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Anno XI N° 482 17/8/11 |
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Intenzione missionaria di agosto
Agenzia Fides - Città del Vaticano - 26 luglio 2011
“Perché i cristiani dell'Occidente, docili all'azione dello Spirito Santo, ritrovino la freschezza e l'entusiasmo della loro fede”
Nella
Chiesa primitiva, a causa della persecuzione e dello zelo evangelizzatore dei
primi discepoli, gli apostoli ed i loro collaboratori si sparsero in tutta la
terra allora conosciuta. San Paolo evangelizzò la Grecia e arrivò fino in
Spagna e a Roma, dove subì il martirio. Anche San Pietro ha dato la sua vita
per il Maestro vicino al colle Vaticano. Dalla capitale dell'Impero Romano, la
fede in Cristo si diffuse in Europa, influenzando la cultura e impregnando del
Vangelo tutti gli aspetti della vita sociale. La civiltà occidentale è stata
costruita sui valori cristiani, su una visione dell’uomo segnato dal suo
essere figlio di Dio, dal suo destino eterno in Cristo.
L'evangelizzazione
dei nuovi continenti diffuse in tutto il mondo una cultura che affonda le sue
radici nel Vangelo ed è inseparabile dalla fede. Purtroppo dal XVIII secolo è
iniziata con l'Illuminismo, in Europa, un'ondata di laicismo, che ha preteso di
spogliare della sua identità cristiana tutto l'Occidente. Questa ondata di
laicismo sta arrivando alla cristianofobia, come afferma Papa Benedetto XVI. Il
laicismo ha come conseguenza di portare l'uomo a vivere come se Dio non
esistesse. Questo ha prodotto una grande mancanza di speranza, che si manifesta
in una certa angoscia esistenziale per il futuro, nella diminuzione del tasso di
natalità, del numero delle vocazioni, e in una incapacità nei giovani di
prendere dicisioni definitive per la loro vita, incluso il matrimonio.
Durante
la sua visita a Santiago de Compostela, nel novembre 2010, il Santo Padre
Benedetto XVI ha affermato: "È una tragedia che in Europa, soprattutto nel
XIX secolo, si affermasse e diffondesse la convinzione che Dio è
l’antagonista dell’uomo e il nemico della sua libertà. (…) Dio è
l’origine del nostro essere e il fondamento e culmine della nostra libertà,
non il suo oppositore. (…) Come è possibile che si sia fatto pubblico
silenzio sulla realtà prima ed essenziale della vita umana ?” (Santa Messa in
occasione dell’Anno Santo Compostelano,Plaza del Obradoiro, 6 novembre 2010).
I
discepoli di Cristo in Occidente devono effettivamente recuperare l'entusiasmo
per la fede, superando il materialismo consumistico e aprendosi ad una
dimensione trascendente della vita. E’ necessario riscoprire la persona di
Cristo come Qualcuno che è vivo, che è in mezzo a noi. E' necessario trovare
nuovi spazi di silenzio e di meditazione della Parola di Dio, per poter entrare
in comunione con la persona di Gesù. Perciò il Papa ha chiamato i cristiani a
"seguire l'esempio degli apostoli, conoscendo il Signore ogni giorno di più
e offrendo una testimonianza chiara e coraggiosa del suo Vangelo".
Maria, Regina degli Apostoli, ci ottenga con la sua materna intercessione una nuova effusione dello Spirito Santo che rinnovi la Chiesa in Occidente.
La speculazione che affama
di Riccardo Moro
Famiglia
Cristiana - 25 luglio 2011
Cosa
sta dietro l'impennata dei prezzi delle derrate alimentari? I mutamementi
climatici, i biocarburanti, l'aumento del prezzo del petrolio, ma soprattutto
una finanza di rapina.
Nelle
scorse settimane è stata dichiarata l’emergenza alimentare in Somalia.
L’appello internazionale in favore delle popolazioni del Corno d’Africa
richiama le contraddizioni di un pianeta in cui un miliardo di persone getta
derrate alimentari deperibili non consumate e sostiene assurdi ‘costi
collaterali’ causati dall’abbondanza (le diete, il fitness dimagrante…),
mentre un altro miliardo non ha pane a sufficienza.
Le
preoccupazioni relative al cibo però non riguardano solo l’emergenza di
questi giorni, ma alcuni squilibri strutturali rivelati dall’estrema volatilità
dei prezzi registrata negli ultimi anni. Tra il 2006 e il 2008, infatti,
l’indice generale dei prezzi alimentari calcolato dalla Fao è raddoppiato,
per poi riscendere ai valori precedenti il 2006 in soli due mesi tra luglio e
agosto 2008. A metà 2010 i prezzi sono di nuovo impazziti, raggiungendo i
massimi del 2008 nel gennaio 2011. Da quel momento sono stabili, ma a livelli
elevatissimi e insostenibili per la popolazione più povera del pianeta.
Che
cosa spinge così in alto i prezzi? Un primo fattore è legato al cambio
climatico, quello forse più importante per l’attuale Somalia (anche se le
mutazioni in corso, e la relativa desertificazione, colpiscono duramente anche
altre aree del pianeta). La maggiore frequenza di fenomeni atmosferici violenti,
soprattutto nelle zone tropicali, determina un succedersi di siccità e
alluvioni che rendono i raccolti più vulnerabili. Minori raccolti
significa minore offerta e dunque pressione sui prezzi. Un secondo fattore è
dovuto all’aumento demografico, cui si compone il miglioramento della
condizione di una parte della popolazione povera in India e in Cina. Ci sono cioè,
e questa è una buona notizia, persone che guadagnano di più e mangiano meglio
di prima. Una percentuale relativamente piccola di popolazione che vive questo
miglioramento in paesi grandi come la Cina e l’India significa milioni di
cittadini, dunque un fenomeno che inizia a farsi rilevante. Queste persone
domandano più carne e derivati del latte, ciò comporta una spinta ad aumentare
i capi di bestiame e quindi una maggiore domanda di mangimi. La produzione di
cereali per consumo animale può spiazzare quella per consumo alimentare,
sottraendole superfici da coltivare, quindi riducendo la produzione e spingendo
sui prezzi.
Un
terzo fattore è quello legato alla produzione di agrocarburanti. Aumentano le
colture di soia e altri cereali usati per produrre combustibili con impatti
ambientali ridottissimi. Anche questo può sottrarre terreni alla produzione
alimentare premendo sui prezzi. Quarto elemento è il prezzo del petrolio,
che incide su trasporti e fertilizzanti e quindi sui prezzi. Inoltre, se il
petrolio è caro, diventa maggiore l’incentivo a produrre agrocarburanti,
amplificando le ricadute negative della loro coltivazione.
Questi
elementi concorrono a spiegare un trend di aumento dei prezzi, ma non la sua
intensità, né la riduzione dei prezzi della metà del 2008: il ceto medio nei
paesi emergenti non si è ridotto né i fenomeni meteo sono più rari.
Solo col petrolio potrebbe esserci una correlazione teorica, visto che petrolio
e cibo subiscono una caduta dei prezzi analoga, ma un’analisi più
approfondita la smentisce: durante la caduta del 2008 i fertilizzanti non hanno
ridotto il loro prezzo e i costi di trasporto sono stati appena più contenuti.
Infine in termini globali la produzione aggregata nel pianeta in questi anni è
aumentata. La produzione di mangimi e biodiesel non ha spiazzato quella
alimentare, ma ha usato superfici nuove (è il caso del biodiesel in Africa e
nel Sud del mondo) o sfruttato miglioramenti di produttività.
Per
spiegare le impennate dei prezzi alimentari e soprattutto la loro intensità,
occorre guardare al mercato finanziario. Da qualche anno si investe sui beni
alimentari attraverso i cosiddetti derivati. Questi sono titoli che
‘derivano’ il loro valore dall’andamento di un’altra grandezza, detta
sottostante. Se il sottostante cresce il derivato vale di più e viceversa.
Negli ultimi anni è fortemente aumentato il numero di derivati che hanno
scommesso sull’aumento dei prezzi alimentari. La aspettativa di aumento dei
prezzi si è trasferita sui mercati reali facendo alzare i prezzi anche in
assenza di reale scarsità.
Per
le materie prime agricole, infatti, il prezzo attuale è determinato da quello
atteso, attraverso il meccanismo dei futures, un particolare titolo in cui si
stabilisce oggi il prezzo a cui ci si scambierà la merce domani. Se tutti
attendono per domani un prezzo maggiore, è naturale che il prezzo di oggi tenda
ad aumentare. A questo si possono aggiungere comportamenti speculativi
considerati illegali a livello nazionale, ma non regolati da leggi a livello
internazionale, per cui in un mercato globale fortemente integrato come quello
finanziario i pochi intermediari delle materie prime agricole possono giocare
sulla loro posizione e sulle loro informazioni privilegiate per influenzare i
mercati e guadagnare finanziariamente attraverso i derivati. Le speculazioni di
pochi, insomma, concorrono a incidere sulla fame di molti, di troppi.
Che
fare? Occorre una riflessione su tecniche, luoghi e distribuzione della
produzione (per aumentare la produzione locale e ridurre i costi di trasporto,
che incidono anche sulla qualità dell’ambiente). Insieme a questa è urgente
una riflessione rigorosa sulla governance del mercato finanziario, per farlo
tornare uno strumento al servizio della produzione e riportare i titoli futures
alla loro funzione originaria di garanzia contro la volatilità dei prezzi . Da
essa si sono allontanati diventando amplificatori delle variazioni che il
mercato reale naturalmente produce rendendole insostenibili.
Il
tema è nell’agenda della Fao, di tutte le reti della società civile e del
G20. Le prime proposte sono state formulate. In Italia è nata la campagna
“Sulla fame non si specula” che ha chiesto al sindaco di Milano di vendere i
titoli derivati legati al cibo posseduto dal Comune e creare un
“Osservatorio” sulla relazione tra finanza e prezzi alimentari in vista
dell’expo 2015, che utilmente si intitola “Nutrire il pianeta”. A
livello nazionale, e in dialogo con le reti internazionali, la rete Gcap, la
Coalizione italiana per la lotta contro la povertà e il Comitato per la
sovranità alimentar e hanno formulato proposte tecnicamente circostanziate. Ora
tocca alla politica dimostrare disponibilità all’ascolto e iniziativa.
L’Onu
prepara l’ Arms Trade Treaty di Alessio Pisanò
Il
fatto quotidiano - 25 luglio 2011
L'iniziativa
del Palazzo di vetro è tesa a limitare il dilagante fenomeno della corruzione
che, secondo Trasparency international, costa 22 miliardi l'anno. Nell'Unione
europea non esiste nessuna normativa che regoli questo settore del mercato.
Quanto incide la corruzione nel mercato mondiale delle armi? Molto. Secondo
Transparency International, circa 22 miliardi di euro l’anno. Sì perché il
mercato degli armamenti è uno di quei pochi settori del commercio mondiale
sprovvisto di un regolamento anti-corruzione. Non solo, è uno dei settori del
commercio meno regolamentati al mondo, tanto che gli stati nazionali possono
fare più o meno quello che vogliono.
Perfino
in Europa, dove ci sono precise misure su tutto, dalle quote latte alle
lampadine, il commercio delle armi resta di stretta competenza nazionale. La
colpa non è tanto di Bruxelles quanto dei paesi membri, da sempre molto gelosi
di un settore dell’economia che non conosce crisi. Tant’è che l’Ue stessa
non è riuscita ad andare oltre la timida posizione comune del Consiglio
2008/944/PESC che definisce norme comuni ma non vincolanti per le esportazioni
di tecnologia e attrezzature militari.
L’allarme
di Transparency International, supportato da altre associazioni come Oxfam,
Saferworld, Arias Foundation e Amnesty International, arriva nei giorni in cui a
New York l’Onu sta definendo quello che sarà “l’Arms Trade Treaty”
(ATT), un trattato internazionale che dovrebbe stabilire regole e norme da
rispettare in tutto il commercio mondiale di armi. “Dovrebbe”. Perché gli
ostacoli da superare sono tanti, a partire dagli Stati Uniti, dove i fedelissimi
della 44 Magnum temono un attacco all’intoccabile “Secondo emendamento”,
l’articolo della costituzione americana che garantisce il diritto di possedere
una pistola.
Secondo
l’International’s Defence and security programme di Transparecy Internation
non c’è più tempo da perdere: il commercio mondiale delle armi deve essere
regolamentato più severamente. In esso rientra non solo la compravendita di
armi da fuoco, ma anche di armamenti di grande portata (veicoli blindati, navi e
armi pesanti) e l’addestramento di polizie e milizie. Eclatante l’ultimo
scandalo internazionale in Iraq, dove, secondo quanto riporta il Los Angeles
Times, sarebbero scomparsi nel nulla ben 6,6 miliardi di dollari (solo 2,8
secondo Stuart Bowen, Ispettore generale speciale per la ricostruzione
dell’Iraq). O ancora il caso dell’Uganda, dove, secondo il The Observer, 740
milioni di dollari sarebbero stati illegittimamente dirottati per l’acquisto
di 6 jet militari. Infine la Russia, dove il mese scorso il capo procuratore
militare di Stato ha denunciato che “un quinto del budget nazionale destinato
alla difesa finisce in corruzione, frodi e subappalti poco chiari” (secondo
quanto riporta l’agenzia di stampa RIA Novosti).
Ecco
allora che l’Arms Trade Treaty, una volta entrato in vigore nel 2012, dovrebbe
prevedere un meccanismo di contrasto della corruzione e una regolamentazione
generale del settore, con standard obbligatori applicabili a tutti i tipi di
compravendita di armi messi nero su bianco. “Mentre abbiamo regole sui
cocomeri, sulle banane e sui lettori Mp3, non è mai stato trovato uno straccio
di accordo sul commercio delle armi”, si legge in un comunicato Oxfam. “Il
futuro accordo ATT dovrà coprire tutto il ciclo produttivo e commerciale delle
armi, dalla costruzione al trasporto, alla destinazione finale”.
Sul
tavolo delle trattative anche regole d’intervento nel caso di armi utilizzate
per scopi diversi da quelli per cui sono state destinate. E’ il caso delle
tonnellate di armamenti vendute dall’Europa alla Libia e utilizzate poi dal
colonnello Gheddafi per reprimere la rivolta contro il regime. Secondo la
relazione Ue sull’esportazione di armamenti 2009, gli Stati membri hanno
concesso 343,7 milioni di euro di licenze per armi alla Libia, tra armi da
fuoco, apparecchiature elettroniche militari, aerei da guerra, elicotteri, e
missili terra-aria. Secondo l’Ong italiana “Rete disarmo-Tavola della
pace”, buona parte di queste armi sarebbero made in Italy (79 milioni di euro
di armi leggere solo nel 2009).
Come
detto, l’Arms Trade Treaty entrerà in vigore solo nel 2012. Anche se per
approvarlo non ci vorrà l’unanimità del 192 Paesi Onu che stanno prendendo
parte alle negoziazioni, gli sgambetti sono più che prevedibili.
La
secolarizzazione è un grande tsunami nella cultura
Zenit
- 24 luglio 2011
Intervento
del Vescovo di San Sebastián (Spagna)
Monsignor
José Ignacio Munilla, Vescovo di San Sebastián (Spagna), afferma che il
contatto della Chiesa con il giovane deve essere più discreto, a causa
dell'impatto profondo sulla persona del processo di secolarizzazione.
“Dire
che le cose vanno bene nella trasmissione della fede sarebbe ridicolo. Ci
preoccupa molto l'evangelizzazione nel tempo in cui la secolarizzazione è un
grande tsunami”, ha affermato il presule basco durante il suo intervento al
corso estivo “I giovani e la Chiesa” presso l'Università Re Juan Carlos.
“L'evangelizzazione
dei giovani si fa con grande rispetto e affetto, ma non bisogna mai idolatrare
la gioventù, perché dobbiamo avere come meta la maturità, non la gioventù
permanente”, ha sottolineato monsignor Munilla.
Con
queste parole, il presule ha affrontato la realtà culturale della Spagna, dove
“l'emergenza educativa è maggiore che in altre parti del mondo. La nostra
situazione è speciale, abbiamo vissuto senza curarci dell'essenziale”; “è
stata rubata l'anima cristiana della nostra Nazione”.
“L'influenza
sociale è stata brutale, si è andata creando una disaffezione nei confronti
della Chiesa cattolica”, ha sottolineato, indicando che anche così sono molti
quelli che camminano con la Chiesa.
Il
Vescovo di San Sebastián ha dichiarato che “l'ideologia di genere è come una
metastasi del marxismo. L'impressione che ci dà è che il marxismo, pur se
caduto come modello economico, continui a voler essere un modello
antropologico”.
Circa
ciò che offre la Chiesa ai giovani, monsignor Munilla ha detto che “il loro
desiderio di felicità si lega al desiderio di Cristo di rispondere alle loro
domande, presentare la proposta, messaggio di salvezza, di felicità”.
Il
responsabile della Pastorale della Gioventù nella Conferenza Episcopale
Spagnola ha aggiunto che è necessario “presentare un progetto coerente con un
senso etico che non metta da parte la dimensione affettiva. Il Vangelo per i
giovani è accompagnare anche altri nel mondo del dolore e della sofferenza,
contro il narcisismo imperante che ci invade, dimenticandosi di se stessi per
poter essere seguaci di Cristo”.
“Gli
spazi di incontro sono necessari come luoghi alternativi per poter presentare il
progetto e vivere in base alla fede”, ha aggiunto.
Il
Vescovo basco ha proposto tre modelli da applicare alla pastorale giovanile:
l'esperienza di San Giovanni Bosco, centrata sulla condivisione del tempo con i
giovani; essere testimoni e referenti, come ha fatto Giovanni Paolo II, e
aiutarli ad avere capacità critica di fronte al relativismo, come sta facendo
Benedetto XVI.
Il
presule si è infine riferito alla Giornata Mondiale della Gioventù definendola
“la chiamata del Papa e l'incontro di giovani che si trovano con altri giovani
ampliando l'orizzonte, dove necessariamente l'accompagnamento dei sacerdoti darà
loro profondità e consapevolezza di paternità e maternità della Chiesa”,
differenziandola dal paternalismo.
Monsignor
Munilla ha infine sottolineato l'importanza del fatto che “Benedetto XVI ponga
i giovani del mondo di fronte alla presenza di Gesù, fratello, amico e
redentore del mondo, chiedendo che possano avere sempre il cuore di Cristo al
loro fianco”.
Lotta
alla deforestazione: una questione di diritto
di Piergiorgio Cattani
Unimondo
- 25 luglio 2011
L’Organizzazione
internazionale per il legname tropicale (International Tropical Timber
Organization, ITTO) è un’istituzione intergovernativa che promuove la
conservazione, la gestione sostenibile, l’utilizzo e il commercio delle
risorse delle foreste tropicali. I paesi membri sono 60 (dalla Repubblica
democratica del Congo, all’Indonesia, al Brasile) e rappresentano l’85%
della superficie globale delle foreste tropicali e oltre il 90% del giro
d’affari legato al legname.
Dall’11
al 15 luglio si è tenuta in Indonesia una Conferenza internazionale dedicata
allo sviluppo e alla modalità di gestione delle foreste con un’attenzione
particolare alle dinamiche dei paesi asiatici: proprio l’Indonesia è uno
degli Stati con la maggiore estensione boschiva del mondo e con il più alto
tasso di deforestazione che fa diventare l’arcipelago il terzo produttore di
gas serra dopo Stati Uniti e Cina.
Secondo
il recente rapporto “Status of Tropical Forest Management 2011”, redatto
dall’ITTO, la superficie di foreste sottoposta a un qualche tipo di
certificazione e di controllo è cresciuta negli ultimi 5 anni del 50% arrivando
a coprire circa 53 milioni di ettari, pari alla superficie della Thailandia (cioè
oltre 500 mila km2). Ma essa rappresenta soltanto il 10% delle foreste
tropicali: un segnale preoccupante perché implica l’impossibilità di
regolare lo sfruttamento del legname e quindi di arginare la deforestazione e la
distruzione di indispensabili polmoni verdi. Occorre ricordare che, secondo le
stime dell’IPCC, il disboscamento indiscriminato incide per il 18% sulla quota
di emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera.
Da
decenni le foreste tropicali sono sottoposte a crescenti minacce: milioni di
ettari sono ogni anno cancellati per far posto all’agricoltura, alla
pastorizia e recentemente alla coltivazione di cereali come la colza utili per
produrre biocarburanti.
Per
fermare o rallentare la distruzione delle foreste si sono messi in campo
svariati progetti da parte di istituzioni internazionali e di forum globali sui
cambiamenti climatici: uno di questi è la creazione di un fondo di sostegno in
favore della riduzione delle emissioni generate dalla distruzione e dalla
degradazione delle foreste (REDD). Secondo Duncan Poore, ex direttore generale
della IUCN, una delle più note e antiche organizzazioni ambientaliste: “il
fondo REDD è una significativa promessa ma è essenziale che esso evolva nel
riconoscimento e nel supporto di iniziative che si concentrino sull’utilizzo
sostenibile delle risorse della foresta tropicale, inclusa la produzione
sostenibile di legname, opponendosi al fatto che divenga primariamente un fondo
per la conservazione delle foreste”. Una delle prime iniziative che hanno
seguito l’impostazione REDD è stata progettata in Kenya dall’ONG Wildlife
Works, con base negli Stati Uniti, che ha portato alla conservazione di 200 mila
ettari di foresta vicino al Kenya’s Tsavo East and Tsavo West National Parks.
È
evidente che la lotta contro il disboscamento può essere vinta non puntando a
una irrealistica trasformazione della superficie forestale in un’area
incontaminata e protetta, di cui non è lecito nessun tipo di utilizzo. La sfida
vera è la gestione sostenibile del patrimonio ambientale. Il problema
principale risiede nell’indifferenza generalizzata dei mercati occidentali di
carta e di legname al fatto che i prodotti provengano da zone certificate; come
al solito si pensa solamente ai risvolti economici: poiché da anni il prezzo
del legname è cronicamente basso soprattutto rispetto a quello del cibo o delle
risorse energetiche, è chiaro che nessuno vuole cambiare la situazione, con il
rischio di un aumento di prezzi. Afferma Jurgen Blaser, già direttore della
Fondazione Svizzera per lo sviluppo e la cooperazione internazionale, ora
Helvetas Swiss Intercooperation: “Soprattutto nelle nazioni ricche, i
consumatori non sembrano intenzionati a pagare prezzi significativamente più
alti per legname certificato o verificato legalmente. Inoltre i prezzi del
legname sono generalmente bassi mentre quelli per cibo e biocarburanti salgono
in fretta. L’agricoltura è stata da sempre la maggiore causa per la
deforestazione tropicale e ciò sembra difficile da cambiare in molti paesi
almeno nel breve- medio termine”.
Tuttavia
il problema principale per la tutela delle foreste rimane un aspetto a cui di
solito non si presta la dovuta attenzione: quello dei diritti di proprietà, che
in inglese viene definito con la parola “tenure”. Questo termine, di
difficile traduzione in italiano, indica l’insieme delle svariate forme di
diritto che singoli, comunità e istituzioni possono avere su una determinata
porzione di territorio. Questi diritti vanno dalla proprietà all’usufrutto,
dalla licenza di utilizzo alla servitù passiva, fino a una gamma di contratti
ed accordi che variano da caso a caso.
Per
quanto riguarda le foreste comunemente si pensa che esse siano di esclusiva
proprietà dello Stato a cui basterebbe soltanto la buona volontà per
proteggere il patrimonio boschivo. In realtà così non è, anzi la maggior
parte della superficie delle foreste tropicali è una “terra di nessuno” una
vera e propria “giungla di diritti” dove tutto è possibile, soprattutto lo
sfruttamento distruttivo. Da ciò deriva che l’azione più urgente è quella
di chiarire concretamente, a livello statale e internazionale, quali siano le
norme legislative da applicare alle foreste e quali siano gli effettivi diritti
di proprietà. Occorre definire confini e regole anche se fosse soltanto per
“stanare” gli accordi sottobanco che Stati corrotti ma pure insospettabili
raggiungono con multinazionali senza scrupoli allo scopo di un uso
indiscriminato: il vuoto normativo è un disastro ancora peggiore, perché senza
istituzioni regolative comanda il più forte e il primo che arriva.
Nel
frattempo Unimondo ha lanciato la campagna 1 fan 1 albero per sostenere un
progetto di riforestazione in Kenya. Un piccolo seme che cresce senza far
rumore, ma che offre già da adesso un po' più d'aria pura al mondo: proprio
come una foresta.
Nel
frattempo siamo troppi di Paul Kennedy
Internazionale
- numero 907 - 22 luglio 2011
È
un periodo elettrizzante per chi fa il commentatore di politica internazionale.
Ogni giorno ti chiedi di cosa scrivere. Le insidie del ritiro delle truppe
occidentali dall’Afghanistan? La crisi della Grecia e dell’euro? La
primavera araba e la sua crisi? L’espansionismo della Cina o il rischio che
esploda la sua bolla economica? L’eventualità di una folle aggressione
iraniana a Israele o di un altrettanto folle attacco israeliano a Teheran?
Lascio
al lettore la scelta fra questi argomenti poco allegri. Intanto, sullo sfondo,
si muovono tendenze globali più preoccupanti, che però anche nei migliori
giornali del mondo sono appena accennati. Un esempio: il 4 maggio il New York
Times titolava “Esperti dell’Onu prevedono aumento della popolazione
mondiale a 10,1 miliardi”. Non mi pare che nessuno dei nostri opinionisti
abbia scritto sul tema nei giorni seguenti. Erano tutti presi da una questione
ben più effimera: quanto ancora rimarrà al potere il colonnello Gheddafi?
Tristi
considerazioni su come la nostra ossessione dell’hic et nunc ci precluda una
visione d’insieme. Meglio tornare al mondo reale, dunque. All’alba del
ventunesimo secolo la popolazione umana ha superato la soglia dei sei miliardi
di persone. Il prossimo ottobre, cioè meno di 12 anni dopo, secondo le Nazioni
Unite saremo sette miliardi. Le nuove proiezioni, che parlano di un totale di
dieci miliardi entro il 2100, fanno paura.
Ma
perché succede tutto questo? Il fatto è che la cosiddetta transizione
demografica (cioè il passaggio verso una condizione in cui le donne in media
fanno meno figli, di solito nelle fasi di urbanizzazione, in cui il tenore di
vita aumenta e le donne sono più istruite e hanno più potere) non si sta
verificando con la rapidità prevista. Questo rapporto è stato pubblicato dalla
Population Division dell’Onu, quindi non si può certo far finta di niente. Al
centro di questa vicenda ci sono, purtroppo, l’Africa e alcuni paesi arabi. Ma
ci sono anche altri aspetti importanti.
Per
esempio, la popolazione di Stati Uniti, Gran Bretagna, Danimarca e Australia
aumenta in modo equilibrato mentre Germania, Francia, Italia, Spagna, Russia e
Giappone, con il loro alto numero di anziani, vivranno tempi duri. Il rapporto
indica anche che le politiche restrittive attuate in Cina negli ultimi
cinquant’anni (un solo figlio per famiglia) avranno come conseguenza, nei
prossimi decenni, uno squilibrio demografico disastroso. Si prevede, cioè, che
l’attuale popolazione cinese (un miliardo e 400 milioni di persone), stabile
ma in via d’invecchiamento, si ridurrà a 940 milioni entro il 2100. Addio al
“secolo cinese”.
E
poi c’è l’Africa. Una volta il generale de Gaulle disse che il ventesimo
secolo non era stato buono con l’Africa. Ma in base al nuovo rapporto Onu il
ventunesimo secolo rischia di essere peggiore. Sinceramente non vedo altre
conclusioni, quando leggo le previsioni secondo cui l’attuale popolazione –
circa un miliardo di persone – potrebbe raggiungere i 3,600 miliardi entro la
fine del secolo. Scarsa attenzione alla salute delle donne, culture maschiliste,
ambulatori insufficienti… Sono cose che esistono da secoli, ma il rapporto
dice che non spariranno abbastanza rapidamente. Certe previsioni sono così
clamorose da sembrare false.
Prendiamo
il Malawi: è già in difficoltà con gli attuali 15 milioni di abitanti, ma si
prevede che raggiungerà i 129 milioni. Lo Yemen – che si trova in una delle
regioni più aride del mondo – ha una popolazione che dal 1950 a oggi è
quintuplicata passando da cinque a 25 milioni, e si prevede che entro fine
secolo arriverà a cento milioni. Ma il caso demografico più clamoroso è la
Nigeria. La Population Division dell’Onu prevede che dagli attuali 162 milioni
– già insostenibili – si arriverà a circa 730 milioni nel 2100, cioè
molto più della popolazione dell’intera l’Unione europea.
È
concepibile una cosa del genere? È tollerabile? Assolutamente no. Secondo
alcuni demografi ed esperti di riserve alimentari, l’economia mondiale è in
grado di sfamare nove miliardi di persone. Ma queste proiezioni non tengono
conto della politica alimentare internazionale, che è pessima. Né
dell’aumento dei prezzi mondiali dei generi alimentari. Non tengono conto
della massiccia domanda futura di cibo di Cina e India, che assorbiranno
eventuali surplus americani, brasiliani o canadesi, a spese dei paesi privi di
potere d’acquisto. Infine non tengono conto delle riserve mondiali di acqua
potabile, che probabilmente diventeranno l’indicatore decisivo della
situazione dei vari paesi nel ventunesimo secolo. Senza sufficienti riserve
d’acqua, il miracolo della Cina e dell’India finirà.
I
paesi che possiedono riserve adeguate – Stati Uniti, Europa occidentale,
Brasile, Canada – staranno bene, mentre senz’acqua lo Yemen non raggiungerà
mai i cento milioni di abitanti previsti, perché saranno falcidiati da
disidratazione, dissenteria e malnutrizione, insieme a milioni e milioni di
africani. Quindi smettiamola di lasciarci ipnotizzare dalla crisi finanziaria
della Grecia o dalle disavventure dell’ex capo del Fondo monetario
internazionale. Cominciamo a pensare seriamente alle vere, grandi sfide del
ventunesimo secolo.
L’Africa? c’est moi
di Alberto Bobbio
ilmondodiannibale - 13 luglio 2011
L’Africa?
“A moi”, dice senza alcuna remora retorica il presidente francese Nicolas
Sarkozy, dopo aver vinto la gara a chi bombardava per primo il Colonnello
Gheddafi. C’è una lezione da trarre circa ciò che accade nel Nord Africa e
poi più a sud tra Costa d’Avorio, la Nigeria gonfia di petrolio e distretti
nazionali colmi di minerali indispensabili alle tecnologie occidentali. Ed è
quella che le bugie hanno le gambe corte e di solito lasciano sul terreno
macerie.
In
questo caso le macerie hanno un nome preciso: fame, sottosviluppo e rapina. La
gara del presidente francese aveva un intento ben preciso. Mettere alle corde il
leader libico poiché disturbava interessi francesi non solo nell’area del
Maghreb, ma anche nella fascia subsahariana. Gheddafi certamente è un tiranno
del suo popolo, ma le motivazioni etiche ed umanitarie non sono mai la ragione
degli interventi delle cosiddette “coalizioni dei volonterosi”. Gheddafi era
un disturbo, anzi il disturbo primario della geopolitica francese in Africa e più
in generale occidentale, nel senso dei grandi interessi energetici, delle
telecomunicazioni, e di quelli finanziari. Gheddafi aveva promesso di
finanziarie il Fma, in pratica il Fondo Monetario africano, e la Banca centrale
africana, che avrebbe dovuto emettere in futuro un’unica divisa continentale.
Sarebbe stata la fine del Cfa, il franco francese africano, alter ego della
vecchia moneta di Parigi in versione africana, che ha permesso alla Francia di
controllare economie dai grandi potenziali e il commercio di materie prime
essenziali.
Il
Fondo monetario africano è nato l’anno scorso in Camerum e i Paesi
occidentali, francesi in testa, si sono precipitati a bussare alla porta. Ma il
protocollo adottato dagli africani, proprio da quella porta li fa stare fuori. I
soldi li mettono la Libia, l’Algeria e la Nigeria. E’ stato il più grande
sgarbo mai fatto dagli africani all’Occidente. La rabbia di francesi e
americani, andata in scena nella gara a chi per primo premeva il pulsante delle
bombe su Tripoli, la dice lunga sul motivo della guerra. Adesso il Fma avrà
qualche difficoltà perché gli americani hanno congelato 30 miliardi di dollari
di Gheddafi, che dovevano essere usati a quello scopo. Insomma altro che
passione umanitaria e democratica per il popolo libico. Se c’è una cosa a cui
si sono sempre applicati i leader occidentali e in particolare i francesi è
stato sempre quello di dividere gli africani. Anche la stessa Unione Africana,
una sorta di Onu del continente, è stata sempre finanziata dall’Occidente in
modo da controllarla e quando gli africani hanno deciso di affrancarsi,
affidandosi appunto a Gheddafi, l’unico che ha i soldi, gli europei, Sarkozy
in testa, hanno creato una miriade di sigle di comunità economiche regionali
per impedire all’Africa di irrobustire un organo centrale di rappresentanza
che avrebbe potuto avere più voce in molti capitoli.
Ecco
gli accordi dell’Eliseo con Mubarak per l’Unione del Mediterraneo per
convincere il Nord Africa a staccarsi dal resto del continente. L’idea è
fallita, ma le bombe su Tripoli sperano di rivitalizzarla. Oggi i tentativi di
Zuma, il presidente sudafricano che ha in tasca un mandato dell’Unione
Africana per trovare una soluzione diplomatica e non militare alla guerra in
Libia, dimostrano che si stanno giocando due partite non solo circa le armi, ma
soprattutto circa gli interessi. E che la pace, la giustizia, lo sviluppo e la
vita dei popoli africani presi in mezzo dalle tragedie, sono purtroppo le ultime
ragioni, come sempre relegate in fondo alla fila.
Vertice su fame e siccità, esperto Onu: "serve prevenzione"
Misna
- 25 luglio 2011
La
siccità che nel Corno d’Africa colpisce 11 milioni di persone è oggi al
centro di un vertice straordinario dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per
l’alimentazione e l’agricoltura (Fao). A Roma, sede dell’organizzazione,
sono attesi ministri e altri esponenti dei 191 paesi membri della Fao per
valutare provvedimenti da adottare per venire in aiuto alle popolazioni più a
rischio, in particolare in Somalia, dove la situazione di conflitto tra governo
e insorti rende l’assistenza estremamente difficile. La riunione è stata
organizzata su iniziativa della Francia, presidente di turno del G-20. Il
Segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon ha chiesto alla comunità
internazionale 1,6 miliardi di dollari per affrontare l’emergenza in Somalia.
Ma
l’aiuto straordinario della comunità internazionale non risolverà le crisi
umanitarie ricorrenti nella regione, ha sottolineato un alto consigliere
dell’Onu. “Non potremo mai risolvere questi problemi con interventi
straordinari. Dobbiamo risolverli attraverso la prevenzione” ha detto Jeffrey
Sachs, consigliere speciale di Ban Ki-moon, durante una conferenza stampa a
Nairobi (Kenya). “Abbiamo messo in allerta quasi ogni giorno sulla
problematica delle terre aride in Africa, ma nessuno, in Europa o negli Stati
Uniti, ci ha ascoltato. E adesso, tutti si precipitano per fare qualcosa. Se
continueremo a rispondere alla siccità o alle crisi in questo modo, non avranno
mai fine, l’aiuto sarà sempre troppo debole e arriverà sempre troppo
tardi” ha aggiunto Sachs, un economista statunitense.
All’origine
della siccità sempre più frequente nei paesi dell’Africa orientale, secondo
l’esperto, sono i cambiamenti climatici uniti alla povertà che frena lo
sviluppo.
Il
legame tra carestia e crescita delle spese militari americane di Gianni Alioti
Nigrizia - 28 luglio 2011
Le
immagini della carestia che ci giungono dal Corno d'Africa, devono
interrogare la nostra coscienza e costringerci a riflettere sulle cause
che l'hanno prodotta. Non si tratta di una "catastrofe naturale"
di un "castigo divino", ma della responsabilità degli uomini e
delle logiche che continuano a governare le scelte dei singoli Stati e
della comunità internazionale. Ci sono fili sottili, ma non invisibili per chi li vuole vedere, che legano la crisi ambientale prodotta dal nord del mondo con la povertà estrema nel sud, la finanza globale con la crescita delle disuguaglianze sociali e la distruzione delle risorse naturali, il complesso militare - industriale con la crisi dei debiti sovrani, le guerre, il terrorismo e l'aumento delle spese militari con i bambini che muoiono di fame. La
politica nella sua interezza, in Italia come altrove, nasconde questi fili, per
ignoranza o interesse. Per l'umanità e la "madre terra" il risultato
non cambia. Sono
passati 50 anni e l'ammonimento di Dwight D. Eisenhower, ex presidente
americano, a non permettere che il peso della combinazione di poteri tra
l'immenso corpo di istituzioni militari e un'enorme industria di armamenti
mettesse in pericolo le nostre libertà o i processi democratici, è rimasto
inascoltato. Gli Stati Uniti, nonostante la contrapposizione con l'ex-blocco
sovietico fosse ormai alle spalle, dal 1995 al 2010 hanno incrementato
costantemente il loro budget annuo destinato alle spese militari, passando da
279 a 698 miliardi di dollari (il 150%in più). In percentuale annua sul
Prodotto interno lordo (Pil) le spese militari americane sono passate - dal 1999
al 2010 - dal 3 al 4,8%.
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Corno
d'Africa, le dimensioni di una catastrofe di Carlo Ciavoni
Repubblica
- Roma - 27 luglio 2011
Esodi
di massa, epidemie, una lenta strage
In
stato di malnutrizione grave il 30% dei somali, con punte - nel Sud del Paese -
del 55%. Nell'arco dei prossimi due mesi la carestia potrebbe colpire tutte le
regioni meridionali della Somalia, più o meno un territorio esteso come
l'Italia. La pressione crescente sui campi profughi sovraffollati in Kenia e in
Etiopia, dove operano Medici Senza Frontiere e Unicef
Nel Corno d'Africa e in Somalia in modo particolare, le proporzioni della
tragedia appaiono epocali, stando almeno ai continui report e ai dati diffusi
dalle Agenzie delle Nazioni Unite. L'Unicef, ad esempio, ha calcolato che il
tasso di malnutrizione nell'area è del 30%, con punte fino al 55%; che si
registrano 4 decessi infantili al giorno ogni 10.000 bambini; che muoiono 2
persone al giorno ogni 10 mila abitanti; e che nell'arco dei prossimi due mesi
la carestia potrebbe colpire tutto il Sud della Somalia, più o meno un
territorio esteso come l'Italia. Lo stato di carestia, come si insiste a dire in
questi giorni, coinvolgerebbe circa 12 milioni di persone bisognose di aiuti
immediati, senza cibo sufficiente, senza accesso all'acqua potabile, prive di
ogni capacità di sussistenza, aggravata soprattutto dal fatto che la siccità
ha penalizzato drasticamente la produzione agricola e decimato il bestiame. Un
improvviso, diffuso impoverimento, dunque, che ha prodotto esodi di massicci,
testimoniati dal campo profughi di Dadaab, in Kenya, già catalogato come il più
grande del mondo, con i suo 400 mila "ospiti" (2/3 dei quali sono
bambini), dove le équipe di Medici Senza Frontiere 2 (MSF) e di altre
organizzazioni umanitarie tentano l'impossibile per sopportare la pressione di
migliaia di arrivi al giorno e fronteggiare problemi che si complicano di ora in
ora.
La
carestia vista dai bambini. In Somalia - stando sempre ai dati dell'Unicef - un
milione e 850 mila bambini hanno un immediato bisogno d'assistenza e oltre
780.000 sono malnutriti, di cui 340.000 in modo grave ed in immediato pericolo
di vita. Il Sud ospita l'82% di tutti i bambini malnutriti - circa 640.000
bambini - e il 90% di quelli malnutriti in modo grave: 310.000 in imminente
rischio di morte. Nel Paese, 3,7 milioni di persone necessitano d'assistenza
umanitaria - oltre la metà della popolazione somala - di cui 2,8 milioni nel
Sud, colpiti dall'emergenza complessa che sta investendo tutto il Corno
d'Africa. Si calcola inoltre che nessun miglioramento della situazione
alimentare è previsto prima del 2012, cioè prima dei prossimi raccolti.
Gli
equilibri delicati. E' tutto il Corno d'Africa ad affrontare questa drammatica
emergenza causata da numerosi elementi concomitanti, come ad esempio la peggiore
siccità degli ultimi decenni, un immediato aumento dei prezzi alimentari (fino
al 270% quello dei cereali) in buona parte alimentato anche dalle speculazioni
finanziarie nelle borse dei paesi ricchi, e infine dagli effetti della guerra
ventennale che lacera la Somalia, dove recentemente - tra l'altro - è stato
deposto un premier il quale, sebbene provvisorio, aveva dato prova di avviare un
processo di stabilità politico-istituzionale. Processo interrotto da
complicatissimi equilibri locali, ma anche da opache interferenze e pressioni di
potenze straniere, di fronte alle quali la cosiddetta "comunità
internazionale" appare distratta e dunque complice.
Il
quadro generale del disastro. In tutto il Corno d'Africa, dunque, ci sono circa
12 milioni di persone disperate, che non hanno più nulla e che hanno immediato
bisogno di aiuto. Oltre ai 3,7 milioni in Somalia (il 28%della popolazione) ce
ne sono 4,5 milioni in Etiopia; 3,5 milioni in Kenya; 120.000 a Gibuti. Tutte le
persone colpite sono ad alto rischio di contrarre malattie potenzialmente
mortali, tra cui morbillo, diarrea acuta e polmonite, con donne e bambini che
figurano, come sempre, tra i soggetti più a rischio. Donne e bambini pagano le
conseguenze più gravi dell'emergenza in atto: nei paesi coinvolti - Somalia,
Kenya, Etiopia, Gibuti - più di 2,3 milioni di bambini risultano
malnutriti, tra cui quasi 720.000 in modo grave e dunque in immediato pericolo
di vita.
L'emergenza
nell'emergenza. Nel quadro drammatico e complesso di questa situazione, si
individuano tre emergenze localizzate: quella nei campi profughi sovraffollati
di rifugiati somali in Kenya e in Etiopia, con riflessi che colpiscono le
comunità circostanti; un'altra conseguenza, più silenziosa, che sta mettendo
duramente alla prova le popolazioni nelle aree rurali dei paesi colpiti dalla
siccità; l'ultima, che coinvolge donne e bambini in Somalia, costrette a
confrontarsi direttamente prese con gli effetti della guerra, della siccità,
della carestia.
La
strage degli innocenti. In Somalia - sono sempre dati dell'Unicef - dall'inizio
del 2011 sono già morti più di 400 bambini, una media di 90 ogni mese, con
l'86% dei decessi infantili concentrato nelle regioni centro-meridionali,
nonostante l'UNICEF e i partner abbiano già curato nello stesso periodo oltre
100.000 bambini affetti da malnutrizione acuta. In alcune aree del Kenya, si
registrano picchi del 37% dei tassi di malnutrizione infantile. Massiccio è il
flusso di profughi somali verso i paesi confinanti, specie in Kenia - dove ne
arrivano 10.000 a settimana, e in Etiopia, le cui frontiere vengono varcate da
circa 2.000 persone al giorno. Gente che arriva stremata, in condizioni di
salute che mettono a rischio la loro stessa sopravvivenza, oltre che a
contribuire alla diffusione di epidemie nei luoghi di accoglienza.
Gli
interventi in corso. La risposta dell'UNICEF si è concretizzata con la
mobilitazione di tutte le risorse, umane e materiali per un intervento
immediato. Nell'ultimo mese, l'Agenzia dell'Onu ha inviato, via aerea, per mare
e per terra oltre 1.300 tonnellate aiuti salvavita in Somalia, inclusi alimenti
iperproteici, Ready to use therapeutic food, cibo terapeutico pronto per l'uso.
Sono dei "panetti" - si chiamano Plumpynut - delle dimensioni di un
Kinder Pingui da mordere, composto da una pasta dolce, assai gradevole, che
contiene latte, arachidi, burro, sostanze ipernutrienti indispensabili per la
crescita. Se presi in tempo, i bambini sottoposti a questo trattamento
alimentare intensivo riprendono peso, ma soprattutto riacquistano tono
muscolare, ricominciano a giocare e smettono di essere apatici e tristi.
L'Unicef ha distribuito materiale nutritivo per 66.000 piccoli malnutriti.
Lo
sforzo economico. Un milione e 200 mila dollari di aiuti sono stati inviati in
Etiopia e 1,4 milioni sono stati consegnati alle organizzazioni partner in
Kenya. Il 25 luglio scorso, ulteriori 105 tonnellate di aiuti salvavita, tra
scorte mediche (medicinali di base, kit sanitari d'emergenza, kit ostetrici,
siringhe, ecc.) e prodotti per l'acqua e l'igiene (soprattutto sali per la
reidratazione orale), partiranno dal centro logistico per gli aiuti di emergenza
dell'UNICEF a Copenaghen alla volta del Corno d'Africa.
Deputati
e senatori italiani per il Corno d'Africa. "Cari colleghi, vi scriviamo per
attirare la vostra attenzione sull'emergenza umanitaria del Corno
d'Africa", comincia così la lettera che alcuni senatori e deputati
hanno scritto e letto questa mattina ai propri colleghi di Camera e Senato. Una
lettera che invita a donare la diaria di un giorno all'UNICEF Italia, con lo
scopo di poter acquistare, per i bambini che ora si trovano nell'emergenza del
Corno d'Africa, kit idrico-igienici, vaccinazioni e confezioni di Plumpynut, un
composto di vitamine e sali minerali, indispensabili in questo momento. La
lettera è firmata, tra gli altri, da Gianrico Carofiglio, Benedetto Della
Vedova, Beppe Pisanu, Rosa Calipari e Walter Veltroni.
Corrispondente di AsiaNews in fuga sequestrato dalle autorità nepalesi
di
Kalpit Parajuli
AsiaNews - Kathmandu - 26 luglio 2011
Dal
27 maggio la polizia del Nepal tiene in stato di fermo William Gomes senza
alcuna ragione. L’attivista stava tentando di raggiungere Hong Kong via Nepal
dopo essere stato torturato e minacciato dalle autorità di Dhaka per le sue
attività in favore dei cristiani. Portavoce del principale partito di
opposizione nepalese accusa il governo di gravi violazioni dei diritti umani e
invita il Primo ministro a dimettersi.
Fuggito
dal Bangladesh dopo aver subito torture dalla polizia, William Nicholas Gomes,
corrispondente di AsiaNews e attivista per i diritti umani, è da mesi in stato
di fermo a Kathmandu. Dal 27 maggio le autorità stanno facendo di tutto per
rimpatriarlo, ma a tutt’oggi non hanno fornito alcuna spiegazione.
“Sono
scappato in Nepal per raggiungere Hong Kong e salvare la mia vita – spiega
Gomes – grazie all’aiuto dell’Asian Human Rights Commission. Quando mi
sono recato all’ufficio per l’immigrazione i funzionari hanno ritardato le
pratiche tentando di rimpatriarmi”. L’attivista racconta che il 9 luglio,
mentre tentava di prendere un aereo per Hong Kong, la polizia ha perquisito i
suoi bagagli per verificare la presenza di droga e altre sostanze vietate, ma
non ha trovato nulla.
“Passato
il controllo – racconta – mi hanno fermato all’imbarco dicendo che i miei
documenti non erano validi per l’espatrio. Senza ulteriori spiegazioni mi
hanno messo in stato di fermo, sorvegliato da due guardie con cani anti droga,
obbligandomi a chiedere all’ambasciata del Bangladesh l’autorizzazione per
il transito”. L’attivista racconta di aver ottenuto tutti i documenti
necessari per l’espatrio e il transito nei Paesi stranieri. “Non c’è
nessuna ragione per il mio fermo – sottolinea – ho un visto legale per stare
in Nepal, la polizia però mi considera come un criminale”.
Il
21 maggio scorso degli uomini a bordo di una macchina scura hanno prelevato,
sequestrato e torturato William Gomes, musulmano convertito al cristianesimo.
L’uomo, membro dell’Asian Human Rights Commission (Ahrc) e fondatore della
Christian Development Alternative (Cda – un’organizzazione umanitaria), è
stato denudato, costretto a terra e interrogato per quasi cinque ore. Questi
uomini, tra cui uno di madrelingua inglese, lo accusavano di essere in contatto
con i servizi segreti pakistani (Isi - Inter Service Intelligence) e di ricevere
mazzette per “danneggiare l’esercito del Bangladesh”. Inoltre, Khaleda Zia
lo avrebbe pagato per gettare discredito sul premier Sheikh Hasina. Dopo le
minacce di morte a lui e alla sua famiglia, Gomes ha giurato di lasciare
l’Ahrc ed è stato liberato.
Gomes
dice di essere preoccupato per la vita dei suoi familiari rimasti in Bangladesh.
“Mia moglie, i miei figli sono in pericolo. Io sono diventato un uomo senza
patria, il mio governo sta lavorando contro di me. Dove dovrei andare per
salvare la mia vita e quella dei miei cari?”. Egli lancia un appello a tutti i
cattolici per convincere il governo nepalese a liberarlo e a salvare la sua
vita.
In
questi mesi il caso di Gomes ha suscitato molta preoccupazione fra le
organizzazioni per i diritti umani nepalesi e i partiti di opposizione, che
accusano le autorità di agire senza alcun potere o mandato, violando le norme
democratiche e civili del Paese.
Secondo
Subodh Pyakurel, dell’Informal Sector Service Centre, organizzazione nepalese
per i diritti umani, le autorità non hanno il diritto di trattenere l’uomo in
stato di fermo. “Quando ho parlato con le autorità dell’aeroporto per
aiutare Gomes non mi hanno dato alcuna ragione concreta. La polizia non può
impedirgli di raggiungere Hong Kong e non ha nemmeno il diritto di
rimpatriarlo”.
Arjun
Narsingh K.C., portavoce del Nepali Congress, principale partito di opposizione
del Paese, afferma: “Come può il nostro governo assicurare il rispetto dei
diritti umani, quando trattiene senza ragione un attivista dentro i suoi
confini”. Dopo questo scandalo, Arjun invita il Primo ministro a dimettersi e
chiede alle autorità di polizia di liberare Gomes consentendogli il transito
verso Hong Kong.
I mapuche, popolo della terra
di Fabrizio Noli
Articolo21
- 26 luglio 2011
l
“popolo della terra”, questo significa, letteralmente mapuche, da Che,
“popolo” e Mapu, “terra”, nella loro lingua, il mapudungun. In spagnolo
sono indicati invece come araucani. In realtà, come nel caso dei montagnards,
siamo davanti una serie di gruppi, che condividono, in linea di massima, la
struttura religiosa, sociale e linguistica, sparsi tra la Patagonia cilena e
quella argentina, per un totale di circa 600mila persone in Cile, dove
costituiscono il 4% della popolazione del paese, e circa 300mila in Argentina.
Un popolo estremamente fiero, capace di resistere non solo ai tentativi
dell’Impero Inca di assoggettarli, ma anche a quelli degli spagnoli, al punto
che nel 1641, col trattato di Quillin, Madrid riconobbe l’indipendenza dei
loro territori a sud del fiume Bio-Bio. Una resistenza venuta meno
solo nel 1876, quando il Cile incorporò i loro territori, provocando una vera e
propria decimazione…Ma su questa resistenza plurisecolare, come anche sul
presente di questo popolo, abbiamo raccolto l’opinione di Alessandro
Michelucci, responsabile del Centro Documentazione Popoli Minacciati, di Firenze
“Questa
resistenza è stata dovuta, in gran parte, alla conoscenza che avevano di un
territorio piuttosto vasto, ma, soprattutto, molto variegato e articolato sul
piano orografico ed idrografico. Soprattutto, segnalerei, per dare un’idea
della resistenza araucana o mapuche, che dir si voglia, il famoso poema epico
“L’Araucana”, del 1569, composto da un soldato-poeta, Alonso de Ercilla,
un poema pieno di ripsetto verso questo popolo, riconosciuto come nemico, verso
il quale però l’autore non nascondeva un sentimento anche di ammirazione,
cosa a dir poco anomala tenuto conto che si trattava di un conquistador, e che,
in generale, il punto di vista dei conquistatori europei all’epoca era molto
netto: non veniva mai espresso neppure il riconoscimento del nemico indigeno in
quanto tale!”
Ma
la cosa che colpisce, comunque, è che l’Impero Azteco e quello Inca sono
stati spazzati via nel giro di pochi anni. Gli araucani invece, opposero una
resistenza costante, per più di tre secoli!
“Beh,
a parte il fatto che l’Impero Inca era sul punto di implodere quando
arrivarono gli spagnoli, la situazione dei mapuche era molto più circoscritta,
anche sul piano territoriale. La cosa li ha aiutati…”
In
pratica, gli spagnoli ebbero molti più problemi a cercare di controllare
l’attuale Patagonia cilena…c’è poi da sottolineare come, nel 1860, i
mapuche siano stati in grado di costituire un vero e proprio regno indigeno, il
Regno di Araucania. I loro capi riconobbero in un francese , discendente di
filibustieri, Orélie-Antonie de Tounens, il loro re, Orélie Antonie I. Fu però
il primo e unico sovrano di questo stato, presto sopraffatto dal Cile. Fatto sta
che, alla fine del XIX secolo, i mapuche erano ridotti ad appena 25mila
individui, dopo l’annessione a Santiago della Patagonia. Ma le sofferenze di
questo popolo sono continuate anche dopo, specie durante il regime di Pinochet,
tra il 1973 e il 1988…
“Ed
è un fatto che non è stato mai adeguatamente sottolineato in quegli anni, dai
tanti che si sono battuti contro il generale. Centrale, in quegli ani, è stata
la questione delle terre. Buona parte delle terre indigene fu confiscata, dato
che Pinochet era stato appoggiato, per il suo golpe, anzitutto dai grandi
proprietari terrieri cileni, che poi, come si dice in gergo, “passarono
all’incasso”. La repressione comunque fu notevole: molti furono torturati e
uccisi”
Una
repressione culminata, nel 1978, con l’emanazione della legge 2658. Dietro la
facciata di una “politica di sviluppo”, in realtà infatti, si trattava di
un dispositivo normativo che incentivava la divisione delle terre indigene
in appezzamenti, oltre che a negare la stessa identità dei mapuche
“In
questo Pinochet si comportò come Ataturk: come il padre della moderna Turchia
diceva “siamo tutti turchi”, così il generale sosteneva non ci fossero
popolazioni indiane. “Siamo tutti cileni” era un pò il suo slogan!”
Anche
dopo la fine della dittatura di Pinochet, i problemi sono comunque continuati,
per i mapuche…
“Specie
in questi ultimi anni, i mapuche sono stati molto infastiditi dal credito
tributato in Europa all’ex presidente cileno, la signora Bachelet, socialista
e per questo divenuta una sorta di beniamina della sinistra del vecchio
continente. Loro, hanno continuato a sostenere che avevamo preso una
“cantonata” pazzesca, dato che, rispetto all’indirizzo repressivo di
Pinochet, poche cose erano cambiate, specie sul fronte del problema
dell’esproprio delle terre, continuato a favore di multinazionali come anche
la stessa Benetton…”
Ma
oggi, cosa resta della loro cultura?
“Soprattutto
negli ultimi anni c’è, da parte di questo popolo, una riappropriazione delle
proprie radici culturali, specie in campo poetico. I mapuche danno grande
importanza alla poesia, e alcune raccolte sono state pubblicate anche in
Italia…al di là di questo aspetto, poi, c’è l’attaccamento alla
religione tradizionale”
Basata
sul culto degli spiriti e degli antenati, in cui un ruolo determinante spetta
alle donne, le “machi”, ossia le sciamane, il che ricorda gli eschimesi…
“Sì,
certo, la loro società da grande importanza all’elemento femminile”
E
comunque, dopo la fine della dittatura di Pinochet si è cercato di rilanciare
le tradizioni culturali mapuche, anche in campo linguistico, con
l’insegnamento del loro principale idioma, il mapudungun…
“Devo
dire che le iniziative più interessanti sono state avviate in Europa, ad
esempio presso l’Università di Siegen, non lontano da Colonia, è stato
costituito un centro di cultura mapuche in Germania. Si tratta, in effetti, di
un popolo che in Europa ha saputo costituire una rete molto attiva, specie in
Gran Bretagna ed in Olanda, tanto che a Bristol è stato costituito il Mapuche
International Link, che funge da ente coordinatore di molte iniziative
culturali. Come spesso succede, i popoli indigeni magari non compaiono agli
occhi dell’uomo della strada, ma in loco, fuori del loro paese, sono in grado
di portare avanti al meglio le loro bataglie in difesa delle loro identità
specifiche!”
Pechino pontifica contro “le minacce” del Vaticano
di Bernardo Cervellera
AsiaNews
- Roma - 25 luglio 2011
L’Aministrazione
statale per gli affari religiosi difende l’integrità dei due vescovi
scomunicati (di Leshan e Shantou) e scimmiotta il Vaticano dicendo che il gesto
della Santa Sede porta “ferite” e “tristezza” fra i cattolici in Cina.
Si riafferma la decisione di andare avanti con le ordinazioni senza mandato del
papa, ma la “resistenza” di fedeli, sacerdoti e vescovi al loro strapotere
è in aumento. Hu Jintao e Wen Jiabao dovrebbero mettere le mani sulle
violazioni alla “società armoniosa” e sulla corruzione dei rappresentanti
responsabili della politica religiosa.
Contro
“le minacce” “irragionevoli” e “brutali” del Vaticano, un portavoce
(anonimo) del governo afferma che Pechino andrà avanti per la sua via ad
ordinare vescovi senza il mandato papale.
È
in sintesi quanto contenuto in una dichiarazione dell’Amministrazione statale
per gli affari religiosi (Asar, il vecchio Ufficio affari religiosi), pubblicata
oggi sulla Xinhua.
La
dichiarazione prende di mira “le accuse del Vaticano contro l’ordinazione
dei vescovi della Chiesa cattolica cinese” e in particolare le ordinazioni di
Leshan (29/6/2011) e Shantou (14/7/2011).
Come
si sa, a Leshan è stato ordinato vescovo p. Lei Shiyin, un candidato che la
Santa Sede aveva da lungo tempo rifiutato per “gravi motivi” (cfr.
29/06/2011 Leshan, sette vescovi legittimi all’ordinazione episcopale senza
mandato del papa); a Shantou è stato ordinato p. Huang Bingzhang, anch’egli
consigliato dalla Santa Sede a farsi da parte, anche perché a Shantou vi è già
un vescovo, ma non riconosciuto dal governo (14/07/2011 Otto vescovi in
comunione col papa costretti all’ordinazione illecita di Shantou).
In
entrambi i casi, a ordinazioni avvenute, la Santa Sede ha pubblicato una
dichiarazione in cui si rende pubblica la scomunica dei due neo-ordinati (v.:
04/07/2011 La Santa Sede condanna l’ordinazione episcopale di Leshan e
16/07/2011 La Santa Sede condanna il vescovo illecito di Shantou; apprezza “la
resistenza” di vescovi e fedeli).
Va
notato che la scomunica è “latae sententiae”, cioè automatica, per il
fatto che uno ha compiuto il gesto di disobbedienza alla fede. In questo caso
non c’era nemmeno il problema di verificare l’intenzione dei due, perché a
più riprese entrambi erano stati consigliati di non concorrere
all’episcopato.
L’Asar
si schiera proprio contro la scomunica, questa “minaccia”
“irragionevole”, questo “mezzo brutale” che “ferisce in modo
profondo” i cattolici cinesi e “causa grande tristezza” a sacerdoti e
laici. Ed è curioso che Pechino usi gli stessi termini (“ferite profonde” e
“causa di grande tristezza”) che le dichiarazioni vaticane attribuiscono
alla Chiesa universale e al papa!
Come
è tradizionale prassi nel Partito comunista, occorre ritorcere le accuse contro
l’interlocutore, così che mentre il Vaticano parla di lesione alla libertà
religiosa, Pechino si ammanta a vittima della Santa Sede.
Lo
scimmiottamento del papa e della Santa Sede, giunge al colmo quando nella
dichiarazione si pontifica che “ i due nuovi vescovi ordinati sono devoti
nella fede, hanno integrità e competenza, sono sostenuti dai loro sacerdoti e
fedeli laici”: davvero curioso che due sacerdoti della Chiesa cattolica
debbano avere la patente di ortodossia da un’associazione costruita da
segretari atei, e guidata da un Partito ateo!
Il
vittimismo dell’Asar giunge fino a ricordare che anche negli anni ’50 il
Vaticano “ha minacciato” vescovi e preti con la scomunica, e che per questo
“sacerdoti e laici della Chiesa cattolica cinese hanno sofferto un grande
trauma storico”!
A
parte la falsità storica dell’affermazione – in passato nessun vescovo o
sacerdote è mai stato scomunicato ufficialmente e solo Giovanni XXIII ha
parlato di possibile scisma nascosto nella Chiesa in Cina – l’Asar sembra
non considerare le “sofferenze” e i “grandi traumi” delle decine di
vescovi e centinaia di sacerdoti che hanno affrontato prigioni (fino a 20-30
anni), lager, torture, irrisioni con tribunali del popolo solo perché fedeli al
papa come capo religioso della Chiesa cattolica. Se il Vaticano dovesse
canonizzare tutti i martiri cinesi del comunismo, forse avremmo la
canonizzazione più numerosa della storia!
Alle
“minacce” del Vaticano l’Asar risponde con un’altra minaccia: “la
maggioranza dei preti e dei laici sarà ancora più ferma nel [l’affermare] la
strada dell’indipendenza e dell’auto-organizzazione, con vescovi autoeletti
e auto-ordinati”.
Tale
minaccia – di continuare le ordinazioni illecite, senza mandato del papa –
è stata ripetuta giorni fa dal vescovo illecito Guo Jincai, che nel China Daily
del 22 luglio ha dichiarato che “almeno sette diocesi della Cina ordineranno i
loro vescovi eletti”. E ha aggiunto: “quando le condizioni saranno buone”.
Il
punto è infatti che “le condizioni” sperate dall’Asar non sono buone per
nulla. Sempre più fedeli, sacerdoti e vescovi prendono le distanze dalle
ordinazioni illecite: a Shenyang, mons. Pei Junmin ha resistito ad essere
deportato per l’ordinazione di Shantou (per la quale era stato designato come
officiante principale), grazie anche alla difesa di lui che ne hanno fatto
sacerdoti e fedeli della diocesi; un altro vescovo, mons. Cai Bingrui di Xiamen,
precettato per Shantou, è riuscito a nascondersi ed è ricercato dalle autorità
del governo.
Insomma,
in tutta la Cina sta crescendo la “resistenza” della Chiesa verso le
intromissioni indebite del governo su questioni religiose (v. 18/07/2011 Chiesa
cinese che “resiste” allo strapotere del governo e dell’Associazione
patriottica). In più, in questi giorni, molti vescovi che sono stati costretti
con la deportazione a partecipare alle ordinazioni illecite, hanno subito
scritto alla Santa Sede comunicando il loro gesto forzato e ricevendo il
reintegro nella comunione con il papa.
La
dichiarazione dell’Asar parla di “dare sostegno e incoraggiamento” a
coloro che vogliono la chiesa “indipendente” e “auto-organizzata”. In
realtà, finora si è assistito a deportazioni, rapimenti e sequestro dei
vescovi per portarli alle ordinazioni illecite: invece di lasciare liberi
vescovi e preti di decidere in modo autonomo, l’Asar ha preferito “sostegno
e incoraggiamento” a forza di costrizione.
Con
gusto del paradosso, la dichiarazione dell’Asar si conclude con un invito al
dialogo: “I principi e la posizione del governo cinese per migliorare le
relazioni con il Vaticano sono solide e chiare. Noi speriamo di iniziare un
dialogo costruttivo con il Vaticano e speriamo di esplorare vie e modi per
migliorare le relazioni”.
La
dichiarazione chiede quindi la “rimozione della scomunica” come condizione
per continuare “il giusto sentiero del dialogo”.
A
parte la grossolanità di voler fare “il papa del papa”, ordinando al
pontefice quanto deve fare in materia di fede, è importante questa nota sul
dialogo e sulle relazioni diplomatiche. Essa è segno che nella leadership vi è
ancora chi vorrebbe modernizzare la Cina garantendo reale libertà religiosa e
aprendo al rapporto col Vaticano. E tali personalità si trovano nello stesso
entourage del presidente Hu Jintao e del premier Wen Jiabao. Per questo - con
paura e timore e in modo contraddittorio con tutta la dichiarazione – l’Asar
si allinea con la leadership suprema.
Di
fatto però la politica dell’Asar nei confronti della Chiesa cattolica sta
lavorando contro i proclami di Hu Jintao sulla “società armoniosa” e sulla
“lotta alla corruzione”. I membri del governo per gli affari religiosi e
l’Associazione patriottica stanno dividendo le comunità e creando non
armonia, ma nuove tensioni nella società cinese. In più, il modo con cui essi
depredano beni e immobili della Chiesa apre un nuovo, fetido capitolo alla
corruzione al’interno del partito.
Riuscirà
Hu Jintao a sanare questo nuovo fronte di inquietudine nella società cinese?
Giorni fa il card. Zen, in un appello pubblicato sull’Apple Daily di Hong
Kong, chiedeva ai due leader di “dedicare un po’ del loro tempo alla cura
dei cattolici” in Cina (v. 13/07/2011 Urgenti appelli del Card. Zen e di mons.
Tong contro l’ordinazione illecita di Shantou). Anche noi ci uniamo a questo
appello.
Giro
di vite contro i cattolici, ingresso negato a sacerdoti che contestano le
ordinazioni illecite
AsiaNews
- Hong
Kong - 27 luglio 2011
Il
visto cancellato a p. Mella, sacerdote del Pime, non è un fatto isolato. Fonte
di AsiaNews: nelle ultime settimane “diversi casi analoghi”. Il giro di vite
frutto delle tensioni fra Cina e Vaticano per le ordinazioni illecite. La
stretta potrebbe “continuare a lungo” ed è fonte di rammarico fra i fedeli
che desiderano “l’unità col Papa”.
Il
visto di ingresso in Cina negato a p. Franco Mella “non è un fatto
isolato”, perché nelle ultime settimane “si sono verificati alcuni casi
analoghi”. Pechino “ha inasprito i controlli all’ingresso” dopo le
crescenti tensioni con il Vaticano per le ordinazioni illecite di alcuni
vescovi. È quanto conferma ad AsiaNews un sacerdote con base a Hong Kong, che
chiede l’anonimato per motivi di sicurezza. Egli aggiunge che “la stretta
contro i cattolici potrebbe continuare a lungo” ed è motivo di “profondo
rammarico e tristezza” fra i fedeli, che desiderano “l’unità con il papa
e la Chiesa”. La scorsa settimana i funzionari dell’immigrazione a Shenzhen,
nella provincia di Guangdong, nella Cina meridionale, hanno negato il visto di
ingresso a p. Franco Mella, sacerdote italiano del Pontificio Istituto Missioni
Estere (Pime). Per la prima volta in 20 anni, il missionario con base a Hong
Kong è stato bloccato dalle autorità di frontiera. Alla base del gesto,
l’adesione alle recenti manifestazioni di protesta per le ordinazioni illecite
decise dall’Associazione patriottica (Ap), criticate con forza dal Vaticano.
Ieri sulla vicenda è intervenuto anche il card. Zen, arcivescovo emerito di
Hing Kong (cfr. AsiaNews 26/07/2011, Card. Zen: l’assurdità di un governo
ateo che vuole guidare la Chiesa cattolica).
“Mi
hanno tenuto per oltre un’ora in una stanza” ha raccontato il 62enne
sacerdote del Pime, “chiedendomi di guardare la tv. Poi sono tornati e mi
hanno detto che il visto cinese era stato annullato”. “Non mi hanno dato
spiegazioni”, quindi tre funzionari “mi hanno scortato sul lato di Hong Kong
del punto di confine”. Egli avrebbe dovuto visitare la provincia dell’Henan
e aveva ottenuto il nulla osta all’ingresso un mese fa.
Il
caso di p. Mella “non è un fatto isolato”, commenta una fonte cattolica di
AsiaNews ad Hong Kong, perché “nelle ultime settimane si sono verificati
alcuni casi analoghi”. Ad un sacerdote è stato annullato il visto di ingresso
in Cina, oppure altri “bloccati in aeroporto e rimandati indietro a bordo del
primo volo disponibile”. L’inasprimento agli ingressi “colpisce alcuni
elementi in particolare”, perché altri “hanno potuto entrare regolarmente
in Cina”. “Pechino – aggiunge la fonte – ha mirato e colpito alcune
personalità” e la scelta è motivata dalle adesioni alle recenti proteste
contro le ordinazioni illecite di vescovi.
La
comunità cattolica teme che “le restrizioni continueranno anche nel prossimo
futuro” e molto dipenderà dall’evoluzione dei rapporti fra Pechino e Santa
Sede e se vi saranno “nuove ordinazioni illecite” da parte dell’Ap. Di
certo, conclude la fonte, fra i fedeli regna un clima di “profondo rammarico e
tristezza” per quanto sta succedendo. “Il desiderio di unità con il papa e
la Chiesa è forte, ma gli ostacoli da superare sono ardui”.(DS)
Colera, la catastrofe annunciata
di Maria Agata Messina
Repubblica
- 25 luglio 2011
E
nelle bidonville c'è morte e sofferenza
La
maggioranza degli abitanti di Kinshasa vive in quartieri ghetto dove scarseggia
l'acqua e la luce elettrica, dove le famiglie sono ammassate in case di una sola
stanza con una sola latrina condivisa con tutti. I numerosi canali che
attraversano la città e convergono verso il fiume Congo rigurgitano di
immondizie. Scarafaggi e topi scorazzano impunemente. Le donne vendono legumi e
frutta appoggiati per terra
Il
colera è di nuovo a Kinshasa. Come descrivere l'ansia dell'attesa? Del non
sapere cosa succederà domani? Quanti saranno domani, dei 12 milioni di abitanti
di questa megalopoli, quelli che cominceranno a star male? È come aspettare una
catastrofe annunciata che può arrivare da un momento all'altro, con una
violenza inaspettata, senza risparmiare morte e sofferenza. La maggioranza degli
abitanti della città vive in quartieri ghetto, bidonville dove scarseggia
l'acqua e la luce elettrica, dove le famiglie sono ammassate in case di una sola
stanza con una latrina maleodorante nel cortile, condivisa con tutti. I numerosi
canali che attraversano la città e convergono verso il fiume Congo rigurgitano
di immondizie. Scarafaggi e topi scorazzano impunemente tra le venditrici dei
mercati di Kingabwa, Maluku, Masina. Nessuno sembra farci caso. Le donne vendono
i legumi e la frutta appoggiati per terra su un sacco vuoto o un tessuto, le
macchine e i passanti sollevano nuvole di polvere che si adagiano sul cibo.
Mancanza di igiene, mancanza d'acqua potabile, mancanza di consapevolezza.
Le
tre epidemie che si sono abbattute. Queste le tre grandi cause delle epidemie
che in questo momento colpiscono il Congo: morbillo, poliomielite (la forma
"sauvage") e adesso il colera. Arriva dal Nord, dalle province
dell'Equatore, 1.055 casi, dal Bandundu,1.396 casi, dalla provincia
Orientale,1.431 casi, spostandosi lungo il fiume con le baleniere che
trasportano le banane, la manioca e altri prodotti agricoli da commercializzare
sul grande mercato di Kinshasa. Il primo malato è sceso dalla baleniera al
porto di Maluku, e con lui il cadavere di un'altra persona deceduta durante il
viaggio. La baleniera ha ripreso il largo senza essere disinfestata. Non esiste
il concetto dell'urgenza in Congo, là dove tutto è un'urgenza, niente è
percepito come grave, il diffondersi di questa epidemia ne è l'esempio.
Interventi
tardivi. La macchina ministeriale si è messa in funzione giorni dopo, in attesa
di fondi per poter fare qualcosa, ma anche di direttive. Il cadavere arrivato
con la baleniera è rimasto due, tre giorni in attesa di una improbabile
famiglia che lo ritirasse, e nell'assoluta mancanza di decisione da parte delle
istituzioni responsabili. Intanto le persone discese dalla baleniera si sono
sparpagliate per la città a vendere le loro mercanzie, a diffondere il vibrione
e ammalarsene. Maluku non è il solo porto d'attracco delle baleniere a
Kinshasa. Ci sono porti pubblici ma anche porti privati, lungo il fiume che
costeggia la città. Non c'è un censimento di questi porti.
Neanche
una settimana dopo l'arrivo a Maluku I del primo caso, nel quartiere di
Kingabwa, uno dei più densi di popolazione, appaiono i primi malati, non ci
sono cure disponibili e la gente non ha soldi.
La
gente è all'oscuro di tutto. Medici Senza Frontiere MSF 1 apre immediatamente
un CTC, Centro per il Trattamento del Colera. I malati cominciano ad arrivare al
ritmo di tre al giorno, parecchi sono già disidratati e non si può salvarli.
Non ci sono altri fondi disponibili, anche quelli per aprire il secondo ospedale
si fanno attendere. Il ministro chiama a raccolta i partner, si formano
commissioni per preparare una strategia d'attacco. Passano altre due settimane.
Nel frattempo a Maluku diventa necessario aprire un altro ospedale, perché le
baleniere tutti i giorni portano persone e mercanzie. Nulla è fatto a livello
istituzionale per bloccare il traffico. Arrivano i fondi per l'apertura del
centro di terapia per il Colera a Maluku. La popolazione è ancora all'oscuro di
tutto. È importante informarla, subito, non si deve più perdere tempo, non
devono più bere l'acqua del fiume, devono pulire le verdure con candeggina
diluita in acqua, devono lavarsi le mani, non mangiare cibi comprati per strada.
Ai
banditori il compito di informare. Il Cesvi 2 comincia ad appoggiare la zona
sanitaria di Kingabwa che è la più colpita, e altre due zone vicine a rischio,
Matete e di Ndjili, dove lavora dal 2005. Si riuniscono i "crieurs", i
banditori, nei tre quartieri, si dà loro una rapida spiegazione di quello che
devono dire scrivendo su fogli il messaggio da urlare agli angoli delle strade.
Vengono ingaggiati per una settimana di lavoro. È il mezzo più rapido e sicuro
perché spesso la corrente non c'è e la radio o la televisione non si
ascoltano. Il giorno dopo e per tre giorni di seguito, raduniamo tutti i capi
religiosi, cattolici, protestanti, musulmani, kibanghisti e di altre miriadi di
grandi e piccole sette. Li istruiamo su cosa dire ai fedeli. Anche a loro viene
consegnato un messaggio scritto da leggere durante le funzioni religiose. Tutti
collaborano, non ci sono discussioni. In silenzio ognuno prende il suo foglietto
e se ne va. Saranno degli eccezionali agenti moltiplicatori del messaggio,
faranno un buon lavoro.
E
altri metodi per far conoscere le cose. Vengono radunati anche gli infermieri
delle strutture sanitarie sia pubbliche che private. Vengono informati e viene
richiesto loro di indirizzare i casi che si presentano al centro di
reidratazione colera. Vengono trasmessi i messaggi attraverso le radio locali.
Nel giro di una settimana il Cesvi, con l'appoggio e la collaborazione delle équipe
delle tre zone sanitarie, riesce a formare 152 crieurs, 741 leader religiosi,
140 infermieri, per far urlare il messaggio di prevenzione in tutti gli angoli
delle strade e trasmetterlo su due radio. Il dépliant informativo viene
stampato e distribuito. La televisione nazionale riproduce il messaggio sotto
forma di disegni. La lotta è cominciata: ci sono già cento ricoverati nei due
centri di terapia e aumentano al ritmo di tre, quattro al giorno. Vengono
trasportati dai taxi perché non c'é ancora un servizio ambulanze ad hoc. In
tutto il Paese i malati, al 21 luglio, sono 3.982, 269 i decessi e il tasso di
letalità è del 7%. Troppo poco per l'arrivo di aiuti massivi? Qui nella
megalopoli aspettiamo che la bomba ad orologeria innescata dalla miseria e
dall'ignoranza esploda. Quanti saranno domani quelli che avranno bisogno di
cure?
Editoriale
di Congo Attualità 127
paceperilcongo.it
- 27 luglio 2011
La
legge elettorale è stata promulgata. La Commissione Elettorale Nazionale
Indipendente (CENI) ha finalizzato l’iscrizione dei cittadini, aventi diritto
di voto, sulle liste elettorali e, finora, ha mantenuto la data del 28 novembre
2011 come giorno in cui si terranno le elezioni presidenziali e legislative.
Tutti sperano che tali elezioni possano svolgersi in un clima politico sereno e
pacato. Ma le numerose irregolarità rilevate nel corso dell’iscrizione degli
elettori sulle liste elettorali sembrano mettere a dura prova tale speranza. La
Ceni dovrà porvi rimedio al momento del controllo finale delle liste
elettorali, perché il successo delle elezioni e l’accettazione dei risultati
dipenderanno in gran parte dal grado di trasparenza in cui si svolgerà tale
operazione.
All’Est
del Paese, anche se non si parla più di scontri armati, né di guerra aperta,
tuttavia l’insicurezza non fa che aumentare. Attacchi a villaggi e
autoveicoli, furti nelle case private, stupri collettivi, scomparse di persone,
omicidi e soprusi di ogni tipo continuano a far parte della vita quotidiana.
Contemporaneamente, si assiste all’arrivo di persone sconosciute e di
stranieri, che si presentano come rifugiati congolesi di ritorno in patria. La
gente del posto, tuttavia, dice apertamente che si tratta di Ruandesi. Gli
uomini del Congresso Nazionale per la Difesa del Popolo (CNDP) e del
Raggruppamento Congolese per la Democrazia (RCD), ex movimenti politico militari
filoruandesi e ora partiti politici riconosciuti legalmente, controllano il
comando dell’esercito, gran parte dell’amministrazione locale e la quasi
totalità del commercio minerario.
Molti
osservatori temono che siano proprio i militari del CNDP e del RCD, integrati
nell’esercito nazionale e rimasti, tuttavia, fedelissimi al regime ruandese,
che fomentino l’insicurezza all’Est del Paese, in particolare nei due Kivu,
per costringere la popolazione autoctona ad abbandonare la loro terra e
consegnarla ai nuovi arrivati ruandesi che si presentano come rifugiati
congolesi di ritorno in patria.
La
popolazione del Kivu è pronta ad avere rapporti di collaborazione con i Paesi
limitrofi, tra cui il Ruanda e ad accogliere, in condizioni regolari, qualsiasi
immigrato, anche ruandese. Ciò che la popolazione locale non accetterà mai è
un’occupazione ruandese del suo territorio mediante la violenza,
l’imposizione e l’infiltrazione clandestina. Ultimamente, la protesta contro
l’insicurezza ha preso la forma del boicottaggio delle celebrazioni del 51°
anniversario dell’indipendenza, come è successo il 30 giugno scorso a Bukavu
(Sud Kivu) e a Butembo (Nord Kivu), perché “non si può celebrare una tal
ricorrenza, quando la popolazione è sistematicamente uccisa, brutalmente
violentata e derubata delle sue ricchezze”. Anche la resistenza popolare
all’occupazione ruandese del territorio congolese assume svariate forme: un
piccolo commerciante è stato assassinato da un gruppo di militari, perché ha
osato opporsi a un loro collega che voleva derubarlo lungo la strada. Di questo
piccolo commerciante è stato scritto: “Addio Kambasu! Il tuo combattimento a
mani nude contro i teppisti armati dimostra la tua resistenza fino alla fine
contro l'occupazione della terra dei tuoi antenati. Tu sei un vero martire di
Beni-Lubero perché sei stato ucciso in un’azione di autodifesa e non hai mai
ceduto ai capricci del nemico. Hai mantenuto la tua libertà fino alla fine,
perché, per te, occorre vivere liberi o morire!”
Disarmo nucleare, gli Usa “aprono” a Pyongyang
AsiaNews
- Seoul - 25 luglio 2011
Dopo
più di due anni di stallo, il Segretario di Stato Clinton invita a New York il
vice ministro degli Esteri nordcoreani per trattare la ripresa dei colloqui a
sei sul disarmo. Ma chiarisce: “Non vogliamo fare concessioni o dare premi”.
Il regime dei Kim, allo stremo, è costretto ad accettare.
Dopo
più di due anni di gelo diplomatico, le cancellerie di Seoul e Washington
sembrano voler riaprire il tavolo dei colloqui sul disarmo nucleare alla Corea
del Nord. Colpevole di aver compiuto esperimenti atomici proibiti, il regime di
Pyongyang era stato allontanato dai “Colloqui a sei sul disarmo” - cui
partecipano le due Coree, gli Stati Uniti, la Russia, la Cina e il Giappone - e
gli erano state imposte delle durissime sanzioni economiche. Oggi, pur senza
fare grosse concessioni, l’America sembra invece voler superare questa
situazione.
Il
governo statunitense si è espresso per bocca del Segretario di Stato Hillary
Clinton, che ieri ha invitato il vice ministro degli Esteri nordcoreano Kim
Kae-gwan a New York per “discutere dei prossimi passi necessari per la ripresa
dei colloqui sulla denuclearizzazione”. Parlando al margine del vertice Asean
in corso in Indonesia, la Clinton ha chiarito: “Non intendiamo semplicemente
premiare Pyongyang perché ritorni al tavolo. Non daremo nulla in cambio di
promesse che hanno già fatto e mai mantenuto. Ma si deve andare avanti”.
In
un comunicato congiunto, inoltre, i governi di Stati Uniti, Giappone e Corea del
Sud affermano che il regime di Kim Jong-il “deve dare delle risposte
esaurienti sul proprio programma di arricchimento dell’uranio, prima che i
colloqui ripartano”. Seoul, però, ha accettato di mantenere separata la
questione del disarmo dagli attacchi ordinati alcuni mesi fa da Pyongyang, che
portarono all’affondamento di una corvetta militare e alla morte di alcuni
civili su un’isola di proprietà del Sud.
Si
tratta senza dubbio di un grande passo in avanti, motivato da questioni opposte.
Il regime del “Caro Leader” è allo stremo, e le sanzioni economiche hanno
distrutto la sua già fragile economia; la popolazione vive quasi del tutto al
di sotto della soglia della povertà e non ci sono grandi svolte in vista. Da
parte loro, i governi dei tre Paesi si sono resi conto che la Cina - grande
“protettrice” della Corea del Nord - non ha intenzione di usare il pugno di
ferro con Pyongyang. Quindi rimane soltanto la strada della diplomazia, prima di
un intervento militare.
Giovani Fratelli
di Francesca Borri
PeaceReporter
- 22 luglio 2011
La
nuova generazione di Fratelli Musulmani, spesso in disaccordo con i vertici del
movimento
Non
è una piazza, in realtà, piazza Tahrir, ma strade a tripla corsia, tranci
d'erba transenne, rotatorie, cavalcavia. Diventa una piazza solo quando trabocca
di persone. Solo allora gli ostacoli, le barriere non si notano più, e da luogo
distratto di passaggio diventa luogo di aggregazione, partecipazione
condivisione - conversione. Non è tanto un'icona della rivoluzione, mi dice
Rasha, quanto una sua metafora. Da una bottiglia di plastica, scalpella con
forbici e cacciavite una maschera antigas. La cittadinanza mi dice, si
custodisce praticandola.
Perché
non è solo questione di Mubarak, ed è per questo che è qui. Il bersaglio,
ora, è l'esercito. Ha prestigio di granito dai tempi di Nasser, e ancora di più,
dello Yom Kippur, con cui riconquistò il Sinai nella sola vittoria araba su
Israele. Ma doveva limitarsi a presiedere la transizione. E invece il Consiglio
Supremo delle Forze Armate si definisce oggi, pericolosamente vago, garante
della democrazia, mentre ancora non sono state discusse riforme né fissate
elezioni, e soprattutto, mentre i vecchi notabili sono ancora impuniti in
circolazione. Insieme a una nebulosa di forze di sicurezza. L'ultimo venerdì di
giugno è degenerato in guerriglia, è il momento di lavorare, sostenevano, non
di protestare.
Anche
se è proprio per questo, alla fine, che sono qui. Marwan, tassista, una laurea
in architettura, Ismail cameriere, una laurea in informatica Rami, avvocato e
meccanico. Essam, che arrostisce spiedini con un dottorato in biologia. Perché
sono passati quarant'anni, dallo Yom Kippur, era il Cile di Allende l'Italia di
Rumor, e di anni invece gli egiziani in media ne hanno ventiquattro, sono nati
insieme ai Simpson. L'esercito non è medaglie impolverate, ma una gramigna di
interessi economici, proprietario di industrie e imprese di ogni tipo. Dagli
pneumatici alle lavatrici, dall'edilizia alle telecomunicazioni, è ormai il
socio occulto del governo. Di ogni governo, il garante non della transizione ma
della continuità. Il suo obiettivo era sostituire Mubarak, non certo travolgere
il regime - travolgere se stesso.
Per
questo sono ancora qui, anche se non dovrebbero esserci. Perché militano nei
Fratelli Musulmani, e i Fratelli Musulmani, come già a gennaio, si sono uniti
solo all'ultimo minuto: solo quando hanno capito che piazza Tahrir sarebbe
tornata a riempirsi. Ma hanno invitato a smobilitare al tramonto. Mantenere
l'ordine pubblico, e votare a settembre, votare il prima possibile, quando gli
altri non avranno avuto tempo di organizzarsi: la strategia è chiara. E in
tacita alleanza con l'esercito. Quanto ottenuto per molti è più che
sufficiente, mi dice Esraa, l'inglese impeccabile, velo e tacco. Per questo sono
ancora qui. Alle tre, mi dice, puntuale mi raccomando. Alle tre al McDonald's.
Perché
l'Islam, in realtà, in Egitto è mille cose. Soprattutto, è un Islam popolare
a fronte di un Islam dottrinale, il silenzio rarefatto di Al Azhar ma anche
l'anima napoletana dei moulid, un po' come le nostre feste patronali: si
celebrano santi copti, mistici sufi, dotti miracoli e profeti e eventi di ogni
natura, musulmani e cristiani insieme, e la voce non è quella dei muezzin, ma
dei telepredicatori come Amr Khaled, la fede nello spirito è fine a se stessa,
ammonisce, bisogna avere piuttosto fede nello sviluppo, e investire in alberghi
sul mar Rosso. Si occupano dei rituali, dice Wajdi, del velo del pellegrinaggio
alla Mecca, mentre sullo schermo sulla sua testa, in sovrimpressione, ammicca il
numero per ricevere da un esperto, via sms, una fatwa, tre dollari l'una. Non è
vincolante, è l'interpretazione di un passo del Corano. Se ti è scomoda, cambi
numero. Non parlano mai di libertà, dice, giustizia eguaglianza - come se sia
questione di virtù private, qui, e il cancro di questa società non chi impone
tangenti, chi trucca elezioni, ma chi beve vino.
Si
sono opposti ai cortei per Gaza e per l'Iraq, dice, e esattamente come adesso
invitano a pregare, invece che a manifestare. Perché i Fratelli Musulmani per
genetica non sono affatto sovversivi, ma al contrario: pronti al compromesso. La
loro priorità, da sempre, non è lo stato islamico, ma la società islamica.
Così, hanno costruito scuole e ospedali, costruito case e influenza, offerto
prestiti e lavoro. E in definitiva, dice, assolto il governo dalle sue
responsabilità. Degradato i diritti a forme di solidarietà. E poi conosciamo
questi processi di transizione infinita, dice, questa idea che prima viene la
stabilità e poi le riforme, prima il benessere e poi la democrazia, la
partecipazione. Questa filosofia del gradualismo, candidare donne perché
abbiano potere in parlamenti che non hanno potere. Per questo sono qui.
Perché
è l'Islam in sé, in realtà, a essere mille cose. Il Corano non prescrive né
descrive uno stato islamico. La shari'ah, la retta via, distingue quello che è
giusto, e dunque consentito, da quello che è sbagliato e dunque proibito: ma
sono solo trecentocinquanta versi su seimila, non è onnicomprensiva né
dettagliata, deve essere integrata. E in ogni caso interpretata: come ogni
testo, non solo sacro. Cercando di capire quella che è la direzione indicata da
Maometto, dice Bahia, sua moglie Aisha per esempio, guida battaglie - il Corano
dice, migliorò la condizione delle donne. Guida una Mercedes e l'azienda di
famiglia. Una buona interpretazione, dice, non è mai solo letterale. In Egitto
la shari'ah è già adesso, per costituzione, la fonte principale della
legislazione, fu introdotta da Sadat, l'alfiere del libero mercato e
dell'occidentalizzazione. Ogni nuova legge, cioè, deve essere coerente con la
shari'ah, così come interpretata dagli esperti di Al Azhar. Lo scontro è su
questo, dice, non sulla shari'ah. Oggi sono esperti nominati dall'alto, una
specie di teocrazia costituzionale. Vogliamo eleggerli, dice. Per questo sono
qui.
Vogliamo
tornare, dice, a un rapporto diretto con Dio. Perché è importante il jihad,
l'impegno a realizzare la volontà di Dio, vivere una vita virtuosa, ma anche, e
non meno, l'ijtihad, dice, l'esercizio personale, autonomo di comprensione del
Corano. Della volontà di Dio. Il ruolo dei giuristi, oggi, è ruminare testi
altrui scritti migliaia di anni fa, e fornire risposte a qualsiasi domanda. Se
cercassi risposte dice, andrei su Wikipedia, non in moschea. Così, dice, la
fede diventa una fuga dalla responsabilità - la comodità dell'opinione, senza
la scomodità del pensiero.
Anche
perché è questo paese, in realtà, a essere mille cose insieme, ma una su
tutte: la povertà. Si teme un nuovo Iran, il rischio è un'altra India: per
strada ognuno che tenta di vendere qualcosa, fazzoletti un bullone, magliette,
ognuno che implora una moneta. Ma nessuno sembra scomporsi. Finito lo shopping
al bazar, allungate fino al cimitero, consiglia la Lonely Planet, le tombe sono
abitate. Disoccupati, sfrattati. Quando scattate fotografie ricordatevi la
mancia.
Il
problema è che in Egitto nessuno, neppure Nasser, ha mai avuto un progetto di
sviluppo alternativo a quello occidentale, che qui si è tradotto in una falce
di ricchissimi e una maggioranza di poverissimi - in campi da golf sotto le
piramidi, dice Alaa, in una città in cui non arriva acqua potabile. Lavorava a
Milano come muratore. L'obiettivo, per tutti, è la società dei consumi. Con
minori diseguaglianze, ma nessuno contesta l'idea di fondo dice, più auto più
telefonini, la casa al mare, un modello ormai in corto circuito che alla nostra
generazione garantisce solo precarietà e emarginazione. Ottocento euro al mese,
quattrocento di affitto, in sei in sessanta metri quadri. Perché oggi la crisi,
dice, non è semplicemente la fame degli esclusi, è la fragilità degli
inclusi. E non mi batto dice, per avere una società in cui ognuno è solo e
conti come cliente, mai come cittadino, una società in cui si organizzano
mense, invece che aggiungere posti a tavola, in cui si arricchiscono le case e
impoveriscono le città e devi pagare uno psicanalista, per avere qualcuno con
cui parlare. Questa piazza, dice, appartiene più a un trentenne greco, spagnolo
italiano, che a un sessantenne musulmano. Perché ha una laurea in ingegneria,
Alaa, e il fine settimana lavorava come cuoco. E non sei più libero se sei più
ricco, dice, ma anche più in ansia per il tuo futuro, e senza tempo per
esercitare la tua libertà. Per questo siamo qui.
Perché
non è solo questione dell'esistenza dell'ingiustizia, in realtà, né della
consapevolezza dell'ingiustizia. Quello che innesca una rivoluzione, dice Wael,
è la consapevolezza delle cause dell'ingiustizia. Chi disconosce e nega le
ragioni della crisi, chi disabitua ai dubbi, alle domande, dice, non è che un
suo tacito alleato.
Consiglio
supremo dei militari nel caos. Fratelli musulmani e salafiti prendono il
sopravvento
AsiaNews - Il Cairo - 26 luglio 2011
L’esercito
in difficoltà dopo gli scontri del Cairo dello scorso 24 luglio, costati 298
feriti, nega un piano per trasformare l’Egitto in un nuovo regime. P. Greiche
sottolinea la situazione di caos e malagestione presente nel Paese. Cristiani e
musulmani temono la deriva estremista del Paese.
I
continui scontri fra giovani della rivoluzione e forze di sicurezza mettono in
difficoltà l’esercito accusato su più fronti di non fare nulla per gestire
la situazione e guidare il Paese verso le elezioni, posticipate a novembre.
Ieri, in un incontro con alcuni rappresentanti internazionali a Washington il
gen. Mohamed al-Assar, assistente del ministro della difesa fra i responsabili
del Consiglio supremo delle forze armate, ha assicurato che l’esercito non ha
alcuna intenzione di trasformare il Paese in una nuova dittatura.
Secondo
p. Greiche, portavoce della Chiesa cattolica egiziana, l’esercito starebbe
affrontando una situazione di caos interno, che lo rende incapace di gestire e
affrontare i complicati scenari dell’Egitto post-Mubarak. Ad aumentare
sospetti e critiche contro i militari, i recenti scontri fra manifestanti e
forze dell’ordine avvenuti lo scorso 24 luglio ad Abbasseya (il Cairo),
costati circa 298 feriti. Le violenze hanno suscitato indignazione ed ira fra i
gruppi democratici, che accusano la polizia di aver coinvolto teppisti armati di
coltelli e bastoni, per provocare gli scontri e arrestate i manifestanti. Il
sacerdote sottolinea che l’esercito sta perdendo di mano la situazione. “A
capo del Consiglio supremo – spiega – ci sono 17 generali che hanno opinioni
diverse e seguono ognuno la propria linea di azione, generando il caos”.
Questa
situazione ha fattoi perdere credibilità all’esercito che accusa i giovani
del movimento 6 aprile di voler destabilizzare il Paese. Da parte sua il
movimento attribuisce ai militari la responsabilità degli attacchi violenti
contro i dimostranti. P. Greiche racconta che da diversi mesi “la popolazione
dei quartieri più centrali della capitale è stanca dei continui scioperi e
proteste che bloccano la città, provocando gravi danni all’economia,
soprattutto per i gestori di bar e ristoranti". “La gente dei quartieri
– afferma – spesso chiede alla polizia di intervenire”. Secondo p. Greiche
i militari non avrebbero fato nulla per innescare le violenze limitandosi a
sorvegliare l’ingresso del ministero della Difesa, teatro della protesta. Per
il sacerdote è stata invece la polizia (legata al vecchio regime – Ndr) che
avrebbe provocato gli attacchi contro i manifestanti facendo entrare nella folla
gruppi di criminali e vagabondi con il compito di creare panico e innescare
scontri.
La
situazione di insicurezza e soprattutto la totale assenza di un interlocutore
credibile al governo ha consentito ai gruppi estremisti, fra tutti Fratelli
musulmani e salafiti, di agire senza problemi sul suolo, lanciano proclami e
minacciando chi è contro la sharia e non desidera uno Stato islamico. Oggi la
Commissione del consiglio di Stato egiziano ha condannato Sayyd al-Qemny, famoso
intellettuale e ricercatore di scienze sociali, per le sue critiche al mondo
islamico moderno. L’attivista è stato costretto a restituire lo State Merit
Award, premio offerto dal ministero della Cultura del valore di oltre 20mila
euro, vinto nel 2009 per il suo contributo alle scienze sociali. Secondo il
tribunale il riconoscimento viene pagato con soldi pubblici e non è giusto che
la popolazione finanzi una persona che scrive contro l’islam.
P.
Greiche spiega che l’attività degli estremisti, a piede libero dopo la caduta
di Mubarak, preoccupa la popolazione più povera. “La gente – afferma p.
Greiche - si sta rendendo conto di chi sono in realtà Fratelli musulmani e
salafiti. I casi di discriminazioni e crimini sono aumentati a causa del
lassismo dell’esercito. Cristiani e musulmani hanno paura”. (S.C.)
Anche un camion può diventare un’aula scolastica
Agenzia Fides
- Manila - 26 luglio 2011
Per
i bambini e i ragazzi di strada che vivono abbandonati a se stessi nel quartiere
“Laguna”, a sud di Manila, è stato riadattato un camion che potrà ospitare
fino a 25 studenti contemporaneamente e offrirà lezioni dal lunedì al venerdì
per quattro ore al giorno. I primi corsi che verranno attivati riguarderanno
l’Elettronica di consumo e la Riparazione di motocicli. Il primo insegnerà
tecniche per la riparazione di apparecchi elettrici quali ventilatori, tv, prese
elettriche, circuiti e condutture, e telefoni cellulare. Al termine del corso i
partecipanti riceveranno un Certificato Nazionale (NC2) rilasciato
dall’Autorità per l’Educazione Tecnica e lo Sviluppo delle abilità. Il
secondo corso è stato pensato per l’utilità in una comunità sociale che
utilizza le moto come comune mezzo di trasporto. L’idea dell’aula mobile è
stata di un volontario laico impegnato nel villaggio per bambini di strada di
Tuloy, come risposta al crescente numero di studenti che abbandonano le scuole
nel paese. Le cause più comuni, a detta degli stessi ragazzi, sono la mancanza
dei soldi necessari per il trasporto pubblico e la necessità di lavorare. La
zona in cui il camion si muoverà è compresa nel territorio della diocesi di
San Pablo, suffraganea dell’arcidiocesi di Manila.
Aquino
parla alla nazione, ma delude i filippini stanchi di utopie e proclami
AsiaNews
- Manila - 25 luglo 2011
Nel
discorso sullo stato del Paese, il presidente espone i dati positivi della lotta
alla corruzione e si dice pronto a difendere le isole del mar cinese meridionale
dalle pretese cinesi. Nessun accenno ai temi caldi di lavoro e agricoltura.
Fonti di AsiaNews lo ritengono preda di latifondisti, industriali e
organizzazioni internazionali. In migliaia a Quezon City protestano contro la
politica di Aquino.
Il
secondo discorso sullo stato della nazione pronunciato oggi a Manila dal
presidente Aquino, non convince la popolazione che lo giudica “utopico” e
“privo di contenuti e proposte concrete”, soprattutto per i più poveri.
Questa mattina oltre 10mila persone, soprattutto agricoltori, pescatori e operai
hanno protestato a Quezon City, chiedendo al presidente di “uscire dal mondo
delle utopie” e di trattare i cittadini come “persone concrete e non
immaginarie”.
Nel
suo discorso, Aquino ha parlato di riduzione della corruzione, aumenti di
stipendi a esercito e polizia, lotta alla disoccupazione, sottolineando
l’inizio del cambiamento del Paese. Riferendosi alla disputa con la Cina per
il controllo delle isole del mar cinese meridionale, il presidente ha affermato
la pronta volontà del governo nel difendere i propri territori. Tuttavia una
fonte di AsiaNews fa notare la totale assenza di dati ed esempi concreti e la
volontà di evitare temi caldi come lavoro e riforma agraria.
“A
un anno dalla sua elezione – afferma la fonte - il presidente non ha ancora un
obiettivo su cui lavorare e finora ha fatto solo proclami per il cambiamento del
Paese. L’unica nota positiva del suo discorso è la volontà seria di
combattere la corruzione, eliminando tutti quei funzionari governativi accusati
di aver sottratto fondi dalle casse dello Stato”. Nei giorni scorsi il
presidente ha nominato Conchita Carpio - Morales, ex giudice della Corte
suprema, nuovo Ombudsnam (mediatore fra cittadinanza e amministrazione),
rimpiazzando Merceditas Gutierrez, funzionario legato al governo Arroyo e
sospettato di favoreggiamento della corruzione e sottrazione di fondi pubblici.
Eletto
nel maggio 2010, Benino Aquino è stato considerato da popolazione e stampa,
come l’uomo della rinascita filippina. Egli ha impostato la sua campagna
elettorale sul cambiamento radicale del Paese, promettendo di liberarlo dalla
corruzione frutto di 6 anni di governo Arroyo. In questi mesi Aquino ha perso
molta della sua popolarità, deludendo coloro che lo ritenevano in grado di dare
una netta sterzata al Paese nel breve periodo. In molti lo accusano di aver
utilizzato i risultati ottenuti nella lotta alla corruzione come un diversivo
per nascondere le difficoltà nel modernizzare il Paese e nell’erodere il
potere dei grandi proprietari terrieri e industriali.
“Il
presidente – afferma la fonte - è ancora preda dei gruppi di potere che da
decenni dominano la scena politica ed economica filippina e a tutt’oggi non ha
la forza per portare avanti quanto promesso”. “I nuovi finanziamenti a
militari e polizia – spiega – e l’assenza di politiche agrarie lasciano
intendere quanto egli tema per il suo governo, puntando sulla sicurezza e
l’appoggio delle famiglie potenti”. A ciò si aggiunge la sudditanza a Onu e
multinazionali, che da anni premono per l’approvazione della legge sul
controllo delle nascite contestata invece da Chiesa e cattolici filippini.
“Aquino non agisce né a favore né contro la legge – afferma la fonte -
perché ha paura di perdere sia il consenso dei cattolici, alla base della
società filippina, sia i fondi erogati da organizzazioni e società
internazionali. Tuttavia oggi ha ribadito la sua vicinanza ai vescovi lodandoli
per il loro lavoro a favore della popolazione”.
Secondo
la fonte, le parole e alcuni risultati raggiunti dall’amministrazione Aquino
lasciano intravedere un piccolo cambiamento rispetto ai precedenti governi.
“La rinascita delle Filippine – sottolinea – potrà avvenire un giorno, ma
sarà lunga e difficile da attuare”. (S.C.)
Il Giappone risponde in modo creativo alla crisi
di Daisaku Ikeda
Ipsnews - Tokio - 25 luglio 2011
Dopo
il terremoto e lo tsunami, le popolazioni di tutto il mondo hanno dato una
risposta straordinaria, inviando aiuti e soccorsi, e un incredibile sostegno
materiale e psicologico. Il popolo giapponese non dimenticherà mai questa
risposta sincera: il lungo percorso di recupero avverrà nella consapevolezza
del nostro importante debito verso l'illimitata benevolenza di persone da tutto
il mondo.
Lo
storico britannico Arnold J. Toynbee è noto per la sua teoria di sfida e
risposta. “Le civiltà – scrive – nascono e si sviluppano affrontando con
successo le sfide che si presentano”. Questa lotta a far fronte a nuove sfide
è certamente destinata a persistere finché la storia umana continuerà.
Di
fronte a un disastro di proporzioni inimmaginabili, i giapponesi stanno cercando
un modo per rimettersi in piedi e trovare risposte adeguate a una serie di
problemi interconnessi. Infatti, più grandi sono queste sfide e maggiori sono
le possibilità di trovare risposte creative che ispireranno i popoli di tutto
il mondo e contribuiranno alla somma della saggezza umana.
In
definitiva, l'efficacia di queste risposte è radicata nella forza della comunità
umana.
Molti
dei racconti di miracolosa sopravvivenza al terremoto e allo tsunami sono state
possibili solo grazie al sostegno ricevuto. Inoltre, nelle settimane e nei
giorni successivi al disastro, quando le principali linee di comunicazione,
l’acqua, l’elettricità e il gas sono stati interrotti, il reciproco aiuto
delle comunità locali e delle associazioni di quartiere ha permesso di
soddisfare le esigenze basilari e di offrire un legame umano vitale ai
sopravvissuti.
Conosco
personalmente molti degli individui che si sono dedicati agli altri con nobiltà
d'animo e hanno lavorato per il recupero delle loro comunità, condividendo
spontaneamente le scarse risorse che avevano e investendo le proprie energie
nell'assistenza agli altri, nonostante loro stessi avessero perso tutto:
parenti, case e mezzi di sostentamento. Si può solo provare ammirazione davanti
a un cuore splendente di umanità che brilla in questi tempi di crisi.
C'è
stata una grande e spontanea collaborazione nelle zone colpite di Soka Gakkai,
dove sono stati aperti centri di evacuazione subito dopo il terremoto.
Subito
dopo il disastro, con i gravi danni subiti dalla rete dei trasporti che
collegava Tokyo alla zona colpita, i volontari di Niigata, sulla costa
nord-occidentale del Giappone, hanno provveduto ai soccorsi utilizzando le
strade secondarie. I volontari provenivano da aree già colpite dai forti
terremoti del 2004 e del 2007 e, quindi, conoscevano in profondità le pene e le
necessità dei sopravvissuti. Hanno lavorato a tempo pieno per portare in tempi
brevissimi i rifornimenti essenziali come acqua potabile, il riso e altri viveri
di emergenza, generatori di corrente, carburante e bagni chimici. Mi è stato
detto che quei volontari erano mossi da un senso di gratitudine per l'assistenza
ricevuta al tempo del terremoto di Niigata: "Molte persone ci hanno
aiutato, e ora tocca a noi fare ciò che possiamo".
Le
sofferenze causate da una forte terremoto possono essere davvero sconvolgenti.
Ma in tutte le aree sulle quali queste tragedie si sono abbattute negli ultimi
anni - il terremoto di Sumatra e lo tsunami nell'Oceano Indiano del 2004, il
terremoto del Sichuan in Cina nel 2008 e quello di Haiti nel 2010 - è emerso un
profondo senso di solidarietà verso il prossimo, una comunità di cittadini
coraggiosi e altruisti che si sono aiutati l’un l’altro. Tali azioni, e lo
spirito che le ha animate, sono davvero straordinari. So di non essere l’unico
a vedere in questo una sincera bontà che viene dalle profondità del cuore
umano.
Chiaramente
gli interventi delle autorità con le loro azioni di soccorso e ricostruzione
sono fondamentali. Ma al tempo stesso è evidente che la collaborazione delle
comunità locali è spesso un'ancora di salvezza per le persone vulnerabili e
maggiormente coinvolte nei disastri.
Mentre
procedono gli sforzi della ricostruzione, l'aspetto spirituale di cura e
assistenza diventa sempre più cruciale e la rete degli individui che
interagiscono e si incoraggiano reciprocamente ogni giorno a livello della base
gioca un ruolo chiave. In questo senso, la genuina solidarietà tra gli uomini
può costituire le fondamenta per una sicurezza umana che non potrà essere
distrutta nemmeno dalle più atroci calamità. La nostra risposta al disastro
deve essere quella di far emergere i valori dalla tragedia, comprendere il lato
più profondo della natura della felicità umana e ridisegnare il futuro
immaginato dagli uomini in tutti i suoi aspetti, compreso quello della
controversa politica energetica.
Così
come il disastro nucleare di Chernobyl nel 1986 ha costretto alla riflessione su
molti temi, gli incidenti nella centrale nucleare di Fukushima stanno avendo un
profondo impatto sulle opinioni e le diverse posizioni della comunità
internazionale.
Sebbene
ogni paese abbia diverse opzioni possibili, è certo che sta nascendo un nuovo
orientamento nella storia dell'umanità. Si può vedere nella forte promozione
per le fonti di energia rinnovabili, nello sviluppo delle tecnologie ad
efficienza energetica e nella gestione più attenta delle risorse in generale.
Per
raggiungere l'obiettivo di una società sostenibile è necessario un nuovo modo
di guardare il mondo - un nuovo sistema di valori - che possa frenare gli
eccessi dell'avidità umana e reindirizzare saggiamente questi impulsi verso
scopi più elevati.
Spero
che riusciremo a trovare una risposta a questa catastrofe, in modo che la
saggezza dell'umanità possa contribuire a ritrovare i nostri mezzi di
sussistenza, la nostra società e la nostra civiltà, ma soprattutto a ritrovare
il cuore umano. © IPS
Daisaku
Ikeda, filosofo buddista giapponese, promotore di pace e presidente di Soka
Gakkai International (SGI). Per vedere la risposta di Soka Gakkai al terremoto
11 marzo, visita il sito www.sgi.org
Sciopero della fame per i diritti di dalit cristiani e musulmani
di Nirmala
Carvalho
AsiaNews - Mumbai - 26 luglio 2011
Per
mons. Vincent Concessao, arcivescovo di New Delhi, il digiuno di massa (25-27
luglio) è un “avvertimento: la storia ci insegna che molti governi potenti
sono caduti, quando si nega la giustizia”. Lo sciopero si concluderà con una
marcia fino al Parlamento, il 28 luglio.
Più
di mille persone stanno facendo uno sciopero della fame, in India, per chiedere
al governo di garantire lo status di Scheduled Caste anche ai dalit cristiani e
musulmani. Il digiuno di tre giorni (25-27 luglio) culminerà in una marcia
verso il parlamento, il prossimo 28 luglio, a cui hanno aderito vescovi, leader
religiosi, fedeli cristiani e islamici e movimenti per i diritti umani.
“Questo è il nostro appello – ha dichiarato ad AsiaNews mons. Vincent
Concessao, arcivescovo di New Delhi –, chiediamo giustizia per i più deboli
della società, discriminati in base al loro credo religioso”.
La
lotta per garantire eguali diritti anche ai dalit cristiani e musulmani va
avanti dal 1950, quando il parlamento approvò l’art. 3 della Costituzione
sulle Scheduled Caste (Sc): in base a questo paragrafo, la legge riconosce
diritti e facilitazioni di tipo economico, educativo e sociale solo ai dalit indù.
In seguito, nel 1956 e nel 1990, lo status venne esteso anche a buddisti e Sikh.
“Il
Congresso, guidato dal governo Upa (United Progressive Alliance, ndr), è il
solo responsabile per la negazione dei diritti e dell’uguaglianza per i dalit
cristiani e musulmani – continua l’arcivescovo – e questo sciopero della
fame deve servire da avvertimento ai nostri politici. La storia ha visto cadere
molti governi in apparenza potenti, quando la giustizia viene negata”.
Mons.
Concessao ricorda le parole del primo ministro indiano Manmohan Singh, che il 27
dicembre 2006 definì l’intoccabilità una “macchia per l’umanità”.
“E purtroppo i nostri dalit cristiani – prosegue l’arcivescovo – sono
schiacciati dalla doppia discriminazione per via della loro fede”.
India
e Pakistan: oggi incontro al vertice per aprire un dialogo
AsiaNews
- Delhi - 27 luglio 2011
Oggi
a Delhi i ministri degli Esteri riprendono i colloqui, interrotti dopo la strage
di Mumbai del 2008, di cui l’India ritiene il Pakistan responsabile.
“Vogliamo una frontiera comune libera dal terrore”, dice Krishna. “Non
dobbiamo essere ostaggio del passato”, afferma Hina Khar, la donna di 34 anni
da una settimana ministro degli Esteri di Islamabad.
I
ministri degli Esteri di Pakistan e India si incontrano oggi per la prima volta
dopo che il dialogo fra i due Paesi si è bloccato nel 2008 come conseguenza
dell’attentato di Mumbai che ha causato circa 170 vittime. L’India
attribuisce la responsabilità della strage a elementi pakistani. La delegazione
pakistana è guidata da Hina Rabbani Khar, una donna di 34 anni, da pochi giorni
chiamata a guidare la politica estera pakistana. Il ministro degli Esteri
indiano SM Krishna ha dichiarato prima dell’incontro che il suo Paese vuole
vedere “un Pakistan stabile, prospero e calmo”.
Hina
Rabbani Khar, che proviene da una famiglia profondamente radicata nella politica
pakistana, ha dichiarato che i due Paesi “non dovrebbero essere ostaggio del
passato. E’ nell’interesse del Pakistan che il dialogo sia orientato verso
risultati concreti. Dobbiamo essere positivi nel nostro impegno, e noi lo
siamo”. Funzionari indiani e pakistani hanno ripreso i contatti a febbraio su
un ampio ventaglio di argomenti per trovare il modo di ristabilire la fiducia
fra Delhi e Islamabad. L’India ha dichiarato di “essere pronta a discutere
tutti i temi con mente aperta”, e insisterà perché sia fatta giustizia alle
vittime di Mumbai.
Il
Pakistan aprirà sicuramente il tema dell’autonomia del Kashmir. Hina Rabbani
Khar ha incontrato ieri a Delhi leader separatisti del Kashmir. La regione
dell’ Himalaya è reclamata sia dall’India che dal Pakistan, ma è divisa
dal 1948. E’ stata la causa di tre guerre fra i due Paesi. Gli analisti non si
aspettano risultati concreti di grande ampiezza da questo primo incontro, che
però testimonia della volontà di entrambi di stabilizzare le relazioni.
Krishna ha dichiarato: “Vogliamo una frontiera comune libera dal terrore, e ci
battiamo per un Pakistan stabile, pacifico e affidabile”.
Casta ed anti-casta. Il mondo della pace s'interroga
Unimondo
- 22 Luglio 2011
Casta
ed anti-casta. Il mondo della pace s'interroga e il direttore di Unimondo
s'inserisce - in corsivo - all'interno dell'intervento dell'amico Mao Valpiana
con proprie considerazioni. A volte di senso opposto.
La
campagna “moralizzatrice” degli anti-casta, ormai dilaga ovunque. Non solo
in rete e nei social network, ma anche sui quotidiani a grande tiratura, ed ora
perfino nei telegiornali di Rai e Mediaset. A questo punto, come vuole la
proverbiale locuzione latina, mi sono chiesto: cui prodest? ("a chi
giova?").
Sinceramente
spero che giovi alla politica al fine di ridurre il gap tra rappresentanti e
rappresentati. Quest'ultimi, soprattutto nei ceti medi e bassi, verranno colpiti
duramente dalla manovra e la politica deve ritrovare, anche con questa protesta
che ci vede impegnati da sempre, lo spirito di dedizione, per dirla sia con De
Gasperi che con Gramsci.
Fino
a quando a protestare contro indennità, vitalizi e privilegi vari dei
parlamentari erano i grillini o il popolo viola, tutto mi sembrava regolare e
per certi versi coerente. Ma quando hanno cominciato ad accodarsi i quotidiani
di ogni orientamento, comprese le corazzate di Repubblica e del Corriere (che
ricevono contributi a fondo perduto dalla Legge per l’editoria, che si sono
guardati bene dall’inserire negli elenchi degli sprechi), allora ho
incominciato ad avere qualche prurito; è divenuta una vera allergia quando
anche il paludatissimo TG1 ha dato voce alla rivolta anti-Casta, attaccando il
bilancio della Camera come se fosse la causa principale della voragine del
debito pubblico italiano.
Francamente
non mi sembra che la Rai stia conducendo una battaglia sui privilegi da
avanguardia. Se ne parla ovunque ed i colleghi di Corriere, Repubblica e RAI
stanno, a mio avviso modestamente, cogliendo voce. Però Mao apre un capitolo
interessante. Non vi sono solo i privilegi degli uni ma anche degli altri come i
direttori dei giornali più importanti. E quindi la campagna, visto che siamo
sul Titanic, dovrebbe mirare non solo alla punta dell'icerberg ma anche ai
fondamenti, a ciò che non affiora dalle acque.
E
quindi, dopo aver messo alla gogna non solo i parlamentari, ma anche i consigli
regionali, le province, e tutti i consigli comunali, quasi che bisognasse
vergognarsi di essere stati eletti e sentirsi accusati di “vivere sulle spalle
del popolo”, ecco che iniziano ad arrivare le proposte per porre rimedio a
questo sperpero: abolire le province, ridurre il numero di senatori e deputati,
ridurre il numero dei consiglieri regionali, provinciali, comunali, tagliare
tutte le indennità.
Andiamoci
piano. Le proposte portate avanti anche da questo portale non sono fatte a caso.
Tagliare metà parlamento non lo diciamo solo noi ma anche gli economisti della
voce.info. Non ha infatti più logica avere un'Assemblea che è il doppio di
quella degli USA e maggiore anche di quella dell'Unione Europea. V'è una
distorsione che in periodo di vacche magre va posta mano. Riguardo le province
vanno considerevolmente ridotte. Illo tempore proponemmo la metà. Vi sono
comuni in Italia con appena 100 anime che non riescono a mantenere un negozio
alimentari. Suvvia. 8.000 enti locali, comunità montane a livello del mare,
circoscrizioni e consigli di quartiere con presidenti stipendiati in ogni dove.
Con benefit da inorridire. La gente mica è stupida. Come si può chiedere di
stringere la cinghia a chi non arriva a fine mese quando si ha a disposizione, a
Palazzo Madama, barbieri e ristoratori. Tutto ciò costa 23 miliardi di euro
anno. La politica vuole assumersi la responsabilità di passare dal graffiare
all'“arare a fondo”?
L’idea
che sta avanzando nel paese è che tutti coloro che ricoprono una carica
elettiva fanno parte della Casta e che la Casta è uno sperpero di denaro
pubblico. Non ci vorrà molto, dopo che tutti si saranno convinti che deputati e
senatori sono troppi, a far passare l’idea che avere due Camere è un lusso
che non ci possiamo più permettere, che forse ne basterà una sola, magari con
poche decine di rappresentanti, e poi sarà un bel risparmio abolire anche
quella (...tanto nel “parlamento” si fanno solo chiacchiere...) e affidare
tutto il potere al governo, che basta e avanza!
Questa
proposta, in altri termini, l'ha già fatta Silvio ma le istituzioni hanno il
doppio dei suoi anni e sanno resistere. Non credo che si vada spediti verso una
dittatura che, in quanto tale, non ha alcun costo.
La
vera Casta (cioè i gruppi economici e finanziari – proprietari anche di
quotidiani e televisioni -che non hanno bisogno di passare dalla prova
elettorale per esercitare il proprio potere) ha tutto l’interesse a favorire
lo tsunami anti-casta: meno deputati significa meno controllo, e sarà più
facile comprare i pochi rimasti che saranno emanazione diretta dei partiti di
governo e non più rappresentanti del popolo eletti nel territorio, come voleva
la Costituzione.
La
bozza presentata mentre scrivo prevede un taglio a metà del parlamento come,
tra gli altri, da noi proposto. Prevede altresì un tetto per gli stipendi dei
consiglieri regionali. E sin qui ci troviamo d'accordo. Purtroppo prevede anche
una concentrazione ulteriore di potere che cozzerà, inevitabilmente, con la
Costituzione. Non so, francamente, se sarà più facile la compravendita di
deputati come accaduto nei mesi scorsi. Non è questione di numeri ma di
rettitudine.
L’operazione,
pianificata dalla P2 di Licio Gelli, di svuotare il parlamento delle sue
prerogative di rappresentanza popolare e controllo sull’esecutivo, dopo essere
passata dalla liquidazione del sistema proporzionale al presidenzialismo di
fatto, si sta concludendo con la spallata dell’anti-casta.
Ma
il problema è anche l'esecutivo e non solo il legislativo. L'attuale esecutivo
ha incluso persone colluse con la criminalità organizzata mentre il precedente
di centro sinistra superò quota cento poltrone. Possiamo mettere una dead line
anche qui?
Si
riempiono le pagine di facebook e dei giornali con invettive contro l’indennità
di funzione parlamentare, e si tace (con rare eccezioni nel mondo pacifista,
nonviolento e cattolico) sulla voragine delle spese militari, dei costi per i
cacciabombardieri F35 e per le missioni di guerra in Afghanistan e Libia.
Basterebbe il taglio del 10% di queste voci per coprire l’intera manovra, ma
si preferisce dissertare su quanto costano i viaggi aerei dei parlamentari che
vanno a Roma.
Concordo.
Le spese militari si aggirano sui 30 miliardi all'anno. Gli F35, secondo
Altreconomia verranno in toto a costare 20 miliardi. Già con questi 50 siamo a
livelli dell'intera manovra.
Evidentemente
c’è una regia. I direttori dei quotidiani, da Repubblica al Corriere, da
Libero al Giornale (che hanno stipendi più alti dei parlamentari) attaccano la
Casta, come se loro stessi non ne facessero parte, e si guardano bene dallo
spiegare ai lettori che vi è un’altra Casta – quella militare – che pesa
veramente sul debito pubblico; non spiegano i costi della Finmeccanica perché i
loro editori fanno parte della stessa famiglia industriale. E’ molto più
facile e popolare giocare al tiro al piccione-parlamentare che studiare e
denunciare il complesso militare-industriale.
Due
facce della stessa medaglia. Io non voglio salvare l'uno e diminuire l'altro. Mi
affido alla Costituzione che introduce il concetto di proporzionalità. Quindi,
sacrifici per tutti, ma patrimoniale per i ricchi e ridimensionamento per gli
apparati: politico e militare.
Se
c’è un motivo serio per condannare il Parlamento è quello di aver violato la
Costituzione, che “ripudia la guerra”, con il voto a favore dei Bilanci
militari e delle missioni belliche all’estero. Se tutti gli anti-casta
concentrassero le loro energie su questo, avremmo risolto gran parte dei nostri
problemi.
Non
mi considero un'anti-casta, in quanto sono iscritto ad un partito e sono attivo.
Ma l'attenzione la vorrei rivolgere a 360°. Me medesimo. Ho trovato
semplicemente volgare una manovra che salvaguardava la classe politica imponendo
sacrifici ai più. Per dirla con Famiglia Cristiana una vera e propria
macelleria sociale.
Mao
Valpiana Verona, 20 luglio 2011
Fabio
Pipinato Trento, 22 luglio 2011
E
la monnezza arrivò a Bush di Stefania Maurizi
Espresso
- 20 luglio 2011
I
nuovi cablo rivelano il dossier Usa del 2008 sui rifiuti di Napoli: con Prodi
che sognava di esportare la spazzatura nel terzo Mondo e Bassolino che teneva
pulita la zona intorno a casa sua(21 luglio 2011)La monnezza campana? Ieri come
oggi, l'unico modo di liberarsene è l'export. Con una variante molto poco etica
che venne presa in esame dal governo di centrosinistra: mandarli nel Terzo
mondo. "Prodi ha detto che non c'è una soluzione a breve termine per i
rifiuti di Napoli. L'Italia aveva considerato di spedirli nelle nazioni in via
di sviluppo, ma poi ha deciso di non farlo, per evitare di dare l'impressione
che stava sfruttando i paesi poveri".
L'ambasciatore
americano Ronald Spogli riferisce a Washington le confidenze dell'allora premier
Romano Prodi: siamo nel 2008 e quella colata di sacchetti neri che sommergeva
Napoli avrebbe contribuito al tracollo dell'esecutivo e alla successiva vittoria
berlusconiana. Tre anni dopo però la crisi rimane senza via d'uscita e ora il
sindaco Luigi De Magistris propone un piano simile: imbarcare i rifiuti e
portarli all'estero.
I
cablo riservati di WikiLeaks, che "l'Espresso" pubblica in esclusiva,
raccontano quanto lo scandalo dei rifiuti invincibili incida sulla credibilità
del nostro Paese. I rapporti del consolato di Napoli, obbligato a convivere con
il disastro, offrono un punto di vista molto pragmatico della situazione.
I
diplomatici statunitensi fanno un "monnezza tour" tra bambini rom che
scalano montagne di spazzatura, un Everest di rifiuti in un "sito dove c'è
un cartello "vietato scaricare"" e sottolineano: "E'
interessante notare come non ci siano sacchetti nella maggior parte delle aree
turistiche, nel quartiere Chiaia vicino al consolato o a Posillipo, dove vive il
presidente della Regione Antonio Bassolino".
Un
ex professore napoletano ormai trasferito negli States spiega che "è solo
per pura fortuna se la città non ha avuto un'epidemia di colera". La loro
preoccupazione principale è per i militari della Sesta flotta e fanno sapere a
Washington che il comandante della Us Navy ha commissionato uno studio su larga
scala sui rischi per la salute e sulla "contaminazione del suolo,
dell'acqua e del cibo in tutta la regione". Una ricerca top secret:
"E' un dato sensibile e ancora non è pubblico. Il governo italiano e le
autorità locali fanno parte del comitato di studio, ma dobbiamo tenerci stretta
per noi questa notizia".
Cercano
informazioni ovunque per capire cosa ci sia dietro quel caos: si rivolgono anche
alle loro gole profonde nell'ufficio del Commissario per l'emergenza, allora
affidato al prefetto Alessandro Pansa. Confermando l'impressione iniziale:
"Il nostro contatto ci ha detto che lui non ha visto alcuna prova che
dietro (la crisi) ci sia la camorra". L'arrivo di Berlusconi al potere non
cambia le cose: dietro gli slogan i guai restano intatti. A fine dicembre 2008 i
file registrano come "le foto di Napoli sepolta sotto cumuli di spazzatura
abbiano causato cancellazioni di massa nelle prenotazioni turistiche".
E
scrivono: "Gli sforzi per riabilitare Napoli dopo la crisi dei rifiuti sono
completamente falliti. (Le autorità) Sembrano credere che basti solo lavorare
sull'immagine, invece che sui problemi reali come la criminalità e il traffico
caotico". Nell'agosto 2009 il consolato propone alla Regione "di
adottare impianti per la gassificazione dei rifiuti con tecnologia Usa a
bassissime emissioni".
Ma
alla fine i cablo registrano la disfatta: "Lo smaltimento illegale di
rifiuti tossici da parte della criminalità organizzata continua senza sosta. La
Campania ha il 50 percento del suolo contaminato di tutta l'Italia".
Ma
chi sono questi 'faccendieri'? di Giorgio Bocca
Espresso
- 21 luglio 2011
I
giornali li chiamano così, ma in realtà si tratta di pidocchi. Che si
attaccano ai politici e offrono loro case in centro, regali esentasse, lussi e
comodità. Corrompendo la democrazia Bisignani(22 luglio 2011)Chi sono i
faccendieri di cui sono piene le cronache e i moralismi? Come è possibile che
questi pidocchi del malcostume corrente siano scelti come persone di fiducia da
ministri e da alti funzionari dello Stato? A leggere ciò che ne scrivono i
cronisti parlamentari o di gossip mondano, sono dei "bru bru" che ogni
professionista per bene, giudice, avvocato, ingegnere, professore si guarderebbe
bene dal frequentare.
E
allora perché i nostri politici se ne circondano e li usano? Il mistero di
Pulcinella è stato svelato dal nostro Filippo Ceccarelli, con il garbo
micidiale che gli si conosce. Per la casa: non la casa qualsiasi dei cittadini
normali ma la casa in vista di Montecitorio, raggiungibile magari a piedi in
ogni ora del giorno e della notte anche se ci sono tumulti o scioperi. Una casa
con vista del Colosseo o vicino al Pantheon.
Si
dirà: ma che bisogno hanno dei faccendieri personaggi cui certo il denaro non
manca? E' evidente: perché per trovare delle case con quei requisiti è
indispensabile per i potenti avere le mani in pasta nel mercato immobiliare, nei
suoi non sempre limpidi do ut des, nelle frequentazioni degli altri faccendieri.
L'elenco
dei piaceri e dei lussi dei faccendieri portati alla ribalta dagli ultimi
scandali mette i brividi. Rischiano la galera, l'esclusione dalla buona società,
la nomea di cafoni, e di emulare i "pescicani" della prima guerra
mondiale, gli arricchiti volgari: automobili fuoriserie da centinaia di migliaia
di euro, orologi da 20 mila euro, barche da ormeggiare a Portofino e feste
continue per accontentare le mogli volgari e insaziabili che si scelgono come
uomo della vita un faccendiere.
Ha
colto nel punto debole i nostri potenti il cronista di modi gentili ma di penna
tagliente. Se tu uomo di governo vuoi la casa in vista di Montecitorio devi
tenerti in squadra il faccendiere che ha passato la vita a frodare il fisco e a
fare loschi commerci. Quello che potenti di oggi, i ministri e i vari funzionari
che si servono dei faccendieri, non riescono a capire è che l'unico modo per
far parte degnamente di una classe dirigente è il taglio dai comodi e dai
piaceri legati ai servi senza stile e senza morale.
Il
ragionamento che i potenti fanno è chiaro, ed è lo stesso che faceva Enrico
Mattei con i fascisti della prima Repubblica: io questi nemici o estranei alla
democrazia li adopero come si adopera un taxi, salgo, mi faccio portare dove
devo andare, e chi si è visto si è visto.
Non
è così: l'antifascismo democratico ha predicato per tutto il regime
l'intransigenza, ha insegnato a generazioni che era un errore venire a patti e a
commerci con gli uomini del regime, l'opposizione a un regime autoritario non è
possibile se poi si condividono i lussi, i condizionamenti, i comodi del potere.
Il
ministro che per sposarsi ha bisogno di andare nella località del lusso massimo
della Penisola sorrentina è uno che dà al Paese questo messaggio: io sono uno
che predica bene e razzola male, uno che predica la lotta agli sprechi e la
corretta amministrazione e che poi vi dimostra di avere i desideri e i piaceri
dei faccendieri. In occasione dei matrimoni dei nostri uomini politici vige
ancora la regola quasi obbligatoria della lista dei regali.
Quando
si celebra la cerimonia del potente di turno il ceto dirigente cala per così
dire la maschera e compilando la lista dei regali si confessa in pubblico: che
serve al nostro caro collega di partito e di casta? Un uliveto, una villetta al
mare, un servizio da tavola per ventidue? Esenti dalle tasse.
Ai
tempi del grande potere democristiano la lista dei regali e la loro consegna
assumevano un significato politico. Cronisti e fotoreporter venivano invitati di
fronte alla casa del festeggiato per assistere alla sfilata dei doni, come se
fossero arrivati dall'Oriente su una carovana. Lo spettacolo non destava
scandalo, era un segno manifesto del potere che si mostrava senza veli ai
cittadini.
I
big europei in Africa. E l'Italia dov'è? di Giorgio Bernardelli
MissiOnLine
- 19 luglio 2011
In
questa settimana Angela Merkel, David Cameron e il premier francese Fillon sono
impegnati in tre diverse missioni nell'Africa subsahariana
Anche
le coincidenze a volte possono essere significative. E allora è molto
interessante scoprire dalla lettura dei quotidiani internazionali che tre
premier europei sono impegni nelle stesse ore in altrettanti viaggi nell'Africa
subsahariana. A fare più notizia è il primo viaggio africano del premier
britannico David Cameron. Ma fa notizia soprattutto per il fatto che - a causa
dello scandalo Murdoch - è statao accorciato: Cameron rientrerà oggi a Londra
e non andrà in Ruanda e in Sudan, come era invece in programma. Ma già nelle
precedenti tappe in Sudafrica e in Nigeria il premier britannico non ha mancato
di rendere noto il suo sostegno al progetto di un grande mercato comune
africano. E ha dichiarato la disponibilità della Gran Bretagna a mettere sul
tavolo 160 milioni di sterline per «sponsorizzare» questa iniziativa, vista
con favore dalle imprese britanniche (e non a caso insieme al premier al viaggio
partecipavano una ventina di personalità del mondo economico londinese).
Si
concluderà invece giovedì il secondo viaggio africano della cancelliera
tedesca Angela Merkel, che sta facendo tappa in Kenya, Nigeria e Angola. Anche
lei è accompagnata da una delegazione di industriali tedeschi dei settori della
chimica, dell'elettronica e delle costruzioni. E tra le eccellenze che la
Germania mira a esportare in Africa c'è anche il suo ruolo guida in Europa
nella produzione di energie rinnovabili. Non stupisce poi la tappa in Angola,
uno dei Paesi che sta facendo registrare i più alti tassi di crescita nel
Continente.
Accanto
a Gran Bretagna e Germania non poteva mancare la Francia. E infatti anche il
premier di Parigi, Francoise Fillon, in queste ore è stato in Costa d'Avorio,
Gabon e Ghana. Quest'ultima tappa, in particolare, è degna di nota: il Ghana è
infatti un'ex colonia britannica, ma è anche un altro dei Paesi africani che
oggi fanno registrare le migliori performance economiche. E dunque la Francia
non vuole comunque restarne fuori: durante un Forum economico bilaterale
tenutosi ad Accra sono stati firmati accordi per 50 milioni di euro.
Da
queste notizie appare abbastanza evidente la rincorsa rispetto a Cina e India,
che in questi ultimi anni hanno messo radici profonde nell'economia dell'Africa
subsahariana. L'Europa prova a correre ai ripari, cominciando a capire che
l'aver lasciato colpevolmente l'Africa ai margini è stata un'occasione mancata
anche per la nostra economia.
In
tutto questo, però, viene da chiedersi: e l'Italia? A quando risale l'ultima
visita nell'Africa subsahariana di un presidente del Consiglio italiano o del
nostro ministro degli Esteri? Del governo Berlusconi si ricorda giusto qualche
missione del sottosegretario Alfredo Mantica; ben poca cosa rispetto all'impegno
messo in atto dalle altre cancellerie. E parla impietosamente il caso
dell'indipendenza del Sud Sudan, già denunciato da Mondo e Missione. Alla fine
- appena due settimane prima del fatidico 9 luglio - anche la Farnesina si è
decisa a nominare almeno un suo delegato speciale, il Consigliere d'Ambasciata
Carlo Gambacurta. Meglio tardi che mai.
Venire
qui è stato utile anche per questo di Teresa Poggiali
Repubblica - Mesagne (Brindisi) - 20 luglio 2011
Le
mafie sono un problema per tutti
Durante il viaggio di andata provavo molta emozione per questa
nuova esperienza. È la prima volta che faccio un Campo Antimafia, e prima
dell'anno scorso non ne avevo mai sentito parlare. Confesso, le mie aspettative
non erano molto positive. Secondo me tutto si sarebbe limitato a semplice lavoro
di zappa e rastrello. La mia opinione non poteva essere più sbagliata. È stata
un'esperienza unica nel suo genere, durante la quale abbiamo sì lavorato nei
campi, ma, cosa più importante, abbiamo tenuto degli incontri con persone del
posto, che vivono e hanno vissuto ogni giorno questa realtà, e che ci hanno
parlato della loro esperienza personale ed esposto i problemi relativi alla
Mafia e al sistema carcerario. Proprio per questo, solo venendo qui, ho potuto
scoprire cose nuove e capire che molte cose che già sapevo erano in qualche
modo errate.
Infatti
la Mafia è il soggetto di molte discussioni e assemblee nelle scuole di
Firenze, ma a parlarne sono persone che, anche se esperte, sono comunque molto
lontane da questa realtà, e che, in molti casi, si sono limitati a studiare
l'argomento su libri, giornali: pertanto l'idea che può farsi una ragazza
diciottenne come me è che queste organizzazioni vivano distanti dalla società
e che non possano riguardare un semplice lavoratore che vive tranquillamente la
propria vita. Venire qui mi ha fatto capire che invece le organizzazioni mafiose
sono un problema di tutti. Anche se non sempre direttamente, i traffici illeciti
mafiosi causano danni a tutta la cittadinanza. Come testimoniano le storie
di Gaetano Marchitelli e Michele Fazio, giovani adolescenti che sono morti a
causa di una guerra tra clan rivali per la conquista del territorio per lo
spaccio di droga.
Chiunque
stia leggendo questo articolo potrà provare tristezza e dolore per loro e per i
loro parenti, ma nessuno di voi potrà mai capire i sentimenti che ho provato
guardando negli occhi persone che, mentre ci raccontavano queste storie,
rivivevano quei momenti, quei giorni. Questa è stata una vera e propria
esperienza formativa dove è stata data molta importanza all'informazione: in
questo ha avuto un ruolo di rilievo la festa "Tana Libera Tutti", che
ha avuto luogo la sera del Martedì 19 qui nella Villa confiscata ad Antonio
Screti, boss mafioso. Scopo della festa era quello di far vedere che stiamo
lavorando per cambiare le cose, e che, a modo nostro, stiamo lottando.
Le
persone che ci hanno guidato in questa esperienza ci hanno fatto capire che non
dobbiamo mai arrenderci, che non dobbiamo mai perdere la speranza in una realtà
migliore e che uniti possiamo produrre frutti legali da ciò che era illegale.
Come anche loro ci hanno ripetuto più volte, è importante capire che noi non
siamo eroi, ma che cerchiamo di vivere e lavorare da persone giuste, come
dovrebbe fare una qualunque persona. Certo, è difficile farlo sapendo che in un
qualunque momento un mafioso potrebbe decidere di mettere fine alla tua vita,
ma, come ha detto Borsellino: "Chi ha paura muore tutti i giorni, chi non
ha paura muore una volta sola".
Quel
filo sottile che lega la crisi nel Corno d’Africa e il welfare italiano di
Gianni Alioti
Unimondo
- 25 Luglio 2011
Le
immagini della carestia che ci giungono dal Corno d’Africa, devono interrogare
la nostra coscienza e costringerci a riflettere sulle cause che l’hanno
prodotta. Non si tratta di una “catastrofe naturale” di un “castigo
divino”, ma della responsabilità degli uomini e delle logiche che continuano
a governare le scelte dei singoli Stati e della comunità internazionale.
Ci
sono fili sottili, ma non invisibili per chi li vuole vedere, che legano la
crisi ambientale prodotta dal Nord del mondo con la povertà estrema nel Sud, la
finanza globale con la crescita delle disuguaglianze sociali e la distruzione
delle risorse naturali, il complesso militare-industriale con la crisi dei
debiti sovrani, le guerre, il terrorismo e l’aumento delle spese militari con
i bambini che muoiono di fame.
La
politica nella sua interezza, in Italia come altrove, nasconde questi fili, per
ignoranza o interesse. Per l’umanità e la “madre terra” il risultato non
cambia.
Sono
passati 50 anni e l’ammonimento di Eisenhower, a non permettere che il peso
della combinazione di poteri tra l’immenso corpo di istituzioni militari e
un’enorme industria di armamenti mettesse in pericolo le nostre libertà o i
processi democratici, è rimasto inascoltato. Gli Stati Uniti, nonostante la
contrapposizione con l’ex-blocco sovietico fosse ormai alle spalle, dal 1995
al 2010 hanno incrementato costantemente il loro budget annuo destinato alle
spese militari, passando da 279 a 698 miliardi di dollari (il 150% in più). In
percentuale annua sul PIL gli Usa sono passati nello stesso periodo da meno del
3 al 4,8%.
Complessivamente
il Pentagono ha gestito negli ultimi quindici anni oltre 7.000 miliardi di
dollari, alla faccia di quanti credono ancora che negli Usa non ci sia un
intervento dello Stato nell’economia. A queste spese bisogna aggiungere, come
minimo, altri 1.300 miliardi dichiarati dall’amministrazione americana per i
costi sostenuti - fino al 2010 - per le guerre in Afghanistan e Iraq. In realtà,
un recente rapporto della Brown University stima questi costi tra i 3.700 e i
4.400 miliardi di dollari, pari a un quarto del debito pubblico americano e
molto di più di quanto speso nel corso della seconda guerra mondiale.
Nonostante
il debito pubblico negli Usa sia passato nello stesso periodo (1996-2010) da
4.900 a 14.294 miliardi di dollari, una cifra quasi corrispondente all’intero
PIL, l’amministrazione Obama - finora - sul terreno delle spese militari non
ha rappresentato una vera discontinuità. Nel 2011 e 2012 il budget del
Pentagono è stato ridotto in minima parte rispetto al 2010. E pur profilandosi
all’orizzonte nuove tasse sui consumi e tagli alla spesa sociale e sanitaria
per abbattere il debito pubblico di 4.000 miliardi di dollari in dieci anni, per
le spese militari si parla di una possibile riduzione di soli 400 miliardi di
dollari nei prossimi quattro anni. Evidentemente, le grandi corporate
produttrici di sistemi d’arma, come Lockeed Martin, Boeing, Northrop Grumman,
General Dynamics ecc. e i grandi network che si arricchiscono con il business
della sicurezza dai contractors all’alta finanza, continuano a influenzare le
politiche economiche e le scelte di bilancio Usa (come Finmeccanica fa - con le
debite proporzioni - in Italia).
Eppure
basterebbe affiancare su un grafico l’andamento del debito pubblico negli Usa
con quello delle spese militari dal 1995 al 2010, per accorgersi che le due
curve pressoché coincidono, confermando il filo che lega il peso del complesso
militare - industriale con la crisi dei debiti sovrani.
E
che guerre e spese militari siano tra le cause strutturali della crisi economica
e finanziaria, non riguarda solo gli Stati Uniti, ma il mondo intero. Basti
pensare alla piccola Grecia che, pur in bancarotta, ha continuato a destinare il
3,2% del PIL alle spese militari (oltre dieci miliardi di dollari l’anno).
Oppure
l’Italia che, con un debito pubblico di oltre 2.700 miliardi di dollari, e
nonostante l’integrazione europea, continua a mantenere un modello di difesa
nazionale con 190mila militari, di cui il 45% composto da ufficiali e
sottoufficiali. Negli ultimi dieci anni abbiamo speso in campo militare oltre
400 miliardi di dollari e, se non bastasse, partecipiamo a un programma per la
realizzazione e l’acquisto di 131 cacciabombardieri F35, che c’è già
costato oltre 2 miliardi e 700 milioni di dollari e che comporterà - ai prezzi
attuali - un esborso di altri 26 miliardi di dollari nei prossimi anni.
A
queste spese dobbiamo sommare il finanziamento delle missioni militari
all’estero (compresa la partecipazione alle guerre in Afghanistan e Libia): un
altro miliardo di euro l’anno fino al 2008, cresciuti a 1,5 miliardi di euro
l’anno dal 2009 al 2011. Ma l’ipocrisia istituzionale ascrive questi costi a
“interventi di cooperazione allo sviluppo e a sostegno dei processi di pace e
di stabilizzazione, nonché delle missioni internazionali delle forze armate e
di polizia [...]”. E’ vergognoso che Parlamento, Governo e, persino, il
Presidente della Repubblica non chiamino le cose per quello che sono, visto che
la componente civile delle missioni all’estero è solo dell’1,5% contro il
98,5% della componente militare.
Di
fronte a tutto ciò crea sconcerto, come ci ha ricordato Sergio Paronetto di Pax
Christi, l’assenza nella politica, nell’economia - e nello stesso linguaggio
- di parole come disarmo e pace. La preoccupazione principale di governo e
opposizioni è quella di rassicurare la finanza sui rischi d’insolvenza del
debito, mettendo le mani nelle tasche dei cittadini e tagliando il welfare e i
servizi pubblici. Nessun accenno, invece, alla riduzione delle spese militari,
cancellando costosissimi sistemi d’arma e riducendo le forze armate.
Non
ci consola che sia un problema non solo italiano. Nel mondo, infatti, la spesa
militare ha raggiunto la cifra esorbitante e preoccupante di 1.630 miliardi di
dollari, con un incremento del 50% rispetto al 2001. Equivale a 236 dollari
pro-capite, che per un miliardo di persone corrisponde al proprio reddito annuo.
Con
questi numeri torniamo da dove eravamo partiti. Nel Corno d’Africa, oltre ai
morti a causa della guerra e terrorismo, “...tanti ne uccide la fame”.
Eisenhower, da ex-generale dell’esercito, oltre che 34° Presidente degli
Stati Uniti, seppe cogliere già nel 1953, quello che politici ed economisti non
vogliono vedere oggi, cioè il filo che lega le spese militari crescenti con i
bambini che muoiono di fame: “[...] ogni ordigno prodotto, ogni nave da guerra
varata, ogni missile lanciato significa, infine, un furto ai danni di coloro che
sono affamati e non sono nutriti, di coloro che sono nudi ed hanno freddo.
Questo mondo in armi non sta solo spendendo denaro: sta spendendo il sudore dei
suoi operai, il genio dei suoi scienziati, le speranze dei suoi giovani”.
Pranzo
di lusso: sette euro...
Espresso - 20 luglio 2011
Risotto
con rombo: 3,34 euro. Carpaccio di filetto: 2,76. Dolce: 1,74. Il tutto servito da camerieri in livrea. E' il ristorante del Senato. Terza puntata delle confessioni all'Espresso del parlamentare Carlo Monai: dove non ci parla solo di cibo ma anche di mutui superagevolati, di terme e di massaggi shiatsu a spese del contribuente. Carlo Monai, il deputato dell'Idv che ha deciso di raccontare tutti i privilegi della Casta, continua a stupirci. Racconta
che a Montecitorio e Palazzo Madama arrivano ogni giorno inviti per mostre,
happening vari, sfilate di moda. Il cibo si paga? «Dipende. Il bar della
bouvette è in linea con i prezzi di mercato. Il ristorante, invece, no. Ci
costa in media 15 euro, ma la tavola è apparecchiata come un tre stelle
Michelin, i camerieri sono in livrea, lo chef è bravo e prepara piatti di
grande qualità. Io cerco di non appesantirmi, e ci vado raramente. L'unico
appunto», chiosa sorridendo, «riguarda la cantina: ci sono ottimi vini, ma
nessuna bottiglia friulana». |
Al
Senato si può mangiare uno spaghetto alle alici a 1,60 euro, un carpaccio di
filetto a 2,76 euro, un pescespada alla griglia a 3,55 euro. Prezzi ridicoli. «Anche
in consiglio regionale c'era un buon self service. Primo, secondo, caffè e
frutta a 10 euro». Pure uno shampoo costa poco: la nostra guida è un
frequentatore della mitica barberia della Camera, dove un taglio costa 18 euro
(al Senato, invece, è gratis). «In questo caso, credo che sia un servizio da
conservare: consente al parlamentare di avere sempre un aspetto dignitoso, anche
quando arriva il martedì con i capelli spettinati».
Ma
i servizi dedicati ai politici non finiscono qui. Dentro Montecitorio c'è uno
sportello del Banco di Napoli, diventato famoso perché il consigliere Marco
Milanese ha movimentato, su un conto dell'agenzia Montecitorio, qualcosa come
1,8 milioni di euro in pochi anni. Non è il solo ad aver aperto un conto lì,
visto che gli onorevoli possono approfittare di tassi agevolati per mutui e
prestiti.
Precisa
Monai: «Molti usano la diaria non per affittare la casa a Roma, ma per
comprarla. L'importante è essere rieletti. Per un mutuo di 150 mila euro a
cinque anni il tasso fisso è appena del 2,99 per cento, uno o due punti sotto
quello di mercato. Idem per un prestito: possiamo avere un tasso agevolato al
2-3 per cento».
Anche
le prestazioni sanitarie sono rimborsate: Monai dopo un incidente in cui ha
distrutto una Mercedes ha ottenuto il rimborso di 580 euro di massaggi, e
ammette che il Parlamento gli paga cinque giorni di cure termali l'anno.
I
radicali hanno scoperto altri benefit: occhiali gratis, psicoterapia pagata,
massaggi shiatsu, balneoterapia. Tutti servizi destinati a oltre 5.500 persone,
tra deputati e familiari. Alla Camera, poi, non si chiama mai il 118: ci sono
anche alcuni infermieri nascosti tra gli scranni dell'Aula adibiti a
"rianimare" il deputato nel caso si sentisse male. Costano al
contribuente 650 mila euro l'anno.
Dopo
una vita da nababbo, l'ex parlamentare o il consigliere non viene abbandonato
dalla casta. L'assegno di fine mandato non si nega a nessuno, e il vitalizio
scatta per tutti. Per prendere una pensione bastano cinque anni di mandato alla
Camera o al Senato, (in media 6 mila euro a testa al mese), per una spesa che
nel 2013 toccherà i 143,2 milioni di euro l'anno. Tra le Regioni solo
l'Emilia-Romagna ha abolito il vitalizio, tutte le altre non ci pensano nemmeno:
così nel Lazio può accadere che gli ex e i trombati si prendano 4 mila euro al
mese ad appena 55 anni.
Non
male, in tempo di crisi.
“Si colpiscono i depositi alimentari, ma con quale diritto?” denuncia
Mons. Martinelli
Agenzia Fides - Tripoli - 26 luglio 2011
“Si
stanno colpendo obiettivi civili come i depositi alimentari” denuncia
all’Agenzia Fides Sua Ecc. Mons. Giovanni Innocenzo Martinelli, Vicario
Apostolico di Tripoli. “Pochi giorni fa, aerei della NATO hanno colpito un
deposito alimentare poco fuori Tripoli, che conteneva olio, pasta, salsa di
pomodoro. Un fiume di olio veniva fuori dal capannone distrutto. So che hanno
colpito pure un centro sociale. Ma a che titolo si bombarda un centro
alimentare?” si chiede il Vescovo.
“Inoltre,
ma la notizia l’ho saputa in maniera indiretta e non l’ho verificata di
persona, vi sarebbero delle manifestazioni sulle montagne nei dintorni di
Tripoli a favore di Gheddafi. Anche in questo caso vi sarebbero stati dei
bombardamenti. Non ho notizie di vittime, e non credo ve ne siano, ma è chiaro
che si vuole incutere paura alla gente bombardando nei pressi delle loro
manifestazioni” afferma Mons. Martinelli che riferisce anche della pressione
psicologica alla quale è soggetta la popolazione, a causa “dei continui
sorvoli degli aerei della NATO, specie la notte”.
“I libici dimostrano però riconoscenza nei confronti della Chiesa. Due giorni fa un gruppo di donne è venuto a ringraziarci per le preghiere che abbiamo pronunciato in favore della pace. Ieri ho ricevuto un altro segno, semplice ma toccante, della gratitudine dei libici nei confronti della Chiesa: un signore ci ha regalato una cesta di fichi dicendo ‘questi fichi sono per voi, perché voi siete un segno di amicizia’” conclude Mons. Martinelli. (LM)
Gli "indignados" di Tel Aviv
di Mario Correnti
Il
Manifesto - 25 luglio 2011
Pestaggi,
cariche della polizia a cavallo, una cinquantina di arresti e decine di contusi.
Si è conclusa così la scorsa notte la marcia degli «indignados» di Tel Aviv
che da diversi giorni occupano il boulevard Rotschild di fronte alla centrale
Piazza Habima. Una protesta cominciata con la lotta contro l’aumento degli
affitti nella principale delle città israeliane, le disuguaglianze sociali e il
carovita ormai insopportabile e che si è subito estesa ad altre altre località
del paese.
Alla
manifestazione, alla quale hanno preso parte non meno di 20mila persone, si
erano uniti ieri sera anche i medici della sanità pubblica ed ha rappresentato
un salto di qualità della protesta che vede insieme israeliani di ogni tendenza
politica, non ultimi gli «Anarchici contro il muro» che nell’accampamento di
boulevard Rotschild provano anche ad allagare i temi in discussione
all’occupazione militare dei Territori e ai diritti negati ai palestinesi.
La
mobilitazione sembra espandersi di giorno in giorno e il premier Netanyahu, un
convinto liberista in economia che ha contribuito in questi ultimi anni a
smantellare lo stato sociale in Israele e ad accrescere la povertà, ora
comincia a temere gli «indignados» che assicurano di voler restare a tempo
indeterminato in strada, fino a quando le autorità non prenderanno
provvedimenti concreti.
«La
casa e il pane non sono un lusso» scandivano ieri i manifestanti mentre
sfilavano lungo il centro della città. La risposta della polizia è stata
violenta: cariche, arresti, manganellate. Ma l’accampamento non si muove e
centinaia di persone, in molti casi intere famiglie, rimangono accampate a due
passi da Piazza Habima.
Israele
prima degli altri: chi riconosce il Sud Sudan
Misna
- 26 luglio 2011
“È
un segnale” risponde Petrus De Kock, esperto dell’Istituto sudafricano per
gli affari internazionali, quando la MISNA gli chiede perché Israele ha fatto
tanto presto. Finora gli Stati che hanno riconosciuto ufficialmente il Sud Sudan
sono 88, ma qualcuno ha giocato d’anticipo.
Il
7 luglio, due giorni prima della proclamazione d’indipendenza da Khartoum, il
primo ministro Benjamin Netanyahu aveva promesso “cooperazione e amicizia” e
fatto riferimento ai circa 8000 sud-sudanesi fuggiti in Israele durante la
guerra civile combattuta tra il 1983 e il 2005. Con gli ex ribelli oggi al
governo del 54° Stato africano, in effetti, Tel Aviv ha legami storici.
“Israele ha garantito assistenza militare e di intelligence per decenni, fino
al punto di inviare propri ufficiali in territorio sudanese” sottolinea Hani
Raslan, esperto del Centro di studi strategici e politici dell’università
al-Ahram del Cairo.
Decisiva,
nel passato e nel futuro, la partita del Nilo. Secondo De Kock, Israele esercita
da decenni “una forte influenza” in Uganda e Sud Sudan e ora vuole
“condizionare ancora di più le scelte sulla gestione delle acque del
fiume”. L’obiettivo principale di Tel Aviv sarebbe tenere alta la pressione
sull’Egitto, un paese chiave per qualsiasi soluzione della questione
palestinese dove la caduta del presidente Hosni Mubarak ha aperto una
transizione piena di incertezze. Sulla base di un trattato di epoca coloniale Il
Cairo ha diritto al 55% dell’acqua del Nilo, ma l’anno scorso sette governi
africani hanno firmato un accordo che mette in discussione questa suddivisione.
L’amicizia di Israele con il Sud Sudan si spiegherebbe con il fatto che nella
ricerca di un compromesso la posizione del nuovo Stato sarà fondamentale.
Un
secondo obiettivo sarebbe tenere sotto scacco i “nemici” di Khartoum,
fortemente dipendenti dalle esportazioni del petrolio sud-sudanese. Il governo
di Omar Hassan al-Bashir è sospettato da Israele di favorire il passaggio di
armi verso la Striscia di Gaza e i Territori palestinesi occupati. Ad aprile
l’aviazione di Tel Aviv è stata accusata di aver distrutto nei pressi della
città di Port Sudan un’automobile che trasportava due presunti esponenti del
movimento palestinese Hamas, incaricati pare della consegna di un carico di
armi.
Tom
Wheeler, un ex ambasciatore sudafricano con alle spalle 40 anni di carriera
diplomatica, dice alla MISNA che i tempi del riconoscimento dell’indipendenza
del Sud Sudan possono essere influenzati dalla “burocrazia” o da altri
fattori estranei alla politica. Di sicuro, però, a Tel Aviv hanno le idee
chiare. “Le società israeliane alla scoperta del Sud Sudan” ha titolato nel
fine-settimana “Yedioth Ahronot”. Il quotidiano fa risalire l’inizio delle
relazioni speciali a un ricovero in un ospedale israeliano dell’eroe
guerrigliero John Garang, ferito a un occhio durante uno scontro a fuoco, e
racconta ora di nuove opportunità.
In
prima fila ci sono Solel Boneh Overseas, Sarel e Fujicom Israel, società
all’avanguardia nella realizzazione di infrastrutture, nella fornitura di
materiale sanitario, nell’informatica e nell’elettronica. C’è, poi, il
passato che ritorna. “Esperti della difesa hanno già contattato ufficiali
sud-sudanesi per avviare programmi di addestramento per la polizia e
l’esercito – scrive ‘Yedioth Ahronot’ – mentre una società con sede a
Ramat Hasharon è stata incaricata di elaborare un piano per la messa in
sicurezza del presidente Salva Kiir e della sua scorta”.
Sette milioni di giovani prede delle organizzazioni criminali
Agenzia Fides - Città del Messico - 26 luglio 2011
Sette
milioni di giovani non studiano e non riescono a trovare un lavoro, e rischiano
di essere risucchiati dalle organizzazioni criminali che perfezionano le loro
reti per arruolare sempre di più elementi giovani che vivono questa situazione
disperata. L’allarme viene dal settimanale "Desde la Fe"
dell'arcidiocesi di Mexico, inviato all'Agenzia Fides. Il periodico ricorda che,
secondo i rapporti ufficiali, in America Latina ci sono quasi 40 milioni di
giovani tra i 15 ed i 29 anni dal futuro incerto, in quanto non studiano né
lavorano (sono chiamati “Ninis”): questa cifra rappresenta la quarta parte
della popolazione di quella età.
In
Messico questo numero raggiunge sette milioni di giovani e costituisce la
popolazione giovanile più vulnerabile. L'arcidiocesi evidenzia che "mentre
la rete della criminalità organizzata migliora ed espande il suo potenziale di
attrarre milioni di giovani senza opportunità, le politiche pubbliche per
assisterli ‘dormono il sonno dei giusti’.” Il testo dell’arcidiocesi
prosegue: “Questa è la popolazione giovanile più vulnerabile, perché non ha
un’occupazione o un mestiere, cade nei vizi, o vive alla disperata ricerca di
qualsiasi opportunità di lavoro che non arriva, quindi sono tentati di
accettare le proposte dal crimine organizzato che offrono soldi a palate, anche
sapendo che c'è il rischio di perdere la vita o la libertà”. Le cifre sono
allarmanti: l'80 per cento delle carceri sono occupate da giovani tra i 20 e i
35 anni, le vittime di crimini violenti 9 volte su 10 sono giovani.
Non
basta assistere i giovani che studiano per non fargli abbandonare la scuola, ma
occorre offrire opportunità a coloro che non fanno neppure parte del sistema
scolastico, e logicamente tanto meno hanno la possibilità di unirsi alla
popolazione economicamente attiva. Il settimanale riconosce anche che il lavoro
della Chiesa cattolica in questo ambito è diminuito enormemente, perché i
giovani sono sempre più lontani dagli ambienti di fede e da una carente
evangelizzazione per loro. (CE)
Messico,
migranti usa e getta di Alessandro Grandi
PeaceReporter
- 26 luglio 2011
Dura
la vita dei migranti. Oggi rischiano il sequestro e l'obbligo di lavorare per i
narcos
Il
pressing messo in atto dalle forze di sicurezza messicane contro i cartelli
della droga messicani ha costretto i leader delle bande a riorganizzare le
proprie 'truppe'.
Troppi
gli arresti avvenuti negli ultimi tempi. Decine, centinaia di ragazzi, la
manovalanza della morte, finiti nelle (blande) carceri del paese, costringono i
boss a chiamare a servizio nuove leve. Spesso, purtroppo troppo spesso, sono
giovani disoccupati figli di una vita disagiata che aspirano al denaro facile.
Ma
oggi la vera notizia è che la manovalanza, coloro che potranno accedere al
tavolo del boss per diventare killer o guardia del corpo o anche solo
semplicemente un soldato della banda, viene ricercata fra i più disperati dei
disperati: i migranti.
La
certezza è una: il famigerato gruppo de Los Zetas, forse uno dei più temibili,
violenti e potenti del Paese, sta sequestrando migranti, non fa differenza se
siano uomini e donne, per trasformarli nel loro personale esercito di
riservisti.
In
effetti, le modalità del sequestro sono assai particolari e non prevedono
affatto una richiesta di riscatto alla famiglia. I sequestrati infatti, dovranno
lavorare per i cartelli a tempo pieno, rispettando gli ordini impartiti. La loro
vita comunque non vale molto. Anzi vale meno di un dollaro.
La
conferma del nuovo metodo per arruolare personale criminale arriva da un
esperto, padre Alejandro Solalinde, leader del movimento pacifista "Paso
paso hacia la paz". Solalinde che ha scoperto già un paio di anni fa il
metodo dei cartelli definisce la nuova manovalanza "usa e getta" per
sottolinearne come i cartelli li ritengano solo merce per i loro sporchi affari.
"Una
volta rapiti, magari dopo aver fatto ingresso nella zona meridionale del
Messico, in Chiapas, i migranti sono in trappola. E sono costretti a stare alle
regole dei narcos e a lavorare per loro. Questo può avvenire all'interno del
territorio di competenza o al di fuori. E che nessuno tenti la fuga perchè si
firma la condanna a morte" racconta padre Alejandro. "Ho avuto
informazioni secondo cui alcuni di questi migranti sotto sequestro avrebbero
messo a segno una carneficina a Veracruz" ricorda Solalinde che racconta un
altro episodio. "Le famiglie dei migranti non hanno più loro notizie. Solo
una volta ho saputo che due giovani hanno comunicato con casa dicendo di
dimenticarsi di loro: una volta dentro all'ambiente è quasi impossibile
uscirne".
D'altronde
il sacerdote, che è responsabile della pastorale dei migranti della conferenza
episcopale messicana, ne ha viste e sentite di tutti i colori e non saprebbe
dare una soluzione pratica al tragico e intricatissimo problema dei migranti.
Oltre a mettere a rischio la loro vita per raggiungere gli Usa e aiutare la
propria famiglia rimasta nel paese d'origine, oggi sono sono sotto scacco delle
bande criminali che li usano e poi se ne disfano. "Sono gli schiavi del
nuovo millennio. E credo che per loro l'unica cosa positiva sarebbe finire in
prigione" conclude padre Solalinde.
Per
i prossimi giorni sono attese manifestazioni in tutta l'area del centroamerica
contro i rapimenti e le violazioni dei diritti umani ormai diventata una
consuetudine troppo tollerata.
L’Onu apprezza il “costruttivo” incontro fra Aung San Suu Kyi e un
ministro birmano
AsiaNews
- Yangon - 26 luglio 2011
La
leader dell’opposizione e il ministro del lavoro a colloquio per oltre
un’ora. Pochi dettagli sui temi, ma l’attenzione ruota attorno alla legge e
al diritto. Possibili nuovi incontri in futuro. Ban Ki-moon incoraggia il
dialogo e rinnova l’appello per la liberazione dei duemila prigionieri
politici nel Paese.
Un
incontro definito da entrambe le parti soddisfacente e costruttivo, che ha
registrato oggi l’apprezzamento del segretario generale Onu, Ban Ki-moon. Il
faccia a faccia di ieri fra Aung San Suu Kyi e un rappresentante del governo –
insediatosi nell’aprile scorso ed emanazione del regime militare – sono un
primo (timido) tentativo di dialogo fra l’opposizione democratica e la
leadership birmana; i due fronti hanno inoltre anticipato nuovi incontri in un
futuro prossimo.
Ieri
pomeriggio in un ufficio governativo a Yangon, la Nobel per la pace ha avuto un
incontro di circa 70 minuti con Aung Kyi, ministro birmano del Lavoro oltre che
responsabile del Welfare e della Protezione civile. Egli è anche il funzionario
del regime birmano prima e del governo civile ora – frutto delle elezioni
“farsa” del novembre 2010 e insediato ad aprile – incaricato dal
generalissimo Than Shwe di curare i rapporti con la “Signora”. Si tratta del
nono incontro (nella foto) fra la Suu Kyi e Aung Kyi.
Al
termine della riunione, la leader della Lega nazionale per la democrazia (Nld)
ha dichiarato che “qualunque cosa si faccia o con chiunque si parli, la nostra
più grande speranza resta il bene del Paese e della gente”. Di contro, il
funzionario birmano ha aggiunto: “possiamo dire che si tratta del primo passo
– anticipa Aung Kyi – verso la cooperazione, con un occhio particolare
improntato al lavoro da fare in futuro”. I due non hanno voluto però
precisare i dettagli dei colloqui, restando sul vago; tuttavia l’attenzione
ruoterebbe attorno alla legge e al diritto in Myanmar, dove dilagano corruzione
e repressione dell’opposizione politica.
Oggi,
infine, è intervenuto il segretario delle Nazioni Unite Ban Ki-moon, il quale
ha accolto con favore l’incontro fra Aung San Suu Kyi e il ministro birmano.
La segreteria generale Onu – si legge in una nota – “incoraggia simili
contatti e il dialogo” e rinnova l’appello al governo birmano per la
liberazione degli oltre 2mila prigionieri politici rinchiusi nelle carceri del
Myanmar.
Tensioni
in stato Kachin, continua la fuga dei civili
Misna
- 25 luglio 2011
Fuggono
in centinaia dai villaggi attorno a Banmaw (Bhamo) temendo ulteriori scontri tra
militari governativi e miliziani dell’Esercito indipendentista Kachin (Kia):
il numero dei profughi, dall’inizio del conflitto nello Stato settentrionale
Kachin lo scorso 9 giugno, avrebbe ormai raggiunto le 20.000 unità, di cui una
minima parte riparata oltre confine, in Cina.
Secondo
un portavoce dell’Organizzazione indipendentista Kachin (Kio), braccio
politico del Kia, le autorità birmane avrebbero ordinato a migliaia di abitanti
di abbandonare le aree di Kala yang, Kazue e Tapant entro oggi, facendo temere
l’avvio di una vasta offensiva contro le basi dell’esercito Kachin a Laiza.
Nel
fine-settimana il governo ha invitato il Kia a un cessate-il-fuoco nello Stato
Kachin, ma non in tutte le aree delle minoranze etniche oggi tetro di tensioni,
come nel vicino Stato Shan. Per questo motivo, il Kia avrebbe respinto la
proposta, chiedendo colloqui con i rappresentanti di tutte le minoranze etniche.
“Il
rinnovato conflitto nello Stato Kachin è un esempio di quel che il paese deve
aspettarsi se continuano ad aumentate gli investimenti stranieri” ha sostenuto
Paul Sein Twa, esponente del ‘Burma Environmental Working Group’, gruppo di
organizzazioni per una gestione dello sviluppo compatibile con la protezione
dell’ambiente, autore di un rapporto sulla problematica dell’amministrazione
delle risorse ambientali in Myanmar. Nelle intenzioni del governo, lo Stato
Kachin deve diventare il ‘motore’ di produzione elettrica del paese, grazie
alla costruzione di impianti e dighe idroelettriche da parte di partner cinesi.
Un progetto che – sottolinea il gruppo di lavoro – “se verrà realizzato
senza una reale partecipazione multietnica e senza un quadro di regolamentazione
rigoroso, continuerà a essere fonte di conflitto”.
Denaro
ed energia alimentano il conflitto fra esercito birmano e minoranze etniche di
Yaung Ni Oo
AsiaNews Yangon - 27 luglio 2011
Attivisti
e ambientalisti puntano il dito contro dighe, infrastrutture e sfruttamento
delle materie prime: arricchiscono la leadership politica e mettono in ginocchio
il popolo. Nello Stato Karen migliaia di famiglie senza casa per
un’autostrada. La diga di Myitsone (Kachin) causa di danni gravissimi;
l’azienda cinese che cura il progetto ne vuole costruire altre sette.
Dietro
gli scontri fra esercito governativo e minoranze etniche, sfociati nello Stato
Kachin (nel nord del Myanmar) in una vera e propria guerra civile, vi sarebbero
interessi economici miliardari legati alla costruzione di dighe, infrastrutture
e sfruttamento delle materie prime. Lo denunciano ambientalisti e attivisti
birmani, secondo cui le decine di progetti promossi o finanziati dall’estero
– in particolare da gruppi e imprese cinesi – alimentano ed esasperano la
crescente tensione fra i gruppi armati e i militari. Intanto la popolazione
civile è vittima di espropri forzati, omicidi e stupri, mentre l’ecosistema
naturale rischia danni gravissimi e permanenti.
Il
Karen National Liberation Army (Knla), braccio armato della minoranza etnica a
est del Paese, lungo il confine con la Thailandia, ha bloccato la costruzione di
una imponente via di comunicazione diretta al porto di Dawei, dove sorge un polo
industriale del valore di otto miliardi di dollari. La costruzione
dell’autostrada – lunga circa 160 km – avrebbe già colpito le popolazioni
dislocate nell’area: almeno duemila famiglie saranno costrette ad abbandonare
le loro case, senza risarcimenti adeguati. Il governo birmano – frutto delle
elezioni “farsa” del novembre 2010 e insediatosi nell’aprile scorso –
avrebbe inoltre venduto i terreni situati attorno all’autostrada a investitori
e uomini di affari, legati alla leadership politico-militare che domina il
Paese. Le riforme economiche e le privatizzazioni promesse dall’esecutivo, in
realtà, sono un pretesto per favorire accoliti o imprenditori fedeli alla
giunta. E le leggi che dovrebbero regolare le proprietà terriere in Myanmar
sono vaghe e interpretate a vantaggio dei potenti.
Intanto
prosegue la controversia attorno alla costruzione della diga di Myitsone, lungo
il fiume Irrawaddy, nello Stato settentrionale Kachin, al confine con la Cina
(nella foto). Dopo anni di tregua, nel giugno scorso è ripresa la guerra civile
fra l’esercito birmano e le milizie ribelli del Karen Indipendence Army (Kia),
che ha già fatto registrare decine di morti e feriti. Attivisti per i diritti
umani e ambientalisti sottolienano che gli investimenti provenienti
dall’estero contribuiscono ad esasperare il conflitto; fra i principali
imputati vi sono le aziende cinesi, che riversano miliardi di dollari nelle
tasche della giunta militare e stravolgono la vita della popolazione e
l’ecosistema naturale.
La
pericolosità della controversa centrale idroelettrica di Myitsone è
testimoniata anche da un rapporto interno della China Power Investment
Corporation (Cpi), multinazionale cinese responsabile del progetto. Esso
potrebbe causare – secondo il documento – “problemi gravissimi” non solo
nell’area ma in tutto il Paese. Tuttavia i dirigenti della società hanno
glissato sui risultati, tanto che la Cpi ha intenzione di costruire sette
mega-centrali sul fiume Irrawaddy. In totale sarebbero 48 i progetti di centrali
idroelettriche in Myanmar, già avviati o in fase di stesura, di cui 25 simili
alla super-diga di Myitsone. Ad un costo di 35 miliardi di dollari, capaci di
generare 40mila Mw di corrente (destinata al mercato estero) e che porteranno
nelle tasche del governo birmano almeno 4 miliardi di dollari all’anno in
proventi.
Criminalità
all'attacco di Alessandro Grandi
PeaceReporter
- 22 luglio 2011
Troppi
omicidi stanno trasformando il Paese in uno Stato dove vige la legge del più
forte
Il
problema della violenza sta attanagliando l'isola di Portorico. Non ci sono più
dubbi ormai: qualcosa sta cambiando nei rapporti e nei comportamenti della
malavita locale. Troppi omicidi, troppe stragi di ragazzi e uomini, quasi sempre
con precedenti penali legati al mondo della droga, stanno trasformando la
capitale San Juan, ma in generale tutto il Paese, in un'area dove piano piano
andrà in vigore la legge del più forte. E sono in molti quelli che pensano
possa avvenire una 'messicanizzazione' del Paese.
Dubbi
ce ne sono pochi: oggi Portorico non è l'isola incantata che conoscevamo anni
fa. Il grande dispiegamento di forze dell'ordine nelle diverse aree del Paese
non ha prodotto risultati apprezzabili nel contenimento delle attività
criminali.
E
per queste ragioni da inizio anno sono state ben 630 le morti violente
sull'isola. Sembra che le forze di polizia non siano in grado di arginare un
fenomeno che negli ultimi anni è aumentato in maniera dilagante.
Lo
spiega bene anche il report emesso dalle Nazioni Unite, settore Estadisticas de
Crimen y Justicia Criminal. Portorico è l'ottavo Paese al mondo con il più
alto rapporto pro capite fra popolazione e polizia. Si parla di numeri
importanti: poco meno di 600 agenti ogni 100mila abitanti.
In
quest'ottica si deve leggere anche l'abbandono dell'incarico da parte del
sopraintendente della polizia José Figueroa, avvenuto ufficialmente per
questioni legate al suo stato di salute, ma che tutti considerano come un addio
dovuto al fallimento della politica della sicurezza attuata nel Paese.
La
situazione intanto sembra andare sempre più a picco e dalle analisi dei dati in
possesso delle autorità dell'isola si percepisce come il 2011 potrebbe ben
presto trasformarsi nell'anno peggiore sotto il punto di vista della violenza.
Nel 2010 furono 955 gli omicidi. Oggi siamo già a 630 vittime. Il timore è che
quest'anno possa segnare il record degli omicidi.
Nell'ultimo
fine settimana 14 persone sono state uccise in diverse zone dell'isola. Tutte,
secondo la polizia, avevano una qualche relazione con il crimine organizzato e
il traffico di stupefacenti.
Un
brutta faccenda che potrebbe trascinare il Paese, che è Stato Libero ma
Associato agli Usa, in una polveriera.
E
da più parti si fa sempre più largo il pensiero che la colpa di cotanta
violenza debba essere ricercata all'interno delle nuove strategie che le grandi
organizzazioni criminali sudamericane e dedite al traffico di droga, stanno
studiando.
La
grande pressione che gli Usa stanno attuando contro i trafficanti di droga,
soprattutto per quanto riguarda la zona di confine con il Messico, costringe i
cartelli a trovare nuove vie per il trasporto di droga. E cosa c'è di meglio
che un'isola dei caraibi che è già territorio statunitense?
I
dubbi e le considerazioni restano. Di fatto, oggi, siamo qui a contare centinaia
di vittime di una guerra fra bande che porterà solo all'ulteriore impoverimento
di un Paese e, probabilmente, alla perdita di molti suoi altri figli.
Belgrado corre incontro all'Europa
PeaceReporter
- 22 luglio 2011
Il
criminale di guerra non ha presentato ricorso contro la richiesta di
estradizione
"La
Serbia ha adempiuto i suoi obblighi morali, ha chiuso una pagina oscura del suo
passato e ora volge il suo sguardo verso nuove questioni". Con queste
parole, il vice procuratore del Tribunale per i crimini di guerra di Belgrado,
Bruno Vekaric, ha commentato con PeaceReporter l'arresto di Goran Hadzic,
trovato mercoledì a Krušedol sui monti di Fruška Gora dopo sette anni di
latitanza, ed estradato venerdì al Tribunale internazionale per i crimini di
guerra in ex Jugoslavia (Icty).
Hadzic,
a differenza di Mladic e Karadzic, ha assunto un atteggiamento collaborativo:
egli stesso ha raccontato dei suoi anni di latitanza trascorsi in Russia, dove
aveva anche un lavoro, con la complicità e il finanziamento di mercanti d'armi
e signori della guerra che durante il conflitto nei Balcani si sono arricchiti
grazie alle generose commesse dell'ex presidente della Republika Srpska Krajina.
La seconda vita di Hadzic si è conclusa quando sono venuti a mancare i fondi e
ha provato a vendere goffamente un quadro di Modigliani che era stato rubato
durante gli anni della guerra.
Il
criminale di guerra Goran Hadzic non ha presentato ricorso contro la richiesta
di estradizione. Questo suo atteggiamento gli ha garantito un "trattamento
di riguardo" da parte delle autorità che gli hanno concesso, prima della
partenza per l'Aja, di visitare a Novi Sad sua madre - gravemente ammalata - che
non vedeva da sette anni. Allo stesso modo, la moglie e il figlio hanno
incontrato Hadzic nel carcere, così come ha potuto fare la sua nuova compagna
(che non vedeva da almeno un paio di anni) e la sua ultima bambina concepita
durante la latitanza.
L'aereo
partito dall'aeroporto Nikola Tesla è arrivato a Rotterdam intorno alla 13:00
di venerdì. Si è chiusa così, con quell'atterraggio, "una pagina
oscura" del passato serbo. Per Belgrado, adesso, non ci sono più ostacoli
lungo il percorso diretto a Bruxelles.
I bimbi del campo di Dadaab, vittime dell’inferno somalo
di Matteo Fraschini
Koffi
Avvenire
- 24 luglio 2011
«L’angelo
della morte me lo ha portato via ieri», racconta Halima, giovane donna somala e
mamma di quattro bambini troppo spaventati per staccarsi dalla sua veste. «Il
mio quinto figlio, Hassan, stava male da qualche mese. L’ho ricoverato in
ospedale settimana scorsa, ma non ha resistito». Dallo sguardo di Halima non
sembra trasparire né tristezza né rabbia. Solo una dolce rassegnazione.
Da
quando lei, insieme a decine di migliaia di altri profughi, ha deciso di
lasciare la Somalia, sono state poche le tragedie che non ha dovuto affrontare.
Durante un cammino durato ventiquattro giorni, Halima e la sua famiglia hanno
sfidato la morte passo dopo passo. Se non erano le iene, erano i leoni. Se non
era la fame, era la sete. «Siamo stati comunque fortunati», conclude mentre
accarezza a turno tutti i suoi figli. È difficile accettare che in un posto
come Dadaab, il campo di rifugiati più grande al mondo, la parola «fortuna»
possa essere espressa dalle labbra secche dei suoi residenti.
In
quest’area a Nord-est del Kenya, dove sabbia e arbusti rappresentano l’unica
vegetazione per centinaia di chilometri verso l’orizzonte, le inermi carcasse
degli animali giacciono a terra semi-spolpate, in attesa di essere completamente
scarnificate dagli avvoltoi del cielo e della terra. I rifugiati come Halima,
ormai più di 400mila, continuano ad arrivare a una media tra i 1.500 e tremila
al giorno. Ogni profugo, per quanto possibile, deve essere registrato e
“catalogato” sia dall’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Acnur), sia
dagli ufficiali del governo keniota. Dopo aver preso le impronte digitali e aver
scattato la foto di ognuno, gli operatori danno ai rifugiati un braccialetto
colorato a seconda della sezione del campo a cui saranno destinati.
Agli
ultimi arrivati, anche se non registrati, spetta una razione di cibo per una
settimana, mezza saponetta e dei teli con cui coprirsi. Da quando il campo di
Dadaab è stato aperto vent’anni fa per ospitare specialmente somali, etiopi,
e sudanesi, il flusso migratorio non si è mai arrestato. Ma con la siccità di
quest’anno, la più grave dagli anni Cinquanta assicurano le Nazioni Unite, il
numero di profughi è aumentato in modo vertiginoso. Sono oltre dieci milioni le
persone colpite dall’emergenza, un fatto che ha sorpreso persino i veterani
del mondo umanitario.
Ogni
mattina, decine di Land Rover che trasportano operatori umanitari e materiale di
base, si mettono in fila per firmare la loro uscita dal cancello principale
delle zone riservate alle agenzie e dirigersi verso le tre sezioni in cui si
divide Dadaab: Hagadera, Dagahaley e Ifo. Nonostante il governo keniota abbia
promesso l’apertura di un altro campo, Ifo-2, l’iniziativa non è stata
ancora approvata ufficialmente. «La possibilità di aprire Ifo-2 verrà
discussa in Parlamento mercoledì», spiega Omar, operatore keniota nel settore
dell’istruzione per Avsi, l’organizzazione non governativa italiana che fa
parte del consorzio per l’emergenza di Agire: «Speriamo che i nostri politici
facciano appello alla loro umanità perché non ci siamo mai trovati in una
situazione tanto grave».
Nel
centro maternità di Hagadera, Abdi è l’unico uomo. Sua moglie è morta dopo
dieci giorni di cammino ed è stata sepolta dal resto della famiglia.
«Era
già molto malata e non è riuscita a sopportare la fatica di camminare sotto il
sole», racconta Abdi, rimasto con due figlie e sua mamma di ottantasei anni.
Nello stanzone in cui si curano i bambini più a rischio, Sarah, la figlia di
Abdi, è sdraiata su un materasso: malnutrizione acuta è la diagnosi. I
ventisei giorni di cammino, spesso senza acqua né cibo, hanno messo a dura
prova il suo piccolo corpo.
Ogni
tanto, le pupille di Sarah spariscono verso l’alto per la sofferenza che
prova, e tornano a fissare il vuoto dopo qualche attimo di sopportazione. Poiché
Sarah non riesce a mangiare, i medici le hanno infilato un sottile tubo con cui
viene periodicamente nutrita. A tre anni, la bambina di Abdi pesa meno di
quattro chili. Nella branda accanto a lei, invece, un bambino di sette mesi, a
causa della stessa malattia, pesa più di cinque chili. La mamma lo abbraccia e
gli copre il pancione infetto.
Lo
stadio di carestia decretato dalle agenzie umanitarie Onu ha tra i parametri per
la dichiarazione la morte di almeno due bambini al giorno su diecimila persone.
Più a Nord, in Somalia, le statistiche superano abbondantemente questi numeri,
qui si tenta di azzerarle. «Molti di loro sono famiglie di pastori e
agricoltori», dice Ibrahim, uno dei gestori dell’ospedale di Hagadera che è
finanziato da varie organizzazioni tra cui l’International rescue committee:
«Le scarse piogge hanno impoverito il terreno e hanno ucciso il loro bestiame.
L’unica scelta che avevano era quella di spostarsi da un’altra parte».
I
somali scappano anche dalla guerra civile che sconvolge il Paese dal 1991. Sulla
strada hanno dovuto negoziare non solo con la morte ma anche con il pericolo di
essere reclutati dall’al-Shabaab, il gruppo ribelle di matrice qaedista che
controlla la maggior parte del Paese.
«Non
voglio tornare in Somalia», assicura Abdi: «Tutti i miei parenti sono scappati
da lì». Alla periferia del campo di Ifo, sono invece raggruppati gli ultimi
rifugiati. Ismail è appena arrivato con la sua famiglia: una moglie e quattro
figlie. Domani, quando gli uffici delle registrazioni riapriranno, per loro
inizierà una nuova vita. Difficile, ma una vita.
Niente tasse ai tea party
di Guglielmo Ragozzino
Il
Manifesto - 24 luglio 2011
La
discussione alla Casa bianca è durata meno di un'ora. Era stato un nervoso
presidente Barack Obama a invitare i delegati dei Rappresentanti e dei Senatori,
repubblicani e democratici: «Qualcuno venga a spiegarmi come si evita il
fallimento dell'America». A discutere erano in quattro, non contando il padrone
di casa: vi erano lo speaker repubblicano della Camera John Boenher, Nancy
Pelosi, democratica, che aveva svolto lo stesso ruolo fino all'inizio di
quest'anno e poi i due leader del Senato, il repubblicano Mitch McConnell e il
democratico Harry Reid. Nessun comunicato alla fine, una dichiarazione di
Boenher con la promessa di una ricerca di soluzione bipartisan «per preservare
la fiducia e il credito degli Stati uniti». Domani, lunedì, il confronto
riprenderà in qualche forma. Nel frattempo gli sherpa di Washington faranno il
loro lavorio e una soluzione, per quanto difficile, verrà trovata, tanto più
che intorno alle sedi del potere già svolazzano gli avvoltoi delle case di
rating che potrebbero abbassare la valutazione dei titoli di debito americani,
spingendo il Tesoro americano al fallimento e la finanza globale al collasso.
Tutto
sembra ridursi a un duello tra il presidente e Boenher: questi chiede con forza
di tagliare la spesa sociale, senza aumentare le tasse, mentre Obama vorrebbe
salvare quanto più è possibile la sua legislazione a favore degli anziani e
della copertura sanitaria allargata per la popolazione; un atteggiamento
solidale quest'ultimo e pertanto inviso alla destra repubblicana che controlla
una parte preponderante degli eletti attraverso il circuito dei tea party. Gente
convinta che nessuno debba disporre di più di quello che è in grado di pagarsi
con denaro proprio o al massimo con il credito che qualche banca gli ha
concesso.
Tasse
o tagli. Il presidente propone una via di mezzo, un compromesso, pur nel
dissenso di Pelosi e Reid che cercano di presidiare le conquiste, già molto
sacrificate, dei primi anni del mandato di Obama; d'altro canto il suo
avversario difende i vantaggi che la lunga presidenza Bush ha offerto ai redditi
più alti, con notevoli sgravi fiscali e possibilità di elusione. In questo
caso la semplice ideologia è quella che ciascuno deve avere la possibilità di
diventare molto ricco. Un ricco, meglio un super ricco, non può che essere un
beneficio per tutta la società; in ogni caso serve da sprone e da esempio.
Le
cifre sono ballerine. Obama offre un taglio di 1.000 miliardi nelle spese,
compresa la difesa e altri 650 miliardi in spese sociali tra Medicare,
contributi agli agricoltori e ai programmi scolastici. Boehner vuole di più,
per evitare che il resto che manca venga pescato nelle tasche dei ricchi, ai
quali Obama vorrebbe arrivare per dare alla manovra una vernice di giustizia
sociale.
Un
rapido accordo tra repubblicani e presidente è indispensabile perché entro il
2 agosto deve essere aumentato il limite insuperabile del debito pubblico,
fissato in 14.300 miliardi di dollari, mentre le previsioni per il 2011 superano
quella soglia di 1.000 miliardi almeno. I repubblicani che controllano la Camera
dei rappresentanti sono disposti a farlo solo sulla base di un accordo di ferro
con Obama che comprenda la riduzione drastica della spesa sociale. Sanno che
Obama è contrario e lo spiegano con le elezioni presidenziali del 2012, cui
Obama vorrebbe presentarsi - dicono loro - con elargizioni ai suoi elettori per
non rischiare la sconfitta. Così gli ideali della destra rigorosa, senza pietà
per i perdenti della società, si involgariscono nel fine di ostacolare la
rielezione del presidente in carica.
La
crescita del debito pubblico è stata inarrestabile nel corso di un
quarantennio. Carter nel 1980 aveva consegnato un debito di 1.000 miliardi a
Reagan che in due mandati presidenziali lo aveva triplicato. Bush padre passò
da 3 a 4.000 miliardi. Clinton aveva frenato un po', arrivando in due mandati a
circa 5.500 miliardi. Bush figlio aveva ripreso una crescita veloce: in otto
anni aveva portato il debito a 10.000 miliardi. Obama aveva sfiorato i 12.000
nel suo primo anno e superato ampiamente i 13.000 nel secondo. Dopo di che, i
repubblicani avevano conquistato la Camera dei rappresentanti e chiesto di
rivedere i conti. In effetti l'anno prossimo, se non si prenderanno
provvedimenti (e l'economia non ripartirà alla grande) il debito pubblico
dovrebbe superare il 100 per cento del Pil, una soglia considerata molto
pericolosa. Noi italiani, come i giapponesi, sappiamo che se il debito supera il
pil, la vita continua.
Crisi o fine del lungo idillio tra Erdogan e l’Europa
di NAT da Polis
AsiaNews - Istanbul - 26 luglio 2011
Motivi
interni e internazionali dietro la dichiarazione del premier turco, che
sospenderà ogni collaborazione con l’Unione durante la presidenza cipriota.
Ankara tira a “mercanteggiare” usando il suo ruolo di potenza in una regione
ricca di energia.
Il
lungo idillio tra Erdogan e la UE sta attraversando un periodo di crisi. La
causa è la terra di Afrodite, l’isola di Cipro. Nella visita effettuata la
settimana scorsa nel 37mo anniversario dall’invasione turca della parte
settentrionale della Repubblica di Cipro - con la conseguente divisione
dell’isola - Erdogan ha definito assolutamente impossibile la collaborare con
la futura presidenza della UE quando essa sarà guidata dalla repubblica di
Cipro.
La
Repubblica di Cipro è uno Stato membro dell’UE, ma non è riconosciuto dalla
Turchia. Di qui l’affermazione di Erdogan che “per quel semestre
sospenderemmo le nostre relazioni con la UE e non ce ne importa di che cosa ne
pensa Bruxelles. La UE ha sbagliato ad accettare Nicosia. Per noi - ha
continuato - esistono due Stati distinti che devono coesistere in una
confederazione “light”, senza perdere la loro identità ed indipendenza”.
Pronta
la reazione di Bruxelles che ha ritenuto queste affermazioni offensive ed
arroganti, in quanto ledono la dignità di uno Stato membro dell’Unione. Fonti
di Bruxelles hanno pure ricordato che quando Erdogan ha aperto le trattative per
l’adesione della Turchia alla Ue ha accettato l’obbligo di rispettare e
riconoscere l’integrità di tutti Paesi membri dell’Unione. Le stesse fonti
diplomatiche, commentando questa infelice uscita di Erdogan, hanno voluto
ricordare che l’attuale governo guidato dall’AKP ha potuto battere il
vecchio establishment turco proprio grazie all’apertura delle trattative con
la UE.
In
questo quadro sorge l’interrogativo del perchè di queste dichiarazioni di
Erdogan, che, se certamente non sono nuove, hanno provocato forti reazioni. La
stessa Hillary Clinton ha ricordato a Davutoglu che le decisioni dell’ONU su
Cipro vanno rispettate. Innanzitutto va detto, come più volte hanno dichiarato
eminenti figure dei turco-ciprioti, che Erdogan come chiunque altro ad Ankara,
non lavora per loro. E di fatto si osserva ultimamente una crescente
contestazione nei confronti di Ankara da parte dei turco-ciprioti, ormai
minoranza nella parte Nord dell’isola, a causa della massiccia immigrazione di
turchi dell’Anatolia. Ridotti ad essere appena 1/3 della popolazione della
parte settentrionale dell’isola, essi accusano Ankara di scarsa sensibilità
civile e di distruzione della loro eredità culturale e civile, con la
trasformazione dell’isola in un grande casinò per la finanza verde, quella
cosiddetta islamica.
A
un osservatore degli affari turchi non può sfuggire quello che ha sempre
contraddistinto, nei corso dei tempi, la politica estera turca: il concetto, lo
strumento, di “pazarlik” (mercanteggiare). La Turchia considerando che le
trattative con l’Unione Europea sono a un punto di stagnazione (un reform
fatigue si dice negli ambienti diplomatici), dopo l’iniziale impeto. E’ una
stagnazione dovuta anche ad una diffusa carenza di coscienza civile nella società
turca. E Ankara sta facendo ricorso proprio al “pazarlik”.
Conscia
che l’Unione Europea ha crescenti bisogni di risorse energetiche, che si
trovano in quell’area geografica in cui la Turchia si inserisce come il
naturale hub di transito, cerca di presentare se stessa come il migliore
traghettatore dei valori europei verso i Paesi di quell’area. Allo stesso
tempo si spinge ad allacciare relazioni alternative con Paesi di quell’area,
come la Russia e l’Iran, accusando contemporaneamente la UE di usare due pesi
e due misure nei suoi confronti, nel suo tentativo di adeguarsi ai criteri di
Copenaghen. Criteri necessari per l’accesso nell’Unione. E Cipro funge
proprio come giustificativo. Tutto ciò induce molti analisti a dire che la
Turchia è alla ricerca di nuovi partner e che va oltre la scena europea. Ed è
lo stesso ministro degli esteri turco, Davutoglu, ideatore della politica estera
a dare la spiegazione, rispondendo a chi gli parlava di divergenze culturali e
scontri di civiltà, che esistono solo scontri di interessi.
Poi
ci sono anche i fattori interni. Erdogan, benché abbia conquistato il voto
della metà della popolazione turca, non ha i numeri per effettuare quelle
riforme costituzionali per le quali aveva voluto sia il referendum dello scorso
settembre (stravinto) che le elezioni del 12 giugno. Sollecitando l’orgoglio
nazionale spera di raccogliere quei voti parlamentari necessari per le sue
riforme, ma, anche e soprattutto, perché mira alla conquista della presidenza
della Repubblica allo scadere del mandato di Gul, come nuovo padre di una
Turchia potenza regionale.
Ma
dal Fondo monetario internazionale iniziano ad arrivare le prima avvisaglie di
difficoltà. Il disavanzo commerciale ha toccato nei primi 5 mesi del 2011 i 38
miliardi di dollari, mentre lo sviluppo previsto per il 2011, previsto all’11%
si è abbassato all’8,7%, e per il 2012 avrà un ulteriore grosso calo.
Insomma chi tanto vuole alla fine nulla o poco stringe.