Bangl@news

Newsletter settimanale sul Bangladesh, pace, mondialità e diritti umani  

Anno XI

N°  477

13/7/11

Questo numero è inviato a 6.590 lettori e a 508 lettori nella versione inglese

            

       

      Sommario

              

Missione

»»  Padre Vismara, il missionario di tutti di Gerolamo Fazzini

»»  Ma il missionario è un operatore sociale? di Piero Gheddo

»»  Io, un missionario a Mompracem di Piero Gheddo

Mondialità

»»  Giornata Mondiale Del Rifugiato

»»  Umanesimo cristiano in aiuto all'imprevista "primavera araba" di Bernardo Cervellera

»»  Il deserto dell'Arabia saudita contro la primavera araba di Bernardo Cervellera

»»  Primavera araba "ambigua"; occidente "squallido" di Bernardo Cervellera

»»  Papa: si cerchi "ogni possibile forma di mediazione" per il Medio Oriente e il Nordafrica

»»  Un mercato da redimere di Giulio Albanese

»»  Giornata Internazionale Lotta Droga

»»  La tortura degli uomini ferita aperta del mondo di Stefano Vecchia

Africa

»»  Puntare sul riso africano ma non solo per ridurre dipendenza alimentare

»»  Land grab: Africa in vendita di Sara Milanese

America Latina

»»  "Metti le scarpe di un rifugiato e fai il primo passo per capire la loro situazione"

»»  Quanto costa la violenza

Asia

»»  Scende il prezzo del petrolio, salgono le borse asiatiche

»»  Una voce cattolica in seno all'ASEAN, "coscienza sociale" per il dialogo e le libertà

»»  Mar Cinese meridionale: gli interessi di Washington alimentano la tensione

Algeria

»»  Cartoline dall'Algeria - 49 di p. Silvano Zoccarato

Bangladesh

»»  Cose che capitano di p. Adolfo L'imperio

»»  Islam, religione di stato e laicità: le contraddizioni e la "marcia indietro" del governo

Bolivia  

»»  La necessaria distinzione fra lavoro minorile e sfruttamento

Cile

»»  Costruire un modello educativo di apprendimento di qualità, equo e giusto, è compito di tutti

Cina

»»  Disastro inondazioni in Cina: cinque milioni di persone a rischio

Congo RD

»»  Il governo congolese vara un piano per i bambini di strada

Costa d'Avorio

»»  Braccio di ferro sui diritti umani

Ecuador

»»  54.000 rifugiati riconosciuti, senza attenzione e sicurezza"

Egitto

»»  La legge sugli edifici di culto è oscura. I dubbi delle comunità cristiane

Filippine

»»  Manila, 11 dispersi e 50mila sfollati per la tempesta tropicale Falcon 

India

»»  Kerala: la "polizia morale" aggredisce una donna perché è in strada di notte

Italia

»»  La forte scossa morale che serve al Paese

»»  Immigrati, troppi diritti violati di Luciano Scalettari

»»  Le vere sofferenze e le false paure di Fulvio Scaglione

»»  La Cei contro la secessione di Alberto Bobbio

Libia

»»  Vescovo di Tripoli: le bombe Nato rischiano di fare il gioco di Gheddafi

Madagascar

»»  Povertà e malnutrizione per 2 bambini malgasci su 3

Messico

»»  Relatore Onu: contro fame e obesità, cambiare politiche agricole

Myanmar

»»  Chiesa più forte delle persecuzioni di Gerolamo Fazzini

»»  Guerra, violenze e vendette: le sofferenze dei 10mila profughi cristiani di etnia kachin

Portorico

»»  Onu: San Juan ha diritto all'autodeterminazione di Alessandro Grandi

Romania

»»  Amnesty: il sistema legale in vigore nega ai rom l'accesso a un alloggio adeguato

Russia

»»  San Pietroburgo: la prima processione del Corpus Domini a 93 anni

»»  Patriarcato di Mosca avvia programma per proteggere i cristiani nel mondo di Nina Achmatova

Saharawi

»»  Dall'Algeria al Sudafrica, per il popolo Saharawi

Siria

»»  Cambiamento, ma non al prezzo di una guerra civile

Sri Lanka

»»  I politici hanno "paura" della libertà d'informazione di Melani Manel Perera

Sudan

»»  Grave la situazione umanitaria nelle due aree del sud Kordofan e di Abyei

Tagikistan

»»  A Dushanbe i ragazzi possono andare in Chiesa solo per i funerali

Timor Est

»»  I missionari impegnati nel paese sono stati riconosciuti "eroi" dal Parlamento

Altri articoli edizione inglese

World: Unfinished pro-democracy revolution by Mohammad Amjad Hossain * Austerity measures threaten global recovery: UN * Poor countries host vastly more displaced people than wealthier nations by Portia Crowe  Africa: Africa Faces Explosive Population Growth by Thalif Deen  Bangladesh: Where east meets west by Milia Ali * 60 years and still counting by Craig Sanders * Bangladesh in numbers by Ashfaqur Rahman * Christian singers seek more support * Church leaders question survey figures * Classrooms Lack Lustre by Rifat Munim * Cooperative helps Christian migrants * Decline in poverty rate * Fair promotes traditional culture * University students help Catholic tribals  Cambodia: Church aims to boost education  India: Catholic youth resolve to bring peace  Italy: Refugees Find Easier Reception, For Now by Matt Carr  Kenya: Empowering Women through Micro-Finance Credit by Miriam Gathigah  Lybia: It's time to end the bombing and find a political solution by Dr Ruhakana Rugunda  Middle East: Deepening uncertainty in ME  Myanmar: Refugees flee as fighting spreads  Philippines: US ready to arm Philippines  Sudan: Sudanese rivals sign Abyei accord as new battle flares * Amidst 'Dire' humanitarian crisis, U.S. urges ceasefire in South Kordofan by Pam Johnson

    

I punti di vista espressi in questi articoli sono propri degli autori e non riflettono necessariamente quelli di Banglanews

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MISSIONE 

Padre Vismara, il missionario di tutti di Gerolamo Fazzini

Famiglia Cristiana - 22 giugno 2011

Non si è mai vista una mobilitazione popolare come per padre Vismara, non solo da parte dei cattolici, ma dei non cristiani animisti, buddhisti, indù, musulmani. Una vita per i giovani  

            

È sorprendente come padre Vismara, un missionario consegnato agli annali come un vecchio nonno dal barbone bianco, riesca a interpellare ancora oggi i giovani, a dispetto di quanto trasmetta la sua "icona". Che di Vismara parlino con fervore missionari che oggi hanno 70-80 anni ed erano già adulti quando padre Clemente morì nel 1988 non fa certo notizia. Ma che per lui spendano parole di entusiasmo giovani di trent'anni è tutt'altro che scontato.

Padre Piero Masolo, responsabile del settore animazione missionaria del Centro Pime di Milano, classe 1978, entrato nel Seminario del Pime dopo studi di Architettura, è rimasto affascinato dalla figura di Vismara in una fase molto delicata di discernimento. "Nel 1999 sono stato in India da padre Augusto Colombo. Lì è nata una domanda dentro di me: la vita dei missionari non potrebbe essere la mia? Ho risposto di sì. Ho cominciato a leggere dei libri, tra cui le lettere di padre Clemente. Ero colpito da questo personaggio, dal suo senso dell'avventura, il fatto che fosse una persona felice, con una grande passione per la missione e per gli altri, uno straordinario senso dell'ironia e un grande scrittore. Un brano mi è rimasto nel cuore: "Invecchio senza accorgermi e di certo morrò senza rimorsi, ché uomo allegro il Ciel l'aiuta". Leggere il libro giusto nel momento del discernimento ti cambia la vita. Così è stato per me. Padre Clemente ha avuto un ruolo importante perché decidessi di entrare nel Pime. E sono contento. Come lui!".

Padre Piero ha trasmesso la sua passione per Vismara a tutto lo staff dell'animazione missionaria Pime di Milano e, sotto il nome di "Vismara game", sono nate una serie di proposte ad hoc per gli oratori estivi, presso le sedi Pime di Milano, Sotto il Monte Giovanni XXIII (BG), Busto Arsizio (VA), con laboratori e attività legati ai valori e alla testimonianza missionaria di p. Clemente. La rivista per ragazzi (la prima e unica, in Italia, dedicata a mondialità e inter-cultura) dedica nell'ultimo numero ben 36 pagine con testi e fumetti alla vita di padre Clemente, proponendo testimonianze dal Myanmar e dall'Italia.

Padre Claudio Corti, lecchese di origine, 44 anni, missionario nel nord della Thailandia, racconta: "Padre Vismara è stata un'ispirazione per tutti noi giovani seminaristi a Sotto il Monte. Si parlava e fantasticava spesso di lui e delle sue bellissime lettere. Agli inizi degli anni Ottanta, ricordo di aver "fatto a gara" con un mio futuro confratello, Fabrizio Calegari, per avere per primo il libro delle lettere di padre Vismara allora appena pubblicato. In seminario si parlava spesso di lui, proposto come esempio di missionario "eroico" che, pur essendo anziano e poi ammalato, si dava costantemente da fare per aiutare gli altri, specialmente i bambini".

Padre Claudio avrebbe voluto poterlo incontrare in Birmania. A quei tempi, però, il Paese era ancora completamente chiuso e non si poteva visitare. "Arrivato in Thailandia - aggiunge - una delle prime cose che ho cercato di fare è stata cercare di raggiungere la missione dove padre Vismara era vissuto. Per ora sono stato diverse volte solo nella sua prima missione a Monglin, non ancora sulla tomba a Mongping, perché in quell'area gli stranieri non ci possono andare".  

       

Già oggi, però, padre Claudio ha a che fare con l'eredità vivente di Vismara. "Nella missione di Fang - dice - c'è un villaggio di cattolici shan che sono stati tutti battezzati da padre Vismara. Lo ricordano con nostalgia e affetto e hanno deciso di costruire loro chiesetta e di intitolarla a San Clemente Papa , in attesa della beatificazione di padre Vismara! Anche diversi miei cattolici akha sono stati battezzati da lui in Birmania. In vista della beatificazione ho preparato un'immaginetta con la sua storia in lingua thai, lahu e akha, così che anche la gente che lo ha conosciuto qui lo possa ricordare e pregare".

Naturalmente nella città natale di padre Vismara è festa grande per la beatificazione. Eppure non era scontato che anche i giovani si entusiasmassero all'idea di festeggiare il "vecchio" (ma solo all'apparenza!) padre Clemente. Conferma don Stefano Guidi, giovane sacerdote che segue l'oratorio della Comunità pastorale Casa di Betania che raduna le parrocchie di Agrate, Omate e Caponago: "Abbiamo registrato notevole attenzione ed entusiasmo, non è stato difficile coinvolgere i ragazzi e i giovani della Comunità nella conoscenza di Padre Clemente. Un grande lavoro lo stanno facendo i giovani, con la realizzazione di un Recital, che vedrà il debutto il prossimo 21 ottobre ad Agrate. Ma abbiamo pensato anche ai ragazzi dei nostri oratori: in quaresima hanno imparato a conoscere la vita di Padre Clemente, con l'aiuto del nostro Gruppo missionario. Abbiamo poi pensato di coinvolgerli attraverso la creazione di magliette e gadget, prodotti per l'occasione. Ma il "piatto forte" della festa è proprio destinato ai nostri ragazzi: giovedì 30 giugno si terrà ad Agrate un grande evento, il Vismara Day, un'intera giornata di animazione missionaria, con la presenza straordinaria di animato del PIME, per seguire le tracce del Beato Clemente. Il grande regalo ce lo farà il cardinale Tettamanzi, che nel pomeriggio verrà a farci visita in oratorio, dopo aver visto la mostra ufficiale su padre Vismara, anch'essa preparata dai giovani della Comunità in collaborazione col PIME".

 

C'è, insomma, un legame del tutto speciale, tra padre Vismara e i ragazzi. Lui che, rimasto orfano, è diventato padre per migliaia di orfani, anche oggi sembra continuare a manifestare, dal cielo, una speciale predilezione per i piccoli. Padre Piero Gheddo, postulatore della Causa di padre Vismara fino al 2009 e autore di libri su di lui (tra i quali "Il santo dei bambini"), afferma di aver notizia di molte grazie ricevute per intercessione del neo-beato, comprese più di una relative a sposi che attendono un figlio e lo ottengono, proprio dopo aver pregato padre Clemente. Sarà un caso ma anche la causa di beatificazione vede protagonista un giovane.  

   

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Ma il missionario è un operatore sociale? di  Piero Gheddo

MissiOnLine - 18 giugno 2011  

   

La Thailandia è uno dei pochi paesi asiatici nei quali c'è libertà religiosa e rispetto per le minoranze religiose. Il Pime vi lavora dal 1972 in due diocesi, una parrocchia a Bangkok e tre missioni fra i tribali nella diocesi di Cheng Mai, ai confini con la Birmania. Incontro a Milano padre Claudio Corti di Lecco, in Thailandia dal 1998 e tornato in Italia per la beatificazione di padre Clemente Vismara (26 giugno a Milano). Gli chiedo che impressione ha dell'Italia. Risponde:

Corti - La mia impressione è questa: che il missionario è presentato e ritenuto più come operatoresociale che come evangelizzatore. Io sono partito perché mandato dalla Chiesa a portare il Signore Gesù a quei popoli che ancora non lo conoscono. L'immagine prevalente del missionario che appare oggi in Italia, anche in ambienti cattolici, è quella di uno dei tanti operatori sociali, come se la Chiesa in missione fosse una Ong che cura i malati, dà da mangiare agli affamati, si preoccupa delle scuole e dell'assistenza sanitaria, ecc. Ho anche l'impressione che i nostri cristiani hanno quasi timore di dire che noi siamo cristiani.

      

Gheddo - Da dove ricavi questa impressione?

Claudio - Il 25 marzo scorso la prima missione di padre Clemente a Monglin in Birmania è stata devastata da un forte terremoto che ha distrutto, tra l'altro, tre chiese. Amici che si impegnano a raccogliere soldi per aiutare a ricostruire le chiese dlstrutte mi dicono: "Ma non possiamo dirlo, diciamo semplicemente che aiutiamo la ricostruzione".  Ma come, in Italia abbiamo paura di dire che ricostruiamo una chiesa? Che noi come cristiani italiani vogliamo ricostruire le chiese? Secondo me questo è un linguaggio "politicamente corretto" che faccio difficoltà a capire.

 

Gheddo - In questi giorni ho letto sul giornale che a Roma i missionari e le suore missionarie hanno fatto una manifestazione per l'acqua bene pubblico. Sui giornali è apparso il titolo : "Missionari e suore manifestano per l'acqua pubblica".Tu cosa dici?

Corti - Queste cose possono dirle e manifestarle tutti. Ma facendo una manifestazione di soli missionari e suore, diamo l'idea sbagliata del missionario. E' certamente positivo e vero che il missionario va ad aiutare i poveri, istruire i bambini e via dicendo. Ma non può mancare l'annunzio di Cristo e del Vangelo; tutto il resto è fatto allo scopo di testimoniare la fede che porta alla carità. Ho un po' timore che in Italia si ha quasi timore di dire la nostra fede, di testimoniarla apertamente. Quasi che per dialogare si debba mettere tra parentesi la fede e parlare solo di fatti e di opere sociali.

  

Gheddo - Il movimento missionario italiano si è diviso negli anni settanta. Prima eravamo molto uniti e negli anni 50 e 60 abbiamo fatto assieme molte cose utili e belle: la Emi, la Fesmi, le visite dei missionari nei seminario diocesani, le settimane di studi missionari, gli incontri per "una teologia missionaria", la campagna contro la fame e Mani Tese, ecc. Poi il sessantotto secolarizzato ci ha divisi e l'immagine del missionario a poco a poco si è politicizzata, il missionario è quasi diventato un operatore sociale: la sua immagine di evangelizzatore è decaduta. Ci lamentiamo che le vocazioni missionarie sono crollate in Italia. Ma quale giovane o ragazza decide di farsi missionario, se i missionari e le suore parlano di mondialità invece che di missione, manifestano per l'acqua pubblica o contro la vendita delle armi, invece di esprimere pubblicamente un appello ai giovani che vale la pena di diventare missionari per portare Cristo, l'unica ricchezza che abbiamo, a tutti i popoli?

Corti - Noi in Thailandia, paese non cristiano dove i cattolici sono infima minoranza, stiamo attenti alle culture e alle religioni, rispettosi, dialoganti, disposti ad aiutare tutti per quel possiamo, ma nello stesso tempo siamo molto chiari sulla nostra identità cristiana. Ad esempio, anche gli ostelli nei quali educhiamo i ragazzi tribali, diciamo espressamente che sono centri di formazione umana e cristiana, perché altrimenti siamo equiparati alle tante Ong che fanno la stessa cosa in un modo laico, cioè indifferenti alla formazione religiosa. Ad esempio i giapponesi finanziano ostelli per ragazzi poveri. Noi ci distinguiamo perché dichiariamo apertamente che, educando i bambini poveri o orfani, siamo lì per evangelizzare. I giapponesi hanno parecchie Ong che non tanto mandano volontari, ma finanziano opere educative per i poveri. Bisognerebbe poi vedere se i loro finanziamenti vanno a buon fine, ma certamente i giapponesi aiutano l'educazione dei poveri. Anche  noi vogliamo e operiamo per questa finalità, ma mettiamo in risalto che siamo venuti in Thailandia per portare il Vangelo, di cui tutti i popoli hanno  bisogno.  

 

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Io, un missionario a Mompracem di Piero Gheddo

Avvenire - 22 giugno 2011

      

La mia vocazione missionaria è nata per ispirazione del buon Dio e si è precisata leggendo Operarii autem pauci del beato padre Paolo Manna e gli articoli poetici e avventurosi di padre Clemente Vismara, missionario in Birmania che sarà beatificato a Milano domenica prossima. Ma debbo dire che un influsso notevole hanno esercitato su di me i romanzi di Emilio Salgari. Quand’ero ragazzo, si leggeva molto anche perché non c’erano films né radio né tanto meno televisione. I libri di Salgari e di Giulio Verne erano per me, come per tanti altri, la lettura preferita; portavano con la fantasia in mondi lontani e facevano sognare noi adolescenti, presentandoci popoli e paesi sconosciuti da esplorare. Gli eroi di quel tempo erano appunto gli esploratori, gli avventurieri, i personaggi (come Sandokan) che combattevano per la libertà e la giustizia. In me, che vivevo un’intensa vita di preghiera ed ecclesiale, quelle letture aprivano orizzonti sconfinati e – avendo fin da bambino ricevuto da Dio il dono della vocazione sacerdotale – mi facevano sentire un po’ ristretta e soffocante la routine del prete in parrocchia. Tutto questo mi portò ad innamorarmi della vita missionaria e ad entrare nel Pime a 16 anni, nel settembre 1945. Nella mia vita missionaria ho poi avuto la ventura di viaggiare in diversi Paesi e territori nei quali  Salgari aveva ambientato le sue avventure: Cartagena in Colombia (la prima città e diocesi spagnola del Sud America, conservatasi intatta come nel ‘500) e le isole dei Caraibi, descritti da Salgari nel «Ciclo dei corsari delle Antille»: ricordo Il Corsaro nero, La regina dei Caraibi e Il figlio del Corsaro rosso. Poi Mompracem e il Borneo, dove Salgari ambientò il «Ciclo dei pirati della Malesia», di cui sono noti Le tigri di Mompracem, Sandokan alla riscossa, I pirati della Malesia, La rivincita di Yanez e tanti altri. Ancora: il Bengala della dea Kalì e le foreste del Sunderbund, dove si svolgono le vicende avventurose de I misteri della giungla nera e Il bramino dell’Assam.
 
Sunderbund appariva a noi ragazzi un termine oscuro e affascinante per immaginare i «thugs» della dea Kalì e la tigre reale del Bengala; poi ho saputo che nella lingua bengalese sunder è un legno da costruzioni molto ricercato perché resiste all’umidità e non è intaccato dalle termiti, e bund significa semplicemente foresta. Ma ormai la magia delle pagine di Salgari era passata anche per me. Sono stato anche nel Far West americano (Sulle frontiere del Far West), in Sudan e nel deserto del Sahara (Le avventure del Mahdi). Strano a dirsi, ma proprio dove Salgari immaginava e ambientava le sue avventure il mio istituto missionario, il Pontificio Istituto Missioni Estere di Milano, è presente o lo è stato con i suoi missionari. Così nel febbraio-marzo 2004 ho visitato la giovane Chiesa della Malesia peninsulare, del Borneo malese e del Brunei; da un lato, invitato dal vescovo di Kota Kinabalu, per esaminare la possibilità che il Pime ritorni a lavorare in Borneo, dove si registrano molte conversioni fra i «dayak» delle foreste (anche questi citati spesso da Salgari!) e vi è una drammatica scarsezza di sacerdoti e suore (un sacerdote ogni 8000 battezzati); dall’altro per rivedere i luoghi in cui l’Istituto ha lavorato un secolo e mezzo fa: Labuan, Brunei e Sabah. Infatti i missionari del Pime sono andati in Borneo nel 1856, mandati dalla Santa Sede perché in quei territori – indipendenti e sotto sultani indigeni – nessuna struttura della Chiesa cattolica era presente e anche perché il fondatore e capo della missione, lo spagnolo monsignor Carlos Cuarteron, voleva riscattare gli schiavi cristiani rapiti dai pirati malesi sulle coste delle Filippine e venduti in Borneo. La missione poi è terminata nel 1860, quando Propaganda Fide ritenne più urgente mandare il Pime ad Hong Kong, anche per salvarlo dal possibile sterminio della missione, che aveva subito parecchi assalti da parte di gruppi fanatici musulmani e di pirati (il console inglese si era rifiutato di aiutarli, per non mettersi contro i costumi e le autorità locali). È giunto fino a noi una lunga lettera di padre Antonio Riva al prefetto apostolico Cuarteron, nella quale il missionario descrive in modo particolareggiato e drammatico l’assalto subìto il 20 novembre 1859 a Barambang (nel sultanato di Brunei) da parte di un gruppo armato islamico.
 
Il centro della missione del Pime era proprio nell’isola di Labuan, dove ora c’è una fiorente parrocchia. Ho visitato il piccolo cimitero con le tombe dei primi cattolici, cippi antichi con iscrizioni che quasi nemmeno si leggono, ma che i cristiani d’oggi tengono come un ricordo storico importante, per dimostrare la presenza della fede fin dalla metà dell’Ottocento, molto prima della colonizzazione inglese. Dalla spiaggia di Labuan Willie, con un motoscafo, sono andato a Mompracem, che adesso si chiama Pulau Kuraman; è una piccola isola (Labuan ha 92 kmq, Mompracem solo 7), ci sono strade e anche case moderne, ristoranti e scuole, coltivazioni e soprattutto foreste. Ma sopravvivono le antiche palafitte che ho visto nell’interno del Borneo fra i «dayak», con le casette collegate l’una all’altra da passerelle o da una veranda unica che scorre davanti alle singole abitazioni formando quasi un unico lungo cortile. In uno spiazzo in foresta, al centro dell’isola, una stele di bronzo con una lapide di marmo commemora Emilio Salgari e i «tigrotti della Malesia».
 
La lapide, scritta in inglese e in italiano, è stata portata da una nostra missione culturale; alcuni turisti chiedono infatti di visitare l’isola per conoscere l’ambiente di Sandokan, personaggio immaginario ma che in tutto il Borneo è ancora ricordato (esiste tra l’altro la città di Sandakan, la seconda dello Stato di Sabah, che conta il 30% di cattolici). Anche a Labuan esiste ancora il palazzo del console inglese, la cui figlia («la ragazza dai capelli biondi» di Salgari) aveva fatto innamorare Sandokan. E a Kuching, capitale dello Stato di Sarawak sempre nel Borneo, si ammira il palazzo del governatore mister Brooks: contro cui lottava Sandokan, precursore delle guerriglie anti-coloniali.

      

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MONDIALITA'

Giornata Mondiale Del Rifugiato

Avvenire - 20 giugno 2011

L'Onu: nel mondo 43,7 milioni di persone costrette alla fuga  

   

Sono 43,7 milioni le persone costrette alla fuga in tutto il mondo. Non sono state mai così tante negli ultimi 15 anni. Di queste, i 4/5 sono accolti da Paesi in via di sviluppo e ciò avviene in un periodo segnato da una crescente ostilità nei confronti di rifugiati in molti Paesi industrializzati. È quanto indica il rapporto statistico annuale dell'Alto Commissariato dell'Onu per i Rifugiati (Unhcr) pubblicato oggi in concomitanza con la Giornata mondiale del rifugiato.

In base ai dati del rapporto 'Global Trends 2010' Pakistan, Iran e Siria ospitano il maggior numero di rifugiati, rispettivamente 1,9 milioni, 1,1, milione e un milione. Il Pakistan, ad esempio, risente dell'impatto economico maggiore con 710 rifugiati per ogni dollaro pro capite. In termini di paragone, la Germania, il paese industrializzato con la più alta popolazione di rifugiati (594 mila) accoglie 17 persone costrette alla fuga dalle loro patrie per ogni dollaro pro capite del pil.

Dei 43,7 milioni di persone costrette alla fuga, 15,4 milioni sono rifugiati, 27,5 milioni sono sfollati interni a causa di conflitti e circa 850 mila sono i richiedenti asilo. È 'particolarmente angosciantè, infine, - secondo Unhcr - il dato delle 15.500 domande di asilo presentato da minori non accompagnati o separati, gran parte dei quali somali o afgani. E il rapporto - si precisa - non prende in esame gli spostamenti forzati di popolazione nei primi 6 mesi del 2011, come quelli in Libia, Costa d'Avorio e Siria.

L'Alto Commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati, Antonio Guterres, ha incontrato a Roma il ministro dell'Interno Roberto Maroni. Nel corso del colloquio, spiega il Viminale, che ha permesso di "approfondire lo stato della collaborazione con il nostro Paese in materia di asilo", è stata ribadita la posizione dell'Unhcr sulla "protezione delle persone in fuga dalla Libia, tesa a promuovere una cooperazione sul piano regionale, con il coinvolgimento di tutta la comunità internazionale, in modo da fornire supporto ai Paesi più colpiti".

Guterres, aggiunge il Viminale, ha confermato il "giudizio favorevole, già espresso in altre occasioni, sul modello di accoglienza di immigrati e richiedenti asilo messo in atto dall'Italia. In particolare, sono state rivolte parole di apprezzamento nei confronti delle operazioni di salvataggio e soccorso in mare effettuati dalla Guardia Costiera e dalla Guardia di Finanza italiane, nonchè sulla gestione dell'accoglienza a Lampedusa e nei centri in cui i profughi sono stati ospitati per le procedure di protezione".

Guterres, aggiunge il Viminale, ha riaffermato l'impegno dell'Unhcr a "collaborare con l'Italia e con l'UE per favorire l'attuazione di una concreta politica di sostegno a quei governi dei Paesi dell'area mediterranea che si trovano confrontati con il processo di transizione democratica".

Il ministro Maroni, conclude il Viminale, ha infine "invitato l'Alto Commissario Guterres a Milano per il

prossimo settembre in occasione della Conferenza nazionale sul Mediterraneo che sarà finalizzata ad approfondire, da un lato gli sviluppi della 'primavera arabà e le sue ricadute sull'immigrazione, dall'altro le tematiche dell'accoglienza dei rifugiati nel nostro Paese".

   

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Umanesimo cristiano in aiuto all'imprevista "primavera araba" di Bernardo Cervellera

AsiaNews - Venezia - 20 giugno 2011

Il Comitato scientifico della rivista Oasis apre il dibattito sul presente e sul futuro delle "rivoluzioni dei gelsomini". Vi sono segni di grande novità: la battaglia contro la povertà, per la dignità umana, il rifiuto del radicalismo islamico. Preoccupano le pressioni dei gruppi fondamentalisti e i timori di Iran, Arabia saudita, Europa. Il patriarca Scola: È necessaria una nuova "ragione economica" e un umanesimo cristiano che sostenga i cambiamenti in atto.  

        

In poco meno di un anno il Medio oriente (compreso il mondo arabo del Nordafrica) è cambiato in modo radicale, manifestando una nuova e "imprevista primavera araba". Qual è il suo destino? Qual è il contributo che i cristiani possono dare per stabilizzare tale cambiamento? Quali sono le conseguenze per l'Europa che assiste impotente ed è solo preoccupata delle ondate di nuovi profughi? Sono queste alcune delle domande che il Comitato scientifico della rivista Oasis si sta ponendo in questi giorni del suo raduno annuale a Venezia, sotto la presidenza del suo fondatore, il card. Angelo Scola.

L'incontro si tiene da oggi fino al 22 giugno presso il Centro studi dell'Isola di S. Servolo e vede la presenza di diverse autorità ecclesiali da Egitto, Tunisia, Siria, Kuwait e Abu Dhabi, insieme ad accademici e studiosi da tutte le parti del mondo. Tutti tentano di rispondere al tema del convegno: "Medio oriente verso dove? Nuova laicità e imprevisto nordafricano".

Questa mattina, dopo i saluti di rito del direttore di Oasis, Martino Diez, è stato proprio il patriarca di Venezia a segnare le coordinate della problematica. Al di là di una reattività "d'ottimismo e pessimismo" verso i cambiamenti in corso, il card. Scola ha sottolineato che la primavera araba sta mettendo in luce una "nuova laicità", che non pesca la sua forza in modo diretto nella religione (islamica), ma nella ricerca di dignità umana, umiliata dalla povertà e dalla mancanza di diritti. Allo stesso tempo, egli mostra che questa rivoluzione è fragile e ha bisogno di solidificarsi e irrobustirsi anzitutto dal punto di vista economico.

In parallelo, egli ha tracciato il problema dal punto di vista europeo (la "stanca, passiva, dissipata, divisa Europa") che si preoccupa solo del flusso di profughi che arrivano sulle sue coste (poche migliaia) e non si accorge che la Tunisia, molto più povera, ne sta accogliendo dieci volte di più.

Anche l'Europa ha bisogno di ripensare alla sua economia e al sistema economico globale, per venire incontro alle domande della "primavera araba".

La risposta è una "nuova ragione economica" - come tratteggiata da Benedetto XVI nella sua enciclica "Caritas in veritate" - che prenda a cuore anche lo sviluppo dell'Africa, che non si accontenta della globalizzazione delle merci e degli uomini (anche dei profughi), ma globalizzi il profitto e i valori.

Per questo, sia nel mondo arabo che nel mondo occidentale è necessaria la testimonianza di un "umanesimo cristiano", che abbia come base la dignità della persona umana (uomo "creato a immagine e somiglianza di Dio" - v. Genesi 1,27; uomo "luogotenente di Dio sulla terra" - v. Corano 2,30).

Gli altri interventi della giornata hanno guardato in modo più analitico le diverse situazioni: quella della Tunisia e della tentazione fondamentalista di al-Nahdha, organizzazione radicale ritornata in auge dopo la caduta di Ben Ali, è stata studiata dalla prof. Malika Zeghal, di Harvard. Il prof. Nikolaus Lobkowitcz (università di Eichstaett), ha tentato un paragone fra la rivoluzione dell'89 in Est Europa e quella araba attuale, mostrandone soprattutto le differenze. Mons. Maroun Lahham, arcivescovo di Tunisi ha manifestato il ruolo marginale che la Chiesa ha avuto nella primavera araba in Tunisia, definendola però un esempio dei "semi del Regno" al di fuori delle frontiere della Chiesa.

Fra le diverse relazioni, si è distinta quella di Olivier Roy, professore dell'università europea di Firenze. Per Roy la "primavera araba" è un punto di non ritorno su cui egli è ottimista. Essa è giunta come una spinta ai diritti dell'individuo (e non delle masse); ha messo in crisi l'islam politico (nessuna similitudine con la rivoluzione khomeinista; né rivendicazioni per i palestinesi; né proclamazione del Corano come "la soluzione" dei problemi (v. Fratelli musulmani); sostiene la "dignità personale", più che "l'onore" del gruppo.

La religione è messa in secondo piano perché alla base vi è una scelta molteplice dei giovani (veri attori della rivoluzione): vi è chi segue i sufi, chi qualche maestro spirituale, chi lo yoga, chi lo zen...

Nonostante ciò, la presenza di gruppi radicali fa essere timorosi sul suo futuro. Per ora si può solo dire che nel futuro immediato vi saranno dibattiti molto forti su alcune questioni di rapporto fra la religione e la politica: l'apostasia, la blasfemia, ecc...

Un fatto messo in luce da Roy è lo sbigottimento di molta parte dell'opinione pubblica mondiale;m la paura di Iran e Arabia saudita; l'occidente timoroso per la sua economia e per il flusso dei profughi; Israele che teme la destabilizzazione del Medio oriente.

Secondo Roy, la qualità della rivoluzione araba si misura non tanto sul termine "laicità", ma sul posto che la religione può avere nel nuovo assetto socio-politico. In ogni caso, i cambiamenti avvenuti sono sulla pista di "valori universali" vicini alla "dignità dell'uomo" e al "buon governo" della tradizione occidentale, anche se non coincidenti.

Da parte sua, la professoressa Hoda Nehmé, decano di Filosofia all'università di Kaslik (Libano), ha fatto notare con un certo pessimismo che nella storia del mondo arabo e islamico vi sono state molte volte "rivoluzioni" e tentativi di affermare la "laicità", ma purtroppo l'integralismo religioso - talvolta aiutato dall'occidente - ha sempre avuto la meglio.

        

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Il deserto dell'Arabia saudita contro la primavera araba di Bernardo Cervellera

AsiaNews - Venezia - 21 giugno 2011

A Riyadh la "rivoluzione dei gelsomini" è stata soprattutto "virtuale", espressa da blogger e petizioni. Ma è stata subito soffocata, accusata di essere una "sedizione" contro Allah e una manovra "iraniana". Alcuni manifestanti sono scomparsi nelle mani della polizia. La richiesta di una costituzione "scritta da mani d'uomo" considerata un'offesa al Corano ("non scritto da mani d'uomo"). Ha avuto un peso anche l'appoggio incondizionato dei governi occidentali ai Saud.  

      

La primavera araba, che sta trasformando il volto delle società in Africa del nord e in Medio oriente ha la sua tomba: l'Arabia saudita. E questo non per motivi di integralismo religioso, ma per la forza di un potere politico che "sottomette" la religione al suo dominio. È un'immagine tutta speciale del regno saudita quella che è emersa oggi al secondo giorno del raduno del Comitato scientifico della rivista Oasis, che si interroga sul futuro della "primavera araba".

Relatrice d'eccezione sull'impatto della "rivoluzione dei gelsomini" nel regno dei Saud è stata la prof. Madami al-Rasheed, del King's College di Londra. "Il regime - ha detto - ha spiegato strategie religiose, di sicurezza ed economiche per sopprimere ogni piccolo segno virtuale, prima che si manifestasse come una reale protesta".

All'inizio - ha spiegato Madami - i regnanti sauditi hanno fatto di tutto per dire che l'Arabia "è diversa" dalla Tunisia, dall'Egitto, dal Bahrain: "erano quasi pronti a dire che noi non siamo arabi!". In realtà la situazione sociale a Riyadh è molto simile agli altri Paesi arabi: disoccupazione al 30%, soprattutto fra i giovani; 78% delle donne istruite senza lavoro; corruzione; gestione del potere come "negli antichi principati italiani del Rinascimento".

Poiché il controllo sociale è enorme, la "rivoluzione dei gelsomini" in Arabia si è espressa soprattutto nel web. "Nel febbraio 2011 molte petizioni sono circolate su siti internet, domandando riforme politiche". Ma il regime le ha subito oscurate. La distribuzione di benefici economici a pioggia doveva servire a placare le richieste di maggior benessere da parte dei disoccupati. Ma le petizioni non si sono fermate.

Fra le domande più insistenti, oltre al riconoscimento dei diritti umani, della partecipazione politica, della fine della corruzione, vi è quella di scrivere una costituzione "fatta da mani d'uomo": i regnanti sauditi, infatti, affermano che il Paese non ha bisogno di una costituzione, perché "la nostra costituzione è il Corano (non "fatta da mani d'uomo, ma da Allah")".

Anche le "giornate dell'ira", che negli altri Paesi arabi hanno radunato milioni di persone, in Arabia saudita si sono svolte solo sul web, con firme di petizioni e proclami e con indicazioni pratiche per scavalcare la censura ufficiale.

L'iniziale intervento per sedare le rivolte in Bahrain è servito ai Saud per bollare tutte le rivolte arabe (e soprattutto quella in casa propria) come un "complotto dell'Iran", manovrato dall'esterno, in cui non sono estranee mani straniere (occidentali).

Sfruttando "l'iranofobia" e usando metodi duri (la scomparsa nelle mani della polizia, di giovani blogger come Muhammad al-Wadani), perfino alcuni piccoli accenni di manifestazione sono stati cancellati.

Anche la religione - coi dottori coranici che sono di fatto dei burocrati al soldo dei regnanti - è servita a stigmatizzare ogni desiderio di cambiamento, visto come un attentato verso Allah, come un invito al caos (fitna).  

 

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Primavera araba "ambigua"; occidente "squallido" di Bernardo Cervellera

AsiaNews - Venezia - 23 giugno 2011

I rivolgimenti in Medio oriente e in Nordafrica aprono a speranze, ma anche a timori per un'involuzione militare o fondamentalista. Le Chiese di Tunisia ed Egitto vogliono vivere a fianco di tutta la popolazione. Il dibattito sulla "laicità" delle istituzioni e la libertà religiosa. L'occidente stanco e "pusillanime" ha bisogno di una nuova evangelizzazione. Un bilancio del raduno del Comitato scientifico di Oasis.  

   

La "primavera araba" è ambigua ed è ancora molto forte il rischio di tradirla col fondamentalismo islamico o l'autoritarismo del potere politico o militare. Ma essa è "un punto di non ritorno" perché ha fatto emergere il bisogno di pluralismo all'interno dello stesso islam arabo. Per questo garantire pluralismo, libertà religiosa e la vita delle comunità cristiane è la migliore garanzia per un futuro democratico e per una società civile aperta.

Allo stesso tempo, la "primavera araba" mette in discussione anche l'occidente dove quei valori che il mondo arabo sta cercando sono tradotti in modi che emarginano la religione o inneggiano al relativismo.

Sono questi alcuni dei temi che si sono rincorsi nei tre giorni di raduno (dal 19 al 22 giugno) del Comitato scientifico della rivista Oasis a Venezia, sotto la presidenza del card. Angelo Scola, con la presenza di vescovi e patriarchi dal Medio oriente, dal Nordafrica e dall'Europa, e di studiosi cristiani e islamici delle più qualificate università mondiali.

     

Ambiguità nel presente e nel futuro

Le insurrezioni in Medio oriente e Africa del nord sono "ambigue" anzitutto perché hanno intrapreso strade differenti nei diversi Paesi: rivoluzione non violenta (o quasi) in Tunisia ed Egitto; conflitto sanguinario in Libia, Siria, Bahrain, Arabia saudita. In tutte però vi è la domanda della popolazione a una vita più dignitosa, al lavoro, al cambiamento di regime, alla democrazia vista come una possibilità di far diventare protagonisti della vita sociale gruppi e minoranze che costituiscono la popolazione dei Paesi interessati.

Vari esperti sono intervenuti a sottolineare che tutto questo mostra la profonda esigenza di una pluralità rispettata e vissuta e il desiderio di una società che si basa sulla dignità della persona e non sul potere o la corruzione. In questo senso, le "insurrezioni" rifiutano un islam monolitico, che non lascia spazio a modi diversi di vivere la fede musulmana e alle altre minoranze religiose. Proprio per questo, in non pochi casi (soprattutto Tunisia ed Egitto) i cristiani sono scesi in piazza fianco a fianco a dimostrare con i giovani musulmani.

Mons. Maroun Laham, arcivescovo di Tunisi ha detto a più riprese che i cristiani "non hanno paura" di questi sommovimenti. Al contrario, occorre che i cristiani del Medio oriente (e Nordafrica) siano aiutati a integrarsi sempre di più nel tessuto sociale dei loro popoli.

A tale proposito, il patriarca cattolico di Alessandria Antonio Naguib, ha ricordato che durante le manifestazioni di piazza Tahrir "i cristiani non hanno domandato la protezione dell'occidente". L'imam di Al Azhar e il governo di Mubarak hanno invece sostenuto che Benedetto XVI avesse domandato tale protezione per i cristiani, ma si tratta di un'interpretazione errata delle parole del papa (v. AsiaNews.it, 20/01/2011 L'università islamica di Al Azhar sospende il dialogo con il Vaticano).

     

Una "terza via" per la laicità

Le prospettive della rivolta dei giovani rimangono comunque sospese. Anzitutto perché oltre al desiderio di cambiamento nella pluralità vi sono altri fattori: l'esercito; i gruppi fondamentalisti; le vecchie nomenclature. Alcuni esperti - come Mark Movsesian, direttore del Center of Law and Religion alla St John's University (New York, Usa) - hanno ricordato che alla fine del XIX secolo, l'impero ottomano aveva cercato di secolarizzare la società (Tanzimat) garantendo piena cittadinanza a tutti i gruppi (anche ai cristiani) e spingendo verso la democrazia. Ma la caduta dell'impero ha portato al potere i militari turchi e ha causato il contraccolpo del genocidio armeno e cristiano.

Nella ricerca di una società che dia piena cittadinanza a tutti i gruppi sociali, il Medio oriente ha davanti due modelli: quello "americano", in cui lo Stato è neutrale verso le religioni, ma permette ad esse un'influenza nella società, pur sottomesse al rispetto dei diritti umani; quello "francese" in cui alle religioni si lascia solo uno spazio nel privato, escludendole dalla vita pubblica. Diversi autori - e fra questi, Salim Daccache, libanese dell'université St Joseph (Beirut) - hanno mostrato che in Libano e in Medio oriente le persone vivono un'appartenenza molto forte alle comunità religiose e per questo è importante ricercare "una terza via", in cui lo Stato dia spazio all'influenza delle religioni nella società, ma garantisca allo stesso tempo la pluralità delle espressioni religiose.

Va detto che in questa ricerca della "terza via", sono impegnati anche gruppi integralisti come i Fratelli musulmani in Egitto o i partiti salafiti in Tunisia, anche se per alcuni esperti queste loro posizioni moderate sembrano più un espediente pre-elettorale che un reale cambiamento di prospettiva.

Il card. Scola ha più volte sottolineato che il futuro positivo delle "insurrezioni" potrà essere verificato nel passaggio verso l'istituzionalizzazione, nello spazio che le nuove strutture sociali e politiche daranno alla libertà religiosa.

     

Lo stanco occidente

In tutto questo quadro di rivolgimenti e ricerche, è emerso in modo piuttosto chiaro il silenzio o la pusillanimità dell'occidente (europeo e statunitense). Esso aveva sempre appoggiato i dittatori di turno nei Paesi coinvolti dalla "rivoluzione dei gelsomini" ed è rimasto senza parole davanti alle manifestazioni, predicando rispetto e giustizia quando i governi (appoggiati e riconosciuti da Europa e America) hanno tentato la via della violenza per cancellarla.

Qualcuno (il prof. Vittorio E. Parsi, dell'Università cattolica di Milano) ha tentato di mostrare come impegno "per i diritti umani" l'intervento Nato in Libia, ma in molti hanno fatto notare le critiche della Chiesa locale all'intervento, che non lascia alcuno spazio alla diplomazia, e i tanti sospetti che dietro le manovre militari occidentali in Libia si nascondano interessi petroliferi e finanziari.

Proprio lo squallore con cui l'occidente si disinteressa alle rivoluzioni arabe (o si interessa in modo parziale e interessato), ha spinto il card. Scola a concludere il raduno ricordando l'urgenza dell'evangelizzazione, non solo in Medio oriente, ma anche in Europa, dove la secolarizzazione sta trascinando anche i cristiani a vivere il cristianesimo come un'ispirazione solo culturale o caritativa. "Occorre - ha detto il patriarca di Venezia - ritornare a un'identità cristiana vissuta in modo personale e comunitario".

     

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Papa: si cerchi "ogni possibile forma di mediazione" per il Medio Oriente e il Nordafrica

AsiaNews - Città del Vaticano - 24 giugno 2011

Sia data assistenza a coloro che fuggono. Aiutare a mantenere nella regione la presenza dei cristiani, che possano vivere come concittadini e non come stranieri, riconoscendo la loro uguale dignità e reale libertà.  

          

Si esplori "ogni possibile forma di mediazione" per fermare la violenza nell'Africa del nord e in Medio Oriente, in modo che torni la pace "nel rispetto dei diritti sia delle persone che delle comunità". E' la "preghiera" elevata oggi da Benedetto XVI che. ricevendo i partecipanti all'assemblea della Riunione delle opere in aiuto alle Chiese Orientali (ROACO).è così tornato a chiedere che si fermino i conflitti e si cerchi la via del dialogo.

"Prego - le sue parole - perché sia resa disponibile ogni forma di necessaria assistenza di emergenza, ma soprattutto prego che sia esplorata ogni forma possibile di mediazione così che possa cessare la violenza e siano ovunque restaurate l'armonia sociale e la coesistenza pacifica, nel rispetto per i diritti sia delle persone che delle comunità".

La preghiera del Papa giunge a poco pi di un mese dall'esortazione rivolta all'ambasciatore siriano, quando disse che in Medio Oriente serve "una soluzione globale" che "non deve ledere gli interessi di nessuna delle parti in causa ed essere il frutto di un compromesso e non di scelte unilaterali imposte con la forza" che "non risolve nulla".

Oggi, riferendosi ai "cambiamenti che stanno avvenendo nei Paesi dell'Africa del nord e del Medio Oriente, che sono fonte di preoccupazione in tutto il mondo", il Papa ha detto di essere informato dal patriara copto-cattolico (di Egitto), dal patriarca maronita (libanese) dal rapporesentante pontificio a Gerusalemme e dalla Custodia francescana di Terra Santa, dalle congregazioni e dalle agenzie che "sono in grado di verificare la situazione sul terreno per quanto riguarda le Chiese e i popoli di quella regione, che è così importante per la pace e la stabilità del mondo. Il Papa vuole esprimere la sua vicinanza, anche attraverso voi, a coloro che stanno soffrendo e a coloro che stanno tentando disperatamente di fuggire, incrementando in tal modo il flusso della migrazione che rimane sempre senza speranza".

Alla ROACO, infine, egli ha raccomandato "la carità ecclesiale", per la Terra Santa e tutto il Medio Oriente "per sostenervi la presenza cristiana. Vi chiedo di fare tutto ciò che vi è possibile - anche interessando le autorità pubbliche con le quali siete in contatto a livello internazionale - perché in Oriente dove sono nati i pastori e i fedeli di Cristo possano vivere non come 'stranieri', ma come 'concittadini' che testimoniano Gesù Cristo, come hanno fatto prima di loro i santi del passato, anch'essi figli delle Chiese orientali. L'Oriente è giustamente la loro patria terrena. E' là che essi sono tenuti a promuovere, senza distinzioni, il bene di tutti, attraverso la loro fede. A tutti coloro che professano tale fede debbono esssere riconosciute una uguale dignità e una reale libertà, in modo da consentire una collaborazione ecumenica e interreligiosa iù fruttuose".

     

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Un mercato da redimere di Giulio Albanese

Avvenire - 22 giugno 2011

Svolta etica sempre più necessaria  

          

Inutile nasconderselo, oggi il cibo viene trattato alla stregua di qualsiasi altra merce da parte di un'"alta finanza" mondiale che guarda tendenzialmente alla massimizzazione dei profitti. E la mancanza di una saggia regolamentazione dei mercati continua a determinare un'esplosiva e mortale emergenza alimentare su scala planetaria. Basta aprire gli occhi per rendersi conto che la mancanza di un effettivo contenimento della "volatilità" delle quotazioni dei prodotti agricoli sta avendo effetti devastanti in molti Paesi del Sud del mondo, soprattutto tra i ceti meno abbienti. E chi non riesce a vedere e capire potrebbe almeno sforzarsi di ascoltare la voce accorata dei nostri missionari.

Per garantire la stabilità dei prezzi, in un mercato a domanda rigida come quello alimentare, è importante che la politica esca dal letargo, contrastando quello che è lo strapotere delle grandi imprese dell'agro-business. Si tratta in sostanza di riaffermare il primato della persona umana sugli affari, investendo diligentemente nel settore agricolo. Da una parte, occorre potenziare le produzioni locali con la valorizzazione delle cosiddette identità territoriali; dall'altra, è necessario contrastare con ogni mezzo, nelle zone rurali, l'omologazione delle culture che, com'è noto, deprime i prezzi, aumentando a dismisura la dipendenza dall'estero. Questo in sostanza significa dare impulso, nella cooperazione alla sviluppo, a un approccio innovativo che vada ben al di là della logica assistenziale dei tradizionali donatori internazionali.

A essi va decisamente chiesto di farsi carico delle istanze degli agricoltori, garantendo credito e investimenti per favorire un adeguato approvvigionamento alimentare a tutte le popolazioni del pianeta, senza discriminazioni di sorta. Anche perché, sebbene in alcune regioni della Terra permangano bassi livelli di produzione agricola, globalmente tale produzione sarebbe sufficiente per soddisfare sia la domanda attuale, sia quella prevedibile in futuro.

    

È necessario pertanto riformare il sistema globale con coraggio, contrastando, ad esempio, il ricorso a certe forme di sovvenzioni care all'Europa, ma che perturbano gravemente il settore agricolo, particolarmente in Africa. E cosa dire della persistenza di modelli alimentari orientati al solo consumo e privi di una prospettiva di più ampio raggio che tenga conto del bene comune? Una cosa è certa, l'emergenza alimentare non si risolve imponendo ai produttori di tenere bassi i prezzi, perché non sarebbero in grado di sbarcare il lunario nel contesto dell'attuale congiuntura economica. Quelli che invece dovrebbero aprire il cordone della borsa sono coloro che ricercano sempre e comunque il profitto a breve termine, speculando sulle masse dei poveri vecchi e nuovi.

      

Non è affatto normale, né moralmente accettabile, il volume della bolla finanziaria che si è venuta a gonfiare in questi anni attorno alle materie prime agricole. Il tema deve essere indubbiamente affrontato dai Grandi della Terra, e dunque interpella anche il nostro governo in vista - tra l'altro - dell'Expo 2015 all'insegna dello slogan "Nutrire il Pianeta, energia per la vita". Milano, è bene rammentarlo, è anche una delle capitali della finanza mondiale. E allora - se il nostro Paese intende davvero rivestire un ruolo significativo nella sfida planetaria della lotta contro inedia e pandemie - non può fare orecchie da mercante su una questione delicata e scottante come il rapporto tra cibo e speculazione.

      

Un tema questo cui Avvenire ha dedicato da tempo costante attenzione, dando voce a chi non ha voce, nella convinzione che sia sempre più necessaria una svolta all'insegna del sano recupero di criteri etici nelle attività economico-finanziarie. E che questa possa diventare la chiave per superare le gravi distorsioni di un mercato che ha bisogno di redenzione.

   

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Giornata Internazionale Lotta Droga

Avvenire - 25 giugno 2011

Giornata Onu: nel mondo 25 milioni di tossicodipendenti  

   

Circa 200 milioni di persone assumono droghe almeno una volta all'anno. Di questi, 25 milioni sono considerati tossicodipendenti e ogni anno 200mila persone muoiono per malattie correlate all'uso droga. Muove da questi dati la Giornata internazionale contro il consumo e il traffico illecito di droga, che si celebra domenica, indetta dall'Assemblea generale dell'Onu nel 1987 per ricordare l'obiettivo comune a tutti gli Stati membri di creare una comunità internazionale libera dalla droga.

L'ufficio delle Nazioni Unite contro la Droga e il Crimine sceglie ogni anno il tema della giornata internazionale, lanciando campagne di sensibilizzazione sul problema della droga nel mondo e quest'anno il tema sarà quello della "Salute". La campagna, si legge sul dito dell'Unicri, l'agenzia dell'Onu per la prevenzione del crimine, si rivolge ai giovani, che spesso parlano degli "effetti da sballo" delle droghe illegali, ma che il più delle volte non sono consapevoli dei molti "effetti negativi".

L'uso di stupefacenti è preoccupante proprio perché rappresenta una minaccia per la salute. Gli effetti negativi variano a seconda del tipo di droga consumata, delle dosi assunte e della frequenza del consumo. Tutte le droghe hanno effetti fisici immediati, ma possono anche gravemente compromettere lo sviluppo psicologico ed emotivo. Condurre una vita sana richiede scelte che devono rispettare il corpo e la mente. E per fare queste scelte i giovani hanno bisogno di ispirarsi a modelli positivi e hanno bisogno di ottenere informazioni corrette riguardanti il consumo di droga. La campagna internazionale offre ai giovani proprio gli strumenti adeguati per informarsi sui rischi per la salute associati al consumo di droghe.

   

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La tortura degli uomini ferita aperta del mondo di Stefano Vecchia

Avvenire - 25 giugno 2011  

 

Domani, 26 giugno, ricorre la Giornata internazionale e a sostegno delle vittime della tortura, quest'anno alla 13ma edizione. Un'iniziativa per ricordare la ratifica, il 26 giugno 1987, da parte dei primi venti paesi, della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altri trattamenti o punizioni crudeli, disumani o degradanti.

Nel tempo, tuttavia, queste pratiche non si sono esaurite e la loro applicazione si è estesa oltre i confini geografici di allora e su gruppi di popolazione diversi. Se 24 anni fa a ispirare la Convenzione fu soprattutto la situazione dei diritti umani in paesi dai regimi dittatoriali e illiberali, oggi è sempre più la condizione in cui si trovano profughi e fuggiaschi da realtà di conflitto e degrado.

Poco conta che attualmente la Convenzione abbia 66 paesi firmatari e altri 55 associati, davanti a una realtà che vede in pratiche coercitive, abusi e violenze psico-fisiche strumenti costanti di controllo e di intimidazione. Che includono come delineato da Human Rights Watch nel suo ultimo rapporto, sia paesi firmatari della Convenzione, come Gran Bretagna, Francia, Germania, Nigeria (che detiene forse il record delle esecuzioni extragiudiziarie dovute alle forze di sicurezza), Cina, sia paesi, come il Myanmar e il Bahrain, che ne sono ancora esclusi. 

Oggi, in un gran numero di paesi, una novantina quelli elencati da Human Rights Watch nel suo Rapporto del 2010, forme di tortura si affiancano abitualmente alla carcerazione, si associano al controllo della popolazione e dell'ordine pubblico, sono strumenti di dissuasione verso  dissidenza o proteste. Vittime ne sono, in numero crescente anche i minori, arruolati con la forza tra combattenti o utilizzati a supporto delle necessità delle parti nei conflitti, e le donne. Lo stupro, come registrato e denunciato in questi giorni anche in Libia, è diventato un diffuso strumento di terrore sulle popolazioni civili da parte dei belligeranti. 

Esiste tuttavia anche una realtà transnazionale su cui forme di violenza e coercizione fisica o psicologica vanno sempre più riversandosi. In aree diverse del pianeta, un gran numero di persone tra i milioni in fuga o allontanate con la forza dalle terre d'origine subiscono una qualche forma di tortura, prima della partenza o, più spesso durante il loro peregrinare ma anche alla meta. Un problema che per la persistenza delle conseguenze sulle vittime, sulle famiglie e sulle comunità diventa, come sottolinea una ricerca della Facoltà di Medicina dell'Università di Boston (Usa), "un problema di salute pubblica globale sovente sottostimato anche per la tendenza dei sopravvissuti a non rendere pubblica la propria condizione".

Uno studio della stessa Facoltà ha messo in luce come l'11% di pazienti di origine straniera trattati in centri di salute pubblica primari negli Stati Uniti siano stati sottoposti a tortura. Un dato coerente con le stime che indicano che una percentuale variabile tra il 5 e il 30% dei rifugiati a livello mondiale (11 milioni quelli definiti come tali e altrettanti quelli diversamente riconosciuti) abbiano subito una qualche forma di tortura, percentuali che salgono ulteriormente  in alcuni gruppi etnici. I dati son disomogenei e da qui la difficoltà di fornire cifre confrontabili.

Può non sbalordire, per quanto drammatica, la cifra di almeno 300 prigionieri deceduti lo scorso anno nelle carceri in Myanmar per maltrattamenti e torture; colpisce invece il dato dei quasi 1.800 morti in carcere tra il 2007 e il 2008 e 127 sotto custodia della polizia nel biennio 2008-2009 dell'India. 143 i morti per maltrattamenti in prigione denunciati solo dal movimento Falungong in Cina nei diciotto mesi precedenti i Giochi Olimpici, ma la situazione resta grave. Come suggerisce anche Amnesty International, "la tortura in Cina resta uno delle maggiori violazione dei diritti umani e il numero di funzionari che la utilizzano, come pure quello delle loro vittime è in espansione".

   

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AFRICA

Puntare sul riso africano ma non solo per ridurre dipendenza alimentare

Misna - giugno 21, 2011

      

Migliorare la qualità e la commercializzazione del riso prodotto in otto paesi africani con metodi di raccolto e conservazione che consentono di ridurre gli sprechi, sostenere  il reddito delle famiglie contadine: sono gli obiettivi di un nuovo progetto quinquennale del Centro del riso per l'Africa (African Rice Center) lanciato a Cotonou, una delle sedi dell'organizzazione di ricerca panafricana.

Secondo gli esperti in agronomia, "migliorare le pratiche agricole dal punto di vista delle tecnologie e della formazione consentirebbe di migliorare la produttività ma anche di ridurre le perdite del 10% nella fase post-raccolto" si legge in un comunicato diffuso dal Centro del riso per l'Africa che coinvolge nel nuovo progetto Camerun, Gambia, Ghana, Mali, Nigeria, Senegal, Sierra Leone e Uganda.

L'aumento delle quantità di riso prodotte unito alla riduzione degli sprechi e alla diversificazione di prodotti alimentari derivanti dalla materia prima dovrebbero non solo consentire di migliorare il livello di sicurezza alimentare degli agricoltori ma anche far lievitare il loro reddito annuo.

L'iniziativa giunge in un contesto di grande variabilità dei prezzi dei cereali sui mercati internazionali legata all'aumento del costo del carburante che si ripercuote sul trasporto delle merci, ma anche in più paesi di fine anticipata della stagione umida che ipoteca buoni raccolti per i prossimi mesi.

L'Africa da sola consuma un terzo delle importazioni mondiali di riso in quanto la produzione locale non riesce a soddisfare la domanda di una popolazione in continua crescita: l'African Rice Center si pone come obiettivo la valorizzazione del potenziale agricolo per allontanare dal continente lo spettro della fame.

Su 874 milioni ettari di terre coltivabili, solo 150 milioni vengono effettivamente sfruttati mentre l'Africa utilizza soltanto il 4% delle sue risorse idriche per l'irrigazione dei terreni agricoli. Inoltre il continente registra un forte ritardo in termini di infrastrutture, tecnologie e formazione che se colmato consentirebbe di migliorare la produttività di un settore cruciale per il futuro dell'umanità.

Un paradosso, quello di tante risorse ma tanta fame, che spinge alcuni agronomi e ricercatori a sollecitare dai governi politiche di sostegno alle culture locale "poco valorizzate seppur molto diversificate e ricche" ha detto Amadou Tidiane Guiro, professore alla facoltà di scienze e tecniche dell'Università Cheikh Anta Diop di Dakar. Secondo lui il "ricco potenziale dell'Africa in materia di biodiversità alimentare può diventare una fonte di innovazione per la nostra agricoltura" allora, insiste, "basta importare prodotti stranieri, investiamo e puntiamo sulle produzioni locali da trasformare in loco per ridurre la nostra dipendenza alimentare".[VV]

   

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Land grab: Africa in vendita di Sara Milanese

MissiOnLine - 20 giugno 2011  

Saccheggio delle terre. Non solo Cina e India: anche Usa e Europa comprano terra africana a prezzi stracciati. Col rischio di una crisi globale per gli alimenti.  

    

550mila ettari di terra coltivabile in Mali, 3 milioni e mezzo in Etiopia. E poi Sierra Leone, Madagascar, Mozambico, Tanzania: solo nel 2009 l'Africa ha venduto o affittato (per periodi che vanno dai 20 ai 99 anni) 60 milioni di ettari delle sue terre migliori, un territorio vasto come la Francia.

E il fenomeno non fa che aumentare, di anno in anno: basti pensare che nel 2008 i terreni affittati in Africa erano "a malapena" 4 milioni di ettari. Ormai le conseguenze sono evidenti: il prezzo degli alimentari cresce, "è volatile" avvertono gli economisti.

Il land grab è stato denunciato pesantemente dall'ONU nel 2009: in un rapporto le nazioni asiatiche emergenti (India e Cina in testa, seguite da Indonesia, Corea del Sud, Arabia Saudita) sono state accusate di aver stipulato contratti fortemente iniqui, strappando affitti irrisori ( tra i 2 e i 10 dollari all'anno in Africa, mentre in Argentina o Brasile sono intorno ai 5mila dollari) in cambio di "promesse" di posti di lavoro e di nuove infrastrutture per lo sviluppo, ma senza nessuna clausola che penalizzi il mancato rispetto di queste "promesse".

Sembrava che questa corsa all'accaparramento della rossa terra africana fosse una prerogativa delle nazioni emergenti, dove la crescita economica spinge i consumi, tanto che i governi non riescono a soddisfare le esigenze della popolazione. Invece di aumentare le importazioni dall'estero, questi stati hanno deciso di produrre da soli, sulla terra degli altri. Anche per evitare pesanti tracolli economici quando arriverà la prossima crisi dei prezzi del cibo. L'Africa si presta a meraviglia per questo scopo: enormi distese di terra ricca, non sfruttata. Di proprietà di governi o di provati che non sanno che farsene. E che cedendo facilmente alle offerte di denaro, firmano contratti di affitto davvero iniqui.

Invece in questo brutto affare l'Occidente non ha le mani pulite: lo denuncia un rapporto dell'Oakland Institute (un importante think tank statunitense), che punta il dito contro i grandi finanzieri internazionali. Sul banco degli imputati soprattutto gli hedge funds e alcuni fondi pensione, che, emulando Pechino e New Delhi, hanno direttamente acquisito o affittato vasti terreni africani, invece che investire, come di consueto, in titoli o derivati. I fondi speculativi non sono controllati solo da importanti banche come JPMorgan o Goldman Sachs: l'Oakland Institute avverte che sono coinvolte anche alcune grandi università statunitensi, come Harvard, Spelman o Vanderbilt.

Esattamente come i governi asiatici, i contratti stipulati dagli hedge fund occidentali non tengono in considerazione le esigenze delle popolazioni locali, la complessità economica e sociale delle realtà africane, il rispetto dell'ambiente e della stessa stabilità politica, perchè intacca direttamente la sicurezza alimentare nazionale.

Spesso i governi svendono, in omaggio con l'acquisto della terra, anche la manodopera per coltivarla, cioè i contadini, che oltre alla terra rischiano di perdere anche un altro bene fondamentale: l'acqua. Senza considerare le consuetudini legate alla pastorizia, all'allevamento, alle attività di raccolta tradizionali. Un atteggiamento "scandaloso", afferma l'istituto californiano.

I nuovi proprietari, inoltre, rimpiazzano le colture tradizionali con massicce produzioni di biocarburanti o di fiori da recidere. Cosa che ridotto l'offerta alimentare, facendo lievitare i prezzi. A livello locale, come internazionale, considerate le dimensioni del fenomeno.

    

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AMERICA LATINA

"Metti le scarpe di un rifugiato e fai il primo passo per capire la loro situazione"

Agenzia Fides - La Paz - 21 giugno 2011

      

"Metti le scarpe di un rifugiato e fai il primo passo per capire la loro situazione": questo il tema della campagna lanciata in America Latina dalla Pastorale della Mobilità Umana (per i Migranti), che appartiene all'Area di Promozione Umana della Conferenza Episcopale della Bolivia, insieme all'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (ACNUR), in occasione della Giornata Mondiale del Rifugiato e nell'anniversario dei 60 anni dalla convenzione del 1951. Secondo la nota inviata all'Agenzia Fides dalla Pastorale della Mobilità Umana, questo invito a "mettersi nei panni di un rifugiato" è anche un invito a sfidare l'intolleranza e il disprezzo per le persone che, per salvare le loro vite, hanno perso tutto, tranne "la determinazione di ricominciare".

Nella nota si legge che in Bolivia, le persone con lo status di rifugiato sono circa 700, tra adulti e bambini provenienti da paesi diversi, tra cui Perù, Colombia, Iraq, Camerun, Cuba ed altri ancora. La maggior parte di loro vive a la Paz, Cochabamba e Santa Cruz. Sono vulnerabili sia perché molti di loro sono perseguitati dal paese d'origine, inoltre perché vivono l'incertezza di una nuova situazione di vita nel paese di asilo. "Nonostante queste limitazioni, i rifugiati fanno gli sforzi necessari per integrarsi ed impegnarsi per lo sviluppo della società che apre loro le braccia e gli permette di formare la loro nuova casa". La nota continua: "lo stato della Bolivia, in riferimento alla convenzione del 1951 per lo Statuto dei rifugiati e al suo impegno di realizzare azioni per salvaguardare e proteggere i rifugiati in Bolivia, ha dato attuazione al Decreto Supremo 28329 che crea la Commissione nazionale per i rifugiati (CONARE) e stabilisce le procedure per determinare lo status di rifugiato in Bolivia". Le nuove realtà nel contesto attuale dei rifugiati e i settori della società civile interessati, hanno iniziato la stesura di una legge che sia concorde con la nuova Costituzione dello Stato, con gli accordi e i trattati internazionali, e soprattutto che risponda alle necessità delle persone che hanno chiesto la protezione internazionale in Bolivia. La nota si conclude con un appello a sforzarsi di comprendere la situazione dei rifugiati. (CE)

   

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Quanto costa la violenza

Misna - 21 giugno 2011 

   

Oltre 6,5 miliardi di dollari, pari all'8% del Prodotto interno lordo regionale: questa la stima della Banca interamericana di sviluppo (Bid) sui costi della spirale di violenza che affligge l'America Centrale a causa del dilagare della criminalità organizzata dedita per lo più al narcotraffico e alla tratta di esseri umani.

"Oltre il 50% (3,3 milioni) equivale a perdite nel settore sanitario, 1,2 milioni in quello della sicurezza, 1,3 milioni sono costi istituzionali" precisa il Bid in un rapporto in cui aggiunge che "l'insicurezza cittadina e il crimine organizzato transnazionale sono diventati la principale sfida per lo sviluppo delle democrazie dell'America Centrale, dove hanno debilitato lo stato di diritto e le istituzioni superando la capacità di risposta dei governi". La violenza, ha sottolineato la Bid, "ha un effetto diretto sullo sviluppo economico".

Secondo il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Unpd) il Centroamerica registra un tasso di omicidi di 33,3 ogni 100.000 abitanti: "Questo dato supera il tasso del 28,8 dei Caraibi, il 24,8 dei paesi andini, il 10,9 del Cono Sud ed è quattro volte superiore alla media mondiale di 8 omicidi ogni 100.000 abitanti" precisa il documento.

Nel 2009, il dato più aggiornato preso in esame dalla Bid, si sono contati in America Centrale 18.815 omicidi, pari a 52 al giorno: le principali vittime ma allo stesso tempo i primi responsabili sono i giovani, una circostanza "che compromette il futuro della regione".

Si stanno intanto ultimando i preparativi per il vertice regionale dedicato alla sicurezza che avrà luogo domani e giovedì in Guatemala. Alla 'Conferenza internazionale di sostegno alla strategia di sicurezza del Centroamerica' parteciperanno, tra gli altri, i presidenti della regione, i capi di Stato di Messico, Colombia e Repubblica Dominicana, il segretario di Stato americano, Hillary Clinton, il ministro degli Esteri spagnolo, Trinidad Jiménez, e il segretario generale dell'Organizzazione degli Stati americani (Osa), José Miguel Insulza. [FB]

       

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ASIA

Scende il prezzo del petrolio, salgono le borse asiatiche

AsiaNews - Hong Kong - 24 giugno 2011

Messi a disposizione 60 milioni di barili dalle riserve dell'Agenzia internazionale dell'energia. Dopo sette settimane di discesa, le borse salgono. Importante la decisione Ue di sostenere la Grecia e la promessa di Wen Jiabao di contenere l'inflazione in Cina.  

   

L'Agenzia internazionale dell'energia ha deciso di incrementare le forniture di petrolio, portando ad un abbassamento del prezzo. Grazie a questo piccolo segnale, le borse in Asia hanno visto un incremento dopo sette settimane di valori in discesa.

L'Agenzia per l'energia ha deciso di aumentare le forniture di 60 milioni di barili entro il prossimo mese, prendendolo dalle sue riserve. Ufficialmente, la ragione è che a causa della guerra, la Libia non riesce a mantenere la produzione stabilita.

Secondo analisti, la mossa serve soprattutto agli Stati Uniti che attraverso un abbassamento del prezzo del greggio cerca di stabilizzare la sua economia. Ieri sera a New York il prezzo del crudo è sceso del 4,6 %, a 91,02 al barile. A Londra il Brent è sceso del 5 %.

La borsa di Hong Kong è salita oggi dell'1,9%; quella di Shanghai del 2,2; Tokyo dello 0,87; Seoul dell'1,7%. Dai primi di maggio, l'indice Msci per l'Asia-Pacifico era sceso del 6,2%.

A rafforzare le borse vi sono altri due fattori. Anzitutto, la decisione dell'Unione europea di stabilizzare l'area dell'euro, garantendo aiuti alla Grecia, dopo il voto del parlamento di Atene a favore dei tagli di bilancio per 78 miliardi di euro. In secondo luogo, ha iniettato fiducia la promessa del premier Wen Jiabao di tenere sotto controllo l'inflazione in Cina

   

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Una voce cattolica in seno all'ASEAN, "coscienza sociale" per il dialogo e le libertà

Agenzia Fides - Bangkok - 21 giugno 2011

  

Le Chiese asiatiche accolgono con favore e con grandi speranze la nomina di Sua Ecc. Mons. Leopoldo Girelli come primo Nunzio Apostolico presso l'Associazione delle Nazioni del Sud Est Asiatico (ASEAN). Come riferito a Fides, le Chiese locali auspicano che possa essere una voce che favorisca il dialogo e le buone relazioni fra le Chiese e i governi, che porti i valori cristiani e crei maggiore attenzione a questioni come la tutela della dignità della persona, della libertà religiosa e dei diritti umani nei paesi dell'ASEAN.

Mons. Girelli è già Nunzio apostolico in Singapore ed in Timor Est, Delegato apostolico in Malaysia e in Brunei e rappresentante pontificio non residente per il Vietnam, ed è "da molti anni profondo conoscitore della complessa realtà del Sudest asiatico", rimarca in un colloquio con Fides p. Raymond O'tool, che opera presso il Segretariato Generale della FABC, la Federazione delle Conferenze Episcopali dell'Asia. "La sua presenza agli incontri dell'ASEAN - nota - servirà come coscienza sociale e punto di riferimento morale, basato sull'insegnamento della Chiesa, in situazioni delicate dove questi riferimenti sono necessari o mancano del tutto". Nell'ASEAN, ricorda p. O'tool, vi sono "paesi come il Mynamar dove una dittatura penalizza il dissenso e manca di tolleranza; come l'Indonesia dove si fanno strada fermenti di estremismo islamico, come il Vietnam, con segnali di apertura da un lato e di durezza dall'altro. La presenza di una voce della Chiesa al tavolo di discussione è un positivo passo in avanti", aggiunge.

"Nelle realtà più difficili dei paesi asiatici - spiega a Fides l'Arcivescovo indiano Mons. Thomas Menamparampil, a capo della Commissione per l'Evangelizzazione nella FABC - abbiamo bisogno, come Chiesa, di un approccio dialogico che, rispettando le tradizioni storiche e culturali di ogni contesto, sviluppi buone relazioni a livello locale. Siamo certi che la presenza del Nunzio nell'ASEAN sarà occasione per migliorare i rapporti con le autorità civili e le condizioni dei popoli della regione, perché gli stati e le Chiese operino insieme per il bene comune".

P. Peter Watchasin, sacerdote di Bangkok e Direttore delle Pontificie Opere Missionarie in Thailandia, ritiene la nomina molto importante: "Auspichiamo che possano avere maggiore attenzione, fra gli stati dell'ASEAN, le questioni relative alla libertà religiosa e ai diritti umani. Penso, ad esempio, alla difficile situazione dei credenti in Laos, dove è fortemente limitata anche la libertà di culto. Credo che si possano aprire buone speranze e novità".

Nata alla fine degli anni '60, per promuovere interessi sul piano politico, economico e culturale, l'Associazione dei Paesi del Sud Est asiatico, ha attualmente 10 membri: Indonesia, Malaysia, Filippine, Singapore e Thailandia (i 5 fondatori), Brunei, Vietnam, Laos, Myanmar e Cambogia. Fra gli scopi dell'ASEAN, promuovere la crescita economica, la pace e la stabilità regionale, l'amicizia e la cooperazione. L'Associazione rappresenta oltre 560 milioni di persone. (PA) 

 

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Mar Cinese meridionale: gli interessi di Washington alimentano la tensione

AsiaNews - Manila - 24 giugno 2011

Le Filippine si rivolgono agli Stati Uniti per modernizzare l'apparato militare. La Cina lancia un monito agli Usa, perché stiano "alla larga" dalla regione. La diplomazia cinese cerca di placare la tensione con il Vietnam. Ma è guerra aperta fra i giornali vicini ai governi comunisti di Pechino e Hanoi.  

        

Manila ne invoca l'aiuto per modernizzare l'apparato bellico e potenziare le forze armate; Pechino, invece, lancia un monito perché "stia alla larga" dalla controversia. Il ruolo degli Stati Uniti e le mire di Washington nell'area potrebbero acuire le tensioni nel mar Cinese meridionale, al centro di una disputa territoriale che coinvolge Filippine, Vietnam e Cina. Intanto è ormai guerra aperta - almeno a parole - fra giornali cinesi e vietnamiti, con reciproci scambi di accuse.

Gli Stati Uniti forniranno armamenti per rafforzare l'esercito filippino, pronto a "controbattere a ogni atteggiamento aggressivo" nella porzione di mare che comprende le isole Spratly e Paracel. In una conferenza congiunta con il ministro degli Esteri Albert del Rosario, il segretario di Stato Usa Hillary Clinton ha affermato che il governo è "determinato e impegnato" a sostenere la difesa delle Filippine. Del Rosario incontrerà Robert Gates, ministro Usa della Difesa, e altri alti ufficiali americani per "valutare quali mezzi serviranno" al governo di Manila. La Clinton ha inoltre aggiunto di essere "preoccupata" per l'evoluzione della situazione nel mar Cinese meridionale. Tuttavia, il ministro filippino degli Esteri assicura che il Paese è "preparato a fare quanto necessario per respingere ogni attacco". Intanto il presidente Benigno Aquino ha stanziato 11 miliardi di pesos (poco più di 250 milioni di dollari) per rafforzare la marina militare.

Gli interessi del governo Usa nella zona dell'Asia-Pacifico allarmano la Cina, che invita Washington a "stare alla larga" dalle dispute nell'area. Cui Tiankai, vice-ministro degli Esteri, sottolinea che Pechino non è interessata a esasperare la tensione, fino a provocare un conflitto, ma avverte che gli Stati Uniti "non sono una nazione con rivendicazioni legittime nel mar Cinese meridionale". In precedenza, il portavoce del ministero degli Esteri Hong Lei aveva assicurato l'intenzione di promuovere relazioni amichevoli e cooperazione "con tutte le nazioni del mondo, in special modo quelle a noi vicine".

Nel frattempo è guerra aperta - almeno sulla carta stampata - fra la Cina e il Vietnam, con articoli al vetriolo sui principali quotidiani dei due Paesi. I giornali di Hanoi puntano il dito contro Pechino, colpevole di "esacerbare" la situazione e di "distorcere" i fatti. Pronta la risposta del fronte cinese, che si affida a un editoriale del People's Daily per accusare il Vietnam di "continue provocazioni", che verranno "respinte al mittente" dalla potente marina cinese. Va ricordato che i media cinesi e vietnamiti sono vicini al governo e agli organi del partito comunista; ragion per cui non può essere frutto del caso o dell'iniziativa personale, questa strategia della tensione fra i due fronti.

Fra le nazioni della regione Asia-Pacifico, la Cina è quella che avanza le maggiori rivendicazioni in materia di confini marittimi nel mar Cinese meridionale, che comprendono le isole Spratly e Paracel, disabitate, ma assai ricche di risorse e materie prime. L'egemonia nell'area riveste un carattere strategico per il commercio e lo sfruttamento delle materie prime, fra cui petrolio e gas naturale.

A contendere le mire espansionistiche di Pechino vi sono il Vietnam, le Filippine, la Malaysia, il Sultanato del Brunei e Taiwan, cui si uniscono la difesa degli interessi strategici degli Stati Uniti nell'area.

     

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ALGERIA

Cartoline dall'Algeria - 49 di p. Silvano Zoccarato

Touggourt - 2 luglio 2011

Lasciare agire e parlare il cuore

“Se veramente crediamo e cerchiamo la pace dobbiamo guardarci negli occhi con gli occhi dei bambini che eravamo”. Così Frida Di Segni Russi, della Comunità ebraica di Ancona, ha concluso il suo intervento all’incontro per la marcia della pace del 31 dicembre 2010. Nella sua infanzia, giocava con l’amico Edoardo Menichelli, ora arcivescovo di Ancona e presente all’incontro. Ero presente anch’io, accanto ai due, e mi sono sentito come in famiglia. E’ quello che sento anche coi miei amici musulmani di Touggourt. Constato continuamente che quando si lasciano liberi i moti del cuore, questi sono sentiti comuni e più profondi e più forti dei sentimenti religiosi.

        
Nel libretto Giusti dell’Islam (Pimedit) di Giorgio Bernardelli, leggo delle testimonianze molto belle di musulmani che hanno salvato ebrei nella persecuzione nazista, al rischio della loro vita. Una fra tante, quella di Zejneba Hardagan, donna coraggio di Sarajevo che insieme al marito Mustafa abitava proprio di fronte al quartier generale della Gestapo. Una posizione strategica che permetteva loro di avvertire gli ebrei quando le camionette dei nazisti uscivano per le retate. Ma gli Hardagan fecero di più: aprirono anche le porte di casa all’amico ebreo Yossef Kabilio dicendogli: “Voi siete nostri fratelli. Questa è casa vostra”. Il nome di Zejneva Hardagan fu il primo nome musulmano ad essere inserito nel 1985 nella lista dei “Giusti tra le nazioni”.
     
“Anche nel mondo islamico di oggi ci sono persone coraggiose che - non solo a parole, ma anche con alcuni gesti concreti -, provano a gettare ponti tra i popoli”.
    
La più bella è questa: Un cuore nuovo da Jenin
    
Il 3 novembre 2005, il primo giorno dell’Aid Al Fitr, la festa che conclude il mese sacro di Ramadan, il piccolo Ahmed, dodici anni, ha in mano un fucile giocattolo. Un soldato israeliano scambia il giocattolo per un’arma vera e spara. I medici chiedono ai genitori se sono disposti a donare i suoi organi. Per un palestinese il consenso vuol dire accettare che quel cuore, quel fegato, quei reni porteranno vita a uomini, donne bambini israeliani come il soldato che ha premuto il grilletto. I genitori prima di dire di sì, consultano l’Imam e questi dice: “Dona quegli organi, perché qualcun altro abbia la vita”. E così è successo nella “Jenin dei Terroristi”.
     
Spesso, quando sento alcuni amici musulmani che lasciano parlare il cuore, mi ritrovo sentimenti e parole universali. Il bello è che nel linguaggio del cuore risento le stesse parole, gli stessi sentimenti di Gesù.   

  

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BANGLADESH

Cose che capitano di p. Adolfo L'imperio

Dhanjuri - 6 luglio 2011

     

A Dhanjuri la domenica celebro l'Eucarestia per il villaggio e poi quella nella cappella dell'ospedale per i malati. Specie in questo periodo delle piogge è difficile per loro venire sino alla Chiesa parrocchiale.

Ma c'è sempre qualche novità. All'Eucarestia partecipano il gruppo delle quattro anziane del lebbrosario (che io definisco le mie ragazze), il gruppo dei bambini disabili, una decina di ragazzi del boarding che guidano i canti, tre o quattro cattolici che lavorano in lebbrosario.

La domenica della solennità del Corpo e Sangue di Gesù, camminando dalla Chiesa parrocchiale alla Cappella, ricordando le feste del "Cristo" di Gaeta dei tempi antichi... cercavo di adattare l'omelia per l'uditorio. Arrivo e trovo la cappella strapiena. Ci sono anche le pazienti del lebbrosario in maggioranza di fede islamica come le dieci ragazze del corso di cucito, qualche anziano e tre giovani pazienti lebbrosi... Resto a bocca aperta e mi dico che questo è il solito scherzo mancino che il Signore compie per vedere a cosa credi, e cosa predichi... Al momento della comunione la figlia di due anni dell'infermiera responsabile tende la mano per ricevere anche lei qualcosa che ho dato alla mamma. Cerco di evadere, dare una carezza, ma lei insiste facendo segno alla pisside... La guardo. Nei suoi occhi birbanti c'è la richiesta: "Anche a me". 

Anche questo è uno scherzo del Signore che continua a dire che Lui ha donato il Suo Corpo perchè tutti abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza. Cosa credi? cosa dici? Sento che l'esame di teologia pratica della vita è molto piu' difficile di quello dei libri. In Chiesa i miei gioielli (bambini disabili) sorridono e dicono che loro vogliono bene a Gesù e si preparano per la prima comunione.

Gesù è uno che ti scarta sempre e va diretto al Goal.

Fr.Adolfo 

      

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Islam, religione di stato e laicità: le contraddizioni e la "marcia indietro" del governo

Agenzia Fides - Dacca - 22 giugno 2011

 

E' una vera e propria "marcia indietro" quella operata nei giorni scorsi dal governo del Bangladesh, sul tema della laicità dello stato, riferiscono a Fides attivisti cristiani per i diritti umani che operano in loco. La Speciale Commissione parlamentare, incaricata dal governo del Primo Ministro Sheikh Hasina di vagliare emendamenti alla Costituzione, ha raccomandato di mantenere l'islam come religione di stato, di conservare l'esordio religioso nel preambolo della Carta costituzionale ("nel nome di Allah, clemente e misericordioso") e di consentire la presenza di partiti religiosi nell'arco Costituzionale. Secondo le minoranze religiose cristiane, induiste e buddiste, si tratta di un "cambio di rotta" dovuto alle pressioni dei gruppi fondamentalisti islamici. Il governo, infatti, aveva annunciato nel suo programma di voler ripristinare la laicità dello stato, e di voler combattere l'estremismo religioso anche nella politica.

La mossa ha generato polemiche e disappunto nella società civile. Un'attivista cattolico di Dacca dichiara a Fides: "Il testo proposto per la modifica della Costituzione dichiara testualmente che 'l'islam è religione di stato nella Repubblica, che assicura uguali diritti alle altre religioni': è una palese contraddizione e crea confusione. Intanto, come cristiani (lo 0,03% dei 160 milioni di abitanti, in larga maggioranza musulmani) ci ritroviamo a vivere diversi problemi sotto questo cosiddetto governo laico della Awami League". "Le minoranze religiose, gli intellettuali, gli attivisti della società civile - prosegue - oggi chiedono il ritorno alla Costituzione del 1972, che era di stampo laico. Il governo, che in un primo tempo si era detto disponibile, oggi ha paura delle reazioni degli islamici radicali e ha fatto un passo indietro". Anche il governo di Hasina, rimarca, "sta facendo un uso strumentale dell'islam per assicurarsi legittimazione e consenso politico".

Il Bangladesh era stato dichiarato stato laico nel 1972, ma una serie di emendamenti costituzionali negli anni successivi e due dittature militari hanno abbandonato quel principio fino a dichiarare l'islam religione di stato nel 1988. Da quando ha assunto il potere, due anni fa, Sheikh Hasina ha pubblicamente annunciato una agenda per restaurare la laicità dello stato e reintrodurre gli originali "quattro principi" alla base della nazione: democrazia, nazionalismo, laicità e socialismo. (PA)

   

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BOLIVIA

La necessaria distinzione fra lavoro minorile e sfruttamento

Agenzia Fides - La Paz - 25 giugno 2011

      

Le statistiche indicano che oltre 800.000 bambini hanno un lavoro full time in Bolivia, un quinto della popolazione nella fascia di età compresa tra 5 e 14 anni. Sono ragazzi/e lavoratori lucidascarpe a La Paz, che indossano una maschera da sci in parte per resistere all'inquinamento, in parte per celare la propria identità e proteggersi dalla discriminazione; sono controllori delle tariffe sui bus di Cochabamba; sono lavoratori informali nei mercati di Salar de Uyuni, dove vendono bottiglie d'acqua ai turisti che visitano le pianure di sale; sono coltivatori di noci brasiliane per molti mesi all'anno rischiando di prendere la malaria nelle giungle vicino a Riberalta. Su queste realtà si sofferma il libro "Diversità in movimento", scritto da Cristiano Morsolin, esperto dell'Osservatorio sull'America Latina SELVAS, che lavora nella Regione Andina dal 2001, con l'appoggio di Terre des Hommes TDH Italia e dell'Organizzazione Cattolica Internazionale per i Diritti dei Bambini (BICE).

Robin Cavagnoud, dell'Istituto Francese di Studi Andini IFEA di La Paz, in occasione della presentazione del libro ha sottolineato che "nei paesi andini la maggioranza dei bambini/e e adolescenti lavoratori si trova nelle zone rurali, dove la partecipazione economica dei bambini è legata alla loro socializzazione e sviluppo dentro la comunità e la famiglia, ma non è un'imposizione dei genitori. I lavori dei campi, accudire gli animali... fanno parte di un'attività che possiede un'identità culturale". Questi bambini/e e adolescenti lavorano per aiutare la famiglia, per sostenersi negli studi, per poter provvedere alle proprie spese personali, per garantirsi un futuro migliore rispetto ai loro padri e fratelli sepolti dalla silicosi e dagli incidenti nelle miniere o nelle piantagioni di canna da zucchero. Fin dagli anni '90 si sono raggruppati in un'organizzazione denominata NATs (Ninos y adolescentes trabajadores, nell'acronimo in spagnolo) presente in Bolivia, in Sudamerica e diffusa anche in altre parti del mondo, per rivendicare il proprio diritto a un lavoro degno, con orari e condizioni di salute adeguate a dei bambini, ma anche per difendere la propria possibilità di studiare e di giocare come tutti gli altri.

Va segnalata la preoccupazione costante della Chiesa cattolica nei confronti dei bambini lavoratori. Il Cardinale Julio Terrazas Sandoval, Arcivescovo di Santa Cruz de la Sierra, ha sottolineato che "il regno di Dio si esprime quando sentiamo affetto e amore per quelle migliaia di bambini che lavorano in strada o che vanno a lavorare come se fossero adulti, che hanno perso il tempo della loro infanzia, che sono minacciati da molte cose. Però non dobbiamo solo rallegrarci perché si celebra la Giornata del bambino lavoratore, ma dobbiamo pensare che nel piano di Dio, nel Regno di Dio non è previsto che bambini così piccoli non abbiano la possibilità di essere liberi e che non venga riconosciuta la loro dignità".

Nel 2009 è stata approvata la nuova Costituzione boliviana: nell'articolo 61 si riconosce che "lo Stato proibisce il lavoro forzato e lo sfruttamento minorile. Le attività che realizzano i bambini, le bambine e gli adolescenti in ambito familiare e sociale sono orientate alla loro formazione integrale, come cittadini e cittadine, e devono avere una funzione formativa. I loro diritti, garanzie e meccanismi istituzionali di protezione saranno oggetto di una regolamentazione speciale". Questo storico riconoscimento dei Movimenti Sociali NATs è il frutto di una grande mobilitazione dei bambini lavoratori. E' la prima volta nella storia moderna dell'umanità che una Costituzione (e non solo il codice dell'infanzia) riconosce il lavoro minorile in condizioni dignitose. Quel che vogliono i movimenti sociali NATs è che si faccia distinzione fra lavoro minorile - che per loro è una necessità economica, data dalla povertà - e sfruttamento, che è il lavoro dei bambini in situazioni di grande pericolosità, come il lavoro in miniera o la coltivazione della noce brasiliana o della canna da zucchero. (SL)

     

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CILE

Costruire un modello educativo di apprendimento di qualità, equo e giusto, è compito di tutti

Agenzia Fides - Santiago - 25 giugno 2011

     

Nel contesto delle proteste degli studenti, i Vescovi cileni hanno sottolineato l'urgenza di ricercare proposte che riscuotano un ampio consenso, al fine di poter dare il via ai processi che rispondano alle giuste richieste. Il portavoce della Conferenza Episcopale del Cile, Jaime Coiro, ha presentato di recente un comunicato firmato dal Presidente della Conferenza Episcopale, Mons. Ricardo Ezzati, e dal Presidente dell'area dell'Istruzione, Mons. Héctor Vargas. Il testo afferma che la Chiesa cilena segue con attenzione le richieste del movimento degli studenti (vedi Fides 19/05/2011) considerando anche che il dibattito acceso intorno al sistema educativo è un segno di malessere di cui la società nel suo complesso deve farsi carico.

Nel testo del comunicato dei Vescovi, inviato all'Agenzia Fides, si legge: "C'è una lunga strada da percorrere nel compito di costruire un modello educativo di apprendimento di qualità, equo e giusto, dove ogni studente, indipendentemente dalla sua condizione personale e sociale, abbia assicurata la formazione necessaria per svilupparsi pienamente, per costruire un progetto di vita completo e per contribuire generosamente, con tutta la sua ricchezza, alla società del suo tempo".

I Vescovi riconoscono inoltre che esiste, in questo settore, un debito grave. Si è affermato molte volte che lo sforzo per migliorare la qualità dell'insegnamento e renderlo più equo, richiede un lavoro che deve coinvolgere lo Stato, le istituzioni educative, gli insegnanti, le famiglie e gli studenti: "è urgente portare avanti la ricerca di proposte di grande consenso, per guidare e dirigere i processi che permettano di rispondere alle giuste richieste".

In questo contesto, si è detto chiaramente che le misure arbitrarie e la violenza verbale o fisica non sono la via per risolvere il problema, ma soltanto "una reale volontà di dialogo aiuterà a risolvere il delicato clima di polarizzazione che sta guidando il dibattito e le mobilitazioni associate ad esso", concludono i Vescovi. (CE)

   

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CINA

Disastro inondazioni in Cina: cinque milioni di persone a rischio

AsiaNews - Pechino - 20 giugno 2011

Piogge torrenziali continuano a cadere nell'Hubei e nello Zhejiang. Sono le alluvioni più forti registrate dal 1955. L'esercito ha evacuato centinaia di migliaia di persone. La siccità al centro e al nord, e le inondazioni all'est hanno provocato la perdita dei raccolti. Si temono ripercussioni a livello mondiale sui prezzi.  

          

Più di cinque milioni di persone stanno soffrendo gravemente per alluvioni disastrose nella Cina orientale. Piogge torrenziali continuano a cadere, e di conseguenza ampie zone dell'Hubei e dello Zhejiang sono sotto l'acqua, affermano le fonti ufficiali. Oltre mille fabbriche sono state distrutte dalle inondazioni, e i raccolti sono andati perduti, facendo crescere in maniera straordinaria il preso del cibo.

Le inondazioni di quest'anno sono le peggiori mai verificatesi nel Paese dal 1955. Già 170 persone sono morte, o mancano all'appello in conseguenza del disastro. Il governo ha mobilitato l'esercito, per evacuare centinaia di migliaia di persone dalle zone a rischio di essere inondate, e il livello di allarme è stato innalzato al livello quattro. Le inondazioni hanno creato frane e smottamenti che hanno seppellito sotto il fango case e villaggi. Varie persone hanno perso la vita così.

Le inondazioni sono arrivate dopo che la siccità aveva distrutto la produzione agricola nel centro e nel nord del Paese. Alcune zone lungo lo Yangtze hanno vissuto il peggiore periodo di siccità in un secolo. 

       

La situazione dei raccolti, e delle riserve alimentari è giudicata molto seria, dalle autorità. 

Gli analisti pensano che la scarsità di alimenti in Cina potrà avere una ricaduta a breve termine sul prezzo di grano riso e altri cereali a livello mondiale.  

 

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CONGO RD

Il governo congolese vara un piano per i bambini di strada

Agenzia Fides - Kinshasa - 20 giugno 2011

       

Il governo della Repubblica Democratica del Congo (RDC) ha lanciato un progetto per i bambini di strada. Il programma è stato presentato da Ferdinand Kambere Kalumbi, Ministro degli Affari Sociali, dell'azione umanitaria e della solidarietà nazionale. Il progetto mira in primo luogo a far fronte alle gravi problematiche che questi giovani devono affrontare: l'estrema povertà, i conflitti, la malnutrizione, la malaria, l'abbandono e i maltrattamenti, le peggiori forme di lavoro, l'AIDS.Secondo il Ministro degli Affari Sociali, nella RDC vi sono circa 60.000 bambini di strada dei quali 14.000 nella capitale, Kinshasa. Il 74% sono ragazzi e il 26% ragazze. Il 20% di questi non ha mai frequentato la scuola, mentre il 64% ha la licenza primaria.

Secondo don Paul Augustin Madimba, parroco di Notre-Dame de Grâce a Kinshasa, che è stato intervistato dal quotidiano "Le Potentiel", "la ragione principale di questo fenomeno va ricercata nella situazione sociale del Paese. La miseria nella quale la popolazione marcisce ha gettato diverse famiglie nell'instabilità totale. I genitori sono senza lavoro e non sanno come assumersi le loro responsabilità. Persino la famosa solidarietà africana non esiste più. Lo prova il fatto che diversi bambini di strada sono vittime dei maltrattamenti dei parenti dei loro genitori ed altri, dell'assenza di questi ultimi". Secondo il sacerdote, la soluzione per uscire da questa situazione è combattere la povertà attraverso lo sviluppo, e potenziare il sistema scolastico. (L.M.) 

 

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COSTA D'AVORIO

Braccio di ferro sui diritti umani

Misna - 22 giugno 2011 

          

Decine di persone vicine all'ex presidente Laurent Gbagbo "detenute arbitrariamente", cioè senza alcun capo di accusa formale, e altre "maltrattate" dai soldati del neo presidente Alassane Dramane Ouattara: è l'ultima denuncia di violazione dei diritti umani formulata da Amnesty International. L'organizzazione di difesa dei diritti umani riferisce che a più di due mesi dell'arresto di Gbagbo, una cinquantina di persone versano in condizioni difficili, tra cui personalità politiche di primo piano. Secondo Amnesty International, "21 persone sono trattenute presso l'albergo La Pergola di Abidjan", sotto custodia dei caschi blu della locale missione Onu (Onuci). L'organizzazione aggiunge che "alcune di loro ho subito maltrattamenti da parte delle Forze repubblicane di Costa d'Avorio (Frci) e sotto gli occhi del soldati francesi della Licorne". In base ad un elenco pubblicato dal procuratore della Repubblica, circa 200 persone dell'entourage di Gbagbo sono attualmente colpite da misure restrittive. In conferenza stampa il ministro dei Diritti umani e delle libertà pubbliche, Gnenema Coulibaly, ha sottolineato che le procedure avviate sono rispettose della legalità giuridica.

"Sono due suoni di campane opposti: il governo parla di tutela e di assegnazione a residenza coatta di personalità legate all'ex regime mentre le organizzazioni di difesa dei diritti umani denunciano detenzioni, maltrattamenti e violazione dei diritti umani. Di giorno in giorno la polemica cresce sulla questione" dice alla MISNA una fonte della società civile contattata nella capitale economica. Ad ogni modo per Amnesty International "non è un inizio di mandato incoraggiante per la presidenza Ouattara" ha detto la vice direttrice dell'organizzazione, Véronique Aubert, mentre le autorità ivoriane annunciano l'avvio delle indagini per chiarire le responsabilità nei crimini post-elettorali che hanno portato alla morte di 3.000 persone. Un apposito ufficio per raccogliere le deposizioni di decine di testimoni è stato aperto a Cocody (est Abidjan) mentre investigatori verranno inviati su tutto il territorio nazionale ha assicurato il ministro della Giustizia, Jeannot Ahoussou, precisando che due procedure sono aperte, la prima sul versante economico la seconda sui crimini perpetrati. Inoltre una missione preliminare della Corte penale internazionale (Cpi) si recherà in Costa d'Avorio dal 27 giugno al 4 luglio per valutare la situazione prima di inviare investigatori in via ufficiale. [VV]

   

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ECUADOR

54.000 rifugiati riconosciuti, senza attenzione e sicurezza"

Agenzia Fides - Quito - 22 giugno 2011

"Non serve a nulla avere 54.000 rifugiati riconosciuti, se non gli si offre sufficiente attenzione e sicurezza" denuncia la Fondazione Scalabrini

         

Ogni giorno inventa uno stratagemma nuovo, come passare da una città all'altra o modificare l'aspetto con vestiti e taglio dei capelli. José L. preferisce l'anonimato per evitare di essere catturato da gente armata che lo perseguita. E' uscito dal suo paese dopo essere sfuggito ad un rapimento da parte di gruppi irregolari ed è arrivato in Ecuador via terra, in cerca di rifugio. "Sono venuto con niente, pensando che avrei trovato un futuro migliore qui, perché qui non c'era il problema che avevo nella mia terra, era più facile passare il confine, potevo stare in un paese non troppo lontano".

Questo è il racconto pubblicato da un giornale di Quito, di cui copia è stata inviata all'Agenzia Fides, a motivo della Giornata del Rifugiato. Motivi analoghi a quelli di José L. hanno spinto la maggior parte dei rifugiati che vivono oggi in Ecuador. Il 98,5% viene dalla Colombia e la maggior parte sono donne e bambini. Questo numero fa della Colombia il paese con il maggior numerose di persone accolte in altre nazioni dell'America Latina, secondo l'Alto Commissario dell'ONU per i Rifugiati (ACNUR). Le diverse organizzazioni che lavorano con questa fascia della popolazione, come la Missione degli Scalabriniani in Ecuador, rilevano che la risposta dello Stato ecuadoriano e degli organismi impegnati in questo settore è ancora troppo limitata.

Janeth Ferreira, direttrice della Fondazione Scalabrini, afferma nel suo intervento sul giornale di Quito che "lo Stato legalizza solo lo status di rifugiato, concedendo i visti. Ma per ciò che riguarda i servizi sociali, come la protezione e l'integrazione, praticamente non c'è nessun contributo da parte del Governo". Anzi, aggiunge, piuttosto ci sono difficoltà amministrative per il rinnovo annuale del visto, soprattutto per coloro che vivono nelle zone di confine come San Lorenzo e hanno bisogno di recarsi negli uffici di Quito, Tulcan o Ibarra per le pratiche.

"Non serve a nulla avere 54.000 rifugiati riconosciuti, se non gli si offre sufficiente attenzione e sicurezza" denuncia la Ferreira, aggiungendo che molte persone rifugiate sono costrette a rimanere chiuse nelle loro case per paura di essere perseguitate anche in territorio ecuadoriano. "Lo Stato non dà loro sicurezza". Per questo José L. preferisce essere in rotazione costante in tutto il paese. Un giorno, camminando per le strade di una città dell'Ecuador, ha riconosciuto uno dei suoi rapitori, così ha cambiato subito città per evitare qualsiasi rischio.

Janeth Ferreira racconta che "alcune persone non vogliono neppure la tessera di rifugiato. Infatti se fai domanda per un lavoro o per affittare una casa, quando mostri il documento di identità su cui c'è scritta la parola 'refugiado', le persone ti guardano con paura". In molte scuole e centri sanitari dicono loro "non c'è posto per gli ecuadoriani, figuriamoci per gli stranieri."

La direttrice della Fondazione Scalabrini afferma che l'assistenza dipende molto da quello che realizzano le organizzazioni della società civile. Ma il lavoro è isolato, in assenza di una politica pubblica al riguardo. L'unica proposta dello Stato, attraverso il Ministero degli Affari Esteri, è il rinnovo del visto annuale e l'aggiornamento delle informazioni. In occasione della Giornata Mondiale del Rifugiato, Antonio Gutierres, responsabile dell'ACNUR a Quito, ha annunciato che circa 1.000 rifugiati lasceranno l'Ecuador per andare negli Stati Uniti, in Canada, Nuova Zelanda, Brasile e Cile.  

 

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EGITTO

La legge sugli edifici di culto è oscura. I dubbi delle comunità cristiane

AsiaNews - Il Cairo - 21 giugno 2011

La bozza prevede che gli edifici religiosi debbano distare almeno 1 km da altri già esistenti, ma non spiega se moschee o chiese. Contestati anche il limite minimo di grandezza pari a 1000 mq e la gestione delle autorizzazioni data in mano ai governatori regionali.  

 

La nuova legge per la regolamentazione dei nuovi edifici religiosi proposta dal Consiglio delle forze armate egiziano è confusa e non convince i rappresentanti delle minoranze cristiane, che in questi giorni hanno chiesto chiarimenti alle autorità.

P. Rafic Greiche, portavoce della Chiesa cattolica egiziana, spiega che nella legge vi sono diverse incongruenze e almeno tre punti dell'attuale bozza devono essere riesaminati. "Per prima cosa - afferma il sacerdote - occorre notare che questo disegno legifera per la prima volta anche la costruzione di moschee e non fa distinzioni fra islam e minoranze. Secondo il progetto i nuovi edifici religiosi devono distare almeno 1 km da costruzioni già esistenti. Tuttavia nella bozza non è specificato se tale regolamento riguarda gli edifici di una stessa religione, ad esempio chiesa copta, protestante o cattolica, oppure fra religioni differenti, ad esempio islam e cristianesimo".

Il secondo punto contestato riguarda le dimensioni minime di un edificio, che deve essere di almeno 1000 mq. "Trovare le risorse per un edificio di questa grandezza - spiega p. Greiche - è molto difficile e in molti casi praticamente impossibile. Nell'alto Egitto dove le comunità cristiane sono molto piccole e sparse nei villaggi una chiesa di queste dimensioni non serve. Gli edifici già presenti non superano i 200 mq. Inoltre, soprattutto in città, è difficile trovare terreni liberi così estesi".

Il terzo punto riguarda invece l'autorizzazione alla costruzione degli edifici di culto, che per i cristiani passa dal presidente della repubblica ai governatori regionali. "Lo Stato - sottolinea p. Greiche - lascia alle autorità regionali la facoltà di dare in ultima istanza il benestare per chiese e moschee. Tuttavia nel disegno non è previsto alcun criterio per autorizzare o meno l'uno o l'altro edificio religioso".

Secondo il sacerdote il rischio è una applicazione arbitraria della legge a scapito delle minoranze.

Proposta lo scorso 2 giugno, la legge è considerata il primo frutto della rivoluzione dei gelsomini e del nuovo Egitto del dopo Mubarak. Essa nasce con l'intento di eliminare le assurde regole burocratiche, che per decenni hanno impedito ai cristiani di costruire nuove chiese, fra tutte l'obbligo di chiedere l'autorizzazione al presidente della repubblica o al primo Ministro. Durante il governo Mubarak i progetti venivano spesso bloccati dalle comunità musulmane, nonostante l'autorizzazione delle alte cariche dello Stato. In molti casi gli edifici venivano rasi al suolo da gruppi radicali islamici oppure per vendette famigliari, utilizzando come pretesto la poca sicurezza o l'utilizzo di materiali scadenti per costruire l'edificio, costringendo le minoranze a ricominciare dall'inizio l'iter di approvazione. (S.C.)

   

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FILIPPINE

Manila, 11 dispersi e 50mila sfollati per la tempesta tropicale Falcon

AsiaNews - Manila - 24 giugno 2011

Circa 10mila le famiglie evacuate nelle baraccopoli della periferia di Manila. Strage evitata grazie al nuovo piano di evacuazione realizzato dopo i 500 morti della tempesta Ketsana avvenuta nel 2009. Nelle prossime ore Falcon raggiungerà le coste di Taiwan. 

         

E' di 11 dispersi e oltre 50mila sfollati il bilancio della tempesta tropicale "Falcon", che ha colpito nella notte la capitale Manila e i centri di Quezon City, Taguig, Valenzuala e altre zone dell'isola di Luzon. Piogge torrenziali e venti superiori a 100 km/h hanno provocato smottamenti nei sobborghi della capitale e in altre aree del Paese.

Secondo il National Disaster Risk Reduction le famiglie colpite sono circa 10mila, ma non si registrano morti, grazie al piano di evacuazione elaborato in seguito al disastro della tempesta Ketsana che nell'ottobre 2009 uccise oltre 500 persone e allegato quasi metà di Manila. Per sicurezza le autorità hanno chiuso scuole e uffici pubblici.

In queste ore Falcon si sta dirigendo verso l'isola di Taiwan. Secondo il Dipartimento di Scienze dell'Università di Manila la tempesta tropicale sta aumentando di intensità e potrebbe trasformarsi in tifone.  

   

    

        

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INDIA

Kerala: la "polizia morale" aggredisce una donna perché è in strada di notte

AsiaNews - Mumbai - 22 giugno 2011

L'episodio ha avuto come vittima una donna di 31 anni che lavora come tecnico all'Infopark di Kochi. Sajan K George, presidente del Global council of India christians (Gcic): "Incidenti del genere sono manifestazioni dell'onda crescente di fondamentalismo che sta affondando le sue radici in Kerala".  

         

Una donna di 31 anni che lavora come tecnico alla società It all'Infopark di Kakkanad, a Kochi, nel Kerala, è stata brutalmente aggredita da un gruppo di persone che sostenevano di svolgere un ruolo di "polizia morale" religiosa. L'incidente è accaduto il 19 giugno, verso le 22.30. Tasni Banu, questo il nome della donna, stava viaggiando in bicicletta con un'amico, quando un gruppo di uomini le ha gridato contro: "Non vi permetteremo di rendere questo luogo un'altra Bangalore, dove le ragazze girano di notte e vanno alle feste".

Il racconto di Tasni Banu continua così: "In seguito una decina di persone mi hanno insultata, usando parole volgari. Quando ho chiesto la ragione del loro comportamento, mi hanno aggredita. Uno di loro mi ha preso a ceffoni, sono quasi svenuta". Il Primo ministro del Kerala ha chiesto spiegazioni sull'accaduto alla polizia. E' una preoccupazione crescente questa, perché molte ragazze vengono aggredite in questo modo in Kerala negli ultimi tempi, da elementi antisociali. I facinorosi l'hanno avvertita in tono minaccioso di non girare per strada di notte, e di non seguire i costumi di Bangalore.

Tasni Bani ritiene che almeno uno degli aggressori fosse ubriaco. La polizia invece ritiene che dietro questo incidente vi sia l'opera dei fondamentalisti. "Abbiamo raccolto informazioni sulle persone che hanno attaccato la ragazza. E ben presto li assicureremo alla giustizia" ha dichiarato l'assistente Commissario di polizia di Thrikkakara T R Prakash.

La polizia ha registrato le dichiarazioni di Tasni Banu, che è stata ricoverata in ospedale con ferite lacero-contuse al collo e alle mani. "Le donne non sono sicure nelle strade di Kochi. L'attacco riflette l'atteggiamento della società verso le donne che escono di sera", ha aggiunto Tasni. La polizia pensa di aver identificato uno degli aggressori, certo Thajuddin, guidatore di auto-risciò.

Sajan K George, presidente del Global council of India christians (Gcic) ha dichiarato ad AsiaNews: "Incidenti del genere sono manifestazioni dell'onda crescente di fondamentalismo che sta affondando le sue radici in Kerala, e di come una parte della società musulmana perseguita i suoi stessi membri. Alcuni anni fa Tasni Banu è stata all'onore delle cronache percé ha sfidato i fondamentalisti di Malappuram, dal momento che ha scelto di sposarsi in base allo Special marriage act. All'epoca, Tasni Banu ha dovuto affrontare l'ira non solo dei suoi genitori, ma anche quella di un gruppo di fondamentalisti, che le imposero gli arresti domiciliari e poi l'hanno ostracizzata".

Secondo p. Paul Thelakat, portavoce della Chiesa siro-malabarese, questa cosiddetta "polizia morale" è il risultato di una più ampia deriva della società indiana, travolta dall'invasione di una cultura di mercato: "La rivoluzione sessuale in atto tra i giovani provoca due reazioni opposte: da una parte, una libertà di costumi estrema tra ragazzi e ragazze; dall'altra, reazioni immorali e deprecabili come questo episodio". Oggi "nessuna ragazza potrà mai accettare di essere soggetta al volere di un altro uomo, fosse anche un fratello - continua - ma la scelta non potrà mai essere tra l'essere liberi, rischiando la vita, o dei fondamentalisti pronti ad uccidere in nome della moralità". (N.C.)

   

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ITALIA

La forte scossa morale che serve al Paese

Famiglia Cristiana - 22 giugno 2011

L'Italia peggiore è quella della corruzione e della "casta".

          

Un ministro, in una manifestazione pubblica, si è permesso di definire i precari "la parte peggiore d'Italia". Frase, a dir poco, infelice. Come la penosa giustificazione che ne è seguita. Preoccupa che un membro del Governo offenda così una delle fasce sociali più sofferenti del Paese. È assurdo. C'è, allora, da chiedersi: come intende risolvere il problema del precariato? È soltanto un fastidio? Episodio inquietante, perché è la spia del distacco della politica dalla gente e dai problemi reali del Paese. Al disagio non si risponde con l'insulto. Tanto meno con sarcasmo e arroganza.

In Italia i precari sono circa quattro milioni. Soprattutto giovani. Dunque, la parte più dinamica e sana del Paese. Quella più ricca di energie, progetti e sogni. Che non riesce a incanalare il proprio futuro, a costruirsi un lavoro stabile, una famiglia, un'esistenza più serena. Eppure, sono il futuro dell'Italia. Un Paese normale dovrebbe investire sui giovani. Non basta invitarli ad "andare a scaricare cassette ai mercati generali", "a mettersi in proprio " o a "darsi da fare, magari cercando fortuna per il mondo".  

       

I politici sono stati eletti per dare risposte. Ci vogliono progetti, leggi, investimenti. Se in Italia l'ascensore sociale è bloccato, non basta indicare, con sufficienza, le scale. Anche Benedetto XVI, nella sua visita a San Marino, ha ricordato che "nell'attuale fase storica e sociale, non va dimenticata la crisi di non poche famiglie, aggravata dalla diffusa fragilità psicologica e spirituale dei coniugi, come pure la fatica sperimentata da molti educatori nell'ottenere continuità formativa nei giovani, condizionati da molteplici precarietà, prima fra tutte quella del ruolo sociale e della possibilità lavorativa".

A noi pare che l'Italia peggiore sia un'altra. Quella di una politica parolaia e inconcludente, arroccata solo a difesa dei propri privilegi. L'Italia peggiore è quella di chi continua a tagliare risorse alle fasce più deboli: disabili, anziani, famiglie. O l'Italia della corruzione dilagante, degli appalti truccati. Dove, con cinismo, si lucra su tutto. Anche sui pannoloni degli anziani. Il Paese è stanco, stremato. Ma ha voglia di reagire. I recenti passaggi elettorali hanno dato un segnale chiaro e forte all'intera politica. C'è un malessere sociale molto diffuso. Gli "indignati", come in Spagna, presto possono fare capolino anche nel nostro Paese.

Non basta distogliere l'attenzione dai problemi reali, dando ancora addosso allo straniero. O facendo il gioco delle tre carte con i ministeri, spostandoli da una città all'altra. Il Paese ha bisogno di ben altro. Soprattutto, di una scossa morale e una classe politica più credibile. Con ministri all'altezza, che pensino all'unità e al bene del Paese. Non a trastullarsi tra proposte inaccettabili (vedi gli incentivi agli insegnanti del Nord) e interessi di bottega. Davvero di bassissima lega.

   

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Immigrati, troppi diritti violati di Luciano Scalettari

Famiglia Cristiana - 21 giugno 2011

Il decreto Maroni prolunga fino a 18 mesi la permanenza nei Cie e l'allontamento coatto dall'Italia per i clandestini. Dure (e motivate) critiche della società civile. I Cie? Sempre più disumani (e illegittimi)  

         

È un coro di reazioni dure e allarmate quello che ha accolto l'annuncio del ministro dell'Interno Roberto Maroni (Lega) secondo il quale il periodo di detenzione nei Cie (Centri di identificazione ed espulsione) potrà "essere prolungato dagli attuali 6 mesi fino a un massimo di 18 mesi, per consentire l'identificazione o l'effettiva espulsione", come ha detto lo stesso ministro.  

La società civile, le organizzazioni di tutela dei diritti umani e in particolare gli organismi che si occupano di immigrazione e di cooperazione internazionale denunciano l'illegittimità di questa nuova norma (votata in Consiglio dei ministri il 16 giugno) e le ulteriori violazioni dei diritti umani che ne conseguiranno nei confronti degli immigrati.

Maroni ha annunciato che "il decreto è importante perché dà attuazione a due direttive europee". "Si trattava", ha aggiunto, "di un problema di interpretazione e noi - nel pieno rispetto della direttiva - abbiamo fornito questa interpretazione".

      

 Ma sono molti a contestare le dichiarazioni del ministro. Ad esempio Jean Leonard Touadi, parlamentare del Pd: "La dilatazione dei mesi di trattenimento, di fatto una vera e propria detenzione senza i diritti che costituzionalmente spettano ai normali detenuti, va nella direzione opposta alla direttiva europea sui rimpatri del 2008 che richiede di limitare la durata massima della privazione della libertà nell'ambito della procedura di rimpatrio". "Invece", insiste Touadi, "il Governo recepisca immediatamente, come da tempo ha il dovere di fare, la Legge Comunitaria - tutta, e non nelle parti che fanno più comodo - che ancora langue in Parlamento in attesa di approvazione. Non c'è bisogno di stravaganti "interpretazioni" della norma europea. Basta accoglierla nel nostro ordinamento. Dice cose ben diverse da quello che sostiene il ministro Maroni".  

Preoccupata anche la nota di padre Giovanni La Manna, presidente del Centro Astalli (Servizio dei Gesuiti per i rifugiati): "Prolungare il trattenimento nei Cie è per noi assurdo", ha commentato il gesuita. "È un modo per esasperare ulteriormente gli animi. Qual è il senso di queste iniziative, che mirano a mortificare la dignità delle persone?". "Si tratta di un ulteriore segnale che indica la mancanza di volontà di governare responsabilmente la situazione", ha aggiunto padre La Manna. "La mia esperienza personale mi porta ad affermare che nei Cie è possibile incontrare persone che non sono colpevoli  di aver commesso alcun reato" (il centro Astalli presta da tempo assistenza, anche legale, agli stranieri detenuti nel Cie di Ponte Galeria, a Roma, ndr). "Le persone che incontriamo nel Cie", conclude il responsabile del Centro Astalli, "spesso non riescono nemmeno a capire cosa stia loro succedendo e perché si trovino lì. Molti sentono parlare della possibilità di chiedere asilo in Italia per la prima volta proprio durante questi colloqui. In queste strutture purtroppo non c'é progettualità. Si tratta di posti di mero contenimento nei quali si vive in condizioni disumane e di estrema sofferenza".

   

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Le vere sofferenze e le false paure di Fulvio Scaglione

Avvenire - 21 giugno 2011

Interpellati non assediati

        

L'Anno di, la Giornata del... Tutte le ricorrenze possono generare, prima o poi, frustrazione (per gli obiettivi non raggiunti) e tedio (per la ripetizione del messaggio). Non è questo il caso della Giornata mondiale del rifugiato che, anzi, è arrivata quest'anno proprio nel momento e nel luogo in cui è massima l'attenzione verso il problema. Guerre, violenze e disastri naturali hanno generato, nel 2010, quasi 44 milioni di fuggitivi. Di questi, ha specificato l'Alto commissariato Onu per i profughi, 15,4 milioni sono rifugiati, 27,5 milioni sono sfollati interni al Paese d'origine e 850mila sono richiedenti asilo. Un anno tragico che andrà ad appesantire un bilancio già drammatico: sono più di 7 milioni, oggi, i rifugiati che vivono in un Paese diverso dal loro da più di 5 anni.

  

Se questo è il momento, l'Italia è il luogo. Siamo la porta dell'Europa rispetto ad alcune delle rotte più battute dai migranti. Con la crisi del Maghreb e del Medio Oriente, che è andata ad accavallarsi a quelle dal punto di vista umanitario "storiche" di Eritrea, Somalia e Sudan, siamo anche il cancello continentale ai cui piedi si ammassa un'umanità dolente in cerca di scampo (anche se solo una minoranza lascia il Sud per il Nord del mondo).

Non tutti coloro che cercano rifugio pensano o sperano di ottenerlo da noi. Però il primo sbarco avviene qui e sul nostro Paese si deposita una doppia responsabilità: pratica (perché è il Paese del primo sbarco quello che deve poi rispondere alla richiesta d'asilo) e morale, perché quel che facciamo noi riguarda anche un'Europa fin troppo pronta a "distrarsi" nelle fasi dell'emergenza.

Ma appunto: di quale emergenza stiamo parlando? Mentre una certa politica favoleggia di blocchi navali, è lo stesso ministro dell'Interno Maroni a dirci (31 maggio) che il flusso dalla Tunisia si è ormai fermato e che dalla Libia sono arrivate circa 18mila persone, "per lo più provenienti dai Paesi subsahariani, eritrei e somali".

Tutti richiedenti asilo o protezione internazionale, con buone possibilità di ottenere l'uno o l'altra. L'Europa unita ha 500 milioni di abitanti, l'Italia 60: quei 18 mila sono, sarebbero un peso eccessivo? In Europa, l'Italia è al nono posto per le richieste d'asilo, che sono state poco più di 10mila nel 2010 contro le 17mila del 2009, un calo del 42,9%. E nei 44 Paesi più industrializzati dedl mondo, le domande d'asilo nel 2010 sono calate del 42% rispetto al 2001.

Mentre riflettiamo sui numeri, la tv ci mostra le scene consuete. I campi profughi in Tunisia (Paese che ha accolto finora 290mila libici e circa 200mila persone fuggite dalla Libia ma di diversa nazionalità) o in Egitto, la fuga dei siriani verso la Turchia o il Libano, e così via. Tra i cinque principali Paesi d'accoglienza, solo uno, la Germania, appartiene al Gotha delle nazioni industrializzate, e si trova al quarto posto, preceduta da Pakistan (per gli afghani), Siria (per gli iracheni) e Iran e seguita dalla Giordania. Poi vengono Tanzania, Ciad e Kenya. Tra l'80 ed il 90% dei profughi e dei rifugiati, insomma, si trova nei Paesi poveri o del Terzo Mondo.

Tutti dicono e scrivono che le migrazioni (quelle causate dalla violenza come quelle generate dal bisogno economico) sono un fenomeno planetario. Davvero crediamo di affrontarlo scaricandone l'impatto sulle nazioni più deboli? E davvero pensiamo che questa tattica non ci presenterà mai il conto? La Giornata del rifugiato, quindi, è anche una giornata profondamente nostra. Quella in cui celebriamo, o rimpiangiamo, la capacità di guardare avanti e di pensare il futuro prima che lui pensi noi.

   

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La Cei contro la secessione di Alberto Bobbio

Famiglia Cristiana - 20 giugno 2011  

Monsignor Bregantini boccia gli slogan di Pontida. I ministeri al Nord sono "disprezzo" per il Sud. Al vescovo il Premio Di Liegro.

       

"La Chiesa deve frenare queste mire secessionistiche". Monsignor Giancarlo Bregantini, presidente della Commissione della pastorale sociale e del lavoro della Conferenza episcopale italiana, parla alla Radio Vaticana a nemmeno 24 ore dal discorso di Umberto Bossi sul pratone di Pontida e boccia senza appello l'intervento del "senatur". Ma Bregantini definisce anche la richiesta di spostare alcuni ministeri al Nord "un gesto di grandissimo disprezzo per il Sud". Le sue parole sono perfettamente in linea con quanto la Conferenza episcopale e il suo presidente il cardinale arcivescovo di Genova Angelo Bagnasco, ripetono da tempo e cioè che se il federalismo "disgrega" non è più un "valore", ma è "un disvalore".

Secondo Brigantini "le difficoltà economiche, la crisi istituzionale, anche dopo gli sconvolgimenti prodotti dai referendum e dalla elezioni, hanno indotto in  molto elettorato un clima di paura e di chiusura". Questo spiega la "grande tentazione" della secessione. Ma "la crisi non si vincerà mai da soli, rintanandosi, si vince piuttosto riaprendosi, perché solo così sarà possibile far entrare aria nuova". L'invito è quello di "sfidare il futuro" e non "rannicchiarsi dentro i propri egoismi". Sulla proposta dei ministeri al Nord è molto deciso: "L'Italia del sud sarà ancora più deprivata". Per Brigantini il Nord "non ha bisogno di strutture amministrative per motivi di lavoro": "Al Nord serve progettualità, ha bisogno di intraprendere". Ma occorre "coraggio" e non "tecnicismo". La Chiesa deve "motivare la passione dell'intraprendere dei cristiani". A Bregantini domani alla Pontificia Università Gregoriana verrà consegnato il Premio "Luigi Di Liegro", il fondatore della Caritas di Roma, scomparso prematuramente qualche anno fa, destinato a chi si è distinto nel diffondere le idea di un'economia più giusta.

   

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LIBIA

Vescovo di Tripoli: le bombe Nato rischiano di fare il gioco di Gheddafi

AsiaNews - Tripoli - 21 maggio 2011

Bombe Nato sulla residenza di un fedelissimo del rais. Il regime reclama 19 vittime. Mons. Martinelli sottolinea che la popolazione vuole la fine dei bombardamenti e si sta stringendo intorno al proprio leader. Rappresentante dei ribelli in Cina per trovare una via d'uscita dalla guerra e stringere accordi economici con Pechino.  

  

"La popolazione libica vuole la fine dei raid aerei. Se la Nato continua a lanciare bombe e fare vittime fra i civili rischia di fare il gioco di Gheddafi, che sta ritornando ad essere un punto di riferimento per la gente che in questo momento sente il bisogno di un leader". È quanto afferma ad AsiaNews, mons. Giovanni Martinelli, Vicario apostolico di Tripoli. "La Nato pur ammettendo di aver ucciso civili, continua a bombardare - sottolinea - la popolazione è disgustata da questo atteggiamento, che non risolve nulla". Ieri, nella località di Sorman (70 km a est di Tripoli) i raid hanno distrutto l'abitazione di Khouildi Hamidi, fra i fedelissimi del rais, considerato da fonti locali molto amato dalla gente. Secondo il regime vi sarebbero almeno 19 vittime civili, fra cui 8 bambini. Finora la Nato ha ammesso il bombardamento, specificando la natura militare e strategica dell'obiettivo e nega di aver fatto vittime.

Mons. Martinelli spiega che questi fatti allontanano la possibilità di un accordo diplomatico prima di settembre, termine fissato dalla Nato per la fine delle operazioni militari. Il prelato dice che "se i leader di entrambe le parti non ricorrono alla via diplomatica il futuro della Libia si fa sempre di più incerto".

Una fonte di AsiaNews, anonima per motivi di sicurezza, avverte sul rischio di un'escalation di violenza fra le varie fazioni in cui è diviso il popolo libico. "Bisogna fare di tutto per portare questo popolo alle elezioni - afferma la fonte - altrimenti si rischia una guerra ancora più sanguinosa fra tribù che potrebbe provocare un vero genocidio".

Intanto, i ribelli di Bengasi si uniscono al dolore delle famiglie delle vittime uccise dal raid Nato dello scorso 19 giugno. Tuttavia ritengono il rais l'unico responsabile di questa situazione di guerra iniziata per difendere e liberare il popolo libico dal regime. Oggi, Mahmud Jibril, incaricato per i rapporti con l'estero del Consiglio nazionale di transizione dell'opposizione libica, è giunto a Pechino per stringere accordi di collaborazione economica con le autorità cinesi e intavolare un eventuale negoziato con Tripoli. All'inizio del mese anche Abdelati al - Obeidi, ministro degli Esteri libico si è recato in Cina per discutere la possibilità di un cessate il fuoco. (S.C.)

   

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MADAGASCAR

Povertà e malnutrizione per 2 bambini malgasci su 3

Agenzia Fides - Amboasary Sud - 25 giugno 2011

 

Due bambini malgasci su tre vivono in condizioni di povertà e il 50% dei bambini con meno di cinque anni ha una crescita rallentata a causa della malnutrizione. La situazione è particolarmente grave nella città di Amboasary Sud, nella regione sudorientale di Anosy, Madagascar, dove presso il Centro per il Trattamento e la Cura della Malnutrizione Acuta con Complicazioni (CRENI) vengono ricoverati i bambini il cui rapporto peso-altezza determina uno stato di malnutrizione acuta. Sempre nella stessa città, collegato con la clinica è attivo un altro centro per il Trattamento e la Cura della Malnutrizione Acuta senza Complicazioni (CRENAS). Un grafico del CRENI di Amboasary Sud mostra che circa un terzo dei 130 ricoveri registrati nel 2010 si è verificato tra i mesi di marzo e maggio, alla fine della stagione più secca, ma i medici locali sostengono che la siccità è un problema ciclico che colpisce la regione solo ogni tanto, mentre ci sono fenomeni sociali ed economici di vecchia data che costituiscono una minaccia costante per la sicurezza alimentare.

Nella zona meridionale più arida, le condizioni climatiche sempre più imprevedibili rischiano di far aumentare la malnutrizione tra i bambini, in particolare tra i mesi di ottobre e marzo, quando il cibo scarseggia. La malnutrizione cronica spesso è causata da una scarsa alimentazione prolungata nel tempo. Il personale medico e gli operatori sanitari addetti ad identificare la malnutrizione nei bambini si rivolgono al CRENAS, da lì quelli più gravi e con complicazioni vengono inviati al CRENI. In genere i bimbi rimangono al CRENI 10 giorni e dopo aver recuperato un pò di peso vengono inviati nuovamente al CRENAS, dove mamme e figli vengono aiutati con supporti e formazione, cibo terapeutico pronto all'uso da portare a casa. Si tratta di pasta di arachidi molto nutriente che contiene micronutrienti e costituisce una vera salvezza per una zona del paese dove il 60% della popolazione vive ad oltre 5 km di distanza dal centro sanitario più vicino.

Inoltre, secondo alcuni esperti, contribuiscono a queste carenze proteiche anche "tendenze locali" o tabù che riguardano il consumo di determinati alimenti in zone dove la carne è un lusso insostenibile per la maggior parte della gente. Ai bambini è vietato mangiare uova e pollo e le patate dolci possono essere mangiate solo appena raccolte. I polli sono considerati "sporchi" e c'è la credenza che mangiare le uova renda muti uomini e donne. (AP)

   

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MESSICO

Relatore Onu: contro fame e obesità, cambiare politiche agricole

Misna - 21 giugno 2011

 

La fame e l'obesità hanno assunto dimensioni da emergenza nazionale in Messico a causa di politiche agricole obsolete e inefficaci: ad affermarlo è stato Olivier De Schutter, relatore speciale dell'Onu per l'alimentazione, al termine di una missione di una settimana nel paese. "Il Messico affronta il paradosso di avere 19,5 milioni di persone che vivono in condizioni di povertà alimentare, mentre il 70% dei messicani sono sovrappeso o obesi. Queste due emergenze sono il risultato di un sistema che deve cambiare" ha detto De Schutter.

Secondo il relatore del Palazzo di Vetro, occorre partire dalle politiche agricole, sostenendo economicamente i piccoli produttori e avvicinandoli direttamente ai consumatori. "Il Messico - ha ricordato - importa il 43% degli alimenti e la gente compra sempre più cibo preconfezionato al posto di prodotti freschi".

Allo stesso tempo, la decisione del Messico di unirsi al gruppo dei paesi che promuovono l'equiparazione del diritto all'alimentazione a diritto costituzionale "è una grande vittoria", ha commentato De Schutter, "che però ora deve essere messa in pratica, aumentando il salario minimo affinché tutti possano garantirsi l'accesso al paniere dei beni primari". Il relatore ha invitato inoltre il governo a frenare l'espansione delle coltivazioni di mais geneticamente modificato per non pregiudicare le specie originarie. [FB]

     

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MYANMAR

Chiesa più forte delle persecuzioni di Gerolamo Fazzini

Avvenire - 24 giugno 2011  

      

Manca mezz'ora alle 8, sta per iniziare la più frequentata delle Messe festive nella cattedrale di Yangon. Deposte le infradito all'esterno della chiesa, i fedeli si radunano con largo anticipo nell'ampia navata dell'edificio simil-gotico. Potrebbe sembrare una scena comune a quanto avviene altrove. Ma due particolari ci ricordano che siamo a quasi 10mila chilometri dall'Italia: la lunga fila di persone incolonnate per la confessione e lo sventolio dei ventagli multicolori che la parrocchia mette a disposizione per placare la morsa del caldo umido. Già, perché - ora che la stagione dei monsoni è cominciata - non bastano, a scacciarlo, i possenti ventilatori disseminati qua e là.

      

A dispetto del clima, tuttavia, la celebrazione è molto partecipata. I fedeli assiepano le panche e prendono parte con fervore alla Messa, che alterna qualche preghiera in latino all'inglese; in alcuni canti riconosciamo persino l'eco di melodie tradizionali del cattolicesimo occidentale.

Ma non è, quella del Myanmar, una Chiesa perseguitata? La domanda sorge spontanea alla mente, se solo uno ricorda la burrascosa storia e la situazione attuale del Paese. Non troverò una risposta definitiva all'interrogativo. Nemmeno una volta terminato il viaggio che ci porterà in diverse zone del Paese, da Taunggyi a Kengtung, sulle orme di padre Clemente Vismara, il missionario che domenica sarà dichiarato beato e che proprio qui ha passato ben 65 lunghi anni, meritandosi il titolo di "patriarca della Birmania".

 

Un fatto è certo: come ai tempi di Vismara, anche oggi essere cristiani a queste latitudini è tutt'altro che una scelta semplice. Nel suo ultimo rapporto annuale, in aprile, la Commissione Usa per la libertà religiosa ha inserito il Myanmar tra i Paesi "di particolare preoccupazione". Eppure, a sentire alcuni degli interlocutori incontrati nel corso del viaggio (preti, vescovi, suore e numerosi catechisti) qualche motivo di speranza c'è. Una speranza che, per ora, affonda le sue radici, più che su imminenti cambiamenti politici, sulla vivacità della comunità cattolica locale. Un "piccolo gregge" - quasi 700mila fedeli su circa 50 milioni di abitanti - ma con uno spirito missionario forte e un invidiabile dinamismo.

Un dato va segnalato: in Myanmar i cristiani rappresentano circa il 6% dell'intera popolazione e i cattolici l'1,5. Percentuali lillipuziane per i nostri parametri occidentali. Eppure, paragonata con quella della vicina Thailandia, la percentuale dei cattolici del Myanmar è tripla. E ciò a dispetto del livello, abissalmente diverso tra i due Paesi, quanto a libertà religiosa, mezzi economici e disponibilità di strutture. "Ciò non fa che confermare una verità che si ripete nella storia della Chiesa: ossia che la persecuzione fortifica la fede", osserva padre Claudio Corti, missionario del Pime di 44 anni, attivo in una diocesi del Nord del Thailandia al confine col Myanmar.

  

Il suo confratello Angelo Campagnoli, che in Birmania ha lavorato alcuni anni - nella stessa zona di Vismara - prima di essere espulso nel 1966, completa la spiegazione osservando che "ciò che rende speciale la Chiesa del Myanmar è l'essere costituita quasi interamente da minoranze etniche: tradizionalmente il cristianesimo si è diffuso soprattutto tra i tribali, in particolare karen. La componente etnica prevalente - quella birmana ("bamar") - resta, nonostante quattro secoli di presenza cristiana, sostanzialmente buddista".

  

Eppure, dai tempi di Vismara a oggi, una piccola-grande rivoluzione è in atto. Questa Chiesa provata, che dopo l'avvento dei militari si è vista strappare la gestione delle opere cattoliche, questa Chiesa costretta a "cavarsela da sola", che un tempo era "terra di missione" oggi, a sua volta, manda suoi missionari fuori dai suoi confini.

Negli ultimi anni, ben sette giovani del Myanmar sono entrati nelle file del Pime, cui apparteneva padre Vismara. In sei delle 16 diocesi della Birmania il Pime ha visto alternarsi lungo 140 anni di storia ben 170 missionari, non pochi dei quali morti giovani. "Oggi lo spirito che i missionari ci hanno testimoniato ispira la nostra Chiesa e ci porta verso i confini del mondo", chiosa monsignor Charles Bo, arcivescovo di Yangon. Tra pochi mesi anche l'istituto missionario ad gentes locale, "Little Way of Santa Theresa", manderà i suoi primi membri nella vicina Cambogia. Padre Vismara, dal cielo, non potrà che sorridere. Lui che, a proposito dei suoi giovani, scrisse: "Da questi teneri, cari, amati e spennacchiati virgulti, sorgerà (non ne dubito) la nostra Chiesa".

   

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Guerra, violenze e vendette: le sofferenze dei 10mila profughi cristiani di etnia kachin

Agenzia Fides - Myitkyina - 24 giugno 2011

   

"I combattimenti infuriano, i militari governativi non esitano a compiere atrocità e vendette sulla popolazione civile; vi sono oltre 10mila profughi civili di etnia kachin, in maggioranza cristiani, che sono in fuga, vittime della violenza": è l'allarme lanciato all'Agenzia Fides da un sacerdote della diocesi di Myitkyina (nel Nord del Myanmar), che chiede l'anonimato per motivi di sicurezza. Il sacerdote racconta, con estrema preoccupazione, la situazione del conflitto civile che da circa due settimane interessa lo stato di Kachin (uno dei 14 fra stati e territori in cui è divisa la nazione), territorio che ricade sotto la giurisdizione della diocesi cattolica di Myitkyina (vedi Fides 16/6/2011). A fronteggiarsi sono l'esercito governativo e i guerriglieri del "Kachin Independent Army": si tratta di un conflitto su cui le notizie sono sempre più rare, dato che il governo "ha provveduto a tagliare le linee elettriche e telefoniche per gran parte del territorio, isolando l'area", nota il sacerdote.

Gli scontri sono iniziati, racconta la fonte di Fides, perché il governo birmano ha stretto un accordo con la Cina per la costruzione di una diga che alimenterà una centrale idroelettrica nel territorio kachin. La centrale fornirà energia alla popolazione cinese e il progetto causerà lo sfollamento e l'inondazione di villaggi e territori dove vive la popolazione kachin, che dunque si è ribellata. I negoziati dei mesi scorsi non hanno avuto buon esito "perché parte dei leader militari non ha alcun rispetto dei diritti delle popolazioni delle minoranze etniche". Anzi, l'episodio è stato considerato un utile "casus belli" per scatenare una violenta repressione contro i kachin.

"Oggi oltre 10mila profughi, quasi tutti cristiani - prosegue il sacerdote - stanno fuggendo dalla guerra e stanno oltrepassando le frontiere con la Cina e con l'India. Centinaia di sfollati interni, intanto, sono accolti nelle chiese e nei templi buddisti. La situazione è drammatica in quanto la popolazione civile, già molto povera, è allo stremo".

Inoltre, dato che i guerriglieri si nascondono nella foresta, "i soldati dell'esercito birmano, quando incontrano villaggi kachin, non esitano a compiere violenze e atrocità sui civili, per vendetta", spiega la fonte di Fides, commentando la notizia degli stupri sistematici sulle donne kachin. "Per ora non possiamo confermare direttamente questa orribile notizia, ma la riteniamo fondata: in guerra si compiono tali nefandezze e più volte in passato l'esercito ha dimostrato di utilizzare gli strumenti della pulizia etnica contro le minoranze karen, shan, kachin ed altre etnie che vivono in territorio birmano", ricorda.

In tale dolorosa situazione, "la Chiesa locale di Myitkyina sta facendo il possibile per ospitare i profughi, per confortare e incoraggiare la popolazione, esortando i fedeli ad aiutarsi reciprocamente. Inoltre sacerdoti, religiosi e fedeli pregano incessantemente per la pace, affidando a Dio la loro immane sofferenza". (PA)

     

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PORTORICO

Onu: San Juan ha diritto all'autodeterminazione di Alessandro Grandi

PeaceReporter - 21 giugno 2011

Nazioni Unite: "Portorico ha una propria ed inconfondibile identità nazionale". Soddisfazioni dei movimenti indipendentisti  

     

Adesso ci sono pochi dubbi: quella che è considerata una delle ultime colonie al mondo, l'isola di Portorico, potrà finalmente autodeterminarsi. La notizia giunge in un momento di fermento politico e alcuni giorni dopo la visita del presidente Usa Barack Obama a San Juan.

Il Comitè de Descolonizacion delle Nazioni Unite, ha approvato una risoluzione che sottolinea il diritto all'autodeterminazione dell'isola di Portorico. Oggi lo status dell'isola la vede come uno Stato Libero e Associato agli Usa nonostante abbia un governo proprio.

Chiaro il testo della risoluzione. "Portorico è uno stato Latinoamericano e caraibico che ha una propria e inconfondibile identità nazionale", per queste ragioni l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite è chiamata a "esaminare in maniera amplia e in tutti i suoi aspetti il caso, pendente dal 1970.

Il testo Onu prevede anche che chi ha combattuto per l'indipendenza dell'isola venga rilasciato dalle carceri.

Un altro importante aspetto riguarda l'isola di Vieques che secondo la risoluzione dovrà essere totalmente decontaminata. La piccola isola a poche miglia dalle coste di Portorico, infatti, per oltre 60 anni è stata occupata e teatro delle manovre militari della Marina da Guerra degli Stati Uniti. Oggi l'isola è considerata una dei luoghi più inquinati del mondo e sotto le acque che la bagnano e sulla terra ferma ci sono ancora decine di migliaia di ordigni, alcuni inesplosi. L'isola è talmente tanto contaminata che l'incidenza dei tumori è di gran lunga superiore a qualsiasi altro luogo del continente.

Come detto la risoluzione è stata approvata senza ricorrere a votazioni ma grazie all'appoggio incondizionato dei Paesi Latinoamericani e dei 'non allineati' (Cuba, Venezuela, Nicaragua, Bolivia ed Ecuador).

Non solo. Prima di giungere ad una decisione il Comitè ha ascoltato molte organizzazioni politiche e della società civile sia portoricane che statunitensi.

Soddisfazione è stata espressa dal Movimiento Indipendentista Nacional Hostosiano. Il suo portavoce ha fatto sapere che "Portorico ha la necessità di arrivare urgentemente alla sua completa indipendenza".

Osvaldo Martinez Toledo, a capo dell'ordine degli Avvocati, ha fatto sapere che un'Assemblea Costituente godrebbe di un ampio consenso tra la popolazione e le strutture politiche".

Tutte le realtà che hanno combattuto fino a oggi per l'indipendenza reale da Washington, però, sono d'accordo su una questione: se ci sarà un referendum popolare per decidere lo status dell'isola dovranno poter votare anche i cittadini portoricani che vivono all'estero, soprattutto negli usa.

Si calcola infatti, che più di 4,5 milioni di cittadini di origine portoricana vivono all'interno dei confini Usa.

   

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ROMANIA

Amnesty: il sistema legale in vigore nega ai rom l'accesso a un alloggio adeguato

Amnesty Int - 23 giugno 2011  

     

In un rapporto pubblicato oggi, Amnesty International ha denunciato che i cittadini più poveri e svantaggiati della Romania non possono accedere ad alloggi adeguati  a causa del sistema legale vigente nel paese. Il rapporto descrive le storie di singole persone e di comunità rom della Romania e mette in evidenza la necessità di riformare, basandola sui diritti umani, la legislazione relativa all'alloggio.

"L'intolleranza e il pregiudizio nei confronti dei rom, diffusi in modo massiccio in Romania e combinati con l'assenza di leggi sull'alloggio adeguato, hanno dato carta bianca alle autorità per discriminare i rom" - ha dichiarato Barbora Cernusakova, ricercatrice di Amnesty International sulla Romania. "Il diritto umano a un alloggio adeguato non è riconosciuto né tutelato in modo significativo dalle leggi romene, con una ricaduta su tutta la popolazione e specialmente sui gruppi più vulnerabili ed emarginati".

"Quando le autorità sgomberano le comunità rom contro la loro volontà, senza adeguata consultazione, preavviso o alloggio alternativo, violano i trattati internazionali che il governo di Bucarest ha sottoscritto. Ciò è vero anche per quanto riguarda il reinsediamento delle comunità rom in siti inadeguati e segregati" - ha proseguito Cernusakova.

In Romania vivono due milioni di rom, circa il 10 per cento della popolazione del paese. Secondo le statistiche governative, il 75 per cento dei rom vive in povertà, rispetto al 24 per cento della popolazione generale.

I rom raramente hanno il possesso di terreni e altre proprietà e sono ulteriormente svantaggiati dall'assenza di edilizia sociale, in un paese dove il 97 per cento delle case appartengono ai privati.

Sebbene alcuni rom vivano in strutture permanenti su cui hanno un titolo legale, le autorità considerano molti duraturi insediamenti alla stregua di siti "informali" o illegali, i cui abitanti sono privi di titolo di proprietà e dunque più esposti agli sgomberi. La legislazione vigente non offre protezione dagli sgomberi forzati, anche se si tratta di azioni illegali ai sensi degli standard internazionali che la Romania è tenuta a seguire.

Amnesty International e altre Organizzazioni non governative hanno documentato una serie di casi in cui le comunità rom sono state sgomberate con la forza e reinsediate in modo tale da creare o rendere più acuta la segregazione.

Il 17 dicembre 2010 le autorità locali di Cluj-Napoca, la terza città della Romania, hanno eseguito lo sgombero forzato di 56 famiglie rom dal centro cittadino, dove alcune di esse avevano vissuto per 25 anni. Le famiglie non hanno ricevuto preavviso adeguato, non sono state consultate e non è stata loro proposta alcuna alternativa praticabile allo sgombero. Infine, non hanno potuto presentare ricorso contro lo sgombero.

Quaranta delle 56 famiglie sono state trasferite in nuove unità abitative alla periferia della città, su una collina che si trova sopra a un vecchio insediamento rom i cui abitanti vivono in condizioni disumane.

Le nuove unità abitative si trovano vicino alla discarica della città e a una di sostanze chimiche. Ognuna di esse è composta da quattro piccole stanze, in cui vivono altrettante famiglie, con un solo bagno a disposizione Alle altre 16 famiglie, rimaste senza tetto dopo lo sgombero, è stato consentito di costruire proprie abitazioni nei pressi delle nuove unità abitative ma senza alcun titolo legale.

George, uno dei rom sgomberati, ha dichiarato ad Amnesty International: "La stanza è molto piccola. Ci sono delle infiltrazioni d'acqua dalle pareti. È davvero brutto, un incubo. Ogni volta che la mia figlia sedicenne deve cambiarsi, sono costretto a uscire fuori dalla stanza. Non c'è spazio per stare tutti insieme. Nell'altra stanza c'è una famiglia con 13 persone, due adulti e 11 bambini in una sola stanza...."

La fermata dell'autobus più vicina si trova a tre chilometri di distanza, ciò che rende difficile andare a scuola, a lavoro o dal dottore. Coloro che avevano vissuto nel centro della città insieme al resto della popolazione si sono trovati di fatto segregati.

"I rom non solo sono discriminati per quanto riguarda l'alloggio, ma non riescono neanche ad avere accesso alla giustizia quando subiscono un torto; spesso non hanno le informazioni o le risorse necessarie per poterlo fare" - ha sottolineato Cernusakova. "Il governo romeno, inoltre, non ha ancora posto in essere meccanismi che possano chiamare le autorità locali a rispondere di inadempienze rispetto ai trattati internazionali di cui la Romania è stato parte".

Amnesty International, insieme all'Organizzazione non governativa Criss di Bucarest, è impegnata da anni in una campagna in favore di una comunità rom sgomberata del 2004 dal centro di Miercurea Ciuc e trasferita in un sito inadeguato nei pressi di un impianto per il trattamento dei liquami, alla periferia della città.

"Le autorità locali e il governo centrale hanno ripetutamente ignorato i loro obblighi sui diritti umani nei confronti di queste persone, trattate come rifiuti e che da sette anni vivono in condizioni disumane" - ha accusato Cernusakova.

"Le riforme legislative in vista costituiscono per il governo della Romania un'opportunità per porre il suo sistema legale in materia di alloggio in linea con gli standard internazionali e regionali sui diritti umani e per assicurare che i fondi municipali, nazionali o europei non saranno usati per finanziare progetti edilizi in contrasto con tali standard".

   

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RUSSIA

San Pietroburgo: la prima processione del Corpus Domini a 93 anni

AsiaNews - Mosca - 25 giugno 2011

L’ultima celebrazione del genere si è svolta nel 1918. Il sindaco della città ha dato il permesso per la processione, che sarà guidata dall’arcivescovo di Mosca, mons. Paolo Pezzi. I cattolici sfileranno lungo la Prospettiva Nevsky, la principale arteria dell’ex capitale.
         
Il sindaco di San Pietroburgo ha dato il permesso per la prima processione del Corpus Domini nell’ex capitale russa dal 1918. L’annuncio è stato confermato dall’arcidiocesi della Madre di Dio a Mosca. La processione avrà luogo domenica 26 giugno, e si svolgerà sulla famosa Prospettiva Nevsky, la principale arteria della città.
Questa strada è tradizionalmente chiamata la “via della tolleranza”, dal momento che su di essa si affacciano chiese cattoliche, ortodosse, luterane e armene. Secondo i funzionari dell’arcidiocesi, l’ultima volta che una processione del Corpus Domini è sfilata a San Pietroburgo è stato nel 1918, prima della presa del potere da parte dei bolscevichi.L’ultima processione fu condotta da mons. Constantin Budkiewicz, che fu ucciso con un colpo alla testa dai comunisti nelle prime ore della Pasqua del 1923.
Adesso, 93 anni più tardi, i cattolici torneranno sulla Prospettiva Nevsky guidati dall’arcivescovo di Mosca, mons. Paolo Pezzi. Dopo la messa di mezzogiorno, che mons. Pezzi celebrerà nella chiesa di Santa Caterina di Alessandria, la processione si snoderà lungo la Prospettiva Nevsky, e le vie circostanti, portando il Santissimo sacramento.

 

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Patriarcato di Mosca avvia programma per proteggere i cristiani nel mondo di Nina Achmatova

AsiaNews - Mosca - 23 giugno 2011

Il World Russian People's Council pubblicherà regolarmente informazioni su violenze e soprusi ai danni della comunità. Chiesa ortodossa: preoccupante la cristianofobia in Medio Oriente.  

   

Preoccupata dalla diffusa "cristianofobia", la Chiesa russo-ortodossa ha deciso di pubblicare informazioni con regolarità su episodi di violenza che colpiscono i cristiani nel mondo. A occuparsene, come riferisce l'agenzia Interfax, sarà il World Russian People's Council, un forum pubblico che raccoglie diversi esponenti religiosi e politici in Russia ed è presieduto dal patriarca di Mosca e di tutte le Russie Kirill.

"La Chiesa russo-ortodossa avvierà un programma per proteggere i cristiani che sono diventati di recente la comunità religiosa più colpita", ha spiegato Roman Silantyev, direttore del Centro. L'idea è quella di monitorare solo i crimini e le violenze commesse contro i cristiani, come omicidi, minacce, stupri, massacri e condanne a morte.

La preoccupazione maggiore si concentra sul Medio Oriente, come spiega il metropolita Hilarion di Volokolamsk, capo del Dipartimento per le relazioni esterne della Chiesa. "L'escalation della cristianofobia in alcuni paesi mediorientali può portare a serie conseguenze per la fede ortodossa, mettendo a rischio la vita di fedeli delle antiche Chiese locali, privati dei loro diritti", ha denunciato in un'intervista a Interfax-Religion dopo aver incontrato il rettore dell'Università islamica egiziana di Al-Azhar. "Se i governi del Medio Oriente non prendono misure speciali per proteggere i cristiani, assisteremo presto a un'altra ondata migratoria", ha continuato il metropolita. Che ha poi concluso con un auspicio: che "l'estremismo dietro slogan religiosi non sia identificato con l'islam, che predica la tolleranza tra i membri di differenti religioni". (N.A.)  

 

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SAHARAWI

Dall'Algeria al Sudafrica, per il popolo Saharawi

Misna - 24 giugno 2011 

         

Una nuova campagna di sensibilizzazione per sostenere la causa del popolo sahrawi: l'hanno approvata i rappresentanti di Sudafrica e Algeria riunitisi ad Algeri in vista dell'incontro tripartito del Movimento di solidarietà con il popolo sahrawi, previsto per settembre, e al quale parteciperà anche la Nigeria.

"L'iniziativa prevede una serie di conferenze e avvenimenti finalizzati a sostenere la lotta per l'autodeterminazione dei sahrawi, attraverso incontri e eventi ai quali prenderanno parte personaggi dello spettacolo, star del mondo sportivo e altri" ha spiegato Makina Zanella, direttrice per il Nord Africa del ministero degli Esteri di Pretoria e responsabile dei progetti della Coordinazione Algeria-Sudafrica (Cnasps).

"L'indipendenza è un diritto dei sahrawi" ha aggiunto la diplomatica, ricordando la lotta del suo paese contro ogni forma di colonizzazione e deplorando "l'abbandono di civili inermi in campi profughi in mezzo al deserto per anni".

Ex colonia spagnola annessa dal Marocco nel 1975, il Sahara occidentale è oggetto di una disputa trentennale tra Rabat che propone per la regione un'ampia autonomia e il Fronte Polisario, sostenuto dall'Algeria, che ribadisce il diritto del popolo sahrawi all'autodeterminazione attraverso un referendum.

Il prossimo round di colloqui tra governo marocchino e Polisario (Fronte di Liberazione Popolare di Saguia el Hamra e del Rio de Oro), finora proceduti sotto egida dell'Onu senza sostanziali progressi, è previsto per metà luglio. [AdL]

     

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SIRIA

Cambiamento, ma non al prezzo di una guerra civile

AsiaNews - Damasco - 21 giugno 2011

Assad ha denunciato un complotto contro la Siria e promette emendamenti alla Costituzione. L'opposizione manifesta contro le aperture del presidente, bollate come "non sufficienti" anche dall'omologo turco Gul. Fonti di AsiaNews: il futuro è incerto, il Paese subisce una "pressione internazionale premeditata"; serve maggiore equilibrio di Occidente e media.  

           

"Vogliamo il cambiamento, ma non al prezzo del sangue e di una guerra civile". È quanto dichiara ad AsiaNews una fonte cristiana a Damasco, che chiede l'anonimato per motivi di sicurezza. Il popolo invoca "riforme e lotta contro la corruzione", ma vi è anche il timore che la situazione possa degenerare. Ieri intanto Bashar al-Assad ha tenuto un discorso alla nazione, il terzo dopo due mesi di silenzio. L'opposizione interna ha criticato con forza le parole del presidente siriano, che sono state giudicate "non sufficienti" anche dall'omologo turco Gul e dal blocco occidentale.

Bashar al-Assad ha parlato dall'aula magna dell'università di Damasco, in un discorso durato circa 70 minuti e trasmesso in diretta dalla tv di Stato. Tre i punti salienti del discorso del presidente: in primis egli ha ammesso che la Siria vive "giorni difficili" a causa di un complotto ordito da "intellettuali blasfemi" e "stranieri, che minacciano l'unità nazionale e rischiano di far crollare l'economia". Poi annuncia la creazione di un comitato di 100 saggi, chiamati a studiare alcuni emendamenti alla Costituzione. Infine promette "cambiamenti graduali", in un processo che di dovrebbe concludere entro settembre o, al massimo, la fine dell'anno.

Le parole di Assad sono respinte al mittente dall'opposizione interna, che a pochi minuti dalla fine del discorso è scesa in piazza a manifestare in diverse città: nelle vie di Aleppo, Homs, Hama, Lattakia i dimostranti hanno intonato slogan contro il regime, rivendicando maggiore "dignità e libertà". Critiche al presidente siriano giungono anche dall'omologo turco Abdullah Gul, che bolla come "non sufficiente" l'impegno promesso da Assad, concedendo "una settimana di tempo per attuare le riforme". Intanto l'Unione europea prepara un nuovo giro di sanzioni contro Damasco, mentre continua l'emergenza profughi (quasi 9mila) lungo i confini con la Turchia.

Commentando le parole del presidente, la fonte di AsiaNews parla di "situazione non facile", perché Assad "vuole realizzare le riforme, ma l'opposizione non intende aspettare, chiede subito cambiamenti". Quello che ha proposto, spiega, "non si può realizzare dall'oggi al domani" e al momento "non è possibile ipotizzare gli sviluppi futuri", perché "tutto dipende da come la situazione evolverà". La personalità cristiana denuncia una "pressione internazionale premeditata", ovvero "critica a prescindere" perché "qualunque apertura non sarebbe sufficiente" ai loro occhi.

Per la fonte, a Damasco emerge "la sensazione che i mezzi di comunicazione gonfino le notizie, la realtà, perché vogliono cambiare" il regime. Dal fronte interno si intravede "la volontà di ricomporre un nuovo Medio oriente" che viene rimodellato "su una base di natura religiosa", come è avvenuto in Iraq dove "i cristiani sono fuggiti per la paura" e sono fra gli obiettivi di attacchi.

La fonte di AsiaNews lancia infine un appello ai mezzi di comunicazione e all'Occidente perché "riflettano di più prima di intervenire". "Tutti vogliamo riforme e lotta contro la corruzione - chiarisce - vogliamo il cambiamento, ma non attraverso il sangue e la guerra civile". Perché se è vero che vi sono scontri, manifestazioni e morti, conclude, è altrettanto vero che questi episodi sembrano "fomentati" dall'esterno.(DS)

   

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SRI LANKA

I politici hanno "paura" della libertà d'informazione di Melani Manel Perera

AsiaNews - Colombo - 24 giugno 2011

Conferenza stampa organizzata da un collettivo di giornalisti e rappresentanti dei media. Lo Sri Lanka è l'unico Stato dell'Asia del sud a non avere una legge sul diritto e sulla libertà d'informazione (Freedom of Information Bill).  

         

Lo Sri Lanka deve avere una legge sul diritto e sulla libertà d'informazione (Freedom of Information Bill), anche se i politici "hanno paura" e "vogliono tenerci all'oscuro". È quanto è emerso il 22 giugno scorso in una conferenza stampa, organizzata a Colombo dalla Citizens Right and Collective of Media Organization (Crcmo). Lo Sri Lanka è l'unico Stato dell'Asia del sud a non avere una legge sul diritto all'informazione, già adottata in più di 80 Paesi in tutto il mondo. "Mai come adesso - si legge in una dichiarazione ufficiale - sentiamo l'urgenza di garantire ai cittadini una politica culturale in cui il governo sia responsabile delle persone". L'associazione spera di realizzare anche una giornata di "consapevolezza pubblica", il prossimo 5 luglio.

Secondo la Crcmo, tenere la gente informata su tutti i fronti è un prerequisito essenziale per vigilare in modo efficace sulla condotta dei politici, limitando dove possibile l'abuso di potere. "Da sempre il governo cerca di tenere le persone all'oscuro di tutto. Ma i cittadini hanno il diritto di sapere cosa accade intorno a loro, e in quali circostanze", ha dichiarato Gamini Viyangoda, membro dell'organizzazione.

Nel settembre 2010 Karu Jayasuriya, leader dell'opposizione, aveva presentato la Freedom of Information Bill in parlamento. All'epoca il governo congelò la proposta, promettendo di redigere una propria bozza della legge. Tuttavia, sette mesi dopo la maggioranza non aveva ancora presentato nulla, e a maggio Jayasuriya ha rimesso sul tavolo il suo disegno di legge.  

 

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SUDAN

Grave la situazione umanitaria nelle due aree del sud Kordofan e di Abyei

Agenzia Fides - Juba - 20 giugno 2011

       

"Intere famiglie continuano ad errare senza meta, prive di assistenza umanitaria, mentre continuano i bombardamenti da parte dell'aviazione governativa" dice all'Agenzia Fides suor Carmen, una missionaria comboniana messicana che opera nell'area dei Monti Nuba, che fanno parte del sud Kordofan, dove continuano i combattimenti tra gli eserciti di nord e sud Sudan. "Siamo preoccupati per i nuovi combattimenti, ma speriamo ancora che la comunità internazionale possa venire in nostro soccorso" conclude la missionaria.

Le riprese satellitari acquistate dal "Satellite Sentinel Project" (promosso dall'attore statunitense George Clooney), mostrerebbero un rafforzamento del dispositivo militare dell'esercito di Khartoum a Kadugli, la capitale del sud Kordofan, occupata dalle forze nordiste. Il potenziamento militare fa temere una nuova offensiva da parte di Khartoum.

Nell'altra area contesa tra nord e sud Sudan, quella di Abyei, non si registrano nuovi combattimenti ma anche qui la situazione umanitaria rimane molto grave. "La popolazione è ancora sfollata da Abyei e riceve qualche aiuto sporadico. Le piogge continuano a battere incessantemente la zona e gli sfollati sono privi di protezione" dice all'Agenzia Fides mons. Roko Taban Mousa, Amministratore Apostolico di Malakal. "I bambini e gli anziani sono i più colpiti da questa drammatica situazione: malaria e diarrea continuano a mietere vittime. Non vi sono quindi miglioramenti significativi delle condizioni umanitarie. Ad Abyei non vi sono al momento combattimenti o bombardamenti. La città è però ancora occupata dall'esercito di Khartoum e la popolazione ha paura di farvi ritorno" conclude l'Amministratore Apostolico. (L.M.) 

  

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TAGIKISTAN

A Dushanbe i ragazzi possono andare in Chiesa solo per i funerali

AsiaNews - Dushanbe - 23 giugno 2011

Nuove leggi, in discussione in parlamento, puniscono con il carcere i genitori che "consentono" ai figli minori anche soltanto di andare in chiesa o in moschea o di fare catechismo. Per impedire il diffondersi dell'estremismo. Ma molti denunciano la violazione di diritti elementari.  

   

La Camera bassa del Parlamento tagiko ha approvato il 15 giugno la controversa legge sulla Responsabilità dei genitori sull'educazione dei figli, proposta su iniziativa del presidente Emomali Rahmon. La nuova legge conferma e inasprisce il divieto per chi ha meno di 18 anni di partecipare a qualsiasi attività religiosa, eccetto i funerali. La violazione del divieto è punita con gravi sanzioni e il carcere per i genitori.

La nuova legge, come già la precedente del 2009, obbliga i genitori a "non permettere che i figli minorenni partecipino ad attività di organizzazioni religiose, eccetto quelle facenti parte in modo ufficiale della istruzione religiosa (con eccezione di funerali e altre occasioni di lutto)".

L'agenzia Forum 18 denuncia che il divieto colpisce sia le funzioni religiose che il catechismo che ogni altra attività, i ragazzi non potranno nemmeno accompagnare i genitori in chiesa o nella moschea. Altrimenti i genitori possono essere condannati a gravi multe o persino al carcere da 5 a 8 anni (12 per gli organizzatori), anche se il ragazzo partecipa a simili incontri a loro insaputa, la legge attribuisce loro un dovere di vigilanza generale. Anche la legge che punisce i genitori è stata modificata e aggravata, sempre il 15 giugno. La nuova legge penale punisce pure chi "organizza e conduce incontri, seminari, dimostrazioni, cortei stradali" religiosi senza autorizzazione, con il carcere fino a due anni per la prima violazione e fino a 5 anni per il recidivo.

In pratica, potranno avere un'istruzione religiosa solo i ragazzi che vanno a scuola in madrasse e licei islamici o in istituti religiosi cristiani riconosciuti dallo Stato, nei quali l'insegnamento religioso sia previsto come curricolare. Peraltro simili istituti sono oggi poche decine, insufficienti per l'educazione religiosa dei giovani del Paese, e il Comitato statale per gli affari religiosi ha detto a F18 che non ritiene, per ora, di approvarne altri.

Ora la nuova legge sarà sottoposta alla Camera Alta, ma nessuno dubita circa la sua rapida approvazione. I sostenitori della legge la giustificano con la necessità di combattere l'estremismo religioso ed evitare che i ragazzi finiscano sotto l'influsso di gruppi religiosi estremisti appartenenti a organizzazioni islamiche terroriste. Tuttavia la legge non indica cosa intenda per insegnamento religioso estremista.

All'osservazione che il divieto punisce tutti, anche chi insegna catechismo al figlio, il deputato Sattor Kholov, relatore a favore della legge, risponde che sarà compito dei giudici distinguere e non punire l'insegnamento religioso non estremista.

Faredun Hodizoda, esperto politico, osserva che il divieto è "eccessivo" e che persino durante l'epoca sovietica i ragazzi potevano frequentare le moschee.  Altri critici osservano che nel Paese non c'è un radicato estremismo religioso e che la legge impedisce di fatto ai ragazzi di ricevere un'istruzione religiosa. Il parlamentare Muhiddin Kabiri, leader del Partito del rinascimento islamico (Irp), osserva che la legge "viola ancora di più i diritti dei cittadini" alla libertà religiosa.

Esperti ritengono che la nuova legge restringerà la già scarsa libertà religiosa prevista dalla legge del 2009. Da allora molte moschee sono state distrutte, i cristiani processati e condannati per riunioni e attività "illegali" e i Testimoni di Geova sono stati banditi dal Paese.

   

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TIMOR EST

I missionari impegnati nel paese sono stati riconosciuti "eroi" dal Parlamento

Agenzia Fides - Dili - 22 giugno 2011

   

In occasione della Giornata Nazionale del Paese, il Presidente di Timor est, Jose Ramos Horta, ha elogiato il lavoro dei tanti missionari cattolici che hanno vissuto e lavorato al fianco della popolazione locale prima dell'indipendenza dall'Indonesia. Nel suo discorso riportato dal "Province Express", quindicinale cattolico australiano dei Gesuiti, Horta li ha descritti come "eroi". In particolare ha ricordato un sacerdote italiano Salesiano, alcune suore Canossiane, tre missionari Gesuiti portoghesi oltre ad un altro Gesuita tedesco, che è stato assassinato nel 1999. Il Parlamento ha proposto di dare la cittadinanza ad un gruppo di questi missionari, consegnando il primo passaporto Timorense in occasione del 90° compleanno di padre João Felgueiras. I 3 missionari portoghesi, padre João Felgueiras, padre José Martins, e fratel Daniel de Ornelas (deceduto), arrivarono nel paese agli inizi degli anni '70 e vi sono rimasti per oltre 24 anni durante l'invasione indonesiana dell'isola.

Ringraziando il Primo Ministro per la concessione della cittadinanza, padre Felgueiras ha sottolineato la necessità di "incoraggiare altri religiosi e religiose a partire per Timor, per evangelizzare un nume