Bangl@news

Newsletter settimanale sul Bangladesh, pace, mondialità e diritti umani  

Anno XI

N°  482

17/8/11

Questo numero è inviato a 6.602 lettori e a 508 lettori nella versione inglese

            

       

      Sommario

              

Missione

»»  Commento all'Intenzione Missionaria di agosto 2011

Mondialità

»»  La speculazione che affama di Riccardo Moro

»»  L’Onu prepara l’ Arms Trade Treaty di Alessio Pisanò

»»  La secolarizzazione è un grande tsunami nella cultura

»»  Lotta alla deforestazione: una questione di diritto di Piergiorgio Cattani

»»  Nel frattempo siamo troppi di Paul Kennedy

Africa

»»  L’Africa? c’est moi di Alberto Bobbio

»»  Vertice su fame e siccità, esperto Onu: “serve prevenzione”

»»  Il legame tra carestia e crescita delle spese militari americane di Gianni Alioti

»»  Corno d'Africa, le dimensioni di una catastrofe di Carlo Ciavoni

Bangladesh

»»  Corrispondente di AsiaNews in fuga sequestrato dalle autorità nepalesi di Kalpit Parajuli

Cile

»»  I mapuche, popolo della terra di Fabrizio Noli

Cina

»»  Pechino pontifica contro “le minacce” del Vaticano di Bernardo Cervellera

»»  Giro di vite contro i cattolici, ingresso negato a sacerdoti che contestano le ordinazioni illecite

Congo RD

»»  Colera, la catastrofe annunciata di Maria Agata Messina

»»  Editoriale di Congo Attualità 127 

Corea del Nord

»»  Disarmo nucleare, gli Usa “aprono” a Pyongyang

Egitto

»»  Giovani Fratelli di Francesca Borri

»»  Consiglio supremo dei militari nel caos. Fratelli musulmani e salafiti prendono il sopravvento

Filippine

»»  Anche un camion può diventare un’aula scolastica

»»  Aquino parla alla nazione, ma delude i filippini stanchi di utopie e proclami

Giappone  

»»  Il Giappone risponde in modo creativo alla crisi di Daisaku Ikeda

India

»»  Sciopero della fame per i diritti di dalit cristiani e musulmani di Nirmala Carvalho

»»  India e Pakistan: oggi incontro al vertice per aprire un dialogo

Italia

»»  Casta ed anti-casta. Il mondo della pace s'interroga

»»  E la monnezza arrivò a Bush di Stefania Maurizi

»»  Ma chi sono questi 'faccendieri'? di Giorgio Bocca

»»  I big europei in Africa. E l'Italia dov'è? di Giorgio Bernardelli

»»  Venire qui è stato utile anche per questo di Teresa Poggiali

»»  Quel filo sottile che lega la crisi nel Corno d’Africa e il welfare italiano di Gianni Alioti

»»  Pranzo di lusso: sette euro...

Libia

»»  “Si colpiscono i depositi alimentari, ma con quale diritto?” denuncia Mons. Martinelli

Medio Oriente

»»  Gli "indignados" di Tel Aviv di Mario Correnti

»»  Israele prima degli altri: chi riconosce il Sud Sudan

Messico

»»  Sette milioni di giovani prede delle organizzazioni criminali

»»  Messico, migranti usa e getta di Alessandro Grandi

Myanmar

»»  L’Onu apprezza il “costruttivo” incontro fra Aung San Suu Kyi e un ministro birmano

»»  Tensioni in stato Kachin, continua la fuga dei civili

»»  Denaro ed energia alimentano il conflitto fra esercito birmano e minoranze etniche di Yaung Ni Oo

Portorico

»»  Criminalità all'attacco di Alessandro Grandi

Serbia

»»  Belgrado corre incontro all'Europa

Somalia

»»  I bimbi del campo di Dadaab, vittime dell’inferno somalo di Matteo Fraschini Koffi

Stati Uniti

»»  Niente tasse ai tea party di Guglielmo Ragozzino

Turchia

»»  Crisi o fine del lungo idillio tra Erdogan e l’Europa di NAT da Polis

Altri articoli edizione inglese

World: Dictators Inc. by Vivienne Walt * Globalisation and the need to form world citizens by Imtiyaz Yusuf * Mentally illness suffer medieval treatment across the globe by Stephen Leahy * No consensus in Security Council on climate change by Inaki Borda * Right to Water Still a Political Mirage by Thalif Deen  Africa: Improving sanitation, still a long way to go by Aimable Twahirwa  Asia: Asean gets recognition, now it must act by Kavi Chongkittavorn  Europe: Norway attacks: We can no longer ignore the far-right threat by Matthew Goodwin  Bangladesh: Autistic children need more care * Governmentt prefers to implement develpment projects with own funding * No more exclusion of any minority * Police extortion on highways troubles drivers: minister * Tribal women take on forest ranger roles by Naimul Haq * 75.08pc pass HSC, equivalent exams * Fate of 100000 students uncertain for seat crisis by Noman Chowdhury and Rafiul Islam  Germany: Germany arms Saudis against Iran by Julio Godoy  India: India's Leading Export: CEOs by Carla Power * New Killings, Torture at Bangladeshi Border * India’s 'recycled' school teaches green lessons by Shilpa Jamkhandikar  Middle East: Families Cry Out for Palestinian Prisoners by Eva Bartlett  Myanmar: Activists condemn India's arm deal with Burma by Nava Thakuria  Pakistan: Taliban backs off from attacking civilians by Ashfaq Yusufzai  Somalia: Famine in Somalia: When does the world decide to use the ‘F' word? by Krista Mahr  South Sudan: Mass graves discovered in South Kordofan * South Sudan should not reinvent the wheel  Sri Lanka: In Sri Lanka Democracy Rides on Wheels by Amantha Perera * Sri Lankan prisons inhumane for women by Ranmali Bandarage   United States: Two Compromises by Joe Klein  

    

I punti di vista espressi in questi articoli sono propri degli autori e non riflettono necessariamente quelli di Banglanews

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MISSIONE 

Intenzione missionaria di agosto 2011

Agenzia Fides - Città del Vaticano - 26 luglio 2011

“Perché i cristiani dell'Occidente, docili all'azione dello Spirito Santo, ritrovino la freschezza e l'entusiasmo della loro fede” 

  

Nella Chiesa primitiva, a causa della persecuzione e dello zelo evangelizzatore dei primi discepoli, gli apostoli ed i loro collaboratori si sparsero in tutta la terra allora conosciuta. San Paolo evangelizzò la Grecia e arrivò fino in Spagna e a Roma, dove subì il martirio. Anche San Pietro ha dato la sua vita per il Maestro vicino al colle Vaticano. Dalla capitale dell'Impero Romano, la fede in Cristo si diffuse in Europa, influenzando la cultura e impregnando del Vangelo tutti gli aspetti della vita sociale. La civiltà occidentale è stata costruita sui valori cristiani, su una visione dell’uomo segnato dal suo essere figlio di Dio, dal suo destino eterno in Cristo.

L'evangelizzazione dei nuovi continenti diffuse in tutto il mondo una cultura che affonda le sue radici nel Vangelo ed è inseparabile dalla fede. Purtroppo dal XVIII secolo è iniziata con l'Illuminismo, in Europa, un'ondata di laicismo, che ha preteso di spogliare della sua identità cristiana tutto l'Occidente. Questa ondata di laicismo sta arrivando alla cristianofobia, come afferma Papa Benedetto XVI. Il laicismo ha come conseguenza di portare l'uomo a vivere come se Dio non esistesse. Questo ha prodotto una grande mancanza di speranza, che si manifesta in una certa angoscia esistenziale per il futuro, nella diminuzione del tasso di natalità, del numero delle vocazioni, e in una incapacità nei giovani di prendere dicisioni definitive per la loro vita, incluso il matrimonio.

Durante la sua visita a Santiago de Compostela, nel novembre 2010, il Santo Padre Benedetto XVI ha affermato: "È una tragedia che in Europa, soprattutto nel XIX secolo, si affermasse e diffondesse la convinzione che Dio è l’antagonista dell’uomo e il nemico della sua libertà. (…) Dio è l’origine del nostro essere e il fondamento e culmine della nostra libertà, non il suo oppositore. (…) Come è possibile che si sia fatto pubblico silenzio sulla realtà prima ed essenziale della vita umana ?” (Santa Messa in occasione dell’Anno Santo Compostelano,Plaza del Obradoiro, 6 novembre 2010).

I discepoli di Cristo in Occidente devono effettivamente recuperare l'entusiasmo per la fede, superando il materialismo consumistico e aprendosi ad una dimensione trascendente della vita. E’ necessario riscoprire la persona di Cristo come Qualcuno che è vivo, che è in mezzo a noi. E' necessario trovare nuovi spazi di silenzio e di meditazione della Parola di Dio, per poter entrare in comunione con la persona di Gesù. Perciò il Papa ha chiamato i cristiani a "seguire l'esempio degli apostoli, conoscendo il Signore ogni giorno di più e offrendo una testimonianza chiara e coraggiosa del suo Vangelo".

Maria, Regina degli Apostoli, ci ottenga con la sua materna intercessione una nuova effusione dello Spirito Santo che rinnovi la Chiesa in Occidente. 

       

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MONDIALITA'

La speculazione che affama di Riccardo Moro  

Famiglia Cristiana - 25 luglio 2011

Cosa sta dietro l'impennata dei prezzi delle derrate alimentari? I mutamementi climatici, i biocarburanti, l'aumento del prezzo del petrolio, ma soprattutto una finanza di rapina.

  

Nelle scorse settimane è stata dichiarata l’emergenza alimentare in Somalia.  L’appello internazionale in favore delle popolazioni del Corno d’Africa richiama le contraddizioni di un pianeta in cui un miliardo di persone getta derrate alimentari deperibili non consumate e sostiene assurdi ‘costi collaterali’ causati dall’abbondanza (le diete, il fitness dimagrante…), mentre un altro miliardo non ha pane a sufficienza. 

Le preoccupazioni relative al cibo però non riguardano solo l’emergenza di questi giorni, ma alcuni squilibri strutturali rivelati dall’estrema volatilità dei prezzi registrata negli ultimi anni. Tra il 2006 e il 2008, infatti, l’indice generale dei prezzi alimentari calcolato dalla Fao è raddoppiato, per poi riscendere ai valori precedenti il 2006 in soli due mesi tra luglio e agosto 2008.  A metà 2010 i prezzi sono di nuovo impazziti, raggiungendo i massimi del 2008 nel gennaio 2011. Da quel momento sono stabili, ma a livelli elevatissimi e insostenibili per la popolazione più povera del pianeta.

Che cosa spinge così in alto i prezzi?  Un primo fattore è legato al cambio climatico, quello forse più importante per l’attuale Somalia (anche se le mutazioni in corso, e la relativa desertificazione, colpiscono duramente anche altre aree del pianeta). La maggiore frequenza di fenomeni atmosferici violenti, soprattutto nelle zone tropicali, determina un succedersi di siccità e alluvioni che rendono i raccolti più vulnerabili.  Minori raccolti significa minore offerta e dunque pressione sui prezzi. Un secondo fattore è dovuto all’aumento demografico, cui si compone il miglioramento della condizione di una parte della popolazione povera in India e in Cina. Ci sono cioè, e questa è una buona notizia, persone che guadagnano di più e mangiano meglio di prima. Una percentuale relativamente piccola di popolazione che vive questo miglioramento in paesi grandi come la Cina e l’India significa milioni di cittadini, dunque un fenomeno che inizia a farsi rilevante. Queste persone domandano più carne e derivati del latte, ciò comporta una spinta ad aumentare i capi di bestiame e quindi una maggiore domanda di mangimi. La produzione di cereali per consumo animale può spiazzare quella per consumo alimentare, sottraendole superfici da coltivare, quindi riducendo la produzione e spingendo sui prezzi.

Un terzo fattore è quello legato alla produzione di agrocarburanti. Aumentano le colture di soia e altri cereali usati per produrre combustibili con impatti ambientali ridottissimi. Anche questo può sottrarre terreni alla produzione alimentare premendo sui prezzi.  Quarto elemento è il prezzo del petrolio, che incide su trasporti e fertilizzanti e quindi sui prezzi. Inoltre, se il petrolio è caro, diventa maggiore l’incentivo a produrre agrocarburanti, amplificando le ricadute negative della loro coltivazione.

Questi elementi concorrono a spiegare un trend di aumento dei prezzi, ma non la sua intensità, né la riduzione dei prezzi della metà del 2008: il ceto medio nei paesi emergenti non si è ridotto né  i fenomeni meteo sono più rari. Solo col petrolio potrebbe esserci una correlazione teorica, visto che petrolio e cibo subiscono una caduta dei prezzi analoga, ma un’analisi più approfondita la smentisce: durante la caduta del 2008 i fertilizzanti non hanno ridotto il loro prezzo e i costi di trasporto sono stati appena più contenuti. Infine in termini globali la produzione aggregata nel pianeta in questi anni è aumentata.  La produzione di mangimi e biodiesel non ha spiazzato quella alimentare, ma ha usato superfici nuove (è il caso del biodiesel in Africa e nel Sud del mondo) o sfruttato miglioramenti di produttività.

Per spiegare le impennate dei prezzi alimentari e soprattutto la loro intensità, occorre guardare al mercato finanziario. Da qualche anno si investe sui beni alimentari attraverso i cosiddetti derivati. Questi sono titoli che ‘derivano’ il loro valore dall’andamento di un’altra grandezza, detta sottostante. Se il sottostante cresce il derivato vale di più e viceversa. Negli ultimi anni è fortemente aumentato il numero di derivati che hanno scommesso sull’aumento dei prezzi alimentari. La aspettativa di aumento dei prezzi si è trasferita sui mercati reali facendo alzare i prezzi anche in assenza di reale scarsità.

Per le materie prime agricole, infatti, il prezzo attuale è determinato da quello atteso, attraverso il meccanismo dei futures, un particolare titolo in cui si stabilisce oggi il prezzo a cui ci si scambierà la merce domani. Se tutti attendono per domani un prezzo maggiore, è naturale che il prezzo di oggi tenda ad aumentare. A questo si possono aggiungere comportamenti speculativi considerati illegali a livello nazionale, ma non regolati da leggi a livello internazionale, per cui in un mercato globale fortemente integrato come quello finanziario i pochi intermediari delle materie prime agricole possono giocare sulla loro posizione e sulle loro informazioni privilegiate per influenzare i mercati e guadagnare finanziariamente attraverso i derivati. Le speculazioni di pochi, insomma, concorrono a incidere sulla fame di molti, di troppi.   

Che fare? Occorre una riflessione su tecniche, luoghi e distribuzione della produzione (per aumentare la produzione locale e ridurre i costi di trasporto, che incidono anche sulla qualità dell’ambiente). Insieme a questa è urgente una riflessione rigorosa sulla governance del mercato finanziario, per farlo tornare uno strumento al servizio della produzione e riportare i titoli futures alla loro funzione originaria di garanzia contro la volatilità dei prezzi . Da essa si sono allontanati diventando amplificatori delle variazioni che il mercato reale naturalmente produce rendendole insostenibili.

Il tema è nell’agenda della Fao, di tutte le reti della società civile e del G20.  Le prime proposte sono state formulate. In Italia è nata la campagna “Sulla fame non si specula” che ha chiesto al sindaco di Milano di vendere i titoli derivati legati al cibo posseduto dal Comune e creare un “Osservatorio” sulla relazione tra finanza e prezzi alimentari in vista dell’expo 2015, che utilmente si intitola “Nutrire il pianeta”.  A livello nazionale, e in dialogo con le reti internazionali, la rete Gcap, la Coalizione italiana per la lotta contro la povertà e il Comitato per la sovranità alimentar e hanno formulato proposte tecnicamente circostanziate. Ora tocca alla politica dimostrare disponibilità all’ascolto e iniziativa.  

 

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L’Onu prepara l’ Arms Trade Treaty di Alessio Pisanò

Il fatto quotidiano - 25 luglio 2011  

  

L'iniziativa del Palazzo di vetro è tesa a limitare il dilagante fenomeno della corruzione che, secondo Trasparency international, costa 22 miliardi l'anno. Nell'Unione europea non esiste nessuna normativa che regoli questo settore del mercato. Quanto incide la corruzione nel mercato mondiale delle armi? Molto. Secondo Transparency International, circa 22 miliardi di euro l’anno. Sì perché il mercato degli armamenti è uno di quei pochi settori del commercio mondiale sprovvisto di un regolamento anti-corruzione. Non solo, è uno dei settori del commercio meno regolamentati al mondo, tanto che gli stati nazionali possono fare più o meno quello che vogliono.

Perfino in Europa, dove ci sono precise misure su tutto, dalle quote latte alle lampadine, il commercio delle armi resta di stretta competenza nazionale. La colpa non è tanto di Bruxelles quanto dei paesi membri, da sempre molto gelosi di un settore dell’economia che non conosce crisi. Tant’è che l’Ue stessa non è riuscita ad andare oltre la timida posizione comune del Consiglio 2008/944/PESC che definisce norme comuni ma non vincolanti per le esportazioni di tecnologia e attrezzature militari.

     

L’allarme di Transparency International, supportato da altre associazioni come Oxfam, Saferworld, Arias Foundation e Amnesty International, arriva nei giorni in cui a New York l’Onu sta definendo quello che sarà “l’Arms Trade Treaty” (ATT), un trattato internazionale che dovrebbe stabilire regole e norme da rispettare in tutto il commercio mondiale di armi. “Dovrebbe”. Perché gli ostacoli da superare sono tanti, a partire dagli Stati Uniti, dove i fedelissimi della 44 Magnum temono un attacco all’intoccabile “Secondo emendamento”, l’articolo della costituzione americana che garantisce il diritto di possedere una pistola.

Secondo l’International’s Defence and security programme di Transparecy Internation non c’è più tempo da perdere: il commercio mondiale delle armi deve essere regolamentato più severamente. In esso rientra non solo la compravendita di armi da fuoco, ma anche di armamenti di grande portata (veicoli blindati, navi e armi pesanti) e l’addestramento di polizie e milizie. Eclatante l’ultimo scandalo internazionale in Iraq, dove, secondo quanto riporta il Los Angeles Times, sarebbero scomparsi nel nulla ben 6,6 miliardi di dollari (solo 2,8 secondo Stuart Bowen, Ispettore generale speciale per la ricostruzione dell’Iraq). O ancora il caso dell’Uganda, dove, secondo il The Observer, 740 milioni di dollari sarebbero stati illegittimamente dirottati per l’acquisto di 6 jet militari. Infine la Russia, dove il mese scorso il capo procuratore militare di Stato ha denunciato che “un quinto del budget nazionale destinato alla difesa finisce in corruzione, frodi e subappalti poco chiari” (secondo quanto riporta l’agenzia di stampa RIA Novosti).

Ecco allora che l’Arms Trade Treaty, una volta entrato in vigore nel 2012, dovrebbe prevedere un meccanismo di contrasto della corruzione e una regolamentazione generale del settore, con standard obbligatori applicabili a tutti i tipi di compravendita di armi messi nero su bianco. “Mentre abbiamo regole sui cocomeri, sulle banane e sui lettori Mp3, non è mai stato trovato uno straccio di accordo sul commercio delle armi”, si legge in un comunicato Oxfam. “Il futuro accordo ATT dovrà coprire tutto il ciclo produttivo e commerciale delle armi, dalla costruzione al trasporto, alla destinazione finale”.

Sul tavolo delle trattative anche regole d’intervento nel caso di armi utilizzate per scopi diversi da quelli per cui sono state destinate. E’ il caso delle tonnellate di armamenti vendute dall’Europa alla Libia e utilizzate poi dal colonnello Gheddafi per reprimere la rivolta contro il regime. Secondo la relazione Ue sull’esportazione di armamenti 2009, gli Stati membri hanno concesso 343,7 milioni di euro di licenze per armi alla Libia, tra armi da fuoco, apparecchiature elettroniche militari, aerei da guerra, elicotteri, e missili terra-aria. Secondo l’Ong italiana “Rete disarmo-Tavola della pace”, buona parte di queste armi sarebbero made in Italy (79 milioni di euro di armi leggere solo nel 2009).

Come detto, l’Arms Trade Treaty entrerà in vigore solo nel 2012. Anche se per approvarlo non ci vorrà l’unanimità del 192 Paesi Onu che stanno prendendo parte alle negoziazioni, gli sgambetti sono più che prevedibili.  

 

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La secolarizzazione è un grande tsunami nella cultura

Zenit - 24 luglio 2011

Intervento del Vescovo di San Sebastián (Spagna)

 

Monsignor José Ignacio Munilla, Vescovo di San Sebastián (Spagna), afferma che il contatto della Chiesa con il giovane deve essere più discreto, a causa dell'impatto profondo sulla persona del processo di secolarizzazione.

“Dire che le cose vanno bene nella trasmissione della fede sarebbe ridicolo. Ci preoccupa molto l'evangelizzazione nel tempo in cui la secolarizzazione è un grande tsunami”, ha affermato il presule basco durante il suo intervento al corso estivo “I giovani e la Chiesa” presso l'Università Re Juan Carlos.

“L'evangelizzazione dei giovani si fa con grande rispetto e affetto, ma non bisogna mai idolatrare la gioventù, perché dobbiamo avere come meta la maturità, non la gioventù permanente”, ha sottolineato monsignor Munilla.

Con queste parole, il presule ha affrontato la realtà culturale della Spagna, dove “l'emergenza educativa è maggiore che in altre parti del mondo. La nostra situazione è speciale, abbiamo vissuto senza curarci dell'essenziale”; “è stata rubata l'anima cristiana della nostra Nazione”.

“L'influenza sociale è stata brutale, si è andata creando una disaffezione nei confronti della Chiesa cattolica”, ha sottolineato, indicando che anche così sono molti quelli che camminano con la Chiesa.

Il Vescovo di San Sebastián ha dichiarato che “l'ideologia di genere è come una metastasi del marxismo. L'impressione che ci dà è che il marxismo, pur se caduto come modello economico, continui a voler essere un modello antropologico”.

Circa ciò che offre la Chiesa ai giovani, monsignor Munilla ha detto che “il loro desiderio di felicità si lega al desiderio di Cristo di rispondere alle loro domande, presentare la proposta, messaggio di salvezza, di felicità”.

Il responsabile della Pastorale della Gioventù nella Conferenza Episcopale Spagnola ha aggiunto che è necessario “presentare un progetto coerente con un senso etico che non metta da parte la dimensione affettiva. Il Vangelo per i giovani è accompagnare anche altri nel mondo del dolore e della sofferenza, contro il narcisismo imperante che ci invade, dimenticandosi di se stessi per poter essere seguaci di Cristo”.

“Gli spazi di incontro sono necessari come luoghi alternativi per poter presentare il progetto e vivere in base alla fede”, ha aggiunto.

Il Vescovo basco ha proposto tre modelli da applicare alla pastorale giovanile: l'esperienza di San Giovanni Bosco, centrata sulla condivisione del tempo con i giovani; essere testimoni e referenti, come ha fatto Giovanni Paolo II, e aiutarli ad avere capacità critica di fronte al relativismo, come sta facendo Benedetto XVI.

Il presule si è infine riferito alla Giornata Mondiale della Gioventù definendola “la chiamata del Papa e l'incontro di giovani che si trovano con altri giovani ampliando l'orizzonte, dove necessariamente l'accompagnamento dei sacerdoti darà loro profondità e consapevolezza di paternità e maternità della Chiesa”, differenziandola dal paternalismo.

Monsignor Munilla ha infine sottolineato l'importanza del fatto che “Benedetto XVI ponga i giovani del mondo di fronte alla presenza di Gesù, fratello, amico e redentore del mondo, chiedendo che possano avere sempre il cuore di Cristo al loro fianco”.  

 

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Lotta alla deforestazione: una questione di diritto di Piergiorgio Cattani

Unimondo - 25 luglio 2011  

  

L’Organizzazione internazionale per il legname tropicale (International Tropical Timber Organization, ITTO) è un’istituzione intergovernativa che promuove la conservazione, la gestione sostenibile, l’utilizzo e il commercio delle risorse delle foreste tropicali. I paesi membri sono 60 (dalla Repubblica democratica del Congo, all’Indonesia, al Brasile) e rappresentano l’85% della superficie globale delle foreste tropicali e oltre il 90% del giro d’affari legato al legname.

Dall’11 al 15 luglio si è tenuta in Indonesia una Conferenza internazionale dedicata allo sviluppo e alla modalità di gestione delle foreste con un’attenzione particolare alle dinamiche dei paesi asiatici: proprio l’Indonesia è uno degli Stati con la maggiore estensione boschiva del mondo e con il più alto tasso di deforestazione che fa diventare l’arcipelago il terzo produttore di gas serra dopo Stati Uniti e Cina.

Secondo il recente rapporto “Status of Tropical Forest Management 2011”, redatto dall’ITTO, la superficie di foreste sottoposta a un qualche tipo di certificazione e di controllo è cresciuta negli ultimi 5 anni del 50% arrivando a coprire circa 53 milioni di ettari, pari alla superficie della Thailandia (cioè oltre 500 mila km2). Ma essa rappresenta soltanto il 10% delle foreste tropicali: un segnale preoccupante perché implica l’impossibilità di regolare lo sfruttamento del legname e quindi di arginare la deforestazione e la distruzione di indispensabili polmoni verdi. Occorre ricordare che, secondo le stime dell’IPCC, il disboscamento indiscriminato incide per il 18% sulla quota di emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera.

Da decenni le foreste tropicali sono sottoposte a crescenti minacce: milioni di ettari sono ogni anno cancellati per far posto all’agricoltura, alla pastorizia e recentemente alla coltivazione di cereali come la colza utili per produrre biocarburanti.

Per fermare o rallentare la distruzione delle foreste si sono messi in campo svariati progetti da parte di istituzioni internazionali e di forum globali sui cambiamenti climatici: uno di questi è la creazione di un fondo di sostegno in favore della riduzione delle emissioni generate dalla distruzione e dalla degradazione delle foreste (REDD). Secondo Duncan Poore, ex direttore generale della IUCN, una delle più note e antiche organizzazioni ambientaliste: “il fondo REDD è una significativa promessa ma è essenziale che esso evolva nel riconoscimento e nel supporto di iniziative che si concentrino sull’utilizzo sostenibile delle risorse della foresta tropicale, inclusa la produzione sostenibile di legname, opponendosi al fatto che divenga primariamente un fondo per la conservazione delle foreste”. Una delle prime iniziative che hanno seguito l’impostazione REDD è stata progettata in Kenya dall’ONG Wildlife Works, con base negli Stati Uniti, che ha portato alla conservazione di 200 mila ettari di foresta vicino al Kenya’s Tsavo East and Tsavo West National Parks.

È evidente che la lotta contro il disboscamento può essere vinta non puntando a una irrealistica trasformazione della superficie forestale in un’area incontaminata e protetta, di cui non è lecito nessun tipo di utilizzo. La sfida vera è la gestione sostenibile del patrimonio ambientale. Il problema principale risiede nell’indifferenza generalizzata dei mercati occidentali di carta e di legname al fatto che i prodotti provengano da zone certificate; come al solito si pensa solamente ai risvolti economici: poiché da anni il prezzo del legname è cronicamente basso soprattutto rispetto a quello del cibo o delle risorse energetiche, è chiaro che nessuno vuole cambiare la situazione, con il rischio di un aumento di prezzi. Afferma Jurgen Blaser, già direttore della Fondazione Svizzera per lo sviluppo e la cooperazione internazionale, ora Helvetas Swiss Intercooperation: “Soprattutto nelle nazioni ricche, i consumatori non sembrano intenzionati a pagare prezzi significativamente più alti per legname certificato o verificato legalmente. Inoltre i prezzi del legname sono generalmente bassi mentre quelli per cibo e biocarburanti salgono in fretta. L’agricoltura è stata da sempre la maggiore causa per la deforestazione tropicale e ciò sembra difficile da cambiare in molti paesi almeno nel breve- medio termine”.

Tuttavia il problema principale per la tutela delle foreste rimane un aspetto a cui di solito non si presta la dovuta attenzione: quello dei diritti di proprietà, che in inglese viene definito con la parola “tenure”. Questo termine, di difficile traduzione in italiano, indica l’insieme delle svariate forme di diritto che singoli, comunità e istituzioni possono avere su una determinata porzione di territorio. Questi diritti vanno dalla proprietà all’usufrutto, dalla licenza di utilizzo alla servitù passiva, fino a una gamma di contratti ed accordi che variano da caso a caso.

Per quanto riguarda le foreste comunemente si pensa che esse siano di esclusiva proprietà dello Stato a cui basterebbe soltanto la buona volontà per proteggere il patrimonio boschivo. In realtà così non è, anzi la maggior parte della superficie delle foreste tropicali è una “terra di nessuno” una vera e propria “giungla di diritti” dove tutto è possibile, soprattutto lo sfruttamento distruttivo. Da ciò deriva che l’azione più urgente è quella di chiarire concretamente, a livello statale e internazionale, quali siano le norme legislative da applicare alle foreste e quali siano gli effettivi diritti di proprietà. Occorre definire confini e regole anche se fosse soltanto per “stanare” gli accordi sottobanco che Stati corrotti ma pure insospettabili raggiungono con multinazionali senza scrupoli allo scopo di un uso indiscriminato: il vuoto normativo è un disastro ancora peggiore, perché senza istituzioni regolative comanda il più forte e il primo che arriva.

Nel frattempo Unimondo ha lanciato la campagna 1 fan 1 albero per sostenere un progetto di riforestazione in Kenya. Un piccolo seme che cresce senza far rumore, ma che offre già da adesso un po' più d'aria pura al mondo: proprio come una foresta.  

 

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Nel frattempo siamo troppi di Paul Kennedy

Internazionale - numero 907 - 22 luglio 2011  

   

È un periodo elettrizzante per chi fa il commentatore di politica internazionale. Ogni giorno ti chiedi di cosa scrivere. Le insidie del ritiro delle truppe occidentali dall’Afghanistan? La crisi della Grecia e dell’euro? La primavera araba e la sua crisi? L’espansionismo della Cina o il rischio che esploda la sua bolla economica? L’eventualità di una folle aggressione iraniana a Israele o di un altrettanto folle attacco israeliano a Teheran?

Lascio al lettore la scelta fra questi argomenti poco allegri. Intanto, sullo sfondo, si muovono tendenze globali più preoccupanti, che però anche nei migliori giornali del mondo sono appena accennati. Un esempio: il 4 maggio il New York Times titolava “Esperti dell’Onu prevedono aumento della popolazione mondiale a 10,1 miliardi”. Non mi pare che nessuno dei nostri opinionisti abbia scritto sul tema nei giorni seguenti. Erano tutti presi da una questione ben più effimera: quanto ancora rimarrà al potere il colonnello Gheddafi?

Tristi considerazioni su come la nostra ossessione dell’hic et nunc ci precluda una visione d’insieme. Meglio tornare al mondo reale, dunque. All’alba del ventunesimo secolo la popolazione umana ha superato la soglia dei sei miliardi di persone. Il prossimo ottobre, cioè meno di 12 anni dopo, secondo le Nazioni Unite saremo sette miliardi. Le nuove proiezioni, che parlano di un totale di dieci miliardi entro il 2100, fanno paura.

Ma perché succede tutto questo? Il fatto è che la cosiddetta transizione demografica (cioè il passaggio verso una condizione in cui le donne in media fanno meno figli, di solito nelle fasi di urbanizzazione, in cui il tenore di vita aumenta e le donne sono più istruite e hanno più potere) non si sta verificando con la rapidità prevista. Questo rapporto è stato pubblicato dalla Population Division dell’Onu, quindi non si può certo far finta di niente. Al centro di questa vicenda ci sono, purtroppo, l’Africa e alcuni paesi arabi. Ma ci sono anche altri aspetti importanti.

Per esempio, la popolazione di Stati Uniti, Gran Bretagna, Danimarca e Australia aumenta in modo equilibrato mentre Germania, Francia, Italia, Spagna, Russia e Giappone, con il loro alto numero di anziani, vivranno tempi duri. Il rapporto indica anche che le politiche restrittive attuate in Cina negli ultimi cinquant’anni (un solo figlio per famiglia) avranno come conseguenza, nei prossimi decenni, uno squilibrio demografico disastroso. Si prevede, cioè, che l’attuale popolazione cinese (un miliardo e 400 milioni di persone), stabile ma in via d’invecchiamento, si ridurrà a 940 milioni entro il 2100. Addio al “secolo cinese”.

E poi c’è l’Africa. Una volta il generale de Gaulle disse che il ventesimo secolo non era stato buono con l’Africa. Ma in base al nuovo rapporto Onu il ventunesimo secolo rischia di essere peggiore. Sinceramente non vedo altre conclusioni, quando leggo le previsioni secondo cui l’attuale popolazione – circa un miliardo di persone – potrebbe raggiungere i 3,600 miliardi entro la fine del secolo. Scarsa attenzione alla salute delle donne, culture maschiliste, ambulatori insufficienti… Sono cose che esistono da secoli, ma il rapporto dice che non spariranno abbastanza rapidamente. Certe previsioni sono così clamorose da sembrare false.

Prendiamo il Malawi: è già in difficoltà con gli attuali 15 milioni di abitanti, ma si prevede che raggiungerà i 129 milioni. Lo Yemen – che si trova in una delle regioni più aride del mondo – ha una popolazione che dal 1950 a oggi è quintuplicata passando da cinque a 25 milioni, e si prevede che entro fine secolo arriverà a cento milioni. Ma il caso demografico più clamoroso è la Nigeria. La Population Division dell’Onu prevede che dagli attuali 162 milioni – già insostenibili – si arriverà a circa 730 milioni nel 2100, cioè molto più della popolazione dell’intera l’Unione europea.

È concepibile una cosa del genere? È tollerabile? Assolutamente no. Secondo alcuni demografi ed esperti di riserve alimentari, l’economia mondiale è in grado di sfamare nove miliardi di persone. Ma queste proiezioni non tengono conto della politica alimentare internazionale, che è pessima. Né dell’aumento dei prezzi mondiali dei generi alimentari. Non tengono conto della massiccia domanda futura di cibo di Cina e India, che assorbiranno eventuali surplus americani, brasiliani o canadesi, a spese dei paesi privi di potere d’acquisto. Infine non tengono conto delle riserve mondiali di acqua potabile, che probabilmente diventeranno l’indicatore decisivo della situazione dei vari paesi nel ventunesimo secolo. Senza sufficienti riserve d’acqua, il miracolo della Cina e dell’India finirà.

I paesi che possiedono riserve adeguate – Stati Uniti, Europa occidentale, Brasile, Canada – staranno bene, mentre senz’acqua lo Yemen non raggiungerà mai i cento milioni di abitanti previsti, perché saranno falcidiati da disidratazione, dissenteria e malnutrizione, insieme a milioni e milioni di africani. Quindi smettiamola di lasciarci ipnotizzare dalla crisi finanziaria della Grecia o dalle disavventure dell’ex capo del Fondo monetario internazionale. Cominciamo a pensare seriamente alle vere, grandi sfide del ventunesimo secolo.  

  

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AFRICA

L’Africa? c’est moi di Alberto Bobbio  

ilmondodiannibale - 13 luglio 2011 

      

L’Africa? “A moi”, dice senza alcuna remora retorica il presidente francese Nicolas Sarkozy, dopo aver vinto la gara a chi bombardava per primo il Colonnello Gheddafi. C’è una lezione da trarre circa ciò che accade nel Nord Africa e poi più a sud tra Costa d’Avorio, la Nigeria gonfia di petrolio e distretti nazionali colmi di minerali indispensabili alle tecnologie occidentali. Ed è quella che le bugie hanno le gambe corte e di solito lasciano sul terreno macerie.

In questo caso le macerie hanno un nome preciso: fame, sottosviluppo e rapina. La gara del presidente francese aveva un intento ben preciso. Mettere alle corde il leader libico poiché disturbava interessi francesi non solo nell’area del Maghreb, ma anche nella fascia subsahariana. Gheddafi certamente è un tiranno del suo popolo, ma le motivazioni etiche ed umanitarie non sono mai la ragione degli interventi delle cosiddette “coalizioni dei volonterosi”. Gheddafi era un disturbo, anzi il disturbo primario della geopolitica francese in Africa e più in generale occidentale, nel senso dei grandi interessi energetici, delle telecomunicazioni, e di quelli finanziari. Gheddafi aveva promesso di finanziarie il Fma, in pratica il Fondo Monetario africano, e la Banca centrale africana, che avrebbe dovuto emettere in futuro un’unica divisa continentale. Sarebbe stata la fine del Cfa, il franco francese africano, alter ego della vecchia moneta di Parigi in versione africana, che ha permesso alla Francia di controllare economie dai grandi potenziali e il commercio di materie prime essenziali.

Il Fondo monetario africano è nato l’anno scorso in Camerum e i Paesi occidentali, francesi in testa, si sono precipitati a bussare alla porta. Ma il protocollo adottato dagli africani, proprio da quella porta li fa stare fuori. I soldi li mettono la Libia, l’Algeria e la Nigeria. E’ stato il più grande sgarbo mai fatto dagli africani all’Occidente. La rabbia di francesi e americani, andata in scena nella gara a chi per primo premeva il pulsante delle bombe su Tripoli, la dice lunga sul motivo della guerra. Adesso il Fma avrà qualche difficoltà perché gli americani hanno congelato 30 miliardi di dollari di Gheddafi, che dovevano essere usati a quello scopo. Insomma altro che passione umanitaria e democratica per il popolo libico. Se c’è una cosa a cui si sono sempre applicati i leader occidentali e in particolare i francesi è stato sempre quello di dividere gli africani. Anche la stessa Unione Africana, una sorta di Onu del continente, è stata sempre finanziata dall’Occidente in modo da controllarla e quando gli africani hanno deciso di affrancarsi, affidandosi appunto a Gheddafi, l’unico che ha i soldi, gli europei, Sarkozy in testa, hanno creato una miriade di sigle di comunità economiche regionali per impedire all’Africa di irrobustire un organo centrale di rappresentanza che avrebbe potuto avere più voce in molti capitoli.

Ecco gli accordi dell’Eliseo con Mubarak per l’Unione del Mediterraneo per convincere il Nord Africa a staccarsi dal resto del continente. L’idea è fallita, ma le bombe su Tripoli sperano di rivitalizzarla. Oggi i tentativi di Zuma, il presidente sudafricano che ha in tasca un mandato dell’Unione Africana per trovare una soluzione diplomatica e non militare alla guerra in Libia, dimostrano che si stanno giocando due partite non solo circa le armi, ma soprattutto circa gli interessi. E che la pace, la giustizia, lo sviluppo e la vita dei popoli africani presi in mezzo dalle tragedie, sono purtroppo le ultime ragioni, come sempre relegate in fondo alla fila.  

  

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Vertice su fame e siccità, esperto Onu: "serve prevenzione"

Misna - 25 luglio 2011  

            

La siccità che nel Corno d’Africa colpisce 11 milioni di persone è oggi al centro di un vertice straordinario dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao). A Roma, sede dell’organizzazione, sono attesi ministri e altri esponenti dei 191 paesi membri della Fao per valutare provvedimenti da adottare per venire in aiuto alle popolazioni più a rischio, in particolare in Somalia, dove la situazione di conflitto tra governo e insorti rende l’assistenza estremamente difficile. La riunione è stata organizzata su iniziativa della Francia, presidente di turno del G-20. Il Segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon ha chiesto alla comunità internazionale 1,6 miliardi di dollari per affrontare l’emergenza in Somalia.

Ma l’aiuto straordinario della comunità internazionale non risolverà le crisi umanitarie ricorrenti nella regione, ha sottolineato un alto consigliere dell’Onu. “Non potremo mai risolvere questi problemi con interventi straordinari. Dobbiamo risolverli attraverso la prevenzione” ha detto Jeffrey Sachs, consigliere speciale di Ban Ki-moon, durante una conferenza stampa a Nairobi (Kenya). “Abbiamo messo in allerta quasi ogni giorno sulla problematica delle terre aride in Africa, ma nessuno, in Europa o negli Stati Uniti, ci ha ascoltato. E adesso, tutti si precipitano per fare qualcosa. Se continueremo a rispondere alla siccità o alle crisi in questo modo, non avranno mai fine, l’aiuto sarà sempre troppo debole e arriverà sempre troppo tardi” ha aggiunto Sachs, un economista statunitense.

All’origine della siccità sempre più frequente nei paesi dell’Africa orientale, secondo l’esperto, sono i cambiamenti climatici uniti alla povertà che frena lo sviluppo.  

   

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Il legame tra carestia e crescita delle spese militari americane di Gianni Alioti

Nigrizia - 28 luglio 2011

       

Le immagini della carestia che ci giungono dal Corno d'Africa, devono interrogare la nostra coscienza e costringerci a riflettere sulle cause che l'hanno prodotta. Non si tratta di una "catastrofe naturale" di un "castigo divino", ma della responsabilità degli uomini e delle logiche che continuano a governare le scelte dei singoli Stati e della comunità internazionale.

Ci sono fili sottili, ma non invisibili per chi li vuole vedere, che legano la crisi ambientale prodotta dal nord del mondo con la povertà estrema nel sud, la finanza globale con la crescita delle disuguaglianze sociali e la distruzione delle risorse naturali, il complesso militare - industriale con la crisi dei debiti sovrani, le guerre, il terrorismo e l'aumento delle spese militari con i bambini che muoiono di fame.

La politica nella sua interezza, in Italia come altrove, nasconde questi fili, per ignoranza o interesse. Per l'umanità e la "madre terra" il risultato non cambia.

Sono passati 50 anni e l'ammonimento di Dwight D. Eisenhower, ex presidente americano, a non permettere che il peso della combinazione di poteri tra l'immenso corpo di istituzioni militari e un'enorme industria di armamenti mettesse in pericolo le nostre libertà o i processi democratici, è rimasto inascoltato. Gli Stati Uniti, nonostante la contrapposizione con l'ex-blocco sovietico fosse ormai alle spalle, dal 1995 al 2010 hanno incrementato costantemente il loro budget annuo destinato alle spese militari, passando da 279 a 698 miliardi di dollari (il 150%in più). In percentuale annua sul Prodotto interno lordo (Pil) le spese militari americane sono passate - dal 1999 al 2010 - dal 3 al 4,8%.  

 

          

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Corno d'Africa, le dimensioni di una catastrofe di Carlo Ciavoni

Repubblica - Roma - 27 luglio 2011

Esodi di massa, epidemie, una lenta strage

In stato di malnutrizione grave il 30% dei somali, con punte - nel Sud del Paese - del 55%. Nell'arco dei prossimi due mesi la carestia potrebbe colpire tutte le regioni meridionali della Somalia, più o meno un territorio esteso come l'Italia. La pressione crescente sui campi profughi sovraffollati in Kenia e in Etiopia, dove operano Medici Senza Frontiere e Unicef

  

Nel Corno d'Africa e in Somalia in modo particolare, le proporzioni della tragedia appaiono epocali, stando almeno ai continui report e ai dati diffusi dalle Agenzie delle Nazioni Unite. L'Unicef, ad esempio, ha calcolato che il tasso di malnutrizione nell'area è del 30%, con punte fino al 55%; che si registrano 4 decessi infantili al giorno ogni 10.000 bambini; che muoiono 2 persone al giorno ogni 10 mila abitanti; e che nell'arco dei prossimi due mesi la carestia potrebbe colpire tutto il Sud della Somalia, più o meno un territorio esteso come l'Italia. Lo stato di carestia, come si insiste a dire in questi giorni, coinvolgerebbe circa 12 milioni di persone bisognose di aiuti immediati, senza cibo sufficiente, senza accesso all'acqua potabile, prive di ogni capacità di sussistenza, aggravata soprattutto dal fatto che la siccità ha penalizzato drasticamente la produzione agricola e decimato il bestiame. Un improvviso, diffuso impoverimento, dunque, che ha prodotto esodi di massicci, testimoniati dal campo profughi di Dadaab, in Kenya, già catalogato come il più grande del mondo, con i suo 400 mila "ospiti" (2/3 dei quali sono bambini), dove le équipe di Medici Senza Frontiere 2 (MSF) e di altre organizzazioni umanitarie tentano l'impossibile per sopportare la pressione di migliaia di arrivi al giorno e fronteggiare problemi che si complicano di ora in ora.

 

La carestia vista dai bambini. In Somalia - stando sempre ai dati dell'Unicef - un milione e 850 mila bambini hanno un immediato bisogno d'assistenza e oltre 780.000 sono malnutriti, di cui 340.000 in modo grave ed in immediato pericolo di vita. Il Sud ospita l'82% di tutti i bambini malnutriti - circa 640.000 bambini - e il 90% di quelli malnutriti in modo grave: 310.000 in imminente rischio di morte. Nel Paese, 3,7 milioni di persone necessitano d'assistenza umanitaria - oltre la metà della popolazione somala - di cui 2,8 milioni nel Sud, colpiti dall'emergenza complessa che sta investendo tutto il Corno d'Africa. Si calcola inoltre che nessun miglioramento della situazione alimentare è previsto prima del 2012, cioè prima dei prossimi raccolti.

 

Gli equilibri delicati. E' tutto il Corno d'Africa ad affrontare questa drammatica emergenza causata da numerosi elementi concomitanti, come ad esempio la peggiore siccità degli ultimi decenni, un immediato aumento dei prezzi alimentari (fino al 270% quello dei cereali) in buona parte alimentato anche dalle speculazioni finanziarie nelle borse dei paesi ricchi, e infine dagli effetti della guerra ventennale che lacera la Somalia, dove recentemente - tra l'altro - è stato deposto un premier il quale, sebbene provvisorio, aveva dato prova di avviare un processo di stabilità politico-istituzionale. Processo interrotto da complicatissimi equilibri locali, ma anche da opache interferenze e pressioni di potenze straniere, di fronte alle quali la cosiddetta "comunità internazionale" appare distratta e dunque complice.

 

Il quadro generale del disastro. In tutto il Corno d'Africa, dunque, ci sono circa 12 milioni di persone disperate, che non hanno più nulla e che hanno immediato bisogno di aiuto. Oltre ai 3,7 milioni in Somalia (il 28%della popolazione) ce ne sono 4,5 milioni in Etiopia; 3,5 milioni in Kenya; 120.000 a Gibuti. Tutte le persone colpite sono ad alto rischio di contrarre malattie potenzialmente mortali, tra cui morbillo, diarrea acuta e polmonite, con donne e bambini che figurano, come sempre, tra i soggetti più a rischio. Donne e bambini pagano le conseguenze più gravi dell'emergenza in atto: nei paesi coinvolti - Somalia, Kenya, Etiopia, Gibuti  -  più di 2,3 milioni di bambini risultano malnutriti, tra cui quasi 720.000 in modo grave e dunque in immediato pericolo di vita.

 

L'emergenza nell'emergenza. Nel quadro drammatico e complesso di questa situazione, si individuano tre emergenze localizzate: quella nei campi profughi sovraffollati di rifugiati somali in Kenya e in Etiopia, con riflessi che colpiscono le comunità circostanti; un'altra conseguenza, più silenziosa, che sta mettendo duramente alla prova le popolazioni nelle aree rurali dei paesi colpiti dalla siccità; l'ultima, che coinvolge donne e bambini in Somalia, costrette a confrontarsi direttamente prese con gli effetti della guerra, della siccità, della carestia.

 

La strage degli innocenti. In Somalia - sono sempre dati dell'Unicef - dall'inizio del 2011 sono già morti più di 400 bambini, una media di 90 ogni mese, con l'86% dei decessi infantili concentrato nelle regioni centro-meridionali, nonostante l'UNICEF e i partner abbiano già curato nello stesso periodo oltre 100.000 bambini affetti da malnutrizione acuta. In alcune aree del Kenya, si registrano picchi del 37% dei tassi di malnutrizione infantile. Massiccio è il flusso di profughi somali verso i paesi confinanti, specie in Kenia - dove ne arrivano 10.000 a settimana, e in Etiopia, le cui frontiere vengono varcate da circa 2.000 persone al giorno. Gente che arriva stremata, in condizioni di salute che mettono a rischio la loro stessa sopravvivenza, oltre che a contribuire alla diffusione di epidemie nei luoghi di accoglienza.

 

Gli interventi in corso. La risposta dell'UNICEF si è concretizzata con la mobilitazione di tutte le risorse, umane e materiali per un intervento immediato. Nell'ultimo mese, l'Agenzia dell'Onu ha inviato, via aerea, per mare e per terra oltre 1.300 tonnellate aiuti salvavita in Somalia, inclusi alimenti iperproteici, Ready to use therapeutic food, cibo terapeutico pronto per l'uso. Sono dei "panetti" - si chiamano Plumpynut - delle dimensioni di un Kinder Pingui da mordere, composto da una pasta dolce, assai gradevole, che contiene latte, arachidi, burro, sostanze ipernutrienti indispensabili per la crescita. Se presi in tempo, i bambini sottoposti a questo trattamento alimentare intensivo riprendono peso, ma soprattutto riacquistano tono muscolare, ricominciano a giocare e smettono di essere apatici e tristi. L'Unicef ha distribuito materiale nutritivo per 66.000 piccoli malnutriti.

 

Lo sforzo economico. Un milione e 200 mila dollari di aiuti sono stati inviati in Etiopia e 1,4 milioni sono stati consegnati alle organizzazioni partner in Kenya. Il 25 luglio scorso, ulteriori 105 tonnellate di aiuti salvavita, tra scorte mediche (medicinali di base, kit sanitari d'emergenza, kit ostetrici, siringhe, ecc.) e prodotti per l'acqua e l'igiene (soprattutto sali per la reidratazione orale), partiranno dal centro logistico per gli aiuti di emergenza dell'UNICEF a Copenaghen alla volta del Corno d'Africa.

Deputati e senatori italiani per il Corno d'Africa. "Cari colleghi, vi scriviamo per attirare la vostra attenzione sull'emergenza umanitaria del Corno d'Africa", comincia così la lettera che alcuni  senatori e deputati hanno scritto e letto questa mattina ai propri colleghi di Camera e Senato. Una lettera che invita a donare la diaria di un giorno all'UNICEF Italia, con lo scopo di poter acquistare, per i bambini che ora si trovano nell'emergenza del Corno d'Africa, kit idrico-igienici, vaccinazioni e confezioni di Plumpynut, un composto di vitamine e sali minerali, indispensabili in questo momento. La lettera è firmata, tra gli altri, da Gianrico Carofiglio, Benedetto Della Vedova, Beppe Pisanu, Rosa Calipari e Walter Veltroni.

   

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BANGLADESH

Corrispondente di AsiaNews in fuga sequestrato dalle autorità nepalesi di Kalpit Parajuli

AsiaNews - Kathmandu - 26 luglio 2011

Dal 27 maggio la polizia del Nepal tiene in stato di fermo William Gomes senza alcuna ragione. L’attivista stava tentando di raggiungere Hong Kong via Nepal dopo essere stato torturato e minacciato dalle autorità di Dhaka per le sue attività in favore dei cristiani. Portavoce del principale partito di opposizione nepalese accusa il governo di gravi violazioni dei diritti umani e invita il Primo ministro a dimettersi.  

    

Fuggito dal Bangladesh dopo aver subito torture dalla polizia, William Nicholas Gomes, corrispondente di AsiaNews e attivista per i diritti umani, è da mesi in stato di fermo a Kathmandu. Dal 27 maggio le autorità stanno facendo di tutto per rimpatriarlo, ma a tutt’oggi non hanno fornito alcuna spiegazione.

 “Sono scappato in Nepal per raggiungere Hong Kong e salvare la mia vita – spiega Gomes – grazie all’aiuto dell’Asian Human Rights Commission. Quando mi sono recato all’ufficio per l’immigrazione i funzionari hanno ritardato le pratiche tentando di rimpatriarmi”. L’attivista racconta che il 9 luglio, mentre tentava di prendere un aereo per Hong Kong, la polizia ha perquisito i suoi bagagli per verificare la presenza di droga e altre sostanze vietate, ma non ha trovato nulla.  

“Passato il controllo – racconta – mi hanno fermato all’imbarco dicendo che i miei documenti non erano validi per l’espatrio. Senza ulteriori spiegazioni mi hanno messo in stato di fermo, sorvegliato da due guardie con cani anti droga, obbligandomi a chiedere all’ambasciata del Bangladesh l’autorizzazione per il transito”. L’attivista racconta di aver ottenuto tutti i documenti necessari per l’espatrio e il transito nei Paesi stranieri. “Non c’è nessuna ragione per il mio fermo – sottolinea – ho un visto legale per stare in Nepal, la polizia però mi considera come un criminale”.

Il 21 maggio scorso degli uomini a bordo di una macchina scura hanno prelevato, sequestrato e torturato William Gomes, musulmano convertito al cristianesimo. L’uomo, membro dell’Asian Human Rights Commission (Ahrc) e fondatore della Christian Development Alternative (Cda – un’organizzazione umanitaria), è stato denudato, costretto a terra e interrogato per quasi cinque ore. Questi uomini, tra cui uno di madrelingua inglese, lo accusavano di essere in contatto con i servizi segreti pakistani (Isi - Inter Service Intelligence) e di ricevere mazzette per “danneggiare l’esercito del Bangladesh”. Inoltre, Khaleda Zia lo avrebbe pagato per gettare discredito sul premier Sheikh Hasina. Dopo le minacce di morte a lui e alla sua famiglia, Gomes ha giurato di lasciare l’Ahrc ed è stato liberato.

Gomes dice di essere preoccupato per la vita dei suoi familiari rimasti in Bangladesh. “Mia moglie, i miei figli sono in pericolo. Io sono diventato un uomo senza patria, il mio governo sta lavorando contro di me. Dove dovrei andare per salvare la mia vita e quella dei miei cari?”. Egli lancia un appello a tutti i cattolici per convincere il governo nepalese a liberarlo e a salvare la sua vita.

In questi mesi il caso di Gomes ha suscitato molta preoccupazione fra le organizzazioni per i diritti umani nepalesi e i partiti di opposizione, che accusano le autorità di agire senza alcun potere o mandato, violando le norme democratiche e civili del Paese.

Secondo Subodh Pyakurel, dell’Informal Sector Service Centre, organizzazione nepalese per i diritti umani, le autorità non hanno il diritto di trattenere l’uomo in stato di fermo. “Quando ho parlato con le autorità dell’aeroporto per aiutare Gomes non mi hanno dato alcuna ragione concreta. La polizia non può impedirgli di raggiungere Hong Kong e non ha nemmeno il diritto di rimpatriarlo”.

Arjun Narsingh K.C., portavoce del Nepali Congress, principale partito di opposizione del Paese, afferma: “Come può il nostro governo assicurare il rispetto dei diritti umani, quando trattiene senza ragione un attivista dentro i suoi confini”. Dopo questo scandalo, Arjun invita il Primo ministro a dimettersi e chiede alle autorità di polizia di liberare Gomes consentendogli il transito verso Hong Kong.  

 

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CILE

I mapuche, popolo della terra di Fabrizio Noli

Articolo21 - 26 luglio 2011  

     

l “popolo della terra”, questo significa, letteralmente mapuche, da Che, “popolo” e Mapu, “terra”, nella loro lingua, il mapudungun. In spagnolo sono indicati invece come araucani. In realtà, come nel caso dei montagnards, siamo davanti una serie di gruppi, che condividono, in linea di massima, la struttura religiosa, sociale e linguistica, sparsi tra la Patagonia cilena e quella argentina, per un totale di circa 600mila persone in Cile, dove costituiscono il 4% della popolazione del paese, e circa 300mila in Argentina. Un popolo estremamente fiero, capace di resistere non solo ai tentativi dell’Impero Inca di assoggettarli, ma anche a quelli degli spagnoli, al punto che nel 1641, col trattato di Quillin, Madrid riconobbe l’indipendenza dei loro  territori  a sud del fiume Bio-Bio. Una resistenza venuta meno solo nel 1876, quando il Cile incorporò i loro territori, provocando una vera e propria decimazione…Ma su questa resistenza plurisecolare, come anche sul presente di questo popolo, abbiamo raccolto l’opinione di Alessandro Michelucci, responsabile del Centro Documentazione Popoli Minacciati, di Firenze

 “Questa resistenza è stata dovuta, in gran parte, alla conoscenza che avevano di un territorio piuttosto vasto, ma, soprattutto, molto variegato e articolato sul piano orografico ed idrografico. Soprattutto, segnalerei, per dare un’idea della resistenza araucana o mapuche, che dir si voglia, il famoso poema epico “L’Araucana”, del 1569, composto da un soldato-poeta, Alonso de Ercilla, un poema pieno di ripsetto verso questo popolo, riconosciuto come nemico, verso il quale però l’autore non nascondeva un sentimento anche di ammirazione, cosa a dir poco anomala tenuto conto che si trattava di un conquistador, e che, in generale, il punto di vista dei conquistatori europei all’epoca era molto netto: non veniva mai espresso neppure il riconoscimento del nemico indigeno in quanto tale!”

Ma la cosa che colpisce, comunque, è che l’Impero Azteco e quello Inca sono stati spazzati via nel giro di pochi anni. Gli araucani invece, opposero una resistenza costante, per più di tre secoli!

 “Beh, a parte il fatto che l’Impero Inca era sul punto di implodere quando arrivarono gli spagnoli, la situazione dei mapuche era molto più circoscritta, anche sul piano territoriale. La cosa li ha aiutati…”

In pratica, gli spagnoli ebbero molti più problemi a cercare di controllare l’attuale Patagonia cilena…c’è poi da sottolineare come, nel 1860, i mapuche siano stati in grado di costituire un vero e proprio regno indigeno, il Regno di Araucania. I loro capi riconobbero in un francese , discendente di filibustieri, Orélie-Antonie de Tounens, il loro re, Orélie Antonie I. Fu però il primo e unico sovrano di questo stato, presto sopraffatto dal Cile. Fatto sta che, alla fine del XIX secolo, i mapuche erano ridotti ad appena 25mila individui, dopo l’annessione a Santiago della Patagonia. Ma le sofferenze di questo popolo sono continuate anche dopo, specie durante il regime di Pinochet, tra il 1973 e il 1988…

 “Ed è un fatto che non è stato mai adeguatamente sottolineato in quegli anni, dai tanti che si sono battuti contro il generale. Centrale, in quegli ani, è stata la questione delle terre. Buona parte delle terre indigene fu confiscata, dato che Pinochet era stato appoggiato, per il suo golpe, anzitutto dai grandi proprietari terrieri cileni, che poi, come si dice in gergo, “passarono all’incasso”. La repressione comunque fu notevole: molti furono torturati e uccisi”

Una repressione culminata, nel 1978, con l’emanazione della legge 2658. Dietro la facciata di una “politica di sviluppo”, in realtà infatti, si trattava di un dispositivo normativo che incentivava  la divisione delle terre indigene in appezzamenti, oltre che a negare la stessa identità dei mapuche

 “In questo Pinochet si comportò come Ataturk: come il padre della moderna Turchia diceva “siamo tutti turchi”, così il generale sosteneva non ci fossero popolazioni indiane. “Siamo tutti cileni” era un pò il suo slogan!”

Anche dopo la fine della dittatura di Pinochet, i problemi sono comunque continuati, per i mapuche…

 “Specie in questi ultimi anni, i mapuche sono stati molto infastiditi dal credito tributato in Europa all’ex presidente cileno, la signora Bachelet, socialista e per questo divenuta una sorta di beniamina della sinistra del vecchio continente. Loro, hanno continuato a sostenere che avevamo preso una “cantonata” pazzesca, dato che, rispetto all’indirizzo repressivo di Pinochet, poche cose erano cambiate, specie sul fronte del problema dell’esproprio delle terre, continuato a favore di multinazionali come anche la stessa Benetton…”

Ma oggi, cosa resta della loro cultura?

 “Soprattutto negli ultimi anni c’è, da parte di questo popolo, una riappropriazione delle proprie radici culturali, specie in campo poetico. I mapuche danno grande importanza alla poesia, e alcune raccolte sono state pubblicate anche in Italia…al di là di questo aspetto, poi, c’è l’attaccamento alla religione tradizionale”

Basata sul culto degli spiriti e degli antenati, in cui un ruolo determinante spetta alle donne, le “machi”, ossia le sciamane, il che ricorda gli eschimesi…

 “Sì, certo, la loro società da grande importanza all’elemento femminile”

E comunque, dopo la fine della dittatura di Pinochet si è cercato di rilanciare le tradizioni culturali mapuche, anche in campo linguistico, con l’insegnamento del loro principale idioma, il mapudungun…

 “Devo dire che le iniziative più interessanti sono state avviate in Europa, ad esempio presso l’Università di Siegen, non lontano da Colonia, è stato costituito un centro di cultura mapuche in Germania. Si tratta, in effetti, di un popolo che in Europa ha saputo costituire una rete molto attiva, specie in Gran Bretagna ed in Olanda, tanto che a Bristol è stato costituito il Mapuche International Link, che funge da ente coordinatore di molte iniziative culturali. Come spesso succede, i popoli indigeni magari non compaiono agli occhi dell’uomo della strada, ma in loco, fuori del loro paese, sono in grado di portare avanti al meglio le loro bataglie in difesa delle loro identità specifiche!”

   

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CINA

Pechino pontifica contro “le minacce” del Vaticano di Bernardo Cervellera

AsiaNews - Roma - 25 luglio 2011

L’Aministrazione statale per gli affari religiosi difende l’integrità dei due vescovi scomunicati (di Leshan e Shantou) e scimmiotta il Vaticano dicendo che il gesto della Santa Sede porta “ferite” e “tristezza” fra i cattolici in Cina. Si riafferma la decisione di andare avanti con le ordinazioni senza mandato del papa, ma la “resistenza” di fedeli, sacerdoti e vescovi al loro strapotere è in aumento. Hu Jintao e Wen Jiabao dovrebbero mettere le mani sulle violazioni alla “società armoniosa” e sulla corruzione dei rappresentanti responsabili della politica religiosa.  

  

Contro “le minacce” “irragionevoli” e “brutali” del Vaticano, un portavoce (anonimo) del governo afferma che Pechino andrà avanti per la sua via ad ordinare vescovi senza il mandato papale.

È in sintesi quanto contenuto in una dichiarazione dell’Amministrazione statale per gli affari religiosi (Asar, il vecchio Ufficio affari religiosi), pubblicata oggi sulla Xinhua.

La dichiarazione prende di mira “le accuse del Vaticano contro l’ordinazione dei vescovi della Chiesa cattolica cinese” e in particolare le ordinazioni di Leshan (29/6/2011) e Shantou (14/7/2011).

Come si sa, a Leshan è stato ordinato vescovo p. Lei Shiyin, un candidato che la Santa Sede aveva da lungo tempo rifiutato per “gravi motivi” (cfr. 29/06/2011 Leshan, sette vescovi legittimi all’ordinazione episcopale senza mandato del papa); a Shantou è stato ordinato p. Huang Bingzhang, anch’egli consigliato dalla Santa Sede a farsi da parte, anche perché a Shantou vi è già un vescovo, ma non riconosciuto dal governo (14/07/2011 Otto vescovi in comunione col papa costretti all’ordinazione illecita di Shantou).

In entrambi i casi, a ordinazioni avvenute, la Santa Sede ha pubblicato una dichiarazione in cui si rende pubblica la scomunica dei due neo-ordinati (v.: 04/07/2011 La Santa Sede condanna l’ordinazione episcopale di Leshan e 16/07/2011 La Santa Sede condanna il vescovo illecito di Shantou; apprezza “la resistenza” di vescovi e fedeli).

Va notato che la scomunica è “latae sententiae”, cioè automatica, per il fatto che uno ha compiuto il gesto di disobbedienza alla fede. In questo caso non c’era nemmeno il problema di verificare l’intenzione dei due, perché a più riprese entrambi erano stati consigliati di non concorrere all’episcopato.

L’Asar si schiera proprio contro la scomunica, questa “minaccia” “irragionevole”, questo “mezzo brutale” che “ferisce in modo profondo” i cattolici cinesi e “causa grande tristezza” a sacerdoti e laici. Ed è curioso che Pechino usi gli stessi termini (“ferite profonde” e “causa di grande tristezza”) che le dichiarazioni vaticane attribuiscono alla Chiesa universale e al papa!

Come è tradizionale prassi nel Partito comunista, occorre ritorcere le accuse contro l’interlocutore, così che mentre il Vaticano parla di lesione alla libertà religiosa, Pechino si ammanta a vittima della Santa Sede.

Lo scimmiottamento del papa e della Santa Sede, giunge al colmo quando nella dichiarazione si pontifica che “ i due nuovi vescovi ordinati sono devoti nella fede, hanno integrità e competenza, sono sostenuti dai loro sacerdoti e fedeli laici”: davvero curioso che due sacerdoti della Chiesa cattolica debbano avere la patente di ortodossia da un’associazione costruita da segretari atei, e guidata da un Partito ateo!

Il vittimismo dell’Asar giunge fino a ricordare che anche negli anni ’50 il Vaticano “ha minacciato” vescovi e preti con la scomunica, e che per questo “sacerdoti e laici della Chiesa cattolica cinese hanno sofferto un grande trauma storico”!

A parte la falsità storica dell’affermazione – in passato nessun vescovo o sacerdote è mai stato scomunicato ufficialmente e solo Giovanni XXIII ha parlato di possibile scisma nascosto nella Chiesa in Cina – l’Asar sembra non considerare le “sofferenze” e i “grandi traumi” delle decine di vescovi e centinaia di sacerdoti che hanno affrontato prigioni (fino a 20-30 anni), lager, torture, irrisioni con tribunali del popolo solo perché fedeli al papa come capo religioso della Chiesa cattolica. Se il Vaticano dovesse canonizzare tutti i martiri cinesi del comunismo, forse avremmo la canonizzazione più numerosa della storia!

Alle “minacce” del Vaticano l’Asar risponde con un’altra minaccia: “la maggioranza dei preti e dei laici sarà ancora più ferma nel [l’affermare] la strada dell’indipendenza e dell’auto-organizzazione, con vescovi autoeletti e auto-ordinati”.

Tale minaccia – di continuare le ordinazioni illecite, senza mandato del papa – è stata ripetuta giorni fa dal vescovo illecito Guo Jincai, che nel China Daily del 22 luglio ha dichiarato che “almeno sette diocesi della Cina ordineranno i loro vescovi eletti”. E ha aggiunto: “quando le condizioni saranno buone”.

Il punto è infatti che “le condizioni” sperate dall’Asar non sono buone per nulla. Sempre più fedeli, sacerdoti e vescovi prendono le distanze dalle ordinazioni illecite: a Shenyang, mons. Pei Junmin ha resistito ad essere deportato per l’ordinazione di Shantou (per la quale era stato designato come officiante principale), grazie anche alla difesa di lui che ne hanno fatto sacerdoti e fedeli della diocesi; un altro vescovo, mons. Cai Bingrui di Xiamen, precettato per Shantou, è riuscito a nascondersi ed è ricercato dalle autorità del governo.

Insomma, in tutta la Cina sta crescendo la “resistenza” della Chiesa verso le intromissioni indebite del governo su questioni religiose (v. 18/07/2011 Chiesa cinese che “resiste” allo strapotere del governo e dell’Associazione patriottica). In più, in questi giorni, molti vescovi che sono stati costretti con la deportazione a partecipare alle ordinazioni illecite, hanno subito scritto alla Santa Sede comunicando il loro gesto forzato e ricevendo il reintegro nella comunione con il papa.

La dichiarazione dell’Asar parla di “dare sostegno e incoraggiamento” a coloro che vogliono la chiesa “indipendente” e “auto-organizzata”. In realtà, finora si è assistito a deportazioni, rapimenti e sequestro dei vescovi per portarli alle ordinazioni illecite: invece di lasciare liberi vescovi e preti di decidere in modo autonomo, l’Asar ha preferito “sostegno e incoraggiamento” a forza di costrizione.

Con gusto del paradosso, la dichiarazione dell’Asar si conclude con un invito al dialogo: “I principi e la posizione del governo cinese per migliorare le relazioni con il Vaticano sono solide e chiare. Noi speriamo di iniziare un dialogo costruttivo con il Vaticano e speriamo di esplorare vie e modi per migliorare le relazioni”.

La dichiarazione chiede quindi la “rimozione della scomunica” come condizione per continuare “il giusto sentiero del dialogo”.

A parte la grossolanità di voler fare “il papa del papa”, ordinando al pontefice quanto deve fare in materia di fede, è importante questa nota sul dialogo e sulle relazioni diplomatiche. Essa è segno che nella leadership vi è ancora chi vorrebbe modernizzare la Cina garantendo reale libertà religiosa e aprendo al rapporto col Vaticano. E tali personalità si trovano nello stesso entourage del presidente Hu Jintao e del premier Wen Jiabao. Per questo - con paura e timore e in modo contraddittorio con tutta la dichiarazione – l’Asar si allinea con la leadership suprema.

Di fatto però la politica dell’Asar nei confronti della Chiesa cattolica sta lavorando contro i proclami di Hu Jintao sulla “società armoniosa” e sulla “lotta alla corruzione”. I membri del governo per gli affari religiosi e l’Associazione patriottica stanno dividendo le comunità e creando non armonia, ma nuove tensioni nella società cinese. In più, il modo con cui essi depredano beni e immobili della Chiesa apre un nuovo, fetido capitolo alla corruzione al’interno del partito.

Riuscirà Hu Jintao a sanare questo nuovo fronte di inquietudine nella società cinese? Giorni fa il card. Zen, in un appello pubblicato sull’Apple Daily di Hong Kong, chiedeva ai due leader di “dedicare un po’ del loro tempo alla cura dei cattolici” in Cina (v. 13/07/2011 Urgenti appelli del Card. Zen e di mons. Tong contro l’ordinazione illecita di Shantou). Anche noi ci uniamo a questo appello.  

 

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Giro di vite contro i cattolici, ingresso negato a sacerdoti che contestano le ordinazioni illecite

AsiaNews - Hong Kong - 27 luglio 2011

Il visto cancellato a p. Mella, sacerdote del Pime, non è un fatto isolato. Fonte di AsiaNews: nelle ultime settimane “diversi casi analoghi”. Il giro di vite frutto delle tensioni fra Cina e Vaticano per le ordinazioni illecite. La stretta potrebbe “continuare a lungo” ed è fonte di rammarico fra i fedeli che desiderano “l’unità col Papa”.  

    

Il visto di ingresso in Cina negato a p. Franco Mella “non è un fatto isolato”, perché nelle ultime settimane “si sono verificati alcuni casi analoghi”. Pechino “ha inasprito i controlli all’ingresso” dopo le crescenti tensioni con il Vaticano per le ordinazioni illecite di alcuni vescovi. È quanto conferma ad AsiaNews un sacerdote con base a Hong Kong, che chiede l’anonimato per motivi di sicurezza. Egli aggiunge che “la stretta contro i cattolici potrebbe continuare a lungo” ed è motivo di “profondo rammarico e tristezza” fra i fedeli, che desiderano “l’unità con il papa e la Chiesa”. La scorsa settimana i funzionari dell’immigrazione a Shenzhen, nella provincia di Guangdong, nella Cina meridionale, hanno negato il visto di ingresso a p. Franco Mella, sacerdote italiano del Pontificio Istituto Missioni Estere (Pime). Per la prima volta in 20 anni, il missionario con base a Hong Kong è stato bloccato dalle autorità di frontiera. Alla base del gesto, l’adesione alle recenti manifestazioni di protesta per le ordinazioni illecite decise dall’Associazione patriottica (Ap), criticate con forza dal Vaticano. Ieri sulla vicenda è intervenuto anche il card. Zen, arcivescovo emerito di Hing Kong (cfr. AsiaNews 26/07/2011, Card. Zen: l’assurdità di un governo ateo che vuole guidare la Chiesa cattolica).

 “Mi hanno tenuto per oltre un’ora in una stanza” ha raccontato il 62enne sacerdote del Pime, “chiedendomi di guardare la tv. Poi sono tornati e mi hanno detto che il visto cinese era stato annullato”. “Non mi hanno dato spiegazioni”, quindi tre funzionari “mi hanno scortato sul lato di Hong Kong del punto di confine”. Egli avrebbe dovuto visitare la provincia dell’Henan e aveva ottenuto il nulla osta all’ingresso un mese fa.

Il caso di p. Mella “non è un fatto isolato”, commenta una fonte cattolica di AsiaNews ad Hong Kong, perché “nelle ultime settimane si sono verificati alcuni casi analoghi”. Ad un sacerdote è stato annullato il visto di ingresso in Cina, oppure altri “bloccati in aeroporto e rimandati indietro a bordo del primo volo disponibile”. L’inasprimento agli ingressi “colpisce alcuni elementi in particolare”, perché altri “hanno potuto entrare regolarmente in Cina”. “Pechino – aggiunge la fonte – ha mirato e colpito alcune personalità” e la scelta è motivata dalle adesioni alle recenti proteste contro le ordinazioni illecite di vescovi.

La comunità cattolica teme che “le restrizioni continueranno anche nel prossimo futuro” e molto dipenderà dall’evoluzione dei rapporti fra Pechino e Santa Sede e se vi saranno “nuove ordinazioni illecite” da parte dell’Ap. Di certo, conclude la fonte, fra i fedeli regna un clima di “profondo rammarico e tristezza” per quanto sta succedendo. “Il desiderio di unità con il papa e la Chiesa è forte, ma gli ostacoli da superare sono ardui”.(DS)  

   

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CONGO RD

Colera, la catastrofe annunciata di Maria Agata Messina

Repubblica - 25 luglio 2011

E nelle bidonville c'è morte e sofferenza  

 

La maggioranza degli abitanti di Kinshasa vive in quartieri ghetto dove scarseggia l'acqua e la luce elettrica, dove le famiglie sono ammassate in case di una sola stanza con una sola latrina condivisa con tutti. I numerosi canali che attraversano la città e convergono verso il fiume Congo rigurgitano di immondizie. Scarafaggi e topi scorazzano impunemente. Le donne vendono legumi e frutta appoggiati per terra

Il colera è di nuovo a Kinshasa. Come descrivere l'ansia dell'attesa? Del non sapere cosa succederà domani? Quanti saranno domani, dei 12 milioni di abitanti di questa megalopoli, quelli che cominceranno a star male? È come aspettare una catastrofe annunciata che può arrivare da un momento all'altro, con una violenza inaspettata, senza risparmiare morte e sofferenza. La maggioranza degli abitanti della città vive in quartieri ghetto, bidonville dove scarseggia l'acqua e la luce elettrica, dove le famiglie sono ammassate in case di una sola stanza con una latrina maleodorante nel cortile, condivisa con tutti. I numerosi canali che attraversano la città e convergono verso il fiume Congo rigurgitano di immondizie. Scarafaggi e topi scorazzano impunemente tra le venditrici dei mercati di Kingabwa, Maluku, Masina. Nessuno sembra farci caso. Le donne vendono i legumi e la frutta appoggiati per terra su un sacco vuoto o un tessuto, le macchine e i passanti sollevano nuvole di polvere che si adagiano sul cibo. Mancanza di igiene, mancanza d'acqua potabile, mancanza di consapevolezza.

 

Le tre epidemie che si sono abbattute. Queste le tre grandi cause delle epidemie che in questo momento colpiscono il Congo: morbillo, poliomielite (la forma "sauvage") e adesso il colera. Arriva dal Nord, dalle province dell'Equatore, 1.055 casi, dal Bandundu,1.396 casi, dalla provincia Orientale,1.431 casi, spostandosi lungo il fiume con le baleniere che trasportano le banane, la manioca e altri prodotti agricoli da commercializzare sul grande mercato di Kinshasa. Il primo malato è sceso dalla baleniera al porto di Maluku, e con lui il cadavere di un'altra persona deceduta durante il viaggio. La baleniera ha ripreso il largo senza essere disinfestata. Non esiste il concetto dell'urgenza in Congo, là dove tutto è un'urgenza, niente è percepito come grave, il diffondersi di questa epidemia ne è l'esempio.

 

Interventi tardivi. La macchina ministeriale si è messa in funzione giorni dopo, in attesa di fondi per poter fare qualcosa, ma anche di direttive. Il cadavere arrivato con la baleniera è rimasto due, tre giorni in attesa di una improbabile famiglia che lo ritirasse, e nell'assoluta mancanza di decisione da parte delle istituzioni responsabili. Intanto le persone discese dalla baleniera si sono sparpagliate per la città a vendere le loro mercanzie, a diffondere il vibrione e ammalarsene. Maluku non è il solo porto d'attracco delle baleniere a Kinshasa. Ci sono porti pubblici ma anche porti privati, lungo il fiume che costeggia la città. Non c'è un censimento di questi porti.

Neanche una settimana dopo l'arrivo a Maluku I del primo caso, nel quartiere di Kingabwa, uno dei più densi di popolazione, appaiono i primi malati, non ci sono cure disponibili e la gente non ha soldi.

 

La gente è all'oscuro di tutto. Medici Senza Frontiere MSF 1 apre immediatamente un CTC, Centro per il Trattamento del Colera. I malati cominciano ad arrivare al ritmo di tre al giorno, parecchi sono già disidratati e non si può salvarli. Non ci sono altri fondi disponibili, anche quelli per aprire il secondo ospedale si fanno attendere. Il ministro chiama a raccolta i partner, si formano commissioni per preparare una strategia d'attacco. Passano altre due settimane. Nel frattempo a Maluku diventa necessario aprire un altro ospedale, perché le baleniere tutti i giorni portano persone e mercanzie. Nulla è fatto a livello istituzionale per bloccare il traffico. Arrivano i fondi per l'apertura del centro di terapia per il Colera a Maluku. La popolazione è ancora all'oscuro di tutto. È importante informarla, subito, non si deve più perdere tempo, non devono più bere l'acqua del fiume, devono pulire le verdure con candeggina diluita in acqua, devono lavarsi le mani, non mangiare cibi comprati per strada.

 

Ai banditori il compito di informare. Il Cesvi 2 comincia ad appoggiare la zona sanitaria di Kingabwa che è la più colpita, e altre due zone vicine a rischio, Matete e di Ndjili, dove lavora dal 2005. Si riuniscono i "crieurs", i banditori, nei tre quartieri, si dà loro una rapida spiegazione di quello che devono dire scrivendo su fogli il messaggio da urlare agli angoli delle strade. Vengono ingaggiati per una settimana di lavoro. È il mezzo più rapido e sicuro perché spesso la corrente non c'è e la radio o la televisione non si ascoltano. Il giorno dopo e per tre giorni di seguito, raduniamo tutti i capi religiosi, cattolici, protestanti, musulmani, kibanghisti e di altre miriadi di grandi e piccole sette. Li istruiamo su cosa dire ai fedeli. Anche a loro viene consegnato un messaggio scritto da leggere durante le funzioni religiose. Tutti collaborano, non ci sono discussioni. In silenzio ognuno prende il suo foglietto e se ne va. Saranno degli eccezionali agenti moltiplicatori del messaggio, faranno un buon lavoro.

 

E altri metodi per far conoscere le cose. Vengono radunati anche gli infermieri delle strutture sanitarie sia pubbliche che private. Vengono informati e viene richiesto loro di indirizzare i casi che si presentano al centro di reidratazione colera. Vengono trasmessi i messaggi attraverso le radio locali. Nel giro di una settimana il Cesvi, con l'appoggio e la collaborazione delle équipe delle tre zone sanitarie, riesce a formare 152 crieurs, 741 leader religiosi, 140 infermieri, per far urlare il messaggio di prevenzione in tutti gli angoli delle strade e trasmetterlo su due radio. Il dépliant informativo viene stampato e distribuito. La televisione nazionale riproduce il messaggio sotto forma di disegni. La lotta è cominciata: ci sono già cento ricoverati nei due centri di terapia e aumentano al ritmo di tre, quattro al giorno. Vengono trasportati dai taxi perché non c'é ancora un servizio ambulanze ad hoc. In tutto il Paese i malati, al 21 luglio, sono 3.982, 269 i decessi e il tasso di letalità è del 7%. Troppo poco per l'arrivo di aiuti massivi? Qui nella megalopoli aspettiamo che la bomba ad orologeria innescata dalla miseria e dall'ignoranza esploda. Quanti saranno domani quelli che avranno bisogno di cure?  

 

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Editoriale di Congo Attualità 127  

paceperilcongo.it - 27 luglio 2011      

    

La legge elettorale è stata promulgata. La Commissione Elettorale Nazionale Indipendente (CENI) ha finalizzato l’iscrizione dei cittadini, aventi diritto di voto, sulle liste elettorali e, finora, ha mantenuto la data del 28 novembre 2011 come giorno in cui si terranno le elezioni presidenziali e legislative. Tutti sperano che tali elezioni possano svolgersi in un clima politico sereno e pacato. Ma le numerose irregolarità rilevate nel corso dell’iscrizione degli elettori sulle liste elettorali sembrano mettere a dura prova tale speranza. La Ceni dovrà porvi rimedio al momento del controllo finale delle liste elettorali, perché il successo delle elezioni e l’accettazione dei risultati dipenderanno in gran parte dal grado di trasparenza in cui si svolgerà tale operazione.

All’Est del Paese, anche se non si parla più di scontri armati, né di guerra aperta, tuttavia l’insicurezza non fa che aumentare. Attacchi a villaggi e autoveicoli, furti nelle case private, stupri collettivi, scomparse di persone, omicidi e soprusi di ogni tipo continuano a far parte della vita quotidiana. Contemporaneamente, si assiste all’arrivo di persone sconosciute e di stranieri, che si presentano come rifugiati congolesi di ritorno in patria. La gente del posto, tuttavia, dice apertamente che si tratta di Ruandesi. Gli uomini del Congresso Nazionale per la Difesa del Popolo (CNDP) e del Raggruppamento Congolese per la Democrazia (RCD), ex movimenti politico militari filoruandesi e ora partiti politici riconosciuti legalmente, controllano il comando dell’esercito, gran parte dell’amministrazione locale e la quasi totalità del commercio minerario.

Molti osservatori temono che siano proprio i militari del CNDP e del RCD, integrati nell’esercito nazionale e rimasti, tuttavia, fedelissimi al regime ruandese, che fomentino l’insicurezza all’Est del Paese, in particolare nei due Kivu, per costringere la popolazione autoctona ad abbandonare la loro terra e consegnarla ai nuovi arrivati ruandesi che si presentano come rifugiati congolesi di ritorno in patria.

La popolazione del Kivu è pronta ad avere rapporti di collaborazione con i Paesi limitrofi, tra cui il Ruanda e ad accogliere, in condizioni regolari, qualsiasi immigrato, anche ruandese. Ciò che la popolazione locale non accetterà mai è un’occupazione ruandese del suo territorio mediante la violenza, l’imposizione e l’infiltrazione clandestina. Ultimamente, la protesta contro l’insicurezza ha preso la forma del boicottaggio delle celebrazioni del 51° anniversario dell’indipendenza, come è successo il 30 giugno scorso a Bukavu (Sud Kivu) e a Butembo (Nord Kivu), perché “non si può celebrare una tal ricorrenza, quando la popolazione è sistematicamente uccisa, brutalmente violentata e derubata delle sue ricchezze”. Anche la resistenza popolare all’occupazione ruandese del territorio congolese assume svariate forme: un piccolo commerciante è stato assassinato da un gruppo di militari, perché ha osato opporsi a un loro collega che voleva derubarlo lungo la strada. Di questo piccolo commerciante è stato scritto: “Addio Kambasu! Il tuo combattimento a mani nude contro i teppisti armati dimostra la tua resistenza fino alla fine contro l'occupazione della terra dei tuoi antenati. Tu sei un vero martire di Beni-Lubero perché sei stato ucciso in un’azione di autodifesa e non hai mai ceduto ai capricci del nemico. Hai mantenuto la tua libertà fino alla fine, perché, per te, occorre vivere liberi o morire!”  

  

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COREA DEL NORD

Disarmo nucleare, gli Usa “aprono” a Pyongyang

AsiaNews - Seoul - 25 luglio 2011

Dopo più di due anni di stallo, il Segretario di Stato Clinton invita a New York il vice ministro degli Esteri nordcoreani per trattare la ripresa dei colloqui a sei sul disarmo. Ma chiarisce: “Non vogliamo fare concessioni o dare premi”. Il regime dei Kim, allo stremo, è costretto ad accettare.  

       

Dopo più di due anni di gelo diplomatico, le cancellerie di Seoul e Washington sembrano voler riaprire il tavolo dei colloqui sul disarmo nucleare alla Corea del Nord. Colpevole di aver compiuto esperimenti atomici proibiti, il regime di Pyongyang era stato allontanato dai “Colloqui a sei sul disarmo” - cui partecipano le due Coree, gli Stati Uniti, la Russia, la Cina e il Giappone - e gli erano state imposte delle durissime sanzioni economiche. Oggi, pur senza fare grosse concessioni, l’America sembra invece voler superare questa situazione.

Il governo statunitense si è espresso per bocca del Segretario di Stato Hillary Clinton, che ieri ha invitato il vice ministro degli Esteri nordcoreano Kim Kae-gwan a New York per “discutere dei prossimi passi necessari per la ripresa dei colloqui sulla denuclearizzazione”. Parlando al margine del vertice Asean in corso in Indonesia, la Clinton ha chiarito: “Non intendiamo semplicemente premiare Pyongyang perché ritorni al tavolo. Non daremo nulla in cambio di promesse che hanno già fatto e mai mantenuto. Ma si deve andare avanti”.

In un comunicato congiunto, inoltre, i governi di Stati Uniti, Giappone e Corea del Sud affermano che il regime di Kim Jong-il “deve dare delle risposte esaurienti sul proprio programma di arricchimento dell’uranio, prima che i colloqui ripartano”. Seoul, però, ha accettato di mantenere separata la questione del disarmo dagli attacchi ordinati alcuni mesi fa da Pyongyang, che portarono all’affondamento di una corvetta militare e alla morte di alcuni civili su un’isola di proprietà del Sud.

Si tratta senza dubbio di un grande passo in avanti, motivato da questioni opposte. Il regime del “Caro Leader” è allo stremo, e le sanzioni economiche hanno distrutto la sua già fragile economia; la popolazione vive quasi del tutto al di sotto della soglia della povertà e non ci sono grandi svolte in vista. Da parte loro, i governi dei tre Paesi si sono resi conto che la Cina - grande “protettrice” della Corea del Nord - non ha intenzione di usare il pugno di ferro con Pyongyang. Quindi rimane soltanto la strada della diplomazia, prima di un intervento militare.  

 

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EGITTO

Giovani Fratelli di Francesca Borri

PeaceReporter - 22 luglio 2011

La nuova generazione di Fratelli Musulmani, spesso in disaccordo con i vertici del movimento  

       

Non è una piazza, in realtà, piazza Tahrir, ma strade a tripla corsia, tranci d'erba transenne, rotatorie, cavalcavia. Diventa una piazza solo quando trabocca di persone. Solo allora gli ostacoli, le barriere non si notano più, e da luogo distratto di passaggio diventa luogo di aggregazione, partecipazione condivisione - conversione. Non è tanto un'icona della rivoluzione, mi dice Rasha, quanto una sua metafora. Da una bottiglia di plastica, scalpella con forbici e cacciavite una maschera antigas. La cittadinanza mi dice, si custodisce praticandola.

Perché non è solo questione di Mubarak, ed è per questo che è qui. Il bersaglio, ora, è l'esercito. Ha prestigio di granito dai tempi di Nasser, e ancora di più, dello Yom Kippur, con cui riconquistò il Sinai nella sola vittoria araba su Israele. Ma doveva limitarsi a presiedere la transizione. E invece il Consiglio Supremo delle Forze Armate si definisce oggi, pericolosamente vago, garante della democrazia, mentre ancora non sono state discusse riforme né fissate elezioni, e soprattutto, mentre i vecchi notabili sono ancora impuniti in circolazione. Insieme a una nebulosa di forze di sicurezza. L'ultimo venerdì di giugno è degenerato in guerriglia, è il momento di lavorare, sostenevano, non di protestare.

Anche se è proprio per questo, alla fine, che sono qui. Marwan, tassista, una laurea in architettura, Ismail cameriere, una laurea in informatica Rami, avvocato e meccanico. Essam, che arrostisce spiedini con un dottorato in biologia. Perché sono passati quarant'anni, dallo Yom Kippur, era il Cile di Allende l'Italia di Rumor, e di anni invece gli egiziani in media ne hanno ventiquattro, sono nati insieme ai Simpson. L'esercito non è medaglie impolverate, ma una gramigna di interessi economici, proprietario di industrie e imprese di ogni tipo. Dagli pneumatici alle lavatrici, dall'edilizia alle telecomunicazioni, è ormai il socio occulto del governo. Di ogni governo, il garante non della transizione ma della continuità. Il suo obiettivo era sostituire Mubarak, non certo travolgere il regime - travolgere se stesso.

Per questo sono ancora qui, anche se non dovrebbero esserci. Perché militano nei Fratelli Musulmani, e i Fratelli Musulmani, come già a gennaio, si sono uniti solo all'ultimo minuto: solo quando hanno capito che piazza Tahrir sarebbe tornata a riempirsi. Ma hanno invitato a smobilitare al tramonto. Mantenere l'ordine pubblico, e votare a settembre, votare il prima possibile, quando gli altri non avranno avuto tempo di organizzarsi: la strategia è chiara. E in tacita alleanza con l'esercito. Quanto ottenuto per molti è più che sufficiente, mi dice Esraa, l'inglese impeccabile, velo e tacco. Per questo sono ancora qui. Alle tre, mi dice, puntuale mi raccomando. Alle tre al McDonald's.

Perché l'Islam, in realtà, in Egitto è mille cose. Soprattutto, è un Islam popolare a fronte di un Islam dottrinale, il silenzio rarefatto di Al Azhar ma anche l'anima napoletana dei moulid, un po' come le nostre feste patronali: si celebrano santi copti, mistici sufi, dotti miracoli e profeti e eventi di ogni natura, musulmani e cristiani insieme, e la voce non è quella dei muezzin, ma dei telepredicatori come Amr Khaled, la fede nello spirito è fine a se stessa, ammonisce, bisogna avere piuttosto fede nello sviluppo, e investire in alberghi sul mar Rosso. Si occupano dei rituali, dice Wajdi, del velo del pellegrinaggio alla Mecca, mentre sullo schermo sulla sua testa, in sovrimpressione, ammicca il numero per ricevere da un esperto, via sms, una fatwa, tre dollari l'una. Non è vincolante, è l'interpretazione di un passo del Corano. Se ti è scomoda, cambi numero. Non parlano mai di libertà, dice, giustizia eguaglianza - come se sia questione di virtù private, qui, e il cancro di questa società non chi impone tangenti, chi trucca elezioni, ma chi beve vino.

Si sono opposti ai cortei per Gaza e per l'Iraq, dice, e esattamente come adesso invitano a pregare, invece che a manifestare. Perché i Fratelli Musulmani per genetica non sono affatto sovversivi, ma al contrario: pronti al compromesso. La loro priorità, da sempre, non è lo stato islamico, ma la società islamica. Così, hanno costruito scuole e ospedali, costruito case e influenza, offerto prestiti e lavoro. E in definitiva, dice, assolto il governo dalle sue responsabilità. Degradato i diritti a forme di solidarietà. E poi conosciamo questi processi di transizione infinita, dice, questa idea che prima viene la stabilità e poi le riforme, prima il benessere e poi la democrazia, la partecipazione. Questa filosofia del gradualismo, candidare donne perché abbiano potere in parlamenti che non hanno potere. Per questo sono qui.

Perché è l'Islam in sé, in realtà, a essere mille cose. Il Corano non prescrive né descrive uno stato islamico. La shari'ah, la retta via, distingue quello che è giusto, e dunque consentito, da quello che è sbagliato e dunque proibito: ma sono solo trecentocinquanta versi su seimila, non è onnicomprensiva né dettagliata, deve essere integrata. E in ogni caso interpretata: come ogni testo, non solo sacro. Cercando di capire quella che è la direzione indicata da Maometto, dice Bahia, sua moglie Aisha per esempio, guida battaglie - il Corano dice, migliorò la condizione delle donne. Guida una Mercedes e l'azienda di famiglia. Una buona interpretazione, dice, non è mai solo letterale. In Egitto la shari'ah è già adesso, per costituzione, la fonte principale della legislazione, fu introdotta da Sadat, l'alfiere del libero mercato e dell'occidentalizzazione. Ogni nuova legge, cioè, deve essere coerente con la shari'ah, così come interpretata dagli esperti di Al Azhar. Lo scontro è su questo, dice, non sulla shari'ah. Oggi sono esperti nominati dall'alto, una specie di teocrazia costituzionale. Vogliamo eleggerli, dice. Per questo sono qui.

Vogliamo tornare, dice, a un rapporto diretto con Dio. Perché è importante il jihad, l'impegno a realizzare la volontà di Dio, vivere una vita virtuosa, ma anche, e non meno, l'ijtihad, dice, l'esercizio personale, autonomo di comprensione del Corano. Della volontà di Dio. Il ruolo dei giuristi, oggi, è ruminare testi altrui scritti migliaia di anni fa, e fornire risposte a qualsiasi domanda. Se cercassi risposte dice, andrei su Wikipedia, non in moschea. Così, dice, la fede diventa una fuga dalla responsabilità - la comodità dell'opinione, senza la scomodità del pensiero.

Anche perché è questo paese, in realtà, a essere mille cose insieme, ma una su tutte: la povertà. Si teme un nuovo Iran, il rischio è un'altra India: per strada ognuno che tenta di vendere qualcosa, fazzoletti un bullone, magliette, ognuno che implora una moneta. Ma nessuno sembra scomporsi. Finito lo shopping al bazar, allungate fino al cimitero, consiglia la Lonely Planet, le tombe sono abitate. Disoccupati, sfrattati. Quando scattate fotografie ricordatevi la mancia.

Il problema è che in Egitto nessuno, neppure Nasser, ha mai avuto un progetto di sviluppo alternativo a quello occidentale, che qui si è tradotto in una falce di ricchissimi e una maggioranza di poverissimi - in campi da golf sotto le piramidi, dice Alaa, in una città in cui non arriva acqua potabile. Lavorava a Milano come muratore. L'obiettivo, per tutti, è la società dei consumi. Con minori diseguaglianze, ma nessuno contesta l'idea di fondo dice, più auto più telefonini, la casa al mare, un modello ormai in corto circuito che alla nostra generazione garantisce solo precarietà e emarginazione. Ottocento euro al mese, quattrocento di affitto, in sei in sessanta metri quadri. Perché oggi la crisi, dice, non è semplicemente la fame degli esclusi, è la fragilità degli inclusi. E non mi batto dice, per avere una società in cui ognuno è solo e conti come cliente, mai come cittadino, una società in cui si organizzano mense, invece che aggiungere posti a tavola, in cui si arricchiscono le case e impoveriscono le città e devi pagare uno psicanalista, per avere qualcuno con cui parlare. Questa piazza, dice, appartiene più a un trentenne greco, spagnolo italiano, che a un sessantenne musulmano. Perché ha una laurea in ingegneria, Alaa, e il fine settimana lavorava come cuoco. E non sei più libero se sei più ricco, dice, ma anche più in ansia per il tuo futuro, e senza tempo per esercitare la tua libertà. Per questo siamo qui.

Perché non è solo questione dell'esistenza dell'ingiustizia, in realtà, né della consapevolezza dell'ingiustizia. Quello che innesca una rivoluzione, dice Wael, è la consapevolezza delle cause dell'ingiustizia. Chi disconosce e nega le ragioni della crisi, chi disabitua ai dubbi, alle domande, dice, non è che un suo tacito alleato.  

 

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Consiglio supremo dei militari nel caos. Fratelli musulmani e salafiti prendono il sopravvento

AsiaNews - Il Cairo - 26 luglio 2011

L’esercito in difficoltà dopo gli scontri del Cairo dello scorso 24 luglio, costati 298 feriti, nega un piano per trasformare l’Egitto in un nuovo regime. P. Greiche sottolinea la situazione di caos e malagestione presente nel Paese. Cristiani e musulmani temono la deriva estremista del Paese.  

   

I continui scontri fra giovani della rivoluzione e forze di sicurezza mettono in difficoltà l’esercito accusato su più fronti di non fare nulla per gestire la situazione e guidare il Paese verso le elezioni, posticipate a novembre. Ieri, in un incontro con alcuni rappresentanti internazionali a Washington il gen. Mohamed al-Assar, assistente del ministro della difesa fra i responsabili del Consiglio supremo delle forze armate, ha assicurato che l’esercito non ha alcuna intenzione di trasformare il Paese in una nuova dittatura.

Secondo p. Greiche, portavoce della Chiesa cattolica egiziana, l’esercito starebbe affrontando una situazione di caos interno, che lo rende incapace di gestire e affrontare i complicati scenari dell’Egitto post-Mubarak. Ad aumentare sospetti e critiche contro i militari, i recenti scontri fra manifestanti e forze dell’ordine avvenuti lo scorso 24 luglio ad Abbasseya (il Cairo), costati circa 298 feriti. Le violenze hanno suscitato indignazione ed ira fra i gruppi democratici, che accusano la polizia di aver coinvolto teppisti armati di coltelli e bastoni, per provocare gli scontri e arrestate i manifestanti. Il sacerdote sottolinea che l’esercito sta perdendo di mano la situazione. “A capo del Consiglio supremo – spiega – ci sono 17 generali che hanno opinioni diverse e seguono ognuno la propria linea di azione, generando il caos”.

Questa situazione ha fattoi perdere credibilità all’esercito che accusa i giovani del movimento 6 aprile di voler destabilizzare il Paese. Da parte sua il movimento attribuisce ai militari la responsabilità degli attacchi violenti contro i dimostranti. P. Greiche racconta che da diversi mesi “la popolazione dei quartieri più centrali della capitale è stanca dei continui scioperi e proteste che bloccano la città, provocando gravi danni all’economia, soprattutto per i gestori di bar e ristoranti". “La gente dei quartieri – afferma – spesso chiede alla polizia di intervenire”. Secondo p. Greiche i militari non avrebbero fato nulla per innescare le violenze limitandosi a sorvegliare l’ingresso del ministero della Difesa, teatro della protesta. Per il sacerdote è stata invece la polizia (legata al vecchio regime – Ndr) che avrebbe provocato gli attacchi contro i manifestanti facendo entrare nella folla gruppi di criminali e vagabondi con il compito di creare panico e innescare scontri.

La situazione di insicurezza e soprattutto la totale assenza di un interlocutore credibile al governo ha consentito ai gruppi estremisti, fra tutti Fratelli musulmani e salafiti, di agire senza problemi sul suolo, lanciano proclami e minacciando chi è contro la sharia e non desidera uno Stato islamico. Oggi la Commissione del consiglio di Stato egiziano ha condannato Sayyd al-Qemny, famoso intellettuale e ricercatore di scienze sociali, per le sue critiche al mondo islamico moderno. L’attivista è stato costretto a restituire lo State Merit Award, premio offerto dal ministero della Cultura del valore di oltre 20mila euro, vinto nel 2009 per il suo contributo alle scienze sociali. Secondo il tribunale il riconoscimento viene pagato con soldi pubblici e non è giusto che la popolazione finanzi una persona che scrive contro l’islam.

P. Greiche spiega che l’attività degli estremisti, a piede libero dopo la caduta di Mubarak, preoccupa la popolazione più povera. “La gente – afferma p. Greiche - si sta rendendo conto di chi sono in realtà Fratelli musulmani e salafiti. I casi di discriminazioni e crimini sono aumentati a causa del lassismo dell’esercito. Cristiani e musulmani hanno paura”. (S.C.)

   

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FILIPPINE

Anche un camion può diventare un’aula scolastica

Agenzia Fides - Manila - 26 luglio 2011  

   

Per i bambini e i ragazzi di strada che vivono abbandonati a se stessi nel quartiere “Laguna”, a sud di Manila, è stato riadattato un camion che potrà ospitare fino a 25 studenti contemporaneamente e offrirà lezioni dal lunedì al venerdì per quattro ore al giorno. I primi corsi che verranno attivati riguarderanno l’Elettronica di consumo e la Riparazione di motocicli. Il primo insegnerà tecniche per la riparazione di apparecchi elettrici quali ventilatori, tv, prese elettriche, circuiti e condutture, e telefoni cellulare. Al termine del corso i partecipanti riceveranno un Certificato Nazionale (NC2) rilasciato dall’Autorità per l’Educazione Tecnica e lo Sviluppo delle abilità. Il secondo corso è stato pensato per l’utilità in una comunità sociale che utilizza le moto come comune mezzo di trasporto. L’idea dell’aula mobile è stata di un volontario laico impegnato nel villaggio per bambini di strada di Tuloy, come risposta al crescente numero di studenti che abbandonano le scuole nel paese. Le cause più comuni, a detta degli stessi ragazzi, sono la mancanza dei soldi necessari per il trasporto pubblico e la necessità di lavorare. La zona in cui il camion si muoverà è compresa nel territorio della diocesi di San Pablo, suffraganea dell’arcidiocesi di Manila.

   

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Aquino parla alla nazione, ma delude i filippini stanchi di utopie e proclami

AsiaNews - Manila - 25 luglo 2011

Nel discorso sullo stato del Paese, il presidente espone i dati positivi della lotta alla corruzione e si dice pronto a difendere le isole del mar cinese meridionale dalle pretese cinesi. Nessun accenno ai temi caldi di lavoro e agricoltura. Fonti di AsiaNews lo ritengono preda di latifondisti, industriali e organizzazioni internazionali. In migliaia a Quezon City protestano contro la politica di Aquino.  

       

Il secondo discorso sullo stato della nazione pronunciato oggi a Manila dal presidente Aquino, non convince la popolazione che lo giudica “utopico” e “privo di contenuti e proposte concrete”, soprattutto per i più poveri. Questa mattina oltre 10mila persone, soprattutto agricoltori, pescatori e operai hanno protestato a Quezon City, chiedendo al presidente di “uscire dal mondo delle utopie” e di trattare i cittadini come “persone concrete e non immaginarie”.

Nel suo discorso, Aquino ha parlato di riduzione della corruzione, aumenti di stipendi a esercito e polizia, lotta alla disoccupazione, sottolineando l’inizio del cambiamento del Paese. Riferendosi alla disputa con la Cina per il controllo delle isole del mar cinese meridionale, il presidente ha affermato la pronta volontà del governo nel difendere i propri territori. Tuttavia una fonte di AsiaNews fa notare la totale assenza di dati ed esempi concreti e la volontà di evitare temi caldi come lavoro e riforma agraria.

 “A un anno dalla sua elezione – afferma la fonte - il presidente non ha ancora un obiettivo su cui lavorare e finora ha fatto solo proclami per il cambiamento del Paese. L’unica nota positiva del suo discorso è la volontà seria di combattere la corruzione, eliminando tutti quei funzionari governativi accusati di aver sottratto fondi dalle casse dello Stato”. Nei giorni scorsi il presidente ha nominato Conchita Carpio - Morales, ex giudice della Corte suprema, nuovo Ombudsnam (mediatore fra cittadinanza e amministrazione), rimpiazzando Merceditas Gutierrez, funzionario legato al governo Arroyo e sospettato di favoreggiamento della corruzione e sottrazione di fondi pubblici.

Eletto nel maggio 2010, Benino Aquino è stato considerato da popolazione e stampa, come l’uomo della rinascita filippina. Egli ha impostato la sua campagna elettorale sul cambiamento radicale del Paese, promettendo di liberarlo dalla corruzione frutto di 6 anni di governo Arroyo. In questi mesi Aquino ha perso molta della sua popolarità, deludendo coloro che lo ritenevano in grado di dare una netta sterzata al Paese nel breve periodo. In molti lo accusano di aver utilizzato i risultati ottenuti nella lotta alla corruzione come un diversivo per nascondere le difficoltà nel modernizzare il Paese e nell’erodere il potere dei grandi proprietari terrieri e industriali.

 “Il presidente – afferma la fonte - è ancora preda dei gruppi di potere che da decenni dominano la scena politica ed economica filippina e a tutt’oggi non ha la forza per portare avanti quanto promesso”. “I nuovi finanziamenti a militari e polizia – spiega – e l’assenza di politiche agrarie lasciano intendere quanto egli tema per il suo governo, puntando sulla sicurezza e l’appoggio delle famiglie potenti”. A ciò si aggiunge la sudditanza a Onu e multinazionali, che da anni premono per l’approvazione della legge sul controllo delle nascite contestata invece da Chiesa e cattolici filippini. “Aquino non agisce né a favore né contro la legge – afferma la fonte - perché ha paura di perdere sia il consenso dei cattolici, alla base della società filippina, sia i fondi erogati da organizzazioni e società internazionali. Tuttavia oggi ha ribadito la sua vicinanza ai vescovi lodandoli per il loro lavoro a favore della popolazione”.

Secondo la fonte, le parole e alcuni risultati raggiunti dall’amministrazione Aquino lasciano intravedere un piccolo cambiamento rispetto ai precedenti governi. “La rinascita delle Filippine – sottolinea – potrà avvenire un giorno, ma sarà lunga e difficile da attuare”. (S.C.)  

  

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GIAPPONE

Il Giappone risponde in modo creativo alla crisi di Daisaku Ikeda

Ipsnews - Tokio -  25 luglio 2011 

                 

Dopo il terremoto e lo tsunami, le popolazioni di tutto il mondo hanno dato una risposta straordinaria, inviando aiuti e soccorsi, e un incredibile sostegno materiale e psicologico. Il popolo giapponese non dimenticherà mai questa risposta sincera: il lungo percorso di recupero avverrà nella consapevolezza del nostro importante debito verso l'illimitata benevolenza di persone da tutto il mondo.

Lo storico britannico Arnold J. Toynbee è noto per la sua teoria di sfida e risposta. “Le civiltà – scrive – nascono e si sviluppano affrontando con successo le sfide che si presentano”. Questa lotta a far fronte a nuove sfide è certamente destinata a persistere finché la storia umana continuerà.

Di fronte a un disastro di proporzioni inimmaginabili, i giapponesi stanno cercando un modo per rimettersi in piedi e trovare risposte adeguate a una serie di problemi interconnessi. Infatti, più grandi sono queste sfide e maggiori sono le possibilità di trovare risposte creative che ispireranno i popoli di tutto il mondo e contribuiranno alla somma della saggezza umana.

In definitiva, l'efficacia di queste risposte è radicata nella forza della comunità umana.

Molti dei racconti di miracolosa sopravvivenza al terremoto e allo tsunami sono state possibili solo grazie al sostegno ricevuto. Inoltre, nelle settimane e nei giorni successivi al disastro, quando le principali linee di comunicazione, l’acqua, l’elettricità e il gas sono stati interrotti, il reciproco aiuto delle comunità locali e delle associazioni di quartiere ha permesso di soddisfare le esigenze basilari e di offrire un legame umano vitale ai sopravvissuti.

Conosco personalmente molti degli individui che si sono dedicati agli altri con nobiltà d'animo e hanno lavorato per il recupero delle loro comunità, condividendo spontaneamente le scarse risorse che avevano e investendo le proprie energie nell'assistenza agli altri, nonostante loro stessi avessero perso tutto: parenti, case e mezzi di sostentamento. Si può solo provare ammirazione davanti a un cuore splendente di umanità che brilla in questi tempi di crisi.

C'è stata una grande e spontanea collaborazione nelle zone colpite di Soka Gakkai, dove sono stati aperti centri di evacuazione subito dopo il terremoto.

Subito dopo il disastro, con i gravi danni subiti dalla rete dei trasporti che collegava Tokyo alla zona colpita, i volontari di Niigata, sulla costa nord-occidentale del Giappone, hanno provveduto ai soccorsi utilizzando le strade secondarie. I volontari provenivano da aree già colpite dai forti terremoti del 2004 e del 2007 e, quindi, conoscevano in profondità le pene e le necessità dei sopravvissuti. Hanno lavorato a tempo pieno per portare in tempi brevissimi i rifornimenti essenziali come acqua potabile, il riso e altri viveri di emergenza, generatori di corrente, carburante e bagni chimici. Mi è stato detto che quei volontari erano mossi da un senso di gratitudine per l'assistenza ricevuta al tempo del terremoto di Niigata: "Molte persone ci hanno aiutato, e ora tocca a noi fare ciò che possiamo".

Le sofferenze causate da una forte terremoto possono essere davvero sconvolgenti. Ma in tutte le aree sulle quali queste tragedie si sono abbattute negli ultimi anni - il terremoto di Sumatra e lo tsunami nell'Oceano Indiano del 2004, il terremoto del Sichuan in Cina nel 2008 e quello di Haiti nel 2010 - è emerso un profondo senso di solidarietà verso il prossimo, una comunità di cittadini coraggiosi e altruisti che si sono aiutati l’un l’altro. Tali azioni, e lo spirito che le ha animate, sono davvero straordinari. So di non essere l’unico a vedere in questo una sincera bontà che viene dalle profondità del cuore umano.

Chiaramente gli interventi delle autorità con le loro azioni di soccorso e ricostruzione sono fondamentali. Ma al tempo stesso è evidente che la collaborazione delle comunità locali è spesso un'ancora di salvezza per le persone vulnerabili e maggiormente coinvolte nei disastri.

Mentre procedono gli sforzi della ricostruzione, l'aspetto spirituale di cura e assistenza diventa sempre più cruciale e la rete degli individui che interagiscono e si incoraggiano reciprocamente ogni giorno a livello della base gioca un ruolo chiave. In questo senso, la genuina solidarietà tra gli uomini può costituire le fondamenta per una sicurezza umana che non potrà essere distrutta nemmeno dalle più atroci calamità. La nostra risposta al disastro deve essere quella di far emergere i valori dalla tragedia, comprendere il lato più profondo della natura della felicità umana e ridisegnare il futuro immaginato dagli uomini in tutti i suoi aspetti, compreso quello della controversa politica energetica.

Così come il disastro nucleare di Chernobyl nel 1986 ha costretto alla riflessione su molti temi, gli incidenti nella centrale nucleare di Fukushima stanno avendo un profondo impatto sulle opinioni e le diverse posizioni della comunità internazionale.

Sebbene ogni paese abbia diverse opzioni possibili, è certo che sta nascendo un nuovo orientamento nella storia dell'umanità. Si può vedere nella forte promozione per le fonti di energia rinnovabili, nello sviluppo delle tecnologie ad efficienza energetica e nella gestione più attenta delle risorse in generale.

Per raggiungere l'obiettivo di una società sostenibile è necessario un nuovo modo di guardare il mondo - un nuovo sistema di valori - che possa frenare gli eccessi dell'avidità umana e reindirizzare saggiamente questi impulsi verso scopi più elevati.

Spero che riusciremo a trovare una risposta a questa catastrofe, in modo che la saggezza dell'umanità possa contribuire a ritrovare i nostri mezzi di sussistenza, la nostra società e la nostra civiltà, ma soprattutto a ritrovare il cuore umano. © IPS

Daisaku Ikeda, filosofo buddista giapponese, promotore di pace e presidente di Soka Gakkai International (SGI). Per vedere la risposta di Soka Gakkai al terremoto 11 marzo, visita il sito www.sgi.org  

       

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INDIA

Sciopero della fame per i diritti di dalit cristiani e musulmani di Nirmala Carvalho

AsiaNews - Mumbai - 26 luglio 2011

Per mons. Vincent Concessao, arcivescovo di New Delhi, il digiuno di massa (25-27 luglio) è un “avvertimento: la storia ci insegna che molti governi potenti sono caduti, quando si nega la giustizia”. Lo sciopero si concluderà con una marcia fino al Parlamento, il 28 luglio.  

 

Più di mille persone stanno facendo uno sciopero della fame, in India, per chiedere al governo di garantire lo status di Scheduled Caste anche ai dalit cristiani e musulmani. Il digiuno di tre giorni (25-27 luglio) culminerà in una marcia verso il parlamento, il prossimo 28 luglio, a cui hanno aderito vescovi, leader religiosi, fedeli cristiani e islamici e movimenti per i diritti umani. “Questo è il nostro appello – ha dichiarato ad AsiaNews mons. Vincent Concessao, arcivescovo di New Delhi –, chiediamo giustizia per i più deboli della società, discriminati in base al loro credo religioso”.

La lotta per garantire eguali diritti anche ai dalit cristiani e musulmani va avanti dal 1950, quando il parlamento approvò l’art. 3 della Costituzione sulle Scheduled Caste (Sc): in base a questo paragrafo, la legge riconosce diritti e facilitazioni di tipo economico, educativo e sociale solo ai dalit indù. In seguito, nel 1956 e nel 1990, lo status venne esteso anche a buddisti e Sikh.

 “Il Congresso, guidato dal governo Upa (United Progressive Alliance, ndr), è il solo responsabile per la negazione dei diritti e dell’uguaglianza per i dalit cristiani e musulmani – continua l’arcivescovo – e questo sciopero della fame deve servire da avvertimento ai nostri politici. La storia ha visto cadere molti governi in apparenza potenti, quando la giustizia viene negata”.

Mons. Concessao ricorda le parole del primo ministro indiano Manmohan Singh, che il 27 dicembre 2006 definì l’intoccabilità una “macchia per l’umanità”. “E purtroppo i nostri dalit cristiani – prosegue l’arcivescovo – sono schiacciati dalla doppia discriminazione per via della loro fede”.  

 

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India e Pakistan: oggi incontro al vertice per aprire un dialogo

AsiaNews - Delhi - 27 luglio 2011

Oggi a Delhi i ministri degli Esteri riprendono i colloqui, interrotti dopo la strage di Mumbai del 2008, di cui l’India ritiene il Pakistan responsabile. “Vogliamo una frontiera comune libera dal terrore”, dice Krishna. “Non dobbiamo essere ostaggio del passato”, afferma Hina Khar, la donna di 34 anni da una settimana ministro degli Esteri di Islamabad.  

    

I ministri degli Esteri di Pakistan e India si incontrano oggi per la prima volta dopo che il dialogo fra i due Paesi si è bloccato nel 2008 come conseguenza dell’attentato di Mumbai che ha causato circa 170 vittime. L’India attribuisce la responsabilità della strage a elementi pakistani. La delegazione pakistana è guidata da Hina Rabbani Khar, una donna di 34 anni, da pochi giorni chiamata a guidare la politica estera pakistana. Il ministro degli Esteri indiano SM Krishna ha dichiarato prima dell’incontro che il suo Paese vuole vedere “un Pakistan stabile, prospero e calmo”.

Hina Rabbani Khar, che proviene da una famiglia profondamente radicata nella politica pakistana, ha dichiarato che i due Paesi “non dovrebbero essere ostaggio del passato. E’ nell’interesse del Pakistan che il dialogo sia orientato verso risultati concreti. Dobbiamo essere positivi nel nostro impegno, e noi lo siamo”. Funzionari indiani e pakistani hanno ripreso i contatti a febbraio su un ampio ventaglio di argomenti per trovare il modo di ristabilire la fiducia fra Delhi e Islamabad. L’India ha dichiarato di “essere pronta a discutere tutti i temi con mente aperta”, e insisterà perché sia fatta giustizia alle vittime di Mumbai.

Il Pakistan aprirà sicuramente il tema dell’autonomia del Kashmir. Hina Rabbani Khar ha incontrato ieri a Delhi leader separatisti del Kashmir. La regione dell’ Himalaya è reclamata sia dall’India che dal Pakistan, ma è divisa dal 1948. E’ stata la causa di tre guerre fra i due Paesi. Gli analisti non si aspettano risultati concreti di grande ampiezza da questo primo incontro, che però testimonia della volontà di entrambi di stabilizzare le relazioni. Krishna ha dichiarato: “Vogliamo una frontiera comune libera dal terrore, e ci battiamo per un Pakistan stabile, pacifico e affidabile”.  

 

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ITALIA

Casta ed anti-casta. Il mondo della pace s'interroga

Unimondo - 22 Luglio 2011

Casta ed anti-casta. Il mondo della pace s'interroga e il direttore di Unimondo s'inserisce - in corsivo - all'interno dell'intervento dell'amico Mao Valpiana con proprie considerazioni. A volte di senso opposto.  

   

La campagna “moralizzatrice” degli anti-casta, ormai dilaga ovunque. Non solo in rete e nei social network, ma anche sui quotidiani a grande tiratura, ed ora perfino nei telegiornali di Rai e Mediaset. A questo punto, come vuole la proverbiale locuzione latina, mi sono chiesto: cui prodest? ("a chi giova?").

Sinceramente spero che giovi alla politica al fine di ridurre il gap tra rappresentanti e rappresentati. Quest'ultimi, soprattutto nei ceti medi e bassi, verranno colpiti duramente dalla manovra e la politica deve ritrovare, anche con questa protesta che ci vede impegnati da sempre, lo spirito di dedizione, per dirla sia con De Gasperi che con Gramsci.

Fino a quando a protestare contro indennità, vitalizi e privilegi vari dei parlamentari erano i grillini o il popolo viola, tutto mi sembrava regolare e per certi versi coerente. Ma quando hanno cominciato ad accodarsi i quotidiani di ogni orientamento, comprese le corazzate di Repubblica e del Corriere (che ricevono contributi a fondo perduto dalla Legge per l’editoria, che si sono guardati bene dall’inserire negli elenchi degli sprechi), allora ho incominciato ad avere qualche prurito; è divenuta una vera allergia quando anche il paludatissimo TG1 ha dato voce alla rivolta anti-Casta, attaccando il bilancio della Camera come se fosse la causa principale della voragine del debito pubblico italiano.

Francamente non mi sembra che la Rai stia conducendo una battaglia sui privilegi da avanguardia. Se ne parla ovunque ed i colleghi di Corriere, Repubblica e RAI stanno, a mio avviso modestamente, cogliendo voce. Però Mao apre un capitolo interessante. Non vi sono solo i privilegi degli uni ma anche degli altri come i direttori dei giornali più importanti. E quindi la campagna, visto che siamo sul Titanic, dovrebbe mirare non solo alla punta dell'icerberg ma anche ai fondamenti, a ciò che non affiora dalle acque.

E quindi, dopo aver messo alla gogna non solo i parlamentari, ma anche i consigli regionali, le province, e tutti i consigli comunali, quasi che bisognasse vergognarsi di essere stati eletti e sentirsi accusati di “vivere sulle spalle del popolo”, ecco che iniziano ad arrivare le proposte per porre rimedio a questo sperpero: abolire le province, ridurre il numero di senatori e deputati, ridurre il numero dei consiglieri regionali, provinciali, comunali, tagliare tutte le indennità.

Andiamoci piano. Le proposte portate avanti anche da questo portale non sono fatte a caso. Tagliare metà parlamento non lo diciamo solo noi ma anche gli economisti della voce.info. Non ha infatti più logica avere un'Assemblea che è il doppio di quella degli USA e maggiore anche di quella dell'Unione Europea. V'è una distorsione che in periodo di vacche magre va posta mano. Riguardo le province vanno considerevolmente ridotte. Illo tempore proponemmo la metà. Vi sono comuni in Italia con appena 100 anime che non riescono a mantenere un negozio alimentari. Suvvia. 8.000 enti locali, comunità montane a livello del mare, circoscrizioni e consigli di quartiere con presidenti stipendiati in ogni dove. Con benefit da inorridire. La gente mica è stupida. Come si può chiedere di stringere la cinghia a chi non arriva a fine mese quando si ha a disposizione, a Palazzo Madama, barbieri e ristoratori. Tutto ciò costa 23 miliardi di euro anno. La politica vuole assumersi la responsabilità di passare dal graffiare all'“arare a fondo”?

L’idea che sta avanzando nel paese è che tutti coloro che ricoprono una carica elettiva fanno parte della Casta e che la Casta è uno sperpero di denaro pubblico. Non ci vorrà molto, dopo che tutti si saranno convinti che deputati e senatori sono troppi, a far passare l’idea che avere due Camere è un lusso che non ci possiamo più permettere, che forse ne basterà una sola, magari con poche decine di rappresentanti, e poi sarà un bel risparmio abolire anche quella (...tanto nel “parlamento” si fanno solo chiacchiere...) e affidare tutto il potere al governo, che basta e avanza!

Questa proposta, in altri termini, l'ha già fatta Silvio ma le istituzioni hanno il doppio dei suoi anni e sanno resistere. Non credo che si vada spediti verso una dittatura che, in quanto tale, non ha alcun costo.

La vera Casta (cioè i gruppi economici e finanziari – proprietari anche di quotidiani e televisioni -che non hanno bisogno di passare dalla prova elettorale per esercitare il proprio potere) ha tutto l’interesse a favorire lo tsunami anti-casta: meno deputati significa meno controllo, e sarà più facile comprare i pochi rimasti che saranno emanazione diretta dei partiti di governo e non più rappresentanti del popolo eletti nel territorio, come voleva la Costituzione.

La bozza presentata mentre scrivo prevede un taglio a metà del parlamento come, tra gli altri, da noi proposto. Prevede altresì un tetto per gli stipendi dei consiglieri regionali. E sin qui ci troviamo d'accordo. Purtroppo prevede anche una concentrazione ulteriore di potere che cozzerà, inevitabilmente, con la Costituzione. Non so, francamente, se sarà più facile la compravendita di deputati come accaduto nei mesi scorsi. Non è questione di numeri ma di rettitudine.

L’operazione, pianificata dalla P2 di Licio Gelli, di svuotare il parlamento delle sue prerogative di rappresentanza popolare e controllo sull’esecutivo, dopo essere passata dalla liquidazione del sistema proporzionale al presidenzialismo di fatto, si sta concludendo con la spallata dell’anti-casta.

Ma il problema è anche l'esecutivo e non solo il legislativo. L'attuale esecutivo ha incluso persone colluse con la criminalità organizzata mentre il precedente di centro sinistra superò quota cento poltrone. Possiamo mettere una dead line anche qui?

Si riempiono le pagine di facebook e dei giornali con invettive contro l’indennità di funzione parlamentare, e si tace (con rare eccezioni nel mondo pacifista, nonviolento e cattolico) sulla voragine delle spese militari, dei costi per i cacciabombardieri F35 e per le missioni di guerra in Afghanistan e Libia. Basterebbe il taglio del 10% di queste voci per coprire l’intera manovra, ma si preferisce dissertare su quanto costano i viaggi aerei dei parlamentari che vanno a Roma.

Concordo. Le spese militari si aggirano sui 30 miliardi all'anno. Gli F35, secondo Altreconomia verranno in toto a costare 20 miliardi. Già con questi 50 siamo a livelli dell'intera manovra.

Evidentemente c’è una regia. I direttori dei quotidiani, da Repubblica al Corriere, da Libero al Giornale (che hanno stipendi più alti dei parlamentari) attaccano la Casta, come se loro stessi non ne facessero parte, e si guardano bene dallo spiegare ai lettori che vi è un’altra Casta – quella militare – che pesa veramente sul debito pubblico; non spiegano i costi della Finmeccanica perché i loro editori fanno parte della stessa famiglia industriale. E’ molto più facile e popolare giocare al tiro al piccione-parlamentare che studiare e denunciare il complesso militare-industriale.

Due facce della stessa medaglia. Io non voglio salvare l'uno e diminuire l'altro. Mi affido alla Costituzione che introduce il concetto di proporzionalità. Quindi, sacrifici per tutti, ma patrimoniale per i ricchi e ridimensionamento per gli apparati: politico e militare.

Se c’è un motivo serio per condannare il Parlamento è quello di aver violato la Costituzione, che “ripudia la guerra”, con il voto a favore dei Bilanci militari e delle missioni belliche all’estero. Se tutti gli anti-casta concentrassero le loro energie su questo, avremmo risolto gran parte dei nostri problemi.

Non mi considero un'anti-casta, in quanto sono iscritto ad un partito e sono attivo. Ma l'attenzione la vorrei rivolgere a 360°. Me medesimo. Ho trovato semplicemente volgare una manovra che salvaguardava la classe politica imponendo sacrifici ai più. Per dirla con Famiglia Cristiana una vera e propria macelleria sociale.

Mao Valpiana Verona, 20 luglio 2011

Fabio Pipinato Trento, 22 luglio 2011  

   

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E la monnezza arrivò a Bush di Stefania Maurizi

Espresso - 20 luglio 2011  

     

I nuovi cablo rivelano il dossier Usa del 2008 sui rifiuti di Napoli: con Prodi che sognava di esportare la spazzatura nel terzo Mondo e Bassolino che teneva pulita la zona intorno a casa sua(21 luglio 2011)La monnezza campana? Ieri come oggi, l'unico modo di liberarsene è l'export. Con una variante molto poco etica che venne presa in esame dal governo di centrosinistra: mandarli nel Terzo mondo. "Prodi ha detto che non c'è una soluzione a breve termine per i rifiuti di Napoli. L'Italia aveva considerato di spedirli nelle nazioni in via di sviluppo, ma poi ha deciso di non farlo, per evitare di dare l'impressione che stava sfruttando i paesi poveri".

L'ambasciatore americano Ronald Spogli riferisce a Washington le confidenze dell'allora premier Romano Prodi: siamo nel 2008 e quella colata di sacchetti neri che sommergeva Napoli avrebbe contribuito al tracollo dell'esecutivo e alla successiva vittoria berlusconiana. Tre anni dopo però la crisi rimane senza via d'uscita e ora il sindaco Luigi De Magistris propone un piano simile: imbarcare i rifiuti e portarli all'estero.

I cablo riservati di WikiLeaks, che "l'Espresso" pubblica in esclusiva, raccontano quanto lo scandalo dei rifiuti invincibili incida sulla credibilità del nostro Paese. I rapporti del consolato di Napoli, obbligato a convivere con il disastro, offrono un punto di vista molto pragmatico della situazione.

I diplomatici statunitensi fanno un "monnezza tour" tra bambini rom che scalano montagne di spazzatura, un Everest di rifiuti in un "sito dove c'è un cartello "vietato scaricare"" e sottolineano: "E' interessante notare come non ci siano sacchetti nella maggior parte delle aree turistiche, nel quartiere Chiaia vicino al consolato o a Posillipo, dove vive il presidente della Regione Antonio Bassolino".

Un ex professore napoletano ormai trasferito negli States spiega che "è solo per pura fortuna se la città non ha avuto un'epidemia di colera". La loro preoccupazione principale è per i militari della Sesta flotta e fanno sapere a Washington che il comandante della Us Navy ha commissionato uno studio su larga scala sui rischi per la salute e sulla "contaminazione del suolo, dell'acqua e del cibo in tutta la regione". Una ricerca top secret: "E' un dato sensibile e ancora non è pubblico. Il governo italiano e le autorità locali fanno parte del comitato di studio, ma dobbiamo tenerci stretta per noi questa notizia".

Cercano informazioni ovunque per capire cosa ci sia dietro quel caos: si rivolgono anche alle loro gole profonde nell'ufficio del Commissario per l'emergenza, allora affidato al prefetto Alessandro Pansa. Confermando l'impressione iniziale: "Il nostro contatto ci ha detto che lui non ha visto alcuna prova che dietro (la crisi) ci sia la camorra". L'arrivo di Berlusconi al potere non cambia le cose: dietro gli slogan i guai restano intatti. A fine dicembre 2008 i file registrano come "le foto di Napoli sepolta sotto cumuli di spazzatura abbiano causato cancellazioni di massa nelle prenotazioni turistiche".

E scrivono: "Gli sforzi per riabilitare Napoli dopo la crisi dei rifiuti sono completamente falliti. (Le autorità) Sembrano credere che basti solo lavorare sull'immagine, invece che sui problemi reali come la criminalità e il traffico caotico". Nell'agosto 2009 il consolato propone alla Regione "di adottare impianti per la gassificazione dei rifiuti con tecnologia Usa a bassissime emissioni".

Ma alla fine i cablo registrano la disfatta: "Lo smaltimento illegale di rifiuti tossici da parte della criminalità organizzata continua senza sosta. La Campania ha il 50 percento del suolo contaminato di tutta l'Italia".  

 

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Ma chi sono questi 'faccendieri'? di Giorgio Bocca

Espresso - 21 luglio 2011  

        

I giornali li chiamano così, ma in realtà si tratta di pidocchi. Che si attaccano ai politici e offrono loro case in centro, regali esentasse, lussi e comodità. Corrompendo la democrazia Bisignani(22 luglio 2011)Chi sono i faccendieri di cui sono piene le cronache e i moralismi? Come è possibile che questi pidocchi del malcostume corrente siano scelti come persone di fiducia da ministri e da alti funzionari dello Stato? A leggere ciò che ne scrivono i cronisti parlamentari o di gossip mondano, sono dei "bru bru" che ogni professionista per bene, giudice, avvocato, ingegnere, professore si guarderebbe bene dal frequentare.

E allora perché i nostri politici se ne circondano e li usano? Il mistero di Pulcinella è stato svelato dal nostro Filippo Ceccarelli, con il garbo micidiale che gli si conosce. Per la casa: non la casa qualsiasi dei cittadini normali ma la casa in vista di Montecitorio, raggiungibile magari a piedi in ogni ora del giorno e della notte anche se ci sono tumulti o scioperi. Una casa con vista del Colosseo o vicino al Pantheon.

Si dirà: ma che bisogno hanno dei faccendieri personaggi cui certo il denaro non manca? E' evidente: perché per trovare delle case con quei requisiti è indispensabile per i potenti avere le mani in pasta nel mercato immobiliare, nei suoi non sempre limpidi do ut des, nelle frequentazioni degli altri faccendieri.

L'elenco dei piaceri e dei lussi dei faccendieri portati alla ribalta dagli ultimi scandali mette i brividi. Rischiano la galera, l'esclusione dalla buona società, la nomea di cafoni, e di emulare i "pescicani" della prima guerra mondiale, gli arricchiti volgari: automobili fuoriserie da centinaia di migliaia di euro, orologi da 20 mila euro, barche da ormeggiare a Portofino e feste continue per accontentare le mogli volgari e insaziabili che si scelgono come uomo della vita un faccendiere.

Ha colto nel punto debole i nostri potenti il cronista di modi gentili ma di penna tagliente. Se tu uomo di governo vuoi la casa in vista di Montecitorio devi tenerti in squadra il faccendiere che ha passato la vita a frodare il fisco e a fare loschi commerci. Quello che potenti di oggi, i ministri e i vari funzionari che si servono dei faccendieri, non riescono a capire è che l'unico modo per far parte degnamente di una classe dirigente è il taglio dai comodi e dai piaceri legati ai servi senza stile e senza morale. 

Il ragionamento che i potenti fanno è chiaro, ed è lo stesso che faceva Enrico Mattei con i fascisti della prima Repubblica: io questi nemici o estranei alla democrazia li adopero come si adopera un taxi, salgo, mi faccio portare dove devo andare, e chi si è visto si è visto.

Non è così: l'antifascismo democratico ha predicato per tutto il regime l'intransigenza, ha insegnato a generazioni che era un errore venire a patti e a commerci con gli uomini del regime, l'opposizione a un regime autoritario non è possibile se poi si condividono i lussi, i condizionamenti, i comodi del potere.

Il ministro che per sposarsi ha bisogno di andare nella località del lusso massimo della Penisola sorrentina è uno che dà al Paese questo messaggio: io sono uno che predica bene e razzola male, uno che predica la lotta agli sprechi e la corretta amministrazione e che poi vi dimostra di avere i desideri e i piaceri dei faccendieri. In occasione dei matrimoni dei nostri uomini politici vige ancora la regola quasi obbligatoria della lista dei regali.

Quando si celebra la cerimonia del potente di turno il ceto dirigente cala per così dire la maschera e compilando la lista dei regali si confessa in pubblico: che serve al nostro caro collega di partito e di casta? Un uliveto, una villetta al mare, un servizio da tavola per ventidue? Esenti dalle tasse.

Ai tempi del grande potere democristiano la lista dei regali e la loro consegna assumevano un significato politico. Cronisti e fotoreporter venivano invitati di fronte alla casa del festeggiato per assistere alla sfilata dei doni, come se fossero arrivati dall'Oriente su una carovana. Lo spettacolo non destava scandalo, era un segno manifesto del potere che si mostrava senza veli ai cittadini.  

 

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I big europei in Africa. E l'Italia dov'è? di Giorgio Bernardelli

MissiOnLine - 19 luglio 2011  

In questa settimana Angela Merkel, David Cameron e il premier francese Fillon sono impegnati in tre diverse missioni nell'Africa subsahariana  

    

Anche le coincidenze a volte possono essere significative. E allora è molto interessante scoprire dalla lettura dei quotidiani internazionali che tre premier europei sono impegni nelle stesse ore in altrettanti viaggi nell'Africa subsahariana. A fare più notizia è il primo viaggio africano del premier britannico David Cameron. Ma fa notizia soprattutto per il fatto che - a causa dello scandalo Murdoch - è statao accorciato: Cameron rientrerà oggi a Londra e non andrà in Ruanda e in Sudan, come era invece in programma. Ma già nelle precedenti tappe in Sudafrica e in Nigeria il premier britannico non ha mancato di rendere noto il suo sostegno al progetto di un grande mercato comune africano. E ha dichiarato la disponibilità della Gran Bretagna a mettere sul tavolo 160 milioni di sterline per «sponsorizzare» questa iniziativa, vista con favore dalle imprese britanniche (e non a caso insieme al premier al viaggio partecipavano una ventina di personalità del mondo economico londinese).

Si concluderà invece giovedì il secondo viaggio africano della cancelliera tedesca Angela Merkel, che sta facendo tappa in Kenya, Nigeria e Angola. Anche lei è accompagnata da una delegazione di industriali tedeschi dei settori della chimica, dell'elettronica e delle costruzioni. E tra le eccellenze che la Germania mira a esportare in Africa c'è anche il suo ruolo guida in Europa nella produzione di energie rinnovabili. Non stupisce poi la tappa in Angola, uno dei Paesi che sta facendo registrare i più alti tassi di crescita nel Continente.

Accanto a Gran Bretagna e Germania non poteva mancare la Francia. E infatti anche il premier di Parigi, Francoise Fillon, in queste ore è stato in Costa d'Avorio, Gabon e Ghana. Quest'ultima tappa, in particolare, è degna di nota: il Ghana è infatti un'ex colonia britannica, ma è anche un altro dei Paesi africani che oggi fanno registrare le migliori performance economiche. E dunque la Francia non vuole comunque restarne fuori: durante un Forum economico bilaterale tenutosi ad Accra sono stati firmati accordi per 50 milioni di euro.

Da queste notizie appare abbastanza evidente la rincorsa rispetto a Cina e India, che in questi ultimi anni hanno messo radici profonde nell'economia dell'Africa subsahariana. L'Europa prova a correre ai ripari, cominciando a capire che l'aver lasciato colpevolmente l'Africa ai margini è stata un'occasione mancata anche per la nostra economia.

In tutto questo, però, viene da chiedersi: e l'Italia? A quando risale l'ultima visita nell'Africa subsahariana di un presidente del Consiglio italiano o del nostro ministro degli Esteri? Del governo Berlusconi si ricorda giusto qualche missione del sottosegretario Alfredo Mantica; ben poca cosa rispetto all'impegno messo in atto dalle altre cancellerie. E parla impietosamente il caso dell'indipendenza del Sud Sudan, già denunciato da Mondo e Missione. Alla fine - appena due settimane prima del fatidico 9 luglio - anche la Farnesina si è decisa a nominare almeno un suo delegato speciale, il Consigliere d'Ambasciata Carlo Gambacurta. Meglio tardi che mai.  

 

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Venire qui è stato utile anche per questo di Teresa Poggiali

Repubblica - Mesagne (Brindisi) - 20 luglio 2011

Le mafie sono un problema per tutti. Presso la cooperativa Libera Terra Puglia si stanno svolgendo i campi di volontariato e di studio sui terreni confiscati alla Sacra Corona Unita. Saranno diverse centinaia i volontari che si alterneranno durante l'arco dell'estate per contribuire alla ristrutturazione di una villa confiscata con l'obiettivo di un centro per il turismo responsabile e per l'educazione alla legalità.  

 

Durante il viaggio di andata provavo molta emozione per questa nuova esperienza. È la prima volta che faccio un Campo Antimafia, e prima dell'anno scorso non ne avevo mai sentito parlare. Confesso, le mie aspettative non erano molto positive. Secondo me tutto si sarebbe limitato a semplice lavoro di zappa e rastrello. La mia opinione non poteva essere più sbagliata. È stata un'esperienza unica nel suo genere, durante la quale abbiamo sì lavorato nei campi, ma, cosa più importante, abbiamo tenuto degli incontri con persone del posto, che vivono e hanno vissuto ogni giorno questa realtà, e che ci hanno parlato della loro esperienza personale ed esposto i problemi relativi alla Mafia e al sistema carcerario. Proprio per questo, solo venendo qui, ho potuto scoprire cose nuove e capire che molte cose che già sapevo erano in qualche modo errate.

Infatti la Mafia è il soggetto di molte discussioni e assemblee nelle scuole di Firenze, ma a parlarne sono persone che, anche se esperte, sono comunque molto lontane da questa realtà, e che, in molti casi, si sono limitati a studiare l'argomento su libri, giornali: pertanto l'idea che può farsi una ragazza diciottenne come me è che queste organizzazioni vivano distanti dalla società e che non possano riguardare un semplice lavoratore che vive tranquillamente la propria vita. Venire qui mi ha fatto capire che invece le organizzazioni mafiose sono un problema di tutti. Anche se non sempre direttamente, i traffici illeciti mafiosi causano danni a tutta la cittadinanza. Come  testimoniano le storie di Gaetano Marchitelli e Michele Fazio, giovani adolescenti che sono morti a causa di una guerra tra clan rivali per la conquista del territorio per lo spaccio di droga.

Chiunque stia leggendo questo articolo potrà provare tristezza e dolore per loro e per i loro parenti, ma nessuno di voi potrà mai capire i sentimenti che ho provato guardando negli occhi persone che,  mentre ci raccontavano queste storie, rivivevano quei momenti, quei giorni. Questa è stata una vera e propria esperienza formativa dove è stata data molta importanza all'informazione: in questo ha avuto un ruolo di rilievo la festa "Tana Libera Tutti", che ha avuto luogo la sera del Martedì 19 qui nella Villa confiscata ad Antonio Screti, boss mafioso. Scopo della festa era quello di far vedere che stiamo lavorando per cambiare le cose, e che, a modo nostro, stiamo lottando.

Le persone che ci hanno guidato in questa esperienza ci hanno fatto capire che non dobbiamo mai arrenderci, che non dobbiamo mai perdere la speranza in una realtà migliore e che uniti possiamo produrre frutti legali da ciò che era illegale. Come anche loro ci hanno ripetuto più volte, è importante capire che noi non siamo eroi, ma che cerchiamo di vivere e lavorare da persone giuste, come dovrebbe fare una qualunque persona. Certo, è difficile farlo sapendo che in un qualunque momento un mafioso potrebbe decidere di mettere fine alla tua vita, ma, come ha detto Borsellino: "Chi ha paura muore tutti i giorni, chi non ha paura muore una volta sola".  

   

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Quel filo sottile che lega la crisi nel Corno d’Africa e il welfare italiano di Gianni Alioti

Unimondo - 25 Luglio 2011  

     

Le immagini della carestia che ci giungono dal Corno d’Africa, devono interrogare la nostra coscienza e costringerci a riflettere sulle cause che l’hanno prodotta. Non si tratta di una “catastrofe naturale” di un “castigo divino”, ma della responsabilità degli uomini e delle logiche che continuano a governare le scelte dei singoli Stati e della comunità internazionale.

Ci sono fili sottili, ma non invisibili per chi li vuole vedere, che legano la crisi ambientale prodotta dal Nord del mondo con la povertà estrema nel Sud, la finanza globale con la crescita delle disuguaglianze sociali e la distruzione delle risorse naturali, il complesso militare-industriale con la crisi dei debiti sovrani, le guerre, il terrorismo e l’aumento delle spese militari con i bambini che muoiono di fame.

La politica nella sua interezza, in Italia come altrove, nasconde questi fili, per ignoranza o interesse. Per l’umanità e la “madre terra” il risultato non cambia.

Sono passati 50 anni e l’ammonimento di Eisenhower, a non permettere che il peso della combinazione di poteri tra l’immenso corpo di istituzioni militari e un’enorme industria di armamenti mettesse in pericolo le nostre libertà o i processi democratici, è rimasto inascoltato. Gli Stati Uniti, nonostante la contrapposizione con l’ex-blocco sovietico fosse ormai alle spalle, dal 1995 al 2010 hanno incrementato costantemente il loro budget annuo destinato alle spese militari, passando da 279 a 698 miliardi di dollari (il 150% in più). In percentuale annua sul PIL gli Usa sono passati nello stesso periodo da meno del 3 al 4,8%.

Complessivamente il Pentagono ha gestito negli ultimi quindici anni oltre 7.000 miliardi di dollari, alla faccia di quanti credono ancora che negli Usa non ci sia un intervento dello Stato nell’economia. A queste spese bisogna aggiungere, come minimo, altri 1.300 miliardi dichiarati dall’amministrazione americana per i costi sostenuti - fino al 2010 - per le guerre in Afghanistan e Iraq. In realtà, un recente rapporto della Brown University stima questi costi tra i 3.700 e i 4.400 miliardi di dollari, pari a un quarto del debito pubblico americano e molto di più di quanto speso nel corso della seconda guerra mondiale.

Nonostante il debito pubblico negli Usa sia passato nello stesso periodo (1996-2010) da 4.900 a 14.294 miliardi di dollari, una cifra quasi corrispondente all’intero PIL, l’amministrazione Obama - finora - sul terreno delle spese militari non ha rappresentato una vera discontinuità. Nel 2011 e 2012 il budget del Pentagono è stato ridotto in minima parte rispetto al 2010. E pur profilandosi all’orizzonte nuove tasse sui consumi e tagli alla spesa sociale e sanitaria per abbattere il debito pubblico di 4.000 miliardi di dollari in dieci anni, per le spese militari si parla di una possibile riduzione di soli 400 miliardi di dollari nei prossimi quattro anni. Evidentemente, le grandi corporate produttrici di sistemi d’arma, come Lockeed Martin, Boeing, Northrop Grumman, General Dynamics ecc. e i grandi network che si arricchiscono con il business della sicurezza dai contractors all’alta finanza, continuano a influenzare le politiche economiche e le scelte di bilancio Usa (come Finmeccanica fa - con le debite proporzioni - in Italia).

Eppure basterebbe affiancare su un grafico l’andamento del debito pubblico negli Usa con quello delle spese militari dal 1995 al 2010, per accorgersi che le due curve pressoché coincidono, confermando il filo che lega il peso del complesso militare - industriale con la crisi dei debiti sovrani.

E che guerre e spese militari siano tra le cause strutturali della crisi economica e finanziaria, non riguarda solo gli Stati Uniti, ma il mondo intero. Basti pensare alla piccola Grecia che, pur in bancarotta, ha continuato a destinare il 3,2% del PIL alle spese militari (oltre dieci miliardi di dollari l’anno).

Oppure l’Italia che, con un debito pubblico di oltre 2.700 miliardi di dollari, e nonostante l’integrazione europea, continua a mantenere un modello di difesa nazionale con 190mila militari, di cui il 45% composto da ufficiali e sottoufficiali. Negli ultimi dieci anni abbiamo speso in campo militare oltre 400 miliardi di dollari e, se non bastasse, partecipiamo a un programma per la realizzazione e l’acquisto di 131 cacciabombardieri F35, che c’è già costato oltre 2 miliardi e 700 milioni di dollari e che comporterà - ai prezzi attuali - un esborso di altri 26 miliardi di dollari nei prossimi anni.

A queste spese dobbiamo sommare il finanziamento delle missioni militari all’estero (compresa la partecipazione alle guerre in Afghanistan e Libia): un altro miliardo di euro l’anno fino al 2008, cresciuti a 1,5 miliardi di euro l’anno dal 2009 al 2011. Ma l’ipocrisia istituzionale ascrive questi costi a “interventi di cooperazione allo sviluppo e a sostegno dei processi di pace e di stabilizzazione, nonché delle missioni internazionali delle forze armate e di polizia [...]”. E’ vergognoso che Parlamento, Governo e, persino, il Presidente della Repubblica non chiamino le cose per quello che sono, visto che la componente civile delle missioni all’estero è solo dell’1,5% contro il 98,5% della componente militare.

Di fronte a tutto ciò crea sconcerto, come ci ha ricordato Sergio Paronetto di Pax Christi, l’assenza nella politica, nell’economia - e nello stesso linguaggio - di parole come disarmo e pace. La preoccupazione principale di governo e opposizioni è quella di rassicurare la finanza sui rischi d’insolvenza del debito, mettendo le mani nelle tasche dei cittadini e tagliando il welfare e i servizi pubblici. Nessun accenno, invece, alla riduzione delle spese militari, cancellando costosissimi sistemi d’arma e riducendo le forze armate.

Non ci consola che sia un problema non solo italiano. Nel mondo, infatti, la spesa militare ha raggiunto la cifra esorbitante e preoccupante di 1.630 miliardi di dollari, con un incremento del 50% rispetto al 2001. Equivale a 236 dollari pro-capite, che per un miliardo di persone corrisponde al proprio reddito annuo.

Con questi numeri torniamo da dove eravamo partiti. Nel Corno d’Africa, oltre ai morti a causa della guerra e terrorismo, “...tanti ne uccide la fame”. Eisenhower, da ex-generale dell’esercito, oltre che 34° Presidente degli Stati Uniti, seppe cogliere già nel 1953, quello che politici ed economisti non vogliono vedere oggi, cioè il filo che lega le spese militari crescenti con i bambini che muoiono di fame: “[...] ogni ordigno prodotto, ogni nave da guerra varata, ogni missile lanciato significa, infine, un furto ai danni di coloro che sono affamati e non sono nutriti, di coloro che sono nudi ed hanno freddo. Questo mondo in armi non sta solo spendendo denaro: sta spendendo il sudore dei suoi operai, il genio dei suoi scienziati, le speranze dei suoi giovani”.  

  

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Pranzo di lusso: sette euro...

Espresso - 20 luglio 2011

    

Risotto con rombo: 3,34 euro. Carpaccio di filetto: 2,76. Dolce: 1,74. Il tutto servito da camerieri in livrea. E' il ristorante del Senato.

Terza puntata delle confessioni all'Espresso del parlamentare Carlo Monai: dove non ci parla solo di cibo ma anche di mutui superagevolati, di terme e di massaggi shiatsu a spese del contribuente. Carlo Monai, il deputato dell'Idv che ha deciso di raccontare tutti i privilegi della Casta, continua a stupirci. 

Racconta che a Montecitorio e Palazzo Madama arrivano ogni giorno inviti per mostre, happening vari, sfilate di moda. Il cibo si paga? «Dipende. Il bar della bouvette è in linea con i prezzi di mercato. Il ristorante, invece, no. Ci costa in media 15 euro, ma la tavola è apparecchiata come un tre stelle Michelin, i camerieri sono in livrea, lo chef è bravo e prepara piatti di grande qualità. Io cerco di non appesantirmi, e ci vado raramente. L'unico appunto», chiosa sorridendo, «riguarda la cantina: ci sono ottimi vini, ma nessuna bottiglia friulana».  

    

Al Senato si può mangiare uno spaghetto alle alici a 1,60 euro, un carpaccio di filetto a 2,76 euro, un pescespada alla griglia a 3,55 euro. Prezzi ridicoli. «Anche in consiglio regionale c'era un buon self service. Primo, secondo, caffè e frutta a 10 euro». Pure uno shampoo costa poco: la nostra guida è un frequentatore della mitica barberia della Camera, dove un taglio costa 18 euro (al Senato, invece, è gratis). «In questo caso, credo che sia un servizio da conservare: consente al parlamentare di avere sempre un aspetto dignitoso, anche quando arriva il martedì con i capelli spettinati».

Ma i servizi dedicati ai politici non finiscono qui. Dentro Montecitorio c'è uno sportello del Banco di Napoli, diventato famoso perché il consigliere Marco Milanese ha movimentato, su un conto dell'agenzia Montecitorio, qualcosa come 1,8 milioni di euro in pochi anni. Non è il solo ad aver aperto un conto lì, visto che gli onorevoli possono approfittare di tassi agevolati per mutui e prestiti.

Precisa Monai: «Molti usano la diaria non per affittare la casa a Roma, ma per comprarla. L'importante è essere rieletti. Per un mutuo di 150 mila euro a cinque anni il tasso fisso è appena del 2,99 per cento, uno o due punti sotto quello di mercato. Idem per un prestito: possiamo avere un tasso agevolato al 2-3 per cento».

Anche le prestazioni sanitarie sono rimborsate: Monai dopo un incidente in cui ha distrutto una Mercedes ha ottenuto il rimborso di 580 euro di massaggi, e ammette che il Parlamento gli paga cinque giorni di cure termali l'anno.

I radicali hanno scoperto altri benefit: occhiali gratis, psicoterapia pagata, massaggi shiatsu, balneoterapia. Tutti servizi destinati a oltre 5.500 persone, tra deputati e familiari. Alla Camera, poi, non si chiama mai il 118: ci sono anche alcuni infermieri nascosti tra gli scranni dell'Aula adibiti a "rianimare" il deputato nel caso si sentisse male. Costano al contribuente 650 mila euro l'anno.

Dopo una vita da nababbo, l'ex parlamentare o il consigliere non viene abbandonato dalla casta. L'assegno di fine mandato non si nega a nessuno, e il vitalizio scatta per tutti. Per prendere una pensione bastano cinque anni di mandato alla Camera o al Senato, (in media 6 mila euro a testa al mese), per una spesa che nel 2013 toccherà i 143,2 milioni di euro l'anno. Tra le Regioni solo l'Emilia-Romagna ha abolito il vitalizio, tutte le altre non ci pensano nemmeno: così nel Lazio può accadere che gli ex e i trombati si prendano 4 mila euro al mese ad appena 55 anni.

Non male, in tempo di crisi.  

 

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LIBIA

“Si colpiscono i depositi alimentari, ma con quale diritto?” denuncia Mons. Martinelli

Agenzia Fides - Tripoli - 26 luglio 2011

       

“Si stanno colpendo obiettivi civili come i depositi alimentari” denuncia all’Agenzia Fides Sua Ecc. Mons. Giovanni Innocenzo Martinelli, Vicario Apostolico di Tripoli. “Pochi giorni fa, aerei della NATO hanno colpito un deposito alimentare poco fuori Tripoli, che conteneva olio, pasta, salsa di pomodoro. Un fiume di olio veniva fuori dal capannone distrutto. So che hanno colpito pure un centro sociale. Ma a che titolo si bombarda un centro alimentare?” si chiede il Vescovo.

“Inoltre, ma la notizia l’ho saputa in maniera indiretta e non l’ho verificata di persona, vi sarebbero delle manifestazioni sulle montagne nei dintorni di Tripoli a favore di Gheddafi. Anche in questo caso vi sarebbero stati dei bombardamenti. Non ho notizie di vittime, e non credo ve ne siano, ma è chiaro che si vuole incutere paura alla gente bombardando nei pressi delle loro manifestazioni” afferma Mons. Martinelli che riferisce anche della pressione psicologica alla quale è soggetta la popolazione, a causa “dei continui sorvoli degli aerei della NATO, specie la notte”.

“I libici dimostrano però riconoscenza nei confronti della Chiesa. Due giorni fa un gruppo di donne è venuto a ringraziarci per le preghiere che abbiamo pronunciato in favore della pace. Ieri ho ricevuto un altro segno, semplice ma toccante, della gratitudine dei libici nei confronti della Chiesa: un signore ci ha regalato una cesta di fichi dicendo ‘questi fichi sono per voi, perché voi siete un segno di amicizia’” conclude Mons. Martinelli. (LM) 

 

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MEDIO ORIENTE

Gli "indignados" di Tel Aviv di Mario Correnti

Il Manifesto - 25 luglio 2011  

      

Pestaggi, cariche della polizia a cavallo, una cinquantina di arresti e decine di contusi. Si è conclusa così la scorsa notte la marcia degli «indignados» di Tel Aviv che da diversi giorni occupano il boulevard Rotschild di fronte alla centrale Piazza Habima. Una protesta cominciata con la lotta contro l’aumento degli affitti nella principale delle città israeliane, le disuguaglianze sociali e il carovita ormai insopportabile e che si è subito estesa ad altre altre località del paese.

Alla manifestazione, alla quale hanno preso parte non meno di 20mila persone, si erano uniti ieri sera anche i medici della sanità pubblica ed ha rappresentato un salto di qualità della protesta che vede insieme israeliani di ogni tendenza politica, non ultimi gli «Anarchici contro il muro» che nell’accampamento di boulevard Rotschild provano anche ad allagare i temi in discussione all’occupazione militare dei Territori e ai diritti negati ai palestinesi.

La mobilitazione sembra espandersi di giorno in giorno e il premier Netanyahu, un convinto liberista in economia che ha contribuito in questi ultimi anni a smantellare lo stato sociale in Israele e ad accrescere la povertà, ora comincia a temere gli «indignados» che assicurano di voler restare a tempo indeterminato in strada, fino a quando le autorità non prenderanno provvedimenti concreti.

«La casa e il pane non sono un lusso» scandivano ieri i manifestanti mentre sfilavano lungo il centro della città. La risposta della polizia è stata violenta: cariche, arresti, manganellate. Ma l’accampamento non si muove e centinaia di persone, in molti casi intere famiglie, rimangono accampate a due passi da Piazza Habima.  

  

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Israele prima degli altri: chi riconosce il Sud Sudan

Misna - 26 luglio 2011  

       

 “È un segnale” risponde Petrus De Kock, esperto dell’Istituto sudafricano per gli affari internazionali, quando la MISNA gli chiede perché Israele ha fatto tanto presto. Finora gli Stati che hanno riconosciuto ufficialmente il Sud Sudan sono 88, ma qualcuno ha giocato d’anticipo.

Il 7 luglio, due giorni prima della proclamazione d’indipendenza da Khartoum, il primo ministro Benjamin Netanyahu aveva promesso “cooperazione e amicizia” e fatto riferimento ai circa 8000 sud-sudanesi fuggiti in Israele durante la guerra civile combattuta tra il 1983 e il 2005. Con gli ex ribelli oggi al governo del 54° Stato africano, in effetti, Tel Aviv ha legami storici. “Israele ha garantito assistenza militare e di intelligence per decenni, fino al punto di inviare propri ufficiali in territorio sudanese” sottolinea Hani Raslan, esperto del Centro di studi strategici e politici dell’università al-Ahram del Cairo.

Decisiva, nel passato e nel futuro, la partita del Nilo. Secondo De Kock, Israele esercita da decenni “una forte influenza” in Uganda e Sud Sudan e ora vuole “condizionare ancora di più le scelte sulla gestione delle acque del fiume”. L’obiettivo principale di Tel Aviv sarebbe tenere alta la pressione sull’Egitto, un paese chiave per qualsiasi soluzione della questione palestinese dove la caduta del presidente Hosni Mubarak ha aperto una transizione piena di incertezze. Sulla base di un trattato di epoca coloniale Il Cairo ha diritto al 55% dell’acqua del Nilo, ma l’anno scorso sette governi africani hanno firmato un accordo che mette in discussione questa suddivisione. L’amicizia di Israele con il Sud Sudan si spiegherebbe con il fatto che nella ricerca di un compromesso la posizione del nuovo Stato sarà fondamentale.

Un secondo obiettivo sarebbe tenere sotto scacco i “nemici” di Khartoum, fortemente dipendenti dalle esportazioni del petrolio sud-sudanese. Il governo di Omar Hassan al-Bashir è sospettato da Israele di favorire il passaggio di armi verso la Striscia di Gaza e i Territori palestinesi occupati. Ad aprile l’aviazione di Tel Aviv è stata accusata di aver distrutto nei pressi della città di Port Sudan un’automobile che trasportava due presunti esponenti del movimento palestinese Hamas, incaricati pare della consegna di un carico di armi.

Tom Wheeler, un ex ambasciatore sudafricano con alle spalle 40 anni di carriera diplomatica, dice alla MISNA che i tempi del riconoscimento dell’indipendenza del Sud Sudan possono essere influenzati dalla “burocrazia” o da altri fattori estranei alla politica. Di sicuro, però, a Tel Aviv hanno le idee chiare. “Le società israeliane alla scoperta del Sud Sudan” ha titolato nel fine-settimana “Yedioth Ahronot”. Il quotidiano fa risalire l’inizio delle relazioni speciali a un ricovero in un ospedale israeliano dell’eroe guerrigliero John Garang, ferito a un occhio durante uno scontro a fuoco, e racconta ora di nuove opportunità.

In prima fila ci sono Solel Boneh Overseas, Sarel e Fujicom Israel, società all’avanguardia nella realizzazione di infrastrutture, nella fornitura di materiale sanitario, nell’informatica e nell’elettronica. C’è, poi, il passato che ritorna. “Esperti della difesa hanno già contattato ufficiali sud-sudanesi per avviare programmi di addestramento per la polizia e l’esercito – scrive ‘Yedioth Ahronot’ – mentre una società con sede a Ramat Hasharon è stata incaricata di elaborare un piano per la messa in sicurezza del presidente Salva Kiir e della sua scorta”.  

   

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MESSICO

Sette milioni di giovani prede delle organizzazioni criminali

Agenzia Fides - Città del Messico - 26 luglio 2011

    

Sette milioni di giovani non studiano e non riescono a trovare un lavoro, e rischiano di essere risucchiati dalle organizzazioni criminali che perfezionano le loro reti per arruolare sempre di più elementi giovani che vivono questa situazione disperata. L’allarme viene dal settimanale "Desde la Fe" dell'arcidiocesi di Mexico, inviato all'Agenzia Fides. Il periodico ricorda che, secondo i rapporti ufficiali, in America Latina ci sono quasi 40 milioni di giovani tra i 15 ed i 29 anni dal futuro incerto, in quanto non studiano né lavorano (sono chiamati “Ninis”): questa cifra rappresenta la quarta parte della popolazione di quella età.

In Messico questo numero raggiunge sette milioni di giovani e costituisce la popolazione giovanile più vulnerabile. L'arcidiocesi evidenzia che "mentre la rete della criminalità organizzata migliora ed espande il suo potenziale di attrarre milioni di giovani senza opportunità, le politiche pubbliche per assisterli ‘dormono il sonno dei giusti’.” Il testo dell’arcidiocesi prosegue: “Questa è la popolazione giovanile più vulnerabile, perché non ha un’occupazione o un mestiere, cade nei vizi, o vive alla disperata ricerca di qualsiasi opportunità di lavoro che non arriva, quindi sono tentati di accettare le proposte dal crimine organizzato che offrono soldi a palate, anche sapendo che c'è il rischio di perdere la vita o la libertà”. Le cifre sono allarmanti: l'80 per cento delle carceri sono occupate da giovani tra i 20 e i 35 anni, le vittime di crimini violenti 9 volte su 10 sono giovani.

Non basta assistere i giovani che studiano per non fargli abbandonare la scuola, ma occorre offrire opportunità a coloro che non fanno neppure parte del sistema scolastico, e logicamente tanto meno hanno la possibilità di unirsi alla popolazione economicamente attiva. Il settimanale riconosce anche che il lavoro della Chiesa cattolica in questo ambito è diminuito enormemente, perché i giovani sono sempre più lontani dagli ambienti di fede e da una carente evangelizzazione per loro. (CE)  

  

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Messico, migranti usa e getta di Alessandro Grandi

PeaceReporter - 26 luglio 2011

Dura la vita dei migranti. Oggi rischiano il sequestro e l'obbligo di lavorare per i narcos  

     

Il pressing messo in atto dalle forze di sicurezza messicane contro i cartelli della droga messicani ha costretto i leader delle bande a riorganizzare le proprie 'truppe'.

Troppi gli arresti avvenuti negli ultimi tempi. Decine, centinaia di ragazzi, la manovalanza della morte, finiti nelle (blande) carceri del paese, costringono i boss a chiamare a servizio nuove leve. Spesso, purtroppo troppo spesso, sono giovani disoccupati figli di una vita disagiata che aspirano al denaro facile.

Ma oggi la vera notizia è che la manovalanza, coloro che potranno accedere al tavolo del boss per diventare killer o guardia del corpo o anche solo semplicemente un soldato della banda, viene ricercata fra i più disperati dei disperati: i migranti.

La certezza è una: il famigerato gruppo de Los Zetas, forse uno dei più temibili, violenti e potenti del Paese, sta sequestrando migranti, non fa differenza se siano uomini e donne, per trasformarli nel loro personale esercito di riservisti.

In effetti, le modalità del sequestro sono assai particolari e non prevedono affatto una richiesta di riscatto alla famiglia. I sequestrati infatti, dovranno lavorare per i cartelli a tempo pieno, rispettando gli ordini impartiti. La loro vita comunque non vale molto. Anzi vale meno di un dollaro.

La conferma del nuovo metodo per arruolare personale criminale arriva da un esperto, padre Alejandro Solalinde, leader del movimento pacifista "Paso paso hacia la paz". Solalinde che ha scoperto già un paio di anni fa il metodo dei cartelli definisce la nuova manovalanza "usa e getta" per sottolinearne come i cartelli li ritengano solo merce per i loro sporchi affari.

"Una volta rapiti, magari dopo aver fatto ingresso nella zona meridionale del Messico, in Chiapas, i migranti sono in trappola. E sono costretti a stare alle regole dei narcos e a lavorare per loro. Questo può avvenire all'interno del territorio di competenza o al di fuori. E che nessuno tenti la fuga perchè si firma la condanna a morte" racconta padre Alejandro. "Ho avuto informazioni secondo cui alcuni di questi migranti sotto sequestro avrebbero messo a segno una carneficina a Veracruz" ricorda Solalinde che racconta un altro episodio. "Le famiglie dei migranti non hanno più loro notizie. Solo una volta ho saputo che due giovani hanno comunicato con casa dicendo di dimenticarsi di loro: una volta dentro all'ambiente è quasi impossibile uscirne".

D'altronde il sacerdote, che è responsabile della pastorale dei migranti della conferenza episcopale messicana, ne ha viste e sentite di tutti i colori e non saprebbe dare una soluzione pratica al tragico e intricatissimo problema dei migranti. Oltre a mettere a rischio la loro vita per raggiungere gli Usa e aiutare la propria famiglia rimasta nel paese d'origine, oggi sono sono sotto scacco delle bande criminali che li usano e poi se ne disfano. "Sono gli schiavi del nuovo millennio. E credo che per loro l'unica cosa positiva sarebbe finire in prigione" conclude padre Solalinde.

Per i prossimi giorni sono attese manifestazioni in tutta l'area del centroamerica contro i rapimenti e le violazioni dei diritti umani ormai diventata una consuetudine troppo tollerata.

   

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MYANMAR

L’Onu apprezza il “costruttivo” incontro fra Aung San Suu Kyi e un ministro birmano

AsiaNews - Yangon - 26 luglio 2011

La leader dell’opposizione e il ministro del lavoro a colloquio per oltre un’ora. Pochi dettagli sui temi, ma l’attenzione ruota attorno alla legge e al diritto. Possibili nuovi incontri in futuro. Ban Ki-moon incoraggia il dialogo e rinnova l’appello per la liberazione dei duemila prigionieri politici nel Paese.  

      

Un incontro definito da entrambe le parti soddisfacente e costruttivo, che ha registrato oggi l’apprezzamento del segretario generale Onu, Ban Ki-moon. Il faccia a faccia di ieri fra Aung San Suu Kyi e un rappresentante del governo – insediatosi nell’aprile scorso ed emanazione del regime militare – sono un primo (timido) tentativo di dialogo fra l’opposizione democratica e la leadership birmana; i due fronti hanno inoltre anticipato nuovi incontri in un futuro prossimo.

Ieri pomeriggio in un ufficio governativo a Yangon, la Nobel per la pace ha avuto un incontro di circa 70 minuti con Aung Kyi, ministro birmano del Lavoro oltre che responsabile del Welfare e della Protezione civile. Egli è anche il funzionario del regime birmano prima e del governo civile ora – frutto delle elezioni “farsa” del novembre 2010 e insediato ad aprile – incaricato dal generalissimo Than Shwe di curare i rapporti con la “Signora”. Si tratta del nono incontro (nella foto) fra la Suu Kyi e Aung Kyi.

Al termine della riunione, la leader della Lega nazionale per la democrazia (Nld) ha dichiarato che “qualunque cosa si faccia o con chiunque si parli, la nostra più grande speranza resta il bene del Paese e della gente”. Di contro, il funzionario birmano ha aggiunto: “possiamo dire che si tratta del primo passo – anticipa Aung Kyi – verso la cooperazione, con un occhio particolare improntato al lavoro da fare in futuro”. I due non hanno voluto però precisare i dettagli dei colloqui, restando sul vago; tuttavia l’attenzione ruoterebbe attorno alla legge e al diritto in Myanmar, dove dilagano corruzione e repressione dell’opposizione politica.

Oggi, infine, è intervenuto il segretario delle Nazioni Unite Ban Ki-moon, il quale ha accolto con favore l’incontro fra Aung San Suu Kyi e il ministro birmano. La segreteria generale Onu – si legge in una nota – “incoraggia simili contatti e il dialogo” e rinnova l’appello al governo birmano per la liberazione degli oltre 2mila prigionieri politici rinchiusi nelle carceri del Myanmar.  

 

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Tensioni in stato Kachin, continua la fuga dei civili

Misna - 25 luglio 2011  

      

Fuggono in centinaia dai villaggi attorno a Banmaw (Bhamo) temendo ulteriori scontri tra militari governativi e miliziani dell’Esercito indipendentista Kachin (Kia): il numero dei profughi, dall’inizio del conflitto nello Stato settentrionale Kachin lo scorso 9 giugno, avrebbe ormai raggiunto le 20.000 unità, di cui una minima parte riparata oltre confine, in Cina.

Secondo un portavoce dell’Organizzazione indipendentista Kachin (Kio), braccio politico del Kia, le autorità birmane avrebbero ordinato a migliaia di abitanti di abbandonare le aree di Kala yang, Kazue e Tapant entro oggi, facendo temere l’avvio di una vasta offensiva contro le basi dell’esercito Kachin a Laiza.

Nel fine-settimana il governo ha invitato il Kia a un cessate-il-fuoco nello Stato Kachin, ma non in tutte le aree delle minoranze etniche oggi tetro di tensioni, come nel vicino Stato Shan. Per questo motivo, il Kia avrebbe respinto la proposta, chiedendo colloqui con i rappresentanti di tutte le minoranze etniche.

 “Il rinnovato conflitto nello Stato Kachin è un esempio di quel che il paese deve aspettarsi se continuano ad aumentate gli investimenti stranieri” ha sostenuto Paul Sein Twa, esponente del ‘Burma Environmental Working Group’, gruppo di organizzazioni per una gestione dello sviluppo compatibile con la protezione dell’ambiente, autore di un rapporto sulla problematica dell’amministrazione delle risorse ambientali in Myanmar. Nelle intenzioni del governo, lo Stato Kachin deve diventare il ‘motore’ di produzione elettrica del paese, grazie alla costruzione di impianti e dighe idroelettriche da parte di partner cinesi. Un progetto che – sottolinea il gruppo di lavoro – “se verrà realizzato senza una reale partecipazione multietnica e senza un quadro di regolamentazione rigoroso, continuerà a essere fonte di conflitto”.  

 

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Denaro ed energia alimentano il conflitto fra esercito birmano e minoranze etniche di Yaung Ni Oo

AsiaNews Yangon - 27 luglio 2011

Attivisti e ambientalisti puntano il dito contro dighe, infrastrutture e sfruttamento delle materie prime: arricchiscono la leadership politica e mettono in ginocchio il popolo. Nello Stato Karen migliaia di famiglie senza casa per un’autostrada. La diga di Myitsone (Kachin) causa di danni gravissimi; l’azienda cinese che cura il progetto ne vuole costruire altre sette.  

   

Dietro gli scontri fra esercito governativo e minoranze etniche, sfociati nello Stato Kachin (nel nord del Myanmar) in una vera e propria guerra civile, vi sarebbero interessi economici miliardari legati alla costruzione di dighe, infrastrutture e sfruttamento delle materie prime. Lo denunciano ambientalisti e attivisti birmani, secondo cui le decine di progetti promossi o finanziati dall’estero – in particolare da gruppi e imprese cinesi – alimentano ed esasperano la crescente tensione fra i gruppi armati e i militari. Intanto la popolazione civile è vittima di espropri forzati, omicidi e stupri, mentre l’ecosistema naturale rischia danni gravissimi e permanenti.

Il Karen National Liberation Army (Knla), braccio armato della minoranza etnica a est del Paese, lungo il confine con la Thailandia, ha bloccato la costruzione di una imponente via di comunicazione diretta al porto di Dawei, dove sorge un polo industriale del valore di otto miliardi di dollari. La costruzione dell’autostrada – lunga circa 160 km – avrebbe già colpito le popolazioni dislocate nell’area: almeno duemila famiglie saranno costrette ad abbandonare le loro case, senza risarcimenti adeguati. Il governo birmano – frutto delle elezioni “farsa” del novembre 2010 e insediatosi nell’aprile scorso – avrebbe inoltre venduto i terreni situati attorno all’autostrada a investitori e uomini di affari, legati alla leadership politico-militare che domina il Paese. Le riforme economiche e le privatizzazioni promesse dall’esecutivo, in realtà, sono un pretesto per favorire accoliti o imprenditori fedeli alla giunta. E le leggi che dovrebbero regolare le proprietà terriere in Myanmar sono vaghe e interpretate a vantaggio dei potenti.

Intanto prosegue la controversia attorno alla costruzione della diga di Myitsone, lungo il fiume Irrawaddy, nello Stato settentrionale Kachin, al confine con la Cina (nella foto). Dopo anni di tregua, nel giugno scorso è ripresa la guerra civile fra l’esercito birmano e le milizie ribelli del Karen Indipendence Army (Kia), che ha già fatto registrare decine di morti e feriti. Attivisti per i diritti umani e ambientalisti sottolienano che gli investimenti provenienti dall’estero contribuiscono ad esasperare il conflitto; fra i principali imputati vi sono le aziende cinesi, che riversano miliardi di dollari nelle tasche della giunta militare e stravolgono la vita della popolazione e l’ecosistema naturale.

La pericolosità della controversa centrale idroelettrica di Myitsone è testimoniata anche da un rapporto interno della China Power Investment Corporation (Cpi), multinazionale cinese responsabile del progetto. Esso potrebbe causare – secondo il documento – “problemi gravissimi” non solo nell’area ma in tutto il Paese. Tuttavia i dirigenti della società hanno glissato sui risultati, tanto che la Cpi ha intenzione di costruire sette mega-centrali sul fiume Irrawaddy. In totale sarebbero 48 i progetti di centrali idroelettriche in Myanmar, già avviati o in fase di stesura, di cui 25 simili alla super-diga di Myitsone. Ad un costo di 35 miliardi di dollari, capaci di generare 40mila Mw di corrente (destinata al mercato estero) e che porteranno nelle tasche del governo birmano almeno 4 miliardi di dollari all’anno in proventi.

   

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PORTORICO

Criminalità all'attacco di Alessandro Grandi

PeaceReporter - 22 luglio 2011

Troppi omicidi stanno trasformando il Paese in uno Stato dove vige la legge del più forte  

  

Il problema della violenza sta attanagliando l'isola di Portorico. Non ci sono più dubbi ormai: qualcosa sta cambiando nei rapporti e nei comportamenti della malavita locale. Troppi omicidi, troppe stragi di ragazzi e uomini, quasi sempre con precedenti penali legati al mondo della droga, stanno trasformando la capitale San Juan, ma in generale tutto il Paese, in un'area dove piano piano andrà in vigore la legge del più forte. E sono in molti quelli che pensano possa avvenire una 'messicanizzazione' del Paese.

Dubbi ce ne sono pochi: oggi Portorico non è l'isola incantata che conoscevamo anni fa. Il grande dispiegamento di forze dell'ordine nelle diverse aree del Paese non ha prodotto risultati apprezzabili nel contenimento delle attività criminali.

E per queste ragioni da inizio anno sono state ben 630 le morti violente sull'isola. Sembra che le forze di polizia non siano in grado di arginare un fenomeno che negli ultimi anni è aumentato in maniera dilagante.

Lo spiega bene anche il report emesso dalle Nazioni Unite, settore Estadisticas de Crimen y Justicia Criminal. Portorico è l'ottavo Paese al mondo con il più alto rapporto pro capite fra popolazione e polizia. Si parla di numeri importanti: poco meno di 600 agenti ogni 100mila abitanti.

In quest'ottica si deve leggere anche l'abbandono dell'incarico da parte del sopraintendente della polizia José Figueroa, avvenuto ufficialmente per questioni legate al suo stato di salute, ma che tutti considerano come un addio dovuto al fallimento della politica della sicurezza attuata nel Paese.

La situazione intanto sembra andare sempre più a picco e dalle analisi dei dati in possesso delle autorità dell'isola si percepisce come il 2011 potrebbe ben presto trasformarsi nell'anno peggiore sotto il punto di vista della violenza. Nel 2010 furono 955 gli omicidi. Oggi siamo già a 630 vittime. Il timore è che quest'anno possa segnare il record degli omicidi.

Nell'ultimo fine settimana 14 persone sono state uccise in diverse zone dell'isola. Tutte, secondo la polizia, avevano una qualche relazione con il crimine organizzato e il traffico di stupefacenti.

Un brutta faccenda che potrebbe trascinare il Paese, che è Stato Libero ma Associato agli Usa, in una polveriera.

E da più parti si fa sempre più largo il pensiero che la colpa di cotanta violenza debba essere ricercata all'interno delle nuove strategie che le grandi organizzazioni criminali sudamericane e dedite al traffico di droga, stanno studiando.

La grande pressione che gli Usa stanno attuando contro i trafficanti di droga, soprattutto per quanto riguarda la zona di confine con il Messico, costringe i cartelli a trovare nuove vie per il trasporto di droga. E cosa c'è di meglio che un'isola dei caraibi che è già territorio statunitense?

I dubbi e le considerazioni restano. Di fatto, oggi, siamo qui a contare centinaia di vittime di una guerra fra bande che porterà solo all'ulteriore impoverimento di un Paese e, probabilmente, alla perdita di molti suoi altri figli.  

     

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SERBIA

Belgrado corre incontro all'Europa

PeaceReporter - 22 luglio 2011

Il criminale di guerra non ha presentato ricorso contro la richiesta di estradizione  

        

"La Serbia ha adempiuto i suoi obblighi morali, ha chiuso una pagina oscura del suo passato e ora volge il suo sguardo verso nuove questioni". Con queste parole, il vice procuratore del Tribunale per i crimini di guerra di Belgrado, Bruno Vekaric, ha commentato con PeaceReporter l'arresto di Goran Hadzic, trovato mercoledì a Krušedol sui monti di Fruška Gora dopo sette anni di latitanza, ed estradato venerdì al Tribunale internazionale per i crimini di guerra in ex Jugoslavia (Icty).

Hadzic, a differenza di Mladic e Karadzic, ha assunto un atteggiamento collaborativo: egli stesso ha raccontato dei suoi anni di latitanza trascorsi in Russia, dove aveva anche un lavoro, con la complicità e il finanziamento di mercanti d'armi e signori della guerra che durante il conflitto nei Balcani si sono arricchiti grazie alle generose commesse dell'ex presidente della Republika Srpska Krajina. La seconda vita di Hadzic si è conclusa quando sono venuti a mancare i fondi e ha provato a vendere goffamente un quadro di Modigliani che era stato rubato durante gli anni della guerra.

Il criminale di guerra Goran Hadzic non ha presentato ricorso contro la richiesta di estradizione. Questo suo atteggiamento gli ha garantito un "trattamento di riguardo" da parte delle autorità che gli hanno concesso, prima della partenza per l'Aja, di visitare a Novi Sad sua madre - gravemente ammalata - che non vedeva da sette anni. Allo stesso modo, la moglie e il figlio hanno incontrato Hadzic nel carcere, così come ha potuto fare la sua nuova compagna (che non vedeva da almeno un paio di anni) e la sua ultima bambina concepita durante la latitanza.       

L'aereo partito dall'aeroporto Nikola Tesla è arrivato a Rotterdam intorno alla 13:00 di venerdì. Si è chiusa così, con quell'atterraggio, "una pagina oscura" del passato serbo. Per Belgrado, adesso, non ci sono più ostacoli lungo il percorso diretto a Bruxelles.  

  

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SOMALIA

I bimbi del campo di Dadaab, vittime dell’inferno somalo di Matteo Fraschini Koffi

Avvenire - 24 luglio 2011  

        

«L’angelo della morte me lo ha portato via ieri», racconta Halima, giovane donna somala e mamma di quattro bambini troppo spaventati per staccarsi dalla sua veste. «Il mio quinto figlio, Hassan, stava male da qualche mese. L’ho ricoverato in ospedale settimana scorsa, ma non ha resistito». Dallo sguardo di Halima non sembra trasparire né tristezza né rabbia. Solo una dolce rassegnazione.

Da quando lei, insieme a decine di migliaia di altri profughi, ha deciso di lasciare la Somalia, sono state poche le tragedie che non ha dovuto affrontare. Durante un cammino durato ventiquattro giorni, Halima e la sua famiglia hanno sfidato la morte passo dopo passo. Se non erano le iene, erano i leoni. Se non era la fame, era la sete. «Siamo stati comunque fortunati», conclude mentre accarezza a turno tutti i suoi figli. È difficile accettare che in un posto come Dadaab, il campo di rifugiati più grande al mondo, la parola «fortuna» possa essere espressa dalle labbra secche dei suoi residenti.

In quest’area a Nord-est del Kenya, dove sabbia e arbusti rappresentano l’unica vegetazione per centinaia di chilometri verso l’orizzonte, le inermi carcasse degli animali giacciono a terra semi-spolpate, in attesa di essere completamente scarnificate dagli avvoltoi del cielo e della terra. I rifugiati come Halima, ormai più di 400mila, continuano ad arrivare a una media tra i 1.500 e tremila al giorno. Ogni profugo, per quanto possibile, deve essere registrato e “catalogato” sia dall’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Acnur), sia dagli ufficiali del governo keniota. Dopo aver preso le impronte digitali e aver scattato la foto di ognuno, gli operatori danno ai rifugiati un braccialetto colorato a seconda della sezione del campo a cui saranno destinati.

Agli ultimi arrivati, anche se non registrati, spetta una razione di cibo per una settimana, mezza saponetta e dei teli con cui coprirsi. Da quando il campo di Dadaab è stato aperto vent’anni fa per ospitare specialmente somali, etiopi, e sudanesi, il flusso migratorio non si è mai arrestato. Ma con la siccità di quest’anno, la più grave dagli anni Cinquanta assicurano le Nazioni Unite, il numero di profughi è aumentato in modo vertiginoso. Sono oltre dieci milioni le persone colpite dall’emergenza, un fatto che ha sorpreso persino i veterani del mondo umanitario.

Ogni mattina, decine di Land Rover che trasportano operatori umanitari e materiale di base, si mettono in fila per firmare la loro uscita dal cancello principale delle zone riservate alle agenzie e dirigersi verso le tre sezioni in cui si divide Dadaab: Hagadera, Dagahaley e Ifo. Nonostante il governo keniota abbia promesso l’apertura di un altro campo, Ifo-2, l’iniziativa non è stata ancora approvata ufficialmente. «La possibilità di aprire Ifo-2 verrà discussa in Parlamento mercoledì», spiega Omar, operatore keniota nel settore dell’istruzione per Avsi, l’organizzazione non governativa italiana che fa parte del consorzio per l’emergenza di Agire: «Speriamo che i nostri politici facciano appello alla loro umanità perché non ci siamo mai trovati in una situazione tanto grave».

Nel centro maternità di Hagadera, Abdi è l’unico uomo. Sua moglie è morta dopo dieci giorni di cammino ed è stata sepolta dal resto della famiglia.

«Era già molto malata e non è riuscita a sopportare la fatica di camminare sotto il sole», racconta Abdi, rimasto con due figlie e sua mamma di ottantasei anni. Nello stanzone in cui si curano i bambini più a rischio, Sarah, la figlia di Abdi, è sdraiata su un materasso: malnutrizione acuta è la diagnosi. I ventisei giorni di cammino, spesso senza acqua né cibo, hanno messo a dura prova il suo piccolo corpo.

Ogni tanto, le pupille di Sarah spariscono verso l’alto per la sofferenza che prova, e tornano a fissare il vuoto dopo qualche attimo di sopportazione. Poiché Sarah non riesce a mangiare, i medici le hanno infilato un sottile tubo con cui viene periodicamente nutrita. A tre anni, la bambina di Abdi pesa meno di quattro chili. Nella branda accanto a lei, invece, un bambino di sette mesi, a causa della stessa malattia, pesa più di cinque chili. La mamma lo abbraccia e gli copre il pancione infetto.

Lo stadio di carestia decretato dalle agenzie umanitarie Onu ha tra i parametri per la dichiarazione la morte di almeno due bambini al giorno su diecimila persone. Più a Nord, in Somalia, le statistiche superano abbondantemente questi numeri, qui si tenta di azzerarle. «Molti di loro sono famiglie di pastori e agricoltori», dice Ibrahim, uno dei gestori dell’ospedale di Hagadera che è finanziato da varie organizzazioni tra cui l’International rescue committee: «Le scarse piogge hanno impoverito il terreno e hanno ucciso il loro bestiame. L’unica scelta che avevano era quella di spostarsi da un’altra parte».

I somali scappano anche dalla guerra civile che sconvolge il Paese dal 1991. Sulla strada hanno dovuto negoziare non solo con la morte ma anche con il pericolo di essere reclutati dall’al-Shabaab, il gruppo ribelle di matrice qaedista che controlla la maggior parte del Paese.

«Non voglio tornare in Somalia», assicura Abdi: «Tutti i miei parenti sono scappati da lì». Alla periferia del campo di Ifo, sono invece raggruppati gli ultimi rifugiati. Ismail è appena arrivato con la sua famiglia: una moglie e quattro figlie. Domani, quando gli uffici delle registrazioni riapriranno, per loro inizierà una nuova vita. Difficile, ma una vita.  

 

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STATI UNITI

Niente tasse ai tea party di Guglielmo Ragozzino

Il Manifesto - 24 luglio 2011  

        

La discussione alla Casa bianca è durata meno di un'ora. Era stato un nervoso presidente Barack Obama a invitare i delegati dei Rappresentanti e dei Senatori, repubblicani e democratici: «Qualcuno venga a spiegarmi come si evita il fallimento dell'America». A discutere erano in quattro, non contando il padrone di casa: vi erano lo speaker repubblicano della Camera John Boenher, Nancy Pelosi, democratica, che aveva svolto lo stesso ruolo fino all'inizio di quest'anno e poi i due leader del Senato, il repubblicano Mitch McConnell e il democratico Harry Reid. Nessun comunicato alla fine, una dichiarazione di Boenher con la promessa di una ricerca di soluzione bipartisan «per preservare la fiducia e il credito degli Stati uniti». Domani, lunedì, il confronto riprenderà in qualche forma. Nel frattempo gli sherpa di Washington faranno il loro lavorio e una soluzione, per quanto difficile, verrà trovata, tanto più che intorno alle sedi del potere già svolazzano gli avvoltoi delle case di rating che potrebbero abbassare la valutazione dei titoli di debito americani, spingendo il Tesoro americano al fallimento e la finanza globale al collasso.

Tutto sembra ridursi a un duello tra il presidente e Boenher: questi chiede con forza di tagliare la spesa sociale, senza aumentare le tasse, mentre Obama vorrebbe salvare quanto più è possibile la sua legislazione a favore degli anziani e della copertura sanitaria allargata per la popolazione; un atteggiamento solidale quest'ultimo e pertanto inviso alla destra repubblicana che controlla una parte preponderante degli eletti attraverso il circuito dei tea party. Gente convinta che nessuno debba disporre di più di quello che è in grado di pagarsi con denaro proprio o al massimo con il credito che qualche banca gli ha concesso.

Tasse o tagli. Il presidente propone una via di mezzo, un compromesso, pur nel dissenso di Pelosi e Reid che cercano di presidiare le conquiste, già molto sacrificate, dei primi anni del mandato di Obama; d'altro canto il suo avversario difende i vantaggi che la lunga presidenza Bush ha offerto ai redditi più alti, con notevoli sgravi fiscali e possibilità di elusione. In questo caso la semplice ideologia è quella che ciascuno deve avere la possibilità di diventare molto ricco. Un ricco, meglio un super ricco, non può che essere un beneficio per tutta la società; in ogni caso serve da sprone e da esempio.

 

Le cifre sono ballerine. Obama offre un taglio di 1.000 miliardi nelle spese, compresa la difesa e altri 650 miliardi in spese sociali tra Medicare, contributi agli agricoltori e ai programmi scolastici. Boehner vuole di più, per evitare che il resto che manca venga pescato nelle tasche dei ricchi, ai quali Obama vorrebbe arrivare per dare alla manovra una vernice di giustizia sociale.

Un rapido accordo tra repubblicani e presidente è indispensabile perché entro il 2 agosto deve essere aumentato il limite insuperabile del debito pubblico, fissato in 14.300 miliardi di dollari, mentre le previsioni per il 2011 superano quella soglia di 1.000 miliardi almeno. I repubblicani che controllano la Camera dei rappresentanti sono disposti a farlo solo sulla base di un accordo di ferro con Obama che comprenda la riduzione drastica della spesa sociale. Sanno che Obama è contrario e lo spiegano con le elezioni presidenziali del 2012, cui Obama vorrebbe presentarsi - dicono loro - con elargizioni ai suoi elettori per non rischiare la sconfitta. Così gli ideali della destra rigorosa, senza pietà per i perdenti della società, si involgariscono nel fine di ostacolare la rielezione del presidente in carica.

La crescita del debito pubblico è stata inarrestabile nel corso di un quarantennio. Carter nel 1980 aveva consegnato un debito di 1.000 miliardi a Reagan che in due mandati presidenziali lo aveva triplicato. Bush padre passò da 3 a 4.000 miliardi. Clinton aveva frenato un po', arrivando in due mandati a circa 5.500 miliardi. Bush figlio aveva ripreso una crescita veloce: in otto anni aveva portato il debito a 10.000 miliardi. Obama aveva sfiorato i 12.000 nel suo primo anno e superato ampiamente i 13.000 nel secondo. Dopo di che, i repubblicani avevano conquistato la Camera dei rappresentanti e chiesto di rivedere i conti. In effetti l'anno prossimo, se non si prenderanno provvedimenti (e l'economia non ripartirà alla grande) il debito pubblico dovrebbe superare il 100 per cento del Pil, una soglia considerata molto pericolosa. Noi italiani, come i giapponesi, sappiamo che se il debito supera il pil, la vita continua.

     

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TURCHIA

Crisi o fine del lungo idillio tra Erdogan e l’Europa di NAT da Polis

AsiaNews - Istanbul - 26 luglio 2011

Motivi interni e internazionali dietro la dichiarazione del premier turco, che sospenderà ogni collaborazione con l’Unione durante la presidenza cipriota. Ankara tira a “mercanteggiare” usando il suo ruolo di potenza in una regione ricca di energia.  

   

Il lungo idillio tra Erdogan e la UE sta attraversando un periodo di crisi. La causa è la terra di Afrodite, l’isola di Cipro. Nella visita effettuata la settimana scorsa nel 37mo anniversario dall’invasione turca della parte settentrionale della Repubblica di Cipro - con la conseguente divisione dell’isola - Erdogan ha definito assolutamente impossibile la collaborare con la futura presidenza della UE quando essa sarà guidata dalla repubblica di Cipro.

La Repubblica di Cipro è uno Stato membro dell’UE, ma non è riconosciuto dalla Turchia. Di qui l’affermazione di Erdogan che “per quel semestre sospenderemmo le nostre relazioni con la UE e non ce ne importa di che cosa ne pensa Bruxelles. La UE ha sbagliato ad accettare Nicosia. Per noi - ha continuato - esistono due Stati distinti che devono coesistere in una confederazione “light”, senza perdere la loro identità ed indipendenza”.

Pronta la reazione di Bruxelles che ha ritenuto queste affermazioni offensive ed arroganti, in quanto ledono la dignità di uno Stato membro dell’Unione. Fonti di Bruxelles hanno pure ricordato che quando Erdogan ha aperto le trattative per l’adesione della Turchia alla Ue ha accettato l’obbligo di rispettare e riconoscere l’integrità di tutti Paesi membri dell’Unione. Le stesse fonti diplomatiche, commentando questa infelice uscita di Erdogan, hanno voluto ricordare che l’attuale governo guidato dall’AKP ha potuto battere il vecchio establishment turco proprio grazie all’apertura delle trattative con la UE.

In questo quadro sorge l’interrogativo del perchè di queste dichiarazioni di Erdogan, che, se certamente non sono nuove, hanno provocato forti reazioni. La stessa Hillary Clinton ha ricordato a Davutoglu che le decisioni dell’ONU su Cipro vanno rispettate. Innanzitutto va detto, come più volte hanno dichiarato eminenti figure dei turco-ciprioti, che Erdogan come chiunque altro ad Ankara, non lavora per loro. E di fatto si osserva ultimamente una crescente contestazione nei confronti di Ankara da parte dei turco-ciprioti, ormai minoranza nella parte Nord dell’isola, a causa della massiccia immigrazione di turchi dell’Anatolia. Ridotti ad essere appena 1/3 della popolazione della parte settentrionale dell’isola, essi accusano Ankara di scarsa sensibilità civile e di distruzione della loro eredità culturale e civile, con la trasformazione dell’isola in un grande casinò per la finanza verde, quella cosiddetta islamica.

A un osservatore degli affari turchi non può sfuggire quello che ha sempre contraddistinto, nei corso dei tempi, la politica estera turca: il concetto, lo strumento, di “pazarlik” (mercanteggiare). La Turchia considerando che le trattative con l’Unione Europea sono a un punto di stagnazione (un reform fatigue si dice negli ambienti diplomatici), dopo l’iniziale impeto. E’ una stagnazione dovuta anche ad una diffusa carenza di coscienza civile nella società turca. E Ankara sta facendo ricorso proprio al “pazarlik”.

Conscia che l’Unione Europea ha crescenti bisogni di risorse energetiche, che si trovano in quell’area geografica in cui la Turchia si inserisce come il naturale hub di transito, cerca di presentare se stessa come il migliore traghettatore dei valori europei verso i Paesi di quell’area. Allo stesso tempo si spinge ad allacciare relazioni alternative con Paesi di quell’area, come la Russia e l’Iran, accusando contemporaneamente la UE di usare due pesi e due misure nei suoi confronti, nel suo tentativo di adeguarsi ai criteri di Copenaghen. Criteri necessari per l’accesso nell’Unione. E Cipro funge proprio come giustificativo. Tutto ciò induce molti analisti a dire che la Turchia è alla ricerca di nuovi partner e che va oltre la scena europea. Ed è lo stesso ministro degli esteri turco, Davutoglu, ideatore della politica estera a dare la spiegazione, rispondendo a chi gli parlava di divergenze culturali e scontri di civiltà, che esistono solo scontri di interessi.

Poi ci sono anche i fattori interni. Erdogan, benché abbia conquistato il voto della metà della popolazione turca, non ha i numeri per effettuare quelle riforme costituzionali per le quali aveva voluto sia il referendum dello scorso settembre (stravinto) che le elezioni del 12 giugno. Sollecitando l’orgoglio nazionale spera di raccogliere quei voti parlamentari necessari per le sue riforme, ma, anche e soprattutto, perché mira alla conquista della presidenza della Repubblica allo scadere del mandato di Gul, come nuovo padre di una Turchia potenza regionale.

Ma dal Fondo monetario internazionale iniziano ad arrivare le prima avvisaglie di difficoltà. Il disavanzo commerciale ha toccato nei primi 5 mesi del 2011 i 38 miliardi di dollari, mentre lo sviluppo previsto per il 2011, previsto all’11% si è abbassato all’8,7%, e per il 2012 avrà un ulteriore grosso calo.

Insomma chi tanto vuole alla fine nulla o poco stringe. 

   

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