta di
quest'ultimo comporterebbe una dolorosa punizione per gli agenti di polizia. Il
Paese resta isolato: i quattro provider principale sono stati spenti, mentre la
telefonia da timidi segnali di ripresa. Non può durare, lo sanno tutti. Ma dire
come andrà a finire è davvero un azzardo.
Imam
e intellettuali egiziani: Rinnovare l'Islam verso la modernità di Samir Khalil
Samir
AsiaNews - Roma - 26 gennaio 2011
Il
programma - davvero rivoluzionario - vuole ripensare al valore della donna, alla
mescolanza fra i sessi, al rapporto alla pari coi cristiani. E desidera pure
ripulire le interpretazioni sui detti di Maometto e sui miti del salafismo
fondamentalista, rifiutando le influenze che provengono dall'Arabia saudita.
Ripensare
alla mescolanza dei sessi; aprire le porte alle donne fino alla presidenza della
Repubblica; garantire il diritto dei cristiani ad accedere a posti di prestigio
(anche alla presidenza); reinterpretare e purificare i detti del Profeta (le
Hadith); avvicinare la gente a Dio attraverso la gratitudine e la saggezza e non
con le minacce...: sono alcune delle proposte - davvero rivoluzionarie - che un
gruppo di professori, teologi e imam egiziani fanno alla loro comunità. Il
tentativo è di modernizzare la vita dei musulmani, frenando (e perfino
bloccando) le influenze fondamentaliste che provengono dall'Arabia saudita. Al
gruppo di studiosi sta a cuore sia il rinnovamento dell'insegnamento dell'islam,
sia un rapporto di concordia con i cristiani. Una
ventina di teologi e intellettuali di Al Azhar hanno diffuso un testo di enorme
importanza dal titolo "Documento per il rinnovamento del discorso
religioso". Il testo è stato "postato" su internet lo scorso 24
gennaio, alle 18.27, sul sito del settimanale Yawm al-Sâbi' ("Il settimo
giorno"). L'importanza
del documento deriva anche dai suoi firmatari, tutti noti studiosi e profondi
fedeli islamici. |
Fra
questi vale la pena citare: il dott. Nasr Farid Wasel, ex gran Mufti
dell'Egitto; l'imam Safwat Hegazi; il dott. Gamal al-Banna, fratello del
fondatore dei Fratelli Musulmani; i professori Malakah Zirâr e Âminah Noseir;
il celebre scrittore islamista Fahmi Huweidi; il dott. Mabruk Atiyyah ; un gran
numero di predicatori (du'ât), incaricati della Propaganda islamica quali
Khalid al-Gindi, Muhammad Hedâyah, Mustafa Husni, ecc.
È
la prima volta che avviene un tentativo del genere da parte di personalità
islamiche riconosciute. Non appena pubblicato sul sito, il documento ha ricevuto
in un giorno 153 commenti. La maggior parte (88,25%) condannano il testo,
dicendo che esso snatura l'islam o tenta di fondare una nuova religione. Solo 18
persone si congratulano con gli autori. Ciò significa che il cammino di
rinnovamento sarà lungo e richiederà molto tempo e sforzi.
Il
testo originale del documento (in arabo) e i commenti si possono trovare a
questo indirizzo: http://www.youm7.com/News.asp?NewsID=343007.
Riportiamo
qui una traduzione nostra (a caldo) del documento, che potrà forse aver bisogno
di una revisione. Nei prossimi giorni daremo anche un commento su alcune delle
proposte.
Documento
per il rinnovamento del discorso religioso
1.
Riesaminare i libri delle Hadith (le parole attribuite a Maometto) e i
Commentari coranici per epurarli.
2.
Mettere a punto il vocabolario politico-religioso islamico, come ad esempio la
gizyah (l'imposta speciale richiesta ai dhimmi, i cittadini di seconda classe).
3.
Trovare una nuova espressione del concetto di mescolanza fra i sessi.
4.
Mettere a punto la visione islamica riguardo alla donna e trovare modi
convenienti per il diritto matrimoniale.
5.
L'islam è una religione della creatività.
6.
Spiegare il concetto islamico di gihâd, e precisare norme ed obblighi che la
reggono.
7.
Bloccare le aggressioni sulla religiosità esteriore e gli usi stranieri che ci
giungono dagli Stati vicini [un eufemismo che mira a denunciare l'influenza
dell'Arabia saudita-ndr].
8.
Separare la religione dallo Stato.
9.
Purificare il patrimonio dei "primi secoli dell'islam" (salafismo),
eliminando i miti e le aggressioni contro la religione.
10.
Dare una preparazione adeguata ai predicatori missionari (du'ât) e in questo
campo aprire le porte a coloro che non hanno studiato all'università di Al
Azhar, secondo criteri ben chiari.
11.
Formulare le virtù comuni alle tre religioni rivelate.
12.
Eliminare gli usi sbagliati e dare orientamenti riguardo agli usi occidentali.
13.
Formulare la relazione che deve esistere fra membri delle religioni attraverso
la scuola, la moschea e la chiesa.
14.
Redigere in maniera differente [adattata] per l'occidente la presentazione della
biografia del Profeta.
15.
Non allontanare le persone dai sistemi economici con l'interdizione di trattare
con le banche.
16.
Riconoscere il diritto delle donne alla presidenza della Repubblica.
17.
Combattere le pretese settarie, [sottolineando] che la bandiera dell'islam [deve
essere] unica.
18.
Invitare la gente ad andare a Dio mediante la gratitudine e la saggezza, e non
con le minacce.
19.
Far evolvere l'insegnamento di Al Azhar.
20.
Riconoscere il diritto dei cristiani [ad accedere] a posizioni importanti e
[anche] alla presidenza della Repubblica.
21.
Separare il discorso religioso dal potere e ristabilire il legame con i bisogni
della società.
22.
Stabilire il legame fra la Da'wah (l'appello alla conversione all'Islam) e la
tecnologia moderna, le catene satellitari e il mercato delle cassette islamiche.
La
rivolta non è solo politica, ma anche spirituale e islamica di Samir Khalil
Samir
AsiaNews - Roma - 28 gennaio 2011
Intellettuali
e teologi islamici disegnano le prospettive per un cambiamento anche dell'islam:
valore della donna e mescolanza fra sessi; rifiuto del salafismo integralista;
ricerca di una religiosità del cuore e della libertà, contro il formalismo del
velo, della barba e delle pratiche rituali astruse. E soprattutto danno il
benvenuto alla laicità, alla separazione dell'islam dalla politica.
Il
"documento sul rinnovamento dell'Islam" riportato nel precedente
articolo sta suscitando molto interesse su internet. In un giorno esso è stato
pubblicato da almeno 12400 siti arabi. Ognuno di questi siti ha avuto numerosi
commenti dal pubblico.
Dobbiamo
precisare una cosa di cui oggi abbiamo la conferma: ieri abbiamo attribuito
direttamente il documento a 23 personaggi del mondo islamico. In realtà i 23
personaggi non sono veri e propri firmatari: il documento è stato redatto dalla
rivista in base alle indicazioni ricevute da oltre 23 personaggi intervistati.
Per ognuno dei 22 punti elencati vi sono pure commenti e spiegazioni che lo
rendono più chiaro e più profondo.
L'importanza
del documento rimane anzitutto perché i temi sono stati indicati dai 23 saggi e
poi perché il tentativo della rivista è lanciare un interessante progetto di
riforma del discorso islamico.
Certo,
è preoccupante vedere che l'88% sono contrari al documento; circa il 12% sono
favorevoli. Ad ogni modo fra coloro che sono contrari, vi sono quelli contrari
solo a uno o due punti.
Un
altro aspetto interessante è che questo progetto di riforma dell'islam è stato
pubblicato il 24 gennaio, un giorno prima dello scoppio delle manifestazioni in
Egitto. Tali manifestazioni hanno motivi economici e politici. Ciò significa
che oltre alla corrente politica, c'è una corrente intellettuale che è stufa
dell'islam diffuso negli ultimi 30 anni nel Paese, un islam
"esteriorizzato", che mette l'accento sulle cose esterne (il vestire,
la barba, il velo, ecc..). Questo mostra che in Egitto vi è un movimento
globale - insieme spirituale e politico - che vorrebbe trasformare il Paese. E
siccome esso è un Paese leader nel mondo mediorientale, si può pensare che le
trasformazioni che si progettano al Cairo si diffonderanno in tutta la regione.
Forse le stesse manifestazioni che avvengono nelle strade della capitale
potranno avere influenza anche su questo islam "esteriorizzato".
Veniamo
ora ai nostri commenti su qualche punto saliente.
Mescolanza
fra sessi
C'è
ad esempio il punto 3 che parla della mescolanza fra sessi. Il loro commento
dice che gli ulema dovrebbero tener conto delle circostanze in cui questo
avviene e accordarlo con la sharia. Se c'è bisogno della mescolanza fra i sessi
per necessità, allora non c'è problema. Se invece non vi è necessità, allora
è un male. Citano un esempio: in università vi sono studenti maschi e femmine.
Essendo questa una necessità dello studio, non vi è problema a che studenti
maschi e femmine si mescolano. Lo stesso vale per il lavoro. Ciò che è
assolutamente peccato è trovarsi soli fra un uomo e una donna, toccarsi,
abbracciarsi.
Al
contrario, gli intransigenti rifiutano qualunque mescolanza. In Arabia saudita
gli studenti universitari maschi stanno davanti al professore; le ragazze stanno
in un'altra aula, con una televisione via cavo.
Le
dichiarazioni riformiste sottolineano che comunque l'islam non vieta il rapporto
fra uomo e donna. Tale rapporto in Egitto sta diventando un problema perché lo
stile "puritano" si diffonde sempre di più. Ha fatto molto scalpore,
tempo fa, la fatwa di un dottore di diritto coranico (faqih). In un programma
televisivo, una donna spiegava che per esigenze di lavoro doveva stare nello
stesso ufficio con un uomo. Ma questo era proibito dalla sharia; la donna non
poteva licenziarsi e ha chiesto un aiuto. L'ulema ha offerto la soluzione: la
donna avrebbe dovuto allattare il suo collega. Allo scandalo espresso dal
pubblico lì presente, l'ulema ha spiegato che in tal modo il collega sarebbe
divenuto "come un figlio" per la ragazza e così avrebbero potuto
stare insieme in ufficio, senza possibili rapporti sessuali (data la nuova
"parentela"). Davanti alla gente sbigottita, l'ulema si è difeso
dicendo che "non bisogna giudicare col sentimento, ma col diritto".
Questa fatwa ha suscitato moltissime reazioni nel mondo islamico, tanto che
l'ulema ha rischiato di perdere il lavoro.
Il
jihad
Il
sesto punto tratta del jihad (la guerra santa). Secondo i riformatori del
documento, il jihad nell'islam è indirizzato contro gli occupanti nei Paesi
musulmani "Uccidete sulla via di Dio quelli che vi combattono, ma non
prendete l'iniziativa dell'aggressione" (Corano 2,190). Nei commenti a
questo versetto, si precisa che è vietato uccidere la gente disarmata, i
bambini, i vecchi, le donne, i preti, i monaci, le case di preghiera. E
aggiungono: tale visione - così moderna - è presente nell'islam da 1400 anni.
Nella
puntualizzazione di questi riformisti, il jihad può essere solo difensivo e
solo su terra musulmana. Il problema si pone quando i musulmani fanno jihad nei
tempi e nei luoghi sbagliati (s'intende ovviamente che è sbagliato aggredire la
gente in Europa per esempio, che non è "terra islamica").
Quando
farla, chi può farla, dove si può fare: la risposta a queste domande rende il
jihad corretto dal punto di vista islamico. In questo modo i riformisti
condannano tutto il terrorismo islamico, gli attacchi alla chiesa di Alessandria
e di Baghdad. Va detto che questa interpretazione del jihad è classica, ma
purtroppo vi sono interpretazioni molto contrarie, che giustificano il
terrorismo.
La
religiosità esteriore
Il
punto 7 spiega la necessità di "bloccare le aggressioni sulla religiosità
esteriore e gli usi stranieri che ci giungono dagli Stati vicini". Chi
combatte questo islam esteriorizzato, dice che questo è un fenomeno nuovo,
vecchio di soli 30 anni. Ciò è dovuto al fatto che tanti egiziani sono andati
a lavorare nella penisola arabica e sono tornati con usanze non locali. La
rivista spiega che anche l'Egitto ha suoi costumi e modi di vestire per alcune
cariche nell'islam. Ma - si dice - "negli ultimi tempi abbiamo iniziato a
imitare nel vestire le nazioni vicine [in pratica l'Arabia saudita - ndr] con la
barba fluente fino al petto, la tonaca lunga (jilbab), il velo.... Poi si è
giunti all'obbligo per le donne di usare il niqab, il velo integrale come
espressione di modestia". E citano il Corano 24,30: "Di ai credenti di
abbassare i loro sguardo e di essere casti" .
Il
documento afferma che "l'importante è la modestia dello sguardo". Si
ricorda che nell'ultimo anno vi sono state migliaia di aggressioni contro le
donne che non vestivano alla maniera islamica. "L'esteriore - spiegano gli
esperti riformatori - è diventato oggi la vera religione. Il modello del
credente è divenuto in Egitto l'apparenza della religiosità, senza andare a
vedere la purezza del cuore e la castità dell'occhio, che il niqab non può
nascondere".
Queste
sottolineature sono fondamentali e molto vicine al Vangelo. È un nuovo afflato
mistico che avverte: non riuscirete a salvare la purità del rapporto fra uomini
e donne solo con l'uso di abiti.
E
aggiungono: questa gente - che ha portato modi di vestire dall'esterno - ha
diviso le famiglie, mettendo gli uni contro gli altri, perché i maschi vogliono
imporre il velo e le ragazze lo rifiutano. "Siamo diventati - conclude il
commento - una nazione che si preoccupa dell'esterno e ha il vuoto
all'interno".
Separazione
fra religione e Stato, laicità
Il
punto 8 penso sia il più importante e tratta della divisione fra religione e
Stato. Il documento usa la parola 'almaniyyah, laicità. Al Sinodo sul Medio
Oriente abbiamo temuto di usare questa parola perché essa viene comunemente
intesa come "ateismo", indicando così solo una laicità nemica della
religione e per questo da rifiutare.
Invece
il documento usa proprio questa parola. E spiega che essa è basata sull'idea
della separazione fra religione e Stato. La laicità - essi dicono - non va
considerata come l'opposto della religione, ma occorre vedere in essa una
salvaguardia contro l'uso politico o commerciale della religione. "In
questo contesto - si afferma - la laicità è in armonia con l'islam e perciò
la laicità è giuridicamente accettabile. Lo stesso va detto sul controllo
delle attività (islamiche) dallo Stato".
Allo
stesso tempo si dice: "Quanto allontana la religione dalla vita comune è
inaccettabile". E spiegano che è necessario affermare "i diritti di
Dio" e "i diritti del servo di Dio", cioè i diritti umani.
La
laicità atea invece guarda alla religione come una catena e perciò pretende la
libertà assoluta. Questa laicità è opposta all'islam che mette certi limiti.
Chi vuole scegliere la fede deve farlo per convinzione e dunque accettare le
norme della religione, e non può giocare con esse.
Si
dice dunque che vi è una laicità estremista e una buona. Su internet, questo
punto sulla laicità attira molte critiche. Ad esempio, il sito "I
guardiani del dogma" pubblica una critica. "Tutti devono sapere che la
laicità significa non religiosità, e che la non religiosità è il cammino
veloce che conduce all'ateismo. L'islam deve combatterlo perché nella laicità
vi è il seme di tutti i mali, ecc..".
Questo
punto, sebbene molto dibattuto, mostra il fatto che in Egitto sta nascendo il
concetto di società civile, non immediatamente coincidente con la comunità
islamica.
Attitudine
di fronte al salafismo
Anche
il punto 9 è interessante. Esso domanda di "purificare il patrimonio dei
'primi secoli dell'islam' (salafismo), eliminando i miti (khurâfât) e le
aggressioni contro la religione".
Il
documento afferma che "libertà, uguaglianza, conoscenza, giustizia e
scienza sono i valori più importanti che il Corano ha portato a noi quando è
stato rivelato 14 secoli fa. Essi sono gli stessi valori su cui è fondata la
società costituita dal Profeta a Medina. Essi sono valori chiari su cui non c'è
contrasto. Non è permesso minimizzare questi valori. Noi abbiamo un grande
bisogno di questi grandi valori, più ancora che nel passato". E aggiunge:
"I Paesi non si sviluppano se non in base a questi valori e non avranno
alcun rinascimento (nahda) se non con l'abolizione di questo patrimonio salafita
che va considerato un freno sulla società islamica, con ciò che esso comporta
di miti (= invenzioni umane), o invenzioni di rattoppo, o aggressioni della
religione".
Queste
affermazioni prendono di petto le pratiche dell'integralismo soffocante (il
vestire, il puro e l'impuro, le leggi, ecc...) che vuole riprodurre la società
dell'epoca del Profeta. Per un salafita, ad esempio, è vietato sedersi sulla
sedia perché il profeta era seduto a terra; non si devono usare gli
stuzzicadenti comuni, ma si devono pulire i denti con un bastoncino preso da una
pianta dell'Arabia saudita (miswak)! Con queste critiche, il documento tende a
riformare l'islam spingendolo verso uno slancio religioso più spirituale.
Riflessione
finale
A
giudicare dai commenti trovati su internet, si vede che la grande maggioranza,
contraria al documento, è preda dell'islam esteriore, tradizionale, formale,
farisaico. Ma vi sono comunque molti intellettuali e religiosi che pensano in
modo moderno; essi però non hanno l'appoggio delle istituzioni.
Davanti
alle rivolte sociali e le spinte al cambiamento che stanno avvenendo in diversi
Paesi del Medio Oriente e dell'Africa del nord, bisogna dire che il salafismo in
qualche modo è una specie di "oppio del popolo"; esso focalizza
l'attenzione della gente su pratiche religiose esteriori e secondarie, senza
preoccuparsi della società, dello sviluppo, del benessere. Da parte loro, i
poteri politici lasciano fare, purché essi non si interessano di politica.
In
Egitto il potere politico non è una dittatura pura, ma per continuare si allea
o fa concessioni sempre più grandi al salafismo. Il potere politico si mostra
"islamico" così da non cadere nella critica del salafismo, o dei
Fratelli musulmani. Ma ogni concessione rinforza quest'islam esteriore e conduce
a nuove concessioni.
La corruzione divora lo sviluppo
di Stefano Vecchia
Avvenire - 30 gennaio 2011
In
piazza oggi a Delhi contro la disonestà dilagante
Il
30 gennaio, tradizionale appuntamento dell'India con la memoria di Gandhi, la
Grande Anima (Mahatma) assassinato in questa data nel 1948 da un estremista indù,
quest'anno l'India deve confrontarsi con un problema drammatico e crescente. Tra
i 'mali' che l'affliggono, infatti, la corruzione è quella che meno dipende da
contingenze storiche, etnia, fede, caste o tribalismo, ma pressoché
esclusivamente dalla sete di potere e di denaro. Contro questo fenomeno, che è
un freno potente allo sviluppo sociale e politico del Paese, oggi si mobilitano
in tanti. La Marcia delle Organizzazioni dell'India contro la corruzione, a
Delhi, è un'iniziativa per la quale gli organizzatori hanno chiesto "non
solo il più ampio sostegno nell'occasione", ma anche di "diffonderne
le ragioni e, a chiunque ne condivida gli scopi, di farsi promotore di
iniziative simili in altre città".
Tra le adesioni, anche quella della Chiesa cattolica, in sintonia con la
chiamata dei vescovi di rito latino che al termine della loro Assemblea
plenaria, il 13 gennaio scorso, hanno chiesto ai cattolici un rinnovamento per
contrastare la corruzione dilagante. Corruzione e disonestà in ogni settore
della vita civile "non solo mostrano le lacune nell'istruzione, ma
evidenziano l'urgenza di una formazione morale", ha detto il cardinale
Oswald Gracias, presidente della Conferenza dei vescovi cattolici dell'India.
"Il raduno di domenica è un'importante iniziativa della società civile,
una pietra miliare nella lotta allo corruzione in India", sottolinea Swamy
Agnivesh, esponente di tutto rispetto dell'induismo modernista e sociale. A
rendere inevitabile un'azione, sono fenomeni di vaste proporzioni, su una
magnitudine proporzionata alla più grande democrazia del mondo, al secondo
colosso demografico, alla potenza nucleare, ma fuori scala per un Paese che è
ancora al 128° posto nella classifica mondiale del reddito individuale. Qualche
anno fa, un "indice della corruzione nazionale" compilato dalla
rivista Outlook aveva elencato una lunga serie di servizi per cui gli indiani
devono continuamente pagare sottobanco: certificati di nascita, passaporti,
tessere annonarie, patenti di guida, allacciamenti di luce e acqua, progetti
edilizi, prestiti bancari e addirittura per avere lavoro di manovalanza. Una
situazione che mette in evidenza anche la debolezza delle tutele giuridiche del
cittadino. Lo scorso anno l'India è scivolata di tre posizioni nella classifica
dell''Indice di corruzione percepita' stilato da Transparency International (
Ti), scendendo all'87° posto su un totale di 178 Paesi considerati. A
contribuire è stato certamente lo scandalo legato ai Giochi del Commonwealth,
tenutisi a Delhi dal 3 al 14 ottobre 2010. Quello che i media indiani hanno
definito "un saccheggio" ha prosciugato la metà dei 700 miliardi di
rupie (circa 14 miliardi di euro) di fondi messi a disposizione di un
"evento epocale " e non solo dello sport per l'India. Il responsabile
dell'organizzazione dei Giochi, Suresh Kalmadi, è stato costretto a dimettersi
da questa carica, ma non da quella di presidente del Comitato olimpico indiano.
Con un "punteggio d'integrità" di 3,3, l'India si ritrova oggi dietro
alla Cina, al 78° posto per corruzione. Nel 2009 i due colossi asiatici si
trovavano rispettivamente all'84° e al 79° posto. Facile il commento del
responsabile per l'India di Transparency International, P.S. Bawa: "L'India
non solo è salita nella scala della corruzione e scesa in quella dell'integrità,
in sé motivo di dispiacere, ma il suo livello di gestione non è migliorato,
nonostante il Paese abbia amministratori capaci". Un'altra ricerca di Ti,
condotta tra il novembre 2007 e il gennaio 2008, aveva in precedenza accertato
come milioni di indiani, già costretti dalle loro condizioni a vivere con 1
dollaro o meno al giorno, avessero pagato almeno 220 milioni di dollari per
potere ottenere servizi garantiti per legge. Perfino l'ambizioso Schema
nazionale per garantire l'impiego rurale, lanciato nel 2004 dal governo di
Manmohan Singh, è profondamente segnato dalla corruzione: 5,36 milioni di
famiglie indigenti hanno dovuto 'propiziare' la loro inclusione nel programma di
distribuzione a prezzi calmierati di riso, farina, combustibile per cucinare...
Come sottolinea il giornalista Rahul Bedi, "lo scorso anno, circa 4 milioni
di capifamiglia che vivono sotto il livello di povertà hanno dovuto pagare per
entrare in ospedali pubblici, per avere un letto e visite adeguate. Allo stesso
modo, quasi un milione sono coloro a cui questi servizi sono stati negati perché
impossibilitati a pagare quanto indebitamente richiesto".
I poveri hanno altresì dovuto versare almeno 3 milioni di dollari in bustarelle
per potere mandare i propri figli alle scuole primaria e secondaria... Niente,
davanti ai 5 miliardi di dollari pagati annualmente da camionisti e
autotrasportatori per svolgere in modo libero (e sovente rischioso per sé e per
gli altri) il loro lavoro.
Una situazione che non sfugge alle autorità, che per altro sembrano impotenti.
"Il livello e l'estensione del malgoverno sono orribili, in termini legali
e morali" ha dovuto ammettere qualche tempo fa il vicepresidente Hamid
Ansari. La corruzione, parole sue, è in India "invasiva e
cancerogena". Poco conforta la constatazione del ministro dell'Interno che
"cartelli criminali con collegamenti internazionali hanno ormai corrotto la
macchina statale a tutti i livelli, di fat- to organizzando un governo
parallelo".
«La
società civile si ribella»
«Se
la classe politica mancherà nel suo dovere di contrastare la corruzione,
saranno la società civile, gli organi d’informazione e il sistema
giudiziario uniti a costringerla ad agire per non correre il rischio che la
democrazia ceda al totalitarismo». Una convinzione forte e lucida, quella
espressa dal professor Sunil Sondhi, preside del Maharaja Agrasen College
dell’Università di Delhi. Ed è egli stesso, specialista di scienze sociali e
attento osservatore del ruolo crescente della società civile in India e
nell’Asia meridionale, a dare una definizione della corruzione pervasiva della
sua India: «Violazione della legge per ottenere benefici finanziari personali a
scapito – ed è questo che ne fa un delitto ancora più grave – della
comunità e del Paese».
-Quanto
è diffuso questo fenomeno nel suo Paese e quali sono le istituzioni che ne sono
più interessate?
La
corruzione è fenomeno diffuso nelle sue diverse forme soprattutto nella realtà
urbana. Le autorità fiscali, i servizi municipali, la polizia, le manifatture
private e il marketing sono i settori dove certi fenomeni sono più presenti.
L’India rurale, dove ancora vive il 70 per cento della popolazione, non ne è
toccata in maniera significativa.
-In
che modo questo si concilia con le aspirazioni democratiche ed egualitarie
dell’India, con le sue leggi e la sua Costituzione?
La
corruzione erode la democrazia, l’uguaglianza, le leggi e la Costituzione. Se
non contenuta in tempo, può distruggere la democrazia. Se la popolazione non
riesce ad ottenere giustizia attraverso le strutture democratiche, cercherà di
averla attraverso l’autoritarismo. Io vedo questo rischio e per questo sono
favorevole a iniziative concrete di contrasto alla corruzione.
-Quali
i gruppi di popolazione più toccati dalla corruzione e con quali conseguenze?
Una popolazione assai numerosa, bassi livello di scolarizzazione e di benessere,
insufficiente applicazione della legge hanno prodotto insieme maggiori
opportunità di corruzione. I più colpiti sono i poveri e le classi medie. I
ricchi e potenti possono pagare per uscirne. I poveri, invece, sono troppo
vulnerabili per reagire e nemmeno conoscono pienamente i loro diritti. Di
conseguenza, è soprattutto la classe media, più istruita, a comprendere
l’ampiezza della corruzione e ad esserne più preoccupata.
-In
che modo la società civile, le religioni e gli individui cercano di opporsi
alla corruzione dilagante?
La
società civile sta diventando sempre più cosciente del problema e sempre più
attiva nel combatterlo. Inclusi alcuni gruppi religiosi indù. I mass media, sia
tradizionali sia online, contribuiscono notevolmente, informando in modo attivo
e diffuso sulle iniziative di lotta alla corruzione. Sul piano legale, due
recenti provvedimenti, la Legge per la prevenzione della corruzione e la Legge
sul diritto all’informazione, hanno fornito strumenti preziosi di contrasto
del fenomeno, ma occorrerà tempo perché portino frutti concreti.
-Sia
i partiti di governo sia l’opposizione proclamano la loro intenzione di
opporsi alla corruzione, ma quanto la classe politica ne è responsabile?
La
classe politica è gravemente responsabile dell’inefficacia della legge.
Nonostante le affermazioni di principio, sia l’opposizione sia i partiti di
governo hanno mancato di applicare con efficacia le norme già presenti per
seguire i propri interessi di potere ed economici di breve periodo. Il modo più
efficace per contenere la corruzione è che si spezzi la catena di interessi
all’interno e all’esterno del partito di maggioranza governativa, quello del
Congresso, tanto per cominciare.
Stefano
Vecchia
Allarme cibo per i cambiamenti climatici
di Mathias Hariyadi
AsiaNews - Jakarta - 27 gennaio 2011
Il
prezzo del peperoncino è aumentato del 120%, frutta e verdura sono alle stelle.
I pescatori costretti a terra per le condizioni del mare; la produzione di riso
non basta per sfamare l'intera popolazione. Il governo parla di seria
"minaccia"; gli economisti promuovono la ricerca.
I
cambiamenti climatici e le "estreme" condizioni meteo rischiano di
mettere in ginocchio il settore agroalimentare indonesiano. Il pericolo è
confermato dal Ministro per la pianificazione dello sviluppo nazionale, che
parla di seria "minaccia" per le scorte alimentari della nazione. Il
peperoncino ha raggiunto prezzi esorbitanti, il costo di frutta e verdura
aumenta di continuo, calano le quantità di pescato e persino la produzione di
riso non è sufficiente per soddisfare i bisogni della popolazione.
Il
campanello d'allarme è scattato con l'aumento vertiginoso del prezzo del
peperoncino, un alimento base della dieta indonesiana, dall'aperitivo al pasto.
Il picco del 120% ha fatto schizzare il prezzo di un kg di prodotto a più di
100mila rupie (circa nove dollari). Il fenomeno potrebbe presto interessare
l'intero comparto di frutta e verdura, per il calo generale dei raccolti, le
pesanti piogge o i periodi di siccità. La crisi colpisce pure il settore
ittico, con milioni di pescatori costretti a terra a causa del maltempo e delle
onde alte oltre quattro metri. A Tuban, nella zona più rinomata per la pesca
della provincia di East Java, la marea ha distrutto dozzine di imbarcazioni.
A
certificare la crisi alimentare in Indonesia è la mancanza di riso, i cui
prezzi sono aumentati al punto da costringere le famiglie a consumarlo due volte
al giorno, invece delle tre tradizionali. Nel 1984 le politiche del presidente
Suharto hanno permesso al Paese di raggiungere l'auto-sufficienza nella
produzione del cereale. Oggi il consumo annuale è superiore alle 33 milioni di
tonnellate, ma la produzione interna non basta. L'Agenzia nazionale di logistica
(Bulog) ha confermato importazioni di riso dalla Thailandia per 820mila
tonnellate, un volume di quattro volte maggiore la quota prevista.
Armida
S. Alisjahbana, Ministro per la pianificazione dello sviluppo nazionale, precisa
che i fenomeni estremi a livello climatico sono ormai una seria
"minaccia" per la sicurezza alimentare nazionale nel 2011. Economisti
ed esperti di agroalimentare invitano il governo ad un maggiore impegno nella
ricerca di nuove tecnologie e a un aumento delle coltivazioni, finora limitate a
Java.
"Xenofobia, discriminazioni, respingimenti"
di Marco Pasqua
Repubblica
- 24 gennaio 2011
L'Italia
bocciata da Human Rights Watch
Nella
relazione annuale sullo stato dei diritti umani nel mondo l'agenzia americana
punta il dito contro l'immobilità delle organizzazioni internazionali di fronte
a gravi crisi e violazioni dei diritti umani. Nel nostro Paese spiccano i casi
di Rosarno, dei profughi africani rimandati in Libia e degli sfratti forzati di
rom
Razzismo
e xenofobia sono ancora un "problema pressante" per l'Italia, un Paese
nel quale il dibattito politico, troppo spesso, è segnato da toni accesi ed
ostili. A scriverlo è Human Rights Watch (Hrw), l'organizzazione con sede a New
York che, ogni anno, stila un rapporto sulle pratiche dei diritti umani a
livello mondiale, e che sintetizza i problemi principali in più di 90 Paesi. Il
documento (scaricabile a questo indirizzo 1) chiama anche in causa le politiche
di molti Stati - inclusi alcuni dell'Unione Europea -
che accettano "i sotterfugi di governi repressivi, sostituendo a pressioni
per il rispetto dei diritti umani approcci più morbidi quali dialogo privato e
cooperazione". I Paesi che dovrebbero essere i paladini dei diritti umani
"hanno fallito", accusa l'organizzazione che ha sede a New York.
Da
Rosarno ai rom. Nel rapporto di 649 pagine, giunto quest'anno alla 21esima
edizione, si dedica un capitolo all'Italia e si ricordano i vari casi di
violenze scaturite dal razzismo e dalla xenofobia. Un lungo elenco, nel quale
figurano anche le condanne e i richiami, spesso non seguiti da azioni
correttive, da parte degli organismi internazionali. Si nota anche l'assenza di
leggi specifiche che proteggano le persone discriminate sulla base del loro
orientamento sessuale. La disamina parte dalla vicenda di Rosarno che, a
gennaio, ha determinato il ferimento grave di 11 lavoratori migranti africani,
nel corso della violenta guerriglia le cui immagini hanno fatto il giro del
mondo. "Almeno altri 10 migranti, 10 agenti delle forze dell'ordine e 14
residenti hanno dovuto fare ricorso alle cure mediche - ricorda il
rapporto - Più di mille migranti hanno lasciato la città in
seguito alle violenze".
L'organizzazione
ricorda come, a febbraio, molti Paesi abbiano espresso la loro preoccupazione
relativamente alla violenza xenofoba italiana, nel corso del Consiglio per i
diritti umani presso le Nazioni Uniti. E' ancora "alto" il livello di
discriminazione patito da rom e sinti, che vive in condizioni di povertà
estrema, in condizioni di vita "deprecabili", all'interno di campi
autorizzati e abusivi. Secondo l'ong, i rom provenienti dall'Europa dell'Est,
soprattutto dalla Romania, hanno dovuto far fronte a "sfratti forzati"
e ad "incentivi economici" per tornare nei loro Paesi d'origine. E,
anche in questo caso, si ricorda il richiamo della comunità internazionale: a
ottobre, il comitato europeo dei diritti sociali "ha condannato l'Italia
per le discriminazioni nei confronti dei rom, a livello abitativo, ma anche per
quanto riguarda l'accesso all'assistenza sociale, economica e legale".
I
respingimenti. "Numerosi" gli interventi della Corte europea dei
diritti dell'Uomo (ECtHR) e del consiglio d'Europa contro il trasferimento di
sospettati di terrorismo in Tunisia, come Mohamed Mannai (membro di un gruppo
jihadista, condannato dal tribunale di Milano). Trasferimenti avvenuti
nonostante questi prigionieri rischiassero di subire dei maltrattamenti nel loro
Paese d'origine. L'Italia, inoltre, "non ha offerto asilo a una dozzina di
eritrei, che aveva respinto verso la Libia nel 2009, e dove sono stati vittime
di maltrattamenti e detenzioni illegittime insieme ad altre centinaia di
connazionali". Ad aprile, il nostro Paese ha "violato il divieto di
respingimento" quando ha intercettato un'imbarcazione carica di migranti, e
l'ha rispedita in Libia, "senza verificare se ci fossero persone bisognose
di protezione internazionale" e senza dar loro la possibilità di chiedere
asilo. Infine, viene menzionato il processo ai poliziotti responsabili delle
violenze commesse nel corso del G8 di Genova: a fronte "della condanna di
25 agenti su 29", il ministero dell'Interno "ha comunicato di non
volerli sospendere".
Il
silenzio della Ue. Il documento presenta anche un atto d'accusa contro le deboli
diplomazie di Onu e Unione europea che, troppo spesso, non fanno seguire alle
parole i fatti, per costringere i regimi repressivi a rispettare i diritti
umani. "Anziché opporsi con fermezza ai leader violenti, molti governi,
tra cui alcuni Paesi membri dell'Unione europea - spiega una nota di
Hrw - adottano politiche che non generano pressioni volte a un cambiamento. La
Ue, anche nei confronti di chi viola i diritti umani, sembra essere orientata a
sposare l'ideologia del dialogo e della cooperazione". Tra gli esempi
citati, quelli di Uzbekistan e Turkmenistan: in questo caso, l'Unione non è
riuscita a esercitare sufficienti pressioni sui loro governi per favorire
cambiamenti. "Sebbene gli accordi di cooperazione della Ue con altri paesi
siano condizionati sistematicamente sul rispetto di fondo dei diritti umani,
(l'Unione) ha concluso un significativo accordo di scambio col Turkmenistan, un
governo fortemente repressivo", dice Hrw. Altri esempi di scarso impegno,
in tal senso: l'approccio verso il presidente ruandese Paul Kagame e il primo
ministro etiope Meles Zenawi, ma anche verso una Cina in cui le libertà
basilari dell'uomo vengono messe continuamente a repentaglio. Al tempo stesso,
la Ue viene invitata a fare di più per difendere i diritti degli immigrati
clandestini, per offrire migliori condizioni di asilo politico e essere più
attenta ai diritti umani quando si introducono strumenti di lotta al terrorismo.
C'è anche un richiamo agli stessi Paesi membri della Ue a non adottare la
politica del doppiopesismo: "La credibilità dell'Unione europea come una
forza che si batte per i diritti umani nel mondo, dipende anche dalla sua volontà
di affrontare le violazioni commesse dai suoi stati membri. Con esempi di
discriminazioni e una crescente intolleranza verso i migranti, i musulmani, i
rom e altri, ma anche un accesso inadeguato al diritto d'asilo, gli stati membri
e le istituzioni europee devono dimostrare un maggior impegno nel far sì che il
rispetto per i diritti umani all'interno dei loro confini sia in sintonia con le
posizioni europee all'estero". "Le pressioni europee ci sono state
- concede Hrw - ma solo verso quei governi nei quali il
comportamento è stato talmente scandaloso, da far passare in secondo piano gli
interessi in gioco: è stato così con la Corea del Nord, l'Iran e lo
Zimbabwe". Un problema che riguarda anche l'Onu, che sbaglierebbe ad
"affidarsi ai canali diplomatici e non alla condanna pubblica per
convincere i regimi repressivi, come quello cinese, a porre fine alle violazioni
dei diritti umani". Secondo l'organizzazione, l'errore fondamentale del
segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon e di molti altri Paesi della comunità
internazionale è quello di promuovere ''il dialogo e la cooperazione''
preferendolo alle pressioni pubbliche nei confronti di quegli Stati che violano
i diritti dell'uomo.
Focus
su Egitto, Iran, Tunisia. Sul fronte delle violazioni più gravi dei diritti
umani, il rapporto, che accusa l'Egitto di "diffuse discriminazioni"
contro i cristiani copti e le altre minoranze religiose, continua ad occuparsi
della situazione in Iran, dove "la tutela dei diritti umani è peggiorata e
il regime ha utilizzato la tortura e l'intimidazione per reprimere l'opposizione
e le critiche e per consolidare il suo potere. Continuano senza sosta le
restrizioni sulla libertà d'espressione e associazione, le libertà religiose e
le discriminazioni sessuali. Durante gli interrogatori della polizia è stata
usata la tortura per ottenere delle confessioni. Centinaia di persone, tra cui
avvocati, giornalisti, attivisti e leader dell'opposizione restano in carcere
senza un capo d'accusa". La "rivoluzione del gelsomino" in
Tunisia, che ha portato alla caduta del regime di Ben Ali, secondo l'Hrw
ha dato una "lezione" all'Unione europea e agli Stati Uniti sui
rapporti con i dittatori: "L'Unione europea non si è resa conto
dell'arrivo di questa rivoluzione. Penso - ha detto Kenneth Roth,
direttore generale dell'organizzazione - che l'Ue, gli Stati Uniti e gli altri
abbiano capito la lezione E' un errore schierarsi in un certo qual modo al
fianco di un dittatore anche se visto come bastione contro il terrorismo o
l'immigrazione illegale".
Record
di adozioni internazionali di Rosaria Amato
Repubblica
- 28 gennaio 2011
Nel 2010 oltre 4.000, in testa la Russia
La
Commissione per le Adozioni Internazionali, presieduta da Carlo Giovanardi,
l'anno scorso ha rilasciato l'autorizzazione all'ingresso in Italia per 4.130
bambini, provenienti da 58 Paesi. L'Italia è il secondo Paese al mondo, dopo
gli Stati Uniti. E i tempi di attesa si accorciano
Il
2010 è stato l'anno con il maggior numero di adozioni realizzato dalle coppie
italiane: è la prima volta infatti che viene superato il numero di 4000. Un
dato che fa dell'Italia il primo Paese d'accoglienza in Europa, secondo nel
mondo solo agli Stati Uniti d'America. Le rilevazioni sono state effettuate
dalla Commissione per le Adozioni Internazionali, presieduta dal Sottosegretario
alla Presidenza del Consiglio, Carlo Giovanardi, che nel 2010 ha rilasciato
l'autorizzazione all'ingresso in Italia per 4.130 bambini, provenienti da 58
Paesi (è in corso la verifica definitiva dei dati, che dovrebbe essere conclusa
in febbraio). Nel 2009 le autorizzazioni all'ingresso avevano riguardato 3964
minori: vi è stato pertanto un aumento del 4,2%.
"La
regione con il maggior numero di adozioni - ha ricordato il primo presidente
della Cassazione, Ernesto Lupo, in occasione dell'inaugurazione dell'anno
giudiziario 1- è la Lombardia, seguita da Lazio, Toscana e Veneto, ma si
constata un significativo aumento anche nelle regioni meridionali, ad eccezione
della Sicilia".
Mentre
il primo Paese di provenienza dei bambini adottati da coppie italiane è la
Federazione Russa con 707 minori, ma è stato particolarmente elevato l'aumento
del numero dei bambini provenienti dalla Colombia, che sono stati 592 a fronte
dei 444 del 2009. La Colombia è dunque il secondo Paese di provenienza, seguito
dall'Ucraina con 426 adozioni, dal Brasile con 318, dall'Etiopia con 274, dal
Vietnam con 251 e dalla Polonia con 193.
Significativo
è l'incremento dei minori provenienti dall'America Latina (+16,34%) e dall'Asia
(+34,71%) malgrado le trasformazioni interne in corso nei Paesi Vietnam, Nepal e
Cambogia; 443 sono i minori provenienti da Paesi dell'Africa.
Aumentato,
rispetto agli anni passati, anche il numero dei decreti di idoneità rilasciati
dai Tribunali dei minorenni seguiti dal conferimento dell'incarico ad un ente
autorizzato.
Nel
2010 il tempo medio di attesa per la realizzazione di un'adozione internazionale
(calcolato dal momento del conferimento dell'incarico all'ente autorizzato fino
al rilascio dell'autorizzazione all'ingresso di competenza della Commissione) è
stato di 26 mesi, mentre prima ci volevano anche tre o quattro anni. E il dato
sembra in continuo miglioramento: in particolare, il 45,9% delle adozioni
concluse nel 2010 riguarda coppie che avevano conferito l'incarico all'ente nel
2009 o, addirittura, nel 2010.
L'Italia,
ricorda sul suo sito la Commissione per le Adozioni Internazionali 2, è uno dei
pochissimi Paesi a prevedere un consistente sostegno economico statale alle
famiglie che hanno intrapreso la procedura adottiva, sia sotto il profilo della
deducibilità fiscale, sia sotto il profilo del rimborso delle spese sostenute
che, nel 2010, è stato aumentato.
La
Commissione per le adozioni internazionali ha inoltre sviluppato "un
energico ed efficiente sistema di cooperazione per la promozione dei diritti
dell'infanzia, finanziando in tutti i Paesi d'origine centinaia di progetti,
realizzati dagli enti autorizzati e mirati all'attuazione concreta del principio
di sussidiarietà e alla promozione dei diritti dei bambini, ivi compreso quello
di crescere nella propria famiglia biologica".
Immigrati,
una "nuova alleanza" di Giulio Di Blasi
Repubblica
- 24 gennaio 2011
Integrazione
come cittadinanza reale. Un
"giro" per Roma alla ricerca delle iniziative che fioriscono per
aiutare i nuovi cittadini. Dal lavoro ai rifugiati, al laboratorio di sartoria,
al giornalino di zona. Tra mille difficoltà si cercano strade mai battute. Con
qualche successo
Alessandra
è la tipica ragazza che ti aspetteresti di incontrare per le strade del centro
in un sabato mattina romano. Bionda, vestita in modo impeccabile, potresti
immaginarla senza difficoltà a far shopping nella Galleria Colonna, o in un
qualche centro commerciale - di quelli che ultimamente proliferano
nelle periferie di Roma Capitale.
Eppure
Alessandra non la incontriamo lì, ci diamo infatti appuntamento nella zona di
termini in un luogo piuttosto particolare. In una stanza sul fianco dei binari,
in Via Marsala 95, si svolge il lavoro di PRIME Italia, una piccola associazione
nata da solo un anno che ha come obiettivo quello di assistere i rifugiati in
cerca di lavoro. Infatti secondo Guglielmo - il presidente
dell'Associazione - "i rifugiati anche quando riescono a vedere
riconosciuto il proprio status sono inseriti in un contesto di assistenzialismo
che, anche se indispensabile, spesso non è in grado di offrire loro delle
prospettive lavorative". Eppure il permesso rilasciato ai rifugiati
consentirebbe facilmente l'assunzione da parte di aziende e organizzazioni,
anche perché di solito coloro i quali fuggono dal proprio paese per ragioni
politiche sono persone che possiedono qualifiche elevate, spesso anche una
laurea in materie ad alta specializzazione (fisica, ingegneria...). I volontari
di PRIME ogni sabato mattina, invece di lasciarsi alle spalle la settimana
lavorativa, aprono lo sportello offrendo ai rifugiati consulenza per costruire
il loro Curriculum Vitae, e per metterli in contatto con realtà aziendali e
produttive interessate ad assumerli. Il primo caso di successo che ci raccontano
orgogliosi è quello di un rifugiato Iraniano che ha trovato un lavoro stabile
come segretario presso una Organizzazione non Governativa.
Continuando
a costeggiare la stazione Termini, racchiusi tra i binari d'acciaio e le rovine
delle mura romane, guardate con indifferenza dagli indaffarati abitanti del
quartiere San Lorenzo, ci addentriamo in una via laterale, Via dei Bruzi. Qui le
lamiere sui tetti di alcuni capannoni ci ricordano del passato industriale del
quartiere che oggi rappresenta una delle mete principali delle notti della
capitale. Proprio a rinnovare idealmente questo rapporto tra lavoro e quartiere
Cristina, una signora che in passato ha lavorato in contesti complessi come
l'Iraq dei primi anni successivi a Saddam Hussein, ci accoglie in un piccolo
laboratorio di sartoria. A lavorare, attorno ad una stufa con un bambino che
sgambetta tra le macchine per cucire, ci sono due donne rom. Provengono dai
campi dove Cristina svolgeva un servizio gratuito di pediatria, e dove ha
conosciuto delle giovani ragazze che - senza rinnegare in alcun modo
la loro identità - avevano voglia di mettersi in gioco. E così
nasce l'esperienza di questo piccolo laboratorio che ormai da tre anni dà
lavoro a diverse ragazze, con l'obiettivo primario di "costruire un tessuto
di socialità attraverso un progetto comune". Un fine molto preciso che ha
portato alla scelta di limitare il numero di persone inserite nel laboratorio
per permettere di curare le relazioni tra persone, un piccolo nucleo quindi, che
però potenzialmente può essere replicato all'infinito.
Un
modello che, dopo i primi anni di difficoltà, inizia anche ad essere redditizio
con alcune collaborazioni affascinanti, come quella con una fondazione che
fornisce assistenza ai sordo-ciechi per la quale le ragazze del
laboratorio hanno realizzato dei libri tattili con stoffa e tessuti. Inoltre al
laboratorio si sta sviluppando oggi anche un progetto di formazione, ancora in
fase sperimentale, dove altre donne vengono affiancate alle ragazze più esperte
perché possano fare loro da tutor. Per ora sono state coinvolte delle rifugiate
somale, ma l'obiettivo è che il capitale umano e sociale cresciuto negli anni
possa essere messo a disposizione di molte altre persone.
Per
il terzo incontro di una intensa mattinata è necessario attraversare una delle
principali arterie della città, via Nomentana. Qui, tra i due attraversamenti
pedonali, ancora si trovano i fiori di due fidanzati uccisi da un folle ubriaco
lanciato a tutta velocità con la macchina un sabato sera, terribile esempio di
un volto completamente diverso della città. Paola Piva, la responsabile
dell'Associazione Più Culture, ci aspetta a casa sua trasformata di fatto in
una redazione online. E' qui infatti che si riunisce, in attesa di trovare una
sistemazione più comoda, il gruppo di ragazzi che sta dando vita ad un nuovo
giornale territoriale. L'obiettivo - ci racconta Paola -
è quello di raccontare tutto quello che le comunità di immigrati fanno nel
nostro Municipio (il secondo, NdR). Ancora più degli italiani infatti le
comunità di immigrati organizzano piccoli eventi culturali, tornei sportivi e
iniziative che però spesso sono completamente scisse dalla realtà del
territorio, e sono sconosciute ai residenti. Basti pensare all'esempio del
mercato del Venerdì della Moschea di Roma, dove in pochi metri si può passare
dagli alberi secolari di Villa Ada, ad un souq arabo con prodotti provenienti
dal nord africa e dal medio oriente. Un progetto che risponde perfettamente
all'idea di un sistema 'glocale' dove si integrano una forte appartenenza
territoriale e identità disparate e plurali. Una combinazione complessa,
vissuta negli anni in prima persona dalle operatrici dell'Associazione impegnate
nelle scuole per offrire supporto al sempre più elevato numero di studenti
stranieri, un progetto parallelo a quello del giornale che probabilmente a breve
porterà ad un corso di Italiano per l'ottenimento del permesso di soggiorno.
Tre
iniziative apparentemente molto diverse ma accomunate dalla volontà di creare
cittadinanza reale. Consentire infatti agli immigrati di accedere a dignità e
lavoro, ovvero di contribuire con il loro impegno alla vita della comunità in
cui risiedono, è infatti il vero presupposto per l'integrazione dei nuovi
cittadini italiani. Pensare che per farlo siano necessari dei punteggi su test
di storia e lingua italiana è infatti riduttivo e desolante, così come è
impossibile immaginare che il circuito assistenziale possa essere il modello di
riferimento da perseguire. L'assistenza delinea una condizione patologica, se
vogliamo invece che l'immigrazione sia un fenomeno positivo in grado di
costruire una più ampia comunità nazionale è necessario promuovere tutte
quelle esperienze - e sono centinaia - in cui si
realizza una reale alleanza tra italiani e immigrati accumunati dalla condizione
oggettiva di vivere nel sul medesimo territorio al cui futuro entrambi vogliono
contribuire.
Quei
bimbi rom strappati da scuola
Famiglia
Cristiana - 28 gennaio 2011
Rom,
a Milano ancora sgomberi, ancora diritti nergati ai minori. Nell'indifferenza
generale. Assenti anche i servizi sociali del Comune.
A fine 2010, il presidente del Consiglio ha emanato la proroga dello "stato
di emergenza in relazione agli insediamenti di comunità nomadi" in
Campania, Lazio, Lombardia, Piemonte e Veneto. Come già avvenuto nel 2008, si
sceglie di intervenire con uno strumento giuridico che la legge italiana prevede
in caso di "calamità, catastrofe", o eventi "che per intensità
ed estensione debbano essere fronteggiati con mezzi e poteri straordinari".
Lo stesso provvedimento usato in occasione del terremoto in Abruzzo o
dell'emergenza rifiuti a Napoli.
A Milano, l'applicazione dell'emergenza nomadi ha causato soprattutto 156
sgomberi nel solo 2010. Uno degli aspetti più drammatici sono i bambini
continuamente allontanati senza soluzioni alternative. Nonostante il freddo,
venerdì 21 gennaio, la polizia locale di Milano ha sgomberato 25 rom rumeni,
tra cui 10 bambini, che abitavano l'ex scuola di via Adriano. L'area, da anni
abbandonata, è di proprietà dell'Aler, l'ente regionale per la costruzione di
case popolari. Alle 7.15, all'arrivo delle forze dell'ordine, Claudia, 7 anni,
è già partita per essere in classe. Deve percorrere più di un'ora di strada
per raggiungere la scuola vicina a via Rubattino, dove ha vissuto fino allo
sgombero del settembre 2010. Felicia, terza media, vedendo arrivare la polizia,
ha capito subito cosa sarebbe successo, ma ha voluto comunque andare a scuola
perché aveva una verifica di matematica. Invece, suo fratello Ionut, 7 anni, è
corso ad aiutare la mamma a salvare la bicicletta e qualche vestito.
Ai
rom vengono lasciati pochi minuti per scegliere quali oggetti salvare. Spicca
l'assenza dei servizi sociali del Comune. Nei due giorni successivi allo
sgombero, la polizia interviene nuovamente per allontanarli dai luoghi in cui
provano a passare la notte: il 22 gennaio da una cascina abbandonata a Lambrate
e il 23 da Crescenzago. Claudia, Felicia, Ionut e gli altri bambini di via
Adriano sono arrivati anche a 10 sgomberi dal settembre 2010 ad oggi. Gianni, 5
mesi di vita, ha già subito 8 sgomberi. La bidella della scuola del fratello
maggiore ha deciso di ospitare lui e la mamma per la notte. Le scuole
rappresentano per questi bambini dei fortini di pace in una città che li
scaccia.
Marius,
il fratello di Claudia, ha 15 anni e, prima di quest'anno, non era mai andato a
scuola. Un gruppo di insegnanti della scuola superiore Schiapparelli-Gramsci ha
accettato la sfida di scolarizzare questo ragazzo che, da settembre, tutti i
giorni frequenta un corso personalizzato. Dicono queste insegnanti: "In
Marius vediamo il desiderio disperato di andare a scuola e di avere una casa
come tutti gli altri, anche se viene respinto da una città che non ha più
cuore né testa." Anche la Comunità di Sant'Egidio, che segue da
tempo questo gruppo di famiglie, esprime una forte preoccupazione per l'ennesimo
sgombero che rischia di vanificare i percorsi per l'integrazione e di ledere il
diritto alla scuola dei bambini.
Il
7 dicembre, in occasione della consegna degli Ambrogini a Milano, Assunta
Vincenti, una delle ormai famose "mamme e maestre di Rubattino",
ha ricevuto un attestato di benemerenza perché "con tenacia, amore e
grande senso civico ha scommesso per un'integrazione possibile". Si chiede:
"Dov'è il senso civico quando si nega ad Albert di 6 anni il diritto ad
avere un tetto? L'integrazione è possibile quando si guarda con occhi nuovi
verso le persone e ci si chiede come insegnare a scrivere a Marius, come salvare
la bicicletta di Ionut. La tristezza e la disperazione che ogni volta leggiamo
sui volti di questa umanità calpestata resteranno nella storia di Milano come
il simbolo di una violenza che non vorremmo esistesse. Si nega l'infanzia in
nome di una presunta sicurezza."
Qual
è la vera emergenza nomadi a Milano? È il modo in cui questa città costringe
a vivere tanti bambini rom. L'emergenza è Gianni che ha subito più sgomberi
dei suoi mesi di vita. L'emergenza è la minaccia al diritto all'istruzione, che
è un diritto non negoziabile, perché escludere un bambino dalla scuola vuol
dire portargli via il futuro.
Ciò
che succede al Paese non può lasciarci indifferenti"
MissiOnLine
- 28 gennaio 2011
"Quanto
sta vivendo il nostro Paese in queste ultime settimane non ci può lasciare
indifferenti". Così scrive un gruppo di laici cattolici, impegnati in
politica, che hanno firmato questa lettera aperta:
Dopo
aver sentito e letto i numerosi interventi di questi giorni sulle vicende
giudiziarie del Presidente del Consiglio, non sentiamo il bisogno di intervenire
sul merito delle questioni che occupano da troppi giorni le prime pagine dei
giornali. Come politici che tentano di offrire la loro testimonianza cristiana
nel servizio alle istituzioni e a questo nostro Paese, ci sentiamo piuttosto in
dovere di manifestare la nostra preoccupazione per la deriva che sta
interessando in modo sempre più evidente la vita pubblica italiana. Un'intera
generazione politica, e non facciamo differenze di schieramento, rischia di
venire precipitata in un formalismo che accompagna alla proclamazione di valori
e tradizioni che spesso vengono qualificati con l'impegnativo aggettivo di
cristiani, una serie di comportamenti pratici che sconfinano nella categoria
dell'a-moralità e pretendono di non diventare oggetto di giudizio in nome
dell'assoluta intangibilità della sfera privata e della libertà, altrettanto
assoluta, di scelta dell'individuo. Per chi fa politica la dimensione pubblica
non è un accidente o un qualcosa di totalmente separato dalla propria
esperienza di vita (anche privata), tanto quanto per chi si definisce credente
la testimonianza quotidiana non può essere separata dalle proprie abitudini di
vita, anche privatissime. Non si tratta di ergersi a giudici di nessuno; per
questo esiste la magistratura nella città terrena e il buon Dio in quella
celeste. Il punto è un altro: il patrimonio morale e culturale di un popolo o
di una nazione non sono indipendenti dal comportamento e dalle abitudini di chi
in essi riveste ruoli di responsabilità, a qualsiasi livello. Il Vangelo non è
tenero con chi si definisce cristiano e rischia di recare scandalo, ovvero di
offrire una testimonianza dissonante e contraria rispetto a quanto proclama o
afferma di credere: meglio che si leghi una macina al collo e si getti nel mare.
La rilevanza penale di un comportamento è fondamentale per il giudizio terreno
di chi è investito del compito di vigilare sul rispetto delle leggi, ma le
conseguenze morali e culturali di ogni nostro comportamento vanno oltre il
codice penale e toccano elementi più profondi e radicali quali l'ethos
collettivo e la possibilità di indicare criteri per vivere una vita buona. La
grave preoccupazione per l'emergenza educativa che ha spinto i vescovi italiani
a dedicare un intero decennio della comunità cristiana proprio al tema della
trasmissione dei valori, suona purtroppo come profetica: quali modelli offriamo
ai giovani? Quali prospettive educative si aprono di fronte ai più piccoli? Che
cittadini stiamo formando? Sono domande che, se guardiamo a quello che sta
accadendo in questi mesi, rischiano di condurci attraverso riflessioni colme di
smarrimento se non di angoscia.
La politica farà le sue scelte e adotterà le sue strategie che condurranno probabilmente a un duro scontro tra chi difende le ragioni del Presidente del Consiglio e chi ritiene che i suoi comportamenti siano lesivi della dignità dell'intero Paese. Questo non toglie però nulla alla necessità di una profonda riflessione sulle conseguenze che abitudini e comportamenti che si trascinano da tempo e di cui i protagonisti si sono a più riprese vantati, rischiano di far precipitare sull'intera società italiana. Anche dalle gerarchie ecclesiastiche si sono opportunamente levate, negli ultimi giorni e non solo, voci preoccupate al proposito. Nessuno ha titolo per considerarsi paladino esclusivo del cristianesimo in politica e nessuno può arrogarsi il diritto di invocare i valori cristiani, e tanto meno il Vangelo, per difendere le proprie scelte politiche che rimangono, è bene ricordarlo, nel campo dell'opinabile e del provvisorio. Ci piace richiamare, per concludere, un passaggio della Lettera a Diogneto, uno scritto del padri apostolici: i cristiani "dimorano nella terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo. Obbediscono alle leggi stabilite, e con la loro vita superano le leggi. Amano tutti, e da tutti vengono perseguitati. (...) Sono poveri, e fanno ricchi molti; mancano di tutto, e di tutto abbondano" (V,9-11.13). Anche oggi c'è bisogno di cristiani così e di politici che, dicendosi cristiani, abbiano l'umiltà di servire e rifuggano l'arroganza del potere.
Giuseppe Adamoli, Alessandro Alfieri, Emanuela Baio,
Dopo quaranta anni, la prima ordinazione sacerdotale nel nord Laos
AsiaNews - Vientiane - 25 gennaio 2011
La cerimonia per Pierre (Pietro) Buntha Silaphet avrebbe
dovuto avvenire il 12 dicembre, ma è stata spostata di quasi due mesi. La
piccola comunità cattolica laotiana lo festeggerà nel suo paese natale, Phom
Van; l'ordinazione avverrà a Takhek, 800 km più a sud. P. Pierre aiuterà il
vicario apostolico p. Tito Banchong rimasto solo dopo l'espulsione dei
missionari stranieri nel 1975.
La
prima ordinazione sacerdotale in quarant'anni nel Laos del nord sarà celebrata
il 29 gennaio 2011; avrebbe dovuto aver luogo il 12 dicembre ma è stata
ritardata di quasi due mesi. Il nuovo sacerdote si chiama Pierre (Pietro) Buntha
Silaphet, ha a trent'anni, ed è nato a Phom Van, (Sayaboury - Nord Laos).
Appartiene al gruppo etnico K'hmu'. La festa per l'ordinazione, la prima
da 40 anni nel vicariato di Luang Prabang, si svolgerà nel villaggio di Phom
Van. Con una coincidenza, che la comunità cattolica del Laos giudica
provvidenziale, il nome laotiano di Pierre è "Buntha", come quello
dell'ultimo sacerdote di etnia K'hmù, ordinato a Luang Prabang il 22 Febbraio
1970: 41 anni fa, da mons. Alessandro Staccioli, vicario apostolico dal febbraio
1968 al 1975. In quell'anno il governo decise l'espulsione di tutti i missionari
stranieri, senza possibilità di rientrare nel Paese. Da allora mons. Tito
Banchong, dopo l'espulsione dei sacerdoti stranieri, è rimasto solo nel
Vicariato; ed è con comprensibile gioia che ha dato l'annuncio di questa nuova
ordinazione.
La
piccola comunità cattolica festeggerà Pierre Buntha, quando tornerà al
villaggio natale di Phom Van (Sayabouri), dopo l'ordinazione, che si farà a
Takhek, a 800 Km. più a Sud. Il Vescovo ordinante sarà mons. Marie-Louis Ling,
Vicario apostolico di Paksé, di etnia K'hmù, come Buntha.
Il
novello sacerdote diocesano appartiene a una delle famiglie evangelizzate tra il
1960 e il 1975 da padre Piero Maria Bonometti, Omi, a Ban Houei
Thongnella provincia di Luang Prabang).
L'amministratore
apostolico, mons. Tito Banchong, ha avuto tutti i permessi necessari dalle
autorità per celebrare questo evento. In maniera non ufficiale, è stato fatto
capire agli interessati che la cerimonia dell'ordinazione non deve avere troppo
risalto, e assumere la forma di una festa di villaggio. Dal 1975 il vicariato di
Luang Prabang non ha cattedrale, ma solo piccole cappelle sparse sul territorio.
Il governo segue con attenzione la vita e l'attività della chiesa e delle
minoranze cristiane. La Chiesa cattolica è presente sul territorio con 4
vicariati apostolici: Luang Prabang, Paksé, Savannakhet e Vientiane. I
cattolici sono 39.725, pari allo 0,65% della popolazione.
Israele censura le organizzazioni umanitarie scomode al governo
Unimondo
- 28 gennaio 2011
Ben
Gurion, gennaio 2011. Molte delle migliaia di persone che quotidianamente
transitano per il principale aeroporto israeliano molto probabilmente non se ne
saranno neppure accorte. Ma a segnalare la questione ci hanno pensato i diretti
interessati, portando la notizia anche sulle pagine dei principali quotidiani
nazionali, tra cui Haaretz. Usufruendo della connessione wireless offerta
gratuitamente a tutti i viaggiatori dell’aeroporto israeliano di Tel Aviv, da
diverse settimane ormai si nota, infatti, un’anomalia: certe pagine vengono
bloccate dal provider.
Il
comune denominatore dei siti filtrati? Si tratta delle pagine web delle
principali organizzazioni israeliane di sinistra che documentano e forniscono
informazioni su quanto accade nei Territori occupati. Tra le ong punite dal
nuovo sistema di quella che, secondo gli interessati, sembrerebbe essere una
censura preventiva in piena regola, spiccano i nomi di Breaking the silence,
Machsom Watch, Peace Now, e Taayush.
Ma
in mezzo agli illustri esclusi si trova anche l’organizzazione internazionale
Human Rights Watch. La motivazione che appare agli utenti nella schermata è
identica per tutte le pagine in questione: si tratterebbe di organizzazioni che
agiscono come gruppi di pressione, occupandosi di attivismo insomma. In altre
parole, sono siti appartenenti a organizzazioni politiche e vengono pertanto
classificati come “pericolosi”, fatto duramente criticato da Yariv
Oppenheimer, segretario generale di Peace Now, una delle associazioni colpite:
“E’ deplorevole che persone che lasciano Israele debbano avere
l’impressione di lasciare la Cina o la Corea del Nord”. Come dichiarato da
Oppenheimer, solo Stati arretrati bloccherebbero siti internet che esprimono
opinioni politiche.
Ma
il filtro aeroportuale recentemente imposto rappresenta solo una delle
iniziative che, negli ultimi mesi, hanno travolto la società civile israeliana
suscitando preoccupazione e proteste da parte delle organizzazioni per la tutela
dei diritti umani presenti nel Paese.
Oltre
alle tre le proposte di legge rivolte alla limitazione delle azioni delle
organizzazioni di sinistra presentate alla Knesset nella seconda parte del 2010,
la richiesta di istituzione di una commissione di indagine parlamentare per
esaminare i finanziamenti internazionali destinati alle organizzazioni
israeliane che “aiutano la delegittimazione di Israele danneggiando i soldati
IDF”, proposta dalla parlamentare Faina Kirschenbaum (del partito Israel
Beiteinu) e approvata in prima lettura con 41 voti favorevoli e 16 contrari, ha
suscitato le dure reazioni delle ong locali. La proposta dovrà superare altre
due votazioni, ma c’è già chi, tra le associazioni che ne verrebbero
direttamente colpite, grida al maccartismo.
Come
riportato dal quotidiano Ynet e dalle principali organizzazioni, Hagai El-Ad,
capo dell’Association for Civil Rights in Israel, avrebbe infatti paragonato,
a nome di altre 16 associazioni, l’azione parlamentare in corso in Israle alle
investigazioni statunitensi degli anni 50 nei confronti del senatore McCarthy.
L’organizzazione
B’tselem, invece, si è dichiarata “orgogliosa del lavoro per la promozione
dei diritti umani nei Territori Occupati, svolto legalmente e in piena
trasparenza”. Secondo i portavoce dell’organizzazione, la critica al Governo
in una democrazia non solo sarebbe legittima, bensì essenziale e le azioni
intraprese negli ultimi mesi sarebbero solamente un tentativo di delegittimare
le azioni promosse dalle associazioni in questione.
Commenti
di questo tipo non giungono solo dalla società civile. “Le indagini su
organizzazioni, di sinistra o di destra che siano” - ha dichiarato infatti il
presidente israeliano Shimon Peres in un’intervista rilasciata al quotidiano
Haaretz, “devono essere lasciate alle autorità legalmente preposte a questo
compito”. Peres, affermando che l’istituzione di una commissione
parlamentare di inchiesta sarebbe superflua e colpirebbe la democrazia
israeliana, ha anche citato Ben Gurion. Ricordando, con le parole del primo
premier israeliano, che i politici non devono essere giudici e i giudici non
devono essere politici.
Michela
Perathoner (Inviata di Unimondo)
Palestina,
la bandiera a brandelli di Christian Elia
PeaceReporter
- 24 gennaio 2011
Rivelazioni
scottanti, ma evidenti per tanti da molto tempo. La Palestina esisterà solo
rinunciando a se stessa
Uno
degli ingredienti dell'era di WikiLeaks è un retrogusto di deja vu. Anche la
Palestina non sfugge a questa ricetta. Il quotidiano britannico Guardian e il
network arabo al-Jazeera hanno svelato che l'Autorità Nazionale Palestinese e
il suo leader, Abu Mazen, sono ormai pronti a cedere su punti ritenuti per anni
irrinunciabili nei confronti d'Israele, pur di ottenere lo stato palestinese.
Lo
'rivelano' circa 1.700 documenti segreti che raccontano centinaia di incontri
tra palestinesi, israeliani e statunitensi, che producono montagne di email e
bozze di proposte. Li hanno già battezzati Palestinian Papers. Quali? Gli
insediamenti illegali a Gerusalemme Est, per esempio, in violazione di qualsiasi
norma di diritto internazionale. Solo per chi non voleva vedere questo spiega il
distacco con il quale il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha trattato
l'amministrazione Obama sul congelamento delle colonie illegali in Cisgiordania.
Netanyahu sa che può alzare la posta, perché il fronte palestinese è diviso.
Rinunciare anche al diritto al ritorno dei due milioni (ma di sicuro sono molti
di più) di palestinesi scacciati dalle loro case dl 1948 a oggi.
Bastava
essere per le vie di Gerusalemme, di Nablus, di Jenin durante il massacro di
Piombo Fuso, tra la fine del 2008 e l'inizio del 2009, per vedere attivisti
pestati dai poliziotti di Abu Mazen solo perché chiedevano la fine dei
bombardamenti, mentre venivano messi in carcere tutti i sostenitori (e anche i
deputati) di Hamas. Bastava vedere quello per capire che non esisteva più un
fronte palestinese unito. Vero è che il mancato riconoscimento della vittoria
elettorale di Hamas quattro anni fa ha sancito la spaccatura tra il movimento
islamico (che controlla Gaza) e il partito Fatah di Abu Mazen (che controlla
l'Anp e la Cisgiordania), ma i giorni di Piombo Fuso hanno rotto per sempre il
sacro vincolo della solidarietà, dell'unione tra i palestinesi contro
l'occupante.
Perché?
La risposta è facile: Abu Mazen e i suoi, ormai, non rappresentano più
nessuno. Sono solo il fantasma della generazione che ha fallito, guidata da
Arafat, prima la fase insurrezionale poi quella negoziale. Il pallido ritratto
di un Dorian Gray che, nello stesso momento, invecchiava vedendo ringiovanire
l'icona di Hamas. Senza avere più risposte da dare alle domande di donne,
uomini, giovani e vecchi palestinesi. Oslo una promessa tradita, loro gli unici
a trarne beneficio, nel senso del potere personale. Hamas oggi si affanna a
comunicare tutto il suo sdegno, ma sono mesi che Hamas sa benissimo che Abu
Mazen e i suoi venderebbero l'anima al diavolo per ottenere uno staterello
palestinese, un elenco di tristi bantusan sui quali far sventolare una bandiera
palestinese, così lontani l'uno dall'altro da non vedere che il vessillo
dell'altro è uguale al tuo. Solo che questo è rimasto l'ultimo colpo da
sparare a una cricca sul viale del tramonto.
L'unico
che potrebbe, in questo frangente, parlare a tutti i palestinesi è Marwan
Barghuoti. Marcisce in un carcere, perché Israele sa che la situazione diventa
sempre più favorevole. Nessuno indirà elezioni (toccherebbe ad Abu Mazen
farlo) perché chi può farlo non vuole perdere. Ecco che si compie la somma
beffa per il popolo palestinese: i suoi diritti, calpestati da sessant'anni
inseguendo il sogno dell'indipendenza, verranno calpestati proprio da chi avrà
una bandiera a brandelli da presentargli come patria.
Duemila
città del mondo pregano per la pace in Terrasanta
Agenzia Fides - Gerusalemme - 28 gennaio 2011
Da Gerusalemme "deve essere lanciato il messaggio di speranza che la pace
è possibile e che Dio la realizzerà": duemila città del mondo pregano
per la pace in Terrasanta
Il
29 e 30 gennaio 2011 verrà celebrata la "Terza Giornata Internazionale di
Intercessione per la Pace in Terra Santa", iniziativa di preghiera nata
dalla volontà di alcune associazioni cattoliche giovanili che in questa terza
edizione prevedono il coinvolgimento di duemila città in tutto il mondo, che si
riuniranno contemporaneamente in preghiera. "Quest'iniziativa vuole
ricordare al mondo che il conflitto della Terra Santa deve essere inserito nel
contesto del disegno di Dio" ha scritto l'Arcivescovo Antonio Franco,
Nunzio apostolico in Israele e Delegato apostolico a Gerusalemme, nel messaggio
rivolto a tutti quelli che promuovono e partecipano a questa giornata di
intercessione. "La nostra preghiera, in questa occasione, vuole essere non
soltanto impetrazione a Dio, ma anche sostegno e accompagnamento allo sforzo
umano dei politici e dei diplomatici che tentano vie di soluzione" prosegue
il messaggio, che sottolinea come l'invito del salmista "Chiedete pace per
Gerusalemme" (Sal 122,6) "è più che mai di attualità".
"Gerusalemme, verso la quale sono rivolti gli occhi del mondo intero, è la
città nella quale è accaduto l'incredibile e l'impossibile. Da essa dunque
deve essere lanciato il messaggio di speranza che la pace è possibile e che Dio
la realizzerà" conclude Mons. Franco.
La
Terza Giornata Internazionale di Intercessione per la Pace in Terra Santa è
patrocinata dal Pontificio Consiglio Giustizia e Pace, e si colloca sulla scia
della recente Assemblea Speciale del Sinodo dei Vescovi per il Medio Oriente. Le
24 ore di preghiera ininterrotta inizieranno sabato 29 gennaio alle ore 17-18 di
Terra Santa, in concomitanza con la "Quinta Preghiera Straordinaria di
tutte le Chiese per la Riconciliazione, l'Unità e la Pace, cominciando da
Gerusalemme" coincidente a sua volta con la settimana di preghiera per
l'Unità dei Cristiani che si celebra a Gerusalemme. La Preghiera Straordinaria
di tutte le Chiese verrà diffusa in mondovisione. (SL)
Links:
Il
testo integrale del messaggio di Mons. Franco, in italiano
A sei mesi dal monsone 90 mila bambini soffrono ancora la fame
PeaceReporter
- 28 gennaio 2011
Lo
ha riferito l'Unicef che, in collaborazione con il governo federale del Sindh,
è impegnata a fronteggiare il problema
Dopo
sei mesi dalle inondazioni che hanno devastato il Pakistan, quasi un quarto dei
bambini della provincia del Sindh è vittima della malnutrizione. Lo riferisce
l'Unicef, secondo cui le stime del governo del Sindh parlano di circa 90 mila
bambini, tra i 6 mesi e i tre anni, che versano in difficili condizioni di
alimentazione.
In
un comunicato, l'agenzia Onu ha espresso il suo sconcerto e ha riferito della
sua collaborazione con il governo provinciale e federale al fine di arginare il
problema. Il monsone che ha colpito nel luglio e agosto scorsi il Pakistan ha
coinvolto 20 milioni di persone, distrutto 1.7 milioni di abitazioni e
danneggiato 5.4 milioni di acri di terra coltivabile.
"Per
la ricostruzione post-alluvioni ci vorranno anni, e per i cristiani è tutto più
difficile"
dice
il Direttore per l'Asia di Caritas Internationalis
Agenzia Fides - Islamabad - 29 gennaio 2011
"La
situazione è ancora molto grave per migliaia di famiglie. Per la ricostruzione
ci vorranno anni. I cristiani e le altre minoranze religiose sono i cittadini
che affrontano le maggiori difficoltà per accedere ai fondi": lo dichiara
all'Agenzia Fides p. Bonnie Mendes, sacerdote pakistano e Direttore del
Dipartimento Asia nella Caritas Internationalis, tracciando un bilancio degli
interventi di solidarietà a sei mesi dalle forti alluvioni che hanno colpito il
Pakistan.
Il
Direttore dice a Fides: "Siamo tuttora in piena emergenza. Oltre 170mila
rifugiati soggiornano ancora nei campi profughi e alcune aree sono ancora
coperte dalle acque. Su coloro che sono tornati a casa incombono miseria e
malattie; c'è bisogno di assistenza per garantire il sostentamento quotidiano
perché le case e le coltivazioni sono distrutte. Urge ricostruire le case dei
singoli cittadini e il governo ha scelto la strada di dare un contributo in
denaro". Molti osservatori, però, hanno segnalato il grave problema della
corruzione, che affligge la macchina statale e che "spesso blocca il flusso
e lo stanziamento di aiuti ai profughi". Inoltre "per i cristiani e le
altre minoranze religiose, diventa ancor più difficile accedere ai fondi per la
ricostruzione".
Il
processo di ricostruzione è solo agli inizi, nota p. Mendes: "I programmi
della Caritas locale - in collaborazione con la Caritas Internationalis - hanno
portato aiuti per oltre 20 milioni di dollari, concentrandosi su tre aree:
allestimento di tendopoli, assistenza sanitaria e sostentamento. In oltre 130
comunità, la Caritas ha realizzato progetti per ricostruire infrastrutture come
strade e canali per l'irrigazione".
Stanno
offrendo un valido contributo, rimarca il sacerdote, anche progetti promossi da
ordini religiosi come gesuiti, francescani, missionari di S. Colombano,
salesiani, fratelli di La Salle, che si sono attivati per aiutare cristiani e
musulmani, accanto a singoli e Ong di ispirazione cristiana.
Le
Nazioni Unite hanno ribadito che "a sei mesi dalla crisi, la situazione è
tutt'altro che risolta" mentre un rapporto di Oxfam, Ong di carattere
internazionale che assiste oltre 1,9 milioni di persone in Pakistan, afferma che
attualmente, date le basse temperature, vi sono oltre 200mila casi di infezioni
polmonari fra i profughi.
Le
alluvioni sono iniziate nell'agosto 2010 e hanno interessato le province di
Khyber Pakhtunkhwa, Sindh, Punjab e Balochistan, con gravi conseguenze sulla
vita di oltre 20 milioni di persone. Per l'emergenza e la ricostruzione, l'Onu
ha lanciato un appello ai donatori per raccogliere circa 2 miliardi di dollari,
ma ne sono stati raccolti solo 1,2 miliardi, il 56%. (PA)
Pakistan,
dopo le inondazioni due milioni di bimbi denutriti di Stefano Vecchia
Avvenire - 30 gennaio 2011
In
170mila ancora nelle tendopoli a sei mesi dal dramma
A
sei mesi dalle disastrose alluvioni che hanno messo in ginocchio il Pakistan,
una parte consistente della popolazione vive ancora nella miseria e
nell'incertezza, minacciata dalle malattie e dalla fame. Sono stati 15-20
milioni i pachistani colpiti dalle piogge torrenziali che hanno provocato lo
straripamento dei maggiori corsi d'acqua del Paese. Dei 10 milioni senzatetto,
almeno 500mila sono ancora ben lontani da un ritorno alla vita precedente e di
questi 170mila vivono nei campi profughi allestiti, in particolare, nelle
province del Punjab e del Sindh. Proprio in questa provincia meridionale,
attraversata dal corso inferiore del fiume Indo, si registrano ancora i disagi
maggiori. Qui, avverte l'Unicef, almeno due milioni di bambini sono malnutriti e
tra loro c'è un alto numero di morti per malattie respiratorie, intestinali,
malaria, epatite o semplice assideramento. La Caritas pachistana, impegnata da
subito per cercare di alleviare i disagi degli alluvionati, conferma che le
disastrose condizioni igieniche, la denutrizione e la negligenza delle autorità
stanno trasformando i campi dei rifugiati in luoghi di degrado e morte.
Quello che è stato definito dal Segretario generale dell'Olu Ban Ki-moon,
"un lento tsunami" rischia di restare per lungo tempo nella memoria
dei pachistani e non solo per le dimensioni dell'evento, ma anche per le sue
conseguenze. La perdita di vite umane è stata relativamente modesta (i morti
sono stati ufficialmente 1.750) ma la le devastazioni sono state senza paragoni.
Ad aggravarle, hanno contribuito anche i soccorsi, tardivi e insufficienti.
Secondo
il recente rapporto dell'Organizzazione mondiale delle migrazioni (Iom), nella
provincia del Punjab il numero dei senzatetto è doppio rispetto a quello
provocato dal terremoto di Haiti dello scorso anno. Nel solo distretto di Dadu,
nel Sindh, le abitazioni distrutte sono state più dei quelle demolite dallo
tsunami del 2004 nella provincia indonesiana di Aceh, l'area più colpita.
Un disastro con pochi confronti, a cui la comunità internazionale ha risposto
con insolita lentezza. Solo 1,1 miliardi di dollari dei quasi due miliardi
chiesti dalle Nazioni Unite sono stati resi disponibili. Allo stesso modo,
sottolinea l'Iom, il network di agenzie da essa coordinato ha raccolto solo 126
milioni di dollari, il 39 per cento dei 322 milioni stimati necessari. "La
situazione è ancora molto grave per migliaia di famiglie. Per la ricostruzione
ci vorranno anni", ha dichiarato ieri all'Agenzia Fides padre Bonnie
Mendes, Direttore del Dipartimento Asia della Caritas Internationalis.
Tracciando un bilancio degli interventi di solidarietà a sei mesi dalle forti
alluvioni, padre Mendes, lui stesso pachistano, ha sottolineato che i programmi
della Caritas hanno portato aiuti per oltre 20 milioni di dollari.
Gli interventi si sono concentrati su tre aree: allestimento di tendopoli,
assistenza sanitaria e sostentamento. In oltre 130 comunità, la Caritas ha
realizzato progetti per ricostruire infrastrutture come strade e canali per
l'irrigazione. Il processo di ricostruzione è solo all'inizio, tuttavia.
"C'è bisogno di assistenza per garantire il sostentamento quotidiano perché
le case e le coltivazioni sono distrutte - ha ricordato il Direttore Caritas -.
Urge anche ricostruire le abitazioni e il governo ha scelto la strada di dare un
contributo in denaro alle famiglie". La corruzione che affligge la macchina
statale e che "spesso blocca il flusso e lo stanziamento di aiuti ai
profughi " è in sé un grave problema ma, ha ricordato padre Mendes,
"per i cristiani e le altre minoranze religiose, è ancor più difficile
accedere ai fondi della ricostruzione".
Donne, vecchi e bambini, la lista dei desaparecidos
di Lucio Luca
Repubblica - 28 gennaio 2011
Un documento tenuto a lungo segreto rivela la sorte di centinaia di persone scomparse dal 1958 al 1992 nel Sahara Occidentale. E si scopre che in carcere sono morti anche adolescenti e neonati. Dure critiche dalla comunità internazionale al governo marocchino
La lista è spuntata a sorpresa, forse per errore, su un sito vicino al governo di Rabat: quello del Royal Advisory Council for Human Rights (CCDH), una istituzione creata per scoprire le violazioni dei diritti umani e promuovere la riconciliazione nazionale. Un elenco dettagliato, terribile, tenuto nascosto per decenni e destinato, probabilmente, a restare segreto per sempre. Perché contiene nomi e storie dei desaparecidos saharawi, 352 persone arrestate e sparite nel nulla dal 1958 al 1992, combattenti del "popolo del deserto" che lottavano per l'autodeterminazione e la sopravvivenza stessa di una comunità che vive in condizioni drammatiche. "Il
documento della vergogna", lo definisce il giornalista Malainin Lakhlal, in
questi giorni in Italia grazie a un programma di aiuti umanitari portato avanti
dal Cisp (Comitato internazionale per lo sviluppo dei popoli), la regione Emilia
Romagna, il Comune e il Polo didattico scientifico di Forlì. |
Sono
un migliaio i nomi riportati nella lista, 352 dei quali, come detto, saharawi. E
decine sono anche le storie di vecchi, donne e bambini di cui non si sa niente
ormai da più di trent'anni. Bambini, sì. Anche loro. Adolescenti, ma anche
neonati portati via insieme alle madri e morti nelle carceri lager di Agdez e
Kalaat Magouna: "Due penitenziari dell'orrore", li definisce Lakhlal,
segretario dell'Unione Periodistas y Escritores Sahrawi (Upes).
Nelle
carte si parla di 115 bambini finiti in carcere, 14 dei quali morti dietro le
sbarre. C'è Aziza Brahim Sid, catturata con la madre nel 1976 - un
anno dopo la "gloriosa" Marcia verde dell'esercito di re Hassan II
- Era appena nata, non riuscì a resistere al freddo e morì di stenti ad
appena tre o quattro mesi. Reguia Zahou, invece, aveva 13 anni quando i militari
assaltarono il villaggio nel quale viveva insieme al fratello Mohamed e alla
sorella Safia. Dopo sette mesi le sue condizioni di salute si aggravarono, con
ogni probabilità anche lei morì in carcere. E anche di Mohamed e Safia da quel
giorno non si è saputo più niente.
El
Walid Belgadi Mahfoud aveva soltanto due anni nel 1977, quando fu portato in
carcere insieme a tutta la sua famiglia. Rimase in una cella buia della base
militare di Smara. Qualche tempo dopo la madre venne rilasciata, ma il bambino
era già deceduto da mesi. E poi Mustapha, Abderrahman, Mohamed, Horma, Taleb,
Brahim, Bachir: nomi diversi, storie tutte tremendamente simili. Piccoli rubati
all'adolescenza e morti dietro le sbarre senza aver mai capito il perché.
Nella
lista i nomi di almeno undici donne, tredici giustiziati dalla Corte marziale
subito dopo la "Marcia verde" e centinaia di desaparecidos per i
quali, da anni, le ong di tutto il mondo chiedono giustizia. In particolare, dal
1961 (il Sahara Occidentale era ancora sotto il controllo spagnolo) al 1992,
furono almeno 191 i morti in carcere. Ma c'è anche un lungo elenco di numeri,
freddi e impietosi, dei caduti in battaglia, dei deportati, di chi ha resistito
per qualche giorno in ospedale dopo i combattimenti ma poi ha cessato di vivere.
L'associazione
Rights Monitoring 1 ha chiesto e ottenuto la traduzione del report che sarebbe
dovuto rimanere nascosto al grande pubblico. Adesso, però, l'elenco è finito
in rete: "Nel corso degli anni - si legge - il
Marocco è stato accusato di un uso sistematico di detenzioni extragiudiziarie e
uccisioni, specialmente contro chi si è opposto all'occupazione del Sahara
Occidentale. Questo è stato negato categoricamente da autorità marocchine. Fin
dagli anni Novanta - rileva il Royal Advisory Council for Human
Rights - i diritti umani sono stati gradualmente rispettati. Ma in
particolare nel Sahara Occidentale, gli abusi rimangono la norma".
"Il
documento è tradotto in inglese, ma presto sarà disponibile anche in altre
lingue - spiega Malainin Lakhlal - perché vogliamo che
tutto il mondo sia messo a conoscenza di questi crimini. Nella speranza che
l'Occidente, questa volta, decida davvero di intervenire a favore di un popolo
che chiede solo di non essere colonizzato"
Puntland, venti di secessione
di Alberto Tundo
PeaceReporter
- 27 gennaio 2011
Milizie
private, esplorazioni petrolifere e dichiarazioni di fuoco contro il governo
somalo. Lo staterello semiautonomo ormai guarda altrove
La
parola tabou è "secessione" e persino chi starebbe per proclamarla,
la nega. "Il Puntland non ha nessuna intenzione di secedere dalla
Somalia", dice il ministro per la Pianificazione e la Cooperazione
internazionale, Omar Mohammed Daoud. Però i fatti raccontano un'altra storia e
dicono che la distanza tra Mogadiscio e lo staterello, semiautonomo dal 1998, è
ormai quasi incolmabile. L'ultimo atto risale al 22 gennaio, quando il
viceministro degli Interni, Yusuf Ali Gaab, annuncia che il Consiglio dei
ministri del Puntland ha votato un divieto di ingresso per i funzionari e i
rappresentanti del Governo federale di transizione somalo (Gft): "Abbiamo
informato tutti i dipartimenti governativi, aereoporti compresi, che i membri e
rappresentanti del Gft non possono mettere piedi nel Puntland". Pochi
giorni prima, da Garowe, la capitale della regione, erano arrivati altri due
schiaffi: il Primo ministro Abdirahman Mohammed Farole aveva inferto un primo
colpo al traballante esecutivo di Mogadiscio, sostenendo che il Gft "non
rappresenta il Puntland in nessun forum internazionale", ed aggiungendo che
le Nazioni Unite avrebbero dovuto "rivedere l'appoggio concessogli a spese
degli interessi del popolo della Somalia". Un colpo più duro lo ha
assestato il ministro delle Attività ittiche, Mohammed Farah Aden, lanciando un
avvertimento alla comunità internazionale che da anni investe milioni di
dollari nel tentativo di portare un minimo d'ordine nel pantano somalo e
toccando un argomento al quale a Washington sono molto sensibili: "Più di
12 mila soldati del Gft sono stati addestrati in Uganda e Gibuti grazie al
sostegno internazionale; la domanda è: dove sono adesso? Stanno difendendo
Mogadiscio? No, perché in gran parte si sono uniti agli insorgenti".
Ovvero alle milizie filoqaediste di al Shabaab.
L'accusa
principale che dal Puntland muovono alla Somalia è quella di non aver
realizzato nei fatti quel federalismo che pure è un punto centrale nel
documento di costituzione del Governo federale di transizione e di aver quasi
emarginato lo stato semiautonomo nei colloqui di pace di Gibuti del 2008/2009,
che portò alla formazione del medesimo. Se la delusione politica è reale, ci
sono coincidenze che colpiscono. Ad esempio, proprio negli ultimi giorni il
governo del Puntland ha concesso un proroga della licenza per condurre
esplorazioni petrolifere alla Africa Oil Corp, in una joint venture con Range
Reosurces Ltd e Lion Energy. Due le aree, la valle di Dhoor e quella di Nugaal,
in cui condurrà le sue operazioni la società canadese, che sta scavando già
in Etiopia e in Kenya. "L'area intorno alla faglia dell'Africa orientale è
il più grande giacimento inesplorato", dicono dal quartier generale del
gruppo a Vancouver. Il presidente Keith Hill si è spinto a ipotizzare che il
Puntland abbia giacimenti pari a quelli dello Yemen, oltre sei miliardi di
barili. Queste risorse potrebbero spiegare l'ulteriore allontanamento dalla
Somalia ma anche la notizia, confermata, secondo la quale una compagnia privata,
la Saracen Int. starebbe addestrando una milizia professionale di mille uomini
nel Puntland: che serva davvero nella lotta alla pirateria, non ci crede quasi
nessuno; è molto più verosimile che l'investimento sulla sicurezza segua una
necessità di stabilizzazione di un'area in cui, a breve, verranno condotte
operazioni molto delicate e nella quale sono in gioco affari miliardari.
Anche
gli Stati Uniti negli ultimi mesi hanno modificato la loro politica nei
confronti della Somalia, varando una strategia "dual track", del
doppio bianrio, continuando cioè a interloquire con il Gft ma riconoscendo a
entità quali Somaliland e Puntland una personalità giuridica ancor più
delineata e autonoma, rafforzando la presenza di diplomatici e consiglieri in
quelle aeree, mossa che in genere prelude ad una prossima secessione, come
dimostra il caso del Sud Sudan. Considerando che parallelamente a Washington
starebbe cambiando anche la strategia nei confronti di al Shabaab, con
l'obiettivo di ripulirla dagli elementi stranieri e più radicali e trasformarla
nella colonna portante di un futuro esercito somalo, viene da pensare che
qualcuno negli Stati Uniti, ma non solo, si stia preparando alla nascita di una
Somalia ridimensionata da un punto di vista territoriale, separata da un nord
che è l'area più stabile ma anche più interessante, con grandi ricchezze
minerarie e di idrocarburi, e il controllo strategico della punta del Corno,
fondamentale nella lotta alla pirateria. D'altronde, il Puntlkand dal 2009 ha un
suo inno e una sua bandiera. Ma la sua stabilità non andrebbe sovrastimata. Il
governo è sfidato da una milizia islamica che è ritenuta alleata di al
Shabaab, che infesta la regione dei monti Galgala. Spira aria di ribellione
nell'area di Cayn in cui sta nascendo un'amministrazione autonoma e lo scontento
è molto forte anche nel distretto di Mudug. Qui, martedì sera è stato
assassinato il procuratore Abdikadir Jama "Nugal": è stato freddato
all'uscita della moschea da tre uomini armati. Si tratta dell'ennesimo omicidio
politico, il primo però di alto profilo negli ultimi mesi. E infine c'è il
conflitto strisciante col Somaliland, altra macroregione dichiaratasi
indipendente dalla Somalia nel 1991, che avanza rivendicazioni territoriali
sulle aree di Cayn, Sool e Sanaag. Forse, i mille uomini addestrati dalla
Saracen servono anche a questo.
Migranti
in fuga, nuovo dramma in mare
Misna
- 28 gennaio 2011
Un
numero imprecisato di migranti in fuga dalla Somalia, forse decine, sarebbero
morti nelle ultime 24 ore nella traversata marittima che li conduceva verso lo
Yemen. Lo riferisce oggi l'emittente somala 'Radio Shabelle', citando come fonte
Abdulkadir Mohammed Ali, rifugiato somalo in Yemen. Ali ha precisato che le
imbarcazioni erano salpate dalle coste settentrionali del Puntland, regione
semi-autonoma della Somalia, e dalle coste di Gibuti. Alcuni migranti sarebbero
sopravvissuti, riuscendo a raggiungere le coste yemeniti. Ai primi di gennaio,
almeno 43 migranti africani erano morti nella pericolosa traversata del Golfo di
Aden. In fuga dalle loro terre, teatro di conflitti, povertà e repressione,
molti cittadini del Corno d'Africa tentano il viaggio della speranza verso lo
Yemen, porta d'ingresso verso i paesi del Golfo o verso l'Occidente. Di recente,
l'Organizzazione mondiale per le migrazioni (Oim) ha osservato alcuni cambi di
rotta da parte dei migranti, che sempre più numerosi vanno a imbarcare a
Gibuti. [CC]
Più di uno "stupro correttivo" al giorno
Unimondo
- 30 Gennaio 2011
Il
Sud Africa, la nazione vetrina dei primi mondiali di calcio nella storia
dell’Africa, rispettato in tutto il mondo per il suo impegno post apartheid e
contro le discriminazioni è in queste settimane alle prese con la storia di
Millicent Gaika: legata, strangolata, torturata e stuprata per cinque ore di
seguito da un uomo che sosteneva di "curarla" dalla sua omosessualità.
Nonostante la patria di Madiba sia stato il primo paese ad aver dichiarato
fuorilegge nella sua Costituzione la discriminazione su base sessuale, solo a
Città del Capo l'organizzazione locale Luleki Sizwe ha registrato più di uno
"stupro correttivo" al giorno, e l'impunità su questa vile pratica
regna ancora sovrana.
Lo
“stupro correttivo”, l'orrenda pratica di stupro delle lesbiche nel
tentativo di “curare” la loro omosessualità, sta drammaticamente riportando
il Sud Africa, dopo la vetrina dei mondiali di calcio, all’attenzione delle
cronache internazionali. A provare a far conoscere una delle tante storie di
questo crimine è il network Avaaz che in queste settimane ha lanciato una
campagna, sostenuta da una raccolta di firme internazionale partendo dal
drammatico caso di Millicent Gaika: legata, strangolata, torturata e stuprata
per cinque ore di seguito da un uomo che sosteneva di “curarla” dalla sua
omosessualità.
Il
caso avvenuto lo scorso anno non è passato però sotto silenzio grazie al blog
di alcuni coraggiosi attivisti sudafricani, che hanno rischiato la loro vita per
far sì che il caso di Millicent possa essere miccia di un cambiamento. Il loro
appello al Ministro della giustizia sudafricano è così esploso a livello
internazionale e amplificato da Change.org, ha costretto il governo a difendersi
in tv e a far parlare del caso, “uno dei tanti del nuovo Sud Africa”, come
denunciato da anni anche da Action Aid.
Millicent
è sopravvissuta per miracolo, ma non è l'unica visto che per il People Opposed
to Women Abuse (.pdf) “una ragazza che nasce in Sud Africa oggi ha più
possibilità di essere stuprata che d'imparare a leggere [...] e un quarto delle
ragazze in Sud Africa è stuprato ancor prima di compiere 16 anni”.
Solo
a Città del Capo la piccola organizzazione locale Luleki Sizwe ha registrato più
di uno "stupro correttivo" al giorno. “I crimini contro
l’orientamento sessuale non sono riconosciuti dal diritto del nostro paese -
spiega la direttrice di Luleki Sizwe Ndumie Funda - soli negli ultimi 10 anni 31
donne lesbiche sono state uccise a causa del loro orientamento sessuale, più di
10 lesbiche in settimana sono violentate nella sola Città del Capo, mentre 150
donne sono violentate ogni giorno in tutto il Sud Africa”. E cosa succede?
“Poco o niente, visto che su 25 uomini accusati di stupro 24 sono liberi”
conclude Funda.
Lo
stupro correttivo perpetrato talvolta anche da membri della famiglia o amici
della vittima si basa su un'opinione falsa e oltraggiosa per cui una donna
lesbica se stuprata può diventare eterosessuale quasi fosse curata da un virus
o una malattia. “Tuttavia - si legge sul blog di Luleki Sizwe - questo crimine
efferato non è neppure classificato come crimine d'odio in Sud Africa”. Le
vittime sono spesso di colore, povere, lesbiche ed emarginate, ma neppure lo
stupro e l'omicidio di Eudy Simelane nel 2008, l'eroina nazionale e campionessa
della squadra di calcio femminile del Sud Africa, ha cambiato la situazione.
Una
battaglia culturale quindi, oltre che contro la povertà e l'omofobia, che
richiede azioni decise e concertate per un processo di cambiamento d'avanguardia
in Sud Africa e in tutto il continente. “ll Presidente Zuma è un
tradizionalista Zulu, e lui stesso è stato processato per stupro - ricorda
Avaaz - Ma lo scorso anno ha condannato l'arresto di una coppia gay in Malawi e
dopo una pressione a livello nazionale e internazionale enorme, il Sud Africa ha
finalmente approvato la risoluzione ONU contro l'omicidio extra-giudiziale delle
persone in base al loro orientamento sessuale”.
“Se
oggi riusciremo ad amplificare e far crescere esponenzialmente questa campagna -
spiegano gli attivisti di Avaaz - potremo aiutare a mettere fine allo stupro
correttivo. Per questo chiediamo al Presidente Zuma e al Ministro della
giustizia di condannare pubblicamente lo stupro correttivo, penalizzare i
crimini d'odio e guidare un cambiamento radicale contro lo stupro e l'omofobia
per garantire l'educazione pubblica e la protezione delle vittime”.
Così
davanti a questa emergenza umana Luleki Sizwe e gli alleati nella campagna
internazionale di Change.org e Avaaz hanno aperto una piccola finestra di
speranza in questa battaglia che si fa largo anche tra il popolo del Sud Africa.
“Mandela ha detto la mia strada è lunga: lo dico anch'io - dichiara Funda
presidente di quella Luleki Sizwe che prende il nome dalla sua ex compagna
Nosizwe Nomsa Bizana e dalla sua amica Luleka Makiwane, stuprate dal branco e
poi morte l'una di meningite e l'altra di Aids - Mi batterò fino a che avrò
fiato in corpo”. Ad oggi Funda può contare anche quello dei 614 mila
firmatari. [A.G.]
Fondazione
Fontana
Sudan del Sud, prime sfide del futuro di Emanuela Stella
Repubblica
- 26 gennaio 2011
Pace,
lotta alla povertà, rebus petrolio. Grandi
speranze dopo il referendum sulla secessione dal Nord. Intanto si fanno i conti
con le emergenze storiche in un Paese dove tre adulti su quattro sono analfabeti
e si sopravvive con 60 centesimi di euro al giorno. I nodi da sciogliere sono la
"divisione" dei giacimenti e delle terre del Nilo
Un
paese che ancor prima di nascere sa già che andrà a ingrossare le file dei più
poveri del mondo, un paese dove la maggioranza della popolazione sopravvive con
meno di 60 centesimi di euro al giorno, dove più di tre adulti su quattro sono
analfabeti e dove, secondo Oxfam, per una ragazza adolescente è più probabile
morire di parto che aver finito le elementari. Il nuovo stato del Sudan del sud,
che scaturirà dal referendum sulla secessione del Sud cristiano e animista dal
Nord islamico (il 99 per cento degli elettori hanno votato sì, i risultati
definitivi sono attesi per metà febbraio), dovrà anche accollarsi la propria
quota di milioni di dollari di debito da spartire con il Nord.
Alcuni
osservatori temono che con la secessione il Sudan possa trasformarsi in un'altra
Somalia, preda della violenza tra fazioni, mentre le organizzazioni umanitarie
stanno predisponendo piani di emergenza in previsione di possibili carestie,
siccità, emergenze sanitarie. Ma c'è grande euforia tra la popolazione del Sud
per un referendum atteso dal 2005, data dell'accordo di pace che istituì la
regione autonoma del Sudan meridionale, e una gran voglia di lasciarsi alle
spalle decenni di combattimenti che hanno fatto due milioni e 200mila morti), di
povertà e di fame. "E' vero, siamo un paese sottosviluppato, ma ce la
faremo", ha detto al New York Times Gideon Gatpan Thoar, ministro per
l'informazione dello stato petrolifero di Unity, al confine tra nord e sud. E la
prossima estate - la proclamazione del nuovo stato è prevista per il 9 luglio -
il Sudan del nord potrebbe essere depennato dall'elenco degli "stati
canaglia" che Washington accusa di sostenere il terrorismo, se Khartum
rispetterà i risultati del referendum di autodeterminazione.
Secondo
le Nazioni Unite, rispetto al 2009, quando il sud fu teatro di feroci
combattimenti interetnici che causarono migliaia di morti (e che registrarono un
sospetto incremento della disponibilità di armamenti pesanti tecnologicamente
all'avanguardia), la situazione è migliorata: negli ultimi sei mesi le violenze
etniche sono quasi scomparse e si percepisce un'autentica volontà di
riconciliazione. Tutti gli occhi in questo momento sono puntati sul referendum
(si prevede che la secessione vincerà con il 99 per cento dei consensi), ma i
problemi irrisolti aspettano tutti al varco.
Sul
petrolio, ad esempio, Nord e Sud dovranno necessariamente arrivare a un accordo.
E' vero che il 75 per cento delle risorse è al sud, ma l'oleodotto che parte
dai campi petroliferi del sud arriva al nord, e andrà condiviso. Chiudere i
rubinetti lascerebbe nord e sud privi di una risorsa vitale che è alla base
della ripresa economica. C'è poi la questione della demarcazione del confine,
con l'incognita potenzialmente esplosiva della zona di Abyei, ricchissima di
petrolio, che i nomadi arabi attraversano liberamente per tradizione.
La
situazione di oggi è il lascito della colonizzazione inglese: furono gli
inglesi, negli anni Venti, a tracciare la linea che ha tenuto separato il nord
dal sud (un terzo del territorio complessivo) con l'obiettivo di contenere la
diffusione dell'Islam. Il Sudan, divenuto una sorta di ponte tra mondo arabo e
mondo africano, è stato teatro di guerre fratricide per quasi tutta la sua
storia post-coloniale, fin dall'indipendenza nel 1956. Il sud, più affine alle
popolazioni di Kenya, Uganda e altre nazioni sub-sahariane, si differenzia dal
nord arabo per lingua, cultura e religione.
Il
punto è se l'élite araba oggi vicina alla Libia di Gheddafi, che storicamente
ha governato il Sudan, sarà disposta a cedere potere e ricchezza, dopo che
decenni di sviluppo disuguale hanno fatto di Khartum una città con alberghi di
lusso e centri commerciali e del sud una terra di capanne, strade di terra
battuta e foreste. Senza contare, sottolinea Vincent Annoni, coordinatore
regionale del Cesvi per l'area Kenya, Sudan e Somalia, che la nascita di un
nuovo paese presuppone anche l'allargamento dell'accordo internazionale che
disciplina l'utilizzo delle acque del Nilo, che oggi è molto vantaggioso per
l'Egitto perché fu firmato al tempo degli inglesi, ma che gli altri paesi
vogliono rinegoziare. E il Sudan, dove c'è ingente terra disponibile per
l'agroalimentare, fa gola a molti: cinesi e arabi hanno ottenuto parecchie
concessioni per coltivare e portar via il prodotto, e anche questo (in una
situazione di scarsità delle risorse agricole mondiali e di cambiamento
climatico) rende la regione una nuova frontiera di scontro geopolitico.
Secondo
Mario Raffaelli, presidente della sezione italiana di AMREF, già
sottosegretario agli Affari esteri incaricato per l'Africa tra il 1983 e il
1989, perché il Sudan possa lasciarsi alle spalle decenni di conflitto è
fondamentale che l'attenzione e il sostegno della comunità internazionale non
vengano meno, una volta spenti i riflettori sul referendum. Le ferite della
guerra si riflettono negli indicatori sanitari del Paese, tra i peggiori del
mondo: il 48 per cento dei bambini sotto i cinque anni è malnutrito, solo uno
su quattro è vaccinato contro il morbillo, e soltanto il cinque per cento dei
parti è seguito da staff specialistico.
AMREF
sostiene l'Istituto nazionale di formazione sanitaria di Maridi, l'unica scuola
di formazione per assistenti medici e ostetriche comunitarie in tutto il Sudan
meridionale, e si è mobilitata per fare fronte al ritorno al sud degli sfollati
fuggiti al nord, ai quali è necessario fornire assistenza socio-sanitaria e un
alloggio. "Sull'onda dell'entusiasmo molti di loro hanno venduto tutto
quello che possedevano e si sono diretti a sud, portando con sé solo lo stretto
indispensabile. Una volta passata l'euforia del referendum, però, la loro
reintegrazione nelle aree rurali segnate dalla povertà non sarà facile".
Intanto
è di questi giorni la notizia dell'arresto a Khartum di uno tra i principali
attivisti dei diritti umani del paese, Mudawi Ibrahim Adam, fondatore e
presidente della Sudo (Sudan social development organization). Mudawi è stato
imprigionato e condannato a un anno di carcere in seguito alla revisione di una
precedente sentenza di assoluzione dall'accusa di malversazione mossa nei suoi
confronti dalla Commissione affari umanitari (Hac) di Khartum, l'ente sudanese
che coordina le attività delle ong.
Il
suo nuovo arresto è stato denunciato da Front Line, l'organizzazione
internazionale che tutela i difensori dei diritti umani. "Quello di Mudawi
è solo l'ultimo di una serie ormai troppo lunga di arresti che si stanno
consumando a Khartum, arresti di attivisti, giornalisti, professionisti -
denuncia Front Line. - Non che il regime di Omar Al Bashir sia mai stato
illuminato e liberale. Ma negli ultimi mesi la frequenza con cui finiscono in
carcere personaggi 'fastidiosi' è troppo alta. Per alcuni, i più ottimisti,
siamo di fronte ai colpi di coda del regime. Il referendum secessionista al sud
potrebbe creare più crepe di quel che si possa pensare alla stabilità del
nord.
Alba
sul Nilo. Nasce un nuovo Stato di Luciano Scalettari
Famiglia
Cristiana - 30 gennaio
A Juba, principale città del
Sudan meridionale, il 97,5 per cento dei voti sarebbe a
favore della secessione, secondo i dati della Commissione
elettorale che sta facendo lo spoglio delle schede del
referendum. Nel resto del Sud, i favorevoli alla separazione
supererebbero il 90 per cento. I dati (fin qui parziali) confermano le previsioni: la stragrande maggioranza degli abitanti del Sudan meridionale vuole l'indipendenza dal Nord. È, comunque, certo che il quorum richiesto per la validità della consultazione - il 60 per cento degli aventi diritto - è stato superato: ha votato oltre il 90 per cento. Se il risultato finale sarà questo (verrà ufficializzato il 14 febbraio) nel luglio 2011 nascerà il 54° Stato africano, il Sud Sudan. Da qui ad allora, però, ci sono sei mesi di transizione. E mille incognite. Il presidente sudanese, Al Bashir, ha ripetutamente dichiarato di volerne rispettare l'esito. E, dal canto suo, il presidente del Parlamento semiautonomo sudsudanese, Salva Kiir, parla di riconciliazione e di pace con il Nord. Da tutte le parti, insomma, si fa appello a una separazione pacifica e consensuale. Anche da parte della comunità internazionale. |
Ma le preoccupazioni sono tante.
La prima riguarda le zone contese: quella di Abyei - ricca di petrolio - che
dovrà a sua volta votare per scegliere se stare col Nord o col Sud; ma anche
quelle dei Monti Nuba e del Sud Kordofan, escluse dal referendum, che hanno
sempre appoggiato la ribellione sudsudanese e vogliono far parte del nuovo
Stato.
Il secondo timore è sulla capacità della nuova nazione di darsi una leadership
politica all'altezza. Il terzo riguarda la possibile esplosione di contrasti al
momento di tracciare con precisione i confini, dato che molti giacimenti di
greggio sono a cavallo dei due territori.
Infine, la quarta e più grave preoccupazione: il rischio di una crisi
umanitaria dovuta all'esodo di popolazione da Nord a Sud. Centinaia di migliaia
di sudisti torneranno nelle terre d'origine. Un esodo già iniziato: secondo
l'Alto commissariato Onu per i rifugiati, sono 120 mila le persone rientrate. Ne
sono attese molte di più: fra 180 e 350 mila. Il segretario generale dell'Onu,
Ban Ki-moon, nella sua recente visita a Juba, ha messo in guardia sulle
disastrose conseguenze umanitarie di un eventuale nuovo conflitto: «Circa 2,8
milioni di persone potrebbero trovarsi nella condizione di rifugiati», ha
detto.
Hanoi, 7 milioni di persone bevono acqua contaminata
AsiaNews
- Hanoi - 21 gennaio 2011
Le
acque contengono anche arsenico e manganese. Esperti: le sostanze sono contenute
nelle falde profonde e sono emerse per il continuo sfruttamento di pozzi
privati. Su 16,6 milioni di persone, oltre 11 milioni non accedono all'acqua
potabile pubblica.
Arsenico,
manganese, selenio, bario e altre sostanze tossiche sono state scoperte nei
pozzi e nelle acque potabili del delta del Fiume Rosso, usate anche da Hanoi.
Uno
studio pubblicato la scorsa settimana sul giornale Proceedings of the National
Academy of Sciences, indica che il 65% dei pozzi sono inquinati. Al punto che
sul giornale è suggerito al governo di trovare altre fonti idriche o di
migliorare gli impianti antiinquinamento.
Lo
studio ritiene che il continuo pompaggio di acqua dalle falde profonde, per
oltre un secolo, abbia attirato l'arsenico contenuto in profondità. Dal 2005 al
2007 sono stati esaminati 512 pozzi privati ed è emerso che l'arsenico avvelena
circa il 27% dei pozzi, circa un milione di persone usa acqua potabile con
concentrazioni della sostanza 5 volte maggiori del limite indicato
dall'Organizzazione Mondiale della Sanità.
Il
ricercatore Michael Berg, capo della ricerca svolta dall'Istituto Federale
Svizzero di Scienza Acquatica e Tecnologia, spiega che la situazione è
difficile anche perché "il manganese è presente dove non c'è arsenico, e
viceversa. Questo rende più difficile capire quali pozzi sono davvero
sani".
L'area
del Delta del Fiume Rosso è tra le più popolate al mondo, con circa 1.160
persone per chilometro quadrato. Nella zona vivono 16,6 milioni di persone e
circa 11 milioni non hanno acqua potabile pubblica, ma dipendono da altre fonti,
come pozzi privati. Almeno 7 milioni di persone sono a rischio di avvelenamento
per l'arsenico. Il manganese inquina circa il 44% dei pozzi e colpisce
l'acqua potabile di 5 milioni di persone.
L'arsenico
può causare vomito, malori addominali, dissenteria con sangue ed è collegato
con varie forme tumorali di pelle, reni, polmoni. L'acqua con oltre 10
microgrammi di arsenico per litro è considerata insalubre, ma la sostanza è
diffusa nelle acque di molti Paesi, tra cui Cina, India, Thailandia e
Bangladesh, ma persino negli Stati Uniti. Da tempo gli esperti temono che la
falda profonda di molti Paesi del sudest asiatico contenga alte quantità di
arsenico.