Bangl@news |
|
Anno XII N° 504 18/1/12 |
|
Libertà religiosa: 26 i missionari martiri nel mondo
Avvenire
- 30 dicembre 2011
Nel
2011 sono stati uccisi 26 missionari cattolici, uno in più rispetto all'anno
precedente. Lo rende noto l'agenzia vaticana Fides che elenca i nomi di 18
sacerdoti, 4 religiose e 4 laici. Nell'elenco per il terzo anno consecutivo, con
un numero estremamente elevato di operatori pastorali uccisi, figura al primo
posto l'America, bagnata dal sangue di 13 sacerdoti e due laici. Segue l'Africa,
dove sono stati uccisi 6 operatori pastorali: due sacerdoti, tre religiose, e un
laico. Quindi l'Asia, dove hanno trovato la morte due sacerdoti, una religiosa e
un laico.
L'agenzia
vaticana pubblica oggi le scarne note biografiche dei missionari uccisi che,
scrive, "hanno professato la sincera adesione al Vangelo non solo a parole,
ma con la testimonianza della propria vita, in situazioni di sofferenza, di
povertà, di tensione, di degrado, di violenza, senza discriminazioni di etnia,
casta, religione, con l'unico obiettivo di annunciare Cristo e il suo Vangelo,
di rendere concreto l'amore del Padre e di promuovere integralmente l'uomo, ogni
uomo".
"La
vera imitazione di Cristo - afferma Fides citando Benedetto XVI - è l'amore. E
questa è stata certamente regola di vita per suor Angelina, uccisa in Sud Sudan
da militanti del Lord's Resistance Army (LRA) mentre portava aiuti sanitari ai
rifugiati; e anche per Maria Elizabeth Macias Castro, del Movimento Laico
Scalabriniano di Nuevo Laredo (Messico), che lavorava presso un giornale e si
occupava di assistere i migranti, sequestrata e uccisa da narcotrafficanti; o
ancora per Padre Fausto Tentorio, missionario italiano del Pime, parroco a
Mindanao nelle Filippine, che ha dedicato tutta la sua vita al servizio di
alfabetizzazione e sviluppo degli indigeni; o ancora per il laico Rabindra
Parichha, ucciso in Orissa, in India orientale: ex catechista itinerante, era
molto impegnato nel campo legale e come promotore dei diritti umani".
Quanto sei missionario? Scoprilo con un test di Giacomo Cocchi
Toscana Oggi - 8 gennaio 2012
Il nuovo libro di don Luca Meacci, assistente Scout, spiega ai ragazzi (ma non solo) il senso della missione
Un test per scoprire se sei superfluo o essenziale e un altro per capire se sei sobrio oppure uno sprecone. Anche il gioco può essere utile per modificare i nostri stili di vita e compiere piccole, ma sane e utili, azioni quotidiane per essere dei veri missionari. Si trova questo e molto altro nelle 60 pagine di «Servizio missionario», il nuovo libro di don Luca Meacci della Diocesi di Fiesole, prete scout che fino a pochi mesi fa era assistente nazionale della branca esploratori e guide dell’Agesci. La pubblicazione, arricchita dalle simpatiche e colorate illustrazioni di Simona Spadaro, fa parte della collana sussidi tecnici, pensata per insegnare ai ragazzi e alle ragazze col fazzolettone alcune competenze, come la pioneristica, il campismo, la topografia e appunto la liturgia. Questo ultimo libro segue un vero e proprio bestseller di don Luca, «Celebriamo insieme», acquistato non solo da scout ma anche da classi di catechismo e gruppi dopocresima, nel quale il sacerdote spiegava i tempi liturgici, le fasi della messa e alcuni riti tradizionali della nostra fede. |
Questa volta il tema è l’ambito missionario. «Tutti abbiamo sempre sentito parlare di missione e missionari - spiega don Luca - e li identifichiamo in sacerdoti impegnati a diffondere la conoscenza del Vangelo. Ma le missioni oggi sono diventate anche centri di sviluppo e formazione per le popolazioni più povere». Per conoscere il presente, nel libro si parte dal passato, con la storia dei Saveriani, dei Comboniani, dei missionari della Consolata e con il Pime. E dopo il «chi sono», un’ampia parte è dedicata al «come si fa», nella quale don Luca descrive i laici e i preti «fidei donum», «esempio di collaborazione fra le Chiese - sottolinea l’autore - e come scrisse Pio XII: "se qualche diocesi povera aiuterà un’altra, non diventerà per questo più povera; sarebbe impossibile. Dio non si lascia vincere in generosità"».
Scorrendo le pagine possiamo leggere alcune esperienze missionarie in Africa, quella di una coppia di sposi, e di un sacerdote. «Ma per essere "missionario ovunque" - aggiunge don Luca - abbiamo inserito un decalogo, in dieci articoli si può capire quali sono i suoi compiti, quelli di portatore di pace e di parole di salvezza».
Non mancano, come in ogni buon libro scout, le attività pratiche, una sorta di «prove tecniche di missione». Idee e suggerimenti per comprendere al meglio il mondo delle missioni con le sue particolarità, le sue bellezze e le sue tante difficoltà. E allora ci si può cimentare nella costruzione di un presepe o nella organizzazione di un carnevale missionario, con le maschere tradizionali del Mali, della Costa d’Avorio o del Burkina Faso. Tra le attività manuali c’è la tecnica del batik, ovvero una particolare pittura dei tessuti, conosciuta con le sue varianti in Africa e in America Latina. E poi i giochi, momenti di gruppo attraverso i quali si può riflettere sulle disuguaglianze che esistono tra il nord e il sud della Terra. «Un gioco dove si possono sperimentare le ingiustizie e
provare a vivere per qualche momento il troppo dei ricchi e la miseria dei poveri. Poi - conclude don Luca - spazio al "dibattito missionario"».
Dopo la lettura, le attività e i giochi svolti, il libro invita a incontrare le realtà missionarie presenti in parrocchia e nella propria diocesi.
(ndr: "Servizio Missionario" lo si può trovare in tutte le librerie cattoliche e nelle rivendite scout oppure acquistandolo online consultando il sito della Casa Editrice Fiordaliso al costo di 10€. La mail per contattare don Luca è il seguente: meaccilu@alice.it)
Primavera araba, pericolo n. 1 per i media
MissiOnLine - 29 dicembre 2011
Il
Medio Oriente, ma anche l'America Latina, tra i luoghi più a rischio per i
giornalisti nell'ultimo anno. In 66 sono morti lavorando, il 16% in più del
2010
C'è
Abidjan, in Costa d'Avorio, e lo Stato di Veracruz, in Messico. Ma soprattutto
ci sono Manama, in Bahrain, Misurata, in Libia, Sanaa, nello Yemen e,
naturalmente, piazza Tahrir al Cairo ma anche Damasco e Homs, in Siria. Sono
legati soprattutto alle vicende della cosiddetta Primavera araba i dieci
"luoghi più pericolosi per i media", di cui per la prima volta
Reporters sans frontières ha stilato un elenco.
Nel
suo Rapporto annuale, l'organizzazione ha scelto infatti anche dieci città,
province, quartieri o regioni dove giornalisti, blogger o cyberdissidenti sono
particolarmente esposti alla violenza e dove la libertà di informazione non è
rispettata. In generale, il 2011 è stato un anno difficile per la libertà di
stampa. E la Primavera araba è stata al centro delle notizie di attualità: dei
66 giornalisti assassinati nel 2011, 20 sono stati uccisi proprio in Medio
Oriente (il doppio rispetto al 2010). Una cifra simile si è registrata tuttavia
anche in America Latina, una regione molto esposta alla minaccia della violenza
criminale. Per il secondo anno consecutivo, è ilPakistan la nazione più
cruenta con un totale di 10 giornalisti deceduti, per lo più assassinati. Cina,
India e Eritrea continuano ad essere le "prigioni" più grandi per la
stampa.
L'aumento
del 43% dei casi di aggressione fisica nei confronti di giornalisti e del 31%
degli arresti di cyberdissidenti - questi ultimi in prima linea nel diffondere
informazioni sulle manifestazioni durante il blocco dei media tradizionali -
rappresentano un dato significativo di questo ultimo anno, contrassegnato
dall'onda di protesta popolare. Cinque cyberdissidenti sono stati uccisi nel
2011, tre dei quali in Messico.
Nel
2011 è stato sulle strade che gli operatori dell'informazione hanno incontrato
i rischi più gravi, soprattutto durante le manifestazioni, teatro di violenti
scontri con le forze dell'ordine in alcuni casi degenerati in vere e proprie
guerriglie.
Dall'Egitto
al Pakistan, dalla Somalia alle città delle Filippine, nell'ultimo anno il
pericolo corso dai giornalisti in tempo di instabilità politica è stato più
che mai evidente.
Leggi
il Rapporto di Reporters sans Frontières
Cresce
sempre di più la tensione con Teheran. Fino alla guerra? di Paul Dakiki
AsiaNews - Beirut - 29 dicembre 2011
L'Iran
minaccia di chiudere lo stretto di Ormuz, dove passa il 40% del petrolio
mondiale. Usa e Ue vigilano e meditano un inasprimento delle sanzioni contro il
programma nucleare iraniano. Ma vi sono senatori e studiosi che invitano gli Usa
ad attaccare Teheran. Gli aiuti italiani ai profughi siriani (o agli insorti?).
La
tensione fra Teheran e il resto del mondo continua a crescere ogni giorno, tanto
che alcuni analisti pensano che entro il 2012 ci possa essere una guerra.
L'ultimo capitolo del braccio di ferro è quello scoppiato ieri con le minacce
incrociate fra Iran e Stati Uniti e Unione europea sullo stretto di Ormuz.
Il
27 dicembre scorso il vice-presidente iraniano Mohammad Reza Rahimi ha
minacciato che se vi saranno nuove sanzioni contro il suo Paese "nemmeno
una goccia di petrolio passerà attraverso lo stretto di Ormuz". Ieri,
l'ammiraglio Habibollah Sayari ha dichiarato alla tivu iraniana che
chiudere lo stretto di Ormuz sarebbe "facile come bere un bicchiere
d'acqua".
Lo
stretto di Ormuz ha una forte importanza strategica per il commercio
internazionale. Esso unisce il Golfo e i diversi Paesi del petrolio a tutto
l'oceano indiano: attraverso le sue acque passa almeno il 40% delle petroliere
nel mondo; circa 15 milioni di barili di greggio al giorno.
Per
questo ieri sera il Pentagono ha subito risposto che esso "non tollererà"
nessun blocco di Ormuz. Rebecca Rebarich, portavoce della Quinta flotta navale
Usa, che mantiene una "robusta presenza" nel Golfo, ha dichiarato di
essere capace di "salvaguardare i nessi vitali per la comunità
internazionale".
Bernard
Valero, portavoce del ministero francese degli Esteri ha detto che lo stretto di
Ormuz è un passaggio internazionale e perciò "tutte le navi, di qualunque
bandiera, hanno il diritto di transito".
Le
minacce di Teheran sembrano essere una ripicca contro l'occidente che di recente
ha imposto nuove sanzioni contro l'Iran, dopo che un rapporto Onu ha mostrato
una escalation nel suo programma nucleare.
Da
anni Stati Uniti e Ue accusano Teheran di voler usare il programma nucleare per
scopi bellici. L'Iran rifiuta le accuse e afferma che i suoi programmi sono
tutti pacifici.
Il
mese prossimo la Ue valuterà un ulteriore rafforzamento delle sanzioni, fino a
toccare le esportazioni di greggio e le operazioni finanziarie ad esso
collegate, sulla scia di quanto gli Usa hanno già fatto. Sanzioni alle
esportazioni di greggio - l'80% della sua economia - sarebbero un duro colpo
alla già provata situazione economica dell'Iran.
Cina
e Russia, grandi partner commerciali di Teheran, sono contrari all'innalzamento
delle sanzioni. La possibilità dell'indurimento delle sanzioni va di pari passo
con sempre maggiori minacce di un attacco aereo che dovrebbe andare a colpire
gli impianti nucleari iraniani.
Secondo
fonti della regione, nel loro incontro lo scorso 16 dicembre a Washington, il
presidente Barack Obama e il ministro israeliano Ehud Barack hanno discusso di
questa ipotesi.
Anche
diversi senatori Usa (come Joseph Lieberman) chiedono che nel 2012 vi sia un
attacco contro l'Iran. Intanto, la politica Usa (e della Nato) cerca di isolare
la Siria, per diminuire l'impatto di possibili reazioni iraniane in Medio
oriente.
Matthew
Kroenig, esperto di problemi nucleari, su Foreign Affairs Magazine del 27
dicembre, scriveva: "Con la chiusura della guerra in Afghanistan e in Iraq,
e con le difficoltà economiche in patria, gli americani non hanno un grande
appetito per un ulteriore conflitto. Ma il rapido sviluppo nucleare iraniano
alla fine costringerà gli Stati Uniti a scegliere fra un conflitto
convenzionale e una possibile guerra nucleare. Di fronte a questa decisione, gli
Usa dovrebbero condurre un attacco chirurgico sugli impianti nucleari iraniani,
assorbire un inevitabile serie di rappresaglie, e quindi cercare di disinnescare
la crisi in modo veloce. Affrontare la minaccia ora, eviterà agli Usa di
confrontarsi con un pericolo di gran lunga maggiore nel futuro".
In
questo quadro, rimane qualche dubbio su cosa faccia l'Italia. Secondo notizie di
agenzie, lo scorso 16 dicembre, un aereo militare italiano è atterrato a Beirut
per portare "aiuti umanitari" ai rifugiati siriani del nord Libano.
Secondo un'agenzia iraniana
gli aiuti erano destinati agli insorti della Siria. Come mai per portare aiuti
umanitari si usa un aereo militare?
La
fame non può attendere. Ci vuole un cambio di rotta di Jose' Graziano Da Silva*
Repubblica
- 30 dicembre
Ritorno
in Italia, che è il Paese dei miei avi. La mia priorità sarà quella di dare
nuovo impulso all'impegno per il raggiungimento del primo obiettivo del
Millennio, quello cioè di dimezzare la proporzione delle persone che soffrono
la fame entro il 2015 e guardare oltre, verso la definitiva e totale
eliminazione della fame dalla faccia della terra. Un impegno che la FAO non potrà
condurre da sola
La
mia elezione a Direttore Generale della FAO, l'Organizzazione dell'ONU per
l'Alimentazione e l'Agricoltura, rappresenta un importante punto di svolta nella
mia vita. Tanto per cominciare ritorno in Italia, che è il Paese dei miei avi.
Ed infatti ho sia la nazionalità brasiliana che quella italiana. Dal primo
gennaio assumo ufficialmente la mia nuova carica e vorrei che anche questa data
segnasse un altro punto di svolta - un cambio di rotta nella lotta contro la
fame per arrivare alla sua eliminazione. Oggi sono circa un miliardo le persone
che non hanno cibo a sufficienza e molti Paesi sono ben lontani dal
raggiungimento del Primo Obiettivo di Sviluppo del Millennio di dimezzare, entro
il 2015 la proporzione di persone che soffrono la fame cronica e vivono in
condizioni di povertà estrema.
La
mia priorità. Per il 2012 sarà dunque quella di dare nuovo impulso all'impegno
per il raggiungimento di quell'obiettivo. Ma anche guardare oltre, verso la
definitiva e totale eliminazione della fame dalla faccia della terra.
Ovviamente, un impegno di questa portata non è qualcosa che la FAO possa
condurre da sola. E' necessaria una nuova e più forte mobilitazione
internazionale, il sostegno degli organi politici ad ogni livello ed uno sforzo
congiunto dell'intero sistema delle Nazioni Unite e di tutti gli altri partner
per lo sviluppo. Intendo avviare presto una serie di consultazioni con una
trentina tra i paesi più poveri al mondo, per aiutarli a mobilitare le risorse
necessarie e ad avviare strategie nazionali per il raggiungimento della
sicurezza alimentare.
Non
esistono risposte preconfezionate. Ma i paesi non dovranno neanche partire da
zero. All'interno della FAO, ed in molte parti del mondo in via di sviluppo,
esistono esperienze alle quali questi paesi possono attingere per trovare
risposte efficaci ai loro problemi. La FAO, da parte sua, lavorando fianco a
fianco con altri partner e facendo il miglior uso delle proprie risorse
finanziarie ed umane, è pronta ad aiutare questi paesi ad avviare programmi
fattibili ed a trovare le risorse necessarie per finanziarli, oltre a mettere a
disposizione le conoscenze e l'esperienza sviluppate negli anni, per esempio nel
campo dello sviluppo rurale sostenibile.
Una
nuova rivoluzione. Nel 2011 la FAO ha lanciato un modello per una nuova
rivoluzione "più verde" in agricoltura, per far incrementare la
produzione senza possibili "effetti collaterali", come danni
ambientali ed esaurimento delle risorse naturali causati dai sistemi agricoli
attuali. E' quello che noi chiamiamo "Save and Grow", cioè produrre
di più con meno. Questo nuovo modello produttivo preserva e rafforza le risorse
naturali, grazie ad una serie di pratiche agronomiche che permettono una
migliore gestione del suolo, limitando gli effetti negativi sulla sua
composizione e contribuendo anche a ridurre il fabbisogno di acqua ed i costi
energetici. Le rese dei coltivatori che hanno seguito in via sperimentale queste
tecniche in 57 paesi a basso reddito sono aumentate di circa l'80 per cento. E
gradualmente, nel corso dei prossimi 15 anni, incoraggeremo ed aiuteremo i paesi
in via di sviluppo ad adottarlo.
Il
coinvolgimento delle donne. Iniziative come questa possono avere un ruolo
importante nell'aiutare paesi con problemi di insicurezza alimentare a
raggiungere una crescita economica più sostenibile, una questione questa che
sarà al centro del dibattito alla Conferenza delle Nazioni Unite
"Rio+20" della prossima estate. Cambiamento climatico e sicurezza
alimentare hanno d'altronde programmi convergenti. Entrambi richiedono
cambiamenti sostanziali nella direzione di modelli produttivi e di consumo più
sostenibili. Adesso vi è l'opportunità di esplorarne le possibili sinergie.
Assieme a UN Women e molti altri partner, la FAO è convinta della necessità di
un maggiore coinvolgimento e ruolo delle donne in agricoltura. Attualmente il
rendimento degli appezzamenti gestiti da donne sono inferiori a quelli gestiti
da uomini. Ma questo non perché le donne coltivino la terra peggio degli
uomini, ma semplicemente perché non hanno lo stesso accesso a risorse
fondamentali quali terra, tecnologia e fattori produttivi. La piena
partecipazione delle donne al nostro comune impegno per eliminare la fame farà
la differenza.
Una
strada lunga e in salita. Nel dare un nuovo impulso alla lotta contro la fame
dobbiamo guardare a nuove ed innovative soluzioni. Immettere risorse nelle
economie rurali, per esempio mediante programmi di trasferimento di denaro ed
incentivi produttivi, ha immediati effetti positivi sulla crescita economica
locale. Si creano posti di lavoro e fonti di reddito, vengono generati mercati
per contadini su piccola scala ed aumenta la disponibilità di alimenti freschi,
sicuri e nutrienti. La strada che abbiamo di fronte è lunga ed in salita, ma è
tempo di essere innovativi e trovare nuove risposte. Sebbene il nostro lavoro
sarà reso più arduo dalle incerte prospettive economiche, sono convinto che
con un nuovo approccio ed un rinnovato impegno, con misure che rafforzino la
governance della sicurezza alimentare a livello mondiale, possiamo dare
l'impulso necessario per una totale eliminazione della fame.
*
José Graziano da Silva è il nuovo direttore della FAO
Ogni
anno muoiono 22 mila bambini lavoratori e molti altri si ammalano o subiscono
incidenti gravi
Agenzia Fides - Madrid - 28 dicembre 2011
Dei 215 milioni di bambini e bambine che lavorano in tutto il mondo, oltre la metà, 115 milioni, lo fanno in condizioni pericolose per la salute fisica, la sicurezza e lo sviluppo emotivo e morale. E' quanto emerge dalla VIII Fase del Programma SCREAM (Difesa dei Diritti dei Bambini attraverso l'Educazione, le Arti e i Mezzi di Comunicazione) presentata dall'Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) per la Spagna. Ogni anno in tutto il mondo muoiono 22 mila minori a causa del lavoro, e molti altri riportano incidenti e malattie, superiori rispetto agli adulti. Ogni minuto un bambino lavoratore subisce un incidente, una patologia o un trauma psicologico collegato con il lavoro. Il programma è stato lanciato nel 2003 con l'obiettivo di rendere consapevoli studenti, insegnanti e cittadini circa le peggiori forme di lavoro minorile. Quest'anno, tra le varie attività di sensibilizzazione anche in altri ambiti culturali e creativi, sono state organizzate mostre fotografiche con immagini che riportano le condizioni di vita e lo sfruttamento minorile negli stati di El Salvador, Guatemala, Honduras e Nicaragua, dove i bambini lavorano nei campi, nelle discariche, come domestici, nei cantieri edili o nelle miniere. Nel 2010, a L'Aja, nel corso della Conferenza Mondiale sul Lavoro Minorile, è stata evidenziata la necessità di procedere con maggiore celerità verso l'eliminazione, nel 2016, delle peggiori forme di lavoro infantile. (AP)
Land grab e Falklands, orgoglio "latino"
di Alessandro Armato
MissiOnLine
- 31 dicembre 2011
I
Paesi del Mercosur contro l'accaparramento di terreni agricoli da parte degli
stranieri. E l'Argentina riaccende la disputa con l'Inghilterra sulle isole
Malvinas
Il
blocco dei Paesi aderenti al Mercosur, il cui fulcro è l'alleanza strategica
tra Brasile e Argentina, sta portando avanti una politica chiaramente orientata
a contrastare vecchie e nuove forme di colonialismo in America Latina. Lo
provano due recenti iniziative su temi di grande rilevanza come l'accaparramento
di terreni agricolida parte di soggetti stranieri (il cosiddetto land grab) e la
questione della sovranità sulle isole Malvinas/Falklands.
Un
tetto al land grab
Nei
giorni scorsi il senato argentino ha approvato, quasi all'unanimità, una legge
che impedisce agli stranieri (siano essi Stati, imprese o persone) di possedere
più del 15 per cento del territorio nazionale.
La
misura, fortemente voluta dalla presidente Cristina Fernández de Kirchner, è
una risposta al fenomeno sempre più consistente della corsa all'accaparramento
di terre produttive da parte degli stranieri. Solo alcune settimane fa un
documento della Fao segnalava che Paesi come la Cina, l'Arabia Saudita, il Qatar
o la Corea del Sud stanno comprando o affittando ampie porzioni di terra in
America Latina per assicurarsi la produzione di alimenti.
Le
grandi distese di terra dell'Argentina - ottavo Paese per estensione al mondo e
uno dei più ricchi per produzione alimentare e riserve idriche - sono da tempo
nella mira dei grandi investitori stranieri. La Fao calcola che il 10 per cento
del territorio nazionale si trovi già nelle mani di proprietari stranieri.
La
nuova norma, in discussione da tempo, è modellata su un provvedimento analogo
già adottato dal Brasile. Non si applicherà alle proprietà già in mani
straniere, ma unicamente alle nuove transazioni.
Anche
l'Uruguay sta studiando una legge per mettere un tetto alle acquisizioni di
terra da parte degli stranieri. I principali membri del Mercosur stanno dunque
adottando una politica comune rispetto a questo problema, allo scopo di
difendere la propria sovranità nazionale e la propria sicurezza alimentare.
Nuova
disputa per le Malvinas
Un
altro tema che promette di tornare di grande attualità è quello delle
Malvinas/Falklands, il piccolo arcipelago australe in mani inglesi su cui
l'Argentina reclama da sempre i propri diritti.
Nel
2012 ricorre il trentesimo anniversario dell'invasione delle Malvinas voluta dal
governo militare argentino, allora capeggiato dal generale Galtieri. La storia
è nota: l'Inghilterra di Margareth Thatcher rispose militarmente e in breve
tempo annichilì le inesperte e male equipaggiate truppe argentine, provocando
di lì a poco la fine della dittatura.
Oggi
l'Argentina non ha più un governo militare, ma continua a reclamare la sovranità
sulle Malvinas. Tuttavia per raggiungere i propri scopi non pensa più di
utilizzare la forza delle armi, come nel 1982, ma quella della diplomazia.
Se
nell'82 la comunità internazionale non mosse un dito in appoggio degli
indifendibili militari argentini, violatori sistematici dei diritti umani, oggi
Buenos Aires può contare sull'appoggio politico dei Paesi del Mercosur e
dell'Unión de naciones suramericanas (Unasur).
Nell'ultimo
vertice del Mercosur, tenutosi nei giorni scorsi, Argentina, Brasile e Urugay
hanno deciso di non permettere più l'attracco di imbarcazioni delle Malvinas
sulle loro coste. Si tratta di una vera e propria offensiva politica contro
l'Inghilterra che arriva in un momento in cui il Paese attraversa una fase di
crisi economica e di sempre maggiore isolamento politico in Europa.
Dietro
questa presa di posizione non è difficile scorgere i nuovi equilibri di forza a
livello mondiale. Fino a quando era politicamente frammentata ed economicamente
disastrata, l'America meridionale aveva poca o nessuna voce in capitolo in sede
internazionale, ma oggi che è sempre più unita ed economicamente rilevante -
è di questi giorni l'annuncio che il Brasile è ormai la sesta economia del
mondo - le sue rivendicazioni non possono più essere ignorate.
Da
parte sua, la Gran Bretagna ha subito condannato la decisione del Mercosur,
definendola "ingiustificata e controproducente". Nel suo messaggio
natalizio, il premier inglese Cameron ha detto chiaramente che l'Inghilterra non
accetterà mai di negoziare la sovranità sulle Malvinas a meno che non lo
desiderino gli abitanti dell'arcipelago.
Cartoline dall'Algeria - 68 di p. Silvano Zoccarato
Touggourt
12 gennaio 2012
Grazie
Un
vescovo italiano mi scrive: “Ti invio questa interessante testimonianza, che
forse non ti è ancora giunta. Mi ha molto commosso, perché mostra la
possibilità di passi verso la pace”.
Anch’io sono commosso di questo comunicarci le buone notizie.
Vi trasmetto alcuni passi della testimonianza dell’Arcivescovo del Niger Michel Cartatéguy.
“Sono le otto di questo venerdì 30 dicembre 2011 e l’aereo presidenziale decolla dall’aeroporto di Niamey a destinazione d’Abuya, la capitale politica della Nigeria. A bordo ci sono varie autorità del Niger compresi il presidente dell’Associazione Islamica e il sottoscritto Michel Cartatéguy, Archevêque de Niamey, in missione ufficiale a nome del presidente della Repubblica del Niger per portare un messaggio di compassione al popolo della Nigeria, martoriato per gli avvenimenti dolorosi della notte di Natale in cui 50 cristiani sono stati massacrati dalla setta Islamica Boko Haram. L’incontro dura solo 10 minuti... sufficienti per far sentire quanto il popolo del Niger porti in se la sofferenza del popolo della Nigeria...
Al ritorno mentre la delegazione musulmana era alla Moschea per la preghiera, in macchina, ben sorvegliato dai militari, ho pregato... Vedevo la croce della cattedrale e mi sono ricordato delle parole dei Vescovi dell’Africa durante l’ultimo sinodo: “Non pensate che il perdono sia cosa inutile e che sia necessaria la vendetta: il vero perdono conduce alla pace e va alla radice del conflitto e trasforma vittime e nemici in fratelli e sorelle”.
Al rientro in Niger i giornalisti ci chiesero quale messaggio avevamo portato. Assieme al Ministro degli Affari Esteri e all’Imam ho detto che credenti cristiani e musulmani condanniamo la violenza. Il Niger è paese della tolleranza e dell’armonia di vita tra credenti di diverse religioni…”
Grazie Vescovo italiano e Vescovo del Niger. Come Gesù sapeva cogliere le necessità, le invocazioni e i segni della venuta del Regno, così la Chiesa, tutti i cristiani, colgano gioiscano e annuncino le Belle Notizie!
Come sono belli i piedi dei messaggeri del lieto annunzio!
Un ostello di giovani tribali buddisti e cristiani, per lo sviluppo del paese di Nozrul Islam
AsiaNews - Dhaka - 29 dicembre 2011
Nata
nel 2006, la Hill Child Home sorge nell’area di Bandarban
Hill tract e accoglie ragazzi e ragazze orfani, abbandonati,
poveri e disabili. Vicino è nata la Moon-Light K.G. School,
aperta agli ospiti dell’ostello e a esterni. Secondo il
suo fondatore Mong Yeo Marma, un buddista, “l’educazione
è il pilastro di uno Stato e dare l’opportunità di
studiare a tutti i giovani è l’unico modo per
cambiare”.
Ripartire dai bambini e dai più giovani, per costruire un nuovo Bangladesh. È il senso della Hill Child Home del distretto di Bandarban Hill tract, un ostello per ragazzi e ragazze tribali avviato e diretto dal buddista Mong Yeo Marma. La casa si trova nella divisione di Chittagong, a sud del Paese. “L’educazione – racconta ad AsiaNews – è la base di tutto, il punto di partenza per creare persone in grado di cambiare il Paese”. Fondata
nel 2006 e cresciuta grazie alle donazioni di molti cristiani, anche
dall’Italia, la casa accoglie bambini tribali orfani, abbandonati e disabili.
Sono di etnia Marma, Chakma, Tripura, Khyang, Khumee, buddisti e cristiani.
Accanto all’ostello è sorta anche una scuola, aperta sia agli ospiti della
Hill Child Home che a esterni. La
Hill Child Home è nata quasi per caso, racconta Mong Yeo, quando “un monaco
buddista mio amico mi ha chiesto se potevo dargli una mano con alcuni bambini
tribali che aveva accolto in una specie di ostello. Lui parlava solo birmano e
con l’aumentare dei ragazzi non riusciva più a gestire la situazione. Così,
nel 2006 è nato l’ostello, di cui ho preso io la direzione”. |
“Sono
nato nel sud (Chittagong Hill tracts) – racconta Mong Yeo – e sono cresciuto
in un orfanotrofio della zona. Poi, ho studiato a Dhaka e ho iniziato a lavorare
in fabbrica. In quegli anni, è maturato dentro di me un forte senso di
‘bisogno’. Bisogno di fare qualcosa per gli altri, ma anche di trovare il
mio posto in una società che non mi accoglieva”. Essere buddista e tribale,
in un Paese dove la maggioranza della popolazione è musulmana e bengalese,
significa vivere ai margini. Gli islamici tendono a non mischiarsi con chi segue
un’altra religione, mentre i buddisti bengalesi considerano i tribali
culturalmente inferiori.
“Questo
senso di frustrazione – continua – è qualcosa che ti porti dentro da quando
sei piccolo. Per questo l’ostello è così importante. Dare l’opportunità a
questi ragazzi di crescere in un ambiente dove sono accolti e si sentono
accettati per quello che sono; dove possono studiare, scoprire e sviluppare i
loro talenti; dove imparare il rispetto e il valore della donna. Anche i ragazzi
tribali sono il futuro di questo Paese e l’educazione riveste un ruolo
fondamentale. Solo quando tutta la popolazione è istruita ci può essere uno
sviluppo reale dello Stato. L’educazione è il pilastro di una nazione”.
La
Hill Child Home sorge in una zona dove prima c’era solo giungla. Negli anni,
grazie alle donazioni ricevute, all’ostello si è aggiunta la Moon-Light K.G.
School, frequentata sia dai ragazzi della casa che da esterni, dove lavorano
otto insegnanti. Intorno, i giovani hanno fatto crescere una piantagione di
alberi da gomma e di recente hanno seminato un campo di zenzero. Il lavoro nelle
due coltivazioni, insieme alla pesca, contribuisce alle spese dell’intera
struttura. Nell’area, Mong Yeo Marma insieme ai suoi collaboratori hanno
costruito una cappellina cristiana e un tempietto buddista.
Nuovi arrivi a Dhanjuri di Adolfo L'Imperio
Dhanjuri - 8 gennaio 2012
Dal
6 Gennaio si ritorna da casa a Dhanjuri per il nuovo anno scolastico. Arrivano
anche facce nuove. Comunque è un incontro con tanta novità
Ci ritroviamo tra amici per raccontare e iniziare un nuovo anno di studio e di impegno per la vita.
Quanti saremo noi nel 2012 al St. Benedict’s Boarding ? Indovinate.....Vogliamo aiutarvi. La Classe VI ha 26 NUOVI La classe VII ai 27 di prima si aggiungono altri 5 e sono 32. La classe VIII ai 29 “vecchi” si aggiungono altri 4 e siamo 33. Il classone della IX oltre i 40 vede altri 5 nuovi e sono 45. In X sono in 16 e i Candidate all’esame di stato sono 13
Se la matematica non è un’opinione la somma di tutto fa 165 |
Un semplice benvenuto domenica pomeriggio con un fiore, segno di amore e simpatia ed il libretto di benvenuto al Boarding. Per la cronaca anche le ragazze del St.Clare sono in arrivo. In tutto 128 di cui 50 nuove.
e poi gli studenti di Beldanga ...
|
Un incoraggiamento ed un dolce augurio per i 16 che si apprestano a sostenere gli esami di stato dal primo di Febbraio per un mese intero.
|
P.Cherubim, il Parroco, sembra preoccupato, come anche P.Peter (il terzo). Anche i loro aiutanti , Irenius, Biplob, e gli altri guardano e pensano......speriamo che siamo bravi però......ai posteri l’ardua sentenza. St.Benedetto
ci guida con tre parole : Preghiera, meditazione, Lavoro. Noi
desideriamo incontrarci con Gesù. “E’ Lui il nostro pedagogo, ha
tracciato per noi il modello della vita vera e ha educato l’uomo che vive in
lui... Assumiamo, dunque, il salvifico stile di vita del nostro Salvatore, noi figli del Padre buono e creature del buon pedagogo.” (Clemente Alessandrino) Carissimo Bruno Dada ed amici tutti un saluto di cuore a tutti per il bene che ci volete. reporter
Fr.Adolfo |
Giubileo dei 100 anni di evangelizzazione di Bulakipur di p. Anselmo Mardy
Il 4 di gennaio 2012 è stata davvero una giornata memorabile per la parrocchia di Mariampur. In quella giornata si sono infatti celebrati i primi cento anni di evangelizzazione di Bulakipur, uno dei villaggi della parrocchia. Alla Santa messa concelebrata da due vescovi e 12 sacerdoti hanno partecipato oltre 550 fedeli.
|
Lettera di d. Renato Rosso agli amici
Bangladesh,
30 dicembre 2011
Carissimi amici,
sono arrivato da poco tempo dall’India e sto riprendendo la mia vita normale per quanto “normale” possa essere. Il Natale, in Bangladesh, pur essendo celebrato Da pochi (circa 250 000 cristiani su 100 000 000 di mussulmani) è stato un momento molto intenso e di vera festa, perché qui nei pressi di Satkira, vicino al confine indiano, insieme alla celebrazione religiosa è pur finita, una via crucis che ha allagato tante famiglie, per tre mesi, con l’acqua, fino al ginocchio con tutte le conseguenze che si possano immaginare dal punto di vista del lavoro, dei trasporti e dell’ igiene soprattutto, ma fortunatamente i bengalesi fanno in fretta a dimenticare le calamità naturali a cui hanno pur dovuto abituarsi. I bambini hanno nuovamente riempito le scuole e la vita continua.
Quest’anno il mio Vescovo Mons. G. Lanzetti avendo inviato alla Diocesi di Alba la lettera pastorale “Crescere insieme, Chiesa e famiglie”,molti di voi sarete impegnati nel riflettere sugli stimoli che essa propone, e starete realizzandone gli orientamenti pastorali per l’anno 2011, 2012. Da parte mia voglio condividere con voi, non tanto nuove riflessioni sull’argomento della famiglia, che mi appassiona molto, ma ciò che ho incontrato nel mio cammino riguardante la famiglia stessa. Leggendo l’inizio del cap. 2° della lettera, dopo quella radiografia sulla famiglia troppo vera per non turbare anche i meno sensibili, si parla di una grande speranza cioè di famiglie che riescono a stare in piedi con grande coraggio e sanno assumere tutte le responsabilità dell’educazione nei confronti dei figli. Mi passano alla memoria molte storie che mi danno coraggio. Condividerò alcune storie di famiglie che hanno in comune un gruppo di famiglie, come sostegno, o un movimento.
Una famiglia si stava sfaldando. Il padre aveva “allevato” una fabbrica e l’aveva portata a 800 operai. Era diventata come un figlio. Il miglior tempo, le energie ,creatività e entusiasmo, tutto era investito per questa creatura. I due figli ventenni cominciarono a vedere questo padre diventare sempre più padrone. Il primo figlio seguito dal secondo cominciò a passare più tempo fuori casa che dentro. In casa i soldi c’erano e quindi c’erano per tutti. I due figli iniziarono a sostare sempre meno in famiglia. La madre vedeva dove stava l’errore, ma come far capire a suo marito che bisognava cambiare? Se ne parlò al “gruppo famiglia”, che in questo caso fece da prezioso ponte tra i due. Una grande crisi in quell’uomo! Capì che i figli erano fuori perché lui non era più “dentro”, non era più in famiglia. Il padre capì che aveva cominciato lui a barare con la famiglia prima dei figli. La grazia di Dio e il sostegno della moglie e del gruppo gli diedero il coraggio necessario per presentarsi al proprietario della fabbrica e dare le dimissioni da presidente. Basta con l’essere padrone! Comprò un taxi e iniziò il nuovo lavoro di taxista con tanta umiltà. Lentamente i figli capirono che il cuore del padre batteva ancora e quello del padrone stava morendo e poterono ritornare senza sentirsi umiliati di essere figli del padrone. Adesso anch’essi avevano un padre. Se non ci fosse stato un gruppo alle spalle, ho quasi la certezza che quella conversione non sarebbe mai avvenuta.(1.3 pag.24)
Quest’anno sono andato a celebrare la notte e il giorno di Natale a Daimarì dove c’è un grande accampamento di jajabor (zingari pescatoti). La regione confina con la foresta dove ci sono le troppo famose tigri del Bengala. Mentre ero in quel villagio rivedendo una tomba sempre carica di fiori e candele, mi sono ricordato di un fatto che mi ha stimolato a pensare ancora alla famiglia ricordandomi che i responsabili della famiglia non sono solo i genitori, ma anche i figli specialmente quando questi sono già abbastanza grandi. Era arrivata dalla macchia verde la pericolosa tigre ed era entrata in una capanna vuota del villaggio. Tutti gridarono al pericolo. In pochi secondi un centinaio di persone armati però solo di bastoni, tridenti, forche da pesca, zappe e badili circondarono la capanna dove si muoveva la tigre. In questi casi i giovani non ancora sposati sono quelli che affrontano per primi il rischio: essi fanno scudo ai propri genitori, fratelli più piccoli e tutte le altre famiglie. Si sono avvicinati a pochi metri dalla tigre,una decina di giovani. Quando la tigre tentò di uscire il primo che l’aggredì, fu ucciso immediatamente a zampate e morsi. Gli altri due che hanno fatto da spalla furono gravemente feriti e finalmente tutto il gruppo fu sull’animale che con molta fatica, venne ucciso. Qui in Bangladesh fortunatamente c’è un senso di profona difesa della famiglia e direi specialmente i giovani hanno vivo questo istinto di protezione. Probabilmente le discoteche e tutti i divertimenti a disposizione dei giovani occidentali sembra che non aiutino a coltivare questo profondo senso di appartenenza alla famiglia nucleare e a quella estesa.
Mentre ero in Italia raccontai questo fatto a un gruppo di giovani che si preparavano per il matrimonio. Ad essi dissi: “Fermatevi un momento a pensare (specialmente voi maschi) se avete il coraggio non solo di mettere al mondo un figlio, ma di difenderlo insieme a vostra moglie, alle vostre sorelle e fratelli minori, ai vostri genitori, cioè se avete il coraggio di difendere la vastra famiglia a costo di farvi scudo con il vostro corpo, davanti a una tigre che sta per assalirli. Se sinceramente, in coscienza, vi sentite di dire sì, allora siete sufficientemente maturi per fare questo passo così coinvolgente della vostra vita altrimenti aspettate e voi ragazze se pensate che il vostro fidanzato, oltre alle belle parole che vi dice, credete che sarà capace di difendere voi e i vostri figli,e le vostre famiglie come ha fatto quel giovane pescatore di Daimarì, non abbiate nessuna paura, altrimenti aspettate anche voi".
Non vorrei diventare noioso, moralista, ma bisogna pur ricordare che molti genitori, dopo aver giurato di essere pronti a morire per i loro figli, spesso non hanno la forza di restare loro vicini quando la fatica del restare uniti nel matrimonio richiede un coraggio non comune, ma eroico e così con troppa facilità privano i figli della mamma o del papà e quindi della famiglia.
E di foreste ce ne sono tante, troppe, con tigri di diverso tipo, pronti a divorarci i figli.
Dopo questi due flash sulla famiglia ritorno ad Alba dove quest’anno si lavorerà sull’iniziazione alla fede da 0 a 6 anni puntando sulla formazione della famiglia lavorando con gruppi di genitori. Al riguardo ho incontrato delle realtà interessanti: D. Giancarlo fa il catechismo ai genitori che a loro volta lo fanno in casa. Nella parrocchia di Santa Rita durante il catechismo si pretende la presenza di almeno uno dei genitori. Con Padre Rocha a S. Paolo, in Brasile, i bambini di 5 e 6 anni insieme ad alcuni adolescenti animatori, durante la prima messa domenicale, sono tutti attorno all’altare, vestiti da chierichetti e a turni leggono le intenzioni, portano le offerte, cantano e servono all’altare. Padre Rocha dice che in questo modo cerca di far gustar loro il sacro e diventare amici di Gesù attraverso la Liturgia. Nella parrocchia di Bhorishal, in Bangladesh, una trentina di famiglie si riuniscono tutti, nelle loro case, dopo cena, per un 20 minuti di preghiera: lettura del vangelo,canti, uno o due misteri del rosario e le intenzioni di preghiera. In questo modo anche i bambini piccoli vengono introdotti alla fede a loro misura. E questo lo fanno da almeno 30 anni, da quando un Parroco aveva introdotto questa bella abitudine (e non si pensi che in Bangladesh ci siano solo serpenti e tigri, bensì televisioni, computer e tutti gli stimoli delle nostre società, anche se accessibili a pochi, ma conosciuti da tutti).
E ora perché non si dica di nessun bambino: “tanto non capisce ancora nulla.”
Oshok, bengalese, orfano, è stato adottato da una famiglia veneta nei pressi di Padova. La burocrazia è stata faticosa e solo a 14 anni si è riusciti a portarlo in Italia. Oshok, mussulmano, conosceva anche degli italiani e aveva avuto molte informazioni sul nostro Paese. Chi lo aveva adottato non avendo sufficienti conoscenze dell’Islam e nell’impossibilità di partecipargli la spiritualità mussulmana gli proposero il catechismo che stranamente il ragazzo accolse con entusiasmo. Era già un mussulmano adulto quindi si poteva prevedere una reazione diversa. Solo l’adolescente domandò se al Catechismo si parlava di Gesù Cristo e ricevuta la risposta positiva accetto con una gioia impensabile.. Arrivò al battesimo, comunione, Cresima e a 27 anni, l’anno scorso, il matrimonio. Io l’avevo conosciuto in alcune visite in Bangladesh. I suoi parenti sono della regione di Silet (nord-est Bangladesh). Sono andato a trovarlo a Padova o meglio, vicino a quella città dove abita adesso, perché avevo una grande curiosità da soddisfare. Dopo aver riscaldato un poco la nostra conversazione, poiché era la prima volta che incontravo la moglie, domandai: “Oshok, come è avvenuto il tuo passaggio al cristianesimo essendo di famiglia mussulmana? Hai sofferto molto per questo? Lo hai vissuto come un’imposizione?(anche se quest’ultima ipotesi non la pensavo più di tanto, perché era troppo sereno)”. Egli con molta semplicità mi rispose: “Ti do un’unica risposta per tutte. Vedi, io ero già come un cristiano, in Bangladesh, anche se non lo potevo dire a nessuno. E questa è una ragione per cui venivo volentieri in Italia. Ecco come la Provvidenza mi ha accompagnato: quand’ero piccolo, avevo 4 anni e andavo a giocare con un mio amico anche lui di 4 anni. Lui figlio di cristiani e io mussulmano. Di tanto in tanto ci nascondevamo in un luogo ben appartato e tranquillo e lui (e qui cominciò a commuoversi) lui mi parlava di Gesù e io ascoltavo. Quando parlava io sentivo come un fuoco qui dentro, proprio come lo sento adesso, tutte le domeniche mentre sono a Messa (non ne ha persa una da 14 anni). Però quel fuoco io lo sentivo già allora, a 4 anni. E ancora ti voglio dire che mentre il mio amico parlava di Gesù, lui piangeva e sai, piangevo anch’io. E capivo che Gesù stava diventando un mio grande amico (a quel punto si fece un lungo silenzio per la commozione e piangevamo di gioia tutti e tre). Vi immaginate quel “missionario” di 4 anni e il piccolo catecumeno di 4 anni pure lui. Nella lettera sulla famiglia che sto leggendo c’è scritto che anche i bambini hanno già la capacità di ricevere il lieto annuncio di Gesù per poter credere e sperare (4.2 pag.50) Quando alla radice c’è stata una fede così coltivata non c’è da stupirsi che i due giovani sposi entrambi capi reparto con un ottimo stipendio, un alloggio meraviglioso offerto dai genitori della sposa, possano osare un sogno molto coraggioso: lasciare la casa, i due stipendi, i parenti e andare a Silet per iniziare a fare famiglia là in Bangladesh adottando, eventualmente una decina di bambini orfani e dare a questi nuovi figli ciò che diversamente la vita non potrebbe mai offrire loro. Ne parlarono con i genitori della moglie di Oshok. Essi si consultarono con il loro gruppo famiglia delle equipe Notre Dame. E venne la risposta: “Se Avete il coraggio andate e se volete un nostro consiglio: ”Andate!” Certo c’era una comunità cristiana alle spalle e un gruppo di sostegno.
Concludo questa troppo lunga lettera commentando: “Molti genitori d’oggi, prima che la bellezza della fede debbono scoprire…la bellezza di essere sposi e genitori”(ibid.4.2)
Una mamma e un papà hanno chiesto, nella preghiera, per diversi anni, un figlio. È arrivato. Facemmo una gran festa e tanto ringraziamento al buon Dio e alla Madonna.
Dopo due mesi il bambino è morto. Ho incontrato la mamma in chiesa davanti all’immagine di Maria: era consumata dalle lacrime.
L’avvicinai, confuso, aspettandomi una reazione di grida tipo: “Perché ce l’ha dato per prendercelo dopo due mesi?” Io cercai qualche parola balbettata per un conforto, ma lei abbracciandomi mi disse: “Lei non sa perché io sono qui. Io sono venuta a ringraziare!” e vedendo i miei occhi ancora più confusi, continuò lei: “ Forse un uomo non può capire, ma, don Renato, devi sapere che io non avrò mai abbastanza anni per ringraziare…, d. Renato, io sono stata mamma per due mesi! Ma si rende conto, mamma per due mesi! Lei capisce che dono grande ho ricevuto? Una maternità per due mesi è un dono inspiegabile. Continuava a ripetere questo ritornello asciugandosi gli occhi e piangendo ancora guardando l’immagine di Maria. “Come potrò avere parole bastanti per dire grazie! Mamma per due mesi, si rende conto?”. Poi mi aggiunse: “E se questo non bastasse, dopo la risurrezione di Gesù tutti i bambini del mondo morti in età prematura hanno raggiunto ugualmente la maturità piena, la Vita Eterna. Il mio bambino non è più morto e io ho potuto introdurlo in questa Vita per sempre. Quando raccontai questo fatto in Italia, durante un’omelia, al termine della Messa incontrai una carissima signora che quest’anno è rimasta vedova e mi venne incontro con le lacrime, ma senza altri commenti mi disse: ”Ho capito. Ringrazio anch’io. 43 anni insieme, si certo che ringrazio!
Buon Natale, anche se siamo a gennaio.
Don Renato
Tutte le feste le porta via... di p. Quirico Martinelli
Suihari - 14 gennaio 2011
Carissimi tutti, domenica scorsa abbiamo festeggiato l'Epifania, che tutte le feste le porta via... e così è arrivato il lunedì, con l'inizio del nuovo anno scolastico nell'ostello della Missione: più di 350 quest'anno, il numero esatto finale si
saprà fra qualche giorno perchè ci sono sempre i ritardatari... con tanti, specialmente bambini e anziani, che si ammalano per il freddo... |
Ultimi arrivati... tre cagnolini, belli e paffutelli, a rallegrare la nostra già numerosa famiglia...
Auguri di ogni bene per un Anno Buono, pieno di bonta' nel cuore e di grazie del Signore.
Passate le Feste, il Signore ci sia vicino anche nei nostri
lunedì, |
Amazzonia, attivisti contro la mega-diga
di Alessandro Armato
MissiOnLine - 27 dicembre 2011
La
foresta vittima dell'impetuoso sviluppo del Paese: il governo ha in programma la
costruzione di oltre 60 dighe sui fiumi che la attraversano
L'Amazzonia
si profila come la grande vittima dell'impetuoso processo di sviluppo del
Brasile. Da qui al 2020 il governo ha in programma la costruzione di oltre 60
dighe sui principali fiumi che attraversano la foresta pluviale. La somma di
tutti questi progetti idroelettrici comporta il rischio molto concreto di
sconvolgere la vita degli ecosistemi e delle popolazioni delle zone interessate.
Il
progetto che oggi genera maggiori resistenze è quello di Belo Monte, nella
regione dello Xingú. Movimenti come Gota D'Agua e Xingú Vivo per Sempre, con
l'appoggio delle reti sociali, stanno cercando in tutti i modi di fermare la
realizzazione di questo progetto, contro cui è schierato da sempre anche
monsignor Erwin Kräutler, vescovo della regione e vincitore, nel 2010, del
Nobel alternativo per il suo pluriennale impegno nella difesa dei diritti umani
in Amazzonia.
Lo
scorso 17 dicembre il Movimento Xingú Vivo para Sempre (MXVS) ha organizzato
una giornata di lotta contro il progetto di Belo Monte, che si è tradotta in
mobilitazioni e marce ad Altamira, nello stato di Pará, dove sono già
cominciati i lavori di costruzione della diga, e in nove altre capitali di Stati
del Brasile: Belém, San Paolo, Río de Janeiro, Cuiabá, Manaus, Salvador,
Porto Alegre, Curitiba e Campinas.
Antonia
Melo, coordinatrice del movimento, ha denunciato il caos che si vive ad Altamira
dopo l'inizio dei lavori - popolazione raddoppiata rispetto al 2009, servizi
sanitari e sicurezza pubblica insufficienti, speculazione immobiliare, con i
prezzi degli affitti aumentati del 500 per cento, altissimi livelli di
inquinamento acustico, eccetera - e mette in guardia contro i lati oscuri del
progetto: "Belo Monte sarà costituito da un complesso di quattro o cinque
dighe, con una capacità di produrre 11 mila MW, ma produrrà solo 4 mila MW
durante tre o quattro mesi, mentre nel resto dell'anno, durante i mesi di secca
del fiume, quasi niente".
Dopo
la mobilitazione, il giorno 20, rappresentanti dei movimenti Gota D'Agua, Xingú
Vivo para Sempre e Humanos Direitos sono stati ricevuti dai ministri della
Segreteria generale della presidenza, dell'Ambiente e delle Miniere e
dell'energia. Durante l'incontro il movimento Gota D'Agua, che tra le altre cose
ha prodotto un interessante video per spiegare le regioni per opporsi
al
progetto, ha consegnato ai rappresentanti del governo 1,3 milioni di firme
contro Belo Monte. Ma la posizione di Brasilia, nonostante il grande appoggio
popolare a favore del blocco dei lavori e il riconoscimento di alcune mancanze
del progetto, non è mutata: la costruzione della diga andrà avanti perchè
ormai gli investimenti sono troppo consistenti per fare marcia indietro. Le
proteste, dunque, continueranno.
Brasile
diventa sesta economia mondiale
Misna - 27 dicembre 2011
Il
Brasile è diventata la sesta economia mondiale superando quella della Gran
Bretagna che la precedeva. Lo sostiene uno studio del Centro di ricerca inglese
per le economie e gli affari (Centre for economics and business research, Cebr)
secondo cui la crescita brasiliana fa parte di un generale riposizionamento di
diverse economie emergenti.
In
un contesto di crisi globale, l'economia brasiliana dovrebbe comunque crescere
del 3,5% (rispetto al 7,5% dello scorso anno). Un ritmo seguito anche dalle
economie di India, Cina e Russia. Sono proprio questi i paesi che, secondo il
Cebr, rivoluzioneranno entro il 2020 la classifica delle nazioni più ricche
superando in benessere complessivo le nazioni europee e lasciando inalterate le
sole posizioni di Stati Uniti e Giappone (attualmente prima e terza). Inalterata
resterà in realtà la posizione della Cina, ora seconda, che però insidierà
più da vicino gli Stati Uniti. [GB]
Il premio 2011 a due vescovi cinesi, martiri e "illustri
sconosciuti" di Bernardo Cervellera
AsiaNews - Roma - 30 dicembre 2011
Mons.
Giacomo Su Zhimin, 80anni, ha subito finora 40 anni di prigionia; mons. Cosma
Shi Enxiang, 90 anni, ha passato 51 anni in carcere. Di loro nessuno parla e il
governo cinese dice che "non sa dove essi siano". Si teme che vengano
uccisi sotto tortura, come è avvenuto per altri vescovi. Il Vaticano dovrebbe
chiedere la loro liberazione come condizione per ogni dialogo. Una campagna a
loro favore per il 2012.
Alla
fine dell'anno molte riviste e siti web stilano una classifica dei personaggi più
famosi del 2011, che si sono distinti in qualche opera o hanno determinato
l'informazione mondiale. Di solito sono personaggi della politica, della
cultura, o un movimento intero, come è quest'anno per la rivista americana
Time, che ha consacrato a "personaggio" (collettivo) del 2011 i
giovani della "primavera araba" e a tutti i dimostranti del mondo.
Noi
di AsiaNews vogliamo fare una scelta controcorrente: dare un premio a chi non è
mai stato citato dai media, chi non ha avuto alcun riconoscimento pubblico, chi
è dimenticato nonostante anni di lotta per la verità, la dignità e la
giustizia: insomma un premio "all'illustre sconosciuto".
Come
Time, anche noi vogliamo dedicare un premio "collettivo", a due grandi
sconosciuti: due vescovi cinesi della comunità sotterranea che da decenni sono
stati rapiti dalla polizia e dei quali nessuno sa più nulla.
Il
primo è mons. Giacomo Su Zhimin (a ds nella foto), quasi 80 anni, vescovo di
Baoding (Hebei), arrestato dalla polizia l'8 ottobre 1997. Da allora nessuno
conosce né l'accusa che ha causato l'arresto, né se vi sia stato un processo,
né il suo luogo di detenzione. Nel novembre 2003 è stato per caso scoperto in
cura in un ospedale di Pechino, circondato da poliziotti della pubblica
sicurezza. Dopo una breve e frettolosa visita dei parenti, la polizia lo ha
fatto scomparire ancora fino ad oggi.
Il
secondo è mons. Cosma Shi Enxiang, di 90 anni, vescovo di
Yixian (Hebei), arrestato il 13 aprile 2001. Di lui non si sa davvero nulla,
anche se i suoi parenti e fedeli continuano a domandare alla polizia almeno
qualche notizia.
Essi
meritano di essere ricordati accanto a famosi personaggi della dissidenza come
il premio Nobel Liu Xiaobo o il grande Bao Tong perché come loro - e da molto
più tempo - combattono per la libertà dell'individuo e per la loro fede. In
qualche modo essi sono i profeti della dissidenza: primi a subire persecuzione;
primi a subire arresti e condanne; primi a lanciare appelli alla comunità
internazionale; i primi ad essere dimenticati.
Prima
dell'ultimo arresto, mons. Su Zhimin ha passato a fasi alterne almeno 26 anni in
carcere o ai lavori forzati, bollato come "controrivoluzionario" solo
perché , fin dagli anni '50, si è sempre rifiutato di aderire all'Associazione
patriottica, che vuole edificare una chiesa nazionale staccata dal papa. Nel '96
- da un luogo nascosto perché ricercato - era riuscito a diffondere una lettera
aperta al governo cinese perché rispettasse i diritti umani e la libertà
religiosa del popolo. In tutto ha già speso 40 anni in cattività.
Mons.
Shi Enxiang è stato incarcerato ancora più a lungo: dal 1957 fino al 1980,
costretto ai lavori forzati agricoli nell'Heilongjiang, fino a fare il minatore
nelle miniere di carbone dello Shanxi. È arrestato ancora per tre anni nel
1983, poi subisce tre anni di arresti domiciliari. Nell'89 - alla costituzione
della Conferenza episcopale dei vescovi sotterranei - viene ancora arrestato e
rilasciato solo nel '93, fino al suo ultimo arresto nel 2001. In tutto egli ha
passato già 51 anni in prigione.
Mentre
in Cina crescono le rivolte sociali per la giustizia e la dignità degli operai
e dei contadini, vale la pena ricordare questi campioni perché essi hanno
lottato come loro e prima di loro per la verità, senza mai imbracciare le armi,
spesso da soli, senza il conforto dei network di Facebook o di Twitter.
Vale
la pena ricordarli anche perché c'è il timore che il regime cinese li faccia
morire sotto le torture, come in passato è avvenuto per altri vescovi cinesi
imprigionati (mons. Giuseppe Fan Xueyan nel '92; mons. Giovanni Gao Kexian nel
2006; mons. Giovanni Han Dingxian nel 2007).
Allo
stesso tempo, vale la pena ricordarli per mostrare quanto è ridicolo il governo
di Pechino, che davanti a richieste di personalità politiche internazionale
sulla sorte dei due vescovi, si nasconde rispondendo: "Non sappiamo":
dovremmo credere che il governo con un gigantesco apparato poliziesco, una
superba rete spionistica e di controllo capillare sulla sua popolazione, ignora
dove si trovino questi due anziani vescovi, che la cultura cinese imporrebbe di
rispettare e onorare?
Il
"non sappiamo" è anche la risposta che il Vaticano riceve quando - in
incontri privatissimi con qualche burocrate cinese - osa levare la questione sui
due prelati scomparsi. Così, per il timore che la loro sorte peggiori, i loro
nomi non vengono mai citati nemmeno nelle preghiere per i perseguitati.
La
dolcezza vaticana, mostrata finora nel dialogo con le autorità cinesi, non è
riuscita ancora a liberare questi vescovi, né le decine di sacerdoti
sotterranei che languono nei laogai cinesi.
Il
nostro augurio per la Commissione vaticana sulla Chiesa in Cina è che essa
ponga la loro liberazione come condizione per far ripartire qualunque dialogo. E
la nostra richiesta a chiunque, cristiani e non, è ricordarsi di questi due
anziani campioni della fede, della verità, della dignità dell'uomo. A loro
indiscutibilmente va il nostro premio e soprattutto la nostra gratitudine. Per
questo vogliamo iniziare il 2012 con una campagna a loro favore.
A un anno dal massacro dei cristiani ad Alessandria, l'Egitto cerca la sua via
di André Azzam
AsiaNews - Il Cairo - 31 dicembre 2011
Le
persecuzioni contro i cristiani si mescolano alle violenze contro la rivoluzione
araba. In un anno vi sono stati 1000 morti; migliaia di feriti; 1200 hanno perso
uno o due occhi, perché la polizia spara ad altezza d'uomo. Il governo
provvisorio non ha mantenuto molte promesse di uguaglianza fra cristiani e
musulmani, ma qua e là crescono alleanze, rispetto e amicizia comune. Questa
sera festa in piazza Tahrir con canzoni cristiane copte e di musulmani sufi.
Un
anno è passato dal terribile massacro nella chiesa dei due Santi ad
Alessandria, la scorsa vigilia di Capodanno, che ha fatto 20 morti e un
centinaio di feriti. Fino ad ora non è emersa nessuna chiarezza su chi ha
compiuto quest'orribile crimine. Solo voci affermano che ad ordinare l'attacco
è stato il ministero degli Affari interni, ma finora non è stato reso pubblico
alcun risultato di inchiesta. Ieri, l'ultimo venerdì dell'anno, la Chiesa
protestante ha organizzato una dimostrazione pacifica in piazza Tahrir per
celebrare l'anniversario, domandando alla gente di portare solo dei ceri e
nessun altro simbolo religioso. Per celebrare Natale e il Capodanno, è emersa
anche un'altra grande dimostrazione, guidata da Shaykh Mazhar Shaheen, che dalla
moschea di Omar Makram, a Midan al Tahrir, è giunta fino alla Chiesa evangelica
di Qasr al Doubara, una strada dopo Midan al Tahrir.
Dopo
tre settimane dal massacro, il 25 gennaio è scoppiata la rivoluzione e da
allora sono avvenuti molti fatti che hanno pesato sulla popolazione, ma
soprattutto sui cristiani. Le date della rivoluzione si intrecciano con gli
avvenimenti e persecuzione dei cristiani.
Va
ricordato che il massacro di Alessandria è avvenuto a quasi un anno dal
violento attacco a Nag Hammadi, nell'Alto Egitto, la notte del Natale copto, il
7 gennaio 2010, che ha fatto sette morti e molti feriti. Meno di due mesi dopo,
in alcuni scontri legati alla costruzione di una chiesa nella periferia di Giza,
vicino al Cairo, ha fatto due morti e molti feriti.
La
lunga lista di violenze
Nel
marzo 2011 a Sol, vicino ad Helwan, a sud del Cairo, è stata bruciata la Chiesa
dei due Martiri, e sono morte due persone. Il motivo della violenza era che si
voleva proibire l'amore fra un giovane cristiano e una ragazza musulmana. I due
padri sono morti in uno scontro e la popolazione musulmana ha deciso di bruciare
la chiesa. Il Consiglio supremo delle Forze armate (Scaf) ha deciso di
ricostruire la chiesa che un mese dopo era già pronta per le celebrazioni della
Pasqua.
In
marzo si è dato il via anche all'orrendo test di verginità imposto alle donne
arrestate dalle autorità.
Il
7 marzo, un sabato, a Imbaba (sud del Cairo), un gruppo di fondamentalisti ha
assaltato due chiese, bruciando i due edifici e uccidendo una dozzina di
cristiani. Questo quartiere è famoso ed è definito "la Repubblica
islamica di Imbaba".
Nel
giugno 2011, dopo molti anni di attesa, è stato proposto un progetto di legge
per rendere uguali le procedure dei permessi alle costruzioni di moschee e
chiese. Ma finora non è stato varato, né applicato.
Il
29 giugno in un vasto scontro fra polizia e dimostranti, sono morte almeno 1000
persone. E ancora, il 23 luglio, in un altro scontro, sono state ferite 200
persone.
Il
30 settembre è avvenuto l'attacco alla chiesa di Marinab, nel governatorato di
Asswan. Alcuni fondamentalisti musulmani avevano deciso di distruggere la chiesa
del villaggio accusando i cristiani di avere una nuova costruzione; poi hanno
preteso che si togliesse la croce, poi la cupola, e infine l'hanno bruciata
insieme a diverse proprietà dei cristiani. La popolazione non ha ricevuto
alcuna difesa dalle autorità civili. Al contrario, il governatore di Asswan ha
benedetto le violenze.
Il
9 ottobre domenica, i cristiani hanno organizzato una manifestazione al Cairo
per difendere i loro diritti e per chiedere giustizia per la chiesa di Marinab.
Molti musulmani hanno protestato affianco ai loro amici cristiani. Ma l'esercito
ha attaccato i dimostranti, e si è prodotta una vera e propria carneficina, il
cosiddetto "massacro di Maspero", in cui sono morte 25 persone e 350
sono state ferite. Molte delle vittime sono state sfracellate sotto le ruote dei
carri blindati. La televisione di Stato, la cui sede è nell'avenue Maspero, ha
lanciato un appello spingendo quasi alla guerra civile, chiedendo alla
popolazione di venire a proteggere le forze armate "selvaggiamente
attaccate dai dimostranti cristiani". La televisione aveva annunciato che
tre soldati erano morti, ma in realtà, si è scoperto in seguito che essi erano
stati solo feriti in modo blando.
Il
10 ottobre è stata eseguita la sentenza di condanna a morte per i colpevoli
dell'attacco di Nag Hamadi (7 gennaio 2010).
In
seguito, il 19 novembre sono avvenuti i fatti di Mohammad Mahmoud Street e a metà
dicembre gli scontri attorno al parlamento e al Consiglio dei ministeri, con il
loro pesante bagaglio di morti e feriti
In
un anno sono morte più di 1000 persone e diverse migliaia sono state ferite;
circa 1200 persone hanno perso uno o i due occhi [perché la polizia sparava
proiettili di gomma ad altezza d'uomo - ndr]; circa 12mila dimostranti sono
stati arrestati e giudicati da un tribunale militare. Molte personalità
politiche e famosi giornalisti sono stati maltrattati o minacciati.
Natale
con gioia e tristezza
Si
dice che dal marzo scorso, almeno 100mila cristiani egiziani hanno lasciato il
Paese per emigrare in diversi luoghi. Molti fra i cristiani - e soprattutto i più
poveri - vorrebbero domandare asilo agli Usa, Canada o Australia per motivi di
persecuzione religiosa.
Di
recente molti vescovi hanno rivelato di aver ricevuto lettere di minacce perché
non celebrino il il Nuovo anno e il Natale. Due giorni fa, Papa Shenouda III, il
capo della Chiesa copta ortodossa ha sfidato le minacce dicendo che "noi
non temiamo alcuna minaccia e celebreremo le nostre feste". Ma tutti sanno
che le celebrazioni verranno eseguite solo in chiesa e molto prima della
tradizionale mezzanotte. La Chiesa cattolica, che festeggia il Natale il 25
dicembre, al Cairo, Alessandria e nel Basso Egitto, ha celebrato le messe dalle
7 del mattino fino alle 9 di sera. Tuttee le chiese erano circondate dalla
polizia ed avverrà così anche per il Natale ortodosso il 7 gennaio.
P.
Rafic Greiche, portavoce della Chiesa cattolica, ha dichiarato ieri che
"Natale quest'anno viene celebrato con una 'gioia triste' a causa della
situazione generale: vi è tristezza perché l'anno trascorso è stato duro non
solo per i cristiani, ma anche per i musulmani. Dal massacro della chiesa dei
sue Santi ad Alessandria, fino alla battaglia al Consiglio dei ministeri, con in
cima gli eventi di Maspero e l'aspra situazione economica, tutto ha contribuito
a far soffrire gli egiziani in modo pesante".
"D'altra
parte - ha aggiunto - dobbiamo mantenere un po' di gioia perché ogni egiziano
è pieno di speranza che difficoltà e ostacoli potranno essere risolti a poco a
poco, costruendo un nuovo Stato democratico in questa terra dove Gesù e la
Sacra Famiglia hanno trovato un riparo, dove dignità, giustizia e uguaglianza
per tutti potranno prevalere".
Una
rivoluzione non vinta
Su
questo punto, molti esperti di politica sono persuasi che le elezioni
parlamentari hanno attratto la maggioranza della popolazione che per la prima
volta si è sentita partecipe in questo suo diritto-dovere politico. Ma molti di
essi sono pure critici, perché - affermano - le elezioni sono state
"religiose" e non democratiche, dato che nessuno ha vietato ai partiti
di usare slogan religiosi, anche se l'uso era proibito....
Durante
le elezioni girava una battuta che diceva: "Elettori ed elettrici,
qualunque sia la vostra religione, votate per il partito islamico salafista
al-Noor. Se siete musulmani, andrete in paradiso. Se siete cristiani andrete
[fuggirete] in Canada!"
Ma
emergono anche reazioni positive, che inneggiano alla giustizia anche per i
cristiani. Ad esempio, si torna a citare un famoso slogan della rivoluzione del
1919, composto dal leader Saad Zaghloul, fondatore del partito Wafd che dice:
"La regione è per Dio, e la Patria è per tutti".
Il
simbolo della croce e della mezzaluna intrecciati è sempre più diffuso. Vi è
poi il progetto di legge adottato dallo Scaf lo scorso ottobre, che condanna la
discriminazione in particolare contro i cristiani e contro le donne. Bisogna
ancora vedere se la legge sarà applicata, ma d'altra parte, molta gente ormai
reagisce alle parole dei predicatori musulmani al venerdì, accusandoli di fare
aperti attacchi contro i cristiani. Un grande esempio di reazione viene da
Nawwara Negm, figlia di Ahmad Fouad Negm, famoso anarchico e poeta. Nawwara è
una delle attiviste più vivaci fin dall'inizio della rivoluzione di gennaio.
Una
giovane scolara cristiana, Myriam Armanios, di 11-12 anni, due giorni fa ha
scritto su face book: "Come voi, io ho il diritto di celebrare le mie
feste". Più di 3mila scolari hanno apprezzato il suo commento, come pure
la Federazione della gioventù di Maspero. Un gruppo di studenti ha organizzato
una manifestazione davanti al ministero dell'educazione per protestare contro le
date scelte per gli esami di metà anno, il 1° e l'8 di gennaio, proprio nel
periodo delle feste copte. Il ministero dell'educazione ha subito provveduto a
posporre le date di qualche giorno.
Resta
il fatto che dopo la rivoluzione "araba", dei "gelsomini",
del "loto", il governo non ha ancora mantenuto alcuna delle promesse
fatte: come fisssare il minimo salariale a 750 sterline egiziane (un po' meno di
100 euro al mese); offrire una pensione ai "martiri" della rivoluzione
e a quelli di Maspero; offrire cure mediche gratis per tutti i feriti della
rivoluzione e di Maspero; fermare i processi di civili davanti ai tribunali
militari; adeguare ai prezzi mondiali le vendite di gas a Spagna, Turchia,
Israele, Giordania; varare inchieste imparziali sugli eventi di Maspero, di
Mohammad Mahmoud street e del Consiglio dei ministeri; attuare riforme
economiche. Fino ad ora nessuna di esse è stata attuata, provocando un diffuso
stato di disillusione.
Un
altro timore è l'avvicinarsi dell'anniversario della rivoluzione il 25 gennaio
prossimo: lo Scaf è pronto a permettere manifestazioni? Il governo provvisorio
e i media statali la finiranno di accusare i dimostrati di essere agitatori
manipolati dall'estero? Negli ultimi due giorni 20 Ong impegnate nei diritti
umani hanno subito raid, perquisizioni a mano armata, sequestro dei computer e
accusati di essere finanziati dall'estero in modo illegale.
Davanti
a questo modo vecchio di contenere l'emergenza, diversi osservatori affermano
che il vecchio regime con le sue stranezze è ancora attivo. Un professore di
scienze politiche, Ezzeddine Shukry, definisce così la situazione: " Un
regime non ancora annientato, di fronte a una rivoluzione non ancora
spezzata".
Dal
lato positivo va ricordato anche il rilascio del blogger Alaa Abd al Fattah,
arrestato in novembre e accusato di crimini durante i fatti di Maspero. Egli è
nel suo appartamento in libertà vigilata e in attesa di processo. Un altro
fatto positivo è la cancellazione del test di verginità imposto sulle donne
arrestate dalle forze armate.
Il
prof. Shukry esprime un sentimento generale quando dice: "Per il momento la
situazione è confusa, ma dobbiamo mantenere la speranza per il futuro perché
il movimento rivoluzionario non è stato superato. Esso è ancora attivo e non
sarà mai sconfitto". Per lui i molti martiri sono la ricchezza del
movimento e cita come simbolo di speranza il dentista Ahmad Sharara, che ha
perso un occhio il 28 di gennaio e il secondo occhio il 19 di novembre. Sharara
dice: "È meglio vivere cieco, con onore e dignità, piuttosto che vivere
con tutti e due gli occhi, ma umiliato e coi paraocchi".
Ieri,
i manifestanti di piazza Tahrir si sono rifiutati di condividere una
dimostrazione guidata dall'esercito e da personaggi ufficiali, rifiutandosi di
stringere le mani a persone che in passato aveva esaltato il deposto presidente
[Mubarak].
Allo
stesso tempo, politici e giovani sono pronti a manifestare questa sera dalle 8
alle 2 di notte in piazza Tahrir per festeggiare il Nuovo anno. L'invito è
venuto dalla giornalista Gamila Ismaïl, che ha organizzato una celebrazione
cristiana del Nuovo anno a lume di candela, con canti copti e di sufi musulmani,
eseguiti da due famosi cantanti: il grande Ali al Haggar e la stupenda Azza
Balbaa.
I
copti temono la "protezione" dell'esercito, che si accanisce contro le
Ong
AsiaNews - Il Cairo - 30 dicembre 2011
Paure
per nuovi attentati contro le chiese in vista delle celebrazioni di fine anno e
del Natale ortodosso. Fratelli Musulmani annunciano il loro impegno per
proteggere i cristiani. Raid dei militari contro 17 Ong straniere impegnate
nella difesa dei diritti umani. Bloccati tutti i fondi e le transazioni. Fra le
associazioni anche la Caritas. Portavoce della Chiesa cattolica "I militari
pensano solo a proteggere se stessi e il loro potere".
La
Primavera araba è sempre di più tradita dalle autorità. A circa 10 mesi dalla
caduta del regime di Mubarak, fonti di AsiaNews affermano che nel Paese si
respira un clima di instabilità e paura. In vista delle festività di fine anno
e del Natale ortodosso (6 gennaio), la comunità copta teme nuovi attentati
contro le chiese, dopo quelli avvenuti nel capodanno 2011 ad Alessandria e nel
2010 a Nag Hammadi (Luxor). A fomentare la tensione vi sono le continue
dichiarazioni dell'esercito sulla presenza di non specificate forze esterne
interessate a scatenare il caos nel Paese prima del 25 gennaio, anniversario
della rivoluzione dei Gelsomini.
Nei
giorni scorsi, Kiryllos, vescovo copto ortodosso di Nag Hammadi ha lanciato un
appello al generale Tantawi, capo del Consiglio supremo dei militari (Scaf), per
chiedere sicurezza durante le celebrazioni. "Ho ricevuto diverse minacce di
attentati contro la mia diocesi - afferma - e ho chiesto alla polizia di
proteggere la comunità". Ieri, lo Scaf ha assicurato ai copti la massima
protezione. All'appello hanno risposto anche i Fratelli musulmani vincitori
delle prime due tornate delle elezioni parlamentari. Con un comunicato apparso
ieri sul loro sito, essi hanno annunciato che collaboreranno con i militari nel
mantenere la sicurezza intorno alle chiese copte durante le festività.
Nella
notte di capodanno 2011 ad Alessandria un'autobomba è esplosa durante una messa
della comunità copta, uccidendo 21 persone. A causa dell'attacco sono scoppiati
scontri fra cristiani e musulmani, ma è poi emerso che l'attentato era
orchestrato dai servizi segreti di Habib el-Adly, ministro degli Interni del
governo Mubarak. Il 6 gennaio 2010 un commando armato ha aperto il fuoco contro
un gruppo di fedeli della chiesa di San Giovanni a Nag Hammadi, uccidendo sette
persone. All'epoca la polizia aveva ignorato le ripetute richieste di protezione
della comunità copta. Nessun poliziotto era di guardia al momento dell'attacco.
A
causa di tutto ciò i cristiani non ripongono molta fiducia nell'esercito,
legato al vecchio regime. P. Rafic Greiche, portavoce della Chiesa cattolica
egiziana, sottolinea che "l'esercito pensa solo a proteggere se stesso e il
proprio potere e non i valori della rivoluzione".
Un
esempio di questo atteggiamento è il recente raid dei militari negli uffici di
17 organizzazioni per i diritti umani finanziate da Stati Uniti, Unione Europea
e altri Paesi stranieri. Esse sono accusate di non avere i permessi per lavorare
nel Paese.
"I
militari - afferma il sacerdote - hanno fatto irruzione negli uffici
sequestrando computer, documenti e bloccando tutti i conti. Essi si sono
giustificati sostenendo che queste organizzazioni finanziavano movimenti e
partiti pericolosi per la stabilità del Paese". Fra le associazioni prese
di mira vi sono: la Caritas, il National Democratic Istitute (Ndi),
l'International Republican Institute (Iri) e l'Arab Centre for Indipendence and
Justice. Secondo p. Greiche l'esercito teme le future elezioni presidenziali del
25 gennaio e utilizza metodi dittatoriali per spegnere qualsiasi forma di
dissenso.
Arrestato il presunto assassino di padre Fausto Tentorio
AsiaNews - Manila - 29 dicembre 2011
Il
ministro della Giustizia Leila de Lima ha dichiarato oggi che il responsabile
dell'uccisione del sacerdote a Mindanao, un uomo di Arakan, Jimmy Ato, e suo
fratello, Robert sono stati arrestati dopo un conflitto a fuoco.
Il
presunto assassino di padre Fausto Tentorio è stato arrestato dalle autorità a
Minadano, ha dichiarato oggi il ministro della Giustizia Leila de Lima. In un
messaggio consegnato ai reporters, il ministro della Giustizia afferma che un
uomo, Jimmy Ato, è stato arrestato dagli agenti dell'ufficio regionale del
National Bureau of Investigation.
De
Lima ha dichiarato che il fratello di Jimmy, Robert, ha aperto il fuoco contro
gli agenti che arrestavano il sospetto. "Fortunatamente, nessuno è
rimasto ferito. Gli agenti hanno immediatamente immobilizzato il soggetto per
evitare ogni ulteriore atto di resistenza". Non è chiaro quando è stato
compiuto l'arresto.
Padre
Fausto Tentorio è stato uccisio da un killer solitario all'interno della
residenza della parrocchia della Madre del perpetuo soccorso a Arakan, Cotabato
nord, a Mindanao il 17 ottobre scorso. E' il terzo sacerdote del Pime ucciso
nelle Filippine. I due sacerdoti che hanno perso la vita in precedenza erano
padre Tullio Favali e padre Salvatore Carzedda, uccisi nel 1985 e nel 1992.
Jimmy
è stato accusato di essere il killer di padre Tentorio da alcuni testimoni,
presenti alla scena dell'assassinio. Gli stessi testimoni hanno affermato che il
fratello, Robert, era alla guida della motocicletta su cui l'assassino è
fuggito subito dopo il crimine. Jimmy è stato arrestato in base a un mandato di
arresto della sezione 13 del tribunale giudiziario per omicidio e arresto
doloso. Nel frattempo elementi del 57mo battaglione sono stati spiegati nella
zona, e sono stati installati numerosi check point "per evitare ogni
possibile rappresaglia sulle famiglie dei testimoni locali".
Mindanao:
gara di solidarietà per le vittime dell'alluvione
AsiaNews - Zamboanga - 27 dicembre 2011
Per
aiutare i sopravissuti, la popolazione ha rinunciato ad addobbi e fuochi
d'artificio. Nella parrocchie ricchi e poveri donano cibo, vestiti e denaro per
gli oltre 700mila sfollati. Sale a 1400 il numero dei morti.
"L'alluvione
a Mindanao del nord, costata oltre 1400 morti, ha fatto riscoprire ai filippini
l'importanza del Natale, della preghiera e della gratuità. Nelle parrocchie
dell'isola, ricchi e poveri hanno donato viveri, vestiti e denaro da inviare nei
vari centri per i rifugiati di Cagayan de Oro e Illigan City. La sera della
Vigilia i bambini e i giovani dei campi profughi hanno cantato per le città
devastate, portando un segno di speranza e gioia a chi come loro ha perso
tutto". È quanto afferma ad AsiaNews, p. Giulio Mariani, missionario del
Pontificio istituto missioni estere a Zamboanga.
Il
sacerdote sottolinea che dove non arrivano i soccorsi, i privati hanno
organizzato raccolte di acqua potabile, cibo e medicine. "Per aiutare gli
alluvionati - afferma - la popolazione ha anche risparmiato su luci, addobbi e
fuochi d'artificio. I parroci hanno invitato tutti, soprattutto i più giovani a
non comprare petardi, ma ad accendere una candela per le vittime e a fare
donazioni per i sopravvissuti".
Dal
passaggio del tifone Washi avvenuto lo scorso 16 dicembre, molti villaggi
restano ancora isolati e sono oltre 700mila le persone ospitate nei centri
raccolta. La guardia costiera continua a cercare i dispersi in mare e avverte
che nei prossimi giorni il numero delle vittime potrebbe aumentare, superando i
1400 morti. Oggi, il governo ha lanciato una nuova allerta meteo per le isole di
Mindanao, Luzon e l'arcipelago delle Visayas. (S.C.)
Tentato golpe, per Unione africana urge riforma esercito
Misna - 29 dicembre 2011
"Alla
luce dei diversi incontri avuti, penso che la situazione si sia ora
normalizzata, ma i veri problemi permangono. Ci sono tanti problemi, primo fra
tutti è la riforma dell'esercito. Ora ho un quadro più completo della
situazione in Guinea-Bissau ma anche dell'intera regione più in generale"
ha detto il presidente della commissione dell'Unione africana (Ua), Jean Ping,
di passaggio a Banjul (Gambia) dopo una breve visita a Bissau. A pochi giorni
dal tentato colpo di mano ai danni dell'attuale capo di stato maggiore, Antonio
Indjai, Ping ha sottolineato che "gli ultimi eventi sono fonte di
preoccupazione per l'Unione africana" e precisato che la sua visita a
Bissau intende essere un "contributo al ritorno della stabilità".
Nella
capitale guineana ha incontrato Raimundo Pereira, presidente del parlamento che
assume le funzioni di capo di stato ad interim durante il soggiorno in Francia
per motivi di salute del presidente Malam Bacai Sanha. Ha anche avuto colloqui
col primo ministro Carlos Gomes Junior.
Durante
la sua tappa a Banjul, nel vicino Gambia, Ping ha comunicato al presidente Yahya
Jammeh le sue preoccupazioni per l'instabilità regionale, in parte alimentata
dai traffici di droga proveniente dal Sudamerica e destinata all'Europa.
La
riforma dell'esercito è una delle principali sfide del governo Gomes ma, in
realtà, rappresenta un problema ricorrente per l'ex colonia portoghese
ciclicamente teatro di colpi di stato, violenze e ammutinamenti. Per attuare la
necessaria riforma, che prevede tra l'altro un'importante riduzione degli
effettivi da 10.000 a 3400 uomini, Bissau può contare sul sostegno dell'Angola
e della comunità internazionale, che ha in parte vincolato gli aiuti alla sua
attuazione .
"Senza
pace in Guinea e in tutta l'Africa non si avrà mai lo sviluppo. I problemi
africani devono essere risolti dagli africani ma con l'assistenza della comunità
internazionale e tenendo conto delle aspirazioni delle popolazioni" ha
concluso Ping prima di rientrare ad Addis Abeba, sede dell'Unione africana.
Il governo fa "carta straccia" della sua legge anticorruzione
AsiaNews - New Delhi - 30 dicembre 2011
Nella
riunione del Rajya Sabha (Camera alta) un parlamentare ha strappato i fogli di
un ministro, provocando una discussione che ha costretto il Parlamento ad
annullare la seduta. Opposizione: "Una messinscena, il governo sa di essere
solo una minoranza". Nessun commento da parte del premier Manmohan Singh,
ma il suo futuro politico ora è a rischio.
Il
governo indiano non è riuscito a far passare la sua Lokpal bill, la legge
anticorruzione richiesta da mesi da ampi strati della popolazione. Ieri il Rajya
Sabha (Camera alta o Consiglio degli Stati) ha fatto carta straccia di un anno
di proposte e controproposte, letteralmente: nel corso della seduta infatti, un
parlamentare del Congress ha strappato i fogli dalle mani di un ministro,
scatenando un'accesa discussione che si è protratta per 12 ore, fino a
mezzanotte. Il primo ministro Manmohan Singh ha dovuto annullare la seduta.
Tutti si aspettavano che la legge passasse in via definitiva, dato che il Lok
Sabha (Camera bassa o Casa del Popolo) aveva approvato la bozza il 27 dicembre
scorso.
Il
Bjp (Bharatiya Janata Party, partito ultranazionalista indù) dell'opposizione
ha accusato Singh e il Congress di aver architettato tutta la bagarre perché
consapevole della "debolezza" della Lokpal bill, anche tra i suoi
stessi alleati.
Dopo
l'episodio di ieri Arun Jaitley (Bjp) ha definito il governo una "minoranza
senza speranza, che consapevole di non avere i numeri ha organizzato una
coreografia per fuggire da un sicuro insuccesso". Derek O'Brien, del
Trinamool (alleato del Congress) ha dichiarato: "Questo è un giorno
vergognoso per la democrazia indiana", aggiungendo che il governo ha
gestito "molto male" l'intera situazione.
Secondo
molti, per il governo di Singh è stato un annus horribilis, non avendo chiuso
il 2011 portando a casa il risultato più importante per il suo futuro politico.
La non approvazione della legge si somma poi a un'altra recente sconfitta,
quella riguardante l'apertura del mercato al dettaglio alle grandi catene
internazionali di supermercati, mancata per un soffio. Il premier non ha
commentato quanto accaduto nel Rajya Sabha, ma sembra che la Lokpal bill sarà
ripresentata con l'approvazione del budget 2012.
Questa
sconfitta di fine anno potrebbe così rivelarsi critica per Manmohan Singh, che
nel 2012 dovrà affrontare le primarie in vista delle presidenziali 2014. Un
momento difficile per il politico che nel giro di 20 anni - prima come ministro
delle Finanze e poi come premier - ha reso l'India la seconda economia mondiale
per tasso di crescita, grazie alla sua difesa delle politiche di libero mercato.
L'Erode
moderno uccide le bambine e viola la libertà religiosa di Nirmala Carvalho
AsiaNews - Mumbai - 28 dicembre 2011
Lo
afferma il card. Oswald Gracias, presidente della Conferenza episcopale indiana,
nella festa dei Santi innocenti martiri. Feticidi e infanticidi femminili,
persecuzioni anticristiane e corruzione distruggono Cristo e la vita umana.
Nella
società attuale "l'Erode moderno è chi pratica feticidi e infanticidi
femminili, chi limita la libertà religiosa e chi viola i diritti umani".
È la riflessione del card. Oswald Gracias, presidente della Conferenza
episcopale indiana e arcivescovo di Mumbai, in occasione della Festa dei Santi
innocenti martiri, che si celebra oggi.
Secondo
il cardinale, anche segretario generale della Federazione delle Conferenze
episcopali asiatiche (Fabc), "chi uccide feti femminili ha paura di Dio e
delle donne. Vuole che il denaro diventi il suo dio. Nella mente di queste
persone, c'è il convincimento che le donne sono solo un problema economico.
Nostro Signore è venuto a portare vita in abbondanza, e penso che chiunque
limiti le possibilità di vivere, è come Erode. Oggi, le persone hanno paura di
far vivere le altre persone".
Anche
la persecuzione dei cristiani in India ricorda il martirio degli innocenti a
Betlemme. "Chi viola la libertà religiosa - prosegue il card. Gracias -,
attacca i cristiani solo perché credono in Gesù e in nostro Signore. Quelle
persone che sopprimono i diritti umani, alimentano la corruzione e seguono il
materialismo, stanno distruggendo Cristo e la vita".
Uno
dei casi più recenti di persecuzione religiosa contro i cristiani è quello
riguardante Khander Mani Khanna, il pastore anglicano della All Saints Church in
Kashmir, arrestato per aver battezzato sette giovani musulmani il 19 novembre
scorso. Tra molte difficoltà - inclusa una pesante campagna di boicottaggio e
diffamazione da parte dell'Associazione legale del Jammu e Kashmir - il rev.
Khanna è stato rilasciato su cauzione il primo dicembre scorso, ma al momento
non può più prestare servizio.
Le
difficoltà, per il rev. Khanna, non sono ancora finite, complice anche il suo
debole stato di salute. "Quest'anno il Natale - racconta il figlio ad
AsiaNews - non è stato come gli altri anni. Le chiese di Srinagar e Gulmarg non
hanno avuto un pastore. Non ci sono stati canti, né abbiamo potuto ricevere la
comunione, perché chi guidava il servizio non era ancora ordinato. Non abbiamo
organizzato alcun pranzo, perché il diabete di mio padre è peggiorato".
Anche
i giovani convertiti dal rev. Khanna stanno affrontando diverse difficoltà.
Sajan K George, presidente del Global Council of Indian Christians (Gcic),
spiega adAsiaNews: "Ho incontrato tre di loro il 10 dicembre scorso, nella
Giornata mondiale per i diritti umani. Insieme al rev. Khanna abbiamo fatto un
piccolo servizio di preghiera. Ma questi giovani temono per le loro vite e si
sentono in pericolo, ci sono grandi pressioni sociali e religiose perché
tornino all'islam".
Un
caso in particolare, racconta il presidente del Gcic, "è il più penoso.
Il giovane lavorava come guardia di sicurezza, ma dopo la conversione ha dovuto
consegnare il suo tesserino, perdendo così il lavoro. Inoltre, è stato vittima
di pestaggi disumani, un suo orecchio è stato addirittura bruciato".
Kirkuk, l'anno prossimo Natale sarà anche festa civile
di Joseph Mahmoud
AsiaNews - Kirkuk - 27 dicembre 2011
Lo
ha deciso il governatore della città, Najim al-din Umar Karim. Egli ha anche
promesso che spingerà il governo centrale a rendere il 25 dicembre una festa
nazionale. Alla messa di Natale a Kirkuk hanno partecipato oltre 2mila fedeli.
Gli auguri dei responsabili musulmani. L'invito ai cristiani fuggiti all'estero
a tornare in Iraq.
Il
governatore di Kirkuk ha dichiarato che dall'anno prossimo il giorno di Natale
sarà anche festa civile per tutta la città. Il governatore, Najim al-din Umar
Karim, ha espresso questa sua decisione presentando gli auguri all'arcivescovo
caldeo Louis Sako e ai cristiani radunati in cattedrale per la messa del 25
dicembre. Egli ha anche promesso di sollecitare il governo centrale di Baghdad
perché Natale sia un giorno di festa per tutti gli irakeni.
La
ricca città di Kirkuk è da tempo teatro di violenze, molte di esse rivolte
proprio contro i cristiani. Nonostante ciò, l'arcivescovo di Kirkuk ha detto ad
AsiaNews che alla messa di Natale, celebrata di giorno per questioni di
sicurezza, hanno partecipato oltre 2mila fedeli. L'entrata della chiesa era
abbellita da un presepe a forma di tenda di beduini (v. foto), per sottolineare
la venuta di Gesù nell'ambiente irakeno.
A
sottolineare il desiderio della convivenza, tutti i responsabili della città,
dell'esercito e della polizia, insieme alle autorità religiose musulmane, con i
sono venuti in chiesa per offrire i loro auguri di Natale. Parlando ai fedeli
radunati, il governatore di Kirkuk ha esaltato la missione di Gesù Cristo,
"principe della pace" e ha invitato i cristiani fuggiti dal Paese -
circa 600mila - a ritornare in Iraq.
"Senza
di loro - ha detto - all'Iraq manca qualcosa di sostanziale. Senza di loro
l'Iraq non è l'Iraq".
Najim
al-din Umar Karim ha anche apprezzato il ruolo che l'arcivescovo Sako svolge nel
sostenere il dialogo fra cristiani e musulmani.
Intanto
cresce la tensione fra sunniti e sciiti, dopo il tentativo di arresto del
vicepresidente Tariq al-Hashemi, sunnita del partito al-Iraqiyya, accusato di
appoggiare il terrorismo. Per protesta l'intero gruppo di al-Iraqiyya - che
raccoglie la maggior parte dei sunniti - sta boicottando il parlamento e accusa
il premier al Maliki, sciita, di voler monopolizzare il suo potere.
La
tensione fra sunniti e sciiti sembra essere alla base di una ripresa di attacchi
terroristi nella capitale. Ieri almeno 7 persone sono state uccise e 27 ferite
per lo scoppio di un'autobomba vicino al ministero degli interni; il 22 dicembre
una serie di attacchi coordinati ha fatto 70 morti.
Disarmo vuol dire futuro
Pax
Christi - 31 dicembre 2011
Messaggio
dal Convegno di Brescia
Educare
i giovani alla giustizia e alla pace vuol dire educarci tutti al disarmo delle
menti, dei cuori e dei territori. Allontanare la paura. Plasmare una sicurezza
comune. Costruire un futuro senza atomiche e un'Italia smilitarizzata
nell'economia e nella politica, nella cultura e nel linguaggio, nelle relazioni
umane, nelle nostre città.
Educarci
alla giustizia e alla pace vuol dire disarmare la finanza e costruire
un'economia di giustizia. Non spendere 3 milioni di euro l'ora per armamenti.
Rifiutare l'idea di uscire dalla crisi economica con il riarmo. Tassare le
transazioni finanziarie (aderendo anche alla campagna
"zerozerocinque"). Lottare contro la corruzione e l'evasione fiscale.
Promuovere un lavoro dignitoso per tutti.
Educarci
alla giustizia e alla pace vuol dire tagliare le spese militari. Dire NO ai
cacciabombardieri F35 Joint Strike Fighter (che costano 15 miliardi di euro), NO
ai 100 caccia Eurofighter (10 miliardi di euro), NO a nuove navi di guerra.
Rafforzare le spese sociali. Riconvertire l'industria bellica. Sviluppare la
cooperazione e il Servizio civile.
Educare
alla giustizia e alla pace vuol dire controllare, ridurre e fermare il mercato
delle armi rafforzando la legge 185/1990 e la trasparenza verso tante ombre di
corruzione in aziende private e pubbliche legate al mercato della guerra.
Bloccare l'export militare in zone di conflitto o dove siano violati i diritti
umani. Sostenere la campagna contro gli scudi spaziali, le mine antiuomo e le
bombe a grappolo.
Educare
alla giustizia e alla pace vuol dire chiedere alle proprie banche di uscire dal
mercato delle armi. Diffondere negli Istituti di credito una Carta della
responsabilità etica per il controllo-riduzione di operazioni finanziarie
rivolte alla produzione e al commercio di armi. Realizzare le "tesorerie
disarmate" negli Enti locali, nelle parrocchie, nelle diocesi.
Educarci
alla giustizia e alla pace vuol dire ripudiare le guerre. Realizzare il disarmo
come bene comune della famiglia umana. Riconvertire civilmente la nostra
presenza militare in Afghanistan. Sviluppare una politica di cooperazione
democratica nel nord Africa. Intervenire con la forza del diritto sia in Siria
che in Iran per evitare disastrose avventure belliche. Avviare percorsi di
disarmo per un Medio Oriente denuclearizzato .
Educarci
alla giustizia e alla pace vuol dire cittadinanza attiva. Estendere la rete dei
nuovi stili di vita sobri e solidali. Sviluppare nella comunità cristiana la
conoscenza dei criteri etici nell'uso del denaro attraverso le banche. Attivare
buone relazioni con l'ambiente. Difendere l'acqua come bene comune (con
l'adesione alla Campagna di obbedienza civile "Il mio voto va
rispettato" www.acquabenecomune.org). Edificare città dove nessuno sia
straniero e possa dire "l'Italia sono anch'io".
Educarci
alla giustizia e alla pace vuol dire promuovere la festa della Repubblica
attivando le "forze disarmate" della società civile.
Educarci
alla giustizia e alla pace vuol dire pregare il Signore della pace che ci
accompagni nel cammino per costruire ponti di umanità e contemplare la
beatitudine della pace nel bambino disarmato.
Ma
chi sono i "terun" del Nord? di Francesco Anfossi
Famiglia
Cristiana - 30 dicembre 2011
In
Parlamento e fuori, la Lega continua a fare "ammuina" contro Monti e
Napolitano: ma non era il Carroccio al governo fino a un mese fa?
"Facite
ammuina". L'imperativo serpeggia tra le fila del Carroccio. E l'ammuina i
fidi e disinvolti parlamentari leghisti la stanno facendo, con la solita verve,
anche se senza troppa convinzione. "Vergogna!", "Basta
tasse!". La bagarre e l'ostruzionismo visti tra gli scranni di Montecitorio
e Palazzo Madama parevano, più che proteste, recite di una (stanca) compagnia
d'avanspettacolo. Se la Lega avesse voluto fare una sana battaglia di popolo,
pur con qualche rischio di deriva demagogica, avrebbe potuto battersi contro gli
insopportabili privilegi e le "cadreghe" della casta politica, cosa da
cui si è guardata bene dal fare. Il vero problema è che la Lega deve far
dimenticare ai suoi elettori anche con gazzarre e variété di essere stata al
governo fino a una manciata di settimane fa, contribuendo a portarci sull'orlo
del baratro a suon di tasse, inconcludenti e costosi progetti federalisti e
altre "quisquilie e pinzellacchere", come direbbe Totò, visti i veri
e gravi problemi che incombevano. Dando addosso agli immigrati, una delle
risorse a disposizione per la crescita e la ripresa di un Paese anziano e in
declino.
Oggi
non resta che rovesciare la frittata e raccogliere il malcontento per la manovra
lacrime e sangue, come gli speculatori che giocano allo scoperto sui mercati:
tanto peggio tanto meglio. E' questa la strategia del loro leader. Alla gazzarra
in Parlamento della Lega hanno fatto eco in varie sagre leghiste, come la
"Berghem Frecc", gli insulti, i fischi e le grevi ironie di un sempre
più stanco Bossi all'indirizzo di Monti e soprattutto del Capo dello Stato
Napolitano, l'uomo che ha riportato tutti coi piedi per terra e ha ridato vigore
al senso di unità nazionale. Da chi stava vicino al leader del Carroccio sul
palco è arrivata anche una voce che indicava le sue origini partenopee:
"Non sapevo che l'era un terun", ha chiosato Bossi, dando sfogo al
solito retro pensiero leghista, che è quello dell'antimeridionalismo.
A
leggere tra le righe del vilipendio c'è tutta la difficoltà di un leader alle
prese con una crisi epocale, incapace di disincagliarsi dalle contraddizioni di
un partito ormai inadeguato non solo nel dare risposte, ma anche nel cogliere i
veri problemi del Paese, quelli della gente. Che non sono la pretesa paura per
lo straniero, il bisogno di sicurezza, i localismi o le autonomie. Gli italiani
vogliono soluzioni a problemi più incombenti, che sperimentano ogni giorno
nelle proprie case: la recessione economica, il lavoro, il declino, i giovani,
la perdita di potere d'acquisto dei loro stipendi, le tasse, la benzina che sale
sempre di più. Problemi non certo di un mese fa. Dov'erano i leghisti che sono
stati al potere bene o male per oltre un decennio? Bossi cerca di far
dimenticare di aver governato fino a un mese fa, facendo ammuina, tirando in
ballo secessioni, indipendenze, parlamenti del Nord, padanie. I suoi pretoriani
lo seguono ineffabili. Come se nulla fosse successo. Tarallucci e vino per
tutti. Insomma: "Chi ha avuto ha avuto/ chi ha dato ha dato, scurdammoce o
passato, simme padani, paisà". Alè, tutti a fare opposizione, dai
che l'anno prossimo si vota. E alla fine ti salta l'ombra di un sospetto: ma chi
sono i veri, autentici, squisiti, impareggiabili "terun" del
Nord?
"Noi
venditori di rose, schiavi bambini" di Enrico Bellavia e Lorenzo
Tondo
Repubblica
- 27 dicembre 2011
Dall'India
con nomi falsi e finte famiglie
Il
racconto di Rashid: vivere nel ricatto per inseguire un sogno: "Mi hanno
assicurato che a 18 anni mi lasceranno andare, ma sono stanco di aspettare. A
scuola hanno bocciato diverse volte per le assenze. Spesso torno alle 5 ed è
difficile svegliarmi". "Mi danno sessanta rose ogni cinque giorni Devo
venderle tutte e portare a casa almeno cinquanta euro. Se per caso non lo
faccio, non mi lasciano entrare e finisce che rimango per strada. Ho paura per i
miei genitori, non so cosa fare. Quando li sento al telefono vorrei raccontare
tutto. Ma lui, l'uomo che mi tiene in casa, mi sta sempre accanto durante le
chiamate"
Rashid
è un nome di fantasia. Falso, come quello sulla sua carta d'identità. Come i
nomi delle migliaia di suoi connazionali approdati in Italia dallo Sri Lanka o
dal Bangladesh e costretti a vendere rose e cianfrusaglie nelle piazze di
Palermo. Minorenni affidati a padri che non sono i padri, che vivono come figli
ma che non sono i figli. Rashid porta il nome del suo finto padre. Quello vero
lo ha perso 7 anni fa, quando lasciò lo Sri Lanka e la sua famiglia a bordo di
un aereo, accompagnato a Palermo da un uomo che prometteva sogni, scuola e un
futuro migliore. Arrivato in Sicilia nel luglio del 2005, dopo appena un mese, e
non ancora compiuti i 9 anni di età, cominciò a vendere rose per le vie del
capoluogo.
"Ricordo
- racconta - che il mio villaggio era molto povero i miei genitori non avevano i
soldi per assicurarmi un futuro. Un giorno un amico di mio padre disse che se
fossi andato con lui in Italia, mi avrebbe dato la possibilità di studiare. Io
ero felicissimo. Quando arrivammo a Palermo però quell'uomo iniziò a chiamarmi
con il suo cognome. E mi presentò a tutti come suo figlio". E in effetti
sul permesso di soggiorno, il suo cognome è sparito, sostituito da quello del
suo finto padre. Rashid è una sua proprietà. Come i circa 200 venditori di
rose bengalesi, tamil e cingalesi di Palermo.
I
NOMI FINTI
"Quello
dei nomi fittizi - spiega Shobin Islam, bengalese e segretario dell'associazione
Bangladesh Italia - è oramai un fenomeno molto diffuso tra le comunità dello
Sri Lanka e del Bangladesh. I ragazzi lavorano fino a quando non avranno pagato
il costo del biglietto e dell'ospitalità. In alcuni casi però i minorenni
vengono letteralmente prestati dalle famiglie a terzi per saldare debiti
pregressi. Il costo del loro prestito varia dai 5mila ai 40mila euro per ogni
figlio".
Ogni
"famiglia" tiene in casa dai 3 ai 10 ragazzini. In cambio di vitto e
alloggio, ogni notte, dal lunedì alla domenica, l'esercito dei venditori di
rose sgattaiola dai vicoli bui di Piazza Olivella, nel cuore della città.
Lavora fino all'alba per racimolare, quando va bene, 10 euro a sera. "Mi
danno - racconta Rashid - 60 rose ogni 5 giorni: devo venderle tutte e portare a
casa almeno 50 euro. Se non lo faccio non mi lasciano entrare e rimango per
strada".
Rashid
oggi ha 16 anni e un sogno nel cassetto: ritornare nel suo Paese. "Mi hanno
assicurato - spiega - che a 18 anni sarò libero, ma sono stanco di aspettare.
Vorrei continuare gli studi, ma frequento ancora la terza media. Mi hanno
bocciato diverse volte sempre per le assenze. Spesso torno a casa alle 5 del
mattino e poi è difficile svegliarmi". Tamil e bengalesi rappresentano
oltre il 30 per cento degli stranieri residenti a Palermo. "Sono dei gruppi
- spiega Angelo De Florio, presidente dell'associazione Bangladesh Italia -
organizzati in clan con una struttura piramidale ed estremamente patriarcale.
Arrivano dalle regioni più povere dove il 20 per cento dei bambini ancora oggi
è costretto a lavorare dall'età di 6-7 anni".
RASHID
NON E' IL PRIMO CASO
Nel
2005 un giovane venditore di rose, appena 13enne, fu convinto da un gruppo di
assistenti sociali a denunciare i suoi zii, Kim e Uddin Roish, originari del
Bangladesh e residenti a Palermo, che lo costringevano a vendere rose 7 giorni
su 7 in cambio di vitto e alloggio. Il processo andò avanti fino allo scorso
febbraio quando i giudici d'appello pur optando per l'assoluzione dei due
dall'accusa di riduzione in schiavitù, condannarono Uddin a sei mesi di
reclusione per falso. Secondo i magistrati, i due avevano organizzato l'arrivo
in Italia del bambino facendolo passare per il figlio di Uddin Roish.
LA
FALSIFICAZIONE DELLE PATERNITÀ
Il
sostituto procuratore di Palermo Ennio Petrigni che ha rappresentato l'accusa in
quel processo descrive due stadi di falsificazione: "L'espatrio dei minori
avviene in genere con la falsificazione dello stato civile dell'individuo. La
prima falsificazione viene fatta nelle ambasciate italiane nei Paesi d'origine
dove gli sfruttatori presentano, carte alla mano, il ragazzino come figlio
proprio. La seconda avviene in Italia, con la richiesta del permesso di
soggiorno, reiterata ogni anno con il rinnovo".
Ribellarsi
per i minori non è semplice, anche perché le carte, seppur false, dicono che i
finti padri sono gli unici garanti della tutela del ragazzo in Italia. E non
solo: Rashid teme per la sua famiglia rimasta nello Sri Lanka. "Ho paura
per i miei genitori - confessa - non so cosa fare. Quando li sento al telefono
vorrei dirgli tutto. Ma lui, l'uomo che mi tiene in casa, mi sta sempre accanto
durante le chiamate". "La strategia delle minacce in traffici di
questo tipo - dice Shobin Islam - purtroppo funziona sempre. Sono gli stessi
ricatti messi in atto nel mercato della prostituzione. Le vittime sanno che i
loro sfruttatori sono realmente capaci di far del male alle loro famiglie e alla
ribellione preferiscono il silenzio". Analisi confermata dallo stesso
Petrigni: "La vendetta in patria - spiega il pm - è una forma
intimidatoria molto comune".
Dalla
testimonianza di Rashid e da quelle raccolte nel corso del processo Roish,
emergono i ritratti di immigrati perfettamente integrati, con un lavoro stabile
e il racket come seconda attività. Hanno mogli e figli propri, anche se questi
ultimi non sono tenuti a vendere le rose. Acquistano i fiori a metà prezzo
dalle bancarelle al Cimitero di Sant'Orsola. E per nascondere lo sfruttamento
dei loro "finti figli", non gli fanno mancare libri e qualche volta
regali. Poi, con i soldi intascati in Italia, investono nei loro Paesi. Quello
di Rashid, ad esempio, utilizza il denaro per costruire di residence e
appartamenti nello Sri Lanka. E, come fanno in molti, paga un pizzo perché i
suoi ragazzi possano girare per le strade. Lo intuisce Rashid: "Mio padre
incontra palermitani con i quali discute". Lo conferma Shobin: "Gli
immigrati pagano il pizzo o spesso le mafie fanno la cresta sui loro
profitti". E il pm Petrigni sottolinea "il mantenimento della regola:
la criminalità organizzata marca anche così il territorio".
Risorse e case per israeliani, avvisi di demolizione per palestinesi
Misna - 28 dicembre 2011
L'Alta
corte di giustizia di Israele ha emesso una sentenza secondo cui è legittimo
per Israele sfruttare a proprio vantaggio le risorse della Cisgiordania. Dandone
notizia, il quotidiano israeliano 'Haaretz' ha ricordato che la sentenza è
stata emessa in seguito alla presentazione di un esposto da parte
dell'organizzazione non governativa Yesh Din che contestava la presenza di 10
cave di proprietà israeliana. Queste riforniscono il 25% del materiale totale
ogni anno necessario a Israele, ma secondo il giudice, rappresentano una
ricchezza anche per i palestinesi che vi lavorano. Criticando la sentenza,
Michael Sfard, rappresentante di Yesh Din, ha detto che "appropriarsi di
risorse naturali in un territorio occupato per soddisfare i bisogni economici
della nazione occupante equivale a rubare".
Ma
in attesa che l'Assemblea generale dell'Onu deliberi sulla richiesta di
ammissione fatta lo scorso settembre dai palestinesi, le autorità israeliane
stanno spostando paletti avanti un po' dappertutto. L'ultima decisione in questo
senso è giunta dalle autorità di Gerusalemme che hanno stabilito la
costruzione di 130 nuove unità abitative nel quartiere di Silwan ovvero a
Gerusalemme est, capitale designata dai palestinesi di un loro futuro Stato
indipendente.
Allo
stesso tempo, scrive l'agenzia di stampa 'Maan', sempre a Silwan sono stati
recapitati avvisi a famiglie palestinesi per annunciare la prossima demolizione
delle loro case. Alla stessa agenzia, Christopher Gunness, portavoce
dell'Ufficio dell'Onu per i rifugiati palestinesi ha detto che le demolizioni
sono illegali "perché molte di queste sono collegate all'annessione
illegale di Gerusalemme, all'espansione delle colonie e al trasferimento forzato
della popolazione, tutte violazioni della quarta convenzione di Ginevra".
[GB]
Cristiani
e musulmani a un anno dalla primavera araba di Samir Khalil Samir
AsiaNews - Beirut - 24 dicembre 2011
La
rivolta araba si è diffusa come un incendio nell'erba secca. Tutti i Paesi ne
sono stati affetti. Ma le novità si scontrano con la presa di potere degli
islamisti. I timori dei cristiani e la necessità di collaborare anche con
l'islam. Il caso della Siria e dei vescovi siriani. L'occidente troppo
impacciato; Obama squalificato. Un bilancio di quanto successo quest'anno nel
mondo arabo.
Tutto
è iniziato un anno fa: il ragazzo tunisino Mohammed Buazizi, prostrato dalla
miseria e dalle umiliazioni subite dalla polizia, si è dato alle fiamme il 15
dicembre dello scorso anno. Come un incendio sull'erba secca, dal suo sacrificio
la rivolta si è diffusa da un Paese all'altro. Ciò è avvenuto perché tutto
il mondo arabo è in grande difficoltà e bisogno. La gente sentiva dolore e
desiderio di cambiamento, ma mancava la scintilla per far scoppiare l'incendio.
La
rivoluzione araba non è stata uguale in tutti i Paesi. Alcuni erano più
preparati: in Tunisia, la popolazione è più forte e più matura; avevano anche
un regime che permetteva la protesta. Là dove il regime è totalmente
dittatoriale, come in Libia, è stato necessario l'intervento dall'esterno. Il
caso della Siria, poi è ancora più complesso e non so se si risolverà.
Alcuni
Paesi sono rimasti illesi, forse perché la situazione non è così tragica come
in altre parti, come in Giordania, o perché il popolo è totalmente ignorante.
Penso all'Arabia saudita, dove il popolo sta bene, ha il petrolio, ma non sa
neppure cosa siano i diritti umani, la libertà, l'uguaglianza.
I
bisogni del mondo arabo
In
ogni caso, con quest'anno, tutto il mondo arabo è rimasto scosso perché
segnato dal bisogno. E qual è questo bisogno? Il primo e più fondamentale è
la povertà, la miseria di una parte della popolazione. Questi non avrebbero
potuto fare alcuna rivoluzione: stanno troppo male e non avevano nemmeno la
possibilità di pensarvi. Altri lo hanno fatto e loro si sono aggiunti, come è
avvenuto in Egitto, dove il 40% della popolazione vive al di sotto del livello
di povertà.
Anche
in Tunisia, il giovane che si è auto-immolato era disperato per la povertà e
la disoccupazione.
Il
secondo motivo è la scoraggiante disoccupazione giovanile. Nella nostra
cultura, se uno non riesce a partire nella vita, a iniziare la sua vita di
adulto, si sente umiliato; se uno non ha lavoro, non può farsi una famiglia. In
Europa non è drammatico se uno a 30 anni non si è fatto una famiglia. Nei
nostri Paesi, invece, si comincia a pensare a sposarsi a 20 anni; a 25 è tempo
di concludere. Ma se uno non ha lavoro, è impossibile. Nei nostri Paesi,
sposandosi, l'uomo deve essere capace di pagare la casa; la donna deve portare
l'arredamento. Ma se uno è disoccupato, dovrà aspettare a sposarsi, con
un'ulteriore umiliazione.
Il
terzo motivo è etico: la dignità, la libertà di poter esprimere le proprie
opinioni, la diseguaglianza. Questo bisogno è acuto anzitutto fra gli
intellettuali, ma anche nella classe media. A questi, vanno aggiunte le
discriminazioni non necessariamente religiose...
Infine,
la gente, attraverso la televisione, vede come vive il resto del mondo e si
sente arretrata, si domanda come mai siamo così arretrati. Poi sentono dire che
il presidente, il ministro, altri sono miliardari: tutto questo crea un
sentimento di ingiustizia, o si soffre l'ingiustizia sulla propria pelle.
Tutti
questi motivi hanno creato quel sentimento di insoddisfazione che ha portato
alla rivolta.
La
vittoria degli islamisti
Il
movimento è stato spontaneo e popolare. Ciò però significa che non vi era una
vera leadership e oggi ne vediamo le conseguenze: quelli che hanno fatto la
rivoluzione non hanno vinto. Hanno permesso ad altri, più organizzati, di
raccogliere il frutto del loro lavoro.
È
uno scacco enorme, tanto che molti dicono che "non valeva la pena". Ma
io rimango fiducioso: questo passo era necessario perché mostra agli islamisti
che anche se hanno vinto, vi è un forte richiamo a priorità diverse dalle
loro. Il movente della rivoluzione dei giovani non è stata la religione, ma la
dignità, il lavoro, la libertà, l'uguaglianza, la democrazia.
È
vero: ora gli islamisti hanno il potere. Ma in tal modo essi hanno l'occasione
di verificare i loro slogan che dicono di continuo che "l'Islam è la
soluzione" per ogni cosa. E' il loro slogan: Al-Islâm huwa l-hall !
Dovranno dimostrare che il sistema islamico risolve il problema della
disoccupazione, dell'educazione, dell'uguaglianza, della democrazia, delle
finanze, etc.
É
la prima volta in Medio Oriente - dai tempi del potere ottomano - che essi hanno
il potere politico in mano. È perciò un momento importante per vedere in quali
settori gli islamisti danno risposte concrete, in quali fanno difetto.
È
anche un momento importante per verificare che tipo di sharia essi vogliono
attuare: quella del'Arabia Saudita - dove settimane fa hanno decapitato una
donna accusata di stregoneria - o quella dell'Iran, che blocca lo sviluppo di
tutto il Paese; o inventarne altri tipi. Noi li giudicheremo sui risultati.
Rimane
però un fatto sicuro: gli islamisti, e in particolare i salafiti, hanno
approfittato della "primavera araba" per cercare di imporre la loro
concezione dell'islam. Questo è notevole in Tunisia (come lo dimostra il
fenomeno dellaManouba, la più famosa università tunisina, dove i salafiti
cercano d'imporre il "niqâb" e d'introdurre una moschea dentro
l'università) e in Egitto (come dimostrano gli attacchi numerosi alle chiese,
per distruggere le croci, o gli attacchi dell'esercito alle donne, che ha
suscitato la manifestazione del 20 dicembre scorso).
Educare
alla democrazia
Penso
all'Egitto, e a questa impressionante vittoria dell'islamismo: il 60%, tra
"Fratelli Musulmani" e salafiti! Vedremo se davvero meritavano tutta
questa fiducia dell'elettorato. D'altra parte era inevitabile: sono quasi
sessant'anni che l'Egitto vive sotto un regime militare e nella mancanza di
democrazia. La gente ha perso la memoria di cosa essa sia. Ma il fatto che quasi
il 50% degli elettori abbia partecipato al voto, è un elemento molto positivo.
In passato la partecipazione era del 5-7%: la gente non andava a votare perché
sapeva che tanto i risultati sarebbero stati truccati. Sotto Nasser si
proclamavano sempre vittorie del 95%, pur andando a votare solo il 5% della
popolazione.
In
Tunisia a queste votazioni ha partecipato almeno l'80%: un caso unico. Ciò
significa che l'interesse politico e la partecipazione sono cresciuti.
Da
parte dei giovani, è tempo però di pensare come organizzare il movimento. La
gente e il mondo hanno preso molto sul serio la rivoluzione araba. Ma occorre
pianificare e unire, altrimenti tutto si perde. In Egitto, ad esempio, a
differenza della Tunisia, i giovani hanno creato decine di partiti. Ma questo ha
sbriciolato i risultati e così i giovani hanno perso tutto il vantaggio che
avevano.
Il
partito chiamato "il blocco egiziano", lanciato dal miliardario copto
Naguib Sawiris, molto liberale, aperto a cristiani e musulmani, ha raggiunto il
17%. Non è molto, ma già è qualcosa.
Soprattutto
ciò mostra che vi sono speranze per il futuro: il movimento deve creare una
sensibilità politica nel Paese. Uno dei punti essenziali su cui fare forza,
oltre all'economia che è in sfacelo, è proprio l'educazione. L'Egitto in
particolare è molto indietro rispetto ad altri Paesi arabi. Esiste 40% di
analfabetismo (in particolare tra le donne) e la qualità dell'insegnamento è
scarsa. Per questo si vota più per appartenenza religiosa che per analisi
politica.
Anche
la solidarietà fra cristiani e musulmani, nonostante gli attacchi avvenuti
contro le chiese, ha fatto nascere una sensibilità e un movimento per
l'uguaglianza, prima quasi impensabile.
Il
frutto è positivo, anche se in confronto alla fatica compiuta, tale frutto è
stato minimo.
La
situazione in Siria
Il
caso più chiaro di presa di coscienza è avvenuto in Siria, dove il regime di
Assad sembrava molto stabile. È anche un caso molto drammatico e difficile. Va
detto che le informazioni su quel Paese sono molto oscure. Proprio in questi
giorni il vescovo di Aleppo mi diceva di fare attenzione perché le informazioni
che si hanno fuori della Siria, sono diverse da quelle che si ha all'interno.
Anche
qui si notano alcuni fatti nuovi: per la prima volta, la Lega araba ha preso una
posizione netta: esclusione di Damasco, sanzioni, ecc... Certo ci troviamo di
fronte a un'ambiguità: la Siria sostiene l'Iran; l'Iran e fortemente sciita; la
Lega araba è per la quasi totalità sunnita. Può essere che le minacce della
Lega araba siano motivate da più da questa opposizione, che per amore alla
rivoluzione.
In
ogni caso - e dura già da nove mesi - in Siria la gente è pronta a dare la
vita per cambiare la situazione, e questo è un fatto davvero nuovo.
La
Siria ha problemi specifici: vi è un potere totalitario e un popolo in
maggioranza disarmato. Si dice però che i Paesi arabi limitrofi stanno
finanziando la ribellione. Per trovare una soluzione occorre un mediatore o
siriano o arabo, altrimenti sarà la distruzione.
Vediamo
anche che per la prima volta la Turchia ha preso la difesa dei ribelli siriani.
Forse vi sono motivi egemonici in tutto questo, o alleanze da rispettare con
l'Occidente. Ma vi è soprattutto l'idea che la Turchia vuole mostrarsi come un
modello di Paese islamico moderato, anche se non è la perfezione nei diritti
umani.
La
situazione in altri Paesi
In
Libia il futuro è ancora molto incerto. Vi sono affermazioni di tipo islamista,
ma il problema che io vedo è soprattutto come fare per riconciliare tutte le
tribù e indirizzarle verso lo sviluppo. Nel Paese l'industria è all'inizio, e
non si sa se riusciranno a far progredire il livello del Paese.
In
Arabia saudita non vi è stata primavera araba (o meglio: è stata soffocata sul
nascere con i militari). Ma la gente chiede alcuni cambiamenti.
In
Paesi come Yemen e Bahrain la rivoluzione ha già dato dei frutti consistenti: né
l'uno, né l'altro potranno continuare come prima.
Vi
è movimento anche il Marocco: non vi è stata la rivoluzione, ma il timore che
venisse ha suscitato nuove riforme sociali. Già da tempo avevano fatto una
riforma legale dei diritti della famiglia (la Mudawwanah), che valorizzavano i
diritti della donna... Insomma, il mondo arabo sta cercando ovunque la sua
strada.
Come
si muovono i cristiani?
In
genere i cristiani hanno paura perché è quasi sicuro che questa rivoluzione
sarà incamerata dagli islamisti. Noi temiamo soprattutto gli islamisti, in
particolare i salafiti. In effetti questo pericolo c'è, ma io dico che non vi
è altra possibilità e dobbiamo collaborare con tutti per far emergere il
meglio dalla situazione. Non bisogna chiudersi nella paura. Certo con gli
islamisti salafiti è difficile, ma vi sono anche islamisti che hanno un
progetto politico, un desiderio di voler superare l'arretratezza del loro Paese.
Noi possiamo vigilare per mostrare loro dove stanno superando i limiti, dove
stanno conculcando dei diritti, ecc..
C'è
un dialogo possibile ed utile sui progetti sociali: è tempo di aiutarci e
sostenerci a vicenda, d'imparare la solidarietà anche verso chi non è
cristiano. E viceversa. É tempo di creare insieme dei progetti sociali contro
l'analfabetismo, la povertà, la malattia, ecc. In campo educativo e ospedaliero
i cristiani hanno mostrato già da tempo tutta la loro generosità e
professionalità verso chiunque, cristiani e musulmani. Perciò io penso che sia
possibile collaborare con una gran parte della popolazione.
Allo
stesso tempo dobbiamo difendere la giustizia, la libertà di coscienza, la
libertà di vivere la nostra fede, di proclamarla, arrivando al principio
dell'uguaglianza. I musulmani in Egitto, anche in campo giuridico, usano
l'espressione "la religione migliore", e intendono
"l'islam". Dobbiamo dire: Questa espressione è inaccettabile.
Esistono
anche altre discriminazioni (uomo/donna; ricchi/poveri). Noi dobbiamo lavorare
contro tutte queste discriminazioni, perché sono opposte allo spirito del
Vangelo.
Personalmente,
non temo tanto un regime islamico, ma la possibilità dell'intolleranza. E'
anche vero che molti musulmani sono opposti alla linea dei salafiti, che cercano
d'imporre (e soprattutto alle donne) la loro visione intollerante dell'islam. In
ogni caso, come cristiani, non possiamo rinchiuderci in un ghetto, ma dobbiamo
cercare di collaborare con tutti quello che lottano per una società rispettosa
dei diritti umani.
La
primavera araba vista dai cristiani
A
causa della paura del futuro, i cristiani preferiscono il regime che conoscono
già. Ma questi regimi sono spesso dittatoriali. E sostenere un regime
dittatoriale è un peccato. Se il governo fa violenza, dobbiamo dire che siamo
contro la violenza di chiunque: degli oppositori, della gente, dei militari.
Dobbiamo dire che siamo per la libertà, ma non per l'eccesso di libertà che
porta allo sfacelo dell'occidente; dobbiamo dire che siamo per l'uguaglianza,
per la giustizia, sia per i cristiani che per i musulmani, sia per gli uomini
che per le donne. Questa è l'occasione per i cristiani di fare
un'evangelizzazione culturale, lontana da ogni proselitismo.
Invece
purtroppo, la paura dell'islamismo spinge i cristiani a legarsi al passato. La
maggioranza pensa che basta non immischiarsi troppo nella politica e si può
vivere tranquilli, Ma come cristiano, è mio diritto-dovere anche interessarmi
della politica.
Ciò
spiega la posizione dei vescovi in Siria, che preferiscono scegliere per quello
che conoscono già, piuttosto che per un futuro sconosciuto. La scelta non è
fra il bene e il male, ma fra due mali ... e valutare qual è il male minore è
difficile. Ma la strada consiste ad affermare ciò che per noi è importante.
Infine,
l'Occidente
L'Occidente
ha appoggiato i dittatori; poi se n'è distaccato; adesso è titubante.
L'occidente è molto criticato nei Paesi arabi perché essi appoggiano fino in
fondo Paesi come l'Arabia saudita, che per dottrina lì presente, è la fonte
indiretta del terrorismo islamico. Un Paese come gli Stati Uniti, che parla
della libertà e dei diritti umani, quando si incontra con i sauditi, tace su
tutti questi aspetti.
Sulla
Libia, tutti gli arabi pensano che l'occidente era più interessato al petrolio
libico che alla libertà. E infatti si sono impegnati solo contro la Libia (e in
passato contro l'Irak di Saddam Hussein). Con la Siria, invece, tutti sono cauti
perché essa ha un ruolo geopolitico importante...
L'atteggiamento
occidentale non è unificato, e non è basato su principi e valori chiari.
Non
sono un idealista e per questo penso che ogni Paese tenda a vedere anzitutto i
propri interessi. Ma trattandosi di un fenomeno come quello di tutto il mondo
arabo, sarebbe stato molto più efficace lanciare un'idea di come sostenere (o
non sostenere) questi movimenti.
La
politica verso Israele - che è una delle cause essenziali della crisi
medio-orientale - è un'altra questione che lascia sbigottiti gli arabi. In un
solo giorno Barack Obama ha cambiato idea in modo totale: dopo aver sostenuto
l'idea di due popoli, due Stati, alla visita di Netanyahu ha cambiato posizione.
Non
parliamo poi del suo discorso al Cairo, dove aveva conquistato tutto il mondo
arabo. Ma è passato qualche mese e si è visto che la sua politica era la
stessa di Bush. Ha perso ormai ogni credibilità. Occorre un impegno con i
principi, e così si può essere modello per gli altri.
Lo
stesso vale per l'Europa. Essa sta perdendo la sua identità religiosa e
culturale. Non ha la capacità di verificare il suo passato coloniale,
nascondendolo dentro una cattiva coscienza, invece di mostrare che anche il
colonialismo ha avuto un valore nel dialogo con le culture.
In
Europa si rifiuta la religione locale (in generale quella cristiana) e questo
rende ambiguo il rapporto degli europei con le altre religioni nel mondo. In più,
talvolta i governi sembrano preferire le religioni importate, mentre si soffoca
quella locale. Se ad esempio la Francia nega la sua identità storica cattolica,
non saprà più come trattare con le altre religioni. Di fatto vediamo una
schizofrenia che va dalla secolarizzazione delle feste cristiane, alla
valorizzazione delle altre religioni (meno il cristianesimo).
La
rivoluzione araba forse può servire a far rinsavire anche molti giovani in
occidente. In Egitto, in Siria, vi son persone che rischiano la vita per un
ideale, per una vita dignitosa, per tutto il popolo. Ma quanti in Italia o in
Europa sarebbero capaci di pensare a questo?
Caccia grossa agli "irregolari" di Lucia Capuzzi
Avvenire
- 29 dicembre 2011
"È
un delitto perfetto. Perché la vittima ufficialmente non esiste. Chi può
accusarti allora di averla sequestrata, torturata, uccisa?" Eppure le
vittime ci sono. Arturo, 30 anni, salvadoregno, picchiato e più volte derubato;
Sandra, anche lei trentenne e salvadoregna, scampata in extremis a un tentativo
di stupro e di sequestro; Marisol, honduregna di 24 anni e meno fortunata di
Sandra: è stata rapita e violentata per tre mesi da più di 50 uomini. A José,
14 anni, guatemalteco, troppo gracile per essere "sfruttato", gli
aguzzini hanno ordinato di stendersi sull'asfalto e gli sono passati sopra con
un furgoncino: si è salvato fingendosi morto.
Non
somigliano per niente a dei fantasmi queste vittime invisibili. Hanno necessità
fin troppo umane: mangiare, bere, dormire, lavarsi. E sanno che nell'Albergue
Hermanos del Camino potranno soddisfarle. L'Albergue non è proprio un hotel: è
un ampio sterrato su cui sorgono tre palazzine di cemento grezzo. Senza
pavimento e porte: teli separano i diversi ambienti e chiudono le finestre,
cercando di sbarrare il passo agli insetti. Inutile. Il loro ronzio affolla le
notti tropicali di Ixtepec, nel cuore dello Stato messicano dell'Oaxaca. Un
punto strategico: un terzo dei circa 500 mila migranti centroamericani che, ogni
anno, attraversano illegalmente il Messico per raggiungere gli Usa, passa
da qui. Vi arrivano, dopo 12 ore di percorso da Arriaga, in Chiapas, a bordo
della "Bestia": un sarcofago di ferro che i messicani chiamano
"treno merci". Nei vagoni viaggiano mattoni, grano, legumi. Sopra,
aggrappati al tetto, si spostano - clandestinamente - i migranti. Tutti li
vedono, nessuno li guarda. Sono irregolari: non figurano in alcun registro, non
hanno documenti né diritti. Gli abusi nei loro confronti sono una
"consuetudine" antica: "pedaggi" ai macchinisti o ai
poliziotti per poter proseguire, rapine, pestaggi. "Ora però i migranti di
passaggio in Messico vanno incontro a un'ecatombe. In questa guerra che da 5
anni insanguina il Paese, i centroamericani sono una preda remunerativa e facile
da catturare". Il linguaggio crudo di don Alejandro Solalinde Guerra
contrasta con l'aspetto mite del sacerdote. Intervistarlo è un'impresa: ogni
minuto qualche "ospite" si avvicina con una richiesta: sapone,
medicine, colla per riparare le scarpe. Per tutti quest'uomo magro, minuto,
occhi neri che spuntano dagli occhiali, si inventa una soluzione e un sorriso.
Sono i "suoi" migranti: in 12 mila, ogni mese, passano dall'Albergue,
nell'intervallo - che dura ore o giorni - tra l'arrivo del treno e la nuova
partenza. Don Alejandro vive per loro e con loro dal 2007, quando ha lasciato la
parrocchia di Espinal e ha fondato l'Albergue. Allora, la narco-guerra era
appena cominciata. Nel 2006, il neoeletto presidente Felipe Calderón scatenò
una feroce offensiva contro le gang del narcotraffico. Queste reagirono portando
la violenza a livelli esponenziali. Finora nessuno ha vinto, nel frattempo sono
state uccise 60mila persone. Per finanziare la guerra, i trafficanti hanno
ampliato le attività criminali. Così, è nato il business del "sequestro
dei migranti": oltre 20 mila rapimenti all'anno - solo quelli censiti - per
un guadagno netto di 50 milioni di dollari, secondo la Commissione nazionale per
i diritti umani. I narcos costringono i macchinisti a fermare "la
Bestia" in zone disabitate. Rapiscono i migranti - diverse decine alla
volta - e li tengono nelle cosiddette "case di sicurezza". "Qui
fanno la cernita: gli "inutili" anziani vengono ammazzati. A chi ha
familiari negli Stati Uniti viene estorto il numero di telefono in modo da
chiedere il riscatto: dai 2 ai 7 mila dollari, sanno che non sono persone
ricche. I giovani vengono arruolati con la forza, i bambini e le donne venduti
sul mercato del sesso. Altri finiscono in quello degli organi". Fonti
locali parlano di "centri" a Città del Messico, Veracruz, Tabasco
dove vengono praticate le asportazioni con la complicità di medici. Malati
facoltosi e con pochi scrupoli sono disposti a sborsare anche 100 mila dollari
per un rene o un fegato. "Nel 2007 ho incontrato un migrante brasiliano
sopravvissuto all'asportazione di un rene. E non è stato l'unico",
racconta don Alejandro. Nelle discariche della capitale, spesso, vengono trovati
cadaveri di centroamericani senza occhi o stomaco.
Il
primo sequestro lo ricorda bene don Alejandro: il 10 gennaio 2007
"sparirono" 12 migranti. "All'epoca, portavo cibo e coperte alla
stazione per i disperati della Bestia. Quella mattina, quando arrivai, alcuni
scampati mi dissero che la polizia aveva catturato i compagni e li aveva venduti
ai narcos". Il sacerdote denunciò alle autorità che non gli credettero:
hanno continuato a negare i sequestri fino a quando, nell'agosto 2010, a San
Fernando, in Tamaulipas, è stata scoperta una fossa con i cadaveri di 72
migranti centroamericani. E anche dopo, hanno fatto ben poco. La famosa
"legge Solalinde" - perché approvata il 25 giugno 2011 grazie alle
pressioni del sacerdote e della Chiesa cattolica - è tuttora lettera morta. Il
Messico si è impegnato a dare un permesso di soggiorno provvisorio agli
irregolari di passaggio in Messico ma finora non l'ha fatto, perché manca il
regolamento attuativo.
Quel
giorno del 2007 don Alejandro decise di dare ai migranti un luogo sicuro.
L'Albergue appunto. Prima comprò il terreno, pagandolo di tasca propria.
"Chiesi a tutti gli amici - precisa - dieci pesos (50 centesimi)".
All'inizio dormivano per terra, sui cartoni. Poi, pian piano, insieme a qualche
volontario don Alejandro ha cominciato a costruire gli edifici, mai finiti.
L'unico "pezzo" completo è il muro di cinta: il sacerdote l'ha
realizzato grazie ai 325 mila pesos (18 mila euro) donatigli dal Papa dopo che
il 24 giugno 2008 una folla, sobillata dai criminali con la connivenza delle
autorità, cercò di dar fuoco all'Albergue e al suo fondatore. Le minacce e le
aggressioni dei narcos sono costanti: il sacerdote intralcia gli
"affari" e sottrae loro quella "miniera d'oro" che sono i
migranti. Per questo, "el padre" è da 10 mesi sotto scorta. Tre
poliziotti lo seguono nella sua corsa quotidiana. La giornata è scandita dai
ritmi della Bestia che arriva nelle ore più impensate, alle 5 del mattino come
alle due di notte. "A volte è faticoso, ma qui sono felice", sorride
don Alejandro. Poi, si alza di scatto. La Bestia sferraglia sui binari che
passano dietro l'Albergue. Il fischio sordo - il suo rantolo - significa che
presto si fermerà. I migranti scenderanno stanchi, affamati, assetati,
sperduti. E anche stavolta don Alejandro sarà lì, a dire loro:
"Bienvenidos".
Natale in Nepal: chiese mai cosi affollate, non solo da cristiani
Radiovaticana.org
- 28 dicembre 2011
"Le
celebrazioni del Natale 2011 sono state le più numerose nella storia" del
Nepal. Lo affermano - riferisce l'agenzia Asianews - i leader cristiani,
sottolineando la partecipazione di migliaia di non cristiani alle Messe
cattoliche e protestanti celebrate in tutto il Paese asiatico. Mons. Anthony
Sharma, vescovo di Kathmandu, racconta che una folla di oltre 2 mila persone era
presente alla Messa di Natale nella cattedrale dell'Assunzione di Latitpur, -
che può contenere circa 1000 fedeli - in passato colpita da un attentato
terrorista. Il presule afferma che molta gente ha seguito la Messa dalla strada,
costringendo il servizio d'ordine a lasciare spalancate le porte, che in questi
anni sono sempre rimaste chiuse a causa del rischio attentati. Nell'omelia,
davanti a centinaia di non cristiani, mons. Sharma ha invitato tutti a
"seguire l'esempio di Cristo che ha sacrificato la sua vita per l'umanità"
ed ha incoraggiato i membri delle diverse religioni a lavorare per la pace.
Anche la Messa celebrata dalla comunità protestante di Kathmandu è stata
seguita da migliaia di persone. Narayan Sharma, vescovo protestante della
Gyaneshwor Church, sottolinea che l'edificio era pieno oltre la normale
capienza. Numerosa è stata anche la partecipazione alla Veglia natalizia nel
centro della capitale. Dopo la caduta della monarchia indù nel 2006, per
rilanciare il turismo il governo ha deciso di rendere il Natale festa nazionale.
La maggiore sicurezza ha permesso ai cristiani di celebrare le Messe in
pubblico, di esporre immagini e addobbi sacri nei negozi e fuori dalle chiese e
dalle abitazioni. A tutt'oggi i cattolici sono oltre 10 mila, 4 mila in più
rispetto al 2006, anno della proclamazione dello Stato laico. Per intrattenere i
turisti giunti a Kathmandu a festeggiare il Natale, quest'anno le autorità
locali hanno organizzato una serie di iniziative laiche fra cui concerti
natalizi, distribuzioni di doni per i bambini, canti e balli. Nishant Shrestha,
responsabile marketing di uno dei più importanti centri commerciali della
capitale è stupito dal modo con cui la popolazione indù ha festeggiato il
Natale. "Ciò mostra che i cristiani sono in rapida crescita nel Paese -
afferma - è bello vedere la gente condividere i valori di pace e armonia
simbolo della festa cristiana". (R.G.)
Il terrorismo minaccia tutti, musulmani e cristiani
ma
insieme possiamo vincerlo" dice a Fides l'Arcivescovo di Abuja
Agenzia Fides - Abuja - 28 dicembre 2011
"Spero
che queste persone non siano morte invano, i nigeriani si stanno rendendo conto
che il terrorismo ci minaccia tutti, cristiani e musulmani" dice
all'Agenzia Fides Sua Ecc. Mons. John Olorunfemi Onaiyekan, Arcivescovo di
Abuja, capitale federale della Nigeria, dove a Natale almeno 35 persone sono
morte in un attentato che ha colpito la chiesa di Santa Teresa, nel quartiere di
periferico di Madalla. Sempre a Natale altre bombe sono esplose presso alcune
chiese in altre zone della Nigeria, tra cui una chiesa Pentecostale a Jos,
capitale dello Stato di Plateau. Gli attentati sono stati attribuiti alla setta
islamica Boko Haram.
"Il
giorno di Santo Stefano, quando mi sono recato sul luogo dell'attentato insieme
al Nunzio, alla presenza del Ministro dell'Interno, ho approfittato
dell'occasione per lanciare un forte appello tramite la stampa locale alla
leadership islamica della Nigeria per fare qualcosa" racconta a Fides Mons.
Onaiyekan. "Anche se i capi religiosi musulmani continuano ad affermare che
i membri della Boko Haram non appartengono al vero islam, devono però
riconoscere che questi sono musulmani, buoni o cattivi non importa, e che loro
hanno la maggiore possibilità di individuarli e devono dimostrare che lo stanno
facendo".
"A
questa mia dichiarazione - prosegue Mons. Onaiyekan - è stato dato ampio
risalto, ed ha suscitato diversi commenti sui media nigeriani. Diverse
importanti organizzazioni e gruppi islamici stanno ora condannando gli
attentati. Ho appena ricevuta la telefonata di un gruppo musulmano che ha
visitato i feriti all'ospedale e che mi ha chiesto di visitare la chiesa di
Santa Teresa.
"Non
è il tempo di dire se siamo musulmani o cristiani, dobbiamo affrontare il
problema come nigeriani che vivono tutti sotto la minaccia di questa gente. Fra
i morti vi erano pure musulmani. La bomba è esplosa in strada, di fronte alla
chiesa, ed ha colpito non solo i fedeli che uscivano dalla Messa ma anche
passanti comuni. Ho personalmente pregato e benedetto un uomo che è stato
gravemente ferito, mentre si trovava in automobile al momento dell'esplosione. E
questa persona era musulmana" dice l'Arcivescovo di Abuja.
Mons.
Onaiyekan rivela che la Chiesa locale aveva organizzato un servizio di vigilanza
per proteggere i luoghi di culto. "Questi coraggiosi giovani hanno creato
dei posti di controllo alle due entrate della strada che conduce alla chiesa di
Santa Teresa, controllando ogni automobile che passava. L'auto dell'attentatore
ha rifiutato di fermarsi. I ragazzi l'hanno seguita fino di fronte alla facciata
della chiesa, riuscendo a bloccarla. Mentre stavano discutendo con il guidatore,
questi ha fatto esplodere la bomba. Si è quindi trattato di un attentato
suicida. Tra le vittime vi è uno dei nostri giovani della sorveglianza, e
almeno 3 membri delle forze dell'ordine, tra cui un musulmano" ricorda
Mons. Onaiyekan.
"Si tratta di terrorismo che non risparmia nessuno" incalza l'Arcivescovo. "Quando questa gente afferma di volere uno Stato islamico, non si tratta di uno Stato che dà maggiore libertà ai musulmani. Sappiamo cosa intendono per Stato islamico, abbiamo l'esempio della Somalia degli Shabab. Credo che finalmente siamo riusciti a far capire alla stragrande maggioranza dei nostri connazionali musulmani che il terrorismo dei Boko Haram non è solo contro i cristiani. Solo insieme, cristiani e musulmani, possiamo andare lontano" conclude Mons. Onaiyekan. (L.M.)
Cristiani
in fuga dopo le stragi di Natale
Avvenire
- 27 dicembre 2011
Molti
cristiani starebbero scappando dalle città del nord della Nigeria, teatro degli
attacchi del gruppo estremista islamico Boko Haram contro la popolazione
cristiana. È quanto hanno dichiarato alcuni testimoni all'agenzia di stampa
Dpa. "Molte persone stanno scappando da Maiduguri e Yobe", ha
dichiarato Mohammed Bolori, che lavora presso il parcheggio centrale della città
di Maiduguri. "Per la maggior parte sono persone del sud che hanno paura di
altri attacchi, anche se il periodo natalizio è concluso". Secondo i
testimoni, la maggior parte delle persone starebbero scappando dalle città di
Kaduna, Maiduguri and Postiskum.
Intanto
tra ieri e oggi si sono tenuti i funerali delle vittime degli attacchi contro le
chiese cristiane, avvenute il giorno di Natale. Le cerimonie si sono svolte
nella chiesa cattolica di Santa Teresa a Madalla, a 20 chilometri dalla capitale
Abuja, dove almeno 35 persone sono morte a seguito dell'attacco del 25 dicembre.
Ma
la violenza non si ferma: estremisti islamici oggi hanno dato alle fiamme almeno
una trentina di negozi appartenenti a persone della comunità cristiana di
Potiskum, nel nord della Nigeria. Secondo quanto riporta il quotidiano arabo
al-Quds al-Arabi, ieri mentre i terroristi davano alle fiamme i negozi,
centinaia di persone fuggivano per mettersi in salvo.
Sono
stati incendiati anche un grande centro commerciale e l'abitazione di un capo
della locale comunità cristiana. Intanto ieri centinaia di persone hanno
partecipato a una messa nei pressi della chiesa di Madalla colpita da un
attentato, rivendicato dal gruppo Boko Haram, nella giornata di Natale.
Osservatori della Lega Araba a Damasco. Nuovo bagno di sangue a Homs
AsiaNews - Damasco - 27 dicembre 2011
Nella
città vi sarebbero stati bombardamenti e l'uccisione di 30 persone. Un video
mostra cadaveri trucidati. Alcuni osservatori sarebbero ad Homs, ma non hanno
libertà di muoversi.
Un
gruppo di 50 osservatori della Lega araba sono giunti ieri sera in Sira per
verificare la possibilità della fine delle violenze che da nove mesi insanguina
il Paese. Ma proprio ieri sono state diffuse notizie e immagini di nuovi
massacri a Homs, uno dei punti di massima resistenza al regime di Assad.
I
50 osservatori, di cui 10 egiziani, dovrebbero verificare la situazione,
allontanare le forze di sicurezza dalle città, far liberare i civili
imprigionati, fermare le violenze.
Il
Consiglio nazionale siriano - che raggruppa l'opposizione ad Assad e la cui sede
è all'estero - ha dichiarato che alcuni osservatori sono già ad Homs, ma
"non possono andare dove le autorità non vogliono che vadano".
Secondo
l'Onu, i nove mesi di violenze hanno fatto almeno 5 mila morti. Il governo
accusa "bande armate" di uccidere i soldati che vogliono riportare
l'ordine nel Paese. Ma l'opposizione afferma che la maggioranza dei morti sono
civili eliminati dall'esercito per soffocare le rivolte. Le affermazioni da una
parte e dall'altra sono difficili da verificare perché mancano fonti
indipendenti: la maggior parte dei giornalisti stranieri sono stati espulsi
all'inizio delle manifestazioni.
Ieri
l'opposizione ha diffuso un video che mostra bombardamenti di carri armati su
Homs (v. foto), in cui circa 30 persone sono morte. Un altro video si sofferma
sui corpi di quattro giovani e una donna trucidati in un bagno di sangue (VEDI
QUI).
Gli
attivisti accusano il governo di aver trasferito i prigionieri in basi militari
- dove gli osservatori non possono andare - e di aver nascosto i cadaveri dalle
strade e dall'obitorio di Homs. L'agenzia Reuters cita un residente di Homs, il
quale afferma che "la violenza è da entrambe le parti".
Secondo
l'opposizione, la Siria ha accettato gli osservatori della Lega araba - sotto
precise condizioni di controllo - per evitare che il Consiglio di sicurezza Onu
metta a tema una discussione sulla situazione siriana.
Scetticismo
e prime critiche intorno a missione Lega Araba
Misna
- 29 dicembre 2011
Daraa,
Hama e Idlib sono state oggi le aree visitate dagli osservatori della Lega Araba
che stanno proseguendo la loro missione nell'ambito di un piano arabo per
portare a soluzione la crisi in cui la Siria si trova dallo scorso marzo.
Le
visite sono accompagnate da notizie di proteste contro il regime ma anche di
manifestazioni filogovernative. Secondo varie fonti di stampa internazionale,
ieri a Homs gli osservatori hanno potuto assistere ad alcuni scontri, ad azioni
di repressione e hanno potuto constatare la morte di un minore.
Dai
video pubblicati su internet dagli attivisti è possibile vedere la folla che in
alcuni casi circonda gli osservatori chiedendo giustizia, in un altro caso un
presunto osservatore che fugge da un'area di scontri.
Scontri
e repressione che secondo i Comitati di coordinamento locale stanno andando
avanti anche oggi a Idlib, Daraa, Jassem, Homs e in altre località minori.
Difficile verificare se ci siano state vittime, mentre una parte
dell'opposizione comincia a mostrarsi abbastanza scettica dei risultati che
potranno raccogliere gli osservatori e critici delle parole espresse da Mustafa
Al Dabi, il capo della missione della Lega Araba. Due giorni fa, Al Dabi ha
minimizzato i fatti di Homs, attirandosi contestazioni. Forse anche per
rimediare 'diplomaticamente', il generale sudanese è tornato sulla questione
affermando di voler lasciare una squadra di 20 osservatori a Homs.
L'agenzia
di stampa 'Sana' (filogovernativa) ha intanto confermato la liberazione di 755
persone arrestate in connessione con le proteste. La stessa ha sottolineato come
si tratti della quarta iniziativa del genere: 912 prigionieri erano stati
liberati il 30 novembre, 1180 il 15 e 553 il 5, sempre a novembre. [GB]
Bilanci di un anno difficile
Misna - 28 dicembre 2011
Nonostante
uno stato conflittuale permanente che dura da oltre 20 anni, la Somalia può
contare su numerose testate giornalistiche. Un impegno - quello di raccontare i
fatti del paese - che costa molto caro, sottolinea oggi l'Unione nazionale dei
giornalisti somali (Nusoj), secondo cui solo a Mogadiscio nel 2011 sono stati
uccisi quattro cronisti, altri cinque sono stati feriti. A livello nazionale
inoltre 19 giornalisti sono stati arrestati in connessione al loro lavoro e
sette redazioni sono state oggetto di azioni violente.
Se
Mogadiscio è stata la città meno sicura per gli operatori dell'informazione,
subito dopo nella classifica del Nusoj vengono Hargeisa, Bosaso e Galkayo,
ovvero la capitale amministrativa dell'autoproclamato Stato del Somaliland, il
principale centro economico della regione semiautonoma del Puntland, e il
capoluogo della regione di Mudug.
Il
2011 che si sta per chiudere porta in dote una situazione generale perfino
peggiore di quella degli anni precedenti. Nell'ultimo rapporto dell'Ufficio
dell'Onu per il coordinamento degli aiuti umanitari, si fa riferimento a un
aumento dei casi di malaria nel medio e basso Juba, alla persistente presenza di
quattro milioni di persone che vivono nell'insicurezza alimentare, all'assenza
di servizi sanitari di base.
Un
quadro reso ulteriormente cupo dai combattimenti in corso in varie regioni del
paese fra truppe filo-governative e formazioni armate come quella degli Shebab.
Questi
ultimi devono anche affrontare l'offensiva dell'esercito keniano a sud che sta
sostenendo l'avanzata delle forze governative: gli ultimi scontri si sono avuti
nel basso Juba dove oggi almeno dieci ribelli sono stati uccisi; l'aviazione
keniana, riferisce 'Radio Shabelle' ha intanto bombardato posizioni degli Shebab
nella regione meridionale di Gedo.
A
pagare il prezzo più caro di tutto questo è ovviamente la popolazione. Stretta
tra catastrofi naturali - come la siccità di quest'anno - combattimenti e
anarchia, i civili sono costretti alla fuga da un posto all'altro della Somalia
o a trovare rifugio oltreconfine, in uno dei campi profughi allestiti tra Kenya
ed Etiopia, o ancora a provare la strada pericolosa della traversata del golfo
di Aden verso la penisola arabica o quella del deserto verso la 'fortezza'
europea.
Raid aerei e accuse incrociate, tra i due Sudan non c'è pace
Misna - 30 dicembre 2011
Almeno
17 persone, quasi tutte civili, sono state uccise negli Stati del Sud Sudan di
Western Bahr e Ghazal in seguito a un presunto attacco aereo condotto
dall'aviazione del Sudan. Lo riferisce il quotidiano Sudan Tribune sulla base di
fonti governative secondo cui ci sarebbero inoltre diversi i feriti.
Ad
accusare il governo di Khartoum è stato il colonnello Philip Aguer Panyang,
portavoce dell'esercito sud-sudanese secondo cui molte vittime erano allevatori
di bestiame che stavano trasferendo le loro mandrie. I bombardamenti, secondo la
stessa fonte, sono in realtà cominciati due giorni fa e sono proseguiti ieri.
Khartoum
non ha finora risposto alle accuse, ma ha intanto presentato una serie di
reclami a diverse istituzioni internazionali, tra cui il Consiglio di sicurezza
dell'Onu e il Consiglio Pace e sicurezza dell'Unione Africana.
Secondo
l'agenzia di stampa sudanese 'Suna', Khartoum sostiene che circa 350 combattenti
del Movimento per la giustizia e l'uguaglianza (Jem) a bordo di 79 veicoli sono
riusciti ad attraversare il confine tra Darfur e Sud Sudan e a stabilirsi in
un'area del nuovo Stato nato lo scorso luglio dalla separazione dal Sudan. I
sudanesi sostengono inoltre che i combattenti del Jem starebbero utilizzando
strutture sanitarie messe a loro disposizione. Juba ha smentito le accuse di
Khartoum e denunciato a sua volta il sostegno dato da quest'ultima a gruppi
ribelli attivi in Sud Sudan.
La
sovranità sulla regione petrolifera di Abyei e la suddivisione delle rendite
delle esportazioni di greggio sono alcuni dei problemi più difficili da
risolvere tra Sudan e Sud Sudan. Il Sud Sudan è divenuto indipendente a luglio,
dopo un referendum previsto dagli accordi del 2005. Controlla tre quarti dei
giacimenti di petrolio sudanese, ma perché il greggio raggiunga il Mar Rosso e
i mercati internazionali sono indispensabili gli oleodotti che attraversano il
territorio di Khartoum.
L'altra
questione irrisolta, allo stesso tempo politica e militare, sono i conflitti in
due regioni di frontiera tra l'esercito di Khartoum e i combattenti del
Movimento di liberazione popolare del Sudan-Nord (Splm-N), un partito vicino al
governo di Juba.
Khartoum,
rapimenti pianificati di Gianni Ballarini
Nigrizia
- 22 dicembre 2011
Molti
giovani sud-sudanesi vengono sequestrati nelle Università, in strada o anche a
casa loro da milizie nuer e portati in almeno 3 campi di addestramento intorno
alla capitale. Lo scopo è di addestrarli per nuovi conflitti nel Sud contro
l'odiato governo denka di Juba. La denuncia ufficiale del governo sud-sudanese.
Non
solo in Darfur. Ora anche a Khartoum, capitale del Sudan, è esploso il fenomeno
dei rapimenti. Si sospetta per fini politici. Opera, soprattutto, di milizie
nuer, gruppo etnico sud-sudanese, rimaste nel nord perché in profondo
disaccordo con il governo di Juba, considerato il cuore dell'impero denka.
Milizie
che stanno reclutando, spesso con la forza, molti giovani sud-sudanesi per
addestrarli e renderli operativi per possibili nuovi conflitti in Sud Sudan.
Sequestri che avvengono nelle Università, nelle strade, e perfino nelle
abitazioni di alcuni dei 700 mila sud sudanesi (dati Acnur) rimasti nel Nord
anche dopo la proclamazione di indipendenza del Sud (9 luglio 2011).
Attorno
a Khartoum, secondo le prime indiscrezioni, ci sarebbero almeno tre campi di
addestramento utilizzati dagli oppositori di Salva Kiir, il presidente del nuovo
stato.
Sequestrano
persone e anche autoveicoli targati o riconoscibili come appartenenti al Sud
Sudan. Rapiscono anche personale sudista semplicemente per punire chi lavora con
Juba.
È
quello che è successo, ad esempio il fine settimana scorso, quando una vettura
con a bordo un missionario comboniano, un dipendente del Comboni College e la
responsabile dell'insegnamento della religione cattolica nelle scuole
governative, è stata affiancata mentre era diretta a Omdurman.
Dalla
Toyota dai vetri oscurati, che seguiva la vettura sudista, sono usciti alcuni
giovani armati di bastoni che hanno obbligato i tre a scendere dall'auto. Li
hanno condotti in uno dei campi di addestramento, dove sono stati incatenati,
picchiati (soprattutto la donna) e lasciati a dormire per terra. L'obiettivo, in
questo caso, era anche far prendere paura alla direttrice cattolica dei corsi
serali, incaricata, insieme ad altri, di predisporre la nuova ambasciata del Sud
Sudan a Khartoum. Sono stati tenuti segregati per tre giorni. E liberati solo
dietro compenso in denaro.
Queste
azioni avvengono alla luce del sole e si sospetta con l'appoggio o, comunque, la
tolleranza di polizia, security e governo di Khartoum, che trae, come sempre,
giovamento da gruppi che hanno come obiettivo destabilizzare il fragile
equilibrio del neonato stato.
A
denunciare la pratica dei sequestri di giovani sudisti nel Nord è stato anche
monsignor Roko Taban, amministratore apostolico della diocesi di Malakal.
All'agenzia Misna ha citato il caso del figlio del ministro dell'istruzione
dello stato del Nilo Superiore, tornato a Malakal alcuni giorni dopo il
sequestro in circostanze tutte da capire. Anche tre studenti all'Università di
Khartoum sarebbero riusciti a far ritorno a Malakal dopo essere stati tenuti in
ostaggio vari giorni.
E
che la situazione stia diventando esplosiva lo dimostra pure la presa di
posizione del GoSS, il governo del Sud Sudan, che ha convocato ufficialmente,
mercoledì 22 dicembre, un diplomatico nordista a Juba per protestare contro la
pratica dei sequestri di persone e beni del Sud a Khartoum. Si apre così, di
fatto, l'ennesima crisi diplomatica tra i due stati.
Focolai
di tensione che si accendono nei due paesi infuocati dalle continue guerriglie.
Il Nord deve fronteggiare le ribellioni in Sud Kordofan, nel Nilo Azzurro e
nell'incancrenito e irrisolto rebus darfuriano. Il Sud pullula di milizie,
alcune delle quali armate e pagate da Khartoum, che creano morte e disordini.
L'uccisione
nella Contea di Morobo, nello stato dell'Equatoria Centrale, il 19 dicembre
scorso, di George Athor Deng, ex generale dell'Spla passato a combattere Juba
dopo non aver accettato la sua sconfitta a governatore dello stato di Jonglei,
rischia di provocare ulteriori gravi ripercussioni per la stabilità del Sud e
problemi diplomatici coi vicini.
Il
Movimento/Esercito democratico del Sud Sudan (Ssdm/a) ha accusato l'Uganda di
essere la vera responsabile della morte del loro leader Athor e di aver
inscenato la sua morte in Sud Sudan con la complicità del governo locale. Nel
comunicato dell'Ssdm/a si minaccia di ritorsioni l'Uganda.
Contesti
di crisi che vanno a sommarsi a una situazione sociale disastrosa. Le Nazioni
Unite hanno annunciato che il Sudan necessita di oltre un miliardo di dollari
per la realizzazione di progetti umanitari e per la ripresa dell'economia nelle
regioni del Darfur, Nilo Azzurro, Sud Kordofan e nella parte orientale del
paese.
Mentre
il Programma alimentare mondiale dell'Onu (Wfp) ha lanciato l'allarme: oltre 2,5
milioni di persone nel Sud Sudan hanno bisogno di assistenza a causa del mancato
raccolto e dell'instabilità dei mercati.
Guerra.
Fame. Povertà. Le parole più citate da troppo tempo nei vocabolari del Nord e
del Sud Sudan.
Nuova fase della campagna nazionale contro la malnutrizione infantile
Agenzia Fides - Hanoi - 29 dicembre 2011
Il
governo vietnamita chiude il 2011 promuovendo una campagna nazionale contro la
malnutrizione infantile, che prevede la consegna di due litri di latte a 16 mila
bambini bisognosi. Il Ministero del Lavoro, Invalidi di Guerra e Affari Sociali
ha destinato 333 mila dollari come contributo alle iniziative nazionali a favore
della riduzione della fame e della povertà. Secondo le statistiche ufficiali,
un vietnamita su tre con meno di 5 anni di età non ha possibilità di bere
latte. Il mancato consumo di questo alimento è causa dell'alta percentuale di
bambini malnutriti nel paese. La nuova fase della campagna, promossa nel 2008,
inizierà nel mese di gennaio nell'Isola di Ly Son, provincia centrale di Quang
Ngai.