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Anno XII N° 531 25/7/12 |
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A Rio + 20 in Brasile L'evidente tonfo dell'Onu
di Alex Zanotelli*
Repubblica
- 29 giugno 2012
Le
Nazioni Unite hanno dimostrato di essere prigioniere di multinazionali, banche,
Fondo monetario internazionale, Banca mondiale. Benedicono l'economia verde di
mercato a vantaggio della finanza globale. Fondamentale è la capacità della
cittadinanza attiva per organizzarsi dal basso a livello locale, regionale,
nazionale e internazionale
I
movimenti e le organizzazioni popolari, che per oltre una settimana hanno
discusso di giustizia sociale e ambientale, hanno chiuso la Cupula dos Povos
(assemblea dei popoli) di Rio de Janeiro con la lettura della dichiarazione
finale in difesa dei beni comuni e contro la mercantilizzazione della vita.
Un
incontro inutile. Questa stessa dichiarazione è stata immediatamente portata al
segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon nella sede della riunione
ufficiale Onu Rio+20, dove, dal 20 al 22 giugno, i capi di stato e di governo di
tutto il mondo hanno tentato di trovare una soluzione alla grave crisi economica
che ci attanaglia. L'incontro con il segretario Onu non ha portato a nessun
risultato, come non era difficile prevedere. Infatti, sappiamo da fonti sicure
che la stessa Cupula dos Povos si era spaccata sull'opportunità o meno di
dialogare con le istituzioni. Un gruppo è comunque andato e si è ritrovato con
nulla in mano.
L'ONU
prigioniera di banche e multinazionali. Anche se non è ancora stato pubblicato
un documento ufficiale finale di Rio+20, appare chiaro non solo il fallimento
del vertice Onu ma soprattutto è di tutta evidenza che le Nazioni Unite sono
prigioniere delle multinazionali, delle banche, del Fondo monetario
internazionale, della Banca mondiale, dell'Organizzazione mondiale del
commercio. Di fatto l'Onu benedice l'economia verde di mercato a vantaggio del
grande business e della finanza globale.
Il
fallimento della politica. Siamo di fronte al fallimento dell'Onu, su cui la
società civile aveva riposto tante speranze, e all'incapacità di stati e
governi di dare una risposta alla gravissima crisi ecologica. In definitiva è
il fallimento della politica. Ecco perché diventa fondamentale la capacità
della cittadinanza attiva di organizzarsi a livello locale, regionale, nazionale
e internazionale, come ha fatto la Cupola dos Povos e come dovremo fare al Forum
sociale mondiale di Tunisi, che si terrà nel marzo del 2013.
Dall'alto
non c'è più nulla da sperare. La speranza potrà nascere solo dal basso,
tramite un'informazione seria e una forte coscientizzazione, che devono portare
i cittadini ad organizzarsi come nuovi soggetti politici. È quanto chiede
l'appello finale della Cupula dos Povos: "Ritorniamo nei nostri territori,
regioni e paesi per costruire le convergenze necessarie per continuare la lotta,
resistendo al sistema capitalista e alle sue vecchie e nuove
manifestazioni".
Questo
però non basta. Se non si lavora seriamente dal basso per fare nascere un nuovo
modello sociale ed economico alternativo a quello attuale. Che è entrato in una
nuova fase di appropriazione e di finanziarizzazione dei beni comuni (acqua,
aria, energia, terra) e che sta mettendo con le spalle al muro ogni forma di
democrazia. Come missionari comboniani, riuniti a Rio nel contesto della Cupula
dos Povos, stiamo affrontando proprio in questi giorni questi stessi temi perché
sono centrali per la missione oggi.
*Padre Alex Zanotelli (sacerdote comboniano) direttore di Nigrizia
punto di
riferimento nella cultura della mondialità e per i diritti dei popoli. Dalle
sue pagine si lanciano critiche documentate al commercio delle armi, agli
interessi dell'Italia e dei paesi occidentali nelle guerre africane, ai modelli
di collaborazione allo sviluppo, spesso gestite in modo affaristico e
lottizzato, all'apartheid in Sud Africa.
Rio+20
e lo sviluppo sostenibile secondo i comboniani
Misna - 2 luglio 2012
"La
promozione della Pace, Riconciliazione e Giustizia Sociale e Ambientale è una
dimensione essenziale della missione. Gradualmente, prendiamo coscienza della
particolare urgenza della questione ecologica e della conseguente necessità di
includerla fra le nostre priorità di azione apostolica". Lo scrivono i
missionari comboniani e comboniane riuniti nei giorni scorsi a Rio de Janeiro,
in Brasile, mettendo l'accento sul patrimonio naturalistico del pianeta e su una
Terra "minacciata più che mai, oggetto di avidità, manipolazione e
tirannia, violentata e schiavizzata per servire interessi vili e meschini"
Sottolineando
come il grido dei poveri "che si alza un po' ovunque, è anche il grido
della Terra che reclama rispetto e giustizia", missionari provenienti da
tre continenti si sono ritrovati in occasione della Conferenza Rio+20 e del
Vertice dei Popoli che nella metropoli brasiliana tra il 20 e il 25 giugno hanno
approfondito le tematiche sullo sviluppo sostenibile del pianeta.
"Al
di là dell'insuccesso della conferenza ufficiale - dicono i missionari -
sentiamo profondamente la presenza di Dio nell'intera creazione e nelle lotte
del popolo in difesa di questa". Ecco perché sono stati individuati alcuni
temi su cui già adesso i missionari intendono riflettere e lavorare: i
conflitti della terra e l'accaparramento (Landgrabbing), lo sfruttamento delle
risorse minerarie, la privatizzazione dell'acqua e i conflitti che ne derivano.
Sebbene,
come sottolineano gli stessi comboniani, il vertice di Rio non abbia portato a
risultati apprezzabili, i temi in esso affrontati restano di capitale importanza
per il futuro del pianeta. La più grande conferenza della storia delle Nazioni
Unite si è chiusa con molti proclami ma poca concretezza. Se per il segretario
generale di Rio+20, Sha Zukang, i propositi elencati nel discusso documento
finale dimostrano l'impegno dei paesi firmatari "all'azione", di
tutt'altro tenore è stata la dichiarazione conclusiva del Vertice dei Popoli
che ha fatto da contraltare al summit ufficiale, portando nelle strade di Rio de
Janeiro migliaia di persone.
Sha
Zukang ha parlato di "un grande successo", il Vertice dei Popoli, dopo
dieci giorni di intensi dibattiti, ha risposto affermando che Rio+20 ha
costituito piuttosto "un passo indietro significativo rispetto ai diritti
umani già riconosciuti" ripetendo "il ritornello delle false
soluzioni difese dagli stessi attori che hanno provocato la crisi globale".
"Nella
misura in cui la crisi si aggrava - è stato il punto finale del Vertice dei
Popoli - le multinazionali procedono contro i diritti dei popoli, la democrazia
e la natura, sequestrando i beni comuni dell'umanità per salvare il sistema
economico-finanziario".
A
New York un mese di discussioni su trattato armi
Misna
- 2 luglio 2012
Si
apre oggi a New York, negli Stati Uniti, la Conferenza per il Trattato sul
commercio di armamenti (Att, Arms trade treaty). L'iniziativa si inserisce nel
solco di continue spinte della società civile internazionale che nel 2000 ha
adottato la prima bozza di una Convenzione Quadro. Nel 2003, a seguito di
un'incisiva campagna internazionale (Control arms) oltre un milione di persone
in più di 170 paesi hanno chiesto l'adozione di un Trattato per regolamentare
gli illeciti trasferimenti di armi. Il vertice di New York costituisce dunque
l'ultimo appuntamento in ordine di tempo e dovrebbe portare alla formulazione di
un documento. Una volta approvato l'Att porterebbe all'adozione di standard
riconosciuti a livello internazionale nell'ambito del commercio delle rami
"Sappiamo
che ci sono non solo difficoltà a definire chiaramente cosa siano i materiali
d'armamento - dice Maurizio Simoncelli, vicepresidente dell'Istituto di ricerche
internazionali Archivio Disarmo - ma anche l'esistenza di forti resistenze sia
nel collegare l'Att alla tutela dei diritti umani sia su eventuali limitazioni
che possano toccare aspetti economici o legati alla legittima difesa degli
Stati. Il rischio è che spetterà a questi ultimi decidere se lavorare per un
Att rigido e più difficile da negoziare o uno più flessibile e aggiornabile
nel tempo".
La
Conferenza, promossa dalle Nazioni Unite, si concluderà il 27 luglio. I timori
della società civile riguardano in particolare le posizioni delle grandi
potenze industriali che sono anche i maggiori esportatori di armi.
Armi,
12 miliardi di proiettili e 1.500 morti al giorno di Livia Ermini
Repubblica
- 3 luglio 2012
L'impatto
della produzione bellica (incontrollata) sulle persone. Amnesty International :
ogni anno 26 milioni di persone sono costrette a lasciare tutto a causa di un
conflitto armato. Il 74% della produzione totale è nelle mani di soli 6 paesi:
Cina, Germania, Francia, Regno Unito, Russia e Stati Uniti. La maggior parte
delle vittime sono civili
Primo
giorno a New York per la Conferenza Internazionale Onu incaricata di negoziare
un trattato sul commercio di armi nel mondo. I delegati, in una sessione che
durerà fino al 27 luglio, dovranno cercare l'accordo su una materia
delicatissima che frutta ben 60 miliardi di dollari l'anno. Milioni di persone
soffrono infatti a causa delle conseguenze dirette o indirette della vendita di
armamenti da parte di Stati e organizzazioni malavitose. Secondo i dati
elaborati da Amnesty International 2i morti sono oltre 1.500 al giorno, 12
miliardi le pallottole prodotte ogni anno, mentre 26 milioni le persone
costrette a lasciare la propria casa a causa di un conflitto armato. Di più: il
74% della produzione totale di ordigni bellici si deve a soli sono 6 paesi:
Cina, Germania, Francia, Regno Unito, Russia e Stati Uniti. La maggior parte
delle vittime dei conflitti è costituita da civili.
Si regola tutto, anche le ossa di dinosauri. Numeri spaventosi a cui si cerca di porre un freno dal momento che, ad oggi, non esiste nulla che regolamenti il settore, mentre esistono regole per il commercio di banane, di acqua in bottiglia, e persino di ossa di dinosauro. Ma i fronti contrapposti hanno già fatto sentire la loro voce alla vigilia dell'apertura. |
La Gran Bretagna farà
pressione sugli Stati Uniti perché accettino l'inclusione di una clausola che
riguardi il rispetto dei diritti umani e il divieto di vendita verso Paesi in
cui questi siano minacciati.
I
punti di contrasto sul Trattato. La bozza di Trattato esistente infatti
stabilisce il divieto di approvare forniture belliche in Paesi dove "esiste
un rischio sostanziale della violazione di diritti umani" (che per esempio
impedirebbe alla Russia di fornire armi alla Siria), ma Washington vorrebbe
cambiare il testo in modo che i singoli governi debbano solo "prendere in
considerazione" fattori quali i diritti umani prima di autorizzare una
vendita. Inoltre, gli Usa ritengono troppo difficile inserire all'interno
dell'accordo una regolamentazione sulle munizioni: al contrario, le Ong
sottolineano come senza queste clausole qualsiasi Trattato risulterebbe
inefficace.
In
pericolo posti di lavoro. In fondo però quella delle armi è una delle
principali voci di bilancio di certe economie e fonte di occupazione, come
ammette la stessa Unione Europea che "riconosce il contributo che
l'industria degli armamenti armi fornisce alla creazione di posti di lavoro e
alla crescita economica".
Il
problema della tracciabilità. La Ue, prendendo atto che il valore delle
esportazioni mondiali ha continuato a crescere nonostante la crisi economica e
finanziaria e gli Stati membri rappresentano il 30% di tutte le esportazioni, ha
sottolineato, tra gli altri punti, che "occorre accordare la debita
attenzione alla marcatura e alla tracciabilità delle armi e delle munizioni
convenzionali al fine di rafforzare la responsabilità e prevenire il
dirottamento dei trasferimenti di armi verso destinatari illegali". A causa
della globalizzazione, infatti, il flusso di armamenti che viene trasferito
nelle varie parti del mondo oggi è difficilmente controllabile. Carichi di
armi, formalmente legali finiscono per deviare la loro destinazione verso
utilizzatori finali non autorizzati e "paesi canaglia".
Grano,
nuovo raid degli speculatori di Giorgio Bernardelli
MissiOnLine
- 6 luglio 2012
Siccità
nel MidWest? In un mese il future sul mais schizza alle stelle. Confermando come
la lezione del 2008 non sia servita a nulla
Puntuali
ci risiamo: scatta l'allarme su un raccolto e gli speculatori finanziari si
scatenano. Con conseguenze che potrebbero essere devastanti sul diritto al cibo
per milioni di persone nel mondo. Lo so, ne abbiamo già parlato tante volte.
Eppure continua a succedere. E questa volta in una maniera ancora più
scandalosa che nel 2008, l'anno della crisi alimentare che portò per la prima
volta il numero degli affamati nel mondo a superare quota 1 miliardo di persone.
Che
cosa sta succedendo? Da qualche giorno è scattato un allarme siccità nel
MidWest, la regione degli Stati Uniti dove si concentra la produzione di grano.
Se in luglio non arriveranno le piogge c'è il timore che le piante di mais che
stanno germogliando ora diano una resa molto inferiore alle aspettative nel
raccolto di dicembre (tra l'altro pare che anche quelle geneticamente modificate
per resistere alla siccità non stiano dando i risultati sperati). Qual è il
risultato? Che alla borsa di Chicago - il mercato di riferimento a livello
mondiale per il prezzo del mais - le quotazioni dei contratti futures sul mais
sono improvvisamente schizzate in alto. Per la precisione molto in alto. Oggi
stanno viaggiando intorno ai 7,06 dollari al bushel (l'unità di misura
utilizzata per i cereali negli Stati Uniti). Per dare l'idea: esattamente un
mese fa, il 6 giugno 2012, quegli stessi futures venivano quotati 5,19 dollari
al bushel. Vuole dire che il valore di quel titolo in un mese è aumentato di
circa il 36%. Ma c'è di più: il massimo storico toccato dalle quotazioni del
mais, il 27 giugno 2008, fu 7,99 dollari al bushel. Ma ci si arrivò
progressivamente con una corsa al rialzo durata mesi. Ora invece ci stiamo
arrivando in una manciata di giorni.
Il
fenomeno è talmente repentino che proprio ieri la Fao ha diffuso il dato di
giugno del suo Food Price Index, l'indice sui prezzi dei generi alimentari. E
paradossalmente nei dati della Fao l'indice (che non comprende solo il mais) è
dato leggermente in diminuzione, dal momento che l'impennata è iniziata solo a
metà mese e quindi gli effetti nella rilevazione sono attenuati. Ma tutto
lascia pensare che quando fra un mese ci saranno i dati di luglio scatterà
l'allarme, anche perché nel frattempo anche le quotazioni del frumento stanno
salendo (mentre fortunatamente restano stabili quelle del riso, il terzo cereale
essenziale nella dieta di base della stragrande maggioranza della popolazione
mondiale, e che guarda caso tra i tre è quello meno influenzato dalle dinamiche
della finanza).
Ora:
possiamo girarci intorno finché si vuole, ma non esiste uno scompenso tra
domanda e offerta di mais che giustifichi in un mese un aumento di una
quotazione del 36%. Qui siamo senza ombra di dubbio di fronte a un fenomeno
speculativo. E a confermarlo sono anche i dati sui volumi degli scambi del
titolo in questi giorni. Nonostante tutti i discorsi, dunque, si continua a
speculare senza troppi scrupoli su un alimento come il mais. E in questo modo il
problema reale che sta alla radice - la siccità - diventa molto più grande
della sua portata reale.
Oggi
c'è un articolo sul sito del Wall Street Journal, molto interessante a questo
proposito.
Interrogandosi
sull'impennata delle quotazioni dei cereali il quotidiano dà voce agli analisti
finanziari specializzati su questi mercati e il quadro che ne emerge è
inquietante. Il succo infatti è: ci sono dati ufficiali dell'Usda (il
dipartimento per l'Agricoltura del governo degli Stati Uniti) che dicono che la
situazione non è così allarmante, ma noi sappiamo che non è così. Ora: di
questo fenomeno delle previsioni "indipendenti" sui raccolti parlavamo
già quasi un anno fa in questo articolo
Altro
capitolo: dove si specula? Ovviamente non solo lontano. Puntualissimo anche il
nostro solito Etfs Corn, il titolo legato al mais quotato sulla piattaforma
telematica della Borsa di Milano è schizzato alle stelle. Anche qui il
rendimento garantito nell'ultimo mese è stato del 37%. E nella sola giornata di
ieri - 5 luglio 2012 - ha fatto registrare scambi per un controvalore di
1.100.000 euro. Tanto per dire chiaramente che la speculazione sul cibo non si
fa solo a Chicago, ma anche qui in Italia.
Tutto
questo rilancia l'importanza della campagna "Sulla fame non si
specula", lanciata a Milano nella primavera del 2011 e a cui MissiOnLine ha
aderito fin dal principio. Una campagna che chiede l'adozione di regole certe
che mettano fine a questo scandalo e che sta preparando per il prossimo autunno
nuove iniziative. Vi terremo informati.
Il
mondo in crescita incatena ancora milioni di persone
Avvenire
- 5 luglio 2012
Sono
gli schiavi del terzo millennio. Ma nessuno sa effettivamente quanti siano:
esistono solo delle stime. Secondo l'Organizzazione internazionale del lavoro
dell'Onu, in tutto il mondo sono 12,3 milioni; il doppio secondo un recente
rapporto del Dipartimento di Stato americano. E tra loro quasi tre milioni sono
vittime dirette della tratta: ostaggi di trafficanti che, in cambio del
passaggio verso l'"Eldorado" dell'Occidente, di fatto li tengono in
ostaggio per anni incassando interessi altissimi sulle rate per pagare il
viaggio. Sono vittime della povertà, delle discriminazioni anche per fede,
colpevoli spesso solo di essere "minoranza". In tutto il Pianeta le
legislazioni (almeno di principio ) combattono la schiavitù, ma di fatto il
numero di questi "invisibili" è in crescita, soprattutto in questi
tempi di crisi economica globale. Metà del totale degli schiavi è concentrato
in Asia, una buona parte in Africa e America Latina; ma anche nel Medio Oriente
e persino nella ricca Europa e negli Stati Uniti. Al loro fianco ci sono da
tempo Organizzazioni non governative, enti religiosi, e agenzie delle Nazioni
Unite. Si calcola però che l'assistenza e il successivo "riscatto"
possano coprire non oltre un decimo dell'intero fenomeno.
TRATTA
E LAVORO FORZATO: I VOLTI MODERNI DI UNA PRATICA ANTICA
È
vietata dalla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948 e dalla
Convenzione Onu del 1956. Eppure la schiavitù esiste tuttora. Certo, forme e
modalità sono cambiate rispetto al passato. L'orrore è identico. Attualmente
si riconoscono varie forme di "schiavitù moderna". Quella per debito:
le persone vengono indotte, a volte con l'inganno, a chiedere un prestito. In
cambio, sono costretti a lavorare, in condizioni disumane. Non guadagnano,
dunque, non potranno mai restituire il denaro chiesto. La schiavitù può anche
assumere la forma del lavoro forzato, ovvero gruppi di cittadini costretti con
la violenza a svolgere determinate mansioni da regimi o bande armate. Schiavi
sono pure i minori costretti dalla miseria ad accettare occupazioni malpagate. O
gli esseri umani - donne, uomini, bimbi - vittime di tratta: venduti e comprati
come mercie spesso sono obbligati a prostituirsi dai "padroni".
Onu:
diminuisce la povertà nel mondo ma non la fame
Radiovaticana
- 5 luglio 2012
La
povertà diminuisce nel mondo, ma la fame sembra aumentare: è il bilancio
apparentemente contraddittorio che emerge dal Rapporto Onu sugli Obiettivi del
Millennio pubblicato in questi giorni. Secondo lo studio, il numero delle
persone che vivono in condizioni di estrema povertà è stato ridotto della metà
dal 1990. Dimezzata anche la percentuale di popolazione priva di accesso
all'acqua potabile, mentre si registra un miglioramento significativo della vita
di almeno 100 milioni di abitanti delle baraccopoli. Su questi dati Luca Collodi
ha raccolto il commento dell’economista Riccardo Moro:
R.
- Il punto è capire che cos’è la povertà. La povertà è un concetto non
facile da definire. Il modo più semplice per definirlo è “la mancanza di
denaro”. In realtà ci siamo abituati, in tanti anni di riflessione intorno a
questo tema, a riconoscere in questo concetto di povertà, una sorta di
multidimensionalità, nel senso che non è solo una questione di denaro, ma è
anche una questione di poter accedere ad opportunità, di poter sviluppare i
propri talenti. E gli indicatori di povertà, sono diventati sempre più
complessi. In questo rapporto effettivamente si vede come con un criterio
economico-finanziario, vale a dire, verificando la percentuale della popolazione
che vive con meno un 1,25 dollari al giorno - la soglia di povertà assoluta-,
la quota della popolazione mondiale che vive in questa condizione è
effettivamente diminuita. E allora questo è un segnale positivo. Dopo di che
purtroppo, nello stesso rapporto si dice che viceversa altri elementi sono
ancora presenti in termini di fatica e di difficoltà.
D.
- Se da un lato diminuisce la povertà, però sembra invece aumentare la fame
nel mondo; due dati in contrasto tra loro ..
R.
- In realtà non sono così in contrasto, perché nel momento in cui noi usiamo
come misura il parametro di 1.25 dollari al giorno come reddito disponibile per
poter vivere, ed usiamo questa cifra misurata nel 1990, anche oggi, noi vediamo
che certamente c’è molta più gente che dispone di 1,25 dollari al giorno, ma
i costi delle cose che ci occorrono sono notevolmente aumentati. Quello che noi
possiamo pagare oggi con 1,25 dollari è meno di quello che si poteva pagare nel
1990, l’anno considerato di partenza. Per cui, è certamente vero che oggi ci
sono molte più persone che hanno 1,25 dollari rispetto al passato, ma questo
non significa che questa sia una condizione migliore.
D.
- Questa apparente diminuzione della povertà, è legata anche all’aumento
delle attività dell’economia dei Paesi emergenti?
R.
- Sì, certamente, in modo particolare per la Cina; su questo non c’è dubbio.
La Cina ha avuto uno sviluppo molto consistente dal punto di vista economico
negli ultimi anni. Oltre a questo c’è un fenomeno che sta interessando
l’America Latina e in modo particolare il Brasile, ma non solo. Un po’
dappertutto, c’è una sorta di ingresso nell’economia formale, di una parte
rilevante di popolazione, che esce dalla condizione di informalità. In molti
Paesi, sono in atto dei processi per poter registrare anche questa dimensione
dell’economia, e questo fa registrare un miglioramento delle economie.
A investire sono le potenze emergenti
Misna - 6 luglio 2012
Gli
investimenti stranieri diretti provenienti dai paesi emergenti hanno superato
quelli delle potenze tradizionali dell’Europa e del Nord America: a calcolarlo
è un rapporto sull’economia dell’Africa pubblicato dalla Conferenza delle
Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo (Unctad).
Secondo
lo studio, relativo al 2011, se si considerano i “nuovi progetti” a guidare
la classifica degli investitori stranieri sono Cina, India, Sudafrica, Corea del
Sud e Isole Mauritius.
Nel
2011 gli investimenti stranieri diretti sarebbero calati lievemente rispetto
all’anno precedente, passando da 43 miliardi e 100 milioni a 42 miliardi e 700
milioni di dollari. Secondo Unctad, a pesare negativamente sono state le
conseguenze dei rivolgimenti sociali e politici in Nord Africa, in particolare
in Egitto e Libia. A nord del Sahara gli investimenti stranieri diretti si
sarebbero infatti dimezzati, riducendosi a sette miliardi e 700 milioni di
dollari.
Molto
differente la situazione negli altri paesi del continente, dove gli investimenti
sarebbero cresciuti del 25% toccando quota 36 miliardi e 900 milioni, solo 400
milioni in meno del record fissato nel 2008 prima che scoppiasse la crisi dei
mutui americani “ad alto rischio”.
Positive
sono anche le previsioni per il futuro. Secondo Unctad, “una crescita
economica più forte, l’attuazione di riforme e un aumento dei prezzi delle
materie prime esportate” potrebbero spingere gli investimenti stranieri
diretti fino a 75 o 100 miliardi di dollari entro il 2014.
A
far particolarmente bene potrebbero essere Ghana e Mozambico, paesi dove è
cominciata l’estrazione di greggio o sono stati scoperti importanti giacimenti
di idrocarburi. La Nigeria, la prima potenza petrolifera dell’area
sub-sahariana, nel 2011 ha ricevuto da sola un quinto del totale degli
investimenti stranieri diretti dell’intero continente.
I
danni del "Protocollo di Maputo" sulle donne e sulle società africane
Agenzia Fides
- Maputo - 7 luglio 2012
Sei
milioni di aborti solo nel 2011; ampia diffusione di pratiche come la
sterilizzazione delle donne; ricorso sistematico alla contraccezione e a metodi
di controllo delle nascite, che promuovono un programma di radicale
trasformazione delle società africane, orientandole verso le ideologie
distruttive della vita umana: sono i danni e le ferite provocate dal
"Protocollo di Maputo", approvato nel luglio 2003, dall'Assemblea
dell'Unione Africana a Maputo, in Mozambico. Lo dice, in una nota inviata
all'Agenzia Fides, p. Shenan J. Boquet, Presidente dell'Ong "Human Life
International" (HLI), impegnata in tutto il mondo in difesa della vita
nascente. "Si tratta di una anniversario da ricordare ma non da
celebrare", afferma il presidente di HLI. Il documento, il cui titolo
originale è "Protocollo della Carta africana sui diritti dell'uomo e dei
popoli sui diritti delle donne in Africa", "ha messo in moto una
agenda che ha radicalmente influenzato il continente africano, incoraggiando i
gruppi di controllo della popolazione in Africa", nota p. Boquet. "I
sostenitori del Protocollo di Maputo vogliono farci credere che l'obiettivo
primario del loro documento è la mutilazione genitale femminile (MGF), un
crimine efferato che viola la dignità delle donne e colpisce quasi due milioni
di donne africane ogni anno", spiega. Tuttavia, la MGF è menzionata solo
una volta nel documento, che si concentra perlopiù su temi come la
legalizzazione dell'aborto, la contraccezione e la sterilizzazione. "Il
documento - prosegue - promuove un cambiamento della famiglia tradizionale
chiedendo l'eliminazione della discriminazione nei confronti delle donne, che è
sempre ingiusta e immorale. Tuttavia l'uso di questo termine all'interno del
protocollo è destinato a promuovere il libero esercizio dei diritti sessuali
delle donne, vale a dire la libertà di cercare un aborto, contraccezione e
sterilizzazione". Il Protocollo chiede il libero uso e la distribuzione di
contraccettivi abortivi e stabilisce che gli stati africani adottino "nuovi
metodi pedagogici per modificare i modelli sociali e culturali di comportamento
di donne e uomini". "E' il tentativo radicale di ridisegnare e
riorientare le menti e le vite di milioni di persone, con una propaganda di
morte che distrugge il fondamento stesso di una società e mette in discussione
la sua esistenza futura", scrive p. Boquet. "Tali politiche provocano
il crollo della famiglia, la crescita del numero degli orfani, delle famiglie
senza padre e della promiscuità. La mentalità contraccettiva e abortiva,
legalizzata e approvata dal Protocollo di Maputo, non porterà ad un minor
numero di aborti, come i suoi sostenitori vorrebbero farci credere, ma molti più
aborti", ammonisce il presidente di HLI. Infatti, secondo le stesse
associazioni che promuovono il controllo della popolazione come "Planned
Parenthood", il numero degli aborti in realtà è cresciuto in Africa tra
il 2003 e il 2008.
HLI,
che opera in diverse nazioni africane, continuerà a difendere la vita e a
diffondere una "cultura del rispetto della vita, secondo i valori
cristiani", conclude.
Fame,
ora tocca al Sahel di Giulio Albanese
Popoli
e Missione - maggio 2012
L'anno
scorso l'emergenza umanitaria riguardava soprattutto il Corno d'Africa.
Quest'anno si aggiunge il Sahel. Ma gli aiuti d'emergenza in Mali, Niger, Ciad,
Burkina Faso, Mauritania e Senegal non devono essere una sorta d'espediente per
rinviare sine die la soluzione strutturale dei problemi. La crisi del Sahel
(venuta alla ribalta in seguito alla secessione del nord del Mali) è scatenata
anche dai prezzi elevati delle derrate alimentari, a seguito della crescente
speculazione sulle materie prime. Ma affrontare questi nodi non conviene a
nessuno.
Mentre
il mondo occidentale è sempre più alle prese con le conseguenze della crisi
sistemica dei mercati, in Africa prosegue il cinico carosello delle carestie.
Mentre lo scorso anno l'emergenza riguardava il Corno d'Africa, in queste
settimane sta prepotentemente venendo alla ribalta
Come
al solito, la Fao ha lanciato l'ennesimo appello, diramato lo scorso 15 marzo,
per la raccolta di fondi addizionali con l'intento di scongiurare una crisi
alimentare che a breve potrebbe colpire in maniera devastante, soprattutto la
fascia saheliana dell'Africa occidentale.
L'obiettivo
minimo sarebbe quello di racimolare almeno 70 milioni di euro, con i quali
assistere 790mila famiglie di agricoltori e allevatori, peraltro ripetutamente
colpite dalla carestia negli ultimi anni. Secondo gli esperti della Fao,
sarebbero almeno 15 milioni le persone a rischio nel Sahel, così distribuiti:
5,4 milioni di persone (35% della popolazione) in Niger, 3 milioni (20%) nel
Mali, 1,7 (10%) in Burkina Faso, 3,6 milioni (28%) nel Ciad, 850mila (6%) in
Senegal, 713mila (37%) in Gambia e 700mila (22%) in Mauritania.
È
chiaro comunque che servono molti più fondi, non foss'altro perché
verosimilmente con l'andare del tempo la crisi aumenterà. Secondo l'Onu
servirebbero almeno 724 milioni di dollari per affrontare i bisogni attuali. A
parte l'irregolarità delle piogge, la crisi è stata scatenata anche dai prezzi
alimentari elevati a seguito della crescente speculazione sulle materie prime
alimentari, e dall'accesa conflittualità che attanaglia la regione.
Per
intenderci stiamo parlando del Mali settentrionale dove i Tuareg del Movimento
Nazionale per la Liberazione dell'Azawad (Mnla) - approfittando anche del clima
politico di incertezza acuito dal colpo di Stato militare del 22 marzo scorso,
sostanzialmente fallito - hanno
Si
preannuncia, dunque, a livello regionale, una stagione della fame che di fatto
sta già mettendo in ginocchio la stremata popolazione civile. Basti pensare che
da quelle parti i prezzi sono lievitati mediamente dal 25 al 50% nel corso degli
ultimi cinque anni e che potrebbero crescere ulteriormente di un altro 25-30%
nel periodo in cui la crisi alimentare toccherà il suo apice nei mesi di luglio
e agosto, esponendo alla miseria, in
Si
ritiene infatti che a seguito dell'emergenza saheliana, nei prossimi sei mesi,
più di un milione di bambini dovranno essere inseriti in centri nutrizionali
perché colpiti da inedia acuta e grave. In condizioni peggiori, il numero
potrebbe arrivare ad un milione e mezzo. Lungi da ogni valutazione ideologica,
vengono alla mente di chi scrive, le parole che nel lontano 1944 Jean-Paul
Harroy, governatore belga in terra ruandese, scriveva ai tempi del colonialismo:
"Africa, terra che muore". E alla fine degli anni Settanta René
Dumont, agronomo di fama mondiale, rincarava la dose stigmatizzando il cronico
dramma dei Paesi del Sahel, la cui ciclica carestia provocava già allora
"dei sussulti d'interesse, fortemente equivoci". E sì, perché 40
anni anni fa si versavano come oggi fiumi d'inchiostro per denunciare le solite
emergenze alimentari che, com'è noto, fanno disastri a dismisura. D'altronde,
le condizioni naturali, soprattutto climatiche, hanno sempre creato problemi a
quelle latitudini anche se il fenomeno, con la fine del colonialismo, si è
notevolmente acuito. Sempre Dumont, in un celebre libro pubblicato nel 1980 dal
titolo più che emblematico, L'Afrique étranglée ("L'Africa
strangolata"), scriveva che "mentre il Sahara avanza dappertutto, al
Nord e al Sud, i Paesi ricchi continuano ad importare l'arachide e il cotone
grezzo, le cui coltivazioni rovinano i terreni, e ad esportare prodotti
industriali, macchine e surplus di cereali. E affluiscono con tutte le spese
relative, tutti gli esperti, commissioni, agenzie internazionali, con le valigie
colme di talismani, gadget... e altro fumo negli occhi". Dumont ce l'aveva
in particolare sia con le burocrazie della fame che "vivono alle spalle del
Terzo Mondo e per esse la fine del sottosviluppo significherebbe
disoccupazione", sia con le borghesie africane che "hanno preso gusto
al potere e vi si aggrappano preoccupate solamente di garantire la loro
permanenza...". Purtroppo, nonostante l'umanità abbia varcato la soglia
del Terzo millennio, il copione è sempre più o meno lo stesso.
Ma
a pensarci bene, il problema va ben al di là dell'emergenza e chiama in causa
una visione alquanto paternalistica degli aiuti umanitari per cui s'interviene
sempre quando è ormai troppo tardi. Inoltre occorre riconoscere che le
emergenze di cui sopra sono direttamente proporzionali al prosciugamento delle
casse preposte al finanziamento dei progetti che dovrebbero quanto meno
alleviare, se non addirittura prevenire, simili sciagure. Proviamo, allora, a
tornare indietro nel tempo cercando di comprendere come potevano nel passato
sopravvivere le popolazioni del Sahel, visto che, stando agli esperti, le siccità
affondano le radici in tempi immemorabili. "Lo si sapeva - scrive Dumont -
quindi lo si prevedeva e, nelle buone annate, si riempivano i granai di piccolo
miglio e più a sud, in terre argillose, di grosso miglio, il sorgo".
Ecco
perché, suggeriva l'agronomo francese, "occorre ricominciare come nei
tempi antichi, prima della colonizzazione, a formare delle scorte alimentari
oppure dei granai collettivi, al posto delle cooperative imposte e controllate
dalle autorità, e da cui traggono vantaggio soprattutto i loro
dirigenti...". Insomma, Dumont suggeriva saggiamente di ricreare
raggruppamenti economici, sociali e politici, diretti dalle classi rurali,
capaci di opporsi in modo non violento all'ingordigia delle oligarchie locali.
D'altronde, non è un caso se nella crisi che attanaglia il Mali settentrionale,
oltre alle tragiche vicende che riguardano il popolo Tuareg, vi è un mix
d'interessi legati allo sfruttamento del petrolio e dell'uranio. In sostanza,
fin quando parleremo di emergenze, anziché delle premesse allo sviluppo, saremo
sempre alle prese con queste cicliche mattanze. Secondo il sociologo ivoriano
Assouman Yao Honoré, all'origine di questi fenomeni devastanti che affliggono
l'Africa, come fame e siccità, miseria e sottosviluppo, risiedono fattori
reversibili, legati in gran parte alle responsabilità e dunque all'azione di
specifici soggetti umani.
Si
tratta pertanto d'invertire la rotta, sostiene Assouman, mobilitando risorse
intellettuali e materiali, nella consapevolezza che abbiamo un destino comune.
In
effetti, gli aiuti d'emergenza dovrebbero rimanere una soluzione temporanea,
all'unico scopo di consentire ad una popolazione di sopravvivere ad una
determinata situazione di crisi, mentre quasi sempre si traducono in una sorta
d'espediente per rinviare la soluzione strutturale del problema. Se da una parte
occorre vigilare sulle deviazioni, (quali ad esempio l'arrivo spesso tardivo o
non confacente degli aiuti ai bisogni, la loro distribuzione male organizzata o
distorta dall'intervento di fattori politici, etnici o clientelari, di furti,
corruzione, che impediscono alle derrate di giungere ai più indigenti);
dall'altra s'impone un salto di qualità nelle forme d'intervento. Come?
Investendo, per esempio, risorse nella prevenzione di queste calamità. Gli
aiuti, a pensarci bene, dovrebbero, in primo luogo, contribuire a liberare le
popolazioni dalla loro dipendenza. A tal fine, non possono prescindere da
progetti che mirino a premunire le popolazioni esposte a possibili future
penurie alimentari.
Solo
così gli aiuti di emergenza - potenziando la concertazione tra i vari partner
della catena: Stati, autorità locali, organismi non governativi e associazioni
ecclesiali - potranno considerarsi alla stregua di una incisiva azione di
solidarietà internazionale. Non v'è dubbio che il problema della fame non potrà
risolversi se non promuovendo le politiche di sicurezza alimentare, nella
consapevolezza che troppo spesso la massiva distribuzione di generi alimentari
in un determinato luogo, se non adeguatamente coordinata e non funzionale alle
necessità contingenti, si rivela controproducente per combattere efficacemente
la sciagura della malnutrizione.
Da
qui l'urgenza di una strategia capace di favorire una saggia e lungimirante
erogazione di aiuti a beneficio dei tanti miserabili minacciati dallo scandalo
della fame. Per debellare definitivamente la fame e non rinviarne la soluzione.
Sahel:
insicurezza alimentare per 10 milioni di persone, un milione bambini
Radiovaticana
- 2 luglio 2012
Oltre
10 milioni di persone nel Sahel patiscono varie forme di insicurezza alimentare.
Di questi, un milione sono bambini che soffrono di malnutrizione severa e altri
2 milioni di malnutrizione meno acuta. Questi dati sono stati presentati da
mons. Paul Ouedraogo, arcivescovo di Bobo-Dioulasso e presidente di
Ocades-Caritas Burkina, alla Conferenza sullo sviluppo sostenibile (Uncsd),
denominata anche Rio+20, che si è svolta dal 20 al 22 giugno 2012 a Rio de
Janeiro. I Paesi più colpiti dalla crisi alimentare sono Niger (con 5 milioni e
mezzo di persone in sofferenza); Mali (3 milioni); Burkina Faso (1,7 milioni) e
Senegal (850.000). Le cause della crisi sono il magro raccolto nella stagione
2011-12, conseguenza delle scarse piogge, e più in generale la riduzione della
produttività nei Paesi della regione (Mauritania, Niger, Senegal, Mali, Burkina
Faso, Ciad) provocata dai cambiamenti climatici. Nel caso del Mali, si
aggiungono la violenza e l’insicurezza nel nord del Paese, che ha generato un
forte afflusso di rifugiati nei Paesi limitrofi (vi sono nel solo Burkina Faso
150.000 rifugiati maliani). Le conseguenze della crisi alimentare sono, secondo
quanto riporta mons. Ouedraogo, la riduzione del numero e della quantità dei
pasti giornalieri, la perdita del bestiame, la migrazione dei giovani nelle
grandi città. Per affrontare il problema, il presidente di Ocades-Caritas
Burkina indica diversi provvedimenti: stabilire un sistema di allarme sulle
condizioni climatiche, migliorare la ridistribuzione delle risorse alimentari
nell’area, stabilire fondi di emergenza, formare gli agricoltori a nuove
tecniche agricole, costruire pozzi e dighe, diversificare le fonti di reddito
(attualmente l’80% della popolazione attiva è impiegata nell’agricoltura
che rappresenta tra il 30 e il 40 del Pil dei Paesi del Sahel). “I Paesi del
Sahel hanno la possibilità di far fronte alla crisi. Hanno solo bisogno di
risorse per rafforzare le azioni che sono già avviate sul terreno. Investendo
nel rafforzamento della capacità di recupero, i partner saranno in grado di
offrire ai Paesi che patiscono la crisi alimentare una meravigliosa opportunità
di rispondere in prima persona, nel modo più efficace e nella situazione più
difficile in cui vivono” conclude mons. Ouedraogo. (R.P.)
Trattato
armi, una guida per l'Africa
Misna - 6 luglio 2012
Una
guida di riferimento per i paesi africani che stanno negoziando a New York il
Trattato sul commercio di armamenti (Att, Arms Trade Treaty): con questo spirito
è stato presentato ieri un manuale di 200 pagine elaborato dall’Istituto
sudafricano per gli studi sulla sicurezza (Iss).
Scritto
in inglese e in francese, la guida (Negotiating an Arms Trade Treaty: a Toolkit
for African States) si propone di fornire “descrizioni imparziali e
spiegazioni di questioni relative al controllo degli armamenti convenzionali,
così come una analisi obiettiva dei diversi punti di vista su elementi chiave
di un futuro Att applicabili alla realtà africana”.
Il
documento contiene informazioni sui paesi esportatori di armi in Africa e su
questioni sensibili come il fenomeno della corruzione, la presenza di gruppi
armati transnazionali, di gruppi ribelli e di embarghi della comunità
internazionale.
Un
capitolo è poi dedicato all’impatto della violenza sullo sviluppo economico e
sociale dell’Africa e sui sistemi di controllo dei trasferimenti di armi
attualmente in vigore.
Ciascuna
sezione del documento include considerazioni sui paesi africani e sui loro
obblighi regionali e internazionali. In alcune si fanno riferimenti storici e si
prospettano le attuali sfide relative al controllo degli armamenti.
Cominciati
questa settimana, i lavori della Conferenza dell’Onu per il Trattato sul
commercio di armamenti si concluderanno il 27 luglio. In queste quattro
settimane i rappresentanti di 193 Stati negozieranno quello che è considerato
dalla società civile internazionale un atto fondamentale per controllare il
commercio di armi con regole chiare e condivise.
Le regole del diritto, il corso della diplomazia di Giulio Albanese
ItaliaCaritas Luglio-Agosto 2012
Tribunali
speciali si pronunciano contro dittatori africani: un traguardo da
perseguire. Ma accade (per esempio in Sudan e Uganda) che ciò complichi la
soluzione di conflitti annosi. In casi eccezionali, un po’ di
realpolitik non guasta…
Solitamente
l’idea di giustizia, in riferimento alle vicende africane, pare sospinta da
una sorta di grezza rappresentazione manichea: o si è interamente vittime, o
totalmente colpevoli. Chi ha sofferto le violenze della guerra civile
sierraleonese, avrà dunque colto favorevolmente la notizia, del 26 aprile
scorso, riguardante Charles Taylor: l’ex presidente liberiano è stato
giudicato colpevole di aver fornito aiuto materiale, assistenza e sostegno
morale ai ribelli del Fronte unito rivoluzionario (Ruf ), attivi nella Sierra
Leone negli anni Novanta, sotto la guida del defunto Foday Sankoh.
Come
era prevedibile, la sentenza della Corte speciale per la Sierra Leone (Scsl) ha
suscitato il plauso della comunità internazionale. Ma la strada del riscatto è
ancora molto lunga, e tutta in salita: tra mercenari stranieri e venditori di
pepite, sono ancora molti i criminali a piede libero che hanno indicibili
responsabilità nelle sanguinose vicende dell’ex protettorato britannico. E
cosa dire del mandato di arresto nei confronti del presidente sudanese Omar
Hassan El Bashir, spiccato dalla Corte penale internazionale (Cpi) nel 2009 per
misfatti d’ogni genere ordinati nel Darfur?
È
chiaro che l’intento dei giudici dell’Aja è stato riaffermare solennemente
il primato della giustizia. Eppure, per quante possano essere le nefandezze
commesse da Bashir, la decisione della Corte solleva non pochi quesiti, sui
quali le cancellerie dovrebbero interrogarsi.
Anzitutto,
tale provvedimento non ha facilitato il difficile cammino di ricerca di una
soluzione negoziale dell’annoso e penosissimo conflitto darfuriano. Va
ricordato, poi, che sia l’Unione africana che la Lega araba si erano espresse
apertamente contro l’adozione di un simile provvedimento, ritenendolo
inopportuno e controproducente per una risoluzione delle ostilità.
Vi
è poi da riflettere sul valore effettivo di un mandato di cattura contro un
presidente nel pieno esercizio della sua autorità, che gode oltretutto i favori
di un membro permanente con diritto di veto (la Cina), del Consiglio di
sicurezza dell’Onu. D’altronde, è chiaro che il regime sudanese ha fatto
orecchie da mercante alla richiesta della Corte internazionale, non solo perché
l’arresto dovrebbe essere eseguito dallo stesso governo subordinato
all’attuale capo di stato Bashir, ma anche perché Khartoum non hai mai
accettato di ratificare lo statuto di Roma della Cpi.
Vi
è peraltro un precedente che avrebbe dovuto indurre i giudici dell’Aja a
tutt’altre considerazioni: quello di Joseph Kony, famigerato leader dei
ribelli nordugandesi dell’Esercito di resistenza del Signore (Lra). Sebbene
non fosse un capo di stato, il rifiuto da parte della Cpi di accettare che Kony
si arrendesse alla giustizia ugandese è alla base del fallimento delle
trattative di pace tra Lra e governo ugandese, con la conseguente estensione del
conflitto nella vicina Repubblica democratica del Congo e addirittura in quella
Centrafricana.
Vittoria
della giustizia?
Ecco
perché sarebbe auspicabile che la diplomazia internazionale fosse messa nelle
condizioni di fare il proprio corso, senza dover subire interferenze, in scenari
così complessi, in cui è tragicamente urgente arrivare a una pace. Non si
equivochi, però. Se è ingenuo pretendere che provvedimenti giudiziari del Cpi
possano, ipso facto, determinare un miglioramento della situazione dei diritti
umani in un contesto infuocato come quello sudanese, un processo e
un’eventuale condanna dei colpevoli di crimini così gravi sono un obiettivo
che va salutato con favore e perseguito con determinazione. Anche per il valore
esemplare e il monito diretto a tutti i despoti. In qualche caso eccezionale,
una certa realpolitik potrebbe però essere anteposta alle regole universali del
diritto. Se, infatti, la diplomazia internazionale dovesse fallire in Darfur,
come in qualsiasi altra regione “sensibile” del continente, dove è in gioco
il destino di milioni d’innocenti, non sarebbe certo una vittoria della
giustizia cui tutti aneliamo.
Ma
ciò non può significare gratuita impunità per chicchessia.
Vietnamiti in piazza contro le esercitazioni navali di Pechino
di Paul N. Hung
AsiaNews - Ho Chi Minh City - 2 luglio 2012
Quattro
navi da pattuglia cinesi sono entrate in un'area al centro di aspre contese con
Hanoi e Manila. Per il governo si tratta di iniziative volte a difendere la
"sovranità nazionale". Ad Hanoi centinaia protestano davanti
all'ambasciata cinese. Per gli esperti le provocazioni di Pechino sono parte di
un piano "predefinito".
La marina cinese ha inviato quattro navi pattuglia nel mar Cinese meridionale, in un'area al centro di un'aspra contesa politica, economia e territoriale con Vietnam e Filippine. Secondo quanto riferisce un portale governativo di Pechino, le imbarcazioni sono impegnate in una serie di esercitazioni nei pressi della barriera di Yongshu, limitate alla durata di "due ore e mezza" a causa delle "avverse condizioni meteo". Intanto in Vietnam sono riprese le manifestazioni di protesta anticinesi, che nel luglio e agosto 2011 hanno portato centinaia di cittadini in piazza a intonare slogan e canti contro "l'imperialismo" di Pechino.
Le
imbarcazioni della marina cinese sono salpate dal porto di Sanya, nella
provincia dell'Hainan, lo scorso 26 giugno e hanno raggiunto ieri la zona
contesa con Manila e Hanoi dopo aver percorso circa 4500 km. Per il governo di
Pechino si tratta di operazioni di routine nel mar Cinese meridionale in un
quadro più ampio di iniziative a difesa della "sovranità nazionale",
come precisa il portavoce del ministero della Difesa Geng Yansheng. "La
determinazione della Cina - aggiunge - e la volontà dell'esercito cinese di
preservare la sovranità nazionale e l'integrità territoriale sono
incrollabili".
Tuttavia,
la nuova prova di forza dopo la recente decisione di indire bandi per
l'esplorazione petrolifera in una zona rivendicata da Hanoi ha scatenato l'ira
della frangia nazionalista vietnamita, che si batte contro la politica
"imperialista" della Cina. Ieri un centinaio di persone sono scese in
piazza nella capitale, per protesta contro le aggressioni della marina di
Pechino. I dimostranti - sotto la stretta sorveglianza di agenti e forze della
sicurezza - si sono riuniti di fronte all'ambasciata cinese di Hanoi, lanciando
slogan fra cui "Abbasso la Cina". Un'analoga manifestazione a Ho Chi
Minh City, diretta verso gli uffici del consolato cinese, è stata bloccata
dalla polizia ma non sono stati operati arresti.
Analisti
ed esperti sottolineano che le "provocazioni" di Pechino nell'area -
fra cui l'invio di navi pattuglia in acque contese e il bando per esplorazioni
petroliere - sono parte di un piano "predefinito" volto a conquistare
"il predominio" nella regione Asia-Pacifico. Un progetto che preoccupa
il governo statunitense, interessato a salvaguardare gli equilibri in un punto
strategico per il commercio internazionale.
Fra
le nazioni della regione Asia-Pacifico, la Cina è quella che avanza le maggiori
rivendicazioni in materia di confini marittimi nel mar Cinese meridionale.
L'egemonia nell'area riveste un carattere strategico per il commercio e lo
sfruttamento di petrolio e gas naturale, di cui è ricco il sottosuolo. A
contendere le mire espansionistiche di Pechino vi sono Vietnam, Filippine,
Malaysia, il sultanato del Brunei e Taiwan, cui si uniscono la difesa degli
interessi strategici degli Stati Uniti nell'area. Nella zona negli ultimi mesi
si sono registrati numerosi "incidenti" fra navi militari o
imbarcazioni di pescatori - in una zona caratterizzata da una fiorente fauna
ittica - battenti bandiere di Pechino, Hanoi e Manila.
Cartoline dall' Algeria - 84 di p. Silvano Zoccarato
Touggourt
15
luglio 2012
Dio non si è stancato di amare l’umanità.
Ho goduto un bel momento alla Tv che arriva anche nel deserto del Saara. Un momento ecumenico. Ecco le parole di introduzione del Card Ravasi.
“Santità, nel giorno dedicato dalla liturgia a s. Benedetto, quasi come per un omaggio augurale a Lei rivolto, la West-Eastern Divan Orchestra – col suo appassionato fondatore e direttore M° Daniel Barenboim – si presenta davanti a Vostra Santità e davanti al Presidente della Repubblica Italiana Giorgio Napolitano che tanto ha desiderato questo evento così suggestivo.
Questi giovani orchestrali sono il simbolo vivente delle tre grandi culture religiose della Terrasanta, l’ebraica, la cristiana e la musulmana. A unirli non c’è solo la fede nell’unico Dio e la comune radice abramitica, ma anche la musica, che è la vera lingua universale dell’umanità. Per creare l’atmosfera spirituale profonda di questo evento, è naturale, allora, far risuonare la voce di tre alti testimoni delle fedi qui rappresentate.
La prima è quella dell’islam col celebre poeta mistico musulmano Jalal ed-Dîn Rûmî, contemporaneo di Dante. Egli nel suono dolce del flauto intuiva la nostalgia del canneto da cui era stato strappato, parabola del nostro legame originario con Dio: «Fuoco è questo grido di flauto – scriveva – e non vento, fuoco dell’Amato divino che ha invaso ogni particella del mio essere, per cui di me non rimane che il nome, tutto il resto è Lui!».
La seconda voce è quella dell’ebraismo con Elie Wiesel, Premio Nobel per la Pace 1986. Egli rievocava la scala della visione di Giacobbe sulla quale salivano e scendevano gli angeli (Genesi 28) e concludeva: «Ebbene, quando gli angeli risalirono in cielo, dimenticarono di ritirarla. Da allora essa è rimasta tra noi ed è la scala musicale che ci fa ascendere dalla terra al cielo».
L’ultima voce, che facciamo idealmente risuonare questa sera, è quella del cristianesimo con lo scrittore del VI sec. Aurelio Cassiodoro. Egli nelle sue Institutiones ammoniva: «Se continueremo a commettere ingiustizia, Dio ci lascerà senza la musica».
Santità, la musica che tra poco risuonerà ci ricorderà che – nonostante tutto – c’è ancora giustizia, amore e pace nel mondo e ci ripeterà che Dio, se ci lascia ancora la musica, è segno che non si è stancato di amare l’umanità”
19 luglio 2012
La gioia del Vangelo e le altre religioni
Uno dei libri migliori del Card. Martini porta il titolo La gioia del Vangelo. Vi riporto una pagina per me bellissima.
“In ogni religione vi sono dei valori, e il Concilio l’ha affermato vigorosamente nella dichiarazione ‘Nostra aetate’ sulle religioni non cristiane. E’ vero che tutte le religioni possono aiutare gli uomini a cercare Dio. Tuttavia può nascere il problema della timidità dell’annuncio. … Se le persone hanno questi valori, perché mai le devo disturbare?”
Il cardinale parla anche che in qualcuno può nascere addirittura una sorta di vergogna del Vangelo e di qui “la tristezza, l’incertezza, la timidità nell’annuncio, la confusione di idee e… mancanza di gioia”.
Come il solito, Martini, per capire bene una situazione o un problema, parte dalla meditazione della Parola di Dio… da qualche parabola.
“La gioia del Vangelo è come la gioia di chi avendo trovato il tesoro, impazzisce dalla felicità, va in giro, vende tutti i suoi beni… pur di comprare il campo che gli conviene….. La gioia del Vangelo è propria di chi, avendo trovato la pienezza della vita, è sciolto, libero, disinvolto, non timoroso, non impacciato… Chi ha trovato la perla preziosa diventa capace di collocare le altre in una scala di valori giusta, di relativizzarle, di giudicarle in relazione della perla più bella… sa meglio comprendere il valore anche delle altre…
“A chi ha, sarà dato, ma a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha”. Luca 19, 26
A chi ha la gioia del Vangelo sarà dato il discernimento degli altri valori, dei valori delle altre religioni, dei valori umani fuori del cristianesimo…la capacità di dialogare senza timidità…
A chi possiede poco la gioia del Vangelo, la capacità di dialogo gli si smorzerà… si irrigidirà nella difesa tenace di quel poco che possiede”.
E qual è la gioia del Vangelo, si chiede il cardinale. Risponde. “E’ Gesù crocifisso che riempie la nostra vita. Non semplicemente una gioia, ma quella che viene dall’accoglienza divina di amore per me, in Gesù crocifisso”
Pochi giorni fa Benedetto XVI ha detto ai missionari Verbiti: “Il dinamismo missionario vive solo se c’è la gioia del vangelo”.
Libertà vigilata per un bambino di 11 anni coinvolto nella Primavera araba
AsiaNews - Manama - 6 luglio 2012
La
corte minorile sostiene che Ali Hasan è pericoloso per la società e va
rieducato. Nessuna menzione su eventuali crimini commessi. Arrestato in maggio,
il bambino ha già scontato un mese di carcere preventivo senza accuse
specifiche.
Una
Corte minorile del Bahrain condanna a un anno di libertà vigilata Ali Hasan,
bambino di 11 anni accusato di aver partecipato lo scorso 13 maggio alle
manifestazioni contro il governo sulla scia della Primavera araba che sta
scuotendo il Medio oriente. Secondo il tribunale, egli è pericoloso per la
società e va rieducato. Il caso ha scandalizzato l'opinione pubblica locale e
internazionale. Diversi attivisti accusano il governo di sfruttare il caso Hasan
per frenare l'ondata di proteste pro-democrazia iniziate nel marzo 2011 e
costate decine di morti.
Arrestato
in maggio, Hasan ha già scontato un mese di carcere, ma senza accuse specifiche
nei suoi confronti. Lo scorso 11 giugno il tribunale lo ha rimesso in libertà,
giudicandolo innocente. Tuttavia dopo un riesame del caso, il 5 luglio i giudici
hanno optato per un anno di libertà vigilata, sottolineando la pericolosità
del bambino che avrebbe preso parte ad almeno tre sit-in organizzati in maggio
da attivisti sciiti.
Shahzalan
Khamis, avvocato di Hasan, dice che il suo assistito è innocente e non ha
commesso alcun crimine. "La decisione della corte - afferma - è una
vera e propria condanna formulata su basi inesistenti". Interrogati
sull'argomento i giudici si giustificano sottolineando che le accuse contro il
giovanissimo attivista non sono mai cadute, ma non spiegano su quali capi di
accusa il bambino dovrebbe scontare un anno di libertà vigilata.
Hasan
è solo uno dei minorenni arrestati dalle autorità durante sit-in e
manifestazioni. Secondo il Bahrain Center for Human Rights, la maggior parte dei
bambini si trovava in piazza insieme ai genitori e non avrebbero compiuto alcuna
azione tale da giustificare arresto e detenzione preventiva.
Il
Bahrain è un Paese a maggioranza sciita, ma governato da una famiglia reale
sunnita alleata dell'Arabia Saudita. Da oltre un anno la popolazione chiede
riforme costituzionali e l'allontanamento dello sceicco Khalifah ibn Salman
al-Khalifah, premier dal 1971. Sull'onda della "Primavera araba",
l'opposizione sciita ha organizzato nel marzo 2011 una sollevazione popolare.
Per reprimere le manifestazioni il governo ha chiesto aiuto all'alleato saudita,
che è intervenuto inviando le forze speciali autorizzate a sparare sui
dimostranti. Negli scontri sono morte 24 persone, tra cui 4 poliziotti. Le
rivolte sono ricominciate con forza lo scorso 18 aprile in vista del gran premio
di Formula 1. Per giorni migliaia di manifestanti hanno occupato le strade della
capitale e dei villaggi a maggioranza sciita. Il governo ha risposto con la
forza imponendo il coprifuoco e arrestando centinaia di persone.
Campo di basket per il boarding di Dhanjuri di p. Adolfo L'Imperio
Dhanjuri - 19 luglio 2012
Come si prepara un campo di Basket ball (palla a canestro)?
La cosa parte sempre dalla richiesta degli interessati. A Dhanjuri per due mesi ho fatto scrivere il perchè e le ragioni che centosettanta giovanotti hanno per chiedere di entrare in questa avventura del Basket. Lo sport è sempre più parte della vita di questi ragazzi anche per i vari tornei e competizioni a vari livelli. Lo scorso Giugno, come ogni anno, abbiamo avuto il Fr.Viganò tournament di calcio con ben otto squadre che hanno partecipato da varie parrocchie.
Alla fine un gruppo ristretto ha selezionato e sottoposto la richiesta prima in Bengalese e poi anche in lingua Inglese. Era in visita il Vicario Generale del PIME ed alla richiesta lui disse che bisognava pregare per ottenere.
Si vede che la preghiera di questi ragazzi ha potere. Il secondo passo è stato individuare il "sito" dove realizzare secondo le misure internazionali .Anche questo è stato stabilito: Il cortile interno del Boarding.
Si scava per 50 cm e si porta via la terra per sostituirla con sabbia compattata. Quando la sabbia ha avuto una sua consistenza si passa a sistemare per tutta l'area mattoni come sottofondo della gettata di cm. 10 di conglomerato di cemento.
La gettata viene fatta a quadroni di circa 3m. di lato in modo da contenere le dilatazioni.
Dopo
l'ispezione si passa a tracciare il campo secondo le indicazione date e si
intravede qualcosa di nuovo.
Sono trascorsi tre mesi dall'inizio dei lavori . Mancano i tabelloni che vengono
realizzati e donati dalla NTS.
Br.Massimo viene lui di persona per fissarli ed essere sicuro che il lavoro e'
fatto a regola d'arte. Complimenti !
Quindi arriva P.Cherubim che benedice attorniato da aspiranti campioni , taglia il nastro, dona il primo pallone, secondo la promessa e si inizia a imparare a giocare. E' il 23 Giugno 2012.
Come al solito P.Adolfo, pignolo per natura, ha consegnato un opuscolo in
bengalese con le regole e le norme per il gioco della palla a canestro. Impegno,
per chi vuol giocare, di scrivere al computer l'opuscolo. La sala computer è
stata assalita e per alcuni giorni non ci sono altri impegni ...
.
Il lavoro completo, materiale, lavoratori, è costato 4.230 Euro. Parte del
materiale per circa 1.000 Euro (sabbia e mattoni) è stato dato dalla
Parrocchia per cui la spesa da coprire è di Eu. 3.230. Grazie.
Signore,
vieni a mettere qualcosa di nuovo in noi, al posto di quanto a poco a poco viene
meno col passare degli anni.
La gioia del gioco e dello sport sia parte dell'amore che dobbiamo avere per le
nuove generazioni per aiutarli a crescere.
Caro Don Vincenzo ed amici di Mola di Formia , siete sempre attesi per fare da allenatori ... che ne dite ?
Adolfo
Ndr: Altre foto sul sito
Pesanti danni per le piogge monsoniche
Radiovaticana
- 5 luglio 2012
Gravissime
inondazioni stanno colpendo il Bangladesh. Le piogge monsoniche si stanno
abbattendo in particolare sui distretti della regione nord-orientale, dove
stanno per straripare i fiumi Brahmaputra e Dharla. Almeno 300 mila persone in
500 villaggi sono già rimaste senza casa, cibo e acqua potabile. I collegamenti
sono bloccati. In questa drammatica situazione si moltiplica lo sforzo delle
organizzazioni umanitarie, tra queste Terre Des Hommes. Sulla situazione
Giancarlo La Vella ha intervistato Rossella Panuzzo, portavoce
dell’organizzazione:
R.
– Il fiume Brahmaputra che arriva dall’India con una portata ancora molto
alta sta lentamente scendendo. Quindi si spera nelle prossime ore in un
miglioramento della situazione per quanto riguarda il lato meteorologico ma
questo miglioramento sta mettendo in evidenza la situazione molto grave a
livello della popolazione. In Bangladesh i terreni più bassi sono quelli
abitati dalle persone più povere sono quelli a rischio sempre di inondazione.
D.
– Come vivono le persone alle quali improvvisamente l’acqua ha spazzato via
la casa e tutti i beni primari?
R.
– Vivono molto male. Le latrine sono inutilizzabili e anzi c’è un
inquinamento dell’acqua quindi è difficile bere e avere acqua potabile. I
terreni che coltivano vengono sempre di più erosi ad ogni inondazione, quindi
si prospetta effettivamente un periodo di forte problema di approvvigionamento
di viveri e naturalmente c’è sempre in agguato la possibilità di
un’epidemia di colera.
D.
– Nell’immediato di che cosa c’è bisogno per alleviare una situazione così
grave che riguarda tante persone?
R.
– Assolutamente continuare la consegna di viveri, estenderla a più persone
possibili. Un’attenzione costante ai bambini con il problema della diarrea, di
solito le prime vittime di malattie portate dall’acqua non potabile. Poi
sicuramente dovremo vedere se sarà possibile riparare i danni delle tante
scuole danneggiate. Ci hanno detto che ci sono circa 74 scuole danneggiate nel
distretto.
D.
– Come riuscite ad operare in queste regioni colpite dalle inondazioni dove
immagino sia anche difficile il movimento sulla terra?
R.
– Assolutamente, è difficile però come Terre des hommes siamo in quella
regione dal 1974 quindi lavoriamo in accordo con le autorità locali e quindi ci
vengono messe a disposizione mezzi. Purtroppo il Bangladesh è uno Stato dove è
ricorrente il problema delle inondazioni, in qualche maniera nei prossimi giorni
cerchiamo di incrementare questi aiuti che abbiamo già attivato speriamo nelle
prossime settimane ci sia un’uscita dalla prima emergenza e dopodiché ci sarà
tutta la post-emergenza che era quella della ricostruzione di case e di scuole.
D.
– Come è possibile sia pure da lontano aiutare queste persone?
R.
– Abbiamo messo nel nostro sito che è www.terredeshommes.it un appello di
raccolta fondi tramite il sito trovate tutte le informazioni del caso e si può
addirittura fare una donazione online.
"Ancora oggi l'Amazzonia è considerata come una colonia"
la
voce dei Vescovi contro un modello che non considera la popolazione nativa
Agenzia Fides
- Santarem - 5 luglio 2012
"Uno
dei problemi affrontati attualmente dalle popolazioni dell'Amazzonia è quello
dei grandi progetti che, oltre ad avere un enorme impatto sull'ambiente,
generano profitti per alcuni e causano numerosi impatti sociali negativi per le
città in cui si realizzano": questo il tema principale della conferenza
stampa tenuta il 3 luglio dal Workshop "San Pio X", nell'ambito del X
Incontro dei Vescovi dell'Amazzonia, che si svolge a Santarém-PA, in Brasile.
Sono intervenuti alla conferenza stampa Sua Ecc. Mons. Jesus Maria Berdonces,
Vescovo della Prelatura di Cameta e Presidente della Regione brasiliana Nord I;
Sua Ecc. Mons. Mosé Joao Pontelo, Vescovo di Cruzerio do Sul e Presidente della
Regione Nord-Ovest; Sua Ecc. Mons. Roque Paloschi, Vescovo di Roraima, e mons.
Raymond Possidonio, coordinatore della Pastorale dell'Arcidiocesi di Belém e
storico.
Mons.
Jesus Berdonces ha sottolineato che l'Amazzonia è considerata ancora oggi come
una colonia, dove le persone vengono, prendono la materia prima, si
arricchiscono, e poi se ne vanno. "Questo è un modello capitalistico,
adottato dal governo nella regione dell'Amazzonia, che non tiene conto delle
persone che vivono lì. Per loro la gente è solo un dettaglio che ostacola lo
sviluppo" si legge nella nota inviata dalla Conferenza Episcopale
Brasiliana (CNBB) all'Agenzia Fides. Ma esiste anche un altro modello
raccomandato dalla Chiesa, il cui obbiettivo sono le persone che si trovano in
Amazzonia: "La Chiesa sostiene la promozione dell'agricoltura familiare,
sostiene che i profitti della ricchezza (sia mineraria che dell'agricoltura)
debbano rimanere in Amazzonia, e che le persone debbano essere coinvolte".
Mons.
Roque Paloschi ha sottolineato l'importanza di sapere chi stia godendo i
profitti di questi grandi progetti, che oltre ad avere la benedizione del
governo, sono finanziati con denaro pubblico. Ha fatto inoltre notare che le
popolazioni non hanno garanzie e le loro terre sono quasi sempre utilizzate
arbitrariamente per qualche "business agricolo" e da gruppi economici
che arrivano nella zona. Mons. Mosé Joao Pontelo ha denunciato che i problemi
ci sono, e richiedono la responsabilità e l'intervento dei Pastori, che sono i
leader della Chiesa in questa zona. Ha detto anche che l'attuale incontro di
Santarém segna la strada da seguire nei prossimi cinque anni.
La
X riunione dei Vescovi preparerà un documento, come conclusione finale, e tre
lettere, indirizzate ai governanti degli Stati dell'Amazzonia, al Popolo di Dio
e al Santo Padre Benedetto XVI. (CE)
Brasile,
calano ancora i cattolici di Alessandro Armato
MissiOnLine
- 5 luglio 2012
Nove
punti percentuali in meno dal 2000. E a Rio de Janeiro - la città della Gmg2013
- si fermano solo a quota 45,8 per cento, la più bassa del Paese
Il
numero di cattolici in Brasile continua a diminuire, a vantaggio delle
differenti denominazioni evangeliche. Un fatto che conferma come la questione
della nuova evangelizzazione si ponga con forza anche per il Paese con il
maggior numero di cattolici del mondo.
Secondo
dati appena diffusi dall'Istituto brasiliano di geografia e statistica (IBGE),
relativi al censimento demografico del 2010, la percentuale di cattolici nel
Paese sudamericano oggi è pari al 64,6 per cento della popolazione, nove punti
in meno rispetto al 2000 e quasi venti rispetto al 1980, quando l'83 per cento
della popolazione si dichiarava cattolico.
Di
questo passo il Brasile, che oggi conta circa 123 milioni di fedeli su 190
milioni di abitanti, finirà per perdere il primato di Paese più cattolico del
mondo. La Giornata mondiale della gioventù che si celebrerà a Rio de Janeiro
nel luglio del prossimo anno, alla presenza di Benedetto XVI, ha tra i suoi
obiettivi impliciti anche quello di rafforzare le fondamenta del cattolicesimo
brasiliano. Tra l'altro la città di Rio de Janeiro, sede della Gmg 2013, è
proprio quella che oggi conta con la minor percentuale di cattolici di tutto il
Paese, solo il 45,8 per cento.
L'emorragia
di fedeli che colpisce la Chiesa brasiliana va a vantaggio soprattutto delle
differenti denominazioni evangeliche, che tra il 2000 e il 2010 sono passate dal
15,4 al 22,2 per cento della popolazione e contano oggi un totale di oltre 42
milioni di credenti.
Cresce
anche il numero di atei, agnostici e persone senza una religione definita,
passati dal 4,7 all'8 per cento, per un totale di circa 15 milioni di persone.
Tra questi la stragrande maggioranza si dichiara priva di una religione
specifica, mentre gli atei sono 615.096 e gli agnostici 124.436.
Il
2,0% della popolazione si professa di religione spiritista, mentre uno 0,3%
aderisce a credo di origine africana come candomblé o umbanda. Queste ultime, i
cui dati sono rimasti stabili, sono praticate soprattutto nella zona al confine
con l'Uruguay o in città come Rio de Janeiro e Salvador de Bahia.
La corsa all'oro e le sue conseguenze sociali
Agenzia Fides - Ouagadougou - 3 luglio 2012
La
febbre dell'oro pervade i giovani del Burkina Faso alla ricerca di una fonte di
sostentamento alternativa all'agricoltura, in crisi a causa della siccità.
L'oro "giallo" ha ormai sostituito quello "bianco", il
cotone, come prima esportazione del Paese, afferma un'inchiesta di OCADES
Caritas Burkina. Se l'80% della forza lavoro locale è ancora impiegata
nell'agricoltura, il settore minerario è in piena espansione. La produzione
industriale di oro è passata da 5.000 kg nel 2008 a 11.642 kg nel 2009. Il
settore minerario è in mano a società straniere (statunitensi, francesi,
canadesi, australiane). Accanto all'estrazione industriale c'è quella
artigianale, alla quale si dedicano migliaia di burkinabé, attratti dalla
possibilità di guadagno, ma la cui vita non è affatto facile.
Si
tratta infatti di setacciare le sabbie dei fiumi alla ricerca di quantità
minime di oro: un lavoro duro e ingrato, fatto per ore e ore sotto il sole
accecante. "Ma quelli che riescono a trovare l'oro si contano sulle dita
della mano" afferma l'inchiesta.
Il
sindaco di Boroum, uno dei siti di ricerca dell'oro, mette in luce i danni
sociali provocati dall'arrivo dei cercatori improvvisati: "il fenomeno
della ricerca dell'oro è molto inquietante. Quando i giovani riescono a
ottenere un po' di denaro, preferiscono dilapidarlo nelle grandi città invece
di usarlo per aiutare i loro genitori. Nei siti di ricerca si assiste ad ogni
sorta di pratica malsana: consumo di stupefacenti, prostituzione, furti e
stupri. Alcuni giovani tornano a casa malati. Anche se sono privi di mezzi, i
loro genitori si sentono obbligati a dare fondo a tutte le loro magre risorse
per curarli. La ricerca dell'oro ci sta creando dei problemi seri".
Il
Segretario Esecutivo Nazionale di OCADES Caritas Burkina, don Isidore Ouedraogo,
afferma che il fenomeno dei cercatori d'oro è "uno dei problemi principali
sul quale dobbiamo lavorare".
Questo
problema è ancora più importante visto che la gente si è più volte ribellata
contro le compagnie minerarie, accusate di essere interessate solo all'accumulo
di profitti e non alla costruzione di infrastrutture e alla creazione di posti
di lavoro per le popolazioni locali. (L.M.)
La predica di Pechino: il Vaticano è "barbaro e irrazionale"
di
Bernardo Cervellera
AsiaNews - Città del Vaticano - 5 luglio 2012
In
un commento alla Nota diffusa da Propaganda Fide, l'Ufficio affari religiosi
critica la Santa Sede che "soffoca la libertà ed è intollerante".
Minacce di nuove ordinazioni episcopali "auto-elette" e
"auto-ordinate", senza l'autorità del papa. Al Partito manca il senso
della storia. Ma ha il senso degli "affari" e della corruzione: il
controllo sugli "affari religiosi" frutta ai burocrati circa 13
miliardi di euro.
Nota
contro Nota; scomunica contro scomunica; dolore vero contro dolore falso;
teologia contro bassa politica: in risposta alla Nota diffusa dalla
Congregazione per l'evangelizzazione dei popoli, sull'ordinazione senza mandato
papale che si terrà a Harbin (Heilongjiang) il 6 luglio, l'Ufficio affari
religiosi della Cina ha subito riposto con una "Nota" da parte di un
anonimo portavoce.
Il
fatto farebbe solo sorridere per il ridicolo di cui si copre la seconda potenza
economica mondiale, che difende la "libertà religiosa" e "la
tolleranza" e poi sequestra un sacerdote, p. Giuseppe Zhao Hongchun, solo
perché è fedele alle indicazioni della Santa Sede.
Con
uno stile approssimativo e poco diplomatico l'Amministrazione statale per gli
affari religiosi (Asar, il nuovo nome dell'Ufficio affari religiosi) ha diffuso
infatti attraverso Xinhua di ieri tutto il suo stupore per l'atteggiamento
vaticano, giudicato "scandaloso", "scioccante", "pieno
di minacce", "barbaro e irrazionale".
La
Nota vaticana ricorda che nella Chiesa cattolica le nomine dei vescovi avvengono
su mandato del papa e che trasgredire a questo elemento della fede porta
"divisioni, lacerazioni e tensioni nella comunità cattolica in Cina".
Ne è prova quanto succede ad Harbin in questi giorni in cui molti preti si
nascondono per non partecipare alla consacrazione del vescovo illecito; e quanto
succede in diverse parti della Cina, dove i vescovi scomunicati sono lasciati
soli dai fedeli e i sacerdoti preferiscono entrare nelle comunità sotterranee.
Per
l'Asar è tutto il contrario: è l'atteggiamento vaticano, con le sue
"accuse e interferenze" a creare "restrizioni alla libertà e
intolleranza, minando un sano sviluppo della Chiesa cattolica in Cina e non
portando alcun beneficio alla Chiesa universale".
In
questo raptus di amore "alla libertà" e contro
"l'intolleranza", l'Asar - un'agenzia statale! - si mette a difendere
le il candidato all'elezione, il p. Giuseppe Yue Fusheng, definito "devoto
nella fede, moralmente a posto, onesto".
Va
detto che il Vaticano considera Yue un bravo prete, ma un po' debole per
sostenere le responsabilità episcopali. Quello che alla "tollerante"
Asar non piace è che vi sia qualcuno che abbia un'opinione diversa dalla
propria, soprattutto in materie religiose!
Il
punto è infatti che l'Ufficio per gli affari religiosi non è un qualcosa che
vigili su possibili criminalità delle religioni, ma vuole intervenire come una
specie di "papa" nelle questioni squisitamente spirituali.
Così
l'Asar rivendica che i suoi vescovi, scelti dal Partito con il metodo della
"auto-elezione" e della "auto-ordinazione", sono
"uguali a tutti gli altri vescovi del mondo" e - a differenza di
quanto dice il Vaticano - essi sono "leciti" e "validi" i
loro sacramenti. Forse qualcuno dovrebbe spiegare a questi burocrati che il
Medioevo e i vescovi che ricevevano l'investitura dall'imperatore sono morti da
un pezzo. Basterebbe che si confrontassero coi Paesi vicini - Corea, Giappone,
Singapore, Mongolia e perfino Vietnam - per vedere quanto indietro sono rispetto
a un Paese moderno dove Stato e Chiesa sono distinti e non uniti nel potere
politico.
Ma
il senso della storia è quanto di più manca alla burocrazia del Partito
comunista cinese.
Ne
è prova la stessa Nota diffusa dall'Asar, in cui si afferma che "nel
secolo scorso, negli anni '50, le minacce di scomunica del Vaticano hanno
costretto la Chiesa cattolica in Cina a percorrere la strada dell'auto-elezione
e dell'auto-ordinazione".
Questi
burocrati non si domandano: come mai l'auto-elezione e l'auto-ordinazione non è
successo prima, nei secoli prima di Mao Zedong? Proprio non si rendono conto che
la politica religiosa di Mao è un'importazione straniera, proveniente dalla
Russia di Stalin?
E
come mai in questa nuova stagione cinese in cui si cerca di purificare l'eredità
di Mao Zedong, rimane ancora questo lascito disgustoso e umiliante per la Cina e
per la Chiesa?
Le
conclusioni della Nota dell'Asar sono contraddittorie: mentre affermano di
essere pronti al dialogo con il Vaticano, si rivendica "la libertà"
(e la minaccia) di voler continuare con vescovi "auto-nominati" e
"auto-ordinati". A parte la poca diplomazia manifestata in questa
posizione, si percepisce un senso di paura. Se infatti venissero ordinati
vescovi non scelti dai burocrati del Partito, ma personalità davvero
interessate alla Chiesa e alla società, forse verrebbero a galla tante denunce
di corruzione, di ruberie, di intascamento di proprietà che sottratte all'uso
perla Chiesa e per il popolo, sono divenute la base del loro benessere e del
loro potere economico. Secondo un calcolo dell'Holy Spirit Study Centre di Hong
Kong, sotto il manto del controllo comunista, i dirigenti degli "affari
religiosi" intascano proventi per "affari economici" per circa
130 miliardi di yuan (circa 13 miliardi di euro).
Per
questo vale la pena dare un consiglio al presidente Hu Jintao: nella sua lotta
alla corruzione e per maggiore moralità nel suo Partito, dia la piena libertà
religiosa alla Chiesa e alle religioni.
La
polizia cinese scopre un mega consorzio per la vendita di bambini, 802 arresti
AsiaNews - Pechino - 7 luglio 2012
Lanciata
nei giorni scorsi l'operazione ha coinvolto oltre 10mila agenti in 15 province.
Nel traffico erano coinvolti ambulatori, cliniche e ospedali. I funzionari
adescavano donne gravide e famiglie promettendo fino a 8mila euro per la vendita
del figlio. I bambini di età superiore ai due anni venivano venduti all'asta
nelle province con più richieste. In caso di malattia i piccoli erano scaricati
durante il viaggio e lasciati morire in mezzo alla strada.
Con
una mega operazione in 15 province, la polizia cinese arresta 802 persone
coinvolte nel traffico illegale di neonati e bambini inferiori a sei anni.
L'intervento delle forze dell'ordine ha coinvolto oltre 10mila poliziotti che in
una settimana hanno fatto irruzione in diversi ospedali nelle province Hebei,
Shandong, Sichuan, Fujian, Henan e Yunnan, dove da alcuni anni si era formato un
vero e proprio "consorzio" per il commercio di neonati da vendere
all'asta. Molti di loro provenivano da famiglie che avevano violato la legge del
figlio unico, che costringe le madri ad aborti e strelizzazioni. In totale gli
agenti hanno salvato 181 bambini, che dovevano essere consegnati nei prossimi
giorni a famiglie cinesi e straniere.
Una
nota del Ministero della pubblica sicurezza afferma che l'operazione è iniziata
in dicembre nell'Henan con il fermo di quattro persone che a bordo di un autobus
trasportavano un gruppo di bambini da vendere all'asta. Interrogati dalla
polizia, essi hanno rivelato i nomi dei gestori del traffico locale. In aprile
le indagini si sono allargate anche ad altre 15 province, passando dal fermo dei
corrieri alle perquisizioni in cliniche ed ospedali. Dalla informazioni raccolte
dagli agenti, il traffico avveniva grazie a funzionari compiacenti che
segnalavano a famiglie facoltose la possibilità di acquistare un figlio da
donne con problemi finanziari. Prima di concordare, gli interessati facevano
visita negli ambulatori dove controllavano le condizioni del nascituro, il sesso
e in diversi casi la salute dei genitori.
I
bambini di età inferiore ai sei anni venivano invece venduti all'asta. Per
evitare di dare nell'occhio durante viaggi, lunghi anche diversi giorni, i
trafficanti somministravano ai piccoli pesanti dosi di sonniferi. Chi si
ammalava durante il cammino veniva semplicemente abbandonato per strada in mezzo
ai cespugli e lasciato morire.
Dom
Jinli, responsabile dell'ufficio di pubblica sicurezza di Zaozhuanf, Shandong,
ha rivelato che i medici intascavano per ogni bambino venduto circa 700 euro. I
responsabili del traffico anche 2mila euro. Il tariffario per la famiglie poteva
raggiungere anche cifre superiori agli 8mila euro, soprattutto per bambini
maschi e in buona salute.
Caschi blu pronti a difendere Goma dai ribelli. Don Gavioli: in città serve cibo
Radiovaticana
- 12 luglio 2012
Tensione nella Repubblica Democratica del Congo. Di fronte al pericolo di un'ulteriore avanzata verso Goma dei ribelli del gruppo M23, le Nazioni Unite sono pronte a difendere in armi il capoluogo della provincia orientale del Nord Kivu, e stanno dunque dispiegando nuovamente intorno alla città i caschi blu della Monuc, la loro Missione nel Paese. I ribelli dal canto loro smentiscono un loro avanzamento verso la città. Salvatore Sabatino:
L’Onu da una parte, il gruppo ribelle M23 dall’altra. In mezzo Goma, città verso cui starebbero marciando i rivoltosi, che però smentiscono e ripiegano sulle montagne, in attesa – e a dirlo è proprio il loro capo – che si possa aprire un dialogo con il governo di Kinshasa. A protezione della città sono già stati schierati i caschi blu, per volere dello stesso Ban Ki-moon che ieri, tra l’altro, ha contattato telefonicamente sia il presidente dell'ex Zaire, Joseph Kabila, sia l'omologo rwandese, Paul Kagame, sollecitando entrambi a "fare tutto il possibile per disinnescare la tensione e porre fine alla crisi". Il Rwanda, che ha sempre smentito, è accusato di alleanza con l'M23: un folto e preparato gruppo di ex militari che hanno disertato, prendendo il nome dal 23 marzo di tre anni fa, quando fu firmato un accordo di pace di fatto mai rispettato. Guidati dal generale rinnegato Bosco Ntaganda, ricercato per crimini di guerra e contro l'umanità dal Tribunale penale internazionale dell'Aja, nelle scorse settimane avevano invaso alcune località nei pressi di Goma, poi liberate dell’intervento delle truppe regolari.
“La situazione nel Paese è difficile serve un vero sforzo internazionale per la Pace”: così da Goma parla don Piero Gavioli, direttore del Centro giovanile Don Bosco NGangi, raggiunto telefonicamente da Massimiliano Menichetti:
R. – La situazione a Goma per ora è calma: la guerra si svolge a 70-80 km a nord. Molta gente fugge dall’interno per venire in città. C’è un campo profughi all’entrata di Goma dove tanti trovano rifugio. Molti vengono a chiedere aiuti anche nel nostro Centro.
D. – Quanti sono i profughi e da dove vengono queste persone?
R. – Il gruppo più numeroso è quello composto da persone fuggite, a metà maggio circa, dalla regione del Masisi, quando è cominciata la ribellione. Poi, i conflitti si sono spostati più a Nord, al confine con l’Uganda. Adesso qui ci sono almeno 15-20 mila persone e nessuna struttura, né governativa né appartenente ad ong, che se ne possa occupare in maniera risoluta. Anche il Programma alimentare mondiale ha finito le scorte.
D. – La popolazione come vive questa situazione e voi cosa state facendo?
R. – Noi abbiamo in carico i bambini malnutriti. C’è molto scoraggiamento tra la gente e paura, perché dicono che il governo non fa molto per risolvere la questione. Forse ha attivato vie diplomatiche, però manca il soccorso concreto, non ci sono ancora iniziative visibili. Anche le truppe della Monuc, che dovrebbero frammettersi fra i belligeranti, ci sembrano più osservatori che soldati che intervengono per favorire la pace. C’è molta sfiducia, c’è molto scoraggiamento.
D. – A Rutshuru, alcune fonti hanno parlato di campi degli sfollati bruciati...
R. – A Rutshuru non c’erano campi di sfollati, ci sono quartieri: in base alle notizie di cui a sono a conoscenza, queste strutture non sono state toccate. La gente è partita verso l’interno, verso la foresta perché ha avuto paura. Ma ora sta rientrando anche sollecitata dai ribelli dell’M23, che secondo le testimonianze che ho raccolto da alcuni sacerdoti, stanno invitando le persone a riprendere le abitudini di sempre e a rientrare nelle case, senza alcuna minaccia.
D. – Ma cosa vogliono i ribelli?
R. – Questo è uno dei segreti che nessuno conosce. Non si capisce bene quale sia l’intesa che hanno con il Rwanda e anche i rapporti con lo Stato congolese, perché ricordiamo che sono ammutinati dell’esercito congolese. Cosa vogliono? Che si rispettino gli accordi di pace presi il 23 marzo del 2009. Si chiamano M23 proprio per indicare quelle promesse che, sotengono, non sono state mantenute. Poi, ci sono interessi economici come lo sfruttamento delle miniere e tutta la frontiera con l’Uganda che è una sorgente di guadagno…
D. – Come si stabilizza il Paese?
R. – Servirebbe un impegno veramente internazionale per la pace non solo nel nostro Paese, ma nei Grandi Laghi. Questa conflittualità è molto legata a quello che capita in Uganda e in Rwanda, in misura minore anche in Burundi e, forse, in parte anche con il Sud Sudan. Quindi serve una volontà forte a livello internazionale per la pace, una nuova conferenza di pace, che generi però impegni effettivi. Abbiamo, infatti, l’impressione che ci siano accordi scritti sulla carta, che rimangono sulla carta.
D. – Vuole lanciare un appello? Che cosa vi serve al Centro?
R. – Al Centro abbiamo 72 piccoli orfani, di qualche settimana fino ai due anni, e abbiamo bisogno di latte. Il latte ci costa caro: spendiamo attualmente 2300 dollari al mese. Abbiamo bisogno anche di cibo per i malnutriti, cui distribuiamo farina di granoturco, di soia e di sorgo, e poi il cibo di base, cioè polenta e fagioli.
D. – Per chi volesse aiutarvi, come può fare?
R. – La cosa migliore è passare attraverso la ong che ci sostiene, che è il Vis, il Volontariato internazionale per lo sviluppo.
Soldati loro malgrado, ricomincia l’arruolamento coatto dei bambini
Italia Caritas Luglio-Agosto 2012
Notizie
di rapimenti, da parte delle milizie del Kivu, di centinaia di minori. Dopo la
guerra, 40 mila sono stati smilitarizzati. Anche grazie a Caritas
Secondo
stime Unicef, in tutto il mondo sono almeno 250 mila i bambini soldato, minori
di età compresa tra gli 8 e i 16 anni, sottoposti a barbari riti iniziatici,
schiavizzati dai combattenti, obbligati a uccidere e torturare chiunque venga
loro indicato come “nemico”, talvolta i loro stessi familiari. Nella
Repubblica democratica del Congo il fenomeno è stato tristemente diffuso per
oltre un decennio. Secondo i dati forniti dal Rapporto Ombra, edito
nell’aprile 2011 dalla Coalizione per fermare l’utilizzo dei bambini
soldato, 40 mila bambini sono fuoriusciti negli ultimi anni, dopo la fine delle
ostilità generalizzate e il raggiungimento della pace, da forze militari e
gruppi armati. Nonostante questo incoraggiante risultato, ottenuto mediante
l’attuazione su scala nazionale del Programma Ddr (Demobilitazione,
detraumatizzazione e reinserimento sociale di ex combattenti), solamente
nell’est della Rdc, secondo quanto contenuto nel rapporto, il numero di
bambini soldato continua ad attestarsi tra i 6 e gli 8 mila.
Ciò
è dovuto al fatto che l’arruolamento coatto di bambini non si è mai
interrotto, sopravvivendo alla fine (2003) della Seconda guerra del Congo e a
dispetto della firma degli accordi di pace (marzo 2009) tra i leader del
movimento ribelle Cndp, allora capeggiato dal generale Laurent Nkunda, e il
governo congolese. Da aprile poi, in seguito alla defezione del generale Bosco
Ntaganda, il reclutamento di bambini da parte di forze e gruppi armate nei
territori di Masisi e Rutshuru, nella martoriata provincia del Nord Kivu, ha
ripreso slancio e vigore. Secondo un recente rapporto di Human Rights Watch,
almeno 149 ragazzi e giovani di etnie hutu e tutsi, provenienti dai villaggi di
Kilolirwe, Kingi e Kabati (nei pressi della città di Kitchanga, nel cuore del
Masisi), tra il 19 aprile e il 4 maggio, sono stati reclutati da parte degli
ammutinati di Ntaganda. Ed è plausibile che il numero dei reclutamenti stia
crescendo giorno dopo giorno, non solo nel Masisi, ma anche a Rutshuru, dove da
maggio operano le milizie dell’altro generale ribelle, Sultani Makenga.
Secondo la legge congolese, è irregolare reclutare chiunque abbia un’étà inferiore ai 18 anni, e la Corte penale internazionale considera il reclutamento di ragazzi di meno di 15 anni un crimine di guerra. Intanto, però, è accertato che 7 dei 149 reclutati attorno a Kitchanga sono morti durante i combattimenti tra gli ammutinati e le forze armate regolari, tra Mushaki e Muhongozi. Forse sono stati usati come scudi umani, o forse sono stati mandati in avanscoperta, o fatti marciare davanti a tutti, come spesso accade: chi è più vulnerabile è obbligato a morire prima degli altri soldati, più forti, dunque più preziosi e importanti.
Spettri
che tornano
Human
Rights Watch ha raccolto, tra la folla di profughi in arrivo al campo profughi
di Kirbati, situato nel confinante Ruanda, la testimonianza di giovani tra i 16
e i 25 anni che dicevano di essere fuggiti perché temevano di essere reclutati
dagli uomini di Ntaganda, generale su cui pende un mandato d’arresto
internazionale, emesso dalla Corte penale internazionale nel 2006, proprio in
seguito al massiccio arruolamento di bambini nella guerra dell’Ituri, da lui
fomentata tra il 2002 e il 2003. Ora anche il governo congolese si è impegnato
a catturarlo e a consegnarlo alla giustizia internazionale, dopo aver invano
tentato di integrarlo, assieme ai i suoi uomini, nelle forze armate regolari.
In
questo scenario di instabilità e nuovi arruolamenti, ricordi prossimi quanto
terribili si riacccendono tra ragazzi e bambini che una guerra l’hanno già
vissuta e combattuta, e della quale portano i segni. Sono gli ex bambini soldato
del Ctt (il Centro di trattamento del trauma da guerra) e della rete dei Cto (i
Centri di transito e orientamento), strutture gestite, a Rutshuru e nel Masisi,
da Caritas Goma, grazie anche al sostegno di molte Caritas diocesane e di
Caritas Italiana.
Molti
(quanti? 100? 200? 500?...) di questi bambini e ragazzi, insieme ai loro
educatori e responsabili, sono stati evacuati dai centri, fuggendo ancora una
volta dalla guerra, trovando riparo in un posto sicuro e un ambiente protetto,
nel quale continuare il difficile e tortuoso cammino di superamento di traumi e
paure. I venti di guerra tornati a spirare nel Kivu non mettono direttamente a
repentaglio la loro sorte. Ma li espongono a sollecitazioni che rischiano di
inquietarli e di interferire con il loro cammino di riappropriazione del futuro.
In una terra che non conosce pace, anche gli spettri del passato e gli incubi
sono più duri a dissolversi.
L’impegno
Caritas
Sviluppo
sostenibile, oltre i drammi
Oltre
a sostenere un programma di microprogetti in partnership con Caritas Congo (da
quattro anni si realizzano mediamente 40 “micro” all’anno nell’intero
territorio nazionale), Caritas Italiana da oltre 15 anni opera, nel paese
africano, in particolare nel Nord Kivu e nel Maniema, in diversi settori, grazie
al coordinamento dell’ong Acs Italia e al finanziamento di numerose
delegazioni regionali e Caritas diocesane italiane. Sul fronte della
reintegrazione sociale di ex bambini soldato e del riscatto di bambini
lavoratori nelle miniere, il Centro di trattamento del trauma di guerra, a
Rutshuru, rappresenta un importante servizio d’emergenza, cui seguono attività
di medio-lungo periodo (formazione di counsellor psicologici, attività di
socio-motricità, cure sanitarie alle ragazze vittime di violenza, adozioni
scolastiche, microcredito). Lo sviluppo rurale sostenibile, con approcci di
filiera (produzione agricola, tra- sformazione e commercializzazione), è
oggetto di progetti che valorizzano le fattorie diocesane locali e le numerose
associazioni di allevatori e agricoltori del territorio. Progetti sono in corso
per le filiere dell’olio di palma (sino alla produzione di saponi), di latte
(produzione di formaggi e altri prodotti caseari vaccini), carne, cereali e
manioca (con due mulini per produrre farine). Per concretizzare l’accesso
all’acqua, si stanno realizzando circa 25 pozzi* nei pressi di centri sanitari
diocesani e pubblici, dove sono stati realizzati anche orti comunitari, per
garantire l'alimentazione ai malati non assistiti da famigliari. Infine, per
rispondere all’emergenza umanitaria in atto nel Nord Kivu, Caritas
Italiana partecipa all’Emergency Appeal di Caritas Internationalis, che
prevede l’assistenza a oltre 10 mila famiglie sfollate.
Nota: * Anche la Caritas diocesana di Gaeta, in aggiunta a quanto sopra, ha promosso una microrealizzazione per la Sistemazione e captazione di 15 fonti d'acqua potabile nella Parrocchia di Mingana – Diocesi di Kasongo – RD Congo
Cresce lo scontro fra al-Azhar e Fratelli musulmani per il controllo
dell'islam sunnita
AsiaNews - Il Cairo - 4 luglio 2012
Gli
islamisti vogliono limitare il potere della più famosa e autorevole università
del mondo islamico e imporre la loro visione radicale del Corano. Ahmed
al-Tayeb, grande imam di al-Azhar abbandona in anticipo il primo discorso del
neo-presidente Morsi. Lo staff del capo di Stato lo aveva lasciato senza posto
riservato.
Il
conflitto storico fra al-Azhar, la più importante università islamica sunnita,
e i Fratelli musulmani esce allo scoperto e divide l'Egitto. In questi
giorni i media locali hanno dato ampio spazio alla polemica fra Ahmed al-Tayeb,
grande imam di al-Azhar e il presidente Morsy. In occasione del suo primo
discorso a tutta la nazione, lo staff presidenziale ha lasciato in piedi il
leader religioso che ha risposto in modo plateale abbandonando l'evento poco
prima dell'intervento del neo presidente.
P.
Rafic Greiche, portavoce della Chiesa cattolica egiziana, spiega che "i
Fratelli musulmani stanno facendo di tutto per surclassare al-Azhar e imporre la
loro interpretazione radicale dell'islam. Per questa regione il grande imam non
ha trovato un posto a sedere degno del suo rango al primo discorso di Morsi
presso l'università islamica del Cairo". Il sacerdote dice che tale
tensione è palpabile da quasi un mese. Prima della sua dissoluzione ad opera
dei militari, il parlamento a maggioranza islamista ha fatto in tempo a proporre
e votare una legge che limita il ruolo e i poteri dell'istituzione islamica in
tema non solo di politica, ma anche di religione.
"Lo
scopo dei Fratelli musulmani - aggiunge p. Greiche - è azzerare la presenza di
al-Azhar e soprattutto la sua visione moderata dell'Islam nelle istituzioni e
nelle scuole, sostituendola con l'interpretazione letterale e radicale propria
del movimento e dei salafiti".
Per
evitare uno vero e proprio scontro aperto fra istituzioni, oggi Morsi ha fatto
le sue scuse ad al-Tayeb, giustificando l'accaduto come una svista
organizzativa. In una nota l'università ha sottolineato il suo disappunto
affermando che in passato al grande imam veniva riservato un posto accanto al
Primo ministro.
In
questi anni al -Azhar si è fatta portavoce di un islam più moderato e in
dialogo con le altre religioni, contrastando in modo netto con le posizioni
estremiste e di interpretazione letterale del Corano proposte da Fratelli
musulmani e salafiti. Fra gli insegnanti dell'Università vi sono diversi
affiliati alla Fratellanza, ma essi non hanno spazio e sono guardati a vista
dalle gerarchie accademiche e religiose.
Ritirata legge sul divieto ai segni religiosi nei luoghi pubblici. Plauso dei
vescovi
Radiovaticana
- 3 luglio 2012
Nelle
Filippine è stato ritirato un progetto di legge che voleva vietare le
manifestazioni e i simboli religiosi in tutti gli edifici pubblici e statali. La
proposta era stata presentata da un deputato del “Kabataan Partylist” (il
Partito dei Giovani) con l’argomento che le espressioni pubbliche della fede
“minano la neutralità che lo Stato deve mantenere nei confronti delle diverse
religioni” stabilita dalla Costituzione filippina. La notizia del ritiro del
progetto – riferisce l’agenzia d’informazione dei Missionari di Parigi
Eglises d’Asie - è stata accolta con unanime soddisfazione dai vescovi
filippini che, insieme alle organizzazioni cattoliche, avevano espresso un coro
di critiche all’iniziativa. Tra queste quella di mons. Deogracias Iniguez,
vescovo di Kallokan e responsabile degli affari pubblici della Conferenza
episcopale (Cbcp), secondo il quale “lungi dal garantire la libertà di fede,
la legge avrebbe semplicemente limitato la pratica religiosa”. In una nota la
Conferenza episcopale aveva inoltre rilevato che la stragrande maggioranza dei
dipendenti pubblici filippini sono cattolici e che la presenza di un crocifisso
e la recita di qualche preghiera non possono che avere effetti positivi”.
Ironico il commento del responsabile dell’Ufficio stampa della Cbcp mons.
Pedro Quitorio secondo il quale il governo filippino ha sicuramente “problemi
più importanti di questa legge”. Particolarmente duro poi il giudizio di
mons. Ricardo Vidal, arcivescovo emerito di Cebu: “La religione cattolica fa
parte della nostra identità – ha dichiarato nei giorni scorsi il presule.
Essa dà i valori essenziali a partire dai quali lo Stato definisce il proprio
ordinamento etico e spirituale. Senza di essa lo Stato diventerebbe un’area
senza diritto”. (L.Z.)
Presto medicine gratis per tutta la popolazione
AsiaNews - Mumbai - 6 luglio 2012
Il
governo ha annunciato un progetto da 5,4 miliardi di dollari. Il piano riguarda
solo i farmaci generici. I medici che prescriveranno medicinali di marca
rischiano di incorrere in multe. Critiche grandi case farmaceutiche: così
affossano il mercato.
Oltre
metà della popolazione indiana potrà presto curarsi in modo gratuito. Il
governo centrale ha infatti avviato un progetto da 5,4 miliardi di dollari, che
prevede la distribuzione di medicinali generici a costo zero. La decisione ha già
attirato forti critiche da parte delle grandi case farmaceutiche straniere, che
accusano le autorità di minare il mercato per attirare consensi in vista delle
elezioni generali del 2014. Tuttavia, se dovesse rimanere inalterato, il
progetto promette di cambiare la vita a milioni di persone, e il volto
dell'intero sistema sanitario indiano.
Che
lavorino in grandi ospedali cittadini o in piccoli ambulatori di aree rurali, i
medici statali potranno prescrivere farmaci generici a tutti i pazienti. Secondo
il piano del governo, se scoperto a rilasciare medicine "di marca", il
dottore incorrerà in multe di varia entità. Tuttavia, i medici potranno
spendere il 5% del loro budget complessivo (circa 50 milioni di dollari l'anno)
in medicine di marca che non hanno l'equivalente generico. Resta invece
invariata la situazione di chi lavora in cliniche e strutture private.
Il
piano ha del rivoluzionario, soprattutto in un Paese come l'India dove la sanità
è ancora considerata un bene di lusso: le cliniche private spendono in media
quattro volte in più degli ospedali statali, nonostante il 40% della
popolazione viva con appena 1,25 dollari al giorno.
Secondo
il governo, nel giro di cinque anni almeno metà della popolazione indiana
(circa 1,2 miliardi di persone) potrà usufruire di questo servizio. "La
politica del governo - ha spiegato L.C. Goyal, segretario aggiuntivo del
ministero della Salute - vuole promuovere un uso maggiore e più ragionato dei
medicinali generici, che rispettano ogni standard qualitativo, ma costano molto
meno di quelli di marca".
Case
farmaceutiche di livello mondiale - come Pfizer, GlaxoSmithKline e Merck -
saranno tra le più colpite da questo progetto. Ogni anno infatti spendono
miliardi di dollari in ricerca, con l'obiettivo di distribuire in modo massiccio
farmaci di marca nelle economie emergenti (come quella indiana), dove il 90%
delle vendite di medicinali è rappresentata da medicinali generici.
In
India, l'americana Abbott Laboratories e la GlaxoSmithKline sono i più grandi
distributori di farmaci, sia di marca che generici. Nel 2010, la prima ha
rilevato una società indiana di produzione di medicinali generici.
"Anno
della fede" e nuova evangelizzazione, doni immensi per la Chiesa in India
di Nirmala Carvalho
AsiaNews - Mumbai - 3 luglio 2012
P.
Savio de Sales è il nuovo direttore dell'ufficio per le Pontificie opere
missionarie dell'arcidiocesi di Mumbai. La festa di s. Tommaso apostolo, patrono
dell'India, ricorda le priorità della Chiesa in vista dell'Anno della Fede:
catechesi di adulti e bambini; dialogo interreligioso.
L'"Anno
della Fede" è "un dono immenso per la Chiesa in India, un momento di
grazia per i tesori e la saggezza di Santa Madre Chiesa, perché siano
ascoltati, celebrati e testimoniati". A parlare è p. Savio de Sales, nuovo
direttore dell'ufficio per le Pontificie opere missionarie dell'arcidiocesi di
Mumbai. In occasione della festa di s. Tommaso apostolo, patrono dell'India di
cui oggi si celebra la memoria liturgica, il sacerdote spiega ad AsiaNews il
valore dell'"Anno della Fede" (v. 15/10/2011, "Il Papa indice un
"Anno della Fede" per la Nuova Evangelizzazione e la missione ad
gentes") per la Chiesa indiana e l'importanza della nuova evangelizzazione.
P.
de Sales illustra la grande "eredità della Fede" in India: "La
nostra Chiesa ha ricevuto il dono della fede dal santo apostolo, Tommaso, e più
tardi da s. Francesco Saverio, patrono delle missioni. La società moderna ha
visto la fede testimoniata attraverso beata Madre Teresa". Secondo il
sacerdote, proprio alla luce di questo passato l'Anno proclamato da Benedetto
XVI rappresenta un momento fondamentale "per approfondire, formare e
testimoniare la fede in India. E la nuova evangelizzazione è una risposta alle
sfide del secolarismo".
Le
Pontificie opere missionarie in India seguiranno due direttrici fondamentali: la
catechesi degli adulti e quella dei bambini. "La nostra priorità - spiega
- sarà istruire studenti e giovani adulti sfruttando le tante istituzioni
cattoliche e il nostro sistema educativo. Inoltre, vogliamo promuovere la Holy
Childhood Association (la "Santa Infanzia") in tutte le scuole:
un'organizzazione dedicata ai più piccoli, per illustrare e spiegare loro la
natura missionaria della Chiesa, che vuole mettersi al servizio delle scuole
attraverso programmi e progetti".
Il
pluralismo religioso e culturale di cui si è ricca l'India, secondo p. de Sales
rendono fondamentale il dialogo tra i diversi credo: "I santuari mariani
qui sono un luogo dove si celebra il pluralismo dell'India. Decine di migliaia
di non cristiani li riempiono. E in particolare in occasione di speciali novene,
i santuari dedicati alla Vergine diventano luoghi dove la Parola di Dio deve
essere proclamata. I cristiani In India sono appena il 2,3% della popolazione:
la fede deve essere condivisa. Gesù deve essere mostrato agli altri,
soprattutto quelli che non lo hanno mai conosciuto. Conosco molte persone che
vorrebbero abbeverarsi della Parola del Signore: alcuni magari hanno sentito
parlare di lui, ma non sanno come giungervi".
Cristiani
in India, nuovi attacchi alla libertà religiosa di Nirmala Carvalho
AsiaNews - Mumbai - 4 luglio 2012
Il
Global Council of Indian Christians (Gcic) denuncia aggressioni anticristiane in
Uttar Pradesh e in Karnataka, perpetrati da ultranazionalisti indù. In entrambi
i casi, la matrice comune è la complicità di polizia e autorità con gli
aggressori.
Non
si fermano le aggressioni contro i cristiani dell'India, perpetrate da
ultranazionalisti indù con la complicità della polizia. Gli ultimi episodi in
ordine di tempo sono avvenuti in Karnataka e in Uttar Pradesh. Sajan George,
presidente del Global Council of Indian Christians (Gcic), denuncia una
situazione "non più tollerabile per l'India laica", dove "sempre
più spesso i cristiani non godono della libertà costituzionale di professare e
praticare la propria religione, nei loro luoghi di culto".
Il
primo luglio scorso a Vijayapura (Karnataka) il rev. Kantharaj Hanumanthappa,
pastore della Chiesa pentecostale Zion Prarthana Mandira, stava conducendo un
servizio di preghiera nella sua abitazione. All'improvviso, circa 20 attivisti
delBajrang Dal (gruppo ultranazionalista indù) hanno interrotto il raduno,
insultando i fedeli presenti e accusandoli di fare proselitismo tra gli indù.
Per non far degenerare la situazione, il pastore ha deciso di interrompere il
servizio. Poi, insieme ad alcuni dei presenti si è recato alla stazione di
polizia di Burmasagar per sporgere denuncia, ma gli agenti non hanno effettuato
ancora alcun arresto.
Una
situazione analoga si è verificata nel villaggio di Rahika (distretto di
Sitapur, Uttar Pradesh), durante un raduno di tre giorni (26-28 giugno) di una
Chiesa pentecostale della zona. Intorno alla mezzanotte del primo giorno, alcuni
poliziotti si sono introdotti nella casa del pastore Ramgopal, gli hanno
sequestrato il cellulare e lo hanno portato alla stazione di polizia. Gli agenti
lo hanno minacciato: "O ve ne andate via da qui e non tornate mai più, o
ti arrestiamo". Inutili gli interventi di funzionari locali del Gcic: la
polizia ha rilasciato il pastore solo dopo avergli fatto firmare una
dichiarazione, in cui prometteva di non condurre più alcun servizio di
preghiera nella zona.
"Episodi
come questi - sottolinea Sajan George - sono ormai una consuetudine, soprattutto
negli Stati guidati dal Bharatiya Janata Party (Bjp, partito ultranazionalista
indù, ndr). Membri del Sangh Parivar attaccano la vulnerabile comunità
cristiana, nel silenzio e nella protezione delle autorità. I nostri appelli per
garantire maggiore sicurezza sono inutili".
Seminaristi cattolici in una comunità musulmana per rafforzare il dialogo
AsiaNews - Jakarta - 6 luglio 2012
All’insegna
dell’amicizia e della tolleranza, p. Robert Suraji Pr ha organizzato un corso
di formazione dedicato a 22 futuri preti dello Java. L’iniziativa sostenuta a
livello “materiale e morale” dalla Conferenza episcopale. I partecipanti
trascorreranno qualche giorno in un “seminario” musulmano, per conoscere e
incontrare le guide religiose del futuro.
Seguendo
l'ideale di società pluralista e multiconfessionale che ha ispirato la nascita
dell'Indonesia, un sacerdote cattolico ha promosso un'iniziativa dedicata ai
seminaristi per rafforzare lo spirito di "amicizia e tolleranza" verso
i concittadini musulmani. L'arcipelago è stato spesso teatro di violenze
interreligiose, con attacchi e discriminazioni della maggioranza islamica nei
confronti delle minoranze, fra cui cristiani, indù e ahmadi. Per favorire
l'incontro e il dialogo p. Robert Suraji Pr ha organizzato corsi di formazione
rivolti ai futuri preti, che prevedono studi e approfondimenti volti a
"migliorare la conoscenza" dell'islam. A questi si aggiunge anche la
possibilità di trascorrere un breve periodo all'interno delle scuole musulmane
"santri", il corrispettivo nell'islam dei seminari cristiani.
Al
programma partecipano 22 seminaristi provenienti da diocesi e arcidiocesi di
Semarang, Malang, Surabaya, Purwokerto e Bogor, tutte situate sull'isola di
Java. Nell'area, solo l'arcidiocesi di Jakarta - per ragioni che al momento non
sono state chiarite - non ha ritenuto opportuno aderire all'iniziativa inviando
i futuri preti alle giornate di incontro.
P.
Robert spiega ad AsiaNews che "per sei giorni, dal 2 al 6 luglio, 22
seminaristi di cinque diocesi a Java hanno seguito corsi di approfondimento nel
campo del dialogo interreligioso con altre comunità, in particolare con i
nostri concittadini musulmani". L'iniziativa è stata realizzata in
collaborazione col padre gesuita Heru Prakosa, di Yogyakarta e col sostegno
"materiale e morale" della Commissione interreligiosa della Conferenza
dei vescovi indonesiani (Kwi).
In
primo luogo, chiarisce p. Robert Suraji Pr, tutti i seminaristi sono formati per
"essere mentalmente aperti e preparati ad aprire cuore e mente al dialogo
interreligioso", perché le "buone intenzioni" sono fondamentali
per la riuscita del programma. A questo si unisce anche la formazione al
dialogo, mediante lo studio e l'incontro con personalità di primo piano
dell'islam. Durante le giornate è intervenuto lo studioso musulmano Kiai Hajj
Moh. Roqhib, che ha portato "la propria esperienza", sottolineando
"le linee guida dell'islam e spiegando la propria visione del dialogo con
le comunità non musulmane".
Conclusi
gli incontri e le discussioni, ai seminaristi viene infine proposta la
possibilità di trascorrere qualche giorno in un "santri" a
Purwokerto. In lingua locale javanese un "santri" (studenti) è
l'equivalente musulmano del seminario cattolico e al suo interno vengono formati
i futuri esperti di legge e le guide religiose islamiche del Paese musulmano più
popoloso al mondo.
Dall’Asia all’Italia: migranti aumentati del 600% negli ultimi 20 anni
Radiovaticana
- 4 luglio 2012
Viene
presentato oggi a Roma il volume “Asia-Italia. Scenari migratori”, curato da
Idos e promosso da Caritas e Fondazione Migrantes. La ricerca – riferisce
l’agenzia Sir – è stata effettuata al termine di un viaggio di studio nelle
Filippine, e approfondisce la situazione delle migrazioni tra l’Asia e
l’Italia e come queste siano cambiate nel corso degli ultimi decenni. Il
continente asiatico negli ultimi 60 anni è stato il primo per numero di
migrazioni, con 65 milioni di partenze, e il primo per numero di rifugiati: 6
milioni, senza contare i palestinesi. In Italia nel 2011 gli asiatici residenti
erano 767 mila, 6 volte in più rispetto a vent’anni prima. Per provenienza,
le prime 6 nazionalità presenti in Italia sono cinesi (210 mila), filippini
(134 mila), indiani (121 mila), bangladesi (82 mila), srilankesi (81 mila) e
pakistani (76 mila). I settori di impiego lavorativo sono vari, e coloro che si
dedicano ad iniziative imprenditoriali sono perlopiù cinesi, bangladesi,
indiani e pakistani. I curatori del volume sottolineano come, in questo momento
di crisi, il mercato “continua a offrire agli immigrati asiatici discrete
possibilità di inserimento, soprattutto in agricoltura e nel settore domestico,
dall’altra, provoca l‘espulsione di quote consistenti di occupati, per i
quali la perdita del lavoro può condurre a quella del permesso di soggiorno”.
Ricordano, infine, che le aggregazioni religiose, i partiti, i sindacati e le
associazioni hanno un ruolo fondamentale nell’integrazione tra le diverse
comunità locali fra loro e con gli italiani. (A.C.)
Migranti,
la nuova Italia di nome Hu di Annachiara Valle
Famiglia
Cristiana - 6 luglio 2012
I
risultati della ricerca ''Asia-Italia. Scenari migratori'' di Caritas italiana e
Migrantes, curata da Idos e finanziata dal Fondo europeo per l’integrazione:
210 mila i cinesi.
Se
n’era avuto sentore già quando, dati anagrafici alla mano, il cognome Hu
aveva scalzato dal secondo posto dei cognomi più diffusi a Milano il classico
Brambilla. In questi giorni è arrivata la conferma, dalla pubblicazione
Asia-Italia, scenari migratori, che le presenze asiatiche nel nostro Paese sono
decisamente in crescita. Secondo la pubblicazione di Caritas italiana e
Migrantes, curata da Idos e finanziata dal Fondo europeo per l’integrazione,
infatti, i cittadini provenienti da Paesi orientali iscritti nelle anagrafi
italiane alla fine del 2010 erano 767 mila (il 16,8 per cento del totale degli
stranieri) con un aumento rispetto all’anno precedente dell’11,5. In tutta
l’Unione europea i cittadini d'origine asiatica erano poco più di quattro
milioni.
In
Italia le comunità più numerose sono quella cinese (210 mila, di cui il 48,4
per cento donne), quella filippina (134 mila, di cui 57,8 per cento donne).
Seguono i cittadini provenienti dall’India (121 mila, 39,3 per cento donne),
dal Bangladesh (82 mila, 32,2 per cento donne), Sri Lanka (81 mila, 44 per cento
donne) e Pakistan (76 mila, 34 per cento donne). Le principali Regioni di
destinazione sono la Lombardia (30,4 per cento), il Lazio (13,2 per cento) e
l’Emilia Romagna (11,5 per cento). «Il libro», ha spiegato Angelo
Malandrino, responsabile per l'Italia del Fondo europeo per l'integrazione, «ha
lo scopo di introdurre alla situazione presente, per prepararsi agli scenari
futuri che dovremo affrontare».
Secondo
il Comitato di presidenza del Dossier statistico immigrazione che ha voluto la
pubblicazione e di cui fanno parte monsignor Francesco Soddu, direttore di
Caritas Italiana, monsignor Giancarlo Perego, direttore generale della
Fondazione Migrantes e monsignor Enrico Feroci, direttore della Caritas
diocesana di Roma, «una buona conoscenza della situazione attuale e dei futuri
scenari migratori è indispensabile per impostare adeguatamente i rapporti tra
l’Italia e i diversi Paesi dell’Asia e conseguire, così, obiettivi
soddisfacenti a livello economico, socio-culturale e anche religioso».
Dalla
ricerca emerge anche che molti vescovi cattolici dei Paesi asiatici hanno
esortato i Governi a non considerare l’emigrazione una scappatoia ai problemi
politici, economici e sociali di un Paese e a impegnarsi per favorire la
crescita interna. Inoltre è stato sottolineato che l’Asia è l’area di
destinazione della maggior parte delle rimesse mondiali. Quelle in partenza
dall’Italia sono oltre 6,5 miliardi di euro.
Migranti,
più diritti con il decreto contro il lavoro nero
Misna
- 6 luglio 2012
“Un
passo avanti molto importante verso la legalità e il contrasto al lavoro
nero”: lo dice alla MISNA Andrea Olivero, presidente nazionale delle
Associazioni cristiane lavoratori italiani (Acli), dopo che il Consiglio dei
ministri italiano ha recepito le normative europee sulla regolarizzazione del
lavoro degli immigrati irregolari. Il decreto legge, basato sulla normativa
2009/52 dell’Unione Europea, permette al lavoratore irregolare di ottenere il
permesso di soggiorno denunciando il proprio sfruttatore e inasprisce le
sanzioni per il datore di lavoro che assume al nero. Il decreto è stato
sostenuto in maniera particolare dal ministro per la Cooperazione Andrea
Riccardi.
“Questo
provvedimento è intelligente e realistico – dice Olivero – perché dimostra
la presa di coscienza di una realtà fortemente esistente come quella del
mercato nero dei lavoratori stranieri”.
La
protesta contro il sistema del caporalato aveva acquisito un vasto eco sui mezzi
di informazione l’estate scorsa a partire dalle iniziative in Puglia dei
cosiddetti “braccianti di Nardò” che avevano fatto venire alla luce un
sistema diffuso di sfruttamento dei lavoratori stranieri nella raccolta dei
pomodori nelle campagne del Salento e in tutto il meridione. “Le
organizzazioni sociali – assicura il presidente delle Acli – faranno tutta
la loro parte per sostenere chi vuole denunciare: non ci saranno più alibi per
i datori di lavoro che finora hanno sostenuto di non poter regolarizzare i
propri dipendenti”. Secondo Olivero, il decreto approvato oggi permette
all’Italia di avviarsi verso “un modello di difesa della dignità del
lavoratore piuttosto che sostenere la politica delle espulsioni, rivelatesi
inutili”.
La
possibilità di denunciare il proprio datore di lavoro in caso di irregolarità,
dice il presidente delle Acli, può essere ancora più importante in tempi di
crisi quando molti stranieri sono stati costretti ad accettare assunzioni in
nero. “Speriamo – aggiunge Olivero – che non sia fatta demagogia e che
l’approccio a questa problematica rimanga intelligente e realistico”.
Tortura,
la lettera di Amnesty al ministro
Repubblica
- 6 luglio, 2012
"Che
diventi un reato è un obbligo del governo"
Il
messaggio inviato dalla direttrice generale dell'organizzazione per la difesa
dei diritti umani, Carlotta Sami, alla responsabile del dicastero della
Giustizia, Paola Severino. Raccolto con favore la ripresa della discussione in
commissione, ma c'è ancora molto da fare, secondo Amnesty.
Carlotta
Sami, direttrice generale di Amnesty International Italia 1, ha inviato oggi una
lettera al ministro della Giustizia, Paola Severino, chiedendole "di
esercitare un ruolo fondamentale nell'assicurare che l'Italia introduca
finalmente nel codice penale il reato di tortura, adottando un testo che sia in
linea con il dettato della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura,
ossia non restrittivo rispetto alla definizione in essa contenuta". Nella
lettera inviata al ministro Severino si legge: "assicurare l'attuazione
della Convenzione in tutte le sue parti, inclusa quella fondamentale di
introdurre il reato di tortura nel codice penale, è un preciso obbligo del
governo italiano, sinora disatteso, con effetti pratici molto negativi che non
hanno mancato di farsi sentire in processi in cui le responsabilità di
funzionari e agenti dello stato erano soggette ad accertamento".
Le
cose da cambiare. "Amnesty International Italia - prosegue la lettera
inviata dall'organizzazione al ministro Severino - ha accolto con molto favore
la ripresa della discussione in sede parlamentare della proposta di introdurre
il reato di tortura nel nostro ordinamento, attualmente all'esame della
Commissione Giustizia del Senato. Tuttavia, alcuni aspetti dell'ultimo testo
proposto in Commissione Giustizia destano la preoccupazione dell'organizzazione
per i diritti umani, come ad esempio l'assenza degli elementi di intimidazione e
coercizione tra le finalità della tortura e la sostituzione delle parole
'fisiche o psichiche', contenute nella Convenzione delle Nazioni Unite contro la
tortura, con il termine riduttivo 'psico-fisiche'".
Una
petizione popolare. Carlotta Sami ha infine informato il ministro che
"l'appello sul rispetto dei diritti umani da parte delle forze di polizia,
rivolto al presidente del Consiglio Monti e ai presidenti delle Camere, è stato
presentato come petizione popolare sia al Senato che alla Camera nel mese di
maggio, date le migliaia di firme raccolte da Amnesty International
Italia".
Sentenza
della Corte di Cassazione per i fatti della scuola Diaz
importante
ma incompleta e tardiva secondo Amnesty International
Amnesty.it
5 luglio 2012
Quella
emessa oggi dalla Corte di Cassazione su quanto accaduto alla scuola Diaz di
Genova nel luglio 2001 è, per Amnesty International, una sentenza importante,
che finalmente e definitivamente, anche se molto tardi, riconosce che agenti e
funzionari dello stato si resero colpevoli di gravi violazioni dei diritti umani
di persone che avrebbero dovuto proteggere.
Tuttavia,
Amnesty International ricorda che i fallimenti e le omissioni dello stato nel
rendere pienamente giustizia alle vittime delle violenze del G8 di Genova sono
di tale entità che queste condanne lasciano comunque l'amaro in bocca: arrivano
tardi, con pene che non riflettono la gravità dei crimini accertati - e che in
buona parte non verranno eseguite a causa della prescrizione - e a seguito di
attività investigative difficili ed ostacolate da agenti e dirigenti di polizia
che avrebbero dovuto sentire il dovere di contribuire all'accertamento di fatti
tanto gravi. Soprattutto, queste condanne coinvolgono un numero molto piccolo di
coloro che parteciparono alle violenze ed alle attività criminali volte a
nascondere i reati compiuti.
Per
Amnesty International, la conclusione di questo difficile processo non può
rappresentare la fine del tentativo di dare piena giustizia alle vittime del G8
di Genova. Terminata la fase degli accertamenti delle responsabilità
individuali, resta infatti tutta da fare un'analisi che porti a conclusioni
condivise su cosa non funzionò a Genova nel 2001 a livello di sistema e su come
fare in modo che ciò non si ripeta più.
Amnesty
International continuerà a chiedere alle istituzioni italiane di:
·
condannare pubblicamente le violazioni dei diritti umani commesse dalle forze di
polizia 11 anni fa e fornire scuse alle vittime;
·
impegnarsi ad assicurare che violazioni quali quelle accadute a Genova nel 2001
non si verifichino di nuovo attraverso l'attuazione di misure concrete per
garantire l'accertamento delle responsabilità per tutte le violazioni dei
diritti umani commesse dalle forze di polizia;
·
introdurre nel codice penale il reato di tortura e adottare una definizione di
tortura che includa tutte le caratteristiche descritte nell'articolo 1 della
Convenzione Onu contro la tortura;
·
creare un'Istituzione nazionale sui diritti umani in linea coi "Principi
riguardanti lo statuto delle istituzioni nazionali" (Principi di Parigi);
·
ratificare il Protocollo opzionale alla Convenzione Onu contro la tortura e
istituire un meccanismo indipendente nazionale per prevenire torture e
maltrattamenti;
·
condurre una revisione approfondita delle disposizioni in vigore nelle
operazioni di ordine pubblico, incluse quelle in materia di addestramento e
dispiegamento delle forze di polizia impiegate nelle manifestazioni, di uso
della forza e delle armi da fuoco e che tenga conto della necessità di
introdurre elementi di identificazione individuale degli appartenenti alle forze
di polizia nelle operazioni di ordine pubblico.
L'Unione europea non può delegare il controllo dell'immigrazione alla Libia
Amnesty.it - 5 luglio 2012
Commentando
il nuovo rapporto di Amnesty International sulla Libia, che descrive una
situazione di gravi violazioni dei diritti umani ad opera delle milizie armate,
Nicolas Beger, direttore dell'Ufficio di Amnesty International presso le
Istituzioni europee, ha dichiarato:
"È
inaccettabile per qualsiasi stato europeo continuare a cercare la cooperazione
della Libia in materia di controllo dell'immigrazione, quando è ampiamente noto
cosa sta accadendo ai migranti e ai richiedenti asilo politico in quel paese.
L'Italia deve immediatamente revocare ogni accordo con la Libia
sull'immigrazione e rendere interamente noti i contenuti degli accordi di
cooperazione precedenti o allo studio, compresi quelli finanziati da fondi
dell'Unione europea".
Il
rapporto di Amnesty International rileva come i cittadini provenienti dai paesi
dell'Africa subsahariana, in particolare i migranti irregolari, continuino ad
andare incontro ad arresti arbitrari, detenzioni a tempo indeterminato, pestaggi
che in alcuni casi arrivano a costituire tortura e sfruttamento da parte delle
milizie armate. Di solito, coloro che arrestano i cittadini stranieri non fanno
distinzione tra migranti e altre persone che fuggono dalla guerra e dalla
persecuzione nei loro paesi.
"Non è una guerra di religione, ma siamo turbati per gli attacchi
contro le chiese"...
scrivono
i Vescovi del Kenya
Agenzia Fides - Nairobi - 3 luglio 2012
"Siamo
profondamente preoccupati per gli attacchi mortali contro keniani innocenti
all'Africa Inland Church e alla Cattedrale cattolica di Garissa" scrivono i
Vescovi del Kenya, in un comunicato inviato all'Agenzia Fides, firmato da Sua
Eminenza il Cardinale John Njue, Arcivescovo di Nairobi e Presidente della
Conferenza Episcopale del Kenya.
Domenica
1° luglio uomini armati, che si presume siano legati agli Shabaab somali, hanno
assalito la Cattedrale cattolica di Garissa e la locale chiesa evangelica
dell'Africa Inland Church provocando almeno 17 morti e una cinquantina i feriti
(vedi Fides 2/7/2012).
"Questi
ingiustificati atti di violenza inflitti ai keniani, inclusi donne e bambini,
non solo provocano la perdita di vite innocenti ma creano anche un senso di
insicurezza tra i cristiani e tutti i keniani desiderosi della pace"
afferma il comunicato.
I
Vescovi precisano inoltre: "mentre riaffermiamo il nostro convincimento che
non siamo in presenza di una guerra di religione, siamo turbati dal fatto che
gli attacchi sono stati condotti contro chiese cristiane. Come Conferenza
Episcopale del Kenya, chiediamo a tutti i keniani di lavorare per promuovere la
coesistenza pacifica".
Nel messaggio si chiede inoltre a tutti di collaborare con le forze di polizia per fermare le violenze e il terrorismo e si richiamano le responsabilità del governo perché conduca indagini approfondite e valuti le condizioni di sicurezza del Paese. (L.M.)
"Cerchiamo
di accrescere la collaborazione con i musulmani" dice il Vescovo coadiutore
di Garissa
dopo
gli attentati contro le chiese
Agenzia Fides - Nairobi - 4 luglio 2012
"La
situazione è calma. Sia i cristiani sia i musulmani hanno condannato gli
attentati. Tutti affermano che non esiste una guerra di religione ma che gli
assalti alle due chiese sono probabilmente una reazione alla presenza
dell'esercito keniano in Somalia" dice all'Agenzia Fides Sua Ecc. Mons.
Joseph Alessandro, Vescovo coadiutore di Garissa, la località del Kenya dove
domenica 1° luglio sono state attaccate due chiese, tra le quali la Cattedrale
cattolica.
"Ieri
si è svolto un incontro con le autorità civili e religiose dell'area, al quale
abbiamo partecipato come Chiesa cattolica" dice Mons. Alessandro, che
aggiunge: "il Vescovo, Mons. Paul Darmanin, ha organizzato una riunione che
si terrà domani con i sacerdoti, i religiosi e le religiose per verificare la
situazione. L'intenzione è quella di accrescere gli aiuti ai musulmani per
dimostrare che non abbiamo nulla contro di loro. Già ora ogni mese distribuiamo
cibo anche a famiglie musulmane in difficoltà a causa della carestia".
La
stampa somala riporta l'arresto di alcune persone che sarebbero coinvolte nel
duplice attentato contro le chiese di Garissa. "Non abbiamo ancora notizie
di arresti di persone coinvolte negli attentati - afferma Mons. Alessandro - e
non si sa se gli attentatori provengano da fuori o siano del posto. È comunque
vero che qui ci sono alcuni simpatizzanti degli Shabaab. D'altronde la
popolazione dell'area è formata da somali, ed è difficile distinguere tra chi
è del posto e chi viene dalla Somalia" conclude Mons. Alessandro.
"Si
colpiscono le chiese perché sono bersagli facili, ma la motivazione è
politica"...
dice
a Fides il Vescovo di Garissa
Agenzia Fides - Nairobi - 2 luglio 2012
"Non
penso che si tratti di un problema religioso, ma di una reazione per mettere in
imbarazzo il governo di Nairobi per quello che l'esercito keniano sta facendo in
Somalia contro gli Shabaab" dice all'Agenzia Fides Sua Ecc. Mons. Paul
Darmanin, Vescovo di Garissa, la località del Kenya dove ieri, domenica 1°
luglio, uomini armati, probabilmente integralisti islamici somali Shabaab, hanno
attaccato due chiese, tra cui la Cattedrale cattolica.
Mons.
Darmanin descrive a Fides gli attacchi: "Il 1° luglio, intorno alle 10,30
del mattino ora locale, sono state lanciate contro la chiesa di Nostra Signora
della Consolata due bombe a mano, delle quali solo una è esplosa di fronte
all'edificio, non al suo interno, provocando alcuni feriti leggeri. Alla African
Inland Church l'attacco è stato più letale. Gli assalitori, dopo aver ucciso
due soldati che montavano la guardia al luogo di culto, hanno gettato alcune
bombe a mano all'interno dell'edificio dove i fedeli erano riuniti per la
funzione religiosa. Lo scopo era farli fuggire fuori, dove sono stati colpiti
con gli AK 47 presi ai soldati. Si è trattato di un attacco ben organizzato nel
quale almeno 16 persone sono morte e diverse sono ferite gravemente".
Il
Vescovo ritiene che la pista più probabile sia quella politica: "Gli
Shabaab avevano minacciato rappresaglie per le operazioni condotte dall'ottobre
2011 dall'esercito del Kenya in Somalia. Ora che l'esercito di Nairobi ha
accresciuto la pressione su Chisimaio, la loro ultima roccaforte nel sud della
Somalia, gli Shabaab hanno aumentato le minacce di colpire in territorio
keniano".
"Garissa
non è lontana dal confine con la Somalia" continua Mons. Darmanin.
"Il confine è facilmente attraversabile nonostante il governo stia facendo
del suo meglio per controllarlo".
Chiediamo
al Vescovo di Garissa perché se il movente di questi assalti è politico si
colpiscono le chiese. "Le chiese sono attaccate perché sono bersagli
facili da colpire ("soft target"). Inoltre la popolazione locale è
quasi totalmente musulmana, i cristiani sono keniani provenienti da altre zone
del Paese, che sono considerati come stranieri almeno da una parte della
popolazione autoctona" risponde Mons. Darmanin, che conclude chiedendo a
tutti di pregare per la pace nel Paese. (L.M.)
Peggiora quadro umanitario, Timbuctù perde pezzi di storia
Misna - 2 luglio 2012
Il
peggioramento della situazione umanitaria nel nord del Mali e la distruzione dei
mausolei di Timbuctù sono stati al centro di un intervento del segretario
generale dell'Onu, Ban Ki-moon. In un comunicato diffuso ieri, il massimo
rappresentante delle Nazioni Unite ha ribadito il suo sostegno agli sforzi per
risolvere la crisi condotti in particolare da Unione Africana e Comunità
economica dei paesi dell'Africa occidentale (Cedeao, riunitasi giovedì e venerdì
scorso per affrontare la questione maliana e gli altri fronti caldi della
regione), ma ha anche manifestato rammarico per la perdita di patrimoni
culturali senza prezzo come i mausolei di Sidi Mahmoud, Sidi Moctar e Alpha
Moya.
I
mausolei erano stati inseriti soltanto la scorsa settimana nella lista del
patrimonio mondiale in pericolo. La decisione era stata presa dal Comitato del
patrimonio mondiale dell'Unesco (Organizzazione Onu per l'educazione, la scienza
e la cultura) riunito a San Pietroburgo. Sebbene invocata dal governo di Bamako,
la misura potrebbe però aver sortito l'effetto contrario a quello sperato,
spingendo Ansar al Din - uno dei gruppi armati che controlla il nord del Mali -
a distruggere luoghi di culto e pellegrinaggio che esulano dalla sua rigida
interpretazione dell'islam. Di quella lista fa parte anche la tomba di Askia, a
Gao, ancora apparentemente integra.
A
Gao gli islamisti del Movimento per l'unicità e il jihad nell'Africa
occidentale (Mujao) stanno intanto consolidando il controllo della città,
completamente sottratta all'influenza già relativa dei tuareg del Movimento
nazionale di liberazione dell'Azawad (Mnla). Di questi ultimi, cacciati da Gao
ma anche da Timbuctù, non sono ancora chiari né posizione né possibili nuovi
obiettivi.
Le
ultime vicende hanno ulteriormente appesantito il bilancio umanitario. Secondo
l'ultimo rapporto dell'Ufficio dell'Onu per il coordinamento degli aiuti
umanitari (Ocha) gli sfollati interni sono 158.857, i rifugiati registrati in
Burkina Faso, Mauritania e Niger 181.742. A questi occorre aggiungere i migliaia
che hanno trovato riparo in Algeria dove gli aiuti non sono coordinati dalla
comunità internazionale.
È tempo di salvare i Luoghi santi
di Joshua Lapide
AsiaNews - Gerusalemme - 2 luglio 2012
La
Basilica della Natività sotto l'Unesco; il Monte Tabor come "parco
nazionale".
L'accoglienza
della Basilica della Natività nella lista del "Patrimonio dell'umanità"
è accolta con soddisfazione dei cattolici perché la chiesa ha urgente bisogno
di restauro, finora frenato dalla comunità ortodossa. Importante garantire
"l'integrità architettonica" per evitare scempi come quello compiuto
nel Santo Sepolcro con la costruzione del Katholikon. È anche importante
vigilare sui tentativi israeliani di mettere "sotto la protezione dello
Stato" i Luoghi santi della Galilea.
L'inserimento
della Chiesa della Natività a Betlemme fra i siti "patrimonio dell'umanità"
da parte dell'Unesco, ripropone il problema e la precarietà dei Luoghi
santi spesso sottoposti a ingerenze ingiuste dalle stesse comunità cristiane e
dalle autorità israeliane e palestinesi.
Cominciamo
con la Basilica della Natività. Il Custode di Terra Santa, p. Pierbattista
Pizzaballa, ha espresso un cauto ottimismo sulla vicenda. Ma fra i cristiani -
soprattutto i cattolici - vi è meno cautela ed essi esprimono soddisfazione per
il riconoscimento dell'Unesco. In questo modo, infatti, l'Autorità palestinese
avrà possibilità di lanciare una campagna internazionale per raccogliere le
offerte necessarie al restauro e soprattutto alla riparazione del tetto della
basilica, che necessita un urgente intervento.
La
Basilica della Natività - con quella del Santo Sepolcro a Gerusalemme e la
cripta della Tomba di Maria ai piedi del Monte degli Ulivi - sottostanno al
regime giuridico internazionale noto come "Status quo". Non risulta
che la Chiesa cattolica o altre comunità cristiane abbiano titolo di
proprietà sulla Basilica. Vi è piuttosto è una complessa distribuzione
di diritti di possesso, uso, officiatura, della cui osservanza è garante lo
Stato. Questi ha anche il dovere di intervenire per far osservare lo
Status quo nel caso ci siano o si temano violazioni; per garantire la solidità
ed agibilità degli edifici qualora non ci sia unanimità tra le Chiese
principali lì presenti. Tali Chiese sono: il Patriarcato greco-ortodosso di
Gerusalemme; la Custodia francescana di Terra Santa (che, per mandato
pontificio, vi rappresenta la Chiesa Cattolica); il Patriarcato armeno ortodosso
di Gerusalemme.
Fino
ad ora, proprio i greco-ortodossi avevano ostacolato ogni intervento comune per
riparare il tetto della Basilica, che ne ha bisogno urgente. Se ci fosse stato
l'accordo fra di loro, le tre comunità avrebbero dovuto riparare in proprio
l'edificio pericolante (come in un passato non lontano è stato fatto nella
Basilica del Santo Sepolcro a Gerusalemme). Ma la mancanza di accordo e lo stato
di pericolo del tetto ha obbligato l'Autorità nazionale palestinese ad
intervenire e a provvedere per il restauro.
Da
un certo punto di vista, perciò, la mossa palestinese di far dichiarare
all'Unesco la Basilica della Natività quale "patrimonio dell'umanità"
salva il Luogo santo e rende più facile reperire la copertura economica
necessaria, molto dispendiosa. Inoltre, le comunità cristiane che officiano
alla Natività hanno ricevuto la garanzia scritta che l'Anp non intralcerà
l'uso della Basilica e anzi garantirà lo svolgimento delle funzioni secondo lo
"Status quo"; il che del resto è garantito nell'Articolo 4 dell'
Accordo di Base tra la Santa Sede e l'Olp (2000).
Fra
i cattolici vi sono coloro che dall'Unesco si attendono qualcosa di più:
l'inclusione della Basilica della Natività nel Patrimonio dell'umanità
dovrebbe garantire anchel'integrità architettonica del Luogo santo. E questo
per evitare che anche nella Basilica della Natività avvengano in futuro degli
scempi come quello che è avvenuto nella Basilica del Santo Sepolcro. Essa è un
bellissimo gioiello di epoca crociata a pianta circolare. Ma alcuni decenni fa,
proprio i greco-ortodossi hanno innalzato il cosiddetto Katholikon, due mura che
racchiudono un sacello e che ha sconvolto lo spazio architettonico
dell'edificio. Ormai, quando uno entra dalla porta e incontra la cosiddetta
Pietra dell'unzione, non si trova davanti la corona di colonne attorno
all'edicola del Santo Sepolcro, ma un semplice, banale muro, che distrugge la
logica architettonica della chiesa più importante della cristianità.
Per
tutti i Luoghi santi non di proprietà delle singole Chiese, è importante che
venga perciò garantito nel presente e nel futuro l'integrità architettonica.
Vi
è però la stragrande maggioranza dei Luoghi santi (in effetti, tutti gli
altri, che non sono retti dallo "Status quo") di proprietà delle
singole Chiese. In quanto proprietà privata, essi non devono essere assunti da
nessuno Stato per farne in alcun senso Patrimonio di alcuno, anche se essi per sé
rivestono un'importanza mondiale. Da tempo, ad esempio, lo Stato israeliano
spinge perché alcuni Luoghi santi come il Monte Tabor, Cafarnao, e altri
santuari cattolici della Galilea vengano messi sotto la "protezione"
dello Stato. La Chiesa cattolica si oppone per principio: essi sono proprietà
privata degli enti ecclesiastici e non possono in alcun senso essere ceduti ad
altri. Del resto, non si capisce che valore avrebbe la "protezione":
proteggere da chi? Se lo Stato vuole proteggerli, basta che li rispetti e faccia
magari azioni in positivo, senza pretendere di intromettersi, rischiando
interferenze indebite.
Da
questo punto di vista, la decisione dell'Unesco di accogliere la Basilica della
Natività nel Patrimonio universale, pur positiva, rischia di offrire un
sostegno e un pretesto ai tentativi di nazionalizzazione di altri santuari in
Israele e Palestina.
Per
questo, la Chiesa cattolica insiste da tempo perché si tolga, ad esempio, la
definizione di "parco nazionale" al Monte Tabor e ad altri maggiori
santuari in Galilea, proprio perché questi sono santuari cattolici e proprietà
privata.
Rendere
questi santuari dei "parchi nazionali" rischia di negare, negli
effetti, la proprietà della Chiesa e minano il loro carattere sacro.
A 20 anni dalla nascita, la Chiesa punta sui giovani e sulla famiglia...
per
essere “luce e Buona Novella”
Agenzia Fides - Ulaan Bataar - 7 luglio 2012
E'
una Chiesa giovane, che affida il suo futuro ai giovani e alle famiglie: la
comunità cattolica in Mongolia, forte di oltre 800 fedeli, celebra i 20 anni
della sua presenza nel paese e lo fa, come dice all'Agenzia Fides S.Ecc. Mons.
Wenceslao Padilla, Prefetto Apostolico, “con lo spirito del Magnificat di
Maria, riconoscendo che il Signore ha fatto grandi cose per noi”, continuando
a “promuovere la dignità della persona umana, la dignità del matrimonio e
della vita familiare, la formazione dei giovani”.
“La
celebrazione dei 20 dalla nascita della prima missione in Mongolia – spiega il
Prefetto Apostolico – ci ricorda che siamo chiamati a camminare in questo
mondo con la luce di Cristo, a vivere la nostra vita etica e morale in pienezza,
secondo il Vangelo, cercando di essere luce e Buona Novella l'uno per
l'altro”. Mons. Padilla continua: “Siamo chiamati a rafforzare il nostro
contributo alle opere sociali, di sviluppo, educativo e spirituale di cui a
popolazione ha bisogno. Come discepoli di Gesù Cristo, Verbo incarnato, non
possiamo vivere senza prendere in considerazione la situazione concreta della
società, facendo opere di carità e atti di misericordia”
Fra
le attività speciali previste per il 20° anniversario, oggi, 7 luglio, vi è
la celebrazione della “Giornata nazionale della Gioventù mongola”
(Mongolian Youth Day) e domani, 8 luglio, una solenne Eucaristia presso la
Cattedrale di Ulaan Baatar, alla presenza delle autorità civili e religiose,
fra le quali di S. Ecc .Mons. Savio Hon Taifai, Segretario della Congregazione
per l'Evangelizzazione dei Popoli, e di Mons. Lazzaro You Heung-sik, Vescovo
della diocesi di Daejeon, in Corea del Sud.
Inoltre,
in occasione del XX anniversario, le parrocchie in Mongolia passeranno da 4 a 5,
con l’elevazione della Chiesa “Maria Madre della Misericordia” a rango di
parrocchia, mentre sarà inaugurata la Scuola elementare cattolica, che la
Chiesa ha iniziato a costruire due anni fa. Nei prossimi mesi, Mons. Padilla
prevede incontri particolari con le comunità e i diversi settori della Chiesa
locale, per ascoltare le aspirazioni e i desideri di tutti le componenti
ecclesiali. Le celebrazioni culmineranno il 7 ottobre 2012, giorno in cui tutti
i fedeli cattolici mongoli sono invitati a piantare un albero, in ricordo dei
primi 20 anni di vita della Chiesa.
Da
zero a 800 fedeli: una comunità in piena crescita, impegnata per il bene della
società
Agenzia Fides - Ulaan Bataar - 7 luglio 2012
Seminare
il Vangelo, impegnarsi per bene comune, lottare contro la povertà, contribuire
allo sviluppo umano, culturale, morale e spirituali: con tali criteri la Chiesa
in Mongolia prepara il suo futuro, a 20 anni dalla sua nascita nel paese. E'
quanto afferma, in una Lettera pastorale dal titolo dal titolo "Celebrare i
20 anni della presenza cattolica in Mongolia", S.Ecc. Mons. Wenceslao
Padilla, Prefetto Apostolico. La Lettera inviata, all'Agenzia Fides, traccia un
quadro storico e contemporaneo della Chiesa locale in Mongolia.
Alla
caduta del regime comunista, nel 1991 - ricorda il Prefetto - in Mongolia non
c'erano cattolici. Nel 1992, con la nuova Costituzione che riconosce la libertà
religiosa, fu istituita la prima "Missino sui iuris" e furono
allacciate relazioni diplomatiche fra Santa sede e Mongolia. In quell'anno
Giunsero nel paese i primi tre missionari pionieri, che hanno ricostruito luoghi
di culto e aiutato la popolazione, rinnovando il cammino di evangelizzazione.
Nel 2006 i cattolici erano circa 600, compresi 350 nativi mongoli. Oggi i
missionari sono 81 di 22 nazionalità diverse e di 13 istituiti religiosi o
gruppi diversi. Dopo 20 anni di evangelizzazione, i fedeli cattolici battezzati
sono oggi 835 e molti altri continuano la preparazione per il battesimo. La
prima vocazione del paese è nata nel 2008 e due giovani mongoli sono ora in uno
dei seminari più importanti della Corea del Sud, presso l'Università Cattolica
di Daejeon, perseguendo il cammino e la formazione al sacerdozio.
Con
l'aumento del personale della Chiesa (missionari e collaboratori locali), sono
fiorite opere pastorali, sociali, di sviluppo, educative, caritative e
umanitarie. La missione cattolica conta oggi 2 Centri per bambini di strada, una
casa per anziani, 2 asili Montessori, 2 scuole primarie, un centro per bambini
portatori di handicap, una scuola tecnica. Ha creato inoltre 3 biblioteche con
sale di studio e strutture informatiche, un ostello per gli studenti
universitari, dotato di moderne strutture, vari centri per attività giovanili.
Sono in pieno funzionamento due 2 aziende agricole in aree rurali, con programmi
che aiutano le comunità rurali, un ambulatorio e un clinica. La Caritas
Mongolia, conclude Mons Padilla, porta avanti programmi di approvvigionamento
idrico, costruzione di case per indigenti, agricoltura sostenibile, sicurezza
alimentare, promozione sociale, lotta al traffico di esseri umani. (PA)
Un paese in (s)vendita di Giacomo Palagi
Nigrizia
- 5 luglio 2012
Gli
interessi stranieri per i giacimenti di carbone e per le terre coltivabili
Maputo,
in questi anni, ha ricevuto decine di miliardi di euro in finanziamenti e aiuti.
Ma non si sa dove siano finiti, se si guarda lo stato della sanità, della
scuola, delle infrastrutture. O meglio, sono finiti nelle tasche dei potenti del
Frelimo, partito onnivoro al potere. Non è un caso che l'uomo più ricco del
paese sia proprio il presidente Guebuza.
Sono
seduti sui binari, decisi a non far passare i convogli che trasportano il
carbone al porto di Beira, 500 km più a sud. Dicono: "Il treno può
passare, non però il nostro carbone". Gli abitanti di Kateme, nella
provincia di Tete, si sono proprio arrabbiati e sono scesi in strada per
rivendicare ciò che era stato loro promesso: case decenti, terreni da
coltivare, servizi comunitari, trasporti... La scoperta del carbone - si parla
di giacimenti tra i più ricchi del mondo - li ha costretti a lasciare i loro
villaggi e a spostarsi a Cateme, 40 km da Moatize, lungo la ferrovia. La
compagnia brasiliana Vale, concessionaria della miniera, ha ricostruito qui il
loro nuovo villaggio. Ma già lo scorso anno, alle prime piogge, le casette
avevano cominciato a mostrare crepe e diventare inabitabili.
Anche
a Maputo e a Matola, ai primi di settembre 2010, in seguito all'aumento dei
prezzi dei generi di prima necessità, la gente era scesa in strada e il governo
aveva usato la mano forte per reprimere la protesta. Poi, però, aveva dovuto
fare marcia indietro e calmierare i prezzi. Già due anni prima, la rivolta per
l'aumento del prezzo del combustibile e dei trasporti aveva causato a Maputo e
in altre città del paese violente proteste represse con la forza, causando
anche vittime. Il governo, che ha assistito con molta apprensione all'esperienza
della primavera araba del 2011, ha paura che la gente scenda in piazza per
rivendicare diritti e promesse non mantenute e non plauda più come in passato.
È
da poco terminata una campagna per porre il paese "in marcia per la pace
minacciata". Se ne è fatto promotore il partito al potere, il Fronte di
liberazione del Mozambico (Frelimo), nella speranza di mettere a tacere la
società civile che si sta formando e organizzando, al di fuori (e al posto)
delle organizzazioni ufficiali di massa promosse dal partito, dalle quali non si
sente più rappresentata.
Il
Frelimo non è più granitico e monolitico come un tempo. In più occasioni, è
dovuto ricorrere a tutto il suo apparato di propaganda per ricompattare i
ranghi, richiamando lo spauracchio della guerra e parlando di pace in pericolo.
In
settembre sarà celebrato il 10° Congresso del partito, con la proposta di
modifiche alla costituzione, per rafforzare ancora di più la sua leadership. Il
partito di opposizione, la Resistenza nazionale mozambicana (Renamo), in declino
da anni, sembra essersi adattato al suo ruolo di eterno perdente, anche se ben
installato. La terza forza, il Movimento democratico mozambicano (Mdm), nata
attorno alla figura carismatica di Davis Simango, sindaco di Beira, la seconda
città del paese, per ora non impensierisce più di tanto, sia per i numeri, sia
per la scarsa presenza al di là del territorio in cui è nato, anche se
riscuote una certa simpatia tra gli intellettuali.
Già,
gli intellettuali. Salvo rare eccezioni, sembrano tenersi fuori dalla contesa
politica, per non rischiare libertà e pane quotidiano, lasciando il paese in
mano a politici e amministratori di carriera, più interessati ai propri affari
che al bene della gente. Ma è proprio tra gli intellettuali che si intravedono
fermenti nuovi e sorgono associazioni, gruppi di riflessione e di azione in
svariati campi: integrità pubblica, giustizia, buon governo, ambiente, acqua,
terra, risorse naturali, deforestazione, energie rinnovabili...
Paese
a due velocità
Non
c'è alcun dubbio che 20 anni di pace e di governo stabile abbiano portato i
mozambicani fuori dalla tragedia della guerra civile, in uno sforzo di
ricostruzione del quale si vedono oggi i frutti e che ha infuso fiducia nella
gente: strade, ponti, ferrovie riattivate, comunicazioni migliorate, servizi di
base sempre più estesi. Il settore educazione è in continua espansione, anche
se sempre costretto a inseguire la domanda. La sanità segna il passo, alle
prese con una cronica insufficienza di personale, soprattutto medico, e
ultimamente anche di medicine, poiché le tradizionali fonti di rifornimento in
Europa si stanno esaurendo.
In
due decenni sono stati iniettati nel sistema Mozambico decine di miliardi di
euro tra donazioni, investimenti a fondo perduto, prestiti e altro, da parte di
paesi donatori, Fondo monetario internazionale, banche e imprese. Ci si chiede
dove siano andati questi soldi, oltre che a finanziare l'apparato dello stato.
Piazzato
al 184° posto (su 187 paesi) per Indice di sviluppo umano, il paese gode di una
crescita annua del pil del 7-8%. È evidente che si sta procedendo a doppia
velocità. Il 38% della popolazione che risiede nelle città ha maggiori
possibilità economiche e di lavoro, entrate sicure e regolari (anche se i
salari sono molto bassi), migliori servizi scolastici e sanitari. Nelle zone
rurali, invece, la vita sembra essersi fermata, a parte i cellulari oggi
onnipresenti, quasi sempre senza credito e segnale. Il settore agricolo
familiare non gode di alcuna assistenza, anche se costituisce la base
dell'economia del paese. Lontano dai centri urbani le comunicazioni sono
difficili, le strade giacciono in uno stato di abbandono, mancano i servizi, le
strutture scolastiche e sanitarie sono insufficienti e localizzate in edifici
precari e disertate da insegnanti e infermieri. La gente si sente dimenticata
dal governo, impegnato in altre faccende ben più redditizie e presente solo al
momento delle campagne elettorali.
La
doppia velocità si vede anche nei consumi. Per i pochi benestanti ci sono
centri commerciali, boutique, negozi esclusivi con merce importata, trasporti. I
mercati rionali e il commercio informale servono il resto della popolazione con
prodotti mozambicani, spesso di qualità scadente.
Il
governo è impegnato in una campagna di lotta alla povertà, che dovrebbe
culminare con il 2015, l'anno degli Obiettivi del Millennio. Sono discorsi che
non convincono nessuno. Lo scrittore Mia Couto dice: "La maggior povertà
di cui soffre il Mozambico è l'incapacità di produrre un discorso innovatore.
Quello contro la povertà è un discorso povero, ripetitivo, fondato su
stereotipi e slogan populisti. Non tocca la realtà, non va al fondo della
questione".
C'è
un partito... più partito
Lo
strapotere del Frelimo ha impedito ogni tentativo di un pensiero diverso. Ha
continuato a confermare al potere i soliti dinosauri che, da politici, si sono
trasformati in padroni dell'economia e della finanza. Non c'è conflitto di
interessi che li fermi. Li trovi a capo di banche, di imprese telefoniche e di
trasporto. Mediano megaconcessioni di terre agricole e di miniere. Siedono nei
consigli di amministrazione dei mezzi d'informazione, di agenzie e fondazioni
varie.
Maestro
in tutto questo è il presidente Armando Guebuza, l'uomo più ricco del paese. I
ministri e i parlamentari non sono da meno: l'importante è che siano del
partito al potere. I vescovi cattolici hanno definito questo stato di cose
partidarização: tutto deve girare sotto l'insegna del partito. Serve la
tessera del Frelimo per avere un lavoro pubblico, un posto di insegnante o la
pensione, e per aprire un'attività commerciale e ottenere un appalto.
È
vero che la costituzione nata dagli accordi di pace del 1992 ha introdotto un
sistema democratico multipartitico. Ma da tempo è in corso un colpo di stato
strisciante, che ha riportato il paese al monopartitismo (il Frelimo ha oltre il
70% dei seggi in parlamento e governa tutte le province e municipi, con
l'eccezione di Beira e Quelimane, in mano all'Mdm), rende nulla l'opposizione e
allontana gli elettori dal voto. Il parlamento ha il solo compito di ratificare
le leggi presentate dall'esecutivo. La magistratura è succube del potere
politico.
Ci
sono due città in Mozambico che stanno letteralmente esplodendo. Una è Tete,
importante nodo stradale tra Zimbabwe, Zambia e Malawi, centro carbonifero già
dal tempo coloniale, con riserve stimate tra le più grandi del mondo. Qui si
sono concentrati le maggiori compagnie minerarie (Rio Tinto, Vale, Jindal-India)
e gli interessi di paesi emergenti affamati di fonti energetiche (Brasile, Cina,
India, Giappone, Vietnam, Malaysia, Sudafrica...). L'altra è Nacala,
sull'Oceano Indiano, con un porto naturale tra i più profondi dell'Africa
Orientale. Le due città stanno vivendo uno sviluppo industriale e un incremento
di popolazione unici in Africa. Il fatto che le miniere e il porto distano 1.000
km non scoraggia le compagnie, che stanno ricostruendo la ferrovia (che passa
per il Malawi).
"Eldorado"
Mozambico
Gli
enormi giacimenti di carbone nella provincia di Tete hanno attratto
investimenti, imprese di appoggio, di servizi, di costruzioni. Tra il 2009 e il
2011 sono state date 112 concessioni minerarie a compagnie straniere; gli
investimenti tra il 2005 e il 2011 sono stati di circa 20 miliardi di euro. Ora
il governo ha messo uno stop a nuove concessioni, aprendo la possibilità anche
a compagnie mozambicane.
E
non c'è solo il carbone. Abbondano anche oro, uranio, grafite, tantalite,
pietre preziose. Da sempre i garimpeiros sono al lavoro: basta ricordare le
miniere dell'impero di Monomotapa, che tanto alimentarono la leggenda e la brama
dei primi coloni portoghesi, fino a identificarlo con il mitico regno di Ofir.
In tutto questo carosello di concessioni, la corruzione regna sovrana, sotto le
mentite spoglie di partnership e imprese miste. Tutto è concordato a Maputo,
sotto l'occhio vigile del Frelimo.
Anche
le concessioni agricole obbediscono alla stessa logica di partito. Dal 2004 al
2009 sono stati dati in concessione 2,5 milioni di ettari di terre fertili. Lo
scorso anno 60.000 km2 di terre agricole sono stati ceduti, a prezzi irrisori e
per 50 anni, a "coloni" brasiliani nelle province di Nampula, Niassa e
Zambezia, per coltivare soia da mettere sul mercato cinese; 40.000 ettari a
imprese vietnamite e 60.000 alla brasiliana Vale nella provincia di Nampula. Le
foreste, invece, sono appannaggio di imprese cinesi: l'esportazione massiccia di
legname serve a pagare le grandi opere che la Cina sta facendo per il governo
(stadio nazionale, aeroporto di Maputo, strade, edifici pubblici e altro).
Il
paese è sotto attacco con la pratica del land grabbing, che mette a rischio
gran parte della popolazione rurale, obbligata a lasciare le terre o a
reimpiegarsi in monocolture per biocombustibili. Al confine con la Tanzania, nel
bacino del fiume Rovuma e al largo delle coste, si sono installate imprese
petrolifere con le loro piattaforme: la Galp portoghese, l'americana Anadarko,
l'italiana Eni. È di pochi mesi fa l'annuncio da parte dell'Eni dell'esistenza
di enormi giacimenti di metano: il gas dai campi di Temane e Pande, nella
provincia di Inhambane, è già convogliato verso il Sudafrica, in un
metanodotto che lambisce Maputo, ma che non ne lascia nel paese nemmeno un metro
cubo.
Da
questo "Eldorado" cosa ricava lo stato? Notizia del 9 gennaio scorso:
secondo il Supremo tribunale amministrativo, nel 2011 i megaprogetti hanno
contribuito per meno dell'1% alle entrate dell'erario. Ogni anno, il governo di
questo "Eldorado", diventato ormai un vero paradiso fiscale per le
imprese multinazionali, prepara la lista della spesa per i paesi donatori.
Questi, però, cominciano a stufarsi e a storcere il naso, davanti a tutto
questo ben di Dio che lascia il Mozambico esentasse.
Interessa
sapere com'è finita la protesta degli abitanti di Cateme? Sono stati presi a
manganellate dalle Forze di intervento rapido (Fir), che li hanno dispersi e
rincorso fin dentro le loro fatiscenti case.
I
TRE "TEMPI" DELLA CHIESA LOCALE
Nei
20 anni succeduti all'Accordo di pace (1992), che vide protagonisti i vescovi e
le comunità cristiane mozambicane, la chiesa cattolica ha conosciuto momenti
diversi.
C'è
stato un primo periodo di euforia per la pace ritrovata e per la libertà di
movimento, di culto, di insegnamento, contrassegnato dal ritorno in massa alla
pratica cristiana, dal moltiplicarsi di comunità cristiane, dalla necessità di
ricostruire i luoghi di culto, gli edifici ecclesiastici e scolastici restituiti
dallo stato. Peccato che si sia ricaduti nella tentazione dell'avere e del
potere, perdendo la forza profetica che veniva da un annuncio libero da
privilegi.
In
un secondo momento c'è stato l'arrivo di nuove forze missionarie, soprattutto
dall'America Latina. Inesperti, con scarsa inculturazione e poca conoscenza del
cammino storico della chiesa mozambicana, sono parsi tesi a riprodurre modelli
di chiesa e di pastorale buoni altrove, ma poco accetti qui.
È
seguito un terzo momento incentrato sulla formazione dei sacerdoti diocesani (in
aumento numerico costante) e sulla fondazione dell'Università Cattolica. Da
parte degli istituti religiosi c'è stata una "corsa alle vocazioni",
con il pericolo di una scarsa qualità formativa, disincarnata e lontana dalla
missione, rivolta soprattutto alla promozione dei candidati e dell'istituto
stesso.
Oggi
si invoca da più parti maggior profetismo sia nella chiesa locale che negli
istituti religiosi. La missione rischia di ridursi alla gestione delle
parrocchie, ignorando i nuovi "areopaghi" in cui il messaggio
evangelico va annunciato.
Il
nuovo Piano pastorale della Conferenza episcopale del Mozambico (Cem), vorrebbe
colmare questi vuoti e ridare rilevanza alla presenza della chiesa in una società
in grande fermento. Nelle parole del suo presidente, mons. Lucio Andrice
Muandula, vescovo di Xai-Xai, il Piano intende "aiutarci a garantire la
nostra partecipazione nelle grandi sfide della chiesa in Africa, incarnata nella
realtà sociale concreta della nostra gente".
Il
Piano ha tre ambiti fondamentali: i nuovi "areopaghi" che il paese
oggi presenta, con i suoi scenari politici, economici, sociali, del lavoro,
dell'ambiente; la famiglia, in difficoltà e non tutelata per la latitanza delle
istituzioni; la formazione degli agenti di pastorale, meglio qualificati e più
aperti alle sfide che l'evangelizzazione presenta.
Rakhine: le autorità birmane arrestano 10 operatori umanitari Onu e Msf
AsiaNews - Yangon - 6 luglio 2012
Il
personale è stato fermato nei giorni scorsi per “interrogatori”. Il governo
non ha ancora fornito risposte ufficiali sulle loro condizioni. L’ong
umanitaria ha sospeso le attività per motivi di sicurezza. La zona è stata
teatro delle violenze interconfessionali fra buddisti e musulmani. Ancora decine
di migliaia gli sfollati che vivono nei campi profughi.
Le
autorità birmane hanno arrestato dieci operatori umanitari - fra cui alcuni
dipendenti delle Nazioni Unite - nello Stato occidentale di Rakhine, in Myanmar,
nelle scorse settimane teatro di violenti scontri fra buddisti Arakan e
musulmani Rohingya che hanno causato almeno 80 morti e decine di migliaia di
sfollati. È quanto denuncia l'Onu in una nota, secondo cui alcune persone
impegnate in progetti di aiuto alla popolazione sono state trattenute nei giorni
scorsi per "interrogatori" e non sono state ancora rilasciate. Il
governo birmano, prosegue il comunicato, non avrebbe inoltre risposto alle
domande sulle condizioni dei fermati, tra i quali vi sono anche sei dipendenti
dell'ong Medici senza frontiere (Msf).
Sulla
vicenda è intervenuta anche Msf, che riferisce di "non possedere
informazioni dettagliate"; dal mese scorso l'ong internazionale ha sospeso
le attività nello Stato di Rakhine e ridotto il personale ai minimi termini per
motivi di sicurezza. Ancora oggi decine di migliaia di sfollati vivono nei
centri di accoglienza e nei campi profughi allestiti dal governo, con l'aiuto
del World Food Program (Wfp) Onu, che fornisce ogni giorno cibo e pasti per
circa 100mila persone.
Nell'area
è tuttora in vigore lo Stato di emergenza. Secondo denunce di Human Rights
Watch (Hrw), le forze di sicurezza birmane hanno compiuto "ispezioni di
massa" e altri abusi ai danni delle comunità musulmane della zona. Per gli
attivisti le autorità locali sono responsabili di atti
"discriminatori" contro le minoranze, perché lasciano impuniti i
buddisti Arakan mentre si accaniscono nei confronti dei Rohingya.
A
giugno la Corte distrettuale di Kyaukphyu, nello Stato di Rakhine ha condannato
a morte tre musulmani, ritenuti responsabili dello stupro e dell'uccisione a
fine maggio di Thida Htwe, giovane buddista Arakanese, all'origine dei violenti
scontri interconfessionali fra musulmani e buddisti (cfr. AsiaNews 19/06/2012
Rakhine, violenze etniche: tre condanne a morte per lo stupro-omicidio della
donna). Nei giorni seguenti, una folla inferocita ha accusato alcuni musulmani
uccidendone 10 che viaggiavano su un autobus ed erano del tutto estranei al
fatto di sangue. La spirale di odio, sfociata in una vera e propria guerriglia e
ha causato la morte di altre 29 persone, di cui 16 musulmani e 13 buddisti,
altri 38 i feriti. Secondo le fonti ufficiali sono andate in fiamme almeno 2600
abitazioni; centinaia i profughi Rohingya che hanno cercato rifugio sulle coste
del Bangladesh, ma sono stati respinti dalle autorità di Dhaka.
Il
Myanmar, composto da oltre 135 etnie, ha avuto sempre difficoltà a farle
convivere e in passato la giunta militare ha usato il pugno di ferro contro i più
riottosi. I musulmani in Myanmar costituiscono circa il 4% su una popolazione di
60 milioni di persone. Secondo l'Onu, nel Paese vi sono 750mila Rohingya,
concentrati in maggioranza nello Stato di Rakhine. Un altro milione o più sono
dispersi in altre nazioni: Bangladesh, Thailandia, Malaysia. Lo stato di
emergenza è il primo intervento eccezionale ad opera di Thein Sein, presidente
da oltre un anno, che sta traghettando il Paese dalla dittatura militare a una
democrazia almeno minima.
Donne e poveri: le migliori guide di trekking sull'Himalaya
AsiaNews - Kathmandu - 4 luglio 2012
Nei
distretti alle pendici dell'Himalaya la popolazione non gode dei flussi
turistici gestiti da società straniere. La gente vive con pochi dollari al
giorno e muore di malattie. Ong e agenzie internazionali combattono la fame, ma
non considerano il turismo come opportunità di sviluppo. Con un'agenzia di
trekking per sole donne, tre sorelle della città di Pokhara offrono lavoro a
decine di ragazze.
I
pachidermici progetti di organizzazioni non governative e agenzie internazionali
per sconfiggere la povertà hanno portato pochi risultati dalla fine delle
guerra civile nepalese. La maggior parte della popolazione nei distretti alle
pendici dell'Himalaya vive con meno di due dollari al giorno e muore ancora di
malattie come dissenteria, malaria, tubercolosi, dengue. E questo in regioni
visitate ogni anno da migliaia di turisti e alpinisti.
Lucky,
Dicky e Nicky Chhetry, fondatrici della 3Sisters Adventure Trekking di Pokhara,
spiegano che nessuno considera il turismo un'occasione di crescita per i più
poveri e gli emarginati. Esse notano che la parola "sviluppo" è
divenuta comune fra la popolazione, ma in pochi potrebbero spiegare il suo
concreto significato. In questi anni economisti, politici e agenzie
internazionali hanno creato e sponsorizzato enormi progetti di breve periodo e
campagne per sfamare la gente, ignorando le possibilità offerte dal settore
turistico a poveri ed emarginati.
La
3Sisters Adventure Trekking è nata nel 2001 per coinvolgere le donne dei
villaggi della periferia di Pokhara (regione di Gandaki - Nepal occidentale)
nell'industria dei trekking sull'Himalaya, spesso gestiti da grandi agenzie
turistiche straniere. Con l'aiuto di guide esperte, le tre sorelle organizzano
da oltre 11 anni corsi di alpinismo per sole donne. "All'inizio le
persone ridevano di noi - afferma Dicky Chhetry - molte ragazze erano
diffidenti. Una donna che lavora nel turismo è considerata una prostituta.
Nonostante le critiche decine di giovani si sono iscritte e sono diventate
guide, raggiungendo un'autonomia finanziaria che ha consentito loro di studiare
ed emanciparsi dalle proprie famiglie". La piccola azienda ha resistito
alla guerra civile e con la caduta della monarchia ha ricominciato a lavorare e
pieno ritmo. Nel 2008 la società ha gestito circa il 52% dei trekking montani
della regione Himalayana, divenendo leader del settore. A tutt'oggi la maggior
parte dei clienti sono donne. "Alcune alpiniste - spiegano - hanno
difficoltà a trattare con guide di sesso maschile. Così si rivolgono a noi e
alle nostre giovani scalatrici".
Secondo
una ricerca del Nepal Tourism Sector Analysis, è dal 1983 che il turismo occupa
un parte importante dell'economica nepalese. Tuttavia il Nepal è ancora in
fondo alla lista dei 139 Paesi analizzati dal Rapporto sulla competitività
turistica 2011 del Wolrd Economic Forum. Tale situazione è dovuta al
disinteresse delle autorità per questo settore, alle poche infrastrutture e
alla totale assenza di politiche di marketing. Le autorità locali non
incentivano il turismo e non offrono sicurezza, costringendo gli stranieri ad
affidarsi ad agenzie estere.
Lahore: l'opera delle Suore della Carità, per dare un futuro a bambini e
tossicodipendenti di Jibran Khan
AsiaNews - Lahore - 7 luglio 2012
Dal
loro arrivo, nel 1982, le religiose hanno valorizzato l'educazione, promosso la
cura pastorale, dato una casa ai disabili e curato le dipendenze da droghe.
Nelle scuole rette minime o studio gratuito per i figli di famiglie povere.
Superiora regionale invita i sacerdoti a potenziare l'insegnamento della
catechesi.
Valorizzare
l'educazione fra i giovani, promuovere la cura pastorale, aiutare i
tossicodipendenti e prendersi cura di disabili ed emarginati dalla società.
Sono solo alcune fra le moltissime attività avviate negli anni dalle Suore
della Carità di Santa Giovanna Antida Thouret (Sdc), giunte per la prima volta
in Pakistan nel 1982 sotto la guida di sr. Anna Sammut. Le religiose hanno
scelto Lahore (nel Punjab) come base di appoggio, occupandosi all'inizio di
incentivare lo studio e l'istruzione fra i bambini poveri di Shahdara Bagh, un
sobborgo a nord della città, situato sulla sponda settentrionale del fiume
Ravi. A raccontare ad AsiaNews il loro lavoro oggi è suor Hend Salloum, prima
superiora regionale delle Sdc in Pakistan. Arrivata nel 2001 da Damasco, in
Siria, in precedenza aveva prestato la propria opera anche in Libano, Egitto,
India e sull'isola di Malta. Attraverso l'educazione, sottolinea la suora, anche i minori nati in famiglie povere possono conquistare un proprio spazio fra le mura domestiche e nella società. Per raggiungere l'obiettivo è importante promuovere un lavoro di pastorale, che favorisca lo sviluppo integrale dei bambini. |
Dopo anni sono gli stessi genitori che si rendono contro dell'importanza dello studio e "fanno tutti gli sforzi possibili" per consentire ai figli di studiare.
E proprio a
Shahdara, dove è sorto il primo centro, le suore hanno predisposto agevolazioni
e aiuti per le famiglie numerose, perché tutti i bambini abbiano accesso e
diritto allo studio.
Suor
Hend Salloum spiega il lavoro delle religiose a Lahore, nel campo della
pastorale e dell'educazione, unita alla gestione di un centro per disabili
mentali - ospita donne e bambini - chiamato Dar-ul-Krishma e situato nel
sobborgo di Youhanabad. Alle famiglie che non hanno risorse sufficienti per
mandare i figli a scuola, aggiunge, garantiamo un'istruzione gratuita oppure
chiediamo solo una retta minima. "La scuola - afferma suor Hend - è di
grande aiuto per la Chiesa locale in Pakistan".
A
Faisalabad, invece, sorge un centro per tossicodipendenti che organizza incontri
e iniziative per donne e ragazze con problemi di droga. Ad alcune di loro è
fornito anche un alloggio e la possibilità di proseguire negli studi, per
cercare di costruirsi una vita migliore. Alla Baji Mariam, questo il nome
dell'istituto fondato da una missionaria originaria di Malta, si prendono cura
di un centinaio di ragazze - all'inizio erano una ventina - grazie alla
dedizione delle religiose e delle loro collaboratrici. Spesso accade che la
polizia consegni delle ragazze alle suore, non sapendo a chi affidarle. E anche
i sacerdoti, in caso di bisogno, sanno di poter contare sull'aiuto e l'opera
solerte Suore della Carità.
Ma
il punto centrale, conclude suor Hend Salloum, ruota attorno alla formazione
religiosa delle persone; per questo lancia un invito a sacerdoti e religiosi,
perché siano "più appassionati" e vigorosi nel lavoro pastorale e
nell'insegnamento del catechismo.
I Vescovi: la violenza non può essere un mezzo per raggiungere lo sviluppo
dei popoli
Agenzia Fides - Lima - 5 luglio 2012
"Di
fronte agli episodi dolorosi di martedì 3 luglio, la Conferenza Episcopale
Peruviana (CEP) ha lanciato un nuovo appello a tutti i protagonisti del
conflitto, perchè mettano da parte i discorsi che incitano alla violenza,
valutino la forza impiegata per controllare gli scontri, riflettano insieme
sulle soluzioni comuni e in particolare rinuncino alla violenza come mezzo per
raggiungere gli obiettivi di una comunità o di un popolo". Nel comunicato
dal titolo "La violenza non può essere un mezzo per raggiungere lo
sviluppo dei popoli", inviato all'Agenzia Fides, la Conferenza Episcopale
torna sui gravi episodi avvenuti il 3 luglio nella zona di Cajamarca (a nord del
Perù), dove la popolazione manifesta contro la realizzazione del progetto
minerario Conga, che hanno causato morti e feriti.
Nel
comunicato i Vescovi ricordano anche che la vita umana è un valore supremo e
deve essere protetta e privilegiata da tutti. I Vescovi sono addolorati per la
morte violenta delle persone coinvolte in questo conflitto e chiedono alle parti
di "riprendere il dialogo, come unica via per risolvere in modo razionale e
pacifico i conflitti". Alla fine del testo, la Chiesa si mette a
disposizione per mediare e riportare la calma, perché "la Chiesa annuncia
il valore della vita e il rispetto dei diritti fondamentali dell'uomo, Promuove
l'atteggiamento di rispetto per la natura e promuove una cultura di pace e
dialogo". Il comunicato è firmato dal Presidente della CEP, Sua Ecc. Mons.
Salvador Piñeiro García-Calderón, Arcivescovo Matropolita di Ayacucho.
Un nuovo scontro tra polizia e manifestanti contrari al progetto minerario Conga si è verificato il 4 luglio nella città di Cajamarca, malgrado questa si trovi in una delle tre province della regione dove è stato decretato lo stato di emergenza. Secondo le informazioni fornite dalla Radio cattolica Onda Azul all'Agenzia Fides, il nuovo scontro si è verificato ieri, 4 luglio, verso le nove del mattino, quando la polizia ha cercato di disperdere un gruppo di persone che si erano radunate all'esterno della Cattedrale della città di Cajamarca. Le forze dell'ordine hanno dovuto usare gas lacrimogeni per disperdere i manifestanti, che hanno risposto con il lancio di oggetti come bottiglie di vetro. Va ricordato che, a causa dello stato di emergenza nella zona, sono sospese alcune garanzie costituzionali relative alla libertà personale e alla sicurezza: l'inviolabilità del domicilio (la polizia può entrare nelle case), la libertà di riunione e di transito. (CE)
No alla chiusura dei "mercati binazionali"
Agenzia Fides - Santiago - 4 luglio 2012
La
Chiesa cattolica nella Repubblica Dominicana ha espresso parere negativo sulla
chiusura dei "mercati binazionali" che si svolgono ogni settimana in
punti diversi lungo il confine con Haiti, mettendo in guardia chiunque promuova
tale misura, perché non tiene conto del danno che arreca a migliaia di haitiani
e di dominicani che affollano i mercati e riescono a sopravvivere proprio grazie
a questo tipo di commercio.
La
voce della Chiesa si è fatta sentire nell'editoriale intitolato
"Abbandonati" (Desamparados), pubblicato nell'ultimo numero del
settimanale "Camino", in cui tra l'altro si afferma: "Coloro che
sostengono la chiusura dei mercati binazionali mostrano che il loro cuore è
lontano dal confine". La settimana scorsa il Primo ministro di Haiti,
Laurent Lamothe, aveva proposto di chiudere i mercati binazionali come parte di
una serie di misure volte ad eliminare il contrabbando e ad ottenere un aumento
delle entrate fiscali del paese.
La
Chiesa avverte che, se si applicano queste misure, le autorità haitiane
dimostrano di misconoscere i reali bisogni dei loro compatrioti, "perché
questo commercio informale tra i due popoli viene dal periodo coloniale ed è
stato rafforzato al tempo dell'embargo che ha colpito Haiti" decenni fa. La
Chiesa, infine, invita il governo haitiano ad aprire le porte al commercio
"e a non ostacolarlo, altrimenti vorrà dire solo aumentare la miseria. Se
il problema è la mancanza di entrate nelle casse dello stato haitiano, queste
si devono trovare altrove, e non mettendo in croce i più poveri". (CE)
Transizione passa da sicurezza e sviluppo, e dal rispetto dei minori
Misna - 4 luglio 2012
Il
rispetto delle scadenze fissate e la stabilizzazione delle regioni cadute sotto
il controllo del governo daranno la misura del successo o dell'insuccesso del
vertice del gruppo di Contatto internazionale sulla Somalia. Svoltosi negli
ultimi due giorni alla sede del ministero degli Esteri italiano, a Roma,
l'incontro è giunto a poche settimane dalla scadenza del calendario fissato
dalla Road map e che dovrebbe portare entro il prossimo 20 agosto allo
scioglimento delle Istituzioni federali di Transizione e all'approvazione di una
nuova Costituzione.
Nel
comunicato finale, il Gruppo internazionale di Contatto sottolinea che le date
da rispettare sono l'apertura (il 12 luglio) e la chiusura (il 20 luglio)
dell'Assemblea nazionale costituente, la selezione di un nuovo parlamento
federale (20 luglio), l'elezione di un presidente del parlamento (4 agosto) e di
un capo dello Stato (20 agosto).
Nella
nota che ha chiuso il vertice gli altri punti toccati sono la sicurezza, la
stabilizzazione, la giustizia e il coordinamento internazionale. Sul primo punto
è stato preso atto del rafforzamento della missione dell'Unione Africana e
della progressione del governo federale nel confronto armato con gli Al Shabaab.
Un fatto che ha consentito al governo di Mogadiscio di recuperare territorio e
che ora pone con urgenza la questione di stabilizzare le conquiste fatte per un
efficace sviluppo regionale. Il Gruppo di Contatto ha anche avvertito della
necessità di avviare un settore indipendente per la gestione della giustizia in
Somalia che sia fondato sia su sistemi formali che informali nel rispetto dei
principi internazionali.
E'
stato infine sottolineato con ottimismo il ripetersi negli ultimi mesi di
diverse conferenze internazionali sulla Somalia a partire da quella di Londra, a
febbraio, per passare a quelle di Istanbul e Dubai. Il Gruppo internazionale di
Contatto tornerà a riunirsi agli inizi del 2013 e il vertice potrebbe tenersi
in Sudafrica, paese che si è proposto di ospitare i partecipanti nel corso
dell'appuntamento romano.
A
margine dell'incontro il governo di transizione somalo ha sottoscritto un piano
d'azione per mettere fine al reclutamento di minori nelle forze armate. Il
piano, sostenuto dall'Onu, prevede il coinvolgimento di rappresentanti delle
Nazioni Unite a sostegno degli sforzi per ristabilire pace e sicurezza. Esso
prevede inoltre l'inserimento in percorsi speciali dei minori attualmente
arruolati, l'approvazione di leggi ad hoc che criminalizzino tale pratica e la
garanzia all'Onu di potere accedere alle strutture militare per verificare il
rispetto dell'accordo.
Premio alla cristiana Nimalka Fernando per la lotta in favore dei
diritti umani
Radiovaticana
- 4 luglio 2012
L’attivista
cristiana Nimalka Fernando, presidente dell’International Movement Against all
Forms of Discrimination and Racism, è stata insignita – riferisce l’agenzia
AsiaNews – del Citizen’s Peace Award 2011, uno dei più importanti premi
dello Sri Lanka, promosso dal National Peace Council (Npc) del Paese asiatico.
Il riconoscimento, consegnato lo scorso 26 giugno, è stato assegnato alla donna
per il coraggio, l’impegno e l’iniziativa che ha dimostrato, in modo
consistente e per molto tempo, lavorando per i diritti umani e la giustizia
delle persone per una pace duratura in Sri Lanka. “In tutta onestà, sono solo
una delle migliaia di persone e movimenti che dalla fine degli anni '70 lavorano
per la giustizia e la pace in Sri Lanka”, ha commentato Nimalka Fernando
durante il discorso di ringraziamento. “Questo è anzitutto il 'loro' premio,
più che il mio, e per questo lo voglio dedicare a tutti i miei compatrioti”
ha proseguito. “Come vincitrice, questo riconoscimento mi pone dinanzi a una
sfida. Ma esso rappresenta anche un incoraggiamento per tutti noi, a continuare
il nostro lavoro. Grazie per aver voluto premiare la pace e i diritti umani in
Sri Lanka”. Alla consegna del premio, avvenuta al centro culturale Lakshman
Kadirgamar di Colombo, erano presenti membri del governo e dell’opposizione,
attivisti della società civile. Il Citizen’s Peace Award è un premio nato
due anni fa per riconoscere l’impegno di quanti, nella società civile,
lavorano per la pace, i diritti umani e l’armonia tra le diverse comunità.
(A.C.)
L'arcivescovo di Juba: ora costruire la pace
Misna
- 7 luglio 2012
“L’unica
soluzione è la pace” dice alla MISNA Paulino Lukudu Loro, arcivescovo di Juba
e presidente della Conferenza episcopale del Sudan (Scbc). Lunedì si festeggia
il primo anniversario dell’indipendenza del Sud, ma questo missionario
comboniano non è solo o soltanto “felice”. Ha servito la sua gente nella
anni della guerra civile (1983-2005) e ora non dimentica le sofferenze di chi,
anche dall’altro lato del nuovo confine, aspetta ancora giustizia.
Monsignore,
come ha vissuto questo primo anno di indipendenza?
“Sono
felice. Finalmente mi sento un cittadino, con un mio paese. Credo che tutti i
sud-sudanesi si sentano allo stesso modo. Anche se ci rendiamo conto, tutti, che
per molti aspetti è stato un anno difficile. Ma questo non oscura né
diminuisce l’importanza, storica, dell’indipendenza”.
In
Sud Sudan, però, è già emergenza. Lo scontro con Khartoum sul petrolio ha
finito per privare lo Stato di gran parte delle sue entrate. Dopo 22 anni di
guerra civile, come si costruisce il futuro?
“Il
petrolio è una delle grandi sfide da affrontare. Deve farlo il Sud Sudan e deve
farlo il Sudan, entrambi paesi appena nati. Il blocco delle esportazioni causato
dai contrasti con Khartoum sulle tariffe per il transito del greggio è un fatto
molto negativo, che nessuno voleva. Ad avere le responsabilità maggiori è però
il Sudan, che non ha mai provato a negoziare su basi di uguaglianza. La
conseguenza è che adesso mancano i fondi non solo per le scuole ma anche per
garantire la sopravvivenza stessa delle persone”.
A
Juba si festeggia mentre in diverse regioni del Sudan, dai Monti Nuba al Nilo
Blu, si continua a combattere…
“Sono
in molti a soffrire. Ci sono migliaia di sud-sudanesi trattati duramente dal
governo di Khartoum e ci sono, certamente, i Nuba. Questo popolo vive in Sudan,
intendo dire dall’altra parte del confine, dove hanno sempre avuto la loro
terra. È un popolo che sta subendo restrizioni, violenze e abusi e questo è
inaccettabile. L’unica soluzione è la pace. Per prima cosa il Sudan deve
accettare di parlare di pace”.
L'attacco ai cattolici di Vinh, "pulizia religiosa" imposta da Hanoi
di J. B. An Dang
AsiaNews - Hanoi - 4 luglio 2012
Si
fa sempre più serrata la lotta delle autorità contro la pratica del culto. Il
governo vuole "spazzare via" ogni traccia della fede, ma nel popolo si
assiste a una rinascita spirituale. La fiera opposizione del sacerdote e dei
fedeli di Con Cuong all'assalto di militari e teppisti organizzati. Sacerdote
locale: morire sull'altare "una benedizione".
La
repressione contro la libera professione del culto in Vietnam si fa sempre più
marcata. L'ultimo episodio di violazione alla libertà religiosa nel Paese
comunista - peraltro un diritto riconosciuto dalla legge dello Stato - è
avvenuto il primo luglio scorso in una cappella missionaria di Con Cuong, zona
rurale della provincia di Nghe An, nella diocesi settentrionale di Vinh; nel
raid contro i cattolici locali sono state utilizzate anche truppe da
combattimento e "teppisti", al soldo delle autorità per colpire
minoranze o reprimere il dissenso (cfr.AsiaNews 03/07/2012 Vinh: cattolici nel
mirino di teppisti e autorità. Decine di feriti fra i fedeli durante la messa).
Fonti locali parlano di una vera e propria campagna di "pulizia
religiosa" mirata a "spazzare via" ogni traccia della fede e del
culto; la stretta riguarda in particolare le aree rurali o remote del Vietnam,
dove è invece in atto una forte rinascita del senso religioso e del
cristianesimo in particolare, dopo decenni di indottrinamento ateo e comunista.
Le
autorità del distretto di Con Cuong sono sempre più intenzionate a reprimere
la pratica del culto e il bisogno di spiritualità della popolazione locale,
dopo aver più volte - in passato - ingaggiato malviventi e bande criminali per
minacciare e terrorizzare i fedeli riuniti nella cappella per pregare. In una
circostanza, essi hanno anche cercato di far saltare in aria il piccolo luogo di
preghiera ma ogni loro tentativo è risultato vano.
L'ultimo
episodio risale a domenica primo luglio. Testimoni raccontano ad AsiaNewsche
decine di teppisti e agenti in borghese hanno cercato di impedire a p. J B
Nguyen Dinh Thuc di raggiungere la cappella per celebrare la messa. Il sacerdote
ha opposto una fiera resistenza, provando a violare lo sbarramento; in risposta,
gli agenti lo hanno picchiato con brutalità punendo anche i fedeli giunti in
suo soccorso. Tra loro vi è anche la signora Maria Ngho Thi Than che ha
riportato una frattura al cranio ed è tuttora ricoverata in condizioni definite
"critiche" all'ospedale Viet Duc di Hanoi. Molti altri sono stati
arrestati e rinchiusi in galera.
La
determinazione del sacerdote e dell'intera comunità cattolica a celebrare le
messe domenicali ha scatenato la repressione di funzionari e amministrazioni,
che hanno chiesto l'intervento di un reparto dell'esercito a sostegno delle
bande di teppisti. Oltre ad attaccare con brutalità i fedeli, essi hanno anche
compiuto devastazioni ai simboli della fede cristiana, ribaltando e distruggendo
una statua della Madonna (nella foto) di fronte ai fedeli attoniti e impauriti,
lanciando al contempo insulti e improperi. Grazie alla collaborazione di altre
quattro parrocchie della zona, alcuni cristiani hanno raggiunto e circondato una
ventina di questi "teppisti", i quali hanno confessato di ricevere
circa 25 dollari come "compenso" per le loro malefatte.
Nel
tentativo di rispondere alle violenze, i fedeli di Con Cuong hanno promosso
manifestazioni davanti alla caserma di polizia del distretto: essi hanno chiesto
il rilascio dei cattolici arrestati e di aprire un fascicolo di inchiesta sugli
incidenti, sul coinvolgimento delle autorità e le violenze compiute dai
malviventi. La comunità locale non intende cedere alle pressioni e rivendica il
diritto alla libera pratica del culto. Una lotta per la libertà religiosa,
seguendo l'esempio e le parole del loro parroco: "Morire sull'altare - ha
dichiarato p. JB Nguyen Dinh Thuc - sarebbe una tale benedizione per me".
Cattolici
nel mirino di teppisti e autorità. Decine di feriti fra i fedeli durante la
messa di Nguyen Hun
AsiaNews - Hanoi - 3 luglio 2012
Un
gruppo legato al Fronte patriottico ha colpito i cattolici di Con Cuông mentre
celebravano messa. Una donna ha riportato fratture alla testa ed è ricoverata.
Le autorità pagano fino a 25 dollari gli autori dei raid, come
"rimborso" per la loro "opera". Protesta dei fedeli: violano
la libertà religiosa e le leggi del Paese.
Un
gruppo di teppisti legato al Fronte patriottico vietnamita, fomentati dalle
autorità locali, ha colpito i fedeli riuniti in una casa di preghiera di Con Cuông
- distretto della provincia di Ngh? An, diocesi di Vinh - intenti a
celebrare la messa domenicale. L'attacco contro la comunità cattolica è
avvenuto la sera del primo luglio ed è solo l'ultimo di una serie di episodi di
persecuzione, che hanno preso di mira le comunità cristiane della zona dal
novembre dello scorso anno. Fonti anonime interpellate da AsiaNewsriferiscono
inoltre che le cosiddette "autorità locali" devolvono fino a 25
dollari di "ricompensa" a malviventi che picchiano sacerdoti e laici
che desiderano solo incontrarsi per celebrare l'eucaristia.
La
sera del primo luglio, come ogni domenica, p. J.B. Nguy?n Ðình Th?c ha riunito
i fedeli in una cappella di Con Cuông per celebrare la messa. All'improvviso,
un gruppo di teppisti - con molta probabilità vicini ad un movimento
nazionalista ed estremista - ha interrotto la funzione prendendo di mira i
presenti. Fomentati dalle autorità locali, che pagano questi gruppi per colpire
le comunità cattoliche, gli assalitori hanno colpito con forza e brutalità
ferendo dozzine di persone. Una di loro, la signora Maria Ngô Th? Thanh, ha
riportato una frattura cranica ed è stata ricoverata in ospedale per cure
intensive.
Nelle
scorse settimane funzionari di Con Cuông hanno più volte vagato per le strade
del distretto a bordo di jeep, dalle quali lanciavano slogan e moniti contro i
cattolici - laici e sacerdoti - colpevoli di "celebrazione illegale di
messe". Alcune famiglie confermano che "le autorità locali non
sanno" o fingono di non conoscere "le leggi che regolano la libertà
religiosa in Vietnam". Polizia e agenti della sicurezza minacciano i
cristiani e costringono i fedeli a promettere che non parteciperanno in futuro a
funzioni o cerimonie. "Stanno violando - commentano i membri della comunità
- le leggi del Vietnam e i diritti umani di base".
Tuttavia,
a dispetto di minacce e persecuzioni che proseguono da un anno e mezzo p. .B.
Nguy?n Ðình Th?c celebra la messa domenicale e i riti legati alle principali
festività. In tutta risposta, l'amministrazione locale ha rafforzato la
politica repressiva "mobilitando centinaia di persone fra forze di polizia,
agenti in borghese e gruppi di malviventi" che lanciano sassi, colpiscono i
fedeli, compiono arresti. Una fonte, dietro anonimato, confida ad AsiaNews che i
violenti "sono ricompensati con 25 dollari ciascuno" per le loro
azioni ai danni di fedeli pacifici.
In
risposta all'ennesimo attacco, i parrocchiani hanno protestato davanti agli
uffici del Comitato popolare del distretto Con Cuông, chiedendo al segretario
locale del partito di mettere fine alle violazioni e rispettare il principio
della libera professione del culto. Ma i leader continuano a ignorare le
richieste e stanziano forze di polizia per provocare i fedeli. Nelle ultime
settimane, gli agenti addetti al controllo del traffico hanno chiuso gli accessi
alle chiese, rendendo sempre più difficile la partecipazione a messe e
funzioni. I fedeli attendono una presa di posizione forte e decisa del vescovo
di Vinh, a tutela della libertà religiosa.