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Anno XI N° 477 13/7/11 |
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Padre Vismara, il missionario di tutti
di Gerolamo Fazzini
Famiglia
Cristiana - 22 giugno 2011
Non
si è mai vista una mobilitazione popolare come per padre Vismara, non solo da
parte dei cattolici, ma dei non cristiani animisti, buddhisti, indù, musulmani.
Una vita per i giovani
È
sorprendente come padre Vismara, un missionario consegnato agli annali come un
vecchio nonno dal barbone bianco, riesca a interpellare ancora oggi i giovani, a
dispetto di quanto trasmetta la sua "icona". Che di Vismara parlino
con fervore missionari che oggi hanno 70-80 anni ed erano già adulti quando
padre Clemente morì nel 1988 non fa certo notizia. Ma che per lui spendano
parole di entusiasmo giovani di trent'anni è tutt'altro che scontato.
Padre
Piero Masolo, responsabile del settore animazione missionaria del Centro Pime di
Milano, classe 1978, entrato nel Seminario del Pime dopo studi di Architettura,
è rimasto affascinato dalla figura di Vismara in una fase molto delicata di
discernimento. "Nel 1999 sono stato in India da padre Augusto Colombo. Lì
è nata una domanda dentro di me: la vita dei missionari non potrebbe essere la
mia? Ho risposto di sì. Ho cominciato a leggere dei libri, tra cui le lettere
di padre Clemente. Ero colpito da questo personaggio, dal suo senso
dell'avventura, il fatto che fosse una persona felice, con una grande passione
per la missione e per gli altri, uno straordinario senso dell'ironia e un grande
scrittore. Un brano mi è rimasto nel cuore: "Invecchio senza accorgermi e
di certo morrò senza rimorsi, ché uomo allegro il Ciel l'aiuta". Leggere
il libro giusto nel momento del discernimento ti cambia la vita. Così è stato
per me. Padre Clemente ha avuto un ruolo importante perché decidessi di entrare
nel Pime. E sono contento. Come lui!".
Padre
Piero ha trasmesso la sua passione per Vismara a tutto lo staff dell'animazione
missionaria Pime di Milano e, sotto il nome di "Vismara game", sono
nate una serie di proposte ad hoc per gli oratori estivi, presso le sedi Pime di
Milano, Sotto il Monte Giovanni XXIII (BG), Busto Arsizio (VA), con laboratori e
attività legati ai valori e alla testimonianza missionaria di p. Clemente. La
rivista per ragazzi (la prima e unica, in Italia, dedicata a mondialità e
inter-cultura) dedica nell'ultimo numero ben 36 pagine con testi e fumetti alla
vita di padre Clemente, proponendo testimonianze dal Myanmar e dall'Italia.
Padre
Claudio Corti, lecchese di origine, 44 anni, missionario nel nord della
Thailandia, racconta: "Padre Vismara è stata un'ispirazione per tutti noi
giovani seminaristi a Sotto il Monte. Si parlava e fantasticava spesso di lui e
delle sue bellissime lettere. Agli inizi degli anni Ottanta, ricordo di aver
"fatto a gara" con un mio futuro confratello, Fabrizio Calegari, per
avere per primo il libro delle lettere di padre Vismara allora appena
pubblicato. In seminario si parlava spesso di lui, proposto come esempio di
missionario "eroico" che, pur essendo anziano e poi ammalato, si dava
costantemente da fare per aiutare gli altri, specialmente i bambini".
Padre
Claudio avrebbe voluto poterlo incontrare in Birmania. A quei tempi, però, il
Paese era ancora completamente chiuso e non si poteva visitare. "Arrivato
in Thailandia - aggiunge - una delle prime cose che ho cercato di fare è stata
cercare di raggiungere la missione dove padre Vismara era vissuto. Per ora sono
stato diverse volte solo nella sua prima missione a Monglin, non ancora sulla
tomba a Mongping, perché in quell'area gli stranieri non ci possono
andare".
Già
oggi, però, padre Claudio ha a che fare con l'eredità vivente di Vismara.
"Nella missione di Fang - dice - c'è un villaggio di cattolici shan che
sono stati tutti battezzati da padre Vismara. Lo ricordano con nostalgia e
affetto e hanno deciso di costruire loro chiesetta e di intitolarla a San
Clemente Papa , in attesa della beatificazione di padre Vismara! Anche diversi
miei cattolici akha sono stati battezzati da lui in Birmania. In vista della
beatificazione ho preparato un'immaginetta con la sua storia in lingua thai,
lahu e akha, così che anche la gente che lo ha conosciuto qui lo possa
ricordare e pregare".
Naturalmente
nella città natale di padre Vismara è festa grande per la beatificazione.
Eppure non era scontato che anche i giovani si entusiasmassero all'idea di
festeggiare il "vecchio" (ma solo all'apparenza!) padre Clemente.
Conferma don Stefano Guidi, giovane sacerdote che segue l'oratorio della Comunità
pastorale Casa di Betania che raduna le parrocchie di Agrate, Omate e Caponago:
"Abbiamo registrato notevole attenzione ed entusiasmo, non è stato
difficile coinvolgere i ragazzi e i giovani della Comunità nella conoscenza di
Padre Clemente. Un grande lavoro lo stanno facendo i giovani, con la
realizzazione di un Recital, che vedrà il debutto il prossimo 21 ottobre ad
Agrate. Ma abbiamo pensato anche ai ragazzi dei nostri oratori: in quaresima
hanno imparato a conoscere la vita di Padre Clemente, con l'aiuto del nostro
Gruppo missionario. Abbiamo poi pensato di coinvolgerli attraverso la creazione
di magliette e gadget, prodotti per l'occasione. Ma il "piatto forte"
della festa è proprio destinato ai nostri ragazzi: giovedì 30 giugno si terrà
ad Agrate un grande evento, il Vismara Day, un'intera giornata di animazione
missionaria, con la presenza straordinaria di animato del PIME, per seguire le
tracce del Beato Clemente. Il grande regalo ce lo farà il cardinale Tettamanzi,
che nel pomeriggio verrà a farci visita in oratorio, dopo aver visto la mostra
ufficiale su padre Vismara, anch'essa preparata dai giovani della Comunità in
collaborazione col PIME".
C'è,
insomma, un legame del tutto speciale, tra padre Vismara e i ragazzi. Lui che,
rimasto orfano, è diventato padre per migliaia di orfani, anche oggi sembra
continuare a manifestare, dal cielo, una speciale predilezione per i piccoli.
Padre Piero Gheddo, postulatore della Causa di padre Vismara fino al 2009 e
autore di libri su di lui (tra i quali "Il santo dei bambini"),
afferma di aver notizia di molte grazie ricevute per intercessione del
neo-beato, comprese più di una relative a sposi che attendono un figlio e lo
ottengono, proprio dopo aver pregato padre Clemente. Sarà un caso ma anche la
causa di beatificazione vede protagonista un giovane.
Ma
il missionario è un operatore sociale? di Piero Gheddo
MissiOnLine
- 18 giugno 2011
La
Thailandia è uno dei pochi paesi asiatici nei quali c'è libertà religiosa e
rispetto per le minoranze religiose. Il Pime vi lavora dal 1972 in due diocesi,
una parrocchia a Bangkok e tre missioni fra i tribali nella diocesi di Cheng
Mai, ai confini con la Birmania. Incontro a Milano padre Claudio Corti di Lecco,
in Thailandia dal 1998 e tornato in Italia per la beatificazione di padre
Clemente Vismara (26 giugno a Milano). Gli chiedo che impressione ha
dell'Italia. Risponde:
Corti
- La mia impressione è questa: che il missionario è presentato e ritenuto più
come operatoresociale che come evangelizzatore. Io sono partito perché mandato
dalla Chiesa a portare il Signore Gesù a quei popoli che ancora non lo
conoscono. L'immagine prevalente del missionario che appare oggi in Italia,
anche in ambienti cattolici, è quella di uno dei tanti operatori sociali, come
se la Chiesa in missione fosse una Ong che cura i malati, dà da mangiare agli
affamati, si preoccupa delle scuole e dell'assistenza sanitaria, ecc. Ho anche
l'impressione che i nostri cristiani hanno quasi timore di dire che noi siamo
cristiani.
Gheddo
- Da dove ricavi questa impressione?
Claudio
- Il 25 marzo scorso la prima missione di padre Clemente a Monglin in Birmania
è stata devastata da un forte terremoto che ha distrutto, tra l'altro, tre
chiese. Amici che si impegnano a raccogliere soldi per aiutare a ricostruire le
chiese dlstrutte mi dicono: "Ma non possiamo dirlo, diciamo semplicemente
che aiutiamo la ricostruzione". Ma come, in Italia abbiamo paura di
dire che ricostruiamo una chiesa? Che noi come cristiani italiani vogliamo
ricostruire le chiese? Secondo me questo è un linguaggio "politicamente
corretto" che faccio difficoltà a capire.
Gheddo
- In questi giorni ho letto sul giornale che a Roma i missionari e le suore
missionarie hanno fatto una manifestazione per l'acqua bene pubblico. Sui
giornali è apparso il titolo : "Missionari e suore manifestano per l'acqua
pubblica".Tu cosa dici?
Corti
- Queste cose possono dirle e manifestarle tutti. Ma facendo una manifestazione
di soli missionari e suore, diamo l'idea sbagliata del missionario. E'
certamente positivo e vero che il missionario va ad aiutare i poveri, istruire i
bambini e via dicendo. Ma non può mancare l'annunzio di Cristo e del Vangelo;
tutto il resto è fatto allo scopo di testimoniare la fede che porta alla carità.
Ho un po' timore che in Italia si ha quasi timore di dire la nostra fede, di
testimoniarla apertamente. Quasi che per dialogare si debba mettere tra
parentesi la fede e parlare solo di fatti e di opere sociali.
Gheddo
- Il movimento missionario italiano si è diviso negli anni settanta. Prima
eravamo molto uniti e negli anni 50 e 60 abbiamo fatto assieme molte cose utili
e belle: la Emi, la Fesmi, le visite dei missionari nei seminario diocesani, le
settimane di studi missionari, gli incontri per "una teologia
missionaria", la campagna contro la fame e Mani Tese, ecc. Poi il
sessantotto secolarizzato ci ha divisi e l'immagine del missionario a poco a
poco si è politicizzata, il missionario è quasi diventato un operatore
sociale: la sua immagine di evangelizzatore è decaduta. Ci lamentiamo che le
vocazioni missionarie sono crollate in Italia. Ma quale giovane o ragazza decide
di farsi missionario, se i missionari e le suore parlano di mondialità invece
che di missione, manifestano per l'acqua pubblica o contro la vendita delle
armi, invece di esprimere pubblicamente un appello ai giovani che vale la pena
di diventare missionari per portare Cristo, l'unica ricchezza che abbiamo, a
tutti i popoli?
Corti
- Noi in Thailandia, paese non cristiano dove i cattolici sono infima minoranza,
stiamo attenti alle culture e alle religioni, rispettosi, dialoganti, disposti
ad aiutare tutti per quel possiamo, ma nello stesso tempo siamo molto chiari
sulla nostra identità cristiana. Ad esempio, anche gli ostelli nei quali
educhiamo i ragazzi tribali, diciamo espressamente che sono centri di formazione
umana e cristiana, perché altrimenti siamo equiparati alle tante Ong che fanno
la stessa cosa in un modo laico, cioè indifferenti alla formazione religiosa.
Ad esempio i giapponesi finanziano ostelli per ragazzi poveri. Noi ci
distinguiamo perché dichiariamo apertamente che, educando i bambini poveri o
orfani, siamo lì per evangelizzare. I giapponesi hanno parecchie Ong che non
tanto mandano volontari, ma finanziano opere educative per i poveri.
Bisognerebbe poi vedere se i loro finanziamenti vanno a buon fine, ma certamente
i giapponesi aiutano l'educazione dei poveri. Anche noi vogliamo e
operiamo per questa finalità, ma mettiamo in risalto che siamo venuti in
Thailandia per portare il Vangelo, di cui tutti i popoli hanno bisogno.
Io, un missionario a Mompracem di Piero Gheddo
Avvenire - 22 giugno 2011
La
mia vocazione missionaria è nata per ispirazione del buon Dio e si è precisata
leggendo Operarii autem pauci del beato padre Paolo Manna e gli articoli
poetici e avventurosi di padre Clemente Vismara, missionario in Birmania che sarà
beatificato a Milano domenica prossima. Ma debbo dire che un influsso notevole
hanno esercitato su di me i romanzi di Emilio Salgari. Quand’ero ragazzo, si
leggeva molto anche perché non c’erano films né radio né tanto meno
televisione. I libri di Salgari e di Giulio Verne erano per me, come per tanti
altri, la lettura preferita; portavano con la fantasia in mondi lontani e
facevano sognare noi adolescenti, presentandoci popoli e paesi sconosciuti da
esplorare. Gli eroi di quel tempo erano appunto gli esploratori, gli
avventurieri, i personaggi (come Sandokan) che combattevano per la libertà e la
giustizia. In me, che vivevo un’intensa vita di preghiera ed ecclesiale,
quelle letture aprivano orizzonti sconfinati e – avendo fin da bambino
ricevuto da Dio il dono della vocazione sacerdotale – mi facevano sentire un
po’ ristretta e soffocante la routine del prete in parrocchia. Tutto
questo mi portò ad innamorarmi della vita missionaria e ad entrare nel Pime a
16 anni, nel settembre 1945. Nella mia vita missionaria ho poi avuto la ventura
di viaggiare in diversi Paesi e territori nei quali Salgari aveva
ambientato le sue avventure: Cartagena in Colombia (la prima città e diocesi
spagnola del Sud America, conservatasi intatta come nel ‘500) e le isole dei
Caraibi, descritti da Salgari nel «Ciclo dei corsari delle Antille»: ricordo Il
Corsaro nero, La regina dei Caraibi e Il figlio del Corsaro
rosso. Poi Mompracem e il Borneo, dove Salgari ambientò il «Ciclo dei
pirati della Malesia», di cui sono noti Le tigri di Mompracem, Sandokan
alla riscossa, I pirati della Malesia, La rivincita di Yanez e
tanti altri. Ancora: il Bengala della dea Kalì e le foreste del Sunderbund,
dove si svolgono le vicende avventurose de I misteri della giungla nera e
Il bramino dell’Assam.
Sunderbund appariva a noi ragazzi un termine oscuro e affascinante per
immaginare i «thugs» della dea Kalì e la tigre reale del Bengala; poi ho
saputo che nella lingua bengalese sunder è un legno da costruzioni molto
ricercato perché resiste all’umidità e non è intaccato dalle termiti, e bund
significa semplicemente foresta. Ma ormai la magia delle pagine di Salgari era
passata anche per me. Sono stato anche nel Far West americano (Sulle
frontiere del Far West), in Sudan e nel deserto del Sahara (Le avventure
del Mahdi). Strano a dirsi, ma proprio dove Salgari immaginava e ambientava
le sue avventure il mio istituto missionario, il Pontificio Istituto Missioni
Estere di Milano, è presente o lo è stato con i suoi missionari. Così nel
febbraio-marzo 2004 ho visitato la giovane Chiesa della Malesia peninsulare, del
Borneo malese e del Brunei; da un lato, invitato dal vescovo di Kota Kinabalu,
per esaminare la possibilità che il Pime ritorni a lavorare in Borneo, dove si
registrano molte conversioni fra i «dayak» delle foreste (anche questi citati
spesso da Salgari!) e vi è una drammatica scarsezza di sacerdoti e suore (un
sacerdote ogni 8000 battezzati); dall’altro per rivedere i luoghi in cui
l’Istituto ha lavorato un secolo e mezzo fa: Labuan, Brunei e Sabah. Infatti i
missionari del Pime sono andati in Borneo nel 1856, mandati dalla Santa Sede
perché in quei territori – indipendenti e sotto sultani indigeni – nessuna
struttura della Chiesa cattolica era presente e anche perché il fondatore e
capo della missione, lo spagnolo monsignor Carlos Cuarteron, voleva riscattare
gli schiavi cristiani rapiti dai pirati malesi sulle coste delle Filippine e
venduti in Borneo. La missione poi è terminata nel 1860, quando Propaganda Fide
ritenne più urgente mandare il Pime ad Hong Kong, anche per salvarlo dal
possibile sterminio della missione, che aveva subito parecchi assalti da parte
di gruppi fanatici musulmani e di pirati (il console inglese si era rifiutato di
aiutarli, per non mettersi contro i costumi e le autorità locali). È giunto
fino a noi una lunga lettera di padre Antonio Riva al prefetto apostolico
Cuarteron, nella quale il missionario descrive in modo particolareggiato e
drammatico l’assalto subìto il 20 novembre 1859 a Barambang (nel sultanato di
Brunei) da parte di un gruppo armato islamico.
Il centro della missione del Pime era proprio nell’isola di Labuan, dove ora
c’è una fiorente parrocchia. Ho visitato il piccolo cimitero con le tombe dei
primi cattolici, cippi antichi con iscrizioni che quasi nemmeno si leggono, ma
che i cristiani d’oggi tengono come un ricordo storico importante, per
dimostrare la presenza della fede fin dalla metà dell’Ottocento, molto prima
della colonizzazione inglese. Dalla spiaggia di Labuan Willie, con un motoscafo,
sono andato a Mompracem, che adesso si chiama Pulau Kuraman; è una piccola
isola (Labuan ha 92 kmq, Mompracem solo 7), ci sono strade e anche case moderne,
ristoranti e scuole, coltivazioni e soprattutto foreste. Ma sopravvivono le
antiche palafitte che ho visto nell’interno del Borneo fra i «dayak», con le
casette collegate l’una all’altra da passerelle o da una veranda unica che
scorre davanti alle singole abitazioni formando quasi un unico lungo cortile. In
uno spiazzo in foresta, al centro dell’isola, una stele di bronzo con una
lapide di marmo commemora Emilio Salgari e i «tigrotti della Malesia».
La lapide, scritta in inglese e in italiano, è stata portata da una nostra
missione culturale; alcuni turisti chiedono infatti di visitare l’isola per
conoscere l’ambiente di Sandokan, personaggio immaginario ma che in tutto il
Borneo è ancora ricordato (esiste tra l’altro la città di Sandakan, la
seconda dello Stato di Sabah, che conta il 30% di cattolici). Anche a Labuan
esiste ancora il palazzo del console inglese, la cui figlia («la ragazza dai
capelli biondi» di Salgari) aveva fatto innamorare Sandokan. E a Kuching,
capitale dello Stato di Sarawak sempre nel Borneo, si ammira il palazzo del
governatore mister Brooks: contro cui lottava Sandokan, precursore delle
guerriglie anti-coloniali.
Giornata Mondiale Del Rifugiato
Avvenire
- 20 giugno 2011
L'Onu:
nel mondo 43,7 milioni di persone costrette alla fuga
Sono
43,7 milioni le persone costrette alla fuga in tutto il mondo. Non sono state
mai così tante negli ultimi 15 anni. Di queste, i 4/5 sono accolti da Paesi in
via di sviluppo e ciò avviene in un periodo segnato da una crescente ostilità
nei confronti di rifugiati in molti Paesi industrializzati. È quanto indica il
rapporto statistico annuale dell'Alto Commissariato dell'Onu per i Rifugiati
(Unhcr) pubblicato oggi in concomitanza con la Giornata mondiale del rifugiato.
In
base ai dati del rapporto 'Global Trends 2010' Pakistan, Iran e Siria ospitano
il maggior numero di rifugiati, rispettivamente 1,9 milioni, 1,1, milione e un
milione. Il Pakistan, ad esempio, risente dell'impatto economico maggiore con
710 rifugiati per ogni dollaro pro capite. In termini di paragone, la Germania,
il paese industrializzato con la più alta popolazione di rifugiati (594 mila)
accoglie 17 persone costrette alla fuga dalle loro patrie per ogni dollaro pro
capite del pil.
Dei
43,7 milioni di persone costrette alla fuga, 15,4 milioni sono rifugiati, 27,5
milioni sono sfollati interni a causa di conflitti e circa 850 mila sono i
richiedenti asilo. È 'particolarmente angosciantè, infine, - secondo Unhcr -
il dato delle 15.500 domande di asilo presentato da minori non accompagnati o
separati, gran parte dei quali somali o afgani. E il rapporto - si precisa - non
prende in esame gli spostamenti forzati di popolazione nei primi 6 mesi del
2011, come quelli in Libia, Costa d'Avorio e Siria.
L'Alto
Commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati, Antonio Guterres, ha incontrato
a Roma il ministro dell'Interno Roberto Maroni. Nel corso del colloquio, spiega
il Viminale, che ha permesso di "approfondire lo stato della collaborazione
con il nostro Paese in materia di asilo", è stata ribadita la posizione
dell'Unhcr sulla "protezione delle persone in fuga dalla Libia, tesa a
promuovere una cooperazione sul piano regionale, con il coinvolgimento di tutta
la comunità internazionale, in modo da fornire supporto ai Paesi più
colpiti".
Guterres,
aggiunge il Viminale, ha confermato il "giudizio favorevole, già espresso
in altre occasioni, sul modello di accoglienza di immigrati e richiedenti asilo
messo in atto dall'Italia. In particolare, sono state rivolte parole di
apprezzamento nei confronti delle operazioni di salvataggio e soccorso in mare
effettuati dalla Guardia Costiera e dalla Guardia di Finanza italiane, nonchè
sulla gestione dell'accoglienza a Lampedusa e nei centri in cui i profughi sono
stati ospitati per le procedure di protezione".
Guterres,
aggiunge il Viminale, ha riaffermato l'impegno dell'Unhcr a "collaborare
con l'Italia e con l'UE per favorire l'attuazione di una concreta politica di
sostegno a quei governi dei Paesi dell'area mediterranea che si trovano
confrontati con il processo di transizione democratica".
Il
ministro Maroni, conclude il Viminale, ha infine "invitato l'Alto
Commissario Guterres a Milano per il
prossimo
settembre in occasione della Conferenza nazionale sul Mediterraneo che sarà
finalizzata ad approfondire, da un lato gli sviluppi della 'primavera arabà e
le sue ricadute sull'immigrazione, dall'altro le tematiche dell'accoglienza dei
rifugiati nel nostro Paese".
Umanesimo
cristiano in aiuto all'imprevista "primavera araba" di Bernardo
Cervellera
AsiaNews
- Venezia - 20 giugno 2011
Il
Comitato scientifico della rivista Oasis apre il dibattito sul presente e sul
futuro delle "rivoluzioni dei gelsomini". Vi sono segni di grande
novità: la battaglia contro la povertà, per la dignità umana, il rifiuto del
radicalismo islamico. Preoccupano le pressioni dei gruppi fondamentalisti e i
timori di Iran, Arabia saudita, Europa. Il patriarca Scola: È necessaria una
nuova "ragione economica" e un umanesimo cristiano che sostenga i
cambiamenti in atto.
In
poco meno di un anno il Medio oriente (compreso il mondo arabo del Nordafrica)
è cambiato in modo radicale, manifestando una nuova e "imprevista
primavera araba". Qual è il suo destino? Qual è il contributo che i
cristiani possono dare per stabilizzare tale cambiamento? Quali sono le
conseguenze per l'Europa che assiste impotente ed è solo preoccupata delle
ondate di nuovi profughi? Sono queste alcune delle domande che il Comitato
scientifico della rivista Oasis si sta ponendo in questi giorni del suo raduno
annuale a Venezia, sotto la presidenza del suo fondatore, il card. Angelo Scola.
L'incontro
si tiene da oggi fino al 22 giugno presso il Centro studi dell'Isola di S.
Servolo e vede la presenza di diverse autorità ecclesiali da Egitto, Tunisia,
Siria, Kuwait e Abu Dhabi, insieme ad accademici e studiosi da tutte le parti
del mondo. Tutti tentano di rispondere al tema del convegno: "Medio oriente
verso dove? Nuova laicità e imprevisto nordafricano".
Questa
mattina, dopo i saluti di rito del direttore di Oasis, Martino Diez, è stato
proprio il patriarca di Venezia a segnare le coordinate della problematica. Al
di là di una reattività "d'ottimismo e pessimismo" verso i
cambiamenti in corso, il card. Scola ha sottolineato che la primavera araba sta
mettendo in luce una "nuova laicità", che non pesca la sua forza in
modo diretto nella religione (islamica), ma nella ricerca di dignità umana,
umiliata dalla povertà e dalla mancanza di diritti. Allo stesso tempo, egli
mostra che questa rivoluzione è fragile e ha bisogno di solidificarsi e
irrobustirsi anzitutto dal punto di vista economico.
In
parallelo, egli ha tracciato il problema dal punto di vista europeo (la
"stanca, passiva, dissipata, divisa Europa") che si preoccupa solo del
flusso di profughi che arrivano sulle sue coste (poche migliaia) e non si
accorge che la Tunisia, molto più povera, ne sta accogliendo dieci volte di più.
Anche
l'Europa ha bisogno di ripensare alla sua economia e al sistema economico
globale, per venire incontro alle domande della "primavera araba".
La
risposta è una "nuova ragione economica" - come tratteggiata da
Benedetto XVI nella sua enciclica "Caritas in veritate" - che prenda a
cuore anche lo sviluppo dell'Africa, che non si accontenta della globalizzazione
delle merci e degli uomini (anche dei profughi), ma globalizzi il profitto e i
valori.
Per
questo, sia nel mondo arabo che nel mondo occidentale è necessaria la
testimonianza di un "umanesimo cristiano", che abbia come base la
dignità della persona umana (uomo "creato a immagine e somiglianza di
Dio" - v. Genesi 1,27; uomo "luogotenente di Dio sulla terra" -
v. Corano 2,30).
Gli
altri interventi della giornata hanno guardato in modo più analitico le diverse
situazioni: quella della Tunisia e della tentazione fondamentalista di
al-Nahdha, organizzazione radicale ritornata in auge dopo la caduta di Ben Ali,
è stata studiata dalla prof. Malika Zeghal, di Harvard. Il prof. Nikolaus
Lobkowitcz (università di Eichstaett), ha tentato un paragone fra la
rivoluzione dell'89 in Est Europa e quella araba attuale, mostrandone
soprattutto le differenze. Mons. Maroun Lahham, arcivescovo di Tunisi ha
manifestato il ruolo marginale che la Chiesa ha avuto nella primavera araba in
Tunisia, definendola però un esempio dei "semi del Regno" al di fuori
delle frontiere della Chiesa.
Fra
le diverse relazioni, si è distinta quella di Olivier Roy, professore
dell'università europea di Firenze. Per Roy la "primavera araba" è
un punto di non ritorno su cui egli è ottimista. Essa è giunta come una spinta
ai diritti dell'individuo (e non delle masse); ha messo in crisi l'islam
politico (nessuna similitudine con la rivoluzione khomeinista; né
rivendicazioni per i palestinesi; né proclamazione del Corano come "la
soluzione" dei problemi (v. Fratelli musulmani); sostiene la "dignità
personale", più che "l'onore" del gruppo.
La
religione è messa in secondo piano perché alla base vi è una scelta
molteplice dei giovani (veri attori della rivoluzione): vi è chi segue i sufi,
chi qualche maestro spirituale, chi lo yoga, chi lo zen...
Nonostante
ciò, la presenza di gruppi radicali fa essere timorosi sul suo futuro. Per ora
si può solo dire che nel futuro immediato vi saranno dibattiti molto forti su
alcune questioni di rapporto fra la religione e la politica: l'apostasia, la
blasfemia, ecc...
Un
fatto messo in luce da Roy è lo sbigottimento di molta parte dell'opinione
pubblica mondiale;m la paura di Iran e Arabia saudita; l'occidente timoroso per
la sua economia e per il flusso dei profughi; Israele che teme la
destabilizzazione del Medio oriente.
Secondo
Roy, la qualità della rivoluzione araba si misura non tanto sul termine
"laicità", ma sul posto che la religione può avere nel nuovo assetto
socio-politico. In ogni caso, i cambiamenti avvenuti sono sulla pista di
"valori universali" vicini alla "dignità dell'uomo" e al
"buon governo" della tradizione occidentale, anche se non coincidenti.
Da
parte sua, la professoressa Hoda Nehmé, decano di Filosofia all'università di
Kaslik (Libano), ha fatto notare con un certo pessimismo che nella storia del
mondo arabo e islamico vi sono state molte volte "rivoluzioni" e
tentativi di affermare la "laicità", ma purtroppo l'integralismo
religioso - talvolta aiutato dall'occidente - ha sempre avuto la meglio.
Il
deserto dell'Arabia saudita contro la primavera araba di Bernardo Cervellera
AsiaNews
- Venezia - 21 giugno 2011
A
Riyadh la "rivoluzione dei gelsomini" è stata soprattutto
"virtuale", espressa da blogger e petizioni. Ma è stata subito
soffocata, accusata di essere una "sedizione" contro Allah e una
manovra "iraniana". Alcuni manifestanti sono scomparsi nelle mani
della polizia. La richiesta di una costituzione "scritta da mani
d'uomo" considerata un'offesa al Corano ("non scritto da mani
d'uomo"). Ha avuto un peso anche l'appoggio incondizionato dei governi
occidentali ai Saud.
La
primavera araba, che sta trasformando il volto delle società in Africa del nord
e in Medio oriente ha la sua tomba: l'Arabia saudita. E questo non per motivi di
integralismo religioso, ma per la forza di un potere politico che
"sottomette" la religione al suo dominio. È un'immagine tutta
speciale del regno saudita quella che è emersa oggi al secondo giorno del
raduno del Comitato scientifico della rivista Oasis, che si interroga sul futuro
della "primavera araba".
Relatrice
d'eccezione sull'impatto della "rivoluzione dei gelsomini" nel regno
dei Saud è stata la prof. Madami al-Rasheed, del King's College di Londra.
"Il regime - ha detto - ha spiegato strategie religiose, di sicurezza ed
economiche per sopprimere ogni piccolo segno virtuale, prima che si manifestasse
come una reale protesta".
All'inizio
- ha spiegato Madami - i regnanti sauditi hanno fatto di tutto per dire che
l'Arabia "è diversa" dalla Tunisia, dall'Egitto, dal Bahrain:
"erano quasi pronti a dire che noi non siamo arabi!". In realtà la
situazione sociale a Riyadh è molto simile agli altri Paesi arabi:
disoccupazione al 30%, soprattutto fra i giovani; 78% delle donne istruite senza
lavoro; corruzione; gestione del potere come "negli antichi principati
italiani del Rinascimento".
Poiché
il controllo sociale è enorme, la "rivoluzione dei gelsomini" in
Arabia si è espressa soprattutto nel web. "Nel febbraio 2011 molte
petizioni sono circolate su siti internet, domandando riforme politiche".
Ma il regime le ha subito oscurate. La distribuzione di benefici economici a
pioggia doveva servire a placare le richieste di maggior benessere da parte dei
disoccupati. Ma le petizioni non si sono fermate.
Fra
le domande più insistenti, oltre al riconoscimento dei diritti umani, della
partecipazione politica, della fine della corruzione, vi è quella di scrivere
una costituzione "fatta da mani d'uomo": i regnanti sauditi, infatti,
affermano che il Paese non ha bisogno di una costituzione, perché "la
nostra costituzione è il Corano (non "fatta da mani d'uomo, ma da
Allah")".
Anche
le "giornate dell'ira", che negli altri Paesi arabi hanno radunato
milioni di persone, in Arabia saudita si sono svolte solo sul web, con firme di
petizioni e proclami e con indicazioni pratiche per scavalcare la censura
ufficiale.
L'iniziale
intervento per sedare le rivolte in Bahrain è servito ai Saud per bollare tutte
le rivolte arabe (e soprattutto quella in casa propria) come un "complotto
dell'Iran", manovrato dall'esterno, in cui non sono estranee mani straniere
(occidentali).
Sfruttando
"l'iranofobia" e usando metodi duri (la scomparsa nelle mani della
polizia, di giovani blogger come Muhammad al-Wadani), perfino alcuni piccoli
accenni di manifestazione sono stati cancellati.
Anche
la religione - coi dottori coranici che sono di fatto dei burocrati al soldo dei
regnanti - è servita a stigmatizzare ogni desiderio di cambiamento, visto come
un attentato verso Allah, come un invito al caos (fitna).
Primavera
araba "ambigua"; occidente "squallido" di Bernardo
Cervellera
AsiaNews - Venezia - 23 giugno 2011
I
rivolgimenti in Medio oriente e in Nordafrica aprono a speranze, ma anche a
timori per un'involuzione militare o fondamentalista. Le Chiese di Tunisia ed
Egitto vogliono vivere a fianco di tutta la popolazione. Il dibattito sulla
"laicità" delle istituzioni e la libertà religiosa. L'occidente
stanco e "pusillanime" ha bisogno di una nuova evangelizzazione. Un
bilancio del raduno del Comitato scientifico di Oasis.
La
"primavera araba" è ambigua ed è ancora molto forte il rischio di
tradirla col fondamentalismo islamico o l'autoritarismo del potere politico o
militare. Ma essa è "un punto di non ritorno" perché ha fatto
emergere il bisogno di pluralismo all'interno dello stesso islam arabo. Per
questo garantire pluralismo, libertà religiosa e la vita delle comunità
cristiane è la migliore garanzia per un futuro democratico e per una società
civile aperta.
Allo
stesso tempo, la "primavera araba" mette in discussione anche
l'occidente dove quei valori che il mondo arabo sta cercando sono tradotti in
modi che emarginano la religione o inneggiano al relativismo.
Sono
questi alcuni dei temi che si sono rincorsi nei tre giorni di raduno (dal 19 al
22 giugno) del Comitato scientifico della rivista Oasis a Venezia, sotto la
presidenza del card. Angelo Scola, con la presenza di vescovi e patriarchi dal
Medio oriente, dal Nordafrica e dall'Europa, e di studiosi cristiani e islamici
delle più qualificate università mondiali.
Ambiguità
nel presente e nel futuro
Le
insurrezioni in Medio oriente e Africa del nord sono "ambigue"
anzitutto perché hanno intrapreso strade differenti nei diversi Paesi:
rivoluzione non violenta (o quasi) in Tunisia ed Egitto; conflitto sanguinario
in Libia, Siria, Bahrain, Arabia saudita. In tutte però vi è la domanda della
popolazione a una vita più dignitosa, al lavoro, al cambiamento di regime, alla
democrazia vista come una possibilità di far diventare protagonisti della vita
sociale gruppi e minoranze che costituiscono la popolazione dei Paesi
interessati.
Vari
esperti sono intervenuti a sottolineare che tutto questo mostra la profonda
esigenza di una pluralità rispettata e vissuta e il desiderio di una società
che si basa sulla dignità della persona e non sul potere o la corruzione. In
questo senso, le "insurrezioni" rifiutano un islam monolitico, che non
lascia spazio a modi diversi di vivere la fede musulmana e alle altre minoranze
religiose. Proprio per questo, in non pochi casi (soprattutto Tunisia ed Egitto)
i cristiani sono scesi in piazza fianco a fianco a dimostrare con i giovani
musulmani.
Mons.
Maroun Laham, arcivescovo di Tunisi ha detto a più riprese che i cristiani
"non hanno paura" di questi sommovimenti. Al contrario, occorre che i
cristiani del Medio oriente (e Nordafrica) siano aiutati a integrarsi sempre di
più nel tessuto sociale dei loro popoli.
A
tale proposito, il patriarca cattolico di Alessandria Antonio Naguib, ha
ricordato che durante le manifestazioni di piazza Tahrir "i cristiani non
hanno domandato la protezione dell'occidente". L'imam di Al Azhar e il
governo di Mubarak hanno invece sostenuto che Benedetto XVI avesse domandato
tale protezione per i cristiani, ma si tratta di un'interpretazione errata delle
parole del papa (v. AsiaNews.it, 20/01/2011 L'università islamica di Al Azhar
sospende il dialogo con il Vaticano).
Una
"terza via" per la laicità
Le
prospettive della rivolta dei giovani rimangono comunque sospese. Anzitutto
perché oltre al desiderio di cambiamento nella pluralità vi sono altri
fattori: l'esercito; i gruppi fondamentalisti; le vecchie nomenclature. Alcuni
esperti - come Mark Movsesian, direttore del Center of Law and Religion alla St
John's University (New York, Usa) - hanno ricordato che alla fine del XIX
secolo, l'impero ottomano aveva cercato di secolarizzare la società (Tanzimat)
garantendo piena cittadinanza a tutti i gruppi (anche ai cristiani) e spingendo
verso la democrazia. Ma la caduta dell'impero ha portato al potere i militari
turchi e ha causato il contraccolpo del genocidio armeno e cristiano.
Nella
ricerca di una società che dia piena cittadinanza a tutti i gruppi sociali, il
Medio oriente ha davanti due modelli: quello "americano", in cui lo
Stato è neutrale verso le religioni, ma permette ad esse un'influenza nella
società, pur sottomesse al rispetto dei diritti umani; quello
"francese" in cui alle religioni si lascia solo uno spazio nel
privato, escludendole dalla vita pubblica. Diversi autori - e fra questi, Salim
Daccache, libanese dell'université St Joseph (Beirut) - hanno mostrato che in
Libano e in Medio oriente le persone vivono un'appartenenza molto forte alle
comunità religiose e per questo è importante ricercare "una terza
via", in cui lo Stato dia spazio all'influenza delle religioni nella società,
ma garantisca allo stesso tempo la pluralità delle espressioni religiose.
Va
detto che in questa ricerca della "terza via", sono impegnati anche
gruppi integralisti come i Fratelli musulmani in Egitto o i partiti salafiti in
Tunisia, anche se per alcuni esperti queste loro posizioni moderate sembrano più
un espediente pre-elettorale che un reale cambiamento di prospettiva.
Il
card. Scola ha più volte sottolineato che il futuro positivo delle
"insurrezioni" potrà essere verificato nel passaggio verso
l'istituzionalizzazione, nello spazio che le nuove strutture sociali e politiche
daranno alla libertà religiosa.
Lo
stanco occidente
In
tutto questo quadro di rivolgimenti e ricerche, è emerso in modo piuttosto
chiaro il silenzio o la pusillanimità dell'occidente (europeo e statunitense).
Esso aveva sempre appoggiato i dittatori di turno nei Paesi coinvolti dalla
"rivoluzione dei gelsomini" ed è rimasto senza parole davanti alle
manifestazioni, predicando rispetto e giustizia quando i governi (appoggiati e
riconosciuti da Europa e America) hanno tentato la via della violenza per
cancellarla.
Qualcuno
(il prof. Vittorio E. Parsi, dell'Università cattolica di Milano) ha tentato di
mostrare come impegno "per i diritti umani" l'intervento Nato in
Libia, ma in molti hanno fatto notare le critiche della Chiesa locale
all'intervento, che non lascia alcuno spazio alla diplomazia, e i tanti sospetti
che dietro le manovre militari occidentali in Libia si nascondano interessi
petroliferi e finanziari.
Proprio
lo squallore con cui l'occidente si disinteressa alle rivoluzioni arabe (o si
interessa in modo parziale e interessato), ha spinto il card. Scola a concludere
il raduno ricordando l'urgenza dell'evangelizzazione, non solo in Medio oriente,
ma anche in Europa, dove la secolarizzazione sta trascinando anche i cristiani a
vivere il cristianesimo come un'ispirazione solo culturale o caritativa.
"Occorre - ha detto il patriarca di Venezia - ritornare a un'identità
cristiana vissuta in modo personale e comunitario".
Papa:
si cerchi "ogni possibile forma di mediazione" per il Medio Oriente e
il Nordafrica
AsiaNews - Città del Vaticano - 24 giugno 2011
Sia
data assistenza a coloro che fuggono. Aiutare a mantenere nella regione la
presenza dei cristiani, che possano vivere come concittadini e non come
stranieri, riconoscendo la loro uguale dignità e reale libertà.
Si
esplori "ogni possibile forma di mediazione" per fermare la violenza
nell'Africa del nord e in Medio Oriente, in modo che torni la pace "nel
rispetto dei diritti sia delle persone che delle comunità". E' la
"preghiera" elevata oggi da Benedetto XVI che. ricevendo i
partecipanti all'assemblea della Riunione delle opere in aiuto alle Chiese
Orientali (ROACO).è così tornato a chiedere che si fermino i conflitti e si
cerchi la via del dialogo.
"Prego
- le sue parole - perché sia resa disponibile ogni forma di necessaria
assistenza di emergenza, ma soprattutto prego che sia esplorata ogni forma
possibile di mediazione così che possa cessare la violenza e siano ovunque
restaurate l'armonia sociale e la coesistenza pacifica, nel rispetto per i
diritti sia delle persone che delle comunità".
La
preghiera del Papa giunge a poco pi di un mese dall'esortazione rivolta
all'ambasciatore siriano, quando disse che in Medio Oriente serve "una
soluzione globale" che "non deve ledere gli interessi di nessuna delle
parti in causa ed essere il frutto di un compromesso e non di scelte unilaterali
imposte con la forza" che "non risolve nulla".
Oggi,
riferendosi ai "cambiamenti che stanno avvenendo nei Paesi dell'Africa del
nord e del Medio Oriente, che sono fonte di preoccupazione in tutto il
mondo", il Papa ha detto di essere informato dal patriara copto-cattolico
(di Egitto), dal patriarca maronita (libanese) dal rapporesentante pontificio a
Gerusalemme e dalla Custodia francescana di Terra Santa, dalle congregazioni e
dalle agenzie che "sono in grado di verificare la situazione sul terreno
per quanto riguarda le Chiese e i popoli di quella regione, che è così
importante per la pace e la stabilità del mondo. Il Papa vuole esprimere la sua
vicinanza, anche attraverso voi, a coloro che stanno soffrendo e a coloro che
stanno tentando disperatamente di fuggire, incrementando in tal modo il flusso
della migrazione che rimane sempre senza speranza".
Alla
ROACO, infine, egli ha raccomandato "la carità ecclesiale", per la
Terra Santa e tutto il Medio Oriente "per sostenervi la presenza cristiana.
Vi chiedo di fare tutto ciò che vi è possibile - anche interessando le autorità
pubbliche con le quali siete in contatto a livello internazionale - perché in
Oriente dove sono nati i pastori e i fedeli di Cristo possano vivere non come
'stranieri', ma come 'concittadini' che testimoniano Gesù Cristo, come hanno
fatto prima di loro i santi del passato, anch'essi figli delle Chiese orientali.
L'Oriente è giustamente la loro patria terrena. E' là che essi sono tenuti a
promuovere, senza distinzioni, il bene di tutti, attraverso la loro fede. A
tutti coloro che professano tale fede debbono esssere riconosciute una uguale
dignità e una reale libertà, in modo da consentire una collaborazione
ecumenica e interreligiosa iù fruttuose".
Un
mercato da redimere di Giulio Albanese
Avvenire
- 22 giugno 2011
Svolta
etica sempre più necessaria
Inutile
nasconderselo, oggi il cibo viene trattato alla stregua di qualsiasi altra merce
da parte di un'"alta finanza" mondiale che guarda tendenzialmente alla
massimizzazione dei profitti. E la mancanza di una saggia regolamentazione dei
mercati continua a determinare un'esplosiva e mortale emergenza alimentare su
scala planetaria. Basta aprire gli occhi per rendersi conto che la mancanza di
un effettivo contenimento della "volatilità" delle quotazioni dei
prodotti agricoli sta avendo effetti devastanti in molti Paesi del Sud del
mondo, soprattutto tra i ceti meno abbienti. E chi non riesce a vedere e capire
potrebbe almeno sforzarsi di ascoltare la voce accorata dei nostri missionari.
Per
garantire la stabilità dei prezzi, in un mercato a domanda rigida come quello
alimentare, è importante che la politica esca dal letargo, contrastando quello
che è lo strapotere delle grandi imprese dell'agro-business. Si tratta in
sostanza di riaffermare il primato della persona umana sugli affari, investendo
diligentemente nel settore agricolo. Da una parte, occorre potenziare le
produzioni locali con la valorizzazione delle cosiddette identità territoriali;
dall'altra, è necessario contrastare con ogni mezzo, nelle zone rurali,
l'omologazione delle culture che, com'è noto, deprime i prezzi, aumentando a
dismisura la dipendenza dall'estero. Questo in sostanza significa dare impulso,
nella cooperazione alla sviluppo, a un approccio innovativo che vada ben al di là
della logica assistenziale dei tradizionali donatori internazionali.
A
essi va decisamente chiesto di farsi carico delle istanze degli agricoltori,
garantendo credito e investimenti per favorire un adeguato approvvigionamento
alimentare a tutte le popolazioni del pianeta, senza discriminazioni di sorta.
Anche perché, sebbene in alcune regioni della Terra permangano bassi livelli di
produzione agricola, globalmente tale produzione sarebbe sufficiente per
soddisfare sia la domanda attuale, sia quella prevedibile in futuro.
È
necessario pertanto riformare il sistema globale con coraggio, contrastando, ad
esempio, il ricorso a certe forme di sovvenzioni care all'Europa, ma che
perturbano gravemente il settore agricolo, particolarmente in Africa. E cosa
dire della persistenza di modelli alimentari orientati al solo consumo e privi
di una prospettiva di più ampio raggio che tenga conto del bene comune? Una
cosa è certa, l'emergenza alimentare non si risolve imponendo ai produttori di
tenere bassi i prezzi, perché non sarebbero in grado di sbarcare il lunario nel
contesto dell'attuale congiuntura economica. Quelli che invece dovrebbero aprire
il cordone della borsa sono coloro che ricercano sempre e comunque il profitto a
breve termine, speculando sulle masse dei poveri vecchi e nuovi.
Non
è affatto normale, né moralmente accettabile, il volume della bolla
finanziaria che si è venuta a gonfiare in questi anni attorno alle materie
prime agricole. Il tema deve essere indubbiamente affrontato dai Grandi della
Terra, e dunque interpella anche il nostro governo in vista - tra l'altro -
dell'Expo 2015 all'insegna dello slogan "Nutrire il Pianeta, energia per la
vita". Milano, è bene rammentarlo, è anche una delle capitali della
finanza mondiale. E allora - se il nostro Paese intende davvero rivestire un
ruolo significativo nella sfida planetaria della lotta contro inedia e pandemie
- non può fare orecchie da mercante su una questione delicata e scottante come
il rapporto tra cibo e speculazione.
Un
tema questo cui Avvenire ha dedicato da tempo costante attenzione, dando voce a
chi non ha voce, nella convinzione che sia sempre più necessaria una svolta
all'insegna del sano recupero di criteri etici nelle attività
economico-finanziarie. E che questa possa diventare la chiave per superare le
gravi distorsioni di un mercato che ha bisogno di redenzione.
Giornata
Internazionale Lotta Droga
Avvenire
- 25 giugno 2011
Giornata
Onu: nel mondo 25 milioni di tossicodipendenti
Circa
200 milioni di persone assumono droghe almeno una volta all'anno. Di questi, 25
milioni sono considerati tossicodipendenti e ogni anno 200mila persone muoiono
per malattie correlate all'uso droga. Muove da questi dati la Giornata
internazionale contro il consumo e il traffico illecito di droga, che si celebra
domenica, indetta dall'Assemblea generale dell'Onu nel 1987 per ricordare
l'obiettivo comune a tutti gli Stati membri di creare una comunità
internazionale libera dalla droga.
L'ufficio
delle Nazioni Unite contro la Droga e il Crimine sceglie ogni anno il tema della
giornata internazionale, lanciando campagne di sensibilizzazione sul problema
della droga nel mondo e quest'anno il tema sarà quello della
"Salute". La campagna, si legge sul dito dell'Unicri, l'agenzia
dell'Onu per la prevenzione del crimine, si rivolge ai giovani, che spesso
parlano degli "effetti da sballo" delle droghe illegali, ma che il più
delle volte non sono consapevoli dei molti "effetti negativi".
L'uso
di stupefacenti è preoccupante proprio perché rappresenta una minaccia per la
salute. Gli effetti negativi variano a seconda del tipo di droga consumata,
delle dosi assunte e della frequenza del consumo. Tutte le droghe hanno effetti
fisici immediati, ma possono anche gravemente compromettere lo sviluppo
psicologico ed emotivo. Condurre una vita sana richiede scelte che devono
rispettare il corpo e la mente. E per fare queste scelte i giovani hanno bisogno
di ispirarsi a modelli positivi e hanno bisogno di ottenere informazioni
corrette riguardanti il consumo di droga. La campagna internazionale offre ai
giovani proprio gli strumenti adeguati per informarsi sui rischi per la salute
associati al consumo di droghe.
La
tortura degli uomini ferita aperta del mondo di Stefano Vecchia
Avvenire
- 25 giugno 2011
Domani,
26 giugno, ricorre la Giornata internazionale e a sostegno delle vittime della
tortura, quest'anno alla 13ma edizione. Un'iniziativa per ricordare la ratifica,
il 26 giugno 1987, da parte dei primi venti paesi, della Convenzione delle
Nazioni Unite contro la tortura e altri trattamenti o punizioni crudeli,
disumani o degradanti.
Nel
tempo, tuttavia, queste pratiche non si sono esaurite e la loro applicazione si
è estesa oltre i confini geografici di allora e su gruppi di popolazione
diversi. Se 24 anni fa a ispirare la Convenzione fu soprattutto la situazione
dei diritti umani in paesi dai regimi dittatoriali e illiberali, oggi è sempre
più la condizione in cui si trovano profughi e fuggiaschi da realtà di
conflitto e degrado.
Poco
conta che attualmente la Convenzione abbia 66 paesi firmatari e altri 55
associati, davanti a una realtà che vede in pratiche coercitive, abusi e
violenze psico-fisiche strumenti costanti di controllo e di intimidazione. Che
includono come delineato da Human Rights Watch nel suo ultimo rapporto, sia
paesi firmatari della Convenzione, come Gran Bretagna, Francia, Germania,
Nigeria (che detiene forse il record delle esecuzioni extragiudiziarie dovute
alle forze di sicurezza), Cina, sia paesi, come il Myanmar e il Bahrain, che ne
sono ancora esclusi.
Oggi,
in un gran numero di paesi, una novantina quelli elencati da Human Rights Watch
nel suo Rapporto del 2010, forme di tortura si affiancano abitualmente alla
carcerazione, si associano al controllo della popolazione e dell'ordine
pubblico, sono strumenti di dissuasione verso dissidenza o proteste.
Vittime ne sono, in numero crescente anche i minori, arruolati con la forza tra
combattenti o utilizzati a supporto delle necessità delle parti nei conflitti,
e le donne. Lo stupro, come registrato e denunciato in questi giorni anche in
Libia, è diventato un diffuso strumento di terrore sulle popolazioni civili da
parte dei belligeranti.
Esiste
tuttavia anche una realtà transnazionale su cui forme di violenza e coercizione
fisica o psicologica vanno sempre più riversandosi. In aree diverse del
pianeta, un gran numero di persone tra i milioni in fuga o allontanate con la
forza dalle terre d'origine subiscono una qualche forma di tortura, prima della
partenza o, più spesso durante il loro peregrinare ma anche alla meta. Un
problema che per la persistenza delle conseguenze sulle vittime, sulle famiglie
e sulle comunità diventa, come sottolinea una ricerca della Facoltà di
Medicina dell'Università di Boston (Usa), "un problema di salute pubblica
globale sovente sottostimato anche per la tendenza dei sopravvissuti a non
rendere pubblica la propria condizione".
Uno
studio della stessa Facoltà ha messo in luce come l'11% di pazienti di origine
straniera trattati in centri di salute pubblica primari negli Stati Uniti siano
stati sottoposti a tortura. Un dato coerente con le stime che indicano che una
percentuale variabile tra il 5 e il 30% dei rifugiati a livello mondiale (11
milioni quelli definiti come tali e altrettanti quelli diversamente
riconosciuti) abbiano subito una qualche forma di tortura, percentuali che
salgono ulteriormente in alcuni gruppi etnici. I dati son disomogenei e da
qui la difficoltà di fornire cifre confrontabili.
Può
non sbalordire, per quanto drammatica, la cifra di almeno 300 prigionieri
deceduti lo scorso anno nelle carceri in Myanmar per maltrattamenti e torture;
colpisce invece il dato dei quasi 1.800 morti in carcere tra il 2007 e il 2008 e
127 sotto custodia della polizia nel biennio 2008-2009 dell'India. 143 i morti
per maltrattamenti in prigione denunciati solo dal movimento Falungong in Cina
nei diciotto mesi precedenti i Giochi Olimpici, ma la situazione resta grave.
Come suggerisce anche Amnesty International, "la tortura in Cina resta uno
delle maggiori violazione dei diritti umani e il numero di funzionari che la
utilizzano, come pure quello delle loro vittime è in espansione".
Puntare sul riso africano ma non solo per ridurre dipendenza alimentare
Misna - giugno 21, 2011
Migliorare
la qualità e la commercializzazione del riso prodotto in otto paesi africani
con metodi di raccolto e conservazione che consentono di ridurre gli sprechi,
sostenere il reddito delle famiglie contadine: sono gli obiettivi di un
nuovo progetto quinquennale del Centro del riso per l'Africa (African Rice
Center) lanciato a Cotonou, una delle sedi dell'organizzazione di ricerca
panafricana.
Secondo
gli esperti in agronomia, "migliorare le pratiche agricole dal punto di
vista delle tecnologie e della formazione consentirebbe di migliorare la
produttività ma anche di ridurre le perdite del 10% nella fase
post-raccolto" si legge in un comunicato diffuso dal Centro del riso per
l'Africa che coinvolge nel nuovo progetto Camerun, Gambia, Ghana, Mali, Nigeria,
Senegal, Sierra Leone e Uganda.
L'aumento
delle quantità di riso prodotte unito alla riduzione degli sprechi e alla
diversificazione di prodotti alimentari derivanti dalla materia prima dovrebbero
non solo consentire di migliorare il livello di sicurezza alimentare degli
agricoltori ma anche far lievitare il loro reddito annuo.
L'iniziativa
giunge in un contesto di grande variabilità dei prezzi dei cereali sui mercati
internazionali legata all'aumento del costo del carburante che si ripercuote sul
trasporto delle merci, ma anche in più paesi di fine anticipata della stagione
umida che ipoteca buoni raccolti per i prossimi mesi.
L'Africa
da sola consuma un terzo delle importazioni mondiali di riso in quanto la
produzione locale non riesce a soddisfare la domanda di una popolazione in
continua crescita: l'African Rice Center si pone come obiettivo la
valorizzazione del potenziale agricolo per allontanare dal continente lo spettro
della fame.
Su
874 milioni ettari di terre coltivabili, solo 150 milioni vengono effettivamente
sfruttati mentre l'Africa utilizza soltanto il 4% delle sue risorse idriche per
l'irrigazione dei terreni agricoli. Inoltre il continente registra un forte
ritardo in termini di infrastrutture, tecnologie e formazione che se colmato
consentirebbe di migliorare la produttività di un settore cruciale per il
futuro dell'umanità.
Un
paradosso, quello di tante risorse ma tanta fame, che spinge alcuni agronomi e
ricercatori a sollecitare dai governi politiche di sostegno alle culture locale
"poco valorizzate seppur molto diversificate e ricche" ha detto Amadou
Tidiane Guiro, professore alla facoltà di scienze e tecniche dell'Università
Cheikh Anta Diop di Dakar. Secondo lui il "ricco potenziale dell'Africa in
materia di biodiversità alimentare può diventare una fonte di innovazione per
la nostra agricoltura" allora, insiste, "basta importare prodotti
stranieri, investiamo e puntiamo sulle produzioni locali da trasformare in loco
per ridurre la nostra dipendenza alimentare".[VV]
Land
grab: Africa in vendita di Sara Milanese
MissiOnLine
- 20 giugno 2011
Saccheggio
delle terre.
Non
solo Cina e India: anche Usa e Europa comprano terra africana a prezzi
stracciati. Col rischio di una crisi globale per gli alimenti.
550mila
ettari di terra coltivabile in Mali, 3 milioni e mezzo in Etiopia. E poi Sierra
Leone, Madagascar, Mozambico, Tanzania: solo nel 2009 l'Africa ha venduto o
affittato (per periodi che vanno dai 20 ai 99 anni) 60 milioni di ettari delle
sue terre migliori, un territorio vasto come la Francia.
E
il fenomeno non fa che aumentare, di anno in anno: basti pensare che nel 2008 i
terreni affittati in Africa erano "a malapena" 4 milioni di ettari.
Ormai le conseguenze sono evidenti: il prezzo degli alimentari cresce, "è
volatile" avvertono gli economisti.
Il
land grab è stato denunciato pesantemente dall'ONU nel
2009:
Sembrava
che questa corsa all'accaparramento della rossa terra africana fosse una
prerogativa delle nazioni emergenti, dove la crescita economica spinge i
consumi, tanto che i governi non riescono a soddisfare le esigenze della
popolazione. Invece di aumentare le importazioni dall'estero, questi stati hanno
deciso di produrre da soli, sulla terra degli altri. Anche per evitare pesanti
tracolli economici quando arriverà la prossima crisi dei prezzi del cibo.
L'Africa si presta a meraviglia per questo scopo: enormi distese di terra ricca,
non sfruttata. Di proprietà di governi o di provati che non sanno che farsene.
E che cedendo facilmente alle offerte di denaro, firmano contratti di affitto
davvero iniqui.
Invece
in questo brutto affare l'Occidente non ha le mani pulite: lo denuncia un
rapporto dell'Oakland Institute
Esattamente
come i governi asiatici, i contratti stipulati dagli hedge fund occidentali non
tengono in considerazione le esigenze delle popolazioni locali, la complessità
economica e sociale delle realtà africane, il rispetto dell'ambiente e della
stessa stabilità politica, perchè intacca direttamente la sicurezza alimentare
nazionale.
Spesso
i governi svendono, in omaggio con l'acquisto della terra, anche la manodopera
per coltivarla, cioè i contadini, che oltre alla terra rischiano di perdere
anche un altro bene fondamentale: l'acqua. Senza considerare le consuetudini
legate alla pastorizia, all'allevamento, alle attività di raccolta
tradizionali. Un atteggiamento "scandaloso", afferma l'istituto
californiano.
I
nuovi proprietari, inoltre, rimpiazzano le colture tradizionali con massicce
produzioni di biocarburanti o di fiori da recidere. Cosa che ridotto l'offerta
alimentare, facendo lievitare i prezzi. A livello locale, come internazionale,
considerate le dimensioni del fenomeno.
"Metti le scarpe di un rifugiato e fai il primo passo per capire
la loro situazione"
Agenzia Fides - La Paz - 21 giugno 2011
"Metti
le scarpe di un rifugiato e fai il primo passo per capire la loro
situazione": questo il tema della campagna lanciata in America Latina dalla
Pastorale della Mobilità Umana (per i Migranti), che appartiene all'Area di
Promozione Umana della Conferenza Episcopale della Bolivia, insieme all'Alto
Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (ACNUR), in occasione della
Giornata Mondiale del Rifugiato e nell'anniversario dei 60 anni dalla
convenzione del 1951. Secondo la nota inviata all'Agenzia Fides dalla Pastorale
della Mobilità Umana, questo invito a "mettersi nei panni di un
rifugiato" è anche un invito a sfidare l'intolleranza e il disprezzo per
le persone che, per salvare le loro vite, hanno perso tutto, tranne "la
determinazione di ricominciare".
Nella
nota si legge che in Bolivia, le persone con lo status di rifugiato sono circa
700, tra adulti e bambini provenienti da paesi diversi, tra cui Perù, Colombia,
Iraq, Camerun, Cuba ed altri ancora. La maggior parte di loro vive a la Paz,
Cochabamba e Santa Cruz. Sono vulnerabili sia perché molti di loro sono
perseguitati dal paese d'origine, inoltre perché vivono l'incertezza di una
nuova situazione di vita nel paese di asilo. "Nonostante queste
limitazioni, i rifugiati fanno gli sforzi necessari per integrarsi ed impegnarsi
per lo sviluppo della società che apre loro le braccia e gli permette di
formare la loro nuova casa". La nota continua: "lo stato della
Bolivia, in riferimento alla convenzione del 1951 per lo Statuto dei rifugiati e
al suo impegno di realizzare azioni per salvaguardare e proteggere i rifugiati
in Bolivia, ha dato attuazione al Decreto Supremo 28329 che crea la Commissione
nazionale per i rifugiati (CONARE) e stabilisce le procedure per determinare lo
status di rifugiato in Bolivia". Le nuove realtà nel contesto attuale dei
rifugiati e i settori della società civile interessati, hanno iniziato la
stesura di una legge che sia concorde con la nuova Costituzione dello Stato, con
gli accordi e i trattati internazionali, e soprattutto che risponda alle
necessità delle persone che hanno chiesto la protezione internazionale in
Bolivia. La nota si conclude con un appello a sforzarsi di comprendere la
situazione dei rifugiati. (CE)
Misna - 21 giugno 2011
Oltre
6,5 miliardi di dollari, pari all'8% del Prodotto interno lordo regionale:
questa la stima della Banca interamericana di sviluppo (Bid) sui costi della
spirale di violenza che affligge l'America Centrale a causa del dilagare della
criminalità organizzata dedita per lo più al narcotraffico e alla tratta di
esseri umani.
"Oltre
il 50% (3,3 milioni) equivale a perdite nel settore sanitario, 1,2 milioni in
quello della sicurezza, 1,3 milioni sono costi istituzionali" precisa il
Bid in un rapporto in cui aggiunge che "l'insicurezza cittadina e il
crimine organizzato transnazionale sono diventati la principale sfida per lo
sviluppo delle democrazie dell'America Centrale, dove hanno debilitato lo stato
di diritto e le istituzioni superando la capacità di risposta dei
governi". La violenza, ha sottolineato la Bid, "ha un effetto diretto
sullo sviluppo economico".
Secondo
il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Unpd) il Centroamerica
registra un tasso di omicidi di 33,3 ogni 100.000 abitanti: "Questo dato
supera il tasso del 28,8 dei Caraibi, il 24,8 dei paesi andini, il 10,9 del Cono
Sud ed è quattro volte superiore alla media mondiale di 8 omicidi ogni 100.000
abitanti" precisa il documento.
Nel
2009, il dato più aggiornato preso in esame dalla Bid, si sono contati in
America Centrale 18.815 omicidi, pari a 52 al giorno: le principali vittime ma
allo stesso tempo i primi responsabili sono i giovani, una circostanza "che
compromette il futuro della regione".
Si
stanno intanto ultimando i preparativi per il vertice regionale dedicato alla
sicurezza che avrà luogo domani e giovedì in Guatemala. Alla 'Conferenza
internazionale di sostegno alla strategia di sicurezza del Centroamerica'
parteciperanno, tra gli altri, i presidenti della regione, i capi di Stato di
Messico, Colombia e Repubblica Dominicana, il segretario di Stato americano,
Hillary Clinton, il ministro degli Esteri spagnolo, Trinidad Jiménez, e il
segretario generale dell'Organizzazione degli Stati americani (Osa), José
Miguel Insulza. [FB]
Scende il prezzo del petrolio, salgono le borse asiatiche
AsiaNews - Hong Kong - 24 giugno 2011
Messi
a disposizione 60 milioni di barili dalle riserve dell'Agenzia internazionale
dell'energia. Dopo sette settimane di discesa, le borse salgono. Importante la
decisione Ue di sostenere la Grecia e la promessa di Wen Jiabao di contenere
l'inflazione in Cina.
L'Agenzia
internazionale dell'energia ha deciso di incrementare le forniture di petrolio,
portando ad un abbassamento del prezzo. Grazie a questo piccolo segnale, le
borse in Asia hanno visto un incremento dopo sette settimane di valori in
discesa.
L'Agenzia
per l'energia ha deciso di aumentare le forniture di 60 milioni di barili entro
il prossimo mese, prendendolo dalle sue riserve. Ufficialmente, la ragione è
che a causa della guerra, la Libia non riesce a mantenere la produzione
stabilita.
Secondo
analisti, la mossa serve soprattutto agli Stati Uniti che attraverso un
abbassamento del prezzo del greggio cerca di stabilizzare la sua economia. Ieri
sera a New York il prezzo del crudo è sceso del 4,6 %, a 91,02 al barile. A
Londra il Brent è sceso del 5 %.
La
borsa di Hong Kong è salita oggi dell'1,9%; quella di Shanghai del 2,2; Tokyo
dello 0,87; Seoul dell'1,7%. Dai primi di maggio, l'indice Msci per
l'Asia-Pacifico era sceso del 6,2%.
A
rafforzare le borse vi sono altri due fattori. Anzitutto, la decisione
dell'Unione europea di stabilizzare l'area dell'euro, garantendo aiuti alla
Grecia, dopo il voto del parlamento di Atene a favore dei tagli di bilancio per
78 miliardi di euro. In secondo luogo, ha iniettato fiducia la promessa del
premier Wen Jiabao di tenere sotto controllo l'inflazione in Cina
Una
voce cattolica in seno all'ASEAN, "coscienza sociale" per il dialogo e
le libertà
Agenzia Fides - Bangkok - 21 giugno 2011
Le
Chiese asiatiche accolgono con favore e con grandi speranze la nomina di Sua
Ecc. Mons. Leopoldo Girelli come primo Nunzio Apostolico presso l'Associazione
delle Nazioni del Sud Est Asiatico (ASEAN). Come riferito a Fides, le Chiese
locali auspicano che possa essere una voce che favorisca il dialogo e le buone
relazioni fra le Chiese e i governi, che porti i valori cristiani e crei
maggiore attenzione a questioni come la tutela della dignità della persona,
della libertà religiosa e dei diritti umani nei paesi dell'ASEAN.
Mons.
Girelli è già Nunzio apostolico in Singapore ed in Timor Est, Delegato
apostolico in Malaysia e in Brunei e rappresentante pontificio non residente per
il Vietnam, ed è "da molti anni profondo conoscitore della complessa realtà
del Sudest asiatico", rimarca in un colloquio con Fides p. Raymond O'tool,
che opera presso il Segretariato Generale della FABC, la Federazione delle
Conferenze Episcopali dell'Asia. "La sua presenza agli incontri dell'ASEAN
- nota - servirà come coscienza sociale e punto di riferimento morale, basato
sull'insegnamento della Chiesa, in situazioni delicate dove questi riferimenti
sono necessari o mancano del tutto". Nell'ASEAN, ricorda p. O'tool, vi sono
"paesi come il Mynamar dove una dittatura penalizza il dissenso e manca di
tolleranza; come l'Indonesia dove si fanno strada fermenti di estremismo
islamico, come il Vietnam, con segnali di apertura da un lato e di durezza
dall'altro. La presenza di una voce della Chiesa al tavolo di discussione è un
positivo passo in avanti", aggiunge.
"Nelle
realtà più difficili dei paesi asiatici - spiega a Fides l'Arcivescovo indiano
Mons. Thomas Menamparampil, a capo della Commissione per l'Evangelizzazione
nella FABC - abbiamo bisogno, come Chiesa, di un approccio dialogico che,
rispettando le tradizioni storiche e culturali di ogni contesto, sviluppi buone
relazioni a livello locale. Siamo certi che la presenza del Nunzio nell'ASEAN
sarà occasione per migliorare i rapporti con le autorità civili e le
condizioni dei popoli della regione, perché gli stati e le Chiese operino
insieme per il bene comune".
P.
Peter Watchasin, sacerdote di Bangkok e Direttore delle Pontificie Opere
Missionarie in Thailandia, ritiene la nomina molto importante: "Auspichiamo
che possano avere maggiore attenzione, fra gli stati dell'ASEAN, le questioni
relative alla libertà religiosa e ai diritti umani. Penso, ad esempio, alla
difficile situazione dei credenti in Laos, dove è fortemente limitata anche la
libertà di culto. Credo che si possano aprire buone speranze e novità".
Nata alla fine degli anni '60, per promuovere interessi sul piano politico, economico e culturale, l'Associazione dei Paesi del Sud Est asiatico, ha attualmente 10 membri: Indonesia, Malaysia, Filippine, Singapore e Thailandia (i 5 fondatori), Brunei, Vietnam, Laos, Myanmar e Cambogia. Fra gli scopi dell'ASEAN, promuovere la crescita economica, la pace e la stabilità regionale, l'amicizia e la cooperazione. L'Associazione rappresenta oltre 560 milioni di persone. (PA)
Mar
Cinese meridionale: gli interessi di Washington alimentano la tensione
AsiaNews - Manila - 24 giugno 2011
Le
Filippine si rivolgono agli Stati Uniti per modernizzare l'apparato militare. La
Cina lancia un monito agli Usa, perché stiano "alla larga" dalla
regione. La diplomazia cinese cerca di placare la tensione con il Vietnam. Ma è
guerra aperta fra i giornali vicini ai governi comunisti di Pechino e Hanoi.
Manila
ne invoca l'aiuto per modernizzare l'apparato bellico e potenziare le forze
armate; Pechino, invece, lancia un monito perché "stia alla larga"
dalla controversia. Il ruolo degli Stati Uniti e le mire di Washington nell'area
potrebbero acuire le tensioni nel mar Cinese meridionale, al centro di una
disputa territoriale che coinvolge Filippine, Vietnam e Cina. Intanto è ormai
guerra aperta - almeno a parole - fra giornali cinesi e vietnamiti, con
reciproci scambi di accuse.
Gli
Stati Uniti forniranno armamenti per rafforzare l'esercito filippino, pronto a
"controbattere a ogni atteggiamento aggressivo" nella porzione di mare
che comprende le isole Spratly e Paracel. In una conferenza congiunta con il
ministro degli Esteri Albert del Rosario, il segretario di Stato Usa Hillary
Clinton ha affermato che il governo è "determinato e impegnato" a
sostenere la difesa delle Filippine. Del Rosario incontrerà Robert Gates,
ministro Usa della Difesa, e altri alti ufficiali americani per "valutare
quali mezzi serviranno" al governo di Manila. La Clinton ha inoltre
aggiunto di essere "preoccupata" per l'evoluzione della situazione nel
mar Cinese meridionale. Tuttavia, il ministro filippino degli Esteri assicura
che il Paese è "preparato a fare quanto necessario per respingere ogni
attacco". Intanto il presidente Benigno Aquino ha stanziato 11 miliardi di
pesos (poco più di 250 milioni di dollari) per rafforzare la marina militare.
Gli
interessi del governo Usa nella zona dell'Asia-Pacifico allarmano la Cina, che
invita Washington a "stare alla larga" dalle dispute nell'area. Cui
Tiankai, vice-ministro degli Esteri, sottolinea che Pechino non è interessata a
esasperare la tensione, fino a provocare un conflitto, ma avverte che gli Stati
Uniti "non sono una nazione con rivendicazioni legittime nel mar Cinese
meridionale". In precedenza, il portavoce del ministero degli Esteri Hong
Lei aveva assicurato l'intenzione di promuovere relazioni amichevoli e
cooperazione "con tutte le nazioni del mondo, in special modo quelle a noi
vicine".
Nel
frattempo è guerra aperta - almeno sulla carta stampata - fra la Cina e il
Vietnam, con articoli al vetriolo sui principali quotidiani dei due Paesi. I
giornali di Hanoi puntano il dito contro Pechino, colpevole di
"esacerbare" la situazione e di "distorcere" i fatti. Pronta
la risposta del fronte cinese, che si affida a un editoriale del People's Daily
per accusare il Vietnam di "continue provocazioni", che verranno
"respinte al mittente" dalla potente marina cinese. Va ricordato che i
media cinesi e vietnamiti sono vicini al governo e agli organi del partito
comunista; ragion per cui non può essere frutto del caso o dell'iniziativa
personale, questa strategia della tensione fra i due fronti.
Fra
le nazioni della regione Asia-Pacifico, la Cina è quella che avanza le maggiori
rivendicazioni in materia di confini marittimi nel mar Cinese meridionale, che
comprendono le isole Spratly e Paracel, disabitate, ma assai ricche di risorse e
materie prime. L'egemonia nell'area riveste un carattere strategico per il
commercio e lo sfruttamento delle materie prime, fra cui petrolio e gas
naturale.
A
contendere le mire espansionistiche di Pechino vi sono il Vietnam, le Filippine,
la Malaysia, il Sultanato del Brunei e Taiwan, cui si uniscono la difesa degli
interessi strategici degli Stati Uniti nell'area.
Cartoline dall'Algeria - 49 di p. Silvano Zoccarato
Touggourt
- 2 luglio 2011
Lasciare agire e parlare il cuore
“Se veramente crediamo e cerchiamo la pace dobbiamo guardarci negli occhi con gli occhi dei bambini che eravamo”. Così Frida Di Segni Russi, della Comunità ebraica di Ancona, ha concluso il suo intervento all’incontro per la marcia della pace del 31 dicembre 2010. Nella sua infanzia, giocava con l’amico Edoardo Menichelli, ora arcivescovo di Ancona e presente all’incontro. Ero presente anch’io, accanto ai due, e mi sono sentito come in famiglia. E’ quello che sento anche coi miei amici musulmani di Touggourt. Constato continuamente che quando si lasciano liberi i moti del cuore, questi sono sentiti comuni e più profondi e più forti dei sentimenti religiosi.
Nel libretto Giusti dell’Islam (Pimedit) di Giorgio Bernardelli, leggo delle testimonianze molto belle di musulmani che hanno salvato ebrei nella persecuzione nazista, al rischio della loro vita. Una fra tante, quella di Zejneba Hardagan, donna coraggio di Sarajevo che insieme al marito Mustafa abitava proprio di fronte al quartier generale della Gestapo. Una posizione strategica che permetteva loro di avvertire gli ebrei quando le camionette dei nazisti uscivano per le retate. Ma gli Hardagan fecero di più: aprirono anche le porte di casa all’amico ebreo Yossef Kabilio dicendogli: “Voi siete nostri fratelli. Questa è casa vostra”. Il nome di Zejneva Hardagan fu il primo nome musulmano ad essere inserito nel 1985 nella lista dei “Giusti tra le nazioni”.
“Anche nel mondo islamico di oggi ci sono persone coraggiose che - non solo a parole, ma anche con alcuni gesti concreti -, provano a gettare ponti tra i popoli”.
La più bella è questa: Un cuore nuovo da Jenin
Il 3 novembre 2005, il primo giorno dell’Aid Al Fitr, la festa che conclude il mese sacro di Ramadan, il piccolo Ahmed, dodici anni, ha in mano un fucile giocattolo. Un soldato israeliano scambia il giocattolo per un’arma vera e spara. I medici chiedono ai genitori se sono disposti a donare i suoi organi. Per un palestinese il consenso vuol dire accettare che quel cuore, quel fegato, quei reni porteranno vita a uomini, donne bambini israeliani come il soldato che ha premuto il grilletto. I genitori prima di dire di sì, consultano l’Imam e questi dice: “Dona quegli organi, perché qualcun altro abbia la vita”. E così è successo nella “Jenin dei Terroristi”.
Spesso, quando sento alcuni amici musulmani che lasciano parlare il cuore, mi ritrovo sentimenti e parole universali. Il bello è che nel linguaggio del cuore risento le stesse parole, gli stessi sentimenti di Gesù.
Cose che capitano di p. Adolfo L'imperio
Dhanjuri - 6 luglio 2011
A
Dhanjuri la domenica celebro l'Eucarestia per il villaggio e poi quella nella
cappella dell'ospedale per i malati. Specie in questo periodo delle piogge è
difficile per loro venire sino alla Chiesa parrocchiale.
Ma
c'è sempre qualche novità. All'Eucarestia partecipano il gruppo delle quattro
anziane del lebbrosario (che io definisco le mie ragazze), il gruppo dei bambini
disabili, una decina di ragazzi del boarding che guidano i canti, tre o quattro
cattolici che lavorano in lebbrosario.
La
domenica della solennità del Corpo e Sangue di Gesù, camminando dalla Chiesa
parrocchiale alla Cappella, ricordando le feste del "Cristo" di Gaeta
dei tempi antichi... cercavo di adattare l'omelia per l'uditorio. Arrivo e trovo
la cappella strapiena. Ci sono anche le pazienti del lebbrosario in maggioranza
di fede islamica come le dieci ragazze del corso di cucito, qualche anziano e
tre giovani pazienti lebbrosi... Resto a bocca aperta e mi dico che questo è il
solito scherzo mancino che il Signore compie per vedere a cosa credi, e cosa
predichi... Al momento della comunione la figlia di due anni dell'infermiera
responsabile tende la mano per ricevere anche lei qualcosa che ho dato alla
mamma. Cerco di evadere, dare una carezza, ma lei insiste facendo segno alla
pisside... La guardo. Nei suoi occhi birbanti c'è la richiesta: "Anche a
me".
Anche
questo è uno scherzo del Signore che continua a dire che Lui ha donato il Suo
Corpo perchè tutti abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza. Cosa credi? cosa
dici? Sento che l'esame di teologia pratica della vita è molto piu' difficile
di quello dei libri. In Chiesa i miei gioielli (bambini disabili) sorridono e
dicono che loro vogliono bene a Gesù e si
preparano per la prima comunione.
Gesù
è uno che ti scarta sempre e va diretto al Goal.
Fr.Adolfo
Islam, religione di stato e laicità: le contraddizioni e la "marcia
indietro" del governo
Agenzia Fides - Dacca - 22 giugno 2011
E'
una vera e propria "marcia indietro" quella operata nei giorni scorsi
dal governo del Bangladesh, sul tema della laicità dello stato, riferiscono a
Fides attivisti cristiani per i diritti umani che operano in loco. La Speciale
Commissione parlamentare, incaricata dal governo del Primo Ministro Sheikh
Hasina di vagliare emendamenti alla Costituzione, ha raccomandato di mantenere
l'islam come religione di stato, di conservare l'esordio religioso nel preambolo
della Carta costituzionale ("nel nome di Allah, clemente e
misericordioso") e di consentire la presenza di partiti religiosi nell'arco
Costituzionale. Secondo le minoranze religiose cristiane, induiste e buddiste,
si tratta di un "cambio di rotta" dovuto alle pressioni dei gruppi
fondamentalisti islamici. Il governo, infatti, aveva annunciato nel suo
programma di voler ripristinare la laicità dello stato, e di voler combattere
l'estremismo religioso anche nella politica.
La
mossa ha generato polemiche e disappunto nella società civile. Un'attivista
cattolico di Dacca dichiara a Fides: "Il testo proposto per la modifica
della Costituzione dichiara testualmente che 'l'islam è religione di stato
nella Repubblica, che assicura uguali diritti alle altre religioni': è una
palese contraddizione e crea confusione. Intanto, come cristiani (lo 0,03% dei
160 milioni di abitanti, in larga maggioranza musulmani) ci ritroviamo a vivere
diversi problemi sotto questo cosiddetto governo laico della Awami League".
"Le minoranze religiose, gli intellettuali, gli attivisti della società
civile - prosegue - oggi chiedono il ritorno alla Costituzione del 1972, che era
di stampo laico. Il governo, che in un primo tempo si era detto disponibile,
oggi ha paura delle reazioni degli islamici radicali e ha fatto un passo
indietro". Anche il governo di Hasina, rimarca, "sta facendo un uso
strumentale dell'islam per assicurarsi legittimazione e consenso politico".
Il
Bangladesh era stato dichiarato stato laico nel 1972, ma una serie di
emendamenti costituzionali negli anni successivi e due dittature militari hanno
abbandonato quel principio fino a dichiarare l'islam religione di stato nel
1988. Da quando ha assunto il potere, due anni fa, Sheikh Hasina ha
pubblicamente annunciato una agenda per restaurare la laicità dello stato e
reintrodurre gli originali "quattro principi" alla base della nazione:
democrazia, nazionalismo, laicità e socialismo. (PA)
La necessaria distinzione fra lavoro minorile e sfruttamento
Agenzia Fides - La Paz - 25 giugno 2011
Le
statistiche indicano che oltre 800.000 bambini hanno un lavoro full time in
Bolivia, un quinto della popolazione nella fascia di età compresa tra 5 e 14
anni. Sono ragazzi/e lavoratori lucidascarpe a La Paz, che indossano una
maschera da sci in parte per resistere all'inquinamento, in parte per celare la
propria identità e proteggersi dalla discriminazione; sono controllori delle
tariffe sui bus di Cochabamba; sono lavoratori informali nei mercati di Salar de
Uyuni, dove vendono bottiglie d'acqua ai turisti che visitano le pianure di
sale; sono coltivatori di noci brasiliane per molti mesi all'anno rischiando di
prendere la malaria nelle giungle vicino a Riberalta. Su queste realtà si
sofferma il libro "Diversità in movimento", scritto da Cristiano
Morsolin, esperto dell'Osservatorio sull'America Latina SELVAS, che lavora nella
Regione Andina dal 2001, con l'appoggio di Terre des Hommes TDH Italia e
dell'Organizzazione Cattolica Internazionale per i Diritti dei Bambini (BICE).
Robin
Cavagnoud, dell'Istituto Francese di Studi Andini IFEA di La Paz, in occasione
della presentazione del libro ha sottolineato che "nei paesi andini la
maggioranza dei bambini/e e adolescenti lavoratori si trova nelle zone rurali,
dove la partecipazione economica dei bambini è legata alla loro socializzazione
e sviluppo dentro la comunità e la famiglia, ma non è un'imposizione dei
genitori. I lavori dei campi, accudire gli animali... fanno parte di un'attività
che possiede un'identità culturale". Questi bambini/e e adolescenti
lavorano per aiutare la famiglia, per sostenersi negli studi, per poter
provvedere alle proprie spese personali, per garantirsi un futuro migliore
rispetto ai loro padri e fratelli sepolti dalla silicosi e dagli incidenti nelle
miniere o nelle piantagioni di canna da zucchero. Fin dagli anni '90 si sono
raggruppati in un'organizzazione denominata NATs (Ninos y adolescentes
trabajadores, nell'acronimo in spagnolo) presente in Bolivia, in Sudamerica e
diffusa anche in altre parti del mondo, per rivendicare il proprio diritto a un
lavoro degno, con orari e condizioni di salute adeguate a dei bambini, ma anche
per difendere la propria possibilità di studiare e di giocare come tutti gli
altri.
Va
segnalata la preoccupazione costante della Chiesa cattolica nei confronti dei
bambini lavoratori. Il Cardinale Julio Terrazas Sandoval, Arcivescovo di Santa
Cruz de la Sierra, ha sottolineato che "il regno di Dio si esprime quando
sentiamo affetto e amore per quelle migliaia di bambini che lavorano in strada o
che vanno a lavorare come se fossero adulti, che hanno perso il tempo della loro
infanzia, che sono minacciati da molte cose. Però non dobbiamo solo rallegrarci
perché si celebra la Giornata del bambino lavoratore, ma dobbiamo pensare che
nel piano di Dio, nel Regno di Dio non è previsto che bambini così piccoli non
abbiano la possibilità di essere liberi e che non venga riconosciuta la loro
dignità".
Nel
2009 è stata approvata la nuova Costituzione boliviana: nell'articolo 61 si
riconosce che "lo Stato proibisce il lavoro forzato e lo sfruttamento
minorile. Le attività che realizzano i bambini, le bambine e gli adolescenti in
ambito familiare e sociale sono orientate alla loro formazione integrale, come
cittadini e cittadine, e devono avere una funzione formativa. I loro diritti,
garanzie e meccanismi istituzionali di protezione saranno oggetto di una
regolamentazione speciale". Questo storico riconoscimento dei Movimenti
Sociali NATs è il frutto di una grande mobilitazione dei bambini lavoratori. E'
la prima volta nella storia moderna dell'umanità che una Costituzione (e non
solo il codice dell'infanzia) riconosce il lavoro minorile in condizioni
dignitose. Quel che vogliono i movimenti sociali NATs è che si faccia
distinzione fra lavoro minorile - che per loro è una necessità economica, data
dalla povertà - e sfruttamento, che è il lavoro dei bambini in situazioni di
grande pericolosità, come il lavoro in miniera o la coltivazione della noce
brasiliana o della canna da zucchero. (SL)
Costruire un modello educativo di apprendimento di qualità, equo e giusto, è
compito di tutti
Agenzia Fides - Santiago - 25 giugno 2011
Nel
contesto delle proteste degli studenti, i Vescovi cileni hanno sottolineato
l'urgenza di ricercare proposte che riscuotano un ampio consenso, al fine di
poter dare il via ai processi che rispondano alle giuste richieste. Il portavoce
della Conferenza Episcopale del Cile, Jaime Coiro, ha presentato di recente un
comunicato firmato dal Presidente della Conferenza Episcopale, Mons. Ricardo
Ezzati, e dal Presidente dell'area dell'Istruzione, Mons. Héctor Vargas. Il
testo afferma che la Chiesa cilena segue con attenzione le richieste del
movimento degli studenti (vedi Fides 19/05/2011) considerando anche che il
dibattito acceso intorno al sistema educativo è un segno di malessere di cui la
società nel suo complesso deve farsi carico.
Nel
testo del comunicato dei Vescovi, inviato all'Agenzia Fides, si legge: "C'è
una lunga strada da percorrere nel compito di costruire un modello educativo di
apprendimento di qualità, equo e giusto, dove ogni studente, indipendentemente
dalla sua condizione personale e sociale, abbia assicurata la formazione
necessaria per svilupparsi pienamente, per costruire un progetto di vita
completo e per contribuire generosamente, con tutta la sua ricchezza, alla
società del suo tempo".
I
Vescovi riconoscono inoltre che esiste, in questo settore, un debito grave. Si
è affermato molte volte che lo sforzo per migliorare la qualità
dell'insegnamento e renderlo più equo, richiede un lavoro che deve coinvolgere
lo Stato, le istituzioni educative, gli insegnanti, le famiglie e gli studenti:
"è urgente portare avanti la ricerca di proposte di grande consenso, per
guidare e dirigere i processi che permettano di rispondere alle giuste
richieste".
In
questo contesto, si è detto chiaramente che le misure arbitrarie e la violenza
verbale o fisica non sono la via per risolvere il problema, ma soltanto
"una reale volontà di dialogo aiuterà a risolvere il delicato clima di
polarizzazione che sta guidando il dibattito e le mobilitazioni associate ad
esso", concludono i Vescovi. (CE)
Disastro inondazioni in Cina: cinque milioni di persone a rischio
AsiaNews - Pechino - 20 giugno 2011
Piogge
torrenziali continuano a cadere nell'Hubei e nello Zhejiang. Sono le alluvioni
più forti registrate dal 1955. L'esercito ha evacuato centinaia di migliaia di
persone. La siccità al centro e al nord, e le inondazioni all'est hanno
provocato la perdita dei raccolti. Si temono ripercussioni a livello mondiale
sui prezzi.
Più
di cinque milioni di persone stanno soffrendo gravemente per alluvioni
disastrose nella Cina orientale. Piogge torrenziali continuano a cadere, e di
conseguenza ampie zone dell'Hubei e dello Zhejiang sono sotto l'acqua, affermano
le fonti ufficiali. Oltre mille fabbriche sono state distrutte dalle
inondazioni, e i raccolti sono andati perduti, facendo crescere in maniera
straordinaria il preso del cibo. Le
inondazioni di quest'anno sono le peggiori mai verificatesi nel Paese dal 1955.
Già 170 persone sono morte, o mancano all'appello in conseguenza del disastro.
Il governo ha mobilitato l'esercito, per evacuare centinaia di migliaia di
persone dalle zone a rischio di essere inondate, e il livello di allarme è
stato innalzato al livello quattro. Le inondazioni hanno creato frane e
smottamenti che hanno seppellito sotto il fango case e villaggi. Varie persone
hanno perso la vita così. Le inondazioni sono arrivate dopo che la siccità aveva distrutto la produzione agricola nel centro e nel nord del Paese. Alcune zone lungo lo Yangtze hanno vissuto il peggiore periodo di siccità in un secolo. |
La situazione dei raccolti, e delle riserve alimentari è giudicata molto seria, dalle autorità.
Gli analisti pensano che la scarsità di alimenti in Cina potrà avere una ricaduta a breve termine sul prezzo di grano riso e altri cereali a livello mondiale.
Il governo congolese vara un piano per i bambini di strada
Agenzia Fides - Kinshasa - 20 giugno 2011
Il
governo della Repubblica Democratica del Congo (RDC) ha lanciato un progetto per
i bambini di strada. Il programma è stato presentato da Ferdinand Kambere
Kalumbi, Ministro degli Affari Sociali, dell'azione umanitaria e della
solidarietà nazionale. Il progetto mira in primo luogo a far fronte alle gravi
problematiche che questi giovani devono affrontare: l'estrema povertà, i
conflitti, la malnutrizione, la malaria, l'abbandono e i maltrattamenti, le
peggiori forme di lavoro, l'AIDS.Secondo il Ministro degli Affari Sociali, nella
RDC vi sono circa 60.000 bambini di strada dei quali 14.000 nella capitale,
Kinshasa. Il 74% sono ragazzi e il 26% ragazze. Il 20% di questi non ha mai
frequentato la scuola, mentre il 64% ha la licenza primaria.
Secondo don Paul Augustin Madimba, parroco di Notre-Dame de Grâce a Kinshasa, che è stato intervistato dal quotidiano "Le Potentiel", "la ragione principale di questo fenomeno va ricercata nella situazione sociale del Paese. La miseria nella quale la popolazione marcisce ha gettato diverse famiglie nell'instabilità totale. I genitori sono senza lavoro e non sanno come assumersi le loro responsabilità. Persino la famosa solidarietà africana non esiste più. Lo prova il fatto che diversi bambini di strada sono vittime dei maltrattamenti dei parenti dei loro genitori ed altri, dell'assenza di questi ultimi". Secondo il sacerdote, la soluzione per uscire da questa situazione è combattere la povertà attraverso lo sviluppo, e potenziare il sistema scolastico. (L.M.)
Braccio di ferro sui diritti umani
Misna - 22 giugno 2011
Decine
di persone vicine all'ex presidente Laurent Gbagbo "detenute
arbitrariamente", cioè senza alcun capo di accusa formale, e altre
"maltrattate" dai soldati del neo presidente Alassane Dramane
Ouattara: è l'ultima denuncia di violazione dei diritti umani formulata da
Amnesty International. L'organizzazione di difesa dei diritti umani riferisce
che a più di due mesi dell'arresto di Gbagbo, una cinquantina di persone
versano in condizioni difficili, tra cui personalità politiche di primo piano.
Secondo Amnesty International, "21 persone sono trattenute presso l'albergo
La Pergola di Abidjan", sotto custodia dei caschi blu della locale missione
Onu (Onuci). L'organizzazione aggiunge che "alcune di loro ho subito
maltrattamenti da parte delle Forze repubblicane di Costa d'Avorio (Frci) e
sotto gli occhi del soldati francesi della Licorne". In base ad un elenco
pubblicato dal procuratore della Repubblica, circa 200 persone dell'entourage di
Gbagbo sono attualmente colpite da misure restrittive. In conferenza stampa il
ministro dei Diritti umani e delle libertà pubbliche, Gnenema Coulibaly, ha
sottolineato che le procedure avviate sono rispettose della legalità giuridica.
"Sono
due suoni di campane opposti: il governo parla di tutela e di assegnazione a
residenza coatta di personalità legate all'ex regime mentre le organizzazioni
di difesa dei diritti umani denunciano detenzioni, maltrattamenti e violazione
dei diritti umani. Di giorno in giorno la polemica cresce sulla questione"
dice alla MISNA una fonte della società civile contattata nella capitale
economica. Ad ogni modo per Amnesty International "non è un inizio di
mandato incoraggiante per la presidenza Ouattara" ha detto la vice
direttrice dell'organizzazione, Véronique Aubert, mentre le autorità ivoriane
annunciano l'avvio delle indagini per chiarire le responsabilità nei crimini
post-elettorali che hanno portato alla morte di 3.000 persone. Un apposito
ufficio per raccogliere le deposizioni di decine di testimoni è stato aperto a
Cocody (est Abidjan) mentre investigatori verranno inviati su tutto il
territorio nazionale ha assicurato il ministro della Giustizia, Jeannot
Ahoussou, precisando che due procedure sono aperte, la prima sul versante
economico la seconda sui crimini perpetrati. Inoltre una missione preliminare
della Corte penale internazionale (Cpi) si recherà in Costa d'Avorio dal 27
giugno al 4 luglio per valutare la situazione prima di inviare investigatori in
via ufficiale. [VV]
54.000 rifugiati riconosciuti, senza attenzione e sicurezza"
Agenzia Fides - Quito - 22 giugno 2011
"Non
serve a nulla avere 54.000 rifugiati riconosciuti, se non gli si offre
sufficiente attenzione e sicurezza" denuncia la Fondazione Scalabrini
Ogni
giorno inventa uno stratagemma nuovo, come passare da una città all'altra o
modificare l'aspetto con vestiti e taglio dei capelli. José L. preferisce
l'anonimato per evitare di essere catturato da gente armata che lo perseguita.
E' uscito dal suo paese dopo essere sfuggito ad un rapimento da parte di gruppi
irregolari ed è arrivato in Ecuador via terra, in cerca di rifugio. "Sono
venuto con niente, pensando che avrei trovato un futuro migliore qui, perché
qui non c'era il problema che avevo nella mia terra, era più facile passare il
confine, potevo stare in un paese non troppo lontano".
Questo
è il racconto pubblicato da un giornale di Quito, di cui copia è stata inviata
all'Agenzia Fides, a motivo della Giornata del Rifugiato. Motivi analoghi a
quelli di José L. hanno spinto la maggior parte dei rifugiati che vivono oggi
in Ecuador. Il 98,5% viene dalla Colombia e la maggior parte sono donne e
bambini. Questo numero fa della Colombia il paese con il maggior numerose di
persone accolte in altre nazioni dell'America Latina, secondo l'Alto Commissario
dell'ONU per i Rifugiati (ACNUR). Le diverse organizzazioni che lavorano con
questa fascia della popolazione, come la Missione degli Scalabriniani in
Ecuador, rilevano che la risposta dello Stato ecuadoriano e degli organismi
impegnati in questo settore è ancora troppo limitata.
Janeth
Ferreira, direttrice della Fondazione Scalabrini, afferma nel suo intervento sul
giornale di Quito che "lo Stato legalizza solo lo status di rifugiato,
concedendo i visti. Ma per ciò che riguarda i servizi sociali, come la
protezione e l'integrazione, praticamente non c'è nessun contributo da parte
del Governo". Anzi, aggiunge, piuttosto ci sono difficoltà amministrative
per il rinnovo annuale del visto, soprattutto per coloro che vivono nelle zone
di confine come San Lorenzo e hanno bisogno di recarsi negli uffici di Quito,
Tulcan o Ibarra per le pratiche.
"Non
serve a nulla avere 54.000 rifugiati riconosciuti, se non gli si offre
sufficiente attenzione e sicurezza" denuncia la Ferreira, aggiungendo che
molte persone rifugiate sono costrette a rimanere chiuse nelle loro case per
paura di essere perseguitate anche in territorio ecuadoriano. "Lo Stato non
dà loro sicurezza". Per questo José L. preferisce essere in rotazione
costante in tutto il paese. Un giorno, camminando per le strade di una città
dell'Ecuador, ha riconosciuto uno dei suoi rapitori, così ha cambiato subito
città per evitare qualsiasi rischio.
Janeth
Ferreira racconta che "alcune persone non vogliono neppure la tessera di
rifugiato. Infatti se fai domanda per un lavoro o per affittare una casa, quando
mostri il documento di identità su cui c'è scritta la parola 'refugiado', le
persone ti guardano con paura". In molte scuole e centri sanitari dicono
loro "non c'è posto per gli ecuadoriani, figuriamoci per gli
stranieri."
La
direttrice della Fondazione Scalabrini afferma che l'assistenza dipende molto da
quello che realizzano le organizzazioni della società civile. Ma il lavoro è
isolato, in assenza di una politica pubblica al riguardo. L'unica proposta dello
Stato, attraverso il Ministero degli Affari Esteri, è il rinnovo del visto
annuale e l'aggiornamento delle informazioni. In occasione della Giornata
Mondiale del Rifugiato, Antonio Gutierres, responsabile dell'ACNUR a Quito, ha
annunciato che circa 1.000 rifugiati lasceranno l'Ecuador per andare negli Stati
Uniti, in Canada, Nuova Zelanda, Brasile e Cile.
La legge sugli edifici di culto è oscura. I dubbi delle comunità cristiane
AsiaNews - Il Cairo - 21 giugno 2011
La
bozza prevede che gli edifici religiosi debbano distare almeno 1 km da altri già
esistenti, ma non spiega se moschee o chiese. Contestati anche il limite minimo
di grandezza pari a 1000 mq e la gestione delle autorizzazioni data in mano ai
governatori regionali.
La
nuova legge per la regolamentazione dei nuovi edifici religiosi proposta dal
Consiglio delle forze armate egiziano è confusa e non convince i rappresentanti
delle minoranze cristiane, che in questi giorni hanno chiesto chiarimenti alle
autorità.
P.
Rafic Greiche, portavoce della Chiesa cattolica egiziana, spiega che nella legge
vi sono diverse incongruenze e almeno tre punti dell'attuale bozza devono essere
riesaminati. "Per prima cosa - afferma il sacerdote - occorre notare che
questo disegno legifera per la prima volta anche la costruzione di moschee e non
fa distinzioni fra islam e minoranze. Secondo il progetto i nuovi edifici
religiosi devono distare almeno 1 km da costruzioni già esistenti. Tuttavia
nella bozza non è specificato se tale regolamento riguarda gli edifici di una
stessa religione, ad esempio chiesa copta, protestante o cattolica, oppure fra
religioni differenti, ad esempio islam e cristianesimo".
Il
secondo punto contestato riguarda le dimensioni minime di un edificio, che deve
essere di almeno 1000 mq. "Trovare le risorse per un edificio di questa
grandezza - spiega p. Greiche - è molto difficile e in molti casi praticamente
impossibile. Nell'alto Egitto dove le comunità cristiane sono molto piccole e
sparse nei villaggi una chiesa di queste dimensioni non serve. Gli edifici già
presenti non superano i 200 mq. Inoltre, soprattutto in città, è difficile
trovare terreni liberi così estesi".
Il
terzo punto riguarda invece l'autorizzazione alla costruzione degli edifici di
culto, che per i cristiani passa dal presidente della repubblica ai governatori
regionali. "Lo Stato - sottolinea p. Greiche - lascia alle autorità
regionali la facoltà di dare in ultima istanza il benestare per chiese e
moschee. Tuttavia nel disegno non è previsto alcun criterio per autorizzare o
meno l'uno o l'altro edificio religioso".
Secondo
il sacerdote il rischio è una applicazione arbitraria della legge a scapito
delle minoranze.
Proposta
lo scorso 2 giugno, la legge è considerata il primo frutto della rivoluzione
dei gelsomini e del nuovo Egitto del dopo Mubarak. Essa nasce con l'intento di
eliminare le assurde regole burocratiche, che per decenni hanno impedito ai
cristiani di costruire nuove chiese, fra tutte l'obbligo di chiedere
l'autorizzazione al presidente della repubblica o al primo Ministro. Durante il
governo Mubarak i progetti venivano spesso bloccati dalle comunità musulmane,
nonostante l'autorizzazione delle alte cariche dello Stato. In molti casi gli
edifici venivano rasi al suolo da gruppi radicali islamici oppure per vendette
famigliari, utilizzando come pretesto la poca sicurezza o l'utilizzo di
materiali scadenti per costruire l'edificio, costringendo le minoranze a
ricominciare dall'inizio l'iter di approvazione. (S.C.)
Manila, 11 dispersi e 50mila sfollati per la tempesta tropicale Falcon
AsiaNews
- Manila - 24 giugno 2011
Circa 10mila le famiglie evacuate nelle baraccopoli della periferia di Manila. Strage evitata grazie al nuovo piano di evacuazione realizzato dopo i 500 morti della tempesta Ketsana avvenuta nel 2009. Nelle prossime ore Falcon raggiungerà le coste di Taiwan.
E'
di 11 dispersi e oltre 50mila sfollati il bilancio della tempesta tropicale
"Falcon", che ha colpito nella notte la capitale Manila e i centri di
Quezon City, Taguig, Valenzuala e altre zone dell'isola di Luzon. Piogge
torrenziali e venti superiori a 100 km/h hanno provocato smottamenti nei
sobborghi della capitale e in altre aree del Paese. Secondo
il National Disaster Risk Reduction le famiglie colpite sono circa 10mila, ma
non si registrano morti, grazie al piano di evacuazione elaborato in seguito al
disastro della tempesta Ketsana che nell'ottobre 2009 uccise oltre 500 persone e
allegato quasi metà di Manila. Per sicurezza le autorità hanno chiuso scuole e
uffici pubblici. In
queste ore Falcon si sta dirigendo verso l'isola di Taiwan. Secondo il
Dipartimento di Scienze dell'Università di Manila la tempesta tropicale sta
aumentando di intensità e potrebbe trasformarsi in tifone.
|
Kerala: la "polizia morale" aggredisce una donna perché è in
strada di notte
AsiaNews - Mumbai - 22 giugno 2011
L'episodio
ha avuto come vittima una donna di 31 anni che lavora come tecnico all'Infopark
di Kochi. Sajan K George, presidente del Global council of India christians
(Gcic): "Incidenti del genere sono manifestazioni dell'onda crescente di
fondamentalismo che sta affondando le sue radici in Kerala".
Una
donna di 31 anni che lavora come tecnico alla società It all'Infopark di
Kakkanad, a Kochi, nel Kerala, è stata brutalmente aggredita da un gruppo di
persone che sostenevano di svolgere un ruolo di "polizia morale"
religiosa. L'incidente è accaduto il 19 giugno, verso le 22.30. Tasni Banu,
questo il nome della donna, stava viaggiando in bicicletta con un'amico, quando
un gruppo di uomini le ha gridato contro: "Non vi permetteremo di rendere
questo luogo un'altra Bangalore, dove le ragazze girano di notte e vanno alle
feste".
Il
racconto di Tasni Banu continua così: "In seguito una decina di persone mi
hanno insultata, usando parole volgari. Quando ho chiesto la ragione del loro
comportamento, mi hanno aggredita. Uno di loro mi ha preso a ceffoni, sono quasi
svenuta". Il Primo ministro del Kerala ha chiesto spiegazioni sull'accaduto
alla polizia. E' una preoccupazione crescente questa, perché molte ragazze
vengono aggredite in questo modo in Kerala negli ultimi tempi, da elementi
antisociali. I facinorosi l'hanno avvertita in tono minaccioso di non girare per
strada di notte, e di non seguire i costumi di Bangalore.
Tasni
Bani ritiene che almeno uno degli aggressori fosse ubriaco. La polizia invece
ritiene che dietro questo incidente vi sia l'opera dei fondamentalisti.
"Abbiamo raccolto informazioni sulle persone che hanno attaccato la
ragazza. E ben presto li assicureremo alla giustizia" ha dichiarato
l'assistente Commissario di polizia di Thrikkakara T R Prakash.
La
polizia ha registrato le dichiarazioni di Tasni Banu, che è stata ricoverata in
ospedale con ferite lacero-contuse al collo e alle mani. "Le donne non sono
sicure nelle strade di Kochi. L'attacco riflette l'atteggiamento della società
verso le donne che escono di sera", ha aggiunto Tasni. La polizia pensa di
aver identificato uno degli aggressori, certo Thajuddin, guidatore di auto-risciò.
Sajan
K George, presidente del Global council of India christians (Gcic) ha dichiarato
ad AsiaNews: "Incidenti del genere sono manifestazioni dell'onda crescente
di fondamentalismo che sta affondando le sue radici in Kerala, e di come una
parte della società musulmana perseguita i suoi stessi membri. Alcuni anni fa
Tasni Banu è stata all'onore delle cronache percé ha sfidato i fondamentalisti
di Malappuram, dal momento che ha scelto di sposarsi in base allo Special
marriage act. All'epoca, Tasni Banu ha dovuto affrontare l'ira non solo dei suoi
genitori, ma anche quella di un gruppo di fondamentalisti, che le imposero gli
arresti domiciliari e poi l'hanno ostracizzata".
Secondo
p. Paul Thelakat, portavoce della Chiesa siro-malabarese, questa cosiddetta
"polizia morale" è il risultato di una più ampia deriva della società
indiana, travolta dall'invasione di una cultura di mercato: "La rivoluzione
sessuale in atto tra i giovani provoca due reazioni opposte: da una parte, una
libertà di costumi estrema tra ragazzi e ragazze; dall'altra, reazioni immorali
e deprecabili come questo episodio". Oggi "nessuna ragazza potrà mai
accettare di essere soggetta al volere di un altro uomo, fosse anche un fratello
- continua - ma la scelta non potrà mai essere tra l'essere liberi, rischiando
la vita, o dei fondamentalisti pronti ad uccidere in nome della moralità".
(N.C.)
La forte scossa morale che serve al Paese
Famiglia Cristiana - 22 giugno 2011
L'Italia
peggiore è quella della corruzione e della "casta".
Un
ministro, in una manifestazione pubblica, si è permesso di definire i precari
"la parte peggiore d'Italia". Frase, a dir poco, infelice. Come la
penosa giustificazione che ne è seguita. Preoccupa che un membro del Governo
offenda così una delle fasce sociali più sofferenti del Paese. È assurdo. C'è,
allora, da chiedersi: come intende risolvere il problema del precariato? È
soltanto un fastidio? Episodio inquietante, perché è la spia del distacco
della politica dalla gente e dai problemi reali del Paese. Al disagio non si
risponde con l'insulto. Tanto meno con sarcasmo e arroganza. In
Italia i precari sono circa quattro milioni. Soprattutto giovani. Dunque, la
parte più dinamica e sana del Paese. Quella più ricca di energie, progetti e
sogni. Che non riesce a incanalare il proprio futuro, a costruirsi un lavoro
stabile, una famiglia, un'esistenza più serena. Eppure, sono il futuro
dell'Italia. Un Paese normale dovrebbe investire sui giovani. Non basta
invitarli ad "andare a scaricare cassette ai mercati generali",
"a mettersi in proprio " o a "darsi da fare, magari cercando
fortuna per il mondo". |
I
politici sono stati eletti per dare risposte. Ci vogliono progetti, leggi,
investimenti. Se in Italia l'ascensore sociale è bloccato, non basta indicare,
con sufficienza, le scale. Anche Benedetto XVI, nella sua visita a San Marino,
ha ricordato che "nell'attuale fase storica e sociale, non va dimenticata
la crisi di non poche famiglie, aggravata dalla diffusa fragilità psicologica e
spirituale dei coniugi, come pure la fatica sperimentata da molti educatori
nell'ottenere continuità formativa nei giovani, condizionati da molteplici
precarietà, prima fra tutte quella del ruolo sociale e della possibilità
lavorativa".
A
noi pare che l'Italia peggiore sia un'altra. Quella di una politica parolaia e
inconcludente, arroccata solo a difesa dei propri privilegi. L'Italia peggiore
è quella di chi continua a tagliare risorse alle fasce più deboli: disabili,
anziani, famiglie. O l'Italia della corruzione dilagante, degli appalti
truccati. Dove, con cinismo, si lucra su tutto. Anche sui pannoloni degli
anziani. Il Paese è stanco, stremato. Ma ha voglia di reagire. I recenti
passaggi elettorali hanno dato un segnale chiaro e forte all'intera politica. C'è
un malessere sociale molto diffuso. Gli "indignati", come in Spagna,
presto possono fare capolino anche nel nostro Paese.
Non
basta distogliere l'attenzione dai problemi reali, dando ancora addosso allo
straniero. O facendo il gioco delle tre carte con i ministeri, spostandoli da
una città all'altra. Il Paese ha bisogno di ben altro. Soprattutto, di una
scossa morale e una classe politica più credibile. Con ministri all'altezza,
che pensino all'unità e al bene del Paese. Non a trastullarsi tra proposte
inaccettabili (vedi gli incentivi agli insegnanti del Nord) e interessi di
bottega. Davvero di bassissima lega.
Immigrati,
troppi diritti violati di Luciano Scalettari
Famiglia
Cristiana - 21 giugno 2011
Il
decreto Maroni prolunga fino a 18 mesi la permanenza nei Cie e l'allontamento
coatto dall'Italia per i clandestini. Dure (e motivate) critiche della società
civile.
È
un coro di reazioni dure e allarmate quello che ha accolto l'annuncio del
ministro dell'Interno Roberto Maroni (Lega) secondo il quale il periodo di
detenzione nei Cie (Centri di identificazione ed espulsione) potrà "essere
prolungato dagli attuali 6 mesi fino a un massimo di 18 mesi, per consentire
l'identificazione o l'effettiva espulsione", come ha detto lo stesso
ministro. La società civile, le organizzazioni di tutela dei diritti umani e in particolare gli organismi che si occupano di immigrazione e di cooperazione internazionale denunciano l'illegittimità di questa nuova norma (votata in Consiglio dei ministri il 16 giugno) e le ulteriori violazioni dei diritti umani che ne conseguiranno nei confronti degli immigrati. Maroni ha annunciato che "il decreto è importante perché dà attuazione a due direttive europee". "Si trattava", ha aggiunto, "di un problema di interpretazione e noi - nel pieno rispetto della direttiva - abbiamo fornito questa interpretazione". |
Ma sono molti a contestare le dichiarazioni del ministro.
Ad esempio Jean Leonard Touadi, parlamentare del Pd: "La dilatazione dei
mesi di trattenimento, di fatto una vera e propria detenzione senza i diritti
che costituzionalmente spettano ai normali detenuti, va nella direzione opposta
alla direttiva europea sui rimpatri del 2008 che richiede di limitare la durata
massima della privazione della libertà nell'ambito della procedura di
rimpatrio". "Invece", insiste Touadi, "il Governo recepisca
immediatamente, come da tempo ha il dovere di fare, la Legge Comunitaria -
tutta, e non nelle parti che fanno più comodo - che ancora langue in Parlamento
in attesa di approvazione. Non c'è bisogno di stravaganti
"interpretazioni" della norma europea. Basta accoglierla nel nostro
ordinamento. Dice cose ben diverse da quello che sostiene il ministro
Maroni".
Preoccupata
anche la nota di padre Giovanni La Manna, presidente del Centro Astalli
(Servizio dei Gesuiti per i rifugiati): "Prolungare il trattenimento nei
Cie è per noi assurdo", ha commentato il gesuita. "È un modo per
esasperare ulteriormente gli animi. Qual è il senso di queste iniziative, che
mirano a mortificare la dignità delle persone?". "Si tratta di un
ulteriore segnale che indica la mancanza di volontà di governare
responsabilmente la situazione", ha aggiunto padre La Manna. "La mia
esperienza personale mi porta ad affermare che nei Cie è possibile incontrare
persone che non sono colpevoli di aver commesso alcun reato" (il
centro Astalli presta da tempo assistenza, anche legale, agli stranieri detenuti
nel Cie di Ponte Galeria, a Roma, ndr). "Le persone che incontriamo nel
Cie", conclude il responsabile del Centro Astalli, "spesso non
riescono nemmeno a capire cosa stia loro succedendo e perché si trovino lì.
Molti sentono parlare della possibilità di chiedere asilo in Italia per la
prima volta proprio durante questi colloqui. In queste strutture purtroppo non
c'é progettualità. Si tratta di posti di mero contenimento nei quali si vive
in condizioni disumane e di estrema sofferenza".
Le
vere sofferenze e le false paure di Fulvio Scaglione
Avvenire - 21 giugno 2011
Interpellati
non assediati
L'Anno
di, la Giornata del... Tutte le ricorrenze possono generare, prima o poi,
frustrazione (per gli obiettivi non raggiunti) e tedio (per la ripetizione del
messaggio). Non è questo il caso della Giornata mondiale del rifugiato che,
anzi, è arrivata quest'anno proprio nel momento e nel luogo in cui è massima
l'attenzione verso il problema. Guerre, violenze e disastri naturali hanno
generato, nel 2010, quasi 44 milioni di fuggitivi. Di questi, ha specificato
l'Alto commissariato Onu per i profughi, 15,4 milioni sono rifugiati, 27,5
milioni sono sfollati interni al Paese d'origine e 850mila sono richiedenti
asilo. Un anno tragico che andrà ad appesantire un bilancio già drammatico:
sono più di 7 milioni, oggi, i rifugiati che vivono in un Paese diverso dal
loro da più di 5 anni.
Se
questo è il momento, l'Italia è il luogo. Siamo la porta dell'Europa rispetto
ad alcune delle rotte più battute dai migranti. Con la crisi del Maghreb e del
Medio Oriente, che è andata ad accavallarsi a quelle dal punto di vista
umanitario "storiche" di Eritrea, Somalia e Sudan, siamo anche il
cancello continentale ai cui piedi si ammassa un'umanità dolente in cerca di
scampo (anche se solo una minoranza lascia il Sud per il Nord del mondo).
Non
tutti coloro che cercano rifugio pensano o sperano di ottenerlo da noi. Però il
primo sbarco avviene qui e sul nostro Paese si deposita una doppia responsabilità:
pratica (perché è il Paese del primo sbarco quello che deve poi rispondere
alla richiesta d'asilo) e morale, perché quel che facciamo noi riguarda anche
un'Europa fin troppo pronta a "distrarsi" nelle fasi dell'emergenza.
Ma
appunto: di quale emergenza stiamo parlando? Mentre una certa politica
favoleggia di blocchi navali, è lo stesso ministro dell'Interno Maroni a dirci
(31 maggio) che il flusso dalla Tunisia si è ormai fermato e che dalla Libia
sono arrivate circa 18mila persone, "per lo più provenienti dai Paesi
subsahariani, eritrei e somali".
Tutti
richiedenti asilo o protezione internazionale, con buone possibilità di
ottenere l'uno o l'altra. L'Europa unita ha 500 milioni di abitanti, l'Italia
60: quei 18 mila sono, sarebbero un peso eccessivo? In Europa, l'Italia è al
nono posto per le richieste d'asilo, che sono state poco più di 10mila nel 2010
contro le 17mila del 2009, un calo del 42,9%. E nei 44 Paesi più
industrializzati dedl mondo, le domande d'asilo nel 2010 sono calate del 42%
rispetto al 2001.
Mentre
riflettiamo sui numeri, la tv ci mostra le scene consuete. I campi profughi in
Tunisia (Paese che ha accolto finora 290mila libici e circa 200mila persone
fuggite dalla Libia ma di diversa nazionalità) o in Egitto, la fuga dei siriani
verso la Turchia o il Libano, e così via. Tra i cinque principali Paesi
d'accoglienza, solo uno, la Germania, appartiene al Gotha delle nazioni
industrializzate, e si trova al quarto posto, preceduta da Pakistan (per gli
afghani), Siria (per gli iracheni) e Iran e seguita dalla Giordania. Poi vengono
Tanzania, Ciad e Kenya. Tra l'80 ed il 90% dei profughi e dei rifugiati,
insomma, si trova nei Paesi poveri o del Terzo Mondo.
Tutti
dicono e scrivono che le migrazioni (quelle causate dalla violenza come quelle
generate dal bisogno economico) sono un fenomeno planetario. Davvero crediamo di
affrontarlo scaricandone l'impatto sulle nazioni più deboli? E davvero pensiamo
che questa tattica non ci presenterà mai il conto? La Giornata del rifugiato,
quindi, è anche una giornata profondamente nostra. Quella in cui celebriamo, o
rimpiangiamo, la capacità di guardare avanti e di pensare il futuro prima che
lui pensi noi.
La
Cei contro la secessione di Alberto Bobbio
Famiglia
Cristiana - 20 giugno 2011
Monsignor
Bregantini boccia gli slogan di Pontida. I ministeri al Nord sono
"disprezzo" per il Sud. Al vescovo il Premio Di Liegro.
"La
Chiesa deve frenare queste mire secessionistiche". Monsignor Giancarlo
Bregantini, presidente della Commissione della pastorale sociale e del lavoro
della Conferenza episcopale italiana, parla alla Radio Vaticana a nemmeno 24 ore
dal discorso di Umberto Bossi sul pratone di Pontida e boccia senza appello
l'intervento del "senatur". Ma Bregantini definisce anche la richiesta
di spostare alcuni ministeri al Nord "un gesto di grandissimo disprezzo per
il Sud". Le sue parole sono perfettamente in linea con quanto la Conferenza
episcopale e il suo presidente il cardinale arcivescovo di Genova Angelo
Bagnasco, ripetono da tempo e cioè che se il federalismo "disgrega"
non è più un "valore", ma è "un disvalore".
Secondo
Brigantini "le difficoltà economiche, la crisi istituzionale, anche dopo
gli sconvolgimenti prodotti dai referendum e dalla elezioni, hanno indotto in
molto elettorato un clima di paura e di chiusura". Questo spiega la
"grande tentazione" della secessione. Ma "la crisi non si vincerà
mai da soli, rintanandosi, si vince piuttosto riaprendosi, perché solo così
sarà possibile far entrare aria nuova". L'invito è quello di
"sfidare il futuro" e non "rannicchiarsi dentro i propri
egoismi". Sulla proposta dei ministeri al Nord è molto deciso:
"L'Italia del sud sarà ancora più deprivata". Per Brigantini il Nord
"non ha bisogno di strutture amministrative per motivi di lavoro":
"Al Nord serve progettualità, ha bisogno di intraprendere". Ma
occorre "coraggio" e non "tecnicismo". La Chiesa deve
"motivare la passione dell'intraprendere dei cristiani". A Bregantini
domani alla Pontificia Università Gregoriana verrà consegnato il Premio
"Luigi Di Liegro", il fondatore della Caritas di Roma, scomparso
prematuramente qualche anno fa, destinato a chi si è distinto nel diffondere le
idea di un'economia più giusta.
Vescovo di Tripoli: le bombe Nato rischiano di fare il gioco di Gheddafi
AsiaNews - Tripoli - 21 maggio 2011
Bombe
Nato sulla residenza di un fedelissimo del rais. Il regime reclama 19 vittime.
Mons. Martinelli sottolinea che la popolazione vuole la fine dei bombardamenti e
si sta stringendo intorno al proprio leader. Rappresentante dei ribelli in Cina
per trovare una via d'uscita dalla guerra e stringere accordi economici con
Pechino.
"La
popolazione libica vuole la fine dei raid aerei. Se la Nato continua a lanciare
bombe e fare vittime fra i civili rischia di fare il gioco di Gheddafi, che sta
ritornando ad essere un punto di riferimento per la gente che in questo momento
sente il bisogno di un leader". È quanto afferma ad AsiaNews, mons.
Giovanni Martinelli, Vicario apostolico di Tripoli. "La Nato pur ammettendo
di aver ucciso civili, continua a bombardare - sottolinea - la popolazione è
disgustata da questo atteggiamento, che non risolve nulla". Ieri, nella
località di Sorman (70 km a est di Tripoli) i raid hanno distrutto l'abitazione
di Khouildi Hamidi, fra i fedelissimi del rais, considerato da fonti locali
molto amato dalla gente. Secondo il regime vi sarebbero almeno 19 vittime
civili, fra cui 8 bambini. Finora la Nato ha ammesso il bombardamento,
specificando la natura militare e strategica dell'obiettivo e nega di aver fatto
vittime.
Mons.
Martinelli spiega che questi fatti allontanano la possibilità di un accordo
diplomatico prima di settembre, termine fissato dalla Nato per la fine delle
operazioni militari. Il prelato dice che "se i leader di entrambe le parti
non ricorrono alla via diplomatica il futuro della Libia si fa sempre di più
incerto".
Una
fonte di AsiaNews, anonima per motivi di sicurezza, avverte sul rischio di
un'escalation di violenza fra le varie fazioni in cui è diviso il popolo
libico. "Bisogna fare di tutto per portare questo popolo alle elezioni -
afferma la fonte - altrimenti si rischia una guerra ancora più sanguinosa fra
tribù che potrebbe provocare un vero genocidio".
Intanto,
i ribelli di Bengasi si uniscono al dolore delle famiglie delle vittime uccise
dal raid Nato dello scorso 19 giugno. Tuttavia ritengono il rais l'unico
responsabile di questa situazione di guerra iniziata per difendere e liberare il
popolo libico dal regime. Oggi, Mahmud Jibril, incaricato per i rapporti con
l'estero del Consiglio nazionale di transizione dell'opposizione libica, è
giunto a Pechino per stringere accordi di collaborazione economica con le
autorità cinesi e intavolare un eventuale negoziato con Tripoli. All'inizio del
mese anche Abdelati al - Obeidi, ministro degli Esteri libico si è recato in
Cina per discutere la possibilità di un cessate il fuoco. (S.C.)
Povertà e malnutrizione per 2 bambini malgasci su 3
Agenzia Fides - Amboasary Sud - 25 giugno 2011
Due
bambini malgasci su tre vivono in condizioni di povertà e il 50% dei bambini
con meno di cinque anni ha una crescita rallentata a causa della malnutrizione.
La situazione è particolarmente grave nella città di Amboasary Sud, nella
regione sudorientale di Anosy, Madagascar, dove presso il Centro per il
Trattamento e la Cura della Malnutrizione Acuta con Complicazioni (CRENI)
vengono ricoverati i bambini il cui rapporto peso-altezza determina uno stato di
malnutrizione acuta. Sempre nella stessa città, collegato con la clinica è
attivo un altro centro per il Trattamento e la Cura della Malnutrizione Acuta
senza Complicazioni (CRENAS). Un grafico del CRENI di Amboasary Sud mostra che
circa un terzo dei 130 ricoveri registrati nel 2010 si è verificato tra i mesi
di marzo e maggio, alla fine della stagione più secca, ma i medici locali
sostengono che la siccità è un problema ciclico che colpisce la regione solo
ogni tanto, mentre ci sono fenomeni sociali ed economici di vecchia data che
costituiscono una minaccia costante per la sicurezza alimentare.
Nella
zona meridionale più arida, le condizioni climatiche sempre più imprevedibili
rischiano di far aumentare la malnutrizione tra i bambini, in particolare tra i
mesi di ottobre e marzo, quando il cibo scarseggia. La malnutrizione cronica
spesso è causata da una scarsa alimentazione prolungata nel tempo. Il personale
medico e gli operatori sanitari addetti ad identificare la malnutrizione nei
bambini si rivolgono al CRENAS, da lì quelli più gravi e con complicazioni
vengono inviati al CRENI. In genere i bimbi rimangono al CRENI 10 giorni e dopo
aver recuperato un pò di peso vengono inviati nuovamente al CRENAS, dove mamme
e figli vengono aiutati con supporti e formazione, cibo terapeutico pronto
all'uso da portare a casa. Si tratta di pasta di arachidi molto nutriente che
contiene micronutrienti e costituisce una vera salvezza per una zona del paese
dove il 60% della popolazione vive ad oltre 5 km di distanza dal centro
sanitario più vicino.
Inoltre, secondo alcuni esperti, contribuiscono a queste carenze proteiche anche "tendenze locali" o tabù che riguardano il consumo di determinati alimenti in zone dove la carne è un lusso insostenibile per la maggior parte della gente. Ai bambini è vietato mangiare uova e pollo e le patate dolci possono essere mangiate solo appena raccolte. I polli sono considerati "sporchi" e c'è la credenza che mangiare le uova renda muti uomini e donne. (AP)
Relatore Onu: contro fame e obesità, cambiare politiche agricole
Misna - 21 giugno 2011
La
fame e l'obesità hanno assunto dimensioni da emergenza nazionale in Messico a
causa di politiche agricole obsolete e inefficaci: ad affermarlo è stato
Olivier De Schutter, relatore speciale dell'Onu per l'alimentazione, al termine
di una missione di una settimana nel paese. "Il Messico affronta il
paradosso di avere 19,5 milioni di persone che vivono in condizioni di povertà
alimentare, mentre il 70% dei messicani sono sovrappeso o obesi. Queste due
emergenze sono il risultato di un sistema che deve cambiare" ha detto De
Schutter.
Secondo
il relatore del Palazzo di Vetro, occorre partire dalle politiche agricole,
sostenendo economicamente i piccoli produttori e avvicinandoli direttamente ai
consumatori. "Il Messico - ha ricordato - importa il 43% degli alimenti e
la gente compra sempre più cibo preconfezionato al posto di prodotti
freschi".
Allo
stesso tempo, la decisione del Messico di unirsi al gruppo dei paesi che
promuovono l'equiparazione del diritto all'alimentazione a diritto
costituzionale "è una grande vittoria", ha commentato De Schutter,
"che però ora deve essere messa in pratica, aumentando il salario minimo
affinché tutti possano garantirsi l'accesso al paniere dei beni primari".
Il relatore ha invitato inoltre il governo a frenare l'espansione delle
coltivazioni di mais geneticamente modificato per non pregiudicare le specie
originarie. [FB]
Chiesa più forte delle persecuzioni
di Gerolamo Fazzini
Avvenire
- 24 giugno 2011
Manca
mezz'ora alle 8, sta per iniziare la più frequentata delle Messe festive nella
cattedrale di Yangon. Deposte le infradito all'esterno della chiesa, i fedeli si
radunano con largo anticipo nell'ampia navata dell'edificio simil-gotico.
Potrebbe sembrare una scena comune a quanto avviene altrove. Ma due particolari
ci ricordano che siamo a quasi 10mila chilometri dall'Italia: la lunga fila di
persone incolonnate per la confessione e lo sventolio dei ventagli multicolori
che la parrocchia mette a disposizione per placare la morsa del caldo umido. Già,
perché - ora che la stagione dei monsoni è cominciata - non bastano, a
scacciarlo, i possenti ventilatori disseminati qua e là.
A
dispetto del clima, tuttavia, la celebrazione è molto partecipata. I fedeli
assiepano le panche e prendono parte con fervore alla Messa, che alterna qualche
preghiera in latino all'inglese; in alcuni canti riconosciamo persino l'eco di
melodie tradizionali del cattolicesimo occidentale.
Ma
non è, quella del Myanmar, una Chiesa perseguitata? La domanda sorge spontanea
alla mente, se solo uno ricorda la burrascosa storia e la situazione attuale del
Paese. Non troverò una risposta definitiva all'interrogativo. Nemmeno una volta
terminato il viaggio che ci porterà in diverse zone del Paese, da Taunggyi a
Kengtung, sulle orme di padre Clemente Vismara, il missionario che domenica sarà
dichiarato beato e che proprio qui ha passato ben 65 lunghi anni, meritandosi il
titolo di "patriarca della Birmania".
Un
fatto è certo: come ai tempi di Vismara, anche oggi essere cristiani a queste
latitudini è tutt'altro che una scelta semplice. Nel suo ultimo rapporto
annuale, in aprile, la Commissione Usa per la libertà religiosa ha inserito il
Myanmar tra i Paesi "di particolare preoccupazione". Eppure, a sentire
alcuni degli interlocutori incontrati nel corso del viaggio (preti, vescovi,
suore e numerosi catechisti) qualche motivo di speranza c'è. Una speranza che,
per ora, affonda le sue radici, più che su imminenti cambiamenti politici,
sulla vivacità della comunità cattolica locale. Un "piccolo gregge"
- quasi 700mila fedeli su circa 50 milioni di abitanti - ma con uno spirito
missionario forte e un invidiabile dinamismo.
Un
dato va segnalato: in Myanmar i cristiani rappresentano circa il 6% dell'intera
popolazione e i cattolici l'1,5. Percentuali lillipuziane per i nostri parametri
occidentali. Eppure, paragonata con quella della vicina Thailandia, la
percentuale dei cattolici del Myanmar è tripla. E ciò a dispetto del livello,
abissalmente diverso tra i due Paesi, quanto a libertà religiosa, mezzi
economici e disponibilità di strutture. "Ciò non fa che confermare una
verità che si ripete nella storia della Chiesa: ossia che la persecuzione
fortifica la fede", osserva padre Claudio Corti, missionario del Pime di 44
anni, attivo in una diocesi del Nord del Thailandia al confine col Myanmar.
Il
suo confratello Angelo Campagnoli, che in Birmania ha lavorato alcuni anni -
nella stessa zona di Vismara - prima di essere espulso nel 1966, completa la
spiegazione osservando che "ciò che rende speciale la Chiesa del Myanmar
è l'essere costituita quasi interamente da minoranze etniche: tradizionalmente
il cristianesimo si è diffuso soprattutto tra i tribali, in particolare karen.
La componente etnica prevalente - quella birmana ("bamar") - resta,
nonostante quattro secoli di presenza cristiana, sostanzialmente buddista".
Eppure,
dai tempi di Vismara a oggi, una piccola-grande rivoluzione è in atto. Questa
Chiesa provata, che dopo l'avvento dei militari si è vista strappare la
gestione delle opere cattoliche, questa Chiesa costretta a "cavarsela da
sola", che un tempo era "terra di missione" oggi, a sua volta,
manda suoi missionari fuori dai suoi confini.
Negli
ultimi anni, ben sette giovani del Myanmar sono entrati nelle file del Pime, cui
apparteneva padre Vismara. In sei delle 16 diocesi della Birmania il Pime ha
visto alternarsi lungo 140 anni di storia ben 170 missionari, non pochi dei
quali morti giovani. "Oggi lo spirito che i missionari ci hanno
testimoniato ispira la nostra Chiesa e ci porta verso i confini del mondo",
chiosa monsignor Charles Bo, arcivescovo di Yangon. Tra pochi mesi anche
l'istituto missionario ad gentes locale, "Little Way of Santa
Theresa", manderà i suoi primi membri nella vicina Cambogia. Padre
Vismara, dal cielo, non potrà che sorridere. Lui che, a proposito dei suoi
giovani, scrisse: "Da questi teneri, cari, amati e spennacchiati virgulti,
sorgerà (non ne dubito) la nostra Chiesa".
Guerra,
violenze e vendette: le sofferenze dei 10mila profughi cristiani di etnia kachin
Agenzia Fides - Myitkyina - 24 giugno 2011
"I
combattimenti infuriano, i militari governativi non esitano a compiere atrocità
e vendette sulla popolazione civile; vi sono oltre 10mila profughi civili di
etnia kachin, in maggioranza cristiani, che sono in fuga, vittime della
violenza": è l'allarme lanciato all'Agenzia Fides da un sacerdote della
diocesi di Myitkyina (nel Nord del Myanmar), che chiede l'anonimato per motivi
di sicurezza. Il sacerdote racconta, con estrema preoccupazione, la situazione
del conflitto civile che da circa due settimane interessa lo stato di Kachin
(uno dei 14 fra stati e territori in cui è divisa la nazione), territorio che
ricade sotto la giurisdizione della diocesi cattolica di Myitkyina (vedi Fides
16/6/2011). A fronteggiarsi sono l'esercito governativo e i guerriglieri del
"Kachin Independent Army": si tratta di un conflitto su cui le notizie
sono sempre più rare, dato che il governo "ha provveduto a tagliare le
linee elettriche e telefoniche per gran parte del territorio, isolando
l'area", nota il sacerdote.
Gli
scontri sono iniziati, racconta la fonte di Fides, perché il governo birmano ha
stretto un accordo con la Cina per la costruzione di una diga che alimenterà
una centrale idroelettrica nel territorio kachin. La centrale fornirà energia
alla popolazione cinese e il progetto causerà lo sfollamento e l'inondazione di
villaggi e territori dove vive la popolazione kachin, che dunque si è
ribellata. I negoziati dei mesi scorsi non hanno avuto buon esito "perché
parte dei leader militari non ha alcun rispetto dei diritti delle popolazioni
delle minoranze etniche". Anzi, l'episodio è stato considerato un utile
"casus belli" per scatenare una violenta repressione contro i kachin.
"Oggi
oltre 10mila profughi, quasi tutti cristiani - prosegue il sacerdote - stanno
fuggendo dalla guerra e stanno oltrepassando le frontiere con la Cina e con
l'India. Centinaia di sfollati interni, intanto, sono accolti nelle chiese e nei
templi buddisti. La situazione è drammatica in quanto la popolazione civile, già
molto povera, è allo stremo".
Inoltre,
dato che i guerriglieri si nascondono nella foresta, "i soldati
dell'esercito birmano, quando incontrano villaggi kachin, non esitano a compiere
violenze e atrocità sui civili, per vendetta", spiega la fonte di Fides,
commentando la notizia degli stupri sistematici sulle donne kachin. "Per
ora non possiamo confermare direttamente questa orribile notizia, ma la
riteniamo fondata: in guerra si compiono tali nefandezze e più volte in passato
l'esercito ha dimostrato di utilizzare gli strumenti della pulizia etnica contro
le minoranze karen, shan, kachin ed altre etnie che vivono in territorio
birmano", ricorda.
In
tale dolorosa situazione, "la Chiesa locale di Myitkyina sta facendo il
possibile per ospitare i profughi, per confortare e incoraggiare la popolazione,
esortando i fedeli ad aiutarsi reciprocamente. Inoltre sacerdoti, religiosi e
fedeli pregano incessantemente per la pace, affidando a Dio la loro immane
sofferenza". (PA)
Onu: San Juan ha diritto all'autodeterminazione
di Alessandro Grandi
PeaceReporter
- 21 giugno 2011
Nazioni
Unite: "Portorico ha una propria ed inconfondibile identità
nazionale". Soddisfazioni dei movimenti indipendentisti
Adesso
ci sono pochi dubbi: quella che è considerata una delle ultime colonie al
mondo, l'isola di Portorico, potrà finalmente autodeterminarsi. La notizia
giunge in un momento di fermento politico e alcuni giorni dopo la visita del
presidente Usa Barack Obama a San Juan.
Il
Comitè de Descolonizacion delle Nazioni Unite, ha approvato una risoluzione che
sottolinea il diritto all'autodeterminazione dell'isola di Portorico. Oggi lo
status dell'isola la vede come uno Stato Libero e Associato agli Usa nonostante
abbia un governo proprio.
Chiaro
il testo della risoluzione. "Portorico è uno stato Latinoamericano e
caraibico che ha una propria e inconfondibile identità nazionale", per
queste ragioni l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite è chiamata a
"esaminare in maniera amplia e in tutti i suoi aspetti il caso, pendente
dal 1970.
Il
testo Onu prevede anche che chi ha combattuto per l'indipendenza dell'isola
venga rilasciato dalle carceri.
Un
altro importante aspetto riguarda l'isola di Vieques che secondo la risoluzione
dovrà essere totalmente decontaminata. La piccola isola a poche miglia dalle
coste di Portorico, infatti, per oltre 60 anni è stata occupata e teatro delle
manovre militari della Marina da Guerra degli Stati Uniti. Oggi l'isola è
considerata una dei luoghi più inquinati del mondo e sotto le acque che la
bagnano e sulla terra ferma ci sono ancora decine di migliaia di ordigni, alcuni
inesplosi. L'isola è talmente tanto contaminata che l'incidenza dei tumori è
di gran lunga superiore a qualsiasi altro luogo del continente.
Come
detto la risoluzione è stata approvata senza ricorrere a votazioni ma grazie
all'appoggio incondizionato dei Paesi Latinoamericani e dei 'non allineati'
(Cuba, Venezuela, Nicaragua, Bolivia ed Ecuador).
Non
solo. Prima di giungere ad una decisione il Comitè ha ascoltato molte
organizzazioni politiche e della società civile sia portoricane che
statunitensi.
Soddisfazione
è stata espressa dal Movimiento Indipendentista Nacional Hostosiano. Il suo
portavoce ha fatto sapere che "Portorico ha la necessità di arrivare
urgentemente alla sua completa indipendenza".
Osvaldo
Martinez Toledo, a capo dell'ordine degli Avvocati, ha fatto sapere che
un'Assemblea Costituente godrebbe di un ampio consenso tra la popolazione e le
strutture politiche".
Tutte
le realtà che hanno combattuto fino a oggi per l'indipendenza reale da
Washington, però, sono d'accordo su una questione: se ci sarà un referendum
popolare per decidere lo status dell'isola dovranno poter votare anche i
cittadini portoricani che vivono all'estero, soprattutto negli usa.
Si
calcola infatti, che più di 4,5 milioni di cittadini di origine portoricana
vivono all'interno dei confini Usa.
Amnesty: il sistema legale in vigore nega ai rom l'accesso a un alloggio
adeguato
Amnesty
Int - 23 giugno 2011
In
un rapporto pubblicato oggi, Amnesty International ha denunciato che i cittadini
più poveri e svantaggiati della Romania non possono accedere ad alloggi
adeguati a causa del sistema legale vigente nel paese. Il rapporto
descrive le storie di singole persone e di comunità rom della Romania e mette
in evidenza la necessità di riformare, basandola sui diritti umani, la
legislazione relativa all'alloggio.
"L'intolleranza
e il pregiudizio nei confronti dei rom, diffusi in modo massiccio in Romania e
combinati con l'assenza di leggi sull'alloggio adeguato, hanno dato carta bianca
alle autorità per discriminare i rom" - ha dichiarato Barbora Cernusakova,
ricercatrice di Amnesty International sulla Romania. "Il diritto umano a un
alloggio adeguato non è riconosciuto né tutelato in modo significativo dalle
leggi romene, con una ricaduta su tutta la popolazione e specialmente sui gruppi
più vulnerabili ed emarginati".
"Quando
le autorità sgomberano le comunità rom contro la loro volontà, senza adeguata
consultazione, preavviso o alloggio alternativo, violano i trattati
internazionali che il governo di Bucarest ha sottoscritto. Ciò è vero anche
per quanto riguarda il reinsediamento delle comunità rom in siti inadeguati e
segregati" - ha proseguito Cernusakova.
In
Romania vivono due milioni di rom, circa il 10 per cento della popolazione del
paese. Secondo le statistiche governative, il 75 per cento dei rom vive in
povertà, rispetto al 24 per cento della popolazione generale.
I
rom raramente hanno il possesso di terreni e altre proprietà e sono
ulteriormente svantaggiati dall'assenza di edilizia sociale, in un paese dove il
97 per cento delle case appartengono ai privati.
Sebbene
alcuni rom vivano in strutture permanenti su cui hanno un titolo legale, le
autorità considerano molti duraturi insediamenti alla stregua di siti
"informali" o illegali, i cui abitanti sono privi di titolo di
proprietà e dunque più esposti agli sgomberi. La legislazione vigente non
offre protezione dagli sgomberi forzati, anche se si tratta di azioni illegali
ai sensi degli standard internazionali che la Romania è tenuta a seguire.
Amnesty
International e altre Organizzazioni non governative hanno documentato una serie
di casi in cui le comunità rom sono state sgomberate con la forza e reinsediate
in modo tale da creare o rendere più acuta la segregazione.
Il
17 dicembre 2010 le autorità locali di Cluj-Napoca, la terza città della
Romania, hanno eseguito lo sgombero forzato di 56 famiglie rom dal centro
cittadino, dove alcune di esse avevano vissuto per 25 anni. Le famiglie non
hanno ricevuto preavviso adeguato, non sono state consultate e non è stata loro
proposta alcuna alternativa praticabile allo sgombero. Infine, non hanno potuto
presentare ricorso contro lo sgombero.
Quaranta
delle 56 famiglie sono state trasferite in nuove unità abitative alla periferia
della città, su una collina che si trova sopra a un vecchio insediamento rom i
cui abitanti vivono in condizioni disumane.
Le
nuove unità abitative si trovano vicino alla discarica della città e a una di
sostanze chimiche. Ognuna di esse è composta da quattro piccole stanze, in cui
vivono altrettante famiglie, con un solo bagno a disposizione Alle altre 16
famiglie, rimaste senza tetto dopo lo sgombero, è stato consentito di costruire
proprie abitazioni nei pressi delle nuove unità abitative ma senza alcun titolo
legale.
George,
uno dei rom sgomberati, ha dichiarato ad Amnesty International: "La stanza
è molto piccola. Ci sono delle infiltrazioni d'acqua dalle pareti. È davvero
brutto, un incubo. Ogni volta che la mia figlia sedicenne deve cambiarsi, sono
costretto a uscire fuori dalla stanza. Non c'è spazio per stare tutti insieme.
Nell'altra stanza c'è una famiglia con 13 persone, due adulti e 11 bambini in
una sola stanza...."
La
fermata dell'autobus più vicina si trova a tre chilometri di distanza, ciò che
rende difficile andare a scuola, a lavoro o dal dottore. Coloro che avevano
vissuto nel centro della città insieme al resto della popolazione si sono
trovati di fatto segregati.
"I
rom non solo sono discriminati per quanto riguarda l'alloggio, ma non riescono
neanche ad avere accesso alla giustizia quando subiscono un torto; spesso non
hanno le informazioni o le risorse necessarie per poterlo fare" - ha
sottolineato Cernusakova. "Il governo romeno, inoltre, non ha ancora posto
in essere meccanismi che possano chiamare le autorità locali a rispondere di
inadempienze rispetto ai trattati internazionali di cui la Romania è stato
parte".
Amnesty
International, insieme all'Organizzazione non governativa Criss di Bucarest, è
impegnata da anni in una campagna in favore di una comunità rom sgomberata del
2004 dal centro di Miercurea Ciuc e trasferita in un sito inadeguato nei pressi
di un impianto per il trattamento dei liquami, alla periferia della città.
"Le
autorità locali e il governo centrale hanno ripetutamente ignorato i loro
obblighi sui diritti umani nei confronti di queste persone, trattate come
rifiuti e che da sette anni vivono in condizioni disumane" - ha accusato
Cernusakova.
"Le
riforme legislative in vista costituiscono per il governo della Romania
un'opportunità per porre il suo sistema legale in materia di alloggio in linea
con gli standard internazionali e regionali sui diritti umani e per assicurare
che i fondi municipali, nazionali o europei non saranno usati per finanziare
progetti edilizi in contrasto con tali standard".
San Pietroburgo: la prima processione del Corpus Domini a 93 anni
AsiaNews - Mosca - 25 giugno 2011
L’ultima
celebrazione del genere si è svolta nel 1918. Il sindaco della città ha dato
il permesso per la processione, che sarà guidata dall’arcivescovo di Mosca,
mons. Paolo Pezzi. I cattolici sfileranno lungo la Prospettiva Nevsky, la
principale arteria dell’ex capitale.
Il sindaco di San Pietroburgo ha dato il permesso
per la prima processione del Corpus Domini nell’ex capitale russa dal 1918.
L’annuncio è stato confermato dall’arcidiocesi della Madre di Dio a Mosca.
La processione avrà luogo domenica 26 giugno, e si svolgerà sulla famosa
Prospettiva Nevsky, la principale arteria della città.
Questa strada è tradizionalmente chiamata la “via della tolleranza”, dal
momento che su di essa si affacciano chiese cattoliche, ortodosse, luterane e
armene. Secondo i funzionari dell’arcidiocesi, l’ultima volta che una
processione del Corpus Domini è sfilata a San Pietroburgo è stato nel
1918, prima della presa del potere da parte dei bolscevichi.L’ultima
processione fu condotta da mons. Constantin Budkiewicz, che fu ucciso con un
colpo alla testa dai comunisti nelle prime ore della Pasqua del 1923.
Adesso, 93 anni più tardi, i cattolici torneranno sulla Prospettiva Nevsky
guidati dall’arcivescovo di Mosca, mons. Paolo Pezzi. Dopo la messa di
mezzogiorno, che mons. Pezzi celebrerà nella chiesa di Santa Caterina di
Alessandria, la processione si snoderà lungo la Prospettiva Nevsky, e le vie
circostanti, portando il Santissimo sacramento.
Patriarcato
di Mosca avvia programma per proteggere i cristiani nel mondo di Nina Achmatova
AsiaNews - Mosca - 23 giugno 2011
Il
World Russian People's Council pubblicherà regolarmente informazioni su
violenze e soprusi ai danni della comunità. Chiesa ortodossa: preoccupante la
cristianofobia in Medio Oriente.
Preoccupata
dalla diffusa "cristianofobia", la Chiesa russo-ortodossa ha deciso di
pubblicare informazioni con regolarità su episodi di violenza che colpiscono i
cristiani nel mondo. A occuparsene, come riferisce l'agenzia Interfax, sarà il
World Russian People's Council, un forum pubblico che raccoglie diversi
esponenti religiosi e politici in Russia ed è presieduto dal patriarca di Mosca
e di tutte le Russie Kirill.
"La
Chiesa russo-ortodossa avvierà un programma per proteggere i cristiani che sono
diventati di recente la comunità religiosa più colpita", ha spiegato
Roman Silantyev, direttore del Centro. L'idea è quella di monitorare solo i
crimini e le violenze commesse contro i cristiani, come omicidi, minacce,
stupri, massacri e condanne a morte.
La
preoccupazione maggiore si concentra sul Medio Oriente, come spiega il
metropolita Hilarion di Volokolamsk, capo del Dipartimento per le relazioni
esterne della Chiesa. "L'escalation della cristianofobia in alcuni paesi
mediorientali può portare a serie conseguenze per la fede ortodossa, mettendo a
rischio la vita di fedeli delle antiche Chiese locali, privati dei loro
diritti", ha denunciato in un'intervista a Interfax-Religion dopo aver
incontrato il rettore dell'Università islamica egiziana di Al-Azhar. "Se i
governi del Medio Oriente non prendono misure speciali per proteggere i
cristiani, assisteremo presto a un'altra ondata migratoria", ha continuato
il metropolita. Che ha poi concluso con un auspicio: che "l'estremismo
dietro slogan religiosi non sia identificato con l'islam, che predica la
tolleranza tra i membri di differenti religioni". (N.A.)
Dall'Algeria al Sudafrica, per il popolo Saharawi
Misna - 24 giugno 2011
Una
nuova campagna di sensibilizzazione per sostenere la causa del popolo sahrawi:
l'hanno approvata i rappresentanti di Sudafrica e Algeria riunitisi ad Algeri in
vista dell'incontro tripartito del Movimento di solidarietà con il popolo
sahrawi, previsto per settembre, e al quale parteciperà anche la Nigeria.
"L'iniziativa
prevede una serie di conferenze e avvenimenti finalizzati a sostenere la lotta
per l'autodeterminazione dei sahrawi, attraverso incontri e eventi ai quali
prenderanno parte personaggi dello spettacolo, star del mondo sportivo e
altri" ha spiegato Makina Zanella, direttrice per il Nord Africa del
ministero degli Esteri di Pretoria e responsabile dei progetti della
Coordinazione Algeria-Sudafrica (Cnasps).
"L'indipendenza
è un diritto dei sahrawi" ha aggiunto la diplomatica, ricordando la lotta
del suo paese contro ogni forma di colonizzazione e deplorando "l'abbandono
di civili inermi in campi profughi in mezzo al deserto per anni".
Ex
colonia spagnola annessa dal Marocco nel 1975, il Sahara occidentale è oggetto
di una disputa trentennale tra Rabat che propone per la regione un'ampia
autonomia e il Fronte Polisario, sostenuto dall'Algeria, che ribadisce il
diritto del popolo sahrawi all'autodeterminazione attraverso un referendum.
Il
prossimo round di colloqui tra governo marocchino e Polisario (Fronte di
Liberazione Popolare di Saguia el Hamra e del Rio de Oro), finora proceduti
sotto egida dell'Onu senza sostanziali progressi, è previsto per metà luglio.
[AdL]
Cambiamento, ma non al prezzo di una guerra civile
AsiaNews - Damasco - 21 giugno 2011
Assad
ha denunciato un complotto contro la Siria e promette emendamenti alla
Costituzione. L'opposizione manifesta contro le aperture del presidente, bollate
come "non sufficienti" anche dall'omologo turco Gul. Fonti di
AsiaNews: il futuro è incerto, il Paese subisce una "pressione
internazionale premeditata"; serve maggiore equilibrio di Occidente e
media.
"Vogliamo
il cambiamento, ma non al prezzo del sangue e di una guerra civile". È
quanto dichiara ad AsiaNews una fonte cristiana a Damasco, che chiede
l'anonimato per motivi di sicurezza. Il popolo invoca "riforme e lotta
contro la corruzione", ma vi è anche il timore che la situazione possa
degenerare. Ieri intanto Bashar al-Assad ha tenuto un discorso alla nazione, il
terzo dopo due mesi di silenzio. L'opposizione interna ha criticato con forza le
parole del presidente siriano, che sono state giudicate "non
sufficienti" anche dall'omologo turco Gul e dal blocco occidentale.
Bashar
al-Assad ha parlato dall'aula magna dell'università di Damasco, in un discorso
durato circa 70 minuti e trasmesso in diretta dalla tv di Stato. Tre i punti
salienti del discorso del presidente: in primis egli ha ammesso che la Siria
vive "giorni difficili" a causa di un complotto ordito da
"intellettuali blasfemi" e "stranieri, che minacciano l'unità
nazionale e rischiano di far crollare l'economia". Poi annuncia la
creazione di un comitato di 100 saggi, chiamati a studiare alcuni emendamenti
alla Costituzione. Infine promette "cambiamenti graduali", in un
processo che di dovrebbe concludere entro settembre o, al massimo, la fine
dell'anno.
Le
parole di Assad sono respinte al mittente dall'opposizione interna, che a pochi
minuti dalla fine del discorso è scesa in piazza a manifestare in diverse città:
nelle vie di Aleppo, Homs, Hama, Lattakia i dimostranti hanno intonato slogan
contro il regime, rivendicando maggiore "dignità e libertà".
Critiche al presidente siriano giungono anche dall'omologo turco Abdullah Gul,
che bolla come "non sufficiente" l'impegno promesso da Assad,
concedendo "una settimana di tempo per attuare le riforme". Intanto
l'Unione europea prepara un nuovo giro di sanzioni contro Damasco, mentre
continua l'emergenza profughi (quasi 9mila) lungo i confini con la Turchia.
Commentando
le parole del presidente, la fonte di AsiaNews parla di "situazione non
facile", perché Assad "vuole realizzare le riforme, ma l'opposizione
non intende aspettare, chiede subito cambiamenti". Quello che ha proposto,
spiega, "non si può realizzare dall'oggi al domani" e al momento
"non è possibile ipotizzare gli sviluppi futuri", perché "tutto
dipende da come la situazione evolverà". La personalità cristiana
denuncia una "pressione internazionale premeditata", ovvero
"critica a prescindere" perché "qualunque apertura non sarebbe
sufficiente" ai loro occhi.
Per
la fonte, a Damasco emerge "la sensazione che i mezzi di comunicazione
gonfino le notizie, la realtà, perché vogliono cambiare" il regime. Dal
fronte interno si intravede "la volontà di ricomporre un nuovo Medio
oriente" che viene rimodellato "su una base di natura religiosa",
come è avvenuto in Iraq dove "i cristiani sono fuggiti per la paura"
e sono fra gli obiettivi di attacchi.
La
fonte di AsiaNews lancia infine un appello ai mezzi di comunicazione e
all'Occidente perché "riflettano di più prima di intervenire".
"Tutti vogliamo riforme e lotta contro la corruzione - chiarisce - vogliamo
il cambiamento, ma non attraverso il sangue e la guerra civile". Perché se
è vero che vi sono scontri, manifestazioni e morti, conclude, è altrettanto
vero che questi episodi sembrano "fomentati" dall'esterno.(DS)
I politici hanno "paura" della libertà d'informazione
di
Melani Manel Perera
AsiaNews
- Colombo - 24 giugno 2011
Conferenza
stampa organizzata da un collettivo di giornalisti e rappresentanti dei media.
Lo Sri Lanka è l'unico Stato dell'Asia del sud a non avere una legge sul
diritto e sulla libertà d'informazione (Freedom of Information Bill).
Lo
Sri Lanka deve avere una legge sul diritto e sulla libertà d'informazione
(Freedom of Information Bill), anche se i politici "hanno paura" e
"vogliono tenerci all'oscuro". È quanto è emerso il 22 giugno scorso
in una conferenza stampa, organizzata a Colombo dalla Citizens Right and
Collective of Media Organization (Crcmo). Lo Sri Lanka è l'unico Stato
dell'Asia del sud a non avere una legge sul diritto all'informazione, già
adottata in più di 80 Paesi in tutto il mondo. "Mai come adesso - si legge
in una dichiarazione ufficiale - sentiamo l'urgenza di garantire ai cittadini
una politica culturale in cui il governo sia responsabile delle persone".
L'associazione spera di realizzare anche una giornata di "consapevolezza
pubblica", il prossimo 5 luglio.
Secondo
la Crcmo, tenere la gente informata su tutti i fronti è un prerequisito
essenziale per vigilare in modo efficace sulla condotta dei politici, limitando
dove possibile l'abuso di potere. "Da sempre il governo cerca di tenere le
persone all'oscuro di tutto. Ma i cittadini hanno il diritto di sapere cosa
accade intorno a loro, e in quali circostanze", ha dichiarato Gamini
Viyangoda, membro dell'organizzazione.
Nel
settembre 2010 Karu Jayasuriya, leader dell'opposizione, aveva presentato la
Freedom of Information Bill in parlamento. All'epoca il governo congelò la
proposta, promettendo di redigere una propria bozza della legge. Tuttavia, sette
mesi dopo la maggioranza non aveva ancora presentato nulla, e a maggio
Jayasuriya ha rimesso sul tavolo il suo disegno di legge.
Grave la situazione umanitaria nelle due aree del sud Kordofan e di Abyei
Agenzia Fides - Juba - 20 giugno 2011
"Intere
famiglie continuano ad errare senza meta, prive di assistenza umanitaria, mentre
continuano i bombardamenti da parte dell'aviazione governativa" dice
all'Agenzia Fides suor Carmen, una missionaria comboniana messicana che opera
nell'area dei Monti Nuba, che fanno parte del sud Kordofan, dove continuano i
combattimenti tra gli eserciti di nord e sud Sudan. "Siamo preoccupati per
i nuovi combattimenti, ma speriamo ancora che la comunità internazionale possa
venire in nostro soccorso" conclude la missionaria.
Le
riprese satellitari acquistate dal "Satellite Sentinel Project"
(promosso dall'attore statunitense George Clooney), mostrerebbero un
rafforzamento del dispositivo militare dell'esercito di Khartoum a Kadugli, la
capitale del sud Kordofan, occupata dalle forze nordiste. Il potenziamento
militare fa temere una nuova offensiva da parte di Khartoum.
Nell'altra area contesa tra nord e sud Sudan, quella di Abyei, non si registrano nuovi combattimenti ma anche qui la situazione umanitaria rimane molto grave. "La popolazione è ancora sfollata da Abyei e riceve qualche aiuto sporadico. Le piogge continuano a battere incessantemente la zona e gli sfollati sono privi di protezione" dice all'Agenzia Fides mons. Roko Taban Mousa, Amministratore Apostolico di Malakal. "I bambini e gli anziani sono i più colpiti da questa drammatica situazione: malaria e diarrea continuano a mietere vittime. Non vi sono quindi miglioramenti significativi delle condizioni umanitarie. Ad Abyei non vi sono al momento combattimenti o bombardamenti. La città è però ancora occupata dall'esercito di Khartoum e la popolazione ha paura di farvi ritorno" conclude l'Amministratore Apostolico. (L.M.)
A Dushanbe i ragazzi possono andare in Chiesa solo per i funerali
AsiaNews - Dushanbe - 23 giugno 2011
Nuove
leggi, in discussione in parlamento, puniscono con il carcere i genitori che
"consentono" ai figli minori anche soltanto di andare in chiesa o in
moschea o di fare catechismo. Per impedire il diffondersi dell'estremismo. Ma
molti denunciano la violazione di diritti elementari.
La
Camera bassa del Parlamento tagiko ha approvato il 15 giugno la controversa
legge sulla Responsabilità dei genitori sull'educazione dei figli, proposta su
iniziativa del presidente Emomali Rahmon. La nuova legge conferma e inasprisce
il divieto per chi ha meno di 18 anni di partecipare a qualsiasi attività
religiosa, eccetto i funerali. La violazione del divieto è punita con gravi
sanzioni e il carcere per i genitori.
La
nuova legge, come già la precedente del 2009, obbliga i genitori a "non
permettere che i figli minorenni partecipino ad attività di organizzazioni
religiose, eccetto quelle facenti parte in modo ufficiale della istruzione
religiosa (con eccezione di funerali e altre occasioni di lutto)".
L'agenzia
Forum 18 denuncia che il divieto colpisce sia le funzioni religiose che il
catechismo che ogni altra attività, i ragazzi non potranno nemmeno accompagnare
i genitori in chiesa o nella moschea. Altrimenti i genitori possono essere
condannati a gravi multe o persino al carcere da 5 a 8 anni (12 per gli
organizzatori), anche se il ragazzo partecipa a simili incontri a loro insaputa,
la legge attribuisce loro un dovere di vigilanza generale. Anche la legge che
punisce i genitori è stata modificata e aggravata, sempre il 15 giugno. La
nuova legge penale punisce pure chi "organizza e conduce incontri,
seminari, dimostrazioni, cortei stradali" religiosi senza autorizzazione,
con il carcere fino a due anni per la prima violazione e fino a 5 anni per il
recidivo.
In
pratica, potranno avere un'istruzione religiosa solo i ragazzi che vanno a
scuola in madrasse e licei islamici o in istituti religiosi cristiani
riconosciuti dallo Stato, nei quali l'insegnamento religioso sia previsto come
curricolare. Peraltro simili istituti sono oggi poche decine, insufficienti per
l'educazione religiosa dei giovani del Paese, e il Comitato statale per gli
affari religiosi ha detto a F18 che non ritiene, per ora, di approvarne altri.
Ora
la nuova legge sarà sottoposta alla Camera Alta, ma nessuno dubita circa la sua
rapida approvazione. I sostenitori della legge la giustificano con la necessità
di combattere l'estremismo religioso ed evitare che i ragazzi finiscano sotto
l'influsso di gruppi religiosi estremisti appartenenti a organizzazioni
islamiche terroriste. Tuttavia la legge non indica cosa intenda per insegnamento
religioso estremista.
All'osservazione
che il divieto punisce tutti, anche chi insegna catechismo al figlio, il
deputato Sattor Kholov, relatore a favore della legge, risponde che sarà
compito dei giudici distinguere e non punire l'insegnamento religioso non
estremista.
Faredun
Hodizoda, esperto politico, osserva che il divieto è "eccessivo" e
che persino durante l'epoca sovietica i ragazzi potevano frequentare le moschee.
Altri critici osservano che nel Paese non c'è un radicato estremismo religioso
e che la legge impedisce di fatto ai ragazzi di ricevere un'istruzione
religiosa. Il parlamentare Muhiddin Kabiri, leader del Partito del rinascimento
islamico (Irp), osserva che la legge "viola ancora di più i diritti dei
cittadini" alla libertà religiosa.
Esperti
ritengono che la nuova legge restringerà la già scarsa libertà religiosa
prevista dalla legge del 2009. Da allora molte moschee sono state distrutte, i
cristiani processati e condannati per riunioni e attività "illegali"
e i Testimoni di Geova sono stati banditi dal Paese.
I missionari impegnati nel paese sono stati riconosciuti "eroi"
dal Parlamento
Agenzia Fides - Dili - 22 giugno 2011
In
occasione della Giornata Nazionale del Paese, il Presidente di Timor est, Jose
Ramos Horta, ha elogiato il lavoro dei tanti missionari cattolici che hanno
vissuto e lavorato al fianco della popolazione locale prima dell'indipendenza
dall'Indonesia. Nel suo discorso riportato dal "Province Express",
quindicinale cattolico australiano dei Gesuiti, Horta li ha descritti come
"eroi". In particolare ha ricordato un sacerdote italiano Salesiano,
alcune suore Canossiane, tre missionari Gesuiti portoghesi oltre ad un altro
Gesuita tedesco, che è stato assassinato nel 1999. Il Parlamento ha proposto di
dare la cittadinanza ad un gruppo di questi missionari, consegnando il primo
passaporto Timorense in occasione del 90° compleanno di padre João Felgueiras.
I 3 missionari portoghesi, padre João Felgueiras, padre José Martins, e fratel
Daniel de Ornelas (deceduto), arrivarono nel paese agli inizi degli anni '70 e
vi sono rimasti per oltre 24 anni durante l'invasione indonesiana dell'isola.
Ringraziando il Primo Ministro per la concessione della cittadinanza, padre Felgueiras ha sottolineato la necessità di "incoraggiare altri religiosi e religiose a partire per Timor, per evangelizzare un nume