Bangl@news

Newsletter settimanale sul Bangladesh, pace, mondialità e diritti umani  

Anno XII

N°  531

25/7/12

Questo numero è inviato a 7.105 lettori e a 555 lettori nella versione inglese

  

                                        

 Sommario

                 

Mondialità

»»  A Rio + 20 in Brasile L'evidente tonfo dell'Onu di A. Zanotelli

»»  Rio+20 e lo sviluppo sostenibile secondo i comboniani

»»  A New York un mese di discussioni su trattato armi

»»  Armi, 12 miliardi di proiettili e 1.500 morti al giorno di L. Ermini

»»  Grano, nuovo raid degli speculatori di G. Bernardelli

»»  Il mondo in crescita incatena ancora milioni di persone

»»  Onu: diminuisce la povertà nel mondo ma non la fame

Africa

»»  A investire sono le potenze emergenti

»»  I danni del "Protocollo di Maputo" sulle donne e sulle società africane

»»  Fame, ora tocca al Sahel di G. Albanese

»»  Sahel: insicurezza alimentare per 10 milioni di persone, un milione bambini

»»  Trattato armi, una guida per l'Africa

»»  Le regole del diritto, il corso della diplomazia di G. Albanese

Asia

»»  Vietnamiti in piazza contro le esercitazioni navali di Pechino di P. N. Hung

Algeria

»»  Cartoline dall' Algeria - 84 di p. S. Zoccarato

Bahrain

»»  Libertà vigilata per un bambino di 11 anni coinvolto nella Primavera araba

Bangladesh

»»  Campo di basket per il boarding di Dhanjuri di p. A. L'Imperio

»»  Pesanti danni per le piogge monsoniche

Brasile

»»  "Ancora oggi l'Amazzonia è considerata come una colonia"...

»»  Brasile, calano ancora i cattolici di A. Armato

Burkina Faso

»»  La corsa all'oro e le sue conseguenze sociali

Cina

»»  La predica di Pechino: il Vaticano è "barbaro e irrazionale" di B. Cervellera

»»  La polizia cinese scopre un mega consorzio per la vendita di bambini, 802 arresti

Congo RD

»»  Caschi blu pronti a difendere Goma dai ribelli. Don Gavioli: in città serve cibo

»»  Soldati loro malgrado, ricomincia l’arruolamento coatto dei bambini

Egitto

»»  Cresce lo scontro fra al-Azhar e Fratelli musulmani per il controllo dell'islam sunnita

Filippine

»»  Ritirata legge sul divieto ai segni religiosi nei luoghi pubblici. Plauso dei vescovi

India

»»  Presto medicine gratis per tutta la popolazione

»»  "Anno della fede" e nuova evangelizzazione, doni immensi per la Chiesa in India di N. Carvalho

»»  Cristiani in India, nuovi attacchi alla libertà religiosa di N. Carvalho

Indonesia

»»  Seminaristi cattolici in una comunità musulmana per rafforzare il dialogo di M. Hariyadi  

Italia

»»  Dall’Asia all’Italia: migranti aumentati del 600% negli ultimi 20 anni

»»  Migranti, la nuova Italia di nome Hu di A. Valle

»»  Migranti, più diritti con il decreto contro il lavoro nero

»»  Tortura, la lettera di Amnesty al ministro

»»  Sentenza della Corte di Cassazione per i fatti della scuola Diaz...

Libia

»»  L'Unione europea non può delegare il controllo dell'immigrazione alla Libia

Kenia

»»  "Non è una guerra di religione, ma siamo turbati per gli attacchi contro le chiese"...

»»  "Cerchiamo di accrescere la collaborazione con i musulmani" dice il Vescovo coadiutore di Garissa...

»»  "Si colpiscono le chiese perché sono bersagli facili, ma la motivazione è politica"...         

Mali

»»  Peggiora quadro umanitario, Timbuctù perde pezzi di storia

Medio Oriente

»»  È tempo di salvare i Luoghi santi di J. Lapide

Mongolia

»»  A 20 anni dalla nascita, la Chiesa punta sui giovani e sulla famiglia...

»»  Da zero a 800 fedeli: una comunità in piena crescita, impegnata per il bene della società

Mozambico

»»  Un paese in (s)vendita di G. Palagi

Myanmar

»»  Rakhine: le autorità birmane arrestano 10 operatori umanitari Onu e Msf

Nepal

»»  Donne e poveri: le migliori guide di trekking sull'Himalaya

Pakistan

»»  L'opera delle Suore della Carità, per dare un futuro a bambini e tossicodipendenti

Perù

»»  I Vescovi: la violenza non può essere un mezzo per raggiungere lo sviluppo dei popoli

Rep. Dominicana

»»  No alla chiusura dei "mercati binazionali" fonte di sostentamento per migliaia di famiglie  

Somalia

»»  Transizione passa da sicurezza e sviluppo, e dal rispetto dei minori

Sri Lanka

»»  Premio alla cristiana Nimalka Fernando per la lotta in favore dei diritti umani

Sud Sudan

»»  L'arcivescovo  di Juba: ora costruire la pace

Vietnam

»»  L'attacco ai cattolici di Vinh, "pulizia religiosa" imposta da Hanoi di J. B. An Dang

»»  Cattolici nel mirino di teppisti e autorità. Decine di feriti fra i fedeli durante la messa di N. Hun

Altri articoli edizione inglese

World: Youth-friendly apps visualise carbon footprint * After Rio+20, developing countries must take the lead by D. Dickson * As U.S. Corn belt bakes, wheat heats up in Europe by M. Haddon and N. Rai   Africa: Husbands worse threat to women than gunmen * Civil society petitions the 19th AU Summit * How African politicians gave away $100bn of land  Bangladesh: Weighing the cost of malnutrition * A $2.9 Billion Question! by S. Liton * Bangladesh making rapid progress: Ban * Children: Victims of apathy and neglect by Md. A. Khan * End of discrimination in rationing system is necessary by I. Ahmed * Extra-judicial killings * Govt rejects HRW report on border guards * Illegal migrant workers finally gain more legitimacy * In constant danger * Online birth data to prevent child marriage * Overhauling the education system by S. M. Hashim * The Debate over the Rohingya Issue * Thousands still stranded by floods * Bangladesh: Torture, Deaths of Jailed Mutiny Suspects  India: Christians in India, fresh attacks on religious freedom by N. Carvalho * Land of plenty and hunger * What have you decided?  Myanmar: Social organizations seek state legitimacy * Nigeria: Bridging the north-south maternal death divide * The many faces of Islam * Violence, curfews and border closures hurt livelihoods  Peru: The Bishops: violence cannot be a means to achieve the development of peoples  Philippines: Rescuing "failed" family planning with cash * Tribal group condemns arrest of church worker  South Korea: True faith requires social responsibility  Sri Lanka: Donor interest in north waning * Sri Lanka clean-up targets dengue breeding grounds

      

I punti di vista espressi in questi articoli sono propri degli autori e non riflettono necessariamente quelli di Banglanews

Siti web:  Bangladesh  I nostri amici missionari  Asianomads  Congo  Congo blog  Pamoia na KakaLuigi  Ladymercyindia  Mondialità  Psergio

Agenzie:  Asianews  Misna  Fides      Banglanews arretrati:    archivio   archive       email: bernig@fastwebnet.it   brguiz@yahoo.it

Se vuoi ricevere Banglanews in forma compressa scrivici

Banglanews è anche disponibile, cliccando l'apposita icona, su www.miriguarda.org

    

   

   

MONDIALITA'

A Rio + 20 in Brasile L'evidente tonfo dell'Onu di Alex Zanotelli*

Repubblica - 29 giugno 2012

Le Nazioni Unite hanno dimostrato di essere prigioniere di multinazionali, banche, Fondo monetario internazionale, Banca mondiale. Benedicono l'economia verde di mercato a vantaggio della finanza globale. Fondamentale è la capacità della cittadinanza attiva per organizzarsi dal basso a livello locale, regionale, nazionale e internazionale  

   

I movimenti e le organizzazioni popolari, che per oltre una settimana hanno discusso di giustizia sociale e ambientale, hanno chiuso la Cupula dos Povos (assemblea dei popoli) di Rio de Janeiro con la lettura della dichiarazione finale in difesa dei beni comuni e contro la mercantilizzazione della vita.

  

Un incontro inutile. Questa stessa dichiarazione è stata immediatamente portata al segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon nella sede della riunione ufficiale Onu Rio+20, dove, dal 20 al 22 giugno, i capi di stato e di governo di tutto il mondo hanno tentato di trovare una soluzione alla grave crisi economica che ci attanaglia. L'incontro con il segretario Onu non ha portato a nessun risultato, come non era difficile prevedere. Infatti, sappiamo da fonti sicure che la stessa Cupula dos Povos si era spaccata sull'opportunità o meno di dialogare con le istituzioni. Un gruppo è comunque andato e si è ritrovato con nulla in mano.

  

L'ONU prigioniera di banche e multinazionali. Anche se non è ancora stato pubblicato un documento ufficiale finale di Rio+20, appare chiaro non solo il fallimento del vertice Onu ma soprattutto è di tutta evidenza che le Nazioni Unite sono prigioniere delle multinazionali, delle banche, del Fondo monetario internazionale, della Banca mondiale, dell'Organizzazione mondiale del commercio. Di fatto l'Onu benedice l'economia verde di mercato a vantaggio del grande business e della finanza globale.

 

Il fallimento della politica. Siamo di fronte al fallimento dell'Onu, su cui la società civile aveva riposto tante speranze, e all'incapacità di stati e governi di dare una risposta alla gravissima crisi ecologica. In definitiva è il fallimento della politica. Ecco perché diventa fondamentale la capacità della cittadinanza attiva di organizzarsi a livello locale, regionale, nazionale e internazionale, come ha fatto la Cupola dos Povos e come dovremo fare al Forum sociale mondiale di Tunisi, che si terrà nel marzo del 2013.

 

Dall'alto non c'è più nulla da sperare. La speranza potrà nascere solo dal basso, tramite un'informazione seria e una forte coscientizzazione, che devono portare i cittadini ad organizzarsi come nuovi soggetti politici. È quanto chiede l'appello finale della Cupula dos Povos: "Ritorniamo nei nostri territori, regioni e paesi per costruire le convergenze necessarie per continuare la lotta, resistendo al sistema capitalista e alle sue vecchie e nuove manifestazioni".

 

Questo però non basta. Se non si lavora seriamente dal basso per fare nascere un nuovo modello sociale ed economico alternativo a quello attuale. Che è entrato in una nuova fase di appropriazione e di finanziarizzazione dei beni comuni (acqua, aria, energia, terra) e che sta mettendo con le spalle al muro ogni forma di democrazia. Come missionari comboniani, riuniti a Rio nel contesto della Cupula dos Povos, stiamo affrontando proprio in questi giorni questi stessi temi perché sono centrali per la missione oggi.

 

*Padre Alex Zanotelli (sacerdote comboniano) direttore di Nigrizia  punto di riferimento nella cultura della mondialità e per i diritti dei popoli. Dalle sue pagine si lanciano critiche documentate al commercio delle armi, agli interessi dell'Italia e dei paesi occidentali nelle guerre africane, ai modelli di collaborazione allo sviluppo, spesso gestite in modo affaristico e lottizzato, all'apartheid in Sud Africa.  

 

Inizio pagina

  

 

Rio+20 e lo sviluppo sostenibile secondo i comboniani

Misna - 2 luglio 2012 

    

"La promozione della Pace, Riconciliazione e Giustizia Sociale e Ambientale è una dimensione essenziale della missione. Gradualmente, prendiamo coscienza della particolare urgenza della questione ecologica e della conseguente necessità di includerla fra le nostre priorità di azione apostolica". Lo scrivono i missionari comboniani e comboniane riuniti nei giorni scorsi a Rio de Janeiro, in Brasile, mettendo l'accento sul patrimonio naturalistico del pianeta e su una Terra "minacciata più che mai, oggetto di avidità, manipolazione e tirannia, violentata e schiavizzata per servire interessi vili e meschini"

Sottolineando come il grido dei poveri "che si alza un po' ovunque, è anche il grido della Terra che reclama rispetto e giustizia", missionari provenienti da tre continenti si sono ritrovati in occasione della Conferenza Rio+20 e del Vertice dei Popoli che nella metropoli brasiliana tra il 20 e il 25 giugno hanno approfondito le tematiche sullo sviluppo sostenibile del pianeta.

"Al di là dell'insuccesso della conferenza ufficiale - dicono i missionari - sentiamo profondamente la presenza di Dio nell'intera creazione e nelle lotte del popolo in difesa di questa". Ecco perché sono stati individuati alcuni temi su cui già adesso i missionari intendono riflettere e lavorare: i conflitti della terra e l'accaparramento (Landgrabbing), lo sfruttamento delle risorse minerarie, la privatizzazione dell'acqua e i conflitti che ne derivano.

Sebbene, come sottolineano gli stessi comboniani, il vertice di Rio non abbia portato a risultati apprezzabili, i temi in esso affrontati restano di capitale importanza per il futuro del pianeta. La più grande conferenza della storia delle Nazioni Unite si è chiusa con molti proclami ma poca concretezza. Se per il segretario generale di Rio+20, Sha Zukang, i propositi elencati nel discusso documento finale dimostrano l'impegno dei paesi firmatari "all'azione", di tutt'altro tenore è stata la dichiarazione conclusiva del Vertice dei Popoli che ha fatto da contraltare al summit ufficiale, portando nelle strade di Rio de Janeiro migliaia di persone.

Sha Zukang ha parlato di "un grande successo", il Vertice dei Popoli, dopo dieci giorni di intensi dibattiti, ha risposto affermando che Rio+20 ha costituito piuttosto "un passo indietro significativo rispetto ai diritti umani già riconosciuti" ripetendo "il ritornello delle false soluzioni difese dagli stessi attori che hanno provocato la crisi globale".

"Nella misura in cui la crisi si aggrava - è stato il punto finale del Vertice dei Popoli - le multinazionali procedono contro i diritti dei popoli, la democrazia e la natura, sequestrando i beni comuni dell'umanità per salvare il sistema economico-finanziario".

   

Inizio pagina

 

 

A New York un mese di discussioni su trattato armi  

Misna - 2 luglio 2012  

    

Si apre oggi a New York, negli Stati Uniti, la Conferenza per il Trattato sul commercio di armamenti (Att, Arms trade treaty). L'iniziativa si inserisce nel solco di continue spinte della società civile internazionale che nel 2000 ha adottato la prima bozza di una Convenzione Quadro. Nel 2003, a seguito di un'incisiva campagna internazionale (Control arms) oltre un milione di persone in più di 170 paesi hanno chiesto l'adozione di un Trattato per regolamentare gli illeciti trasferimenti di armi. Il vertice di New York costituisce dunque l'ultimo appuntamento in ordine di tempo e dovrebbe portare alla formulazione di un documento. Una volta approvato l'Att porterebbe all'adozione di standard riconosciuti a livello internazionale nell'ambito del commercio delle rami.

"Sappiamo che ci sono non solo difficoltà a definire chiaramente cosa siano i materiali d'armamento - dice Maurizio Simoncelli, vicepresidente dell'Istituto di ricerche internazionali Archivio Disarmo - ma anche l'esistenza di forti resistenze sia nel collegare l'Att alla tutela dei diritti umani sia su eventuali limitazioni che possano toccare aspetti economici o legati alla legittima difesa degli Stati. Il rischio è che spetterà a questi ultimi decidere se lavorare per un Att rigido e più difficile da negoziare o uno più flessibile e aggiornabile nel tempo".

La Conferenza, promossa dalle Nazioni Unite, si concluderà il 27 luglio. I timori della società civile riguardano in particolare le posizioni delle grandi potenze industriali che sono anche i maggiori esportatori di armi.

   

Inizio pagina

 

 

Armi, 12 miliardi di proiettili e 1.500 morti al giorno di Livia Ermini

Repubblica - 3 luglio 2012

L'impatto della produzione bellica (incontrollata) sulle persone. Amnesty International : ogni anno 26 milioni di persone sono costrette a lasciare tutto a causa di un conflitto armato. Il 74% della produzione totale è nelle mani di soli 6 paesi: Cina, Germania, Francia, Regno Unito, Russia e Stati Uniti. La maggior parte delle vittime sono civili  

     

Primo giorno a New York per la Conferenza Internazionale Onu incaricata di negoziare un trattato sul commercio di armi nel mondo. I delegati, in una sessione che durerà fino al 27 luglio, dovranno cercare l'accordo su una materia delicatissima che frutta ben 60 miliardi di dollari l'anno. Milioni di persone soffrono infatti a causa delle conseguenze dirette o indirette della vendita di armamenti da parte di Stati e organizzazioni malavitose. Secondo i dati elaborati da Amnesty International 2i morti sono oltre 1.500 al giorno, 12 miliardi le pallottole prodotte ogni anno, mentre 26 milioni le persone costrette a lasciare la propria casa a causa di un conflitto armato. Di più: il 74% della produzione totale di ordigni bellici si deve a soli sono 6 paesi: Cina, Germania, Francia, Regno Unito, Russia e Stati Uniti. La maggior parte delle vittime dei conflitti è costituita da civili.  

         

Si regola tutto, anche le ossa di dinosauri. Numeri spaventosi a cui si cerca di porre un freno dal momento che, ad oggi, non esiste nulla che regolamenti il settore, mentre esistono regole per il commercio di banane, di acqua in bottiglia, e persino di ossa di dinosauro. Ma i fronti contrapposti hanno già fatto sentire la loro voce alla vigilia dell'apertura. 

          

La Gran Bretagna farà pressione sugli Stati Uniti perché accettino l'inclusione di una clausola che riguardi il rispetto dei diritti umani e il divieto di vendita verso Paesi in cui questi siano minacciati.  

         

I punti di contrasto sul Trattato. La bozza di Trattato esistente infatti stabilisce il divieto di approvare forniture belliche in Paesi dove "esiste un rischio sostanziale della violazione di diritti umani" (che per esempio impedirebbe alla Russia di fornire armi alla Siria), ma Washington vorrebbe cambiare il testo in modo che i singoli governi debbano solo "prendere in considerazione" fattori quali i diritti umani prima di autorizzare una vendita. Inoltre, gli Usa ritengono troppo difficile inserire all'interno dell'accordo una regolamentazione sulle munizioni: al contrario, le Ong sottolineano come senza queste clausole qualsiasi Trattato risulterebbe inefficace.

 

In pericolo posti di lavoro. In fondo però quella delle armi è una delle principali voci di bilancio di certe economie e fonte di occupazione, come ammette la stessa Unione Europea che "riconosce il contributo che l'industria degli armamenti armi fornisce alla creazione di posti di lavoro e alla crescita economica".

 

Il problema della tracciabilità. La Ue, prendendo atto che il valore delle esportazioni mondiali ha continuato a crescere nonostante la crisi economica e finanziaria e gli Stati membri rappresentano il 30% di tutte le esportazioni, ha sottolineato, tra gli altri punti, che "occorre accordare la debita attenzione alla marcatura e alla tracciabilità delle armi e delle munizioni convenzionali al fine di rafforzare la responsabilità e prevenire il dirottamento dei trasferimenti di armi verso destinatari illegali". A causa della globalizzazione, infatti, il flusso di armamenti che viene trasferito nelle varie parti del mondo oggi è difficilmente controllabile. Carichi di armi, formalmente legali finiscono per deviare la loro destinazione verso utilizzatori finali non autorizzati e "paesi canaglia".

   

Inizio pagina

 

 

Grano, nuovo raid degli speculatori  di Giorgio Bernardelli

MissiOnLine - 6 luglio 2012    

Siccità nel MidWest? In un mese il future sul mais schizza alle stelle. Confermando come la lezione del 2008 non sia servita a nulla

     

Puntuali ci risiamo: scatta l'allarme su un raccolto e gli speculatori finanziari si scatenano. Con conseguenze che potrebbero essere devastanti sul diritto al cibo per milioni di persone nel mondo. Lo so, ne abbiamo già parlato tante volte. Eppure continua a succedere. E questa volta in una maniera ancora più scandalosa che nel 2008, l'anno della crisi alimentare che portò per la prima volta il numero degli affamati nel mondo a superare quota 1 miliardo di persone.

Che cosa sta succedendo? Da qualche giorno è scattato un allarme siccità nel MidWest, la regione degli Stati Uniti dove si concentra la produzione di grano. Se in luglio non arriveranno le piogge c'è il timore che le piante di mais che stanno germogliando ora diano una resa molto inferiore alle aspettative nel raccolto di dicembre (tra l'altro pare che anche quelle geneticamente modificate per resistere alla siccità non stiano dando i risultati sperati). Qual è il risultato? Che alla borsa di Chicago - il mercato di riferimento a livello mondiale per il prezzo del mais - le quotazioni dei contratti futures sul mais sono improvvisamente schizzate in alto. Per la precisione molto in alto. Oggi stanno viaggiando intorno ai 7,06 dollari al bushel (l'unità di misura utilizzata per i cereali negli Stati Uniti). Per dare l'idea: esattamente un mese fa, il 6 giugno 2012, quegli stessi futures venivano quotati 5,19 dollari al bushel. Vuole dire che il valore di quel titolo in un mese è aumentato di circa il 36%. Ma c'è di più: il massimo storico toccato dalle quotazioni del mais, il 27 giugno 2008, fu 7,99 dollari al bushel. Ma ci si arrivò progressivamente con una corsa al rialzo durata mesi. Ora invece ci stiamo arrivando in una manciata di giorni.

Il fenomeno è talmente repentino che proprio ieri la Fao ha diffuso il dato di giugno del suo Food Price Index, l'indice sui prezzi dei generi alimentari. E paradossalmente nei dati della Fao l'indice (che non comprende solo il mais) è dato leggermente in diminuzione, dal momento che l'impennata è iniziata solo a metà mese e quindi gli effetti nella rilevazione sono attenuati. Ma tutto lascia pensare che quando fra un mese ci saranno i dati di luglio scatterà l'allarme, anche perché nel frattempo anche le quotazioni del frumento stanno salendo (mentre fortunatamente restano stabili quelle del riso, il terzo cereale essenziale nella dieta di base della stragrande maggioranza della popolazione mondiale, e che guarda caso tra i tre è quello meno influenzato dalle dinamiche della finanza).

Ora: possiamo girarci intorno finché si vuole, ma non esiste uno scompenso tra domanda e offerta di mais che giustifichi in un mese un aumento di una quotazione del 36%. Qui siamo senza ombra di dubbio di fronte a un fenomeno speculativo. E a confermarlo sono anche i dati sui volumi degli scambi del titolo in questi giorni. Nonostante tutti i discorsi, dunque, si continua a speculare senza troppi scrupoli su un alimento come il mais. E in questo modo il problema reale che sta alla radice - la siccità - diventa molto più grande della sua portata reale.

Oggi c'è un articolo sul sito del Wall Street Journal, molto interessante a questo proposito.

Interrogandosi sull'impennata delle quotazioni dei cereali il quotidiano dà voce agli analisti finanziari specializzati su questi mercati e il quadro che ne emerge è inquietante. Il succo infatti è: ci sono dati ufficiali dell'Usda (il dipartimento per l'Agricoltura del governo degli Stati Uniti) che dicono che la situazione non è così allarmante, ma noi sappiamo che non è così. Ora: di questo fenomeno delle previsioni "indipendenti" sui raccolti parlavamo già quasi un anno fa in questo articolo in occasione  di un'altra fiammata delle quotazioni dei future sul mais. Anche allora il Wall Street Journal parlava di indagini indipendenti compiute dagli operatori del mondo della finanza secondo cui i raccolti sarebbero stati di molto inferiori rispetto a quelle ufficiali. Come andò a finire? I dati del governo americano erano sì imperfetti, ma al ribasso: il raccolto a fine anno si rivelò addirittura superiore. Ma contò poco, perché nel frattempo la bolla creata attraverso le voci allarmistiche si era già sgonfiata. Beninteso: dopo che qualcuno molto scaltro aveva già incassato i profitti di un investimento a breve. Tutto questo per dire che questo è un mercato che viaggia in continuazione sul filo dell'insider trading, cioè dell'utilizzo di un'informazione scorretta per fare affari.

Altro capitolo: dove si specula? Ovviamente non solo lontano. Puntualissimo anche il nostro solito Etfs Corn, il titolo legato al mais quotato sulla piattaforma telematica della Borsa di Milano è schizzato alle stelle. Anche qui il rendimento garantito nell'ultimo mese è stato del 37%. E nella sola giornata di ieri - 5 luglio 2012 - ha fatto registrare scambi per un controvalore di 1.100.000 euro. Tanto per dire chiaramente che la speculazione sul cibo non si fa solo a Chicago, ma anche qui in Italia.

Tutto questo rilancia l'importanza della campagna "Sulla fame non si specula", lanciata a Milano nella primavera del 2011 e a cui MissiOnLine ha aderito fin dal principio. Una campagna che chiede l'adozione di regole certe che mettano fine a questo scandalo e che sta preparando per il prossimo autunno nuove iniziative. Vi terremo informati.

   

Inizio pagina

 

 

Il mondo in crescita incatena ancora milioni di persone

Avvenire - 5 luglio 2012  

       

Sono gli schiavi del terzo millennio. Ma nessuno sa effettivamente quanti siano: esistono solo delle stime. Secondo l'Organizzazione internazionale del lavoro dell'Onu, in tutto il mondo sono 12,3 milioni; il doppio secondo un recente rapporto del Dipartimento di Stato americano. E tra loro quasi tre milioni sono vittime dirette della tratta: ostaggi di trafficanti che, in cambio del passaggio verso l'"Eldorado" dell'Occidente, di fatto li tengono in ostaggio per anni incassando interessi altissimi sulle rate per pagare il viaggio. Sono vittime della povertà, delle discriminazioni anche per fede, colpevoli spesso solo di essere "minoranza". In tutto il Pianeta le legislazioni (almeno di principio ) combattono la schiavitù, ma di fatto il numero di questi "invisibili" è in crescita, soprattutto in questi tempi di crisi economica globale. Metà del totale degli schiavi è concentrato in Asia, una buona parte in Africa e America Latina; ma anche nel Medio Oriente e persino nella ricca Europa e negli Stati Uniti. Al loro fianco ci sono da tempo Organizzazioni non governative, enti religiosi, e agenzie delle Nazioni Unite. Si calcola però che l'assistenza e il successivo "riscatto" possano coprire non oltre un decimo dell'intero fenomeno.

    

TRATTA E LAVORO FORZATO: I VOLTI MODERNI DI UNA PRATICA ANTICA

È vietata dalla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948 e dalla Convenzione Onu del 1956. Eppure la schiavitù esiste tuttora. Certo, forme e modalità sono cambiate rispetto al passato. L'orrore è identico. Attualmente si riconoscono varie forme di "schiavitù moderna". Quella per debito: le persone vengono indotte, a volte con l'inganno, a chiedere un prestito. In cambio, sono costretti a lavorare, in condizioni disumane. Non guadagnano, dunque, non potranno mai restituire il denaro chiesto. La schiavitù può anche assumere la forma del lavoro forzato, ovvero gruppi di cittadini costretti con la violenza a svolgere determinate mansioni da regimi o bande armate. Schiavi sono pure i minori costretti dalla miseria ad accettare occupazioni malpagate. O gli esseri umani - donne, uomini, bimbi - vittime di tratta: venduti e comprati come mercie spesso sono obbligati a prostituirsi dai "padroni".  

    

Inizio pagina   

 

 

Onu: diminuisce la povertà nel mondo ma non la fame

Radiovaticana - 5 luglio 2012  

 

La povertà diminuisce nel mondo, ma la fame sembra aumentare: è il bilancio apparentemente contraddittorio che emerge dal Rapporto Onu sugli Obiettivi del Millennio pubblicato in questi giorni. Secondo lo studio, il numero delle persone che vivono in condizioni di estrema povertà è stato ridotto della metà dal 1990. Dimezzata anche la percentuale di popolazione priva di accesso all'acqua potabile, mentre si registra un miglioramento significativo della vita di almeno 100 milioni di abitanti delle baraccopoli. Su questi dati Luca Collodi ha raccolto il commento dell’economista Riccardo Moro:

 

R. - Il punto è capire che cos’è la povertà. La povertà è un concetto non facile da definire. Il modo più semplice per definirlo è “la mancanza di denaro”. In realtà ci siamo abituati, in tanti anni di riflessione intorno a questo tema, a riconoscere in questo concetto di povertà, una sorta di multidimensionalità, nel senso che non è solo una questione di denaro, ma è anche una questione di poter accedere ad opportunità, di poter sviluppare i propri talenti. E gli indicatori di povertà, sono diventati sempre più complessi. In questo rapporto effettivamente si vede come con un criterio economico-finanziario, vale a dire, verificando la percentuale della popolazione che vive con meno un 1,25 dollari al giorno - la soglia di povertà assoluta-, la quota della popolazione mondiale che vive in questa condizione è effettivamente diminuita. E allora questo è un segnale positivo. Dopo di che purtroppo, nello stesso rapporto si dice che viceversa altri elementi sono ancora presenti in termini di fatica e di difficoltà.

 

D. - Se da un lato diminuisce la povertà, però sembra invece aumentare la fame nel mondo; due dati in contrasto tra loro ..

R. - In realtà non sono così in contrasto, perché nel momento in cui noi usiamo come misura il parametro di 1.25 dollari al giorno come reddito disponibile per poter vivere, ed usiamo questa cifra misurata nel 1990, anche oggi, noi vediamo che certamente c’è molta più gente che dispone di 1,25 dollari al giorno, ma i costi delle cose che ci occorrono sono notevolmente aumentati. Quello che noi possiamo pagare oggi con 1,25 dollari è meno di quello che si poteva pagare nel 1990, l’anno considerato di partenza. Per cui, è certamente vero che oggi ci sono molte più persone che hanno 1,25 dollari rispetto al passato, ma questo non significa che questa sia una condizione migliore.

 

D. - Questa apparente diminuzione della povertà, è legata anche all’aumento delle attività dell’economia dei Paesi emergenti?

R. - Sì, certamente, in modo particolare per la Cina; su questo non c’è dubbio. La Cina ha avuto uno sviluppo molto consistente dal punto di vista economico negli ultimi anni. Oltre a questo c’è un fenomeno che sta interessando l’America Latina e in modo particolare il Brasile, ma non solo. Un po’ dappertutto, c’è una sorta di ingresso nell’economia formale, di una parte rilevante di popolazione, che esce dalla condizione di informalità. In molti Paesi, sono in atto dei processi per poter registrare anche questa dimensione dell’economia, e questo fa registrare un miglioramento delle economie.

   

Inizio pagina 

 

 

AFRICA

A investire sono le potenze emergenti

Misna - 6 luglio 2012  

    

Gli investimenti stranieri diretti provenienti dai paesi emergenti hanno superato quelli delle potenze tradizionali dell’Europa e del Nord America: a calcolarlo è un rapporto sull’economia dell’Africa pubblicato dalla Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo (Unctad).  

Secondo lo studio, relativo al 2011, se si considerano i “nuovi progetti” a guidare la classifica degli investitori stranieri sono Cina, India, Sudafrica, Corea del Sud e Isole Mauritius.  

Nel 2011 gli investimenti stranieri diretti sarebbero calati lievemente rispetto all’anno precedente, passando da 43 miliardi e 100 milioni a 42 miliardi e 700 milioni di dollari. Secondo Unctad, a pesare negativamente sono state le conseguenze dei rivolgimenti sociali e politici in Nord Africa, in particolare in Egitto e Libia. A nord del Sahara gli investimenti stranieri diretti si sarebbero infatti dimezzati, riducendosi a sette miliardi e 700 milioni di dollari.  

Molto differente la situazione negli altri paesi del continente, dove gli investimenti sarebbero cresciuti del 25% toccando quota 36 miliardi e 900 milioni, solo 400 milioni in meno del record fissato nel 2008 prima che scoppiasse la crisi dei mutui americani “ad alto rischio”.  

Positive sono anche le previsioni per il futuro. Secondo Unctad, “una crescita economica più forte, l’attuazione di riforme e un aumento dei prezzi delle materie prime esportate” potrebbero spingere gli investimenti stranieri diretti fino a 75 o 100 miliardi di dollari entro il 2014.  

A far particolarmente bene potrebbero essere Ghana e Mozambico, paesi dove è cominciata l’estrazione di greggio o sono stati scoperti importanti giacimenti di idrocarburi. La Nigeria, la prima potenza petrolifera dell’area sub-sahariana, nel 2011 ha ricevuto da sola un quinto del totale degli investimenti stranieri diretti dell’intero continente.  

     

Inizio pagina

 

 

I danni del "Protocollo di Maputo" sulle donne e sulle società africane

Agenzia Fides - Maputo - 7 luglio 2012  

    

Sei milioni di aborti solo nel 2011; ampia diffusione di pratiche come la sterilizzazione delle donne; ricorso sistematico alla contraccezione e a metodi di controllo delle nascite, che promuovono un programma di radicale trasformazione delle società africane, orientandole verso le ideologie distruttive della vita umana: sono i danni e le ferite provocate dal "Protocollo di Maputo", approvato nel luglio 2003, dall'Assemblea dell'Unione Africana a Maputo, in Mozambico. Lo dice, in una nota inviata all'Agenzia Fides, p. Shenan J. Boquet, Presidente dell'Ong "Human Life International" (HLI), impegnata in tutto il mondo in difesa della vita nascente. "Si tratta di una anniversario da ricordare ma non da celebrare", afferma il presidente di HLI. Il documento, il cui titolo originale è "Protocollo della Carta africana sui diritti dell'uomo e dei popoli sui diritti delle donne in Africa", "ha messo in moto una agenda che ha radicalmente influenzato il continente africano, incoraggiando i gruppi di controllo della popolazione in Africa", nota p. Boquet. "I sostenitori del Protocollo di Maputo vogliono farci credere che l'obiettivo primario del loro documento è la mutilazione genitale femminile (MGF), un crimine efferato che viola la dignità delle donne e colpisce quasi due milioni di donne africane ogni anno", spiega. Tuttavia, la MGF è menzionata solo una volta nel documento, che si concentra perlopiù su temi come la legalizzazione dell'aborto, la contraccezione e la sterilizzazione. "Il documento - prosegue - promuove un cambiamento della famiglia tradizionale chiedendo l'eliminazione della discriminazione nei confronti delle donne, che è sempre ingiusta e immorale. Tuttavia l'uso di questo termine all'interno del protocollo è destinato a promuovere il libero esercizio dei diritti sessuali delle donne, vale a dire la libertà di cercare un aborto, contraccezione e sterilizzazione". Il Protocollo chiede il libero uso e la distribuzione di contraccettivi abortivi e stabilisce che gli stati africani adottino "nuovi metodi pedagogici per modificare i modelli sociali e culturali di comportamento di donne e uomini". "E' il tentativo radicale di ridisegnare e riorientare le menti e le vite di milioni di persone, con una propaganda di morte che distrugge il fondamento stesso di una società e mette in discussione la sua esistenza futura", scrive p. Boquet. "Tali politiche provocano il crollo della famiglia, la crescita del numero degli orfani, delle famiglie senza padre e della promiscuità. La mentalità contraccettiva e abortiva, legalizzata e approvata dal Protocollo di Maputo, non porterà ad un minor numero di aborti, come i suoi sostenitori vorrebbero farci credere, ma molti più aborti", ammonisce il presidente di HLI. Infatti, secondo le stesse associazioni che promuovono il controllo della popolazione come "Planned Parenthood", il numero degli aborti in realtà è cresciuto in Africa tra il 2003 e il 2008.

HLI, che opera in diverse nazioni africane, continuerà a difendere la vita e a diffondere una "cultura del rispetto della vita, secondo i valori cristiani", conclude.  

            

Inizio pagina

    

   

Fame, ora tocca al Sahel di Giulio Albanese

Popoli e Missione - maggio 2012

      

L'anno scorso l'emergenza umanitaria riguardava soprattutto il Corno d'Africa. Quest'anno si aggiunge il Sahel. Ma gli aiuti d'emergenza in Mali, Niger, Ciad, Burkina Faso, Mauritania e Senegal non devono essere una sorta d'espediente per rinviare sine die la soluzione strutturale dei problemi. La crisi del Sahel (venuta alla ribalta in seguito alla secessione del nord del Mali) è scatenata anche dai prezzi elevati delle derrate alimentari, a seguito della crescente speculazione sulle materie prime. Ma affrontare questi nodi non conviene a nessuno.

 

Mentre il mondo occidentale è sempre più alle prese con le conseguenze della crisi sistemica dei mercati, in Africa prosegue il cinico carosello delle carestie. Mentre lo scorso anno l'emergenza riguardava il Corno d'Africa, in queste settimane sta prepotentemente venendo alla ribalta la crisi che attanaglia la regione saheliana, dove il raccolto ha segnato un calo della produzione cerealicola dal 52 al 15% (rispetto alla stagione precedente), con una media per l'Africa occidentale stimata attorno al 25%.

Come al solito, la Fao ha lanciato l'ennesimo appello, diramato lo scorso 15 marzo, per la raccolta di fondi addizionali con l'intento di scongiurare una crisi alimentare che a breve potrebbe colpire in maniera devastante, soprattutto la fascia saheliana dell'Africa occidentale.

L'obiettivo minimo sarebbe quello di racimolare almeno 70 milioni di euro, con i quali assistere 790mila famiglie di agricoltori e allevatori, peraltro ripetutamente colpite dalla carestia negli ultimi anni. Secondo gli esperti della Fao, sarebbero almeno 15 milioni le persone a rischio nel Sahel, così distribuiti: 5,4 milioni di persone (35% della popolazione) in Niger, 3 milioni (20%) nel Mali, 1,7 (10%) in Burkina Faso, 3,6 milioni (28%) nel Ciad, 850mila (6%) in Senegal, 713mila (37%) in Gambia e 700mila (22%) in Mauritania.

È chiaro comunque che servono molti più fondi, non foss'altro perché verosimilmente con l'andare del tempo la crisi aumenterà. Secondo l'Onu servirebbero almeno 724 milioni di dollari per affrontare i bisogni attuali. A parte l'irregolarità delle piogge, la crisi è stata scatenata anche dai prezzi alimentari elevati a seguito della crescente speculazione sulle materie prime alimentari, e dall'accesa conflittualità che attanaglia la regione.

Per intenderci stiamo parlando del Mali settentrionale dove i Tuareg del Movimento Nazionale per la Liberazione dell'Azawad (Mnla) - approfittando anche del clima politico di incertezza acuito dal colpo di Stato militare del 22 marzo scorso, sostanzialmente fallito - hanno proclamato l'indipendenza del Nord, ribattezzandolo Stato dell'Azawad. A detta di molti analisti la crisi maliana condizionerà sempre di più i Paesi limitrofi, sia dal punto di vista umanitario che della sicurezza. La secessione ha infatti messo in fuga centinaia di migliaia di persone che cercano rifugio negli Stati africani confinanti, dove si parla già di crisi umanitaria. Secondo quanto documentato dall'Ufficio di coordinamento degli affari umanitari dell'Onu oltre 200mila persone sono state costrette ad abbandonare il Mali.

Si preannuncia, dunque, a livello regionale, una stagione della fame che di fatto sta già mettendo in ginocchio la stremata popolazione civile. Basti pensare che da quelle parti i prezzi sono lievitati mediamente dal 25 al 50% nel corso degli ultimi cinque anni e che potrebbero crescere ulteriormente di un altro 25-30% nel periodo in cui la crisi alimentare toccherà il suo apice nei mesi di luglio e agosto, esponendo alla miseria, in modo inesorabile, le famiglie più vulnerabili alla malnutrizione. A pagare il prezzo più alto, come accaduto lo scorso anno nel Corno d'Africa, sono i bambini.

Si ritiene infatti che a seguito dell'emergenza saheliana, nei prossimi sei mesi, più di un milione di bambini dovranno essere inseriti in centri nutrizionali perché colpiti da inedia acuta e grave. In condizioni peggiori, il numero potrebbe arrivare ad un milione e mezzo. Lungi da ogni valutazione ideologica, vengono alla mente di chi scrive, le parole che nel lontano 1944 Jean-Paul Harroy, governatore belga in terra ruandese, scriveva ai tempi del colonialismo: "Africa, terra che muore". E alla fine degli anni Settanta René Dumont, agronomo di fama mondiale, rincarava la dose stigmatizzando il cronico dramma dei Paesi del Sahel, la cui ciclica carestia provocava già allora "dei sussulti d'interesse, fortemente equivoci". E sì, perché 40 anni anni fa si versavano come oggi fiumi d'inchiostro per denunciare le solite emergenze alimentari che, com'è noto, fanno disastri a dismisura. D'altronde, le condizioni naturali, soprattutto climatiche, hanno sempre creato problemi a quelle latitudini anche se il fenomeno, con la fine del colonialismo, si è notevolmente acuito. Sempre Dumont, in un celebre libro pubblicato nel 1980 dal titolo più che emblematico, L'Afrique étranglée ("L'Africa strangolata"), scriveva che "mentre il Sahara avanza dappertutto, al Nord e al Sud, i Paesi ricchi continuano ad importare l'arachide e il cotone grezzo, le cui coltivazioni rovinano i terreni, e ad esportare prodotti industriali, macchine e surplus di cereali. E affluiscono con tutte le spese relative, tutti gli esperti, commissioni, agenzie internazionali, con le valigie colme di talismani, gadget... e altro fumo negli occhi". Dumont ce l'aveva in particolare sia con le burocrazie della fame che "vivono alle spalle del Terzo Mondo e per esse la fine del sottosviluppo significherebbe disoccupazione", sia con le borghesie africane che "hanno preso gusto al potere e vi si aggrappano preoccupate solamente di garantire la loro permanenza...". Purtroppo, nonostante l'umanità abbia varcato la soglia del Terzo millennio, il copione è sempre più o meno lo stesso.

Ma a pensarci bene, il problema va ben al di là dell'emergenza e chiama in causa una visione alquanto paternalistica degli aiuti umanitari per cui s'interviene sempre quando è ormai troppo tardi. Inoltre occorre riconoscere che le emergenze di cui sopra sono direttamente proporzionali al prosciugamento delle casse preposte al finanziamento dei progetti che dovrebbero quanto meno alleviare, se non addirittura prevenire, simili sciagure. Proviamo, allora, a tornare indietro nel tempo cercando di comprendere come potevano nel passato sopravvivere le popolazioni del Sahel, visto che, stando agli esperti, le siccità affondano le radici in tempi immemorabili. "Lo si sapeva - scrive Dumont - quindi lo si prevedeva e, nelle buone annate, si riempivano i granai di piccolo miglio e più a sud, in terre argillose, di grosso miglio, il sorgo".

Ecco perché, suggeriva l'agronomo francese, "occorre ricominciare come nei tempi antichi, prima della colonizzazione, a formare delle scorte alimentari oppure dei granai collettivi, al posto delle cooperative imposte e controllate dalle autorità, e da cui traggono vantaggio soprattutto i loro dirigenti...". Insomma, Dumont suggeriva saggiamente di ricreare raggruppamenti economici, sociali e politici, diretti dalle classi rurali, capaci di opporsi in modo non violento all'ingordigia delle oligarchie locali. D'altronde, non è un caso se nella crisi che attanaglia il Mali settentrionale, oltre alle tragiche vicende che riguardano il popolo Tuareg, vi è un mix d'interessi legati allo sfruttamento del petrolio e dell'uranio. In sostanza, fin quando parleremo di emergenze, anziché delle premesse allo sviluppo, saremo sempre alle prese con queste cicliche mattanze. Secondo il sociologo ivoriano Assouman Yao Honoré, all'origine di questi fenomeni devastanti che affliggono l'Africa, come fame e siccità, miseria e sottosviluppo, risiedono fattori reversibili, legati in gran parte alle responsabilità e dunque all'azione di specifici soggetti umani.

Si tratta pertanto d'invertire la rotta, sostiene Assouman, mobilitando risorse intellettuali e materiali, nella consapevolezza che abbiamo un destino comune.

In effetti, gli aiuti d'emergenza dovrebbero rimanere una soluzione temporanea, all'unico scopo di consentire ad una popolazione di sopravvivere ad una determinata situazione di crisi, mentre quasi sempre si traducono in una sorta d'espediente per rinviare la soluzione strutturale del problema. Se da una parte occorre vigilare sulle deviazioni, (quali ad esempio l'arrivo spesso tardivo o non confacente degli aiuti ai bisogni, la loro distribuzione male organizzata o distorta dall'intervento di fattori politici, etnici o clientelari, di furti, corruzione, che impediscono alle derrate di giungere ai più indigenti); dall'altra s'impone un salto di qualità nelle forme d'intervento. Come? Investendo, per esempio, risorse nella prevenzione di queste calamità. Gli aiuti, a pensarci bene, dovrebbero, in primo luogo, contribuire a liberare le popolazioni dalla loro dipendenza. A tal fine, non possono prescindere da progetti che mirino a premunire le popolazioni esposte a possibili future penurie alimentari.  

Solo così gli aiuti di emergenza - potenziando la concertazione tra i vari partner  della catena: Stati, autorità locali, organismi non governativi e associazioni ecclesiali - potranno considerarsi alla stregua di una incisiva azione di solidarietà internazionale. Non v'è dubbio che il problema della fame non potrà risolversi se non promuovendo le politiche di sicurezza alimentare, nella consapevolezza che troppo spesso la massiva distribuzione di generi alimentari in un determinato luogo, se non adeguatamente coordinata e non funzionale alle necessità contingenti, si rivela controproducente per combattere efficacemente la sciagura della malnutrizione.

Da qui l'urgenza di una strategia capace di favorire una saggia e lungimirante erogazione di aiuti a beneficio dei tanti miserabili minacciati dallo scandalo della fame. Per debellare definitivamente la fame e non rinviarne la soluzione.  

   

Inizio pagina

    

    

Sahel: insicurezza alimentare per 10 milioni di persone, un milione bambini

Radiovaticana - 2 luglio 2012  

     

Oltre 10 milioni di persone nel Sahel patiscono varie forme di insicurezza alimentare. Di questi, un milione sono bambini che soffrono di malnutrizione severa e altri 2 milioni di malnutrizione meno acuta. Questi dati sono stati presentati da mons. Paul Ouedraogo, arcivescovo di Bobo-Dioulasso e presidente di Ocades-Caritas Burkina, alla Conferenza sullo sviluppo sostenibile (Uncsd), denominata anche Rio+20, che si è svolta dal 20 al 22 giugno 2012 a Rio de Janeiro. I Paesi più colpiti dalla crisi alimentare sono Niger (con 5 milioni e mezzo di persone in sofferenza); Mali (3 milioni); Burkina Faso (1,7 milioni) e Senegal (850.000). Le cause della crisi sono il magro raccolto nella stagione 2011-12, conseguenza delle scarse piogge, e più in generale la riduzione della produttività nei Paesi della regione (Mauritania, Niger, Senegal, Mali, Burkina Faso, Ciad) provocata dai cambiamenti climatici. Nel caso del Mali, si aggiungono la violenza e l’insicurezza nel nord del Paese, che ha generato un forte afflusso di rifugiati nei Paesi limitrofi (vi sono nel solo Burkina Faso 150.000 rifugiati maliani). Le conseguenze della crisi alimentare sono, secondo quanto riporta mons. Ouedraogo, la riduzione del numero e della quantità dei pasti giornalieri, la perdita del bestiame, la migrazione dei giovani nelle grandi città. Per affrontare il problema, il presidente di Ocades-Caritas Burkina indica diversi provvedimenti: stabilire un sistema di allarme sulle condizioni climatiche, migliorare la ridistribuzione delle risorse alimentari nell’area, stabilire fondi di emergenza, formare gli agricoltori a nuove tecniche agricole, costruire pozzi e dighe, diversificare le fonti di reddito (attualmente l’80% della popolazione attiva è impiegata nell’agricoltura che rappresenta tra il 30 e il 40 del Pil dei Paesi del Sahel). “I Paesi del Sahel hanno la possibilità di far fronte alla crisi. Hanno solo bisogno di risorse per rafforzare le azioni che sono già avviate sul terreno. Investendo nel rafforzamento della capacità di recupero, i partner saranno in grado di offrire ai Paesi che patiscono la crisi alimentare una meravigliosa opportunità di rispondere in prima persona, nel modo più efficace e nella situazione più difficile in cui vivono” conclude mons. Ouedraogo. (R.P.)  

    

Inizio pagina   

   

   

Trattato armi, una guida per l'Africa

Misna - 6 luglio 2012 

       

Una guida di riferimento per i paesi africani che stanno negoziando a New York il Trattato sul commercio di armamenti (Att, Arms Trade Treaty): con questo spirito è stato presentato ieri un manuale di 200 pagine elaborato dall’Istituto sudafricano per gli studi sulla sicurezza (Iss).  

Scritto in inglese e in francese, la guida (Negotiating an Arms Trade Treaty: a Toolkit for African States) si propone di fornire “descrizioni imparziali e spiegazioni di questioni relative al controllo degli armamenti convenzionali, così come una analisi obiettiva dei diversi punti di vista su elementi chiave di un futuro Att applicabili alla realtà africana”.  

Il documento contiene informazioni sui paesi esportatori di armi in Africa e su questioni sensibili come il fenomeno della corruzione, la presenza di gruppi armati transnazionali, di gruppi ribelli e di embarghi della comunità internazionale.  

Un capitolo è poi dedicato all’impatto della violenza sullo sviluppo economico e sociale dell’Africa e sui sistemi di controllo dei trasferimenti di armi attualmente in vigore.  

Ciascuna sezione del documento include considerazioni sui paesi africani e sui loro obblighi regionali e internazionali. In alcune si fanno riferimenti storici e si prospettano le attuali sfide relative al controllo degli armamenti.  

Cominciati questa settimana, i lavori della Conferenza dell’Onu per il Trattato sul commercio di armamenti si concluderanno il 27 luglio. In queste quattro settimane i rappresentanti di 193 Stati negozieranno quello che è considerato dalla società civile internazionale un atto fondamentale per controllare il commercio di armi con regole chiare e condivise.  

   

Inizio pagina   

   

  

Le regole del diritto, il corso della diplomazia di Giulio Albanese

ItaliaCaritas Luglio-Agosto 2012 

     

Tribunali speciali  si pronunciano contro dittatori africani:  un traguardo da perseguire. Ma accade (per esempio in Sudan e Uganda) che ciò complichi la soluzione di conflitti annosi.  In casi eccezionali,  un po’ di realpolitik non guasta…

Solitamente l’idea di giustizia, in riferimento alle vicende africane, pare sospinta da una sorta di grezza rappresentazione manichea: o si è interamente vittime, o totalmente colpevoli. Chi ha sofferto le violenze della guerra civile sierraleonese, avrà dunque colto favorevolmente la notizia, del 26 aprile scorso, riguardante Charles Taylor: l’ex presidente liberiano è stato giudicato colpevole di aver fornito aiuto materiale, assistenza e sostegno morale ai ribelli del Fronte unito rivoluzionario (Ruf ), attivi nella Sierra Leone negli anni Novanta, sotto la guida del defunto Foday Sankoh.

Come era prevedibile, la sentenza della Corte speciale per la Sierra Leone (Scsl) ha suscitato il plauso della comunità internazionale. Ma la strada del riscatto è ancora molto lunga, e tutta in salita: tra mercenari stranieri e venditori di pepite, sono ancora molti i criminali a piede libero che hanno indicibili responsabilità nelle sanguinose vicende dell’ex protettorato britannico. E cosa dire del mandato di arresto nei confronti del presidente sudanese Omar Hassan El Bashir, spiccato dalla Corte penale internazionale (Cpi) nel 2009 per misfatti d’ogni genere ordinati nel Darfur?

È chiaro che l’intento dei giudici dell’Aja è stato riaffermare solennemente il primato della giustizia. Eppure, per quante possano essere le nefandezze commesse da Bashir, la decisione della Corte solleva non pochi quesiti, sui quali le cancellerie dovrebbero interrogarsi.

Anzitutto, tale provvedimento non ha facilitato il difficile cammino di ricerca di una soluzione negoziale dell’annoso e penosissimo conflitto darfuriano. Va ricordato, poi, che sia l’Unione africana che la Lega araba si erano espresse apertamente contro l’adozione di un simile provvedimento, ritenendolo inopportuno e controproducente per una risoluzione delle ostilità.

Vi è poi da riflettere sul valore effettivo di un mandato di cattura contro un presidente nel pieno esercizio della sua autorità, che gode oltretutto i favori di un membro permanente con diritto di veto (la Cina), del Consiglio di sicurezza dell’Onu. D’altronde, è chiaro che il regime sudanese ha fatto orecchie da mercante alla richiesta della Corte internazionale, non solo perché l’arresto dovrebbe essere eseguito dallo stesso governo subordinato all’attuale capo di stato Bashir, ma anche perché Khartoum non hai mai accettato di ratificare lo statuto di Roma della Cpi.

Vi è peraltro un precedente che avrebbe dovuto indurre i giudici dell’Aja a tutt’altre considerazioni: quello di Joseph Kony, famigerato leader dei ribelli nordugandesi dell’Esercito di resistenza del Signore (Lra). Sebbene non fosse un capo di stato, il rifiuto da parte della Cpi di accettare che Kony si arrendesse alla giustizia ugandese è alla base del fallimento delle trattative di pace tra Lra e governo ugandese, con la conseguente estensione del conflitto nella vicina Repubblica democratica del Congo e addirittura in quella Centrafricana.

Vittoria della giustizia?

Ecco perché sarebbe auspicabile che la diplomazia internazionale fosse messa nelle condizioni di fare il proprio corso, senza dover subire interferenze, in scenari così complessi, in cui è tragicamente urgente arrivare a una pace. Non si equivochi, però. Se è ingenuo pretendere che provvedimenti giudiziari del Cpi possano, ipso facto, determinare un miglioramento della situazione dei diritti umani in un contesto infuocato come quello sudanese, un processo e un’eventuale condanna dei colpevoli di crimini così gravi sono un obiettivo che va salutato con favore e perseguito con determinazione. Anche per il valore esemplare e il monito diretto a tutti i despoti. In qualche caso eccezionale, una certa realpolitik potrebbe però essere anteposta alle regole universali del diritto. Se, infatti, la diplomazia internazionale dovesse fallire in Darfur, come in qualsiasi altra regione “sensibile” del continente, dove è in gioco il destino di milioni d’innocenti, non sarebbe certo una vittoria della giustizia cui tutti aneliamo.

Ma ciò non può significare gratuita impunità per chicchessia.

    

Inizio pagina

     

 

ASIA

Vietnamiti in piazza contro le esercitazioni navali di Pechino di Paul N. Hung  

AsiaNews - Ho Chi Minh City - 2 luglio 2012

Quattro navi da pattuglia cinesi sono entrate in un'area al centro di aspre contese con Hanoi e Manila. Per il governo si tratta di iniziative volte a difendere la "sovranità nazionale". Ad Hanoi centinaia protestano davanti all'ambasciata cinese. Per gli esperti le provocazioni di Pechino sono parte di un piano "predefinito".

        

La marina cinese ha inviato quattro navi pattuglia nel mar Cinese meridionale, in un'area al centro di un'aspra contesa politica, economia e territoriale con Vietnam e Filippine. Secondo quanto riferisce un portale governativo di Pechino, le imbarcazioni sono impegnate in una serie di esercitazioni nei pressi della barriera di Yongshu, limitate alla durata di "due ore e mezza" a causa delle "avverse condizioni meteo". Intanto in Vietnam sono riprese le manifestazioni di protesta anticinesi, che nel luglio e agosto 2011 hanno portato centinaia di cittadini in piazza a intonare slogan e canti contro "l'imperialismo" di Pechino.

Le imbarcazioni della marina cinese sono salpate dal porto di Sanya, nella provincia dell'Hainan, lo scorso 26 giugno e hanno raggiunto ieri la zona contesa con Manila e Hanoi dopo aver percorso circa 4500 km. Per il governo di Pechino si tratta di operazioni di routine nel mar Cinese meridionale in un quadro più ampio di iniziative a difesa della "sovranità nazionale", come precisa il portavoce del ministero della Difesa Geng Yansheng. "La determinazione della Cina - aggiunge - e la volontà dell'esercito cinese di preservare la sovranità nazionale e l'integrità territoriale sono incrollabili".

Tuttavia, la nuova prova di forza dopo la recente decisione di indire bandi per l'esplorazione petrolifera in una zona rivendicata da Hanoi ha scatenato l'ira della frangia nazionalista vietnamita, che si batte contro la politica "imperialista" della Cina. Ieri un centinaio di persone sono scese in piazza nella capitale, per protesta contro le aggressioni della marina di Pechino. I dimostranti - sotto la stretta sorveglianza di agenti e forze della sicurezza - si sono riuniti di fronte all'ambasciata cinese di Hanoi, lanciando slogan fra cui "Abbasso la Cina". Un'analoga manifestazione a Ho Chi Minh City, diretta verso gli uffici del consolato cinese, è stata bloccata dalla polizia ma non sono stati operati arresti.

Analisti ed esperti sottolineano che le "provocazioni" di Pechino nell'area - fra cui l'invio di navi pattuglia in acque contese e il bando per esplorazioni petroliere - sono parte di un piano "predefinito" volto a conquistare "il predominio" nella regione Asia-Pacifico. Un progetto che preoccupa il governo statunitense, interessato a salvaguardare gli equilibri in un punto strategico per il commercio internazionale.

Fra le nazioni della regione Asia-Pacifico, la Cina è quella che avanza le maggiori rivendicazioni in materia di confini marittimi nel mar Cinese meridionale. L'egemonia nell'area riveste un carattere strategico per il commercio e lo sfruttamento di petrolio e gas naturale, di cui è ricco il sottosuolo. A contendere le mire espansionistiche di Pechino vi sono Vietnam, Filippine, Malaysia, il sultanato del Brunei e Taiwan, cui si uniscono la difesa degli interessi strategici degli Stati Uniti nell'area. Nella zona negli ultimi mesi si sono registrati numerosi "incidenti" fra navi militari o imbarcazioni di pescatori - in una zona caratterizzata da una fiorente fauna ittica - battenti bandiere di Pechino, Hanoi e Manila.  

 

Inizio pagina   

   

    

ALGERIA

Cartoline dall' Algeria - 84 di p. Silvano Zoccarato

Touggourt

 

15 luglio 2012

Dio non si è stancato di amare l’umanità.

Ho goduto un bel momento alla Tv che arriva anche nel deserto del Saara. Un momento ecumenico. Ecco le parole di introduzione del Card Ravasi.

      

“Santità, nel giorno dedicato dalla liturgia a s. Benedetto, quasi come per un omaggio augurale a Lei rivolto, la West-Eastern Divan Orchestra – col suo appassionato fondatore e direttore M° Daniel Barenboim – si presenta davanti a Vostra Santità e davanti al Presidente della Repubblica Italiana Giorgio Napolitano che tanto ha desiderato questo evento così suggestivo.

Questi giovani orchestrali sono il simbolo vivente delle tre grandi culture religiose della Terrasanta, l’ebraica, la cristiana e la musulmana. A unirli non c’è solo la fede nell’unico Dio e la comune radice abramitica, ma anche la musica, che è la vera lingua universale dell’umanità. Per creare l’atmosfera spirituale profonda di questo evento, è naturale, allora, far risuonare la voce di tre alti testimoni delle fedi qui rappresentate.

  

La prima è quella dell’islam col celebre poeta mistico musulmano Jalal ed-Dîn Rûmî, contemporaneo di Dante. Egli nel suono dolce del flauto intuiva la nostalgia del canneto da cui era stato strappato, parabola del nostro legame originario con Dio: «Fuoco è questo grido di flauto – scriveva – e non vento, fuoco dell’Amato divino che ha invaso ogni particella del mio essere, per cui di me non rimane che il nome, tutto il resto è Lui!».

      

La seconda voce è quella dell’ebraismo con Elie Wiesel, Premio Nobel per la Pace 1986. Egli rievocava la scala della visione di Giacobbe sulla quale salivano e scendevano gli angeli (Genesi 28) e concludeva: «Ebbene, quando gli angeli risalirono in cielo, dimenticarono di ritirarla. Da allora essa è rimasta tra noi ed è la scala musicale che ci fa ascendere dalla terra al cielo».

    

L’ultima voce, che facciamo idealmente risuonare questa sera, è quella del cristianesimo con lo scrittore del VI sec. Aurelio Cassiodoro. Egli nelle sue Institutiones ammoniva: «Se continueremo a commettere ingiustizia, Dio ci lascerà senza la musica».

      

Santità, la musica che tra poco risuonerà ci ricorderà che – nonostante tutto – c’è ancora giustizia, amore e pace nel mondo e ci ripeterà che Dio, se ci lascia ancora la musica, è segno che non si è stancato di amare l’umanità”

 

19 luglio 2012

La gioia del Vangelo e le altre religioni      

Uno dei libri migliori del Card. Martini porta il titolo La gioia del Vangelo. Vi riporto una pagina per me bellissima.

“In ogni religione vi sono dei valori, e il Concilio l’ha affermato vigorosamente nella dichiarazione ‘Nostra aetate’ sulle religioni non cristiane. E’ vero che tutte le religioni possono aiutare gli uomini a cercare Dio. Tuttavia può nascere il problema della timidità dell’annuncio. … Se le persone hanno questi valori, perché mai le devo disturbare?”

Il cardinale parla anche che in qualcuno può nascere addirittura una sorta di vergogna del Vangelo e di qui “la tristezza, l’incertezza, la timidità nell’annuncio, la confusione di idee e… mancanza di gioia”.

Come il solito, Martini, per capire bene una situazione o un problema, parte dalla meditazione della Parola di Dio… da qualche parabola.

“La gioia del Vangelo è come la gioia di chi avendo trovato il tesoro, impazzisce dalla felicità, va in giro, vende tutti i suoi beni… pur di comprare il campo che gli conviene….. La gioia del Vangelo è propria di chi, avendo trovato la pienezza della vita, è sciolto, libero, disinvolto, non timoroso, non impacciato… Chi ha trovato la perla preziosa diventa capace di collocare le altre in una scala di valori giusta, di relativizzarle, di giudicarle in relazione della perla più bella… sa meglio comprendere il valore anche delle altre…

“A chi ha, sarà dato, ma a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha”. Luca 19, 26

A chi ha la gioia del Vangelo sarà dato il discernimento degli altri valori, dei valori delle altre religioni, dei valori umani fuori del cristianesimo…la capacità di dialogare senza timidità…

A chi possiede poco la gioia del Vangelo, la capacità di dialogo gli si smorzerà… si irrigidirà nella difesa tenace di quel poco che possiede”.

E qual è la gioia del Vangelo, si chiede il cardinale. Risponde. “E’ Gesù crocifisso che riempie la nostra vita. Non semplicemente una gioia, ma quella che viene dall’accoglienza divina di amore per me, in Gesù crocifisso”

 

Pochi giorni fa  Benedetto XVI ha detto ai missionari Verbiti: “Il dinamismo missionario vive solo se c’è la gioia del vangelo”.

     

 Inizio pagina 

 

 

BAHRAIN

Libertà vigilata per un bambino di 11 anni coinvolto nella Primavera araba

AsiaNews - Manama - 6 luglio 2012

La corte minorile sostiene che Ali Hasan è pericoloso per la società e va rieducato. Nessuna menzione su eventuali crimini commessi. Arrestato in maggio, il bambino ha già scontato un mese di carcere preventivo senza accuse specifiche.

       

Una Corte minorile del Bahrain condanna a un anno di libertà vigilata Ali Hasan, bambino di 11 anni accusato di aver partecipato lo scorso 13 maggio alle manifestazioni contro il governo sulla scia della Primavera araba che sta scuotendo il Medio oriente. Secondo il tribunale, egli è pericoloso per la società e va rieducato. Il caso ha scandalizzato l'opinione pubblica locale e internazionale. Diversi attivisti accusano il governo di sfruttare il caso Hasan per frenare l'ondata di proteste pro-democrazia iniziate nel marzo 2011 e costate decine di morti.   

Arrestato in maggio, Hasan ha già scontato un mese di carcere, ma senza accuse specifiche nei suoi confronti. Lo scorso 11 giugno il tribunale lo ha rimesso in libertà, giudicandolo innocente. Tuttavia dopo un riesame del caso, il 5 luglio i giudici hanno optato per un anno di libertà vigilata, sottolineando la pericolosità del bambino che avrebbe preso parte ad almeno tre sit-in organizzati in maggio da attivisti sciiti.     

Shahzalan Khamis, avvocato di Hasan,  dice che il suo assistito è innocente e non ha commesso alcun crimine.  "La decisione della corte - afferma - è una vera e propria condanna formulata su basi inesistenti". Interrogati sull'argomento i giudici si giustificano sottolineando che le accuse contro il giovanissimo attivista non sono mai cadute, ma non spiegano su quali capi di accusa il bambino dovrebbe scontare un anno di libertà vigilata.  

Hasan è solo uno dei minorenni arrestati dalle autorità durante sit-in e manifestazioni. Secondo il Bahrain Center for Human Rights, la maggior parte dei bambini si trovava in piazza insieme ai genitori e non avrebbero compiuto alcuna azione tale da giustificare arresto e detenzione preventiva.  

Il Bahrain è un Paese a maggioranza sciita, ma governato da una famiglia reale sunnita alleata dell'Arabia Saudita. Da oltre un anno la popolazione chiede riforme costituzionali e l'allontanamento dello sceicco Khalifah ibn Salman al-Khalifah, premier dal 1971. Sull'onda della "Primavera araba", l'opposizione sciita ha organizzato nel marzo 2011 una sollevazione popolare. Per reprimere le manifestazioni il governo ha chiesto aiuto all'alleato saudita, che è intervenuto inviando le forze speciali autorizzate a sparare sui dimostranti. Negli scontri sono morte 24 persone, tra cui 4 poliziotti. Le rivolte sono ricominciate con forza lo scorso 18 aprile in vista del gran premio di Formula 1. Per giorni migliaia di manifestanti hanno occupato le strade della capitale e dei villaggi a maggioranza sciita. Il governo ha risposto con la forza imponendo il coprifuoco e arrestando centinaia di persone.    

 

Inizio pagina

   

   

BANGLADESH

Campo di basket per il boarding di Dhanjuri di p. Adolfo L'Imperio

Dhanjuri - 19 luglio 2012

        

Come si prepara un campo di Basket ball (palla a canestro)?

La cosa parte sempre dalla richiesta degli interessati. A Dhanjuri per due mesi ho fatto scrivere il perchè e le ragioni  che centosettanta giovanotti hanno per chiedere di entrare in questa avventura del  Basket. Lo sport è sempre più parte della vita di questi ragazzi anche per i vari tornei e competizioni a vari livelli. Lo scorso Giugno, come ogni anno, abbiamo avuto il Fr.Viganò tournament di calcio con ben otto squadre che hanno partecipato da varie parrocchie.  

Alla fine un gruppo ristretto ha selezionato e sottoposto la richiesta prima in Bengalese e poi anche in lingua Inglese. Era in visita il Vicario Generale del PIME ed alla richiesta lui disse che bisognava pregare per ottenere.

Si  vede che la preghiera di questi ragazzi ha potere. Il secondo passo è stato individuare il "sito" dove realizzare secondo le misure internazionali .Anche questo è stato stabilito: Il cortile interno del Boarding.

 

         

Si scava per 50 cm e si porta via la terra per sostituirla con sabbia compattata. Quando la sabbia ha avuto una sua consistenza si passa a sistemare per tutta l'area mattoni come sottofondo della gettata di cm. 10 di conglomerato di cemento.

La gettata viene fatta a quadroni di circa 3m. di lato in modo da contenere le dilatazioni.

Dopo l'ispezione si passa a tracciare il campo secondo le indicazione date e si intravede qualcosa di nuovo.
Sono trascorsi tre mesi dall'inizio dei lavori . Mancano i tabelloni che vengono realizzati e donati dalla NTS.
Br.Massimo viene lui di persona per fissarli ed essere sicuro che il lavoro e' fatto a regola d'arte. Complimenti !

Quindi arriva P.Cherubim che benedice  attorniato da aspiranti campioni , taglia il nastro,  dona il primo pallone, secondo la promessa e si inizia a imparare a giocare. E' il 23 Giugno 2012.

 

            
Come al solito P.Adolfo, pignolo per natura, ha consegnato un opuscolo in bengalese con le regole e le norme per il gioco della palla a canestro. Impegno, per chi vuol giocare, di scrivere al computer l'opuscolo. La sala computer è stata assalita e per alcuni giorni non ci sono altri impegni ...                   .
Il lavoro completo, materiale, lavoratori, è costato 4.230 Euro. Parte del materiale per circa 1.000 Euro (sabbia e mattoni) è stato  dato dalla Parrocchia  per cui la spesa da coprire è di Eu. 3.230. Grazie.  

       

Signore, vieni a mettere qualcosa di nuovo in noi, al posto di quanto a poco a poco viene meno col passare degli anni.
La gioia del gioco e dello sport sia parte dell'amore che dobbiamo avere per le nuove generazioni per aiutarli a crescere.

   

Caro Don Vincenzo ed amici di Mola di Formia , siete sempre attesi per fare da allenatori ... che ne dite ?

Adolfo

      

Ndr: Altre foto sul sito

       

Inizio pagina

  

  

Pesanti danni per le piogge monsoniche

Radiovaticana - 5 luglio 2012  

        

Gravissime inondazioni stanno colpendo il Bangladesh. Le piogge monsoniche si stanno abbattendo in particolare sui distretti della regione nord-orientale, dove stanno per straripare i fiumi Brahmaputra e Dharla. Almeno 300 mila persone in 500 villaggi sono già rimaste senza casa, cibo e acqua potabile. I collegamenti sono bloccati. In questa drammatica situazione si moltiplica lo sforzo delle organizzazioni umanitarie, tra queste Terre Des Hommes. Sulla situazione Giancarlo La Vella ha intervistato Rossella Panuzzo, portavoce dell’organizzazione:

 

R. – Il fiume Brahmaputra che arriva dall’India con una portata ancora molto alta sta lentamente scendendo. Quindi si spera nelle prossime ore in un miglioramento della situazione per quanto riguarda il lato meteorologico ma questo miglioramento sta mettendo in evidenza la situazione molto grave a livello della popolazione. In Bangladesh i terreni più bassi sono quelli abitati dalle persone più povere sono quelli a rischio sempre di inondazione.

 

D. – Come vivono le persone alle quali improvvisamente l’acqua ha spazzato via la casa e tutti i beni primari?

R. – Vivono molto male. Le latrine sono inutilizzabili e anzi c’è un inquinamento dell’acqua quindi è difficile bere e avere acqua potabile. I terreni che coltivano vengono sempre di più erosi ad ogni inondazione, quindi si prospetta effettivamente un periodo di forte problema di approvvigionamento di viveri e naturalmente c’è sempre in agguato la possibilità di un’epidemia di colera.

 

D. – Nell’immediato di che cosa c’è bisogno per alleviare una situazione così grave che riguarda tante persone?

R. – Assolutamente continuare la consegna di viveri, estenderla a più persone possibili. Un’attenzione costante ai bambini con il problema della diarrea, di solito le prime vittime di malattie portate dall’acqua non potabile. Poi sicuramente dovremo vedere se sarà possibile riparare i danni delle tante scuole danneggiate. Ci hanno detto che ci sono circa 74 scuole danneggiate nel distretto.

 

D. – Come riuscite ad operare in queste regioni colpite dalle inondazioni dove immagino sia anche difficile il movimento sulla terra?

R. – Assolutamente, è difficile però come Terre des hommes siamo in quella regione dal 1974 quindi lavoriamo in accordo con le autorità locali e quindi ci vengono messe a disposizione mezzi. Purtroppo il Bangladesh è uno Stato dove è ricorrente il problema delle inondazioni, in qualche maniera nei prossimi giorni cerchiamo di incrementare questi aiuti che abbiamo già attivato speriamo nelle prossime settimane ci sia un’uscita dalla prima emergenza e dopodiché ci sarà tutta la post-emergenza che era quella della ricostruzione di case e di scuole.

 

D. – Come è possibile sia pure da lontano aiutare queste persone?

R. – Abbiamo messo nel nostro sito che è www.terredeshommes.it un appello di raccolta fondi tramite il sito trovate tutte le informazioni del caso e si può addirittura fare una donazione online.  

      

Inizio pagina   

 

 

BRASILE

"Ancora oggi l'Amazzonia è considerata come una colonia" ...

la voce dei Vescovi contro un modello che non considera la popolazione nativa

Agenzia Fides - Santarem - 5 luglio 2012   

        

"Uno dei problemi affrontati attualmente dalle popolazioni dell'Amazzonia è quello dei grandi progetti che, oltre ad avere un enorme impatto sull'ambiente, generano profitti per alcuni e causano numerosi impatti sociali negativi per le città in cui si realizzano": questo il tema principale della conferenza stampa tenuta il 3 luglio dal Workshop "San Pio X", nell'ambito del X Incontro dei Vescovi dell'Amazzonia, che si svolge a Santarém-PA, in Brasile. Sono intervenuti alla conferenza stampa Sua Ecc. Mons. Jesus Maria Berdonces, Vescovo della Prelatura di Cameta e Presidente della Regione brasiliana Nord I; Sua Ecc. Mons. Mosé Joao Pontelo, Vescovo di Cruzerio do Sul e Presidente della Regione Nord-Ovest; Sua Ecc. Mons. Roque Paloschi, Vescovo di Roraima, e mons. Raymond Possidonio, coordinatore della Pastorale dell'Arcidiocesi di Belém e storico.

Mons. Jesus Berdonces ha sottolineato che l'Amazzonia è considerata ancora oggi come una colonia, dove le persone vengono, prendono la materia prima, si arricchiscono, e poi se ne vanno. "Questo è un modello capitalistico, adottato dal governo nella regione dell'Amazzonia, che non tiene conto delle persone che vivono lì. Per loro la gente è solo un dettaglio che ostacola lo sviluppo" si legge nella nota inviata dalla Conferenza Episcopale Brasiliana (CNBB) all'Agenzia Fides. Ma esiste anche un altro modello raccomandato dalla Chiesa, il cui obbiettivo sono le persone che si trovano in Amazzonia: "La Chiesa sostiene la promozione dell'agricoltura familiare, sostiene che i profitti della ricchezza (sia mineraria che dell'agricoltura) debbano rimanere in Amazzonia, e che le persone debbano essere coinvolte".

Mons. Roque Paloschi ha sottolineato l'importanza di sapere chi stia godendo i profitti di questi grandi progetti, che oltre ad avere la benedizione del governo, sono finanziati con denaro pubblico. Ha fatto inoltre notare che le popolazioni non hanno garanzie e le loro terre sono quasi sempre utilizzate arbitrariamente per qualche "business agricolo" e da gruppi economici che arrivano nella zona. Mons. Mosé Joao Pontelo ha denunciato che i problemi ci sono, e richiedono la responsabilità e l'intervento dei Pastori, che sono i leader della Chiesa in questa zona. Ha detto anche che l'attuale incontro di Santarém segna la strada da seguire nei prossimi cinque anni.

La X riunione dei Vescovi preparerà un documento, come conclusione finale, e tre lettere, indirizzate ai governanti degli Stati dell'Amazzonia, al Popolo di Dio e al Santo Padre Benedetto XVI. (CE)  

    

Inizio pagina

 

 

Brasile, calano ancora i cattolici di Alessandro Armato

MissiOnLine - 5 luglio 2012    

         

Nove punti percentuali in meno dal 2000. E a Rio de Janeiro - la città della Gmg2013 - si fermano solo a quota 45,8 per cento, la più bassa del Paese

Il numero di cattolici in Brasile continua a diminuire, a vantaggio delle differenti denominazioni evangeliche. Un fatto che conferma come la questione della nuova evangelizzazione si ponga con forza anche per il Paese con il maggior numero di cattolici del mondo.

Secondo dati appena diffusi dall'Istituto brasiliano di geografia e statistica (IBGE), relativi al censimento demografico del 2010, la percentuale di cattolici nel Paese sudamericano oggi è pari al 64,6 per cento della popolazione, nove punti in meno rispetto al 2000 e quasi venti rispetto al 1980, quando l'83 per cento della popolazione si dichiarava cattolico.

Di questo passo il Brasile, che oggi conta circa 123 milioni di fedeli su 190 milioni di abitanti, finirà per perdere il primato di Paese più cattolico del mondo. La Giornata mondiale della gioventù che si celebrerà a Rio de Janeiro nel luglio del prossimo anno, alla presenza di Benedetto XVI, ha tra i suoi obiettivi impliciti anche quello di rafforzare le fondamenta del cattolicesimo brasiliano. Tra l'altro la città di Rio de Janeiro, sede della Gmg 2013, è proprio quella che oggi conta con la minor percentuale di cattolici di tutto il Paese, solo il 45,8 per cento.

L'emorragia di fedeli che colpisce la Chiesa brasiliana va a vantaggio soprattutto delle differenti denominazioni evangeliche, che tra il 2000 e il 2010 sono passate dal 15,4 al 22,2 per cento della popolazione e contano oggi un totale di oltre 42 milioni di credenti.

Cresce anche il numero di atei, agnostici e persone senza una religione definita, passati dal 4,7 all'8 per cento, per un totale di circa 15 milioni di persone. Tra questi la stragrande maggioranza si dichiara priva di una religione specifica, mentre gli atei sono 615.096 e gli agnostici 124.436.

Il 2,0% della popolazione si professa di religione spiritista, mentre uno 0,3% aderisce a credo di origine africana come candomblé o umbanda. Queste ultime, i cui dati sono rimasti stabili, sono praticate soprattutto nella zona al confine con l'Uruguay o in città come Rio de Janeiro e Salvador de Bahia.  

     

Inizio pagina

 

  

BURKINA FASO

La corsa all'oro e le sue conseguenze sociali

Agenzia Fides - Ouagadougou - 3 luglio 2012 

           

La febbre dell'oro pervade i giovani del Burkina Faso alla ricerca di una fonte di sostentamento alternativa all'agricoltura, in crisi a causa della siccità. L'oro "giallo" ha ormai sostituito quello "bianco", il cotone, come prima esportazione del Paese, afferma un'inchiesta di OCADES Caritas Burkina. Se l'80% della forza lavoro locale è ancora impiegata nell'agricoltura, il settore minerario è in piena espansione. La produzione industriale di oro è passata da 5.000 kg nel 2008 a 11.642 kg nel 2009. Il settore minerario è in mano a società straniere (statunitensi, francesi, canadesi, australiane). Accanto all'estrazione industriale c'è quella artigianale, alla quale si dedicano migliaia di burkinabé, attratti dalla possibilità di guadagno, ma la cui vita non è affatto facile.

Si tratta infatti di setacciare le sabbie dei fiumi alla ricerca di quantità minime di oro: un lavoro duro e ingrato, fatto per ore e ore sotto il sole accecante. "Ma quelli che riescono a trovare l'oro si contano sulle dita della mano" afferma l'inchiesta.

Il sindaco di Boroum, uno dei siti di ricerca dell'oro, mette in luce i danni sociali provocati dall'arrivo dei cercatori improvvisati: "il fenomeno della ricerca dell'oro è molto inquietante. Quando i giovani riescono a ottenere un po' di denaro, preferiscono dilapidarlo nelle grandi città invece di usarlo per aiutare i loro genitori. Nei siti di ricerca si assiste ad ogni sorta di pratica malsana: consumo di stupefacenti, prostituzione, furti e stupri. Alcuni giovani tornano a casa malati. Anche se sono privi di mezzi, i loro genitori si sentono obbligati a dare fondo a tutte le loro magre risorse per curarli. La ricerca dell'oro ci sta creando dei problemi seri".

Il Segretario Esecutivo Nazionale di OCADES Caritas Burkina, don Isidore Ouedraogo, afferma che il fenomeno dei cercatori d'oro è "uno dei problemi principali sul quale dobbiamo lavorare".

Questo problema è ancora più importante visto che la gente si è più volte ribellata contro le compagnie minerarie, accusate di essere interessate solo all'accumulo di profitti e non alla costruzione di infrastrutture e alla creazione di posti di lavoro per le popolazioni locali. (L.M.)  

       

Inizio pagina 

 

     

CINA 

La predica di Pechino: il Vaticano è "barbaro e irrazionale" di Bernardo Cervellera

AsiaNews - Città del Vaticano - 5 luglio 2012

In un commento alla Nota diffusa da Propaganda Fide, l'Ufficio affari religiosi critica la Santa Sede che "soffoca la libertà ed è intollerante". Minacce di nuove ordinazioni episcopali "auto-elette" e "auto-ordinate", senza l'autorità del papa. Al Partito manca il senso della storia. Ma ha il senso degli "affari" e della corruzione: il controllo sugli "affari religiosi" frutta ai burocrati circa 13 miliardi di euro.

      

Nota contro Nota; scomunica contro scomunica; dolore vero contro dolore falso; teologia contro bassa politica: in risposta alla Nota diffusa dalla Congregazione per l'evangelizzazione dei popoli, sull'ordinazione senza mandato papale che si terrà a Harbin (Heilongjiang) il 6 luglio,  l'Ufficio affari religiosi della Cina ha subito riposto con una "Nota" da parte di un anonimo portavoce.

Il fatto farebbe solo sorridere per il ridicolo di cui si copre la seconda potenza economica mondiale, che difende la "libertà religiosa" e "la tolleranza" e poi sequestra un sacerdote, p. Giuseppe Zhao Hongchun, solo perché è fedele alle indicazioni della Santa Sede.

Con uno stile approssimativo e poco diplomatico l'Amministrazione statale per gli affari religiosi (Asar, il nuovo nome dell'Ufficio affari religiosi) ha diffuso infatti attraverso Xinhua di ieri tutto il suo stupore per l'atteggiamento vaticano, giudicato "scandaloso", "scioccante", "pieno di minacce", "barbaro e irrazionale".

La Nota vaticana ricorda che nella Chiesa cattolica le nomine dei vescovi avvengono su mandato del papa e che trasgredire a questo elemento della fede porta "divisioni, lacerazioni e tensioni nella comunità cattolica in Cina". Ne è prova quanto succede ad Harbin in questi giorni in cui molti preti si nascondono per non partecipare alla consacrazione del vescovo illecito; e quanto succede in diverse parti della Cina, dove i vescovi scomunicati sono lasciati soli dai fedeli e i sacerdoti preferiscono entrare nelle comunità sotterranee.

Per l'Asar è tutto il contrario: è l'atteggiamento vaticano, con le sue "accuse e interferenze" a creare "restrizioni alla libertà e intolleranza, minando un sano sviluppo della Chiesa cattolica in Cina e non portando alcun beneficio alla Chiesa universale".

In questo raptus di amore "alla libertà" e contro "l'intolleranza", l'Asar - un'agenzia statale! - si mette a difendere le il candidato all'elezione, il p. Giuseppe Yue Fusheng, definito "devoto nella fede, moralmente a posto, onesto".

Va detto che il Vaticano considera Yue un bravo prete, ma un po' debole per sostenere le responsabilità episcopali. Quello che alla "tollerante" Asar non piace è che vi sia qualcuno che abbia un'opinione diversa dalla propria, soprattutto in materie religiose!

Il punto è infatti che l'Ufficio per gli affari religiosi non è un qualcosa che vigili su possibili criminalità delle religioni, ma vuole intervenire come una specie di "papa" nelle questioni squisitamente spirituali.

Così l'Asar rivendica che i suoi vescovi, scelti dal Partito con il metodo della "auto-elezione" e della "auto-ordinazione", sono "uguali a tutti gli altri vescovi del mondo" e - a differenza di quanto dice il Vaticano - essi sono "leciti" e "validi" i loro sacramenti. Forse qualcuno dovrebbe spiegare a questi burocrati che il Medioevo e i vescovi che ricevevano l'investitura dall'imperatore sono morti da un pezzo. Basterebbe che si confrontassero coi Paesi vicini - Corea, Giappone, Singapore, Mongolia e perfino Vietnam - per vedere quanto indietro sono rispetto a un Paese moderno dove Stato e Chiesa sono distinti e non uniti nel potere politico.

Ma il senso della storia è quanto di più manca alla burocrazia del Partito comunista cinese.

Ne è prova la stessa Nota diffusa dall'Asar, in cui si afferma che "nel secolo scorso, negli anni '50, le minacce di scomunica del Vaticano hanno costretto la Chiesa cattolica in Cina a percorrere la strada dell'auto-elezione e dell'auto-ordinazione".

Questi burocrati non si domandano: come mai l'auto-elezione e l'auto-ordinazione non è successo prima, nei secoli prima di Mao Zedong? Proprio non si rendono conto che la politica religiosa di Mao è un'importazione straniera, proveniente dalla Russia di Stalin?

E come mai in questa nuova stagione cinese in cui si cerca di purificare l'eredità di Mao Zedong, rimane ancora questo lascito disgustoso e umiliante per la Cina e per la Chiesa?

Le conclusioni della Nota dell'Asar sono contraddittorie: mentre affermano di essere pronti al dialogo con il Vaticano, si rivendica "la libertà" (e la minaccia) di voler continuare con vescovi "auto-nominati" e "auto-ordinati". A parte la poca diplomazia manifestata in questa posizione, si percepisce un senso di paura. Se infatti venissero ordinati vescovi non scelti dai burocrati del Partito, ma personalità davvero interessate alla Chiesa e alla società, forse verrebbero a galla tante denunce di corruzione, di ruberie, di intascamento di proprietà che sottratte all'uso perla Chiesa e per il popolo, sono divenute la base del loro benessere e del loro potere economico. Secondo un calcolo dell'Holy Spirit Study Centre di Hong Kong, sotto il manto del controllo comunista, i dirigenti degli "affari religiosi" intascano proventi per "affari economici" per circa 130 miliardi di yuan (circa 13 miliardi di euro).

Per questo vale la pena dare un consiglio al presidente Hu Jintao: nella sua lotta alla corruzione e per maggiore moralità nel suo Partito, dia la piena libertà religiosa alla Chiesa e alle religioni.  

    

Inizio pagina

 

 

La polizia cinese scopre un mega consorzio per la vendita di bambini, 802 arresti

AsiaNews - Pechino - 7 luglio 2012

Lanciata nei giorni scorsi l'operazione ha coinvolto oltre 10mila agenti in 15 province. Nel traffico erano coinvolti ambulatori, cliniche e ospedali. I funzionari adescavano donne gravide e famiglie promettendo fino a 8mila euro per la vendita del figlio. I bambini di età superiore ai due anni venivano venduti all'asta nelle province con più richieste. In caso di malattia i piccoli erano scaricati durante il viaggio e lasciati morire in mezzo alla strada.

 

Con una mega operazione in 15 province, la polizia cinese arresta 802 persone coinvolte nel traffico illegale di neonati e bambini inferiori a sei anni. L'intervento delle forze dell'ordine ha coinvolto oltre 10mila poliziotti che in una settimana hanno fatto irruzione in diversi ospedali nelle province Hebei, Shandong, Sichuan, Fujian, Henan e Yunnan, dove da alcuni anni si era formato un vero e proprio "consorzio" per il commercio di neonati da vendere all'asta. Molti di loro provenivano da famiglie che avevano violato la legge del figlio unico, che costringe le madri ad aborti e strelizzazioni. In totale gli agenti hanno salvato 181 bambini, che dovevano essere consegnati nei prossimi giorni a famiglie cinesi e straniere.  

Una nota del Ministero della pubblica sicurezza afferma che l'operazione è iniziata in dicembre nell'Henan con il fermo di quattro persone che a bordo di un autobus trasportavano un gruppo di bambini da vendere all'asta. Interrogati dalla polizia, essi hanno rivelato i nomi dei gestori del traffico locale. In aprile le indagini si sono allargate anche ad altre 15 province, passando dal fermo dei corrieri alle perquisizioni in cliniche ed ospedali. Dalla informazioni raccolte dagli agenti, il traffico avveniva grazie a funzionari compiacenti che segnalavano a famiglie facoltose la possibilità di acquistare un figlio da donne con problemi finanziari. Prima di concordare, gli interessati facevano visita negli ambulatori dove controllavano le condizioni del nascituro, il sesso e in diversi casi la salute dei genitori.  

I bambini di età inferiore ai sei anni venivano invece venduti all'asta. Per evitare di dare nell'occhio durante viaggi, lunghi anche diversi giorni, i trafficanti somministravano ai piccoli pesanti dosi di sonniferi. Chi si ammalava durante il cammino veniva semplicemente abbandonato per strada in mezzo ai cespugli e lasciato morire.  

Dom Jinli, responsabile dell'ufficio di pubblica sicurezza di Zaozhuanf, Shandong, ha rivelato che i medici intascavano per ogni bambino venduto circa 700 euro. I responsabili del traffico anche 2mila euro. Il tariffario per la famiglie poteva raggiungere anche cifre superiori agli 8mila euro, soprattutto per bambini maschi e in buona salute.  

     

Inizio pagina   

       

 

CONGO RD

Caschi blu pronti a difendere Goma dai ribelli. Don Gavioli: in città serve cibo

Radiovaticana - 12 luglio 2012
       
Tensione nella Repubblica Democratica del Congo. Di fronte al pericolo di un'ulteriore avanzata verso Goma dei ribelli del gruppo M23, le Nazioni Unite sono pronte a difendere in armi il capoluogo della provincia orientale del Nord Kivu, e stanno dunque dispiegando nuovamente intorno alla città i caschi blu della Monuc, la loro Missione nel Paese. I ribelli dal canto loro smentiscono un loro avanzamento verso la città. Salvatore Sabatino: 
           
L’Onu da una parte, il gruppo ribelle M23 dall’altra. In mezzo Goma, città verso cui starebbero marciando i rivoltosi, che però smentiscono e ripiegano sulle montagne, in attesa – e a dirlo è proprio il loro capo – che si possa aprire un dialogo con il governo di Kinshasa. A protezione della città sono già stati schierati i caschi blu, per volere dello stesso Ban Ki-moon che ieri, tra l’altro, ha contattato telefonicamente sia il presidente dell'ex Zaire, Joseph Kabila, sia l'omologo rwandese, Paul Kagame, sollecitando entrambi a "fare tutto il possibile per disinnescare la tensione e porre fine alla crisi". Il Rwanda, che ha sempre smentito, è accusato di alleanza con l'M23: un folto e preparato gruppo di ex militari che hanno disertato, prendendo il nome dal 23 marzo di tre anni fa, quando fu firmato un accordo di pace di fatto mai rispettato. Guidati dal generale rinnegato Bosco Ntaganda, ricercato per crimini di guerra e contro l'umanità dal Tribunale penale internazionale dell'Aja, nelle scorse settimane avevano invaso alcune località nei pressi di Goma, poi liberate dell’intervento delle truppe regolari.

“La situazione nel Paese è difficile serve un vero sforzo internazionale per la Pace”: così da Goma parla don Piero Gavioli, direttore del Centro giovanile Don Bosco NGangi, raggiunto telefonicamente da Massimiliano Menichetti: 
       
R. – La situazione a Goma per ora è calma: la guerra si svolge a 70-80 km a nord. Molta gente fugge dall’interno per venire in città. C’è un campo profughi all’entrata di Goma dove tanti trovano rifugio. Molti vengono a chiedere aiuti anche nel nostro Centro.
    

D. – Quanti sono i profughi e da dove vengono queste persone?
R. – Il gruppo più numeroso è quello composto da persone fuggite, a metà maggio circa, dalla regione del Masisi, quando è cominciata la ribellione. Poi, i conflitti si sono spostati più a Nord, al confine con l’Uganda. Adesso qui ci sono almeno 15-20 mila persone e nessuna struttura, né governativa né appartenente ad ong, che se ne possa occupare in maniera risoluta. Anche il Programma alimentare mondiale ha finito le scorte. 
     
D. – La popolazione come vive questa situazione e voi cosa state facendo?
R. – Noi abbiamo in carico i bambini malnutriti. C’è molto scoraggiamento tra la gente e paura, perché dicono che il governo non fa molto per risolvere la questione. Forse ha attivato vie diplomatiche, però manca il soccorso concreto, non ci sono ancora iniziative visibili. Anche le truppe della Monuc, che dovrebbero frammettersi fra i belligeranti, ci sembrano più osservatori che soldati che intervengono per favorire la pace. C’è molta sfiducia, c’è molto scoraggiamento.
     
D. – A Rutshuru, alcune fonti hanno parlato di campi degli sfollati bruciati...
R. – A Rutshuru non c’erano campi di sfollati, ci sono quartieri: in base alle notizie di cui a sono a conoscenza, queste strutture non sono state toccate. La gente è partita verso l’interno, verso la foresta perché ha avuto paura. Ma ora sta rientrando anche sollecitata dai ribelli dell’M23, che secondo le testimonianze che ho raccolto da alcuni sacerdoti, stanno invitando le persone a riprendere le abitudini di sempre e a rientrare nelle case, senza alcuna minaccia.
    
D. – Ma cosa vogliono i ribelli?
R. – Questo è uno dei segreti che nessuno conosce. Non si capisce bene quale sia l’intesa che hanno con il Rwanda e anche i rapporti con lo Stato congolese, perché ricordiamo che sono ammutinati dell’esercito congolese. Cosa vogliono? Che si rispettino gli accordi di pace presi il 23 marzo del 2009. Si chiamano M23 proprio per indicare quelle promesse che, sotengono, non sono state mantenute. Poi, ci sono interessi economici come lo sfruttamento delle miniere e tutta la frontiera con l’Uganda che è una sorgente di guadagno…
    
D. – Come si stabilizza il Paese?
R. – Servirebbe un impegno veramente internazionale per la pace non solo nel nostro Paese, ma nei Grandi Laghi. Questa conflittualità è molto legata a quello che capita in Uganda e in Rwanda, in misura minore anche in Burundi e, forse, in parte anche con il Sud Sudan. Quindi serve una volontà forte a livello internazionale per la pace, una nuova conferenza di pace, che generi però impegni effettivi. Abbiamo, infatti, l’impressione che ci siano accordi scritti sulla carta, che rimangono sulla carta.
      
D. – Vuole lanciare un appello? Che cosa vi serve al Centro?
R. – Al Centro abbiamo 72 piccoli orfani, di qualche settimana fino ai due anni, e abbiamo bisogno di latte. Il latte ci costa caro: spendiamo attualmente 2300 dollari al mese. Abbiamo bisogno anche di cibo per i malnutriti, cui distribuiamo farina di granoturco, di soia e di sorgo, e poi il cibo di base, cioè polenta e fagioli.
      
D. – Per chi volesse aiutarvi, come può fare?
R. – La cosa migliore è passare attraverso la ong che ci sostiene, che è il Vis, il Volontariato internazionale per lo sviluppo.

    

Inizio pagina 
   

   

Soldati loro malgrado, ricomincia l’arruolamento coatto dei bambini

Italia Caritas Luglio-Agosto 2012

     

Notizie di rapimenti, da parte delle milizie del Kivu, di centinaia di minori. Dopo la guerra, 40 mila sono stati smilitarizzati. Anche grazie a Caritas   

Secondo stime Unicef, in tutto il mondo sono almeno 250 mila i bambini soldato, minori di età compresa tra gli 8 e i 16 anni, sottoposti a barbari riti iniziatici, schiavizzati dai combattenti, obbligati a uccidere e torturare chiunque venga loro indicato come “nemico”, talvolta i loro stessi familiari. Nella Repubblica democratica del Congo il fenomeno è stato tristemente diffuso per oltre un decennio. Secondo i dati forniti dal Rapporto Ombra, edito nell’aprile 2011 dalla Coalizione per fermare l’utilizzo dei bambini soldato, 40 mila bambini sono fuoriusciti negli ultimi anni, dopo la fine delle ostilità generalizzate e il raggiungimento della pace, da forze militari e gruppi armati. Nonostante questo incoraggiante risultato, ottenuto mediante l’attuazione su scala nazionale del Programma Ddr (Demobilitazione, detraumatizzazione e reinserimento sociale di ex combattenti), solamente nell’est della Rdc, secondo quanto contenuto nel rapporto, il numero di bambini soldato continua ad attestarsi tra i 6 e gli 8 mila.

Ciò è dovuto al fatto che l’arruolamento coatto di bambini non si è mai interrotto, sopravvivendo alla fine (2003) della Seconda guerra del Congo e a dispetto della firma degli accordi di pace (marzo 2009) tra i leader del movimento ribelle Cndp, allora capeggiato dal generale Laurent Nkunda, e il governo congolese. Da aprile poi, in seguito alla defezione del generale Bosco Ntaganda, il reclutamento di bambini da parte di forze e gruppi armate nei territori di Masisi e Rutshuru, nella martoriata provincia del Nord Kivu, ha ripreso slancio e vigore. Secondo un recente rapporto di Human Rights Watch, almeno 149 ragazzi e giovani di etnie hutu e tutsi, provenienti dai villaggi di Kilolirwe, Kingi e Kabati (nei pressi della città di Kitchanga, nel cuore del Masisi), tra il 19 aprile e il 4 maggio, sono stati reclutati da parte degli ammutinati di Ntaganda. Ed è plausibile che il numero dei reclutamenti stia crescendo giorno dopo giorno, non solo nel Masisi, ma anche a Rutshuru, dove da maggio operano le milizie dell’altro generale ribelle, Sultani Makenga.

Secondo la legge congolese, è irregolare reclutare chiunque abbia un’étà inferiore ai 18 anni, e la Corte penale internazionale considera il reclutamento di ragazzi di meno di 15 anni un crimine di guerra. Intanto, però, è accertato che 7 dei 149 reclutati attorno a Kitchanga sono morti durante i combattimenti tra gli ammutinati e le forze armate regolari, tra Mushaki e Muhongozi. Forse sono stati usati come scudi umani, o forse sono stati mandati in avanscoperta, o fatti marciare davanti a tutti, come spesso accade: chi è più vulnerabile è obbligato a morire prima degli altri soldati, più forti, dunque più preziosi e importanti.  

 

Spettri che tornano

Human Rights Watch ha raccolto, tra la folla di profughi in arrivo al campo profughi di Kirbati, situato nel confinante Ruanda, la testimonianza di giovani tra i 16 e i 25 anni che dicevano di essere fuggiti perché temevano di essere reclutati dagli uomini di Ntaganda, generale su cui pende un mandato d’arresto internazionale, emesso dalla Corte penale internazionale nel 2006, proprio in seguito al massiccio arruolamento di bambini nella guerra dell’Ituri, da lui fomentata tra il 2002 e il 2003. Ora anche il governo congolese si è impegnato a catturarlo e a consegnarlo alla giustizia internazionale, dopo aver invano tentato di integrarlo, assieme ai i suoi uomini, nelle forze armate regolari.

In questo scenario di instabilità e nuovi arruolamenti, ricordi prossimi quanto terribili si riacccendono tra ragazzi e bambini che una guerra l’hanno già vissuta e combattuta, e della quale portano i segni. Sono gli ex bambini soldato del Ctt (il Centro di trattamento del trauma da guerra) e della rete dei Cto (i Centri di transito e orientamento), strutture gestite, a Rutshuru e nel Masisi, da Caritas Goma, grazie anche al sostegno di molte Caritas diocesane e di Caritas Italiana.

Molti (quanti? 100? 200? 500?...) di questi bambini e ragazzi, insieme ai loro educatori e responsabili, sono stati evacuati dai centri, fuggendo ancora una volta dalla guerra, trovando riparo in un posto sicuro e un ambiente protetto, nel quale continuare il difficile e tortuoso cammino di superamento di traumi e paure. I venti di guerra tornati a spirare nel Kivu non mettono direttamente a repentaglio la loro sorte. Ma li espongono a sollecitazioni che rischiano di inquietarli e di interferire con il loro cammino di riappropriazione del futuro. In una terra che non conosce pace, anche gli spettri del passato e gli incubi sono più duri a dissolversi. 

 

L’impegno Caritas

Sviluppo sostenibile, oltre i drammi

Oltre a sostenere un programma di microprogetti in partnership con Caritas Congo (da quattro anni si realizzano mediamente 40 “micro” all’anno nell’intero territorio nazionale), Caritas Italiana da oltre 15 anni opera, nel paese africano, in particolare nel Nord Kivu e nel Maniema, in diversi settori, grazie al coordinamento dell’ong Acs Italia e al finanziamento di numerose delegazioni regionali e Caritas diocesane italiane. Sul fronte della reintegrazione sociale di ex bambini soldato e del riscatto  di bambini lavoratori nelle miniere, il Centro di trattamento del trauma di guerra, a Rutshuru, rappresenta un importante servizio d’emergenza, cui seguono attività  di medio-lungo periodo (formazione di counsellor psicologici, attività di socio-motricità, cure sanitarie alle ragazze vittime di violenza, adozioni scolastiche, microcredito). Lo sviluppo rurale sostenibile, con approcci di filiera (produzione agricola, tra- sformazione e commercializzazione), è oggetto di progetti che valorizzano le fattorie diocesane locali e le numerose associazioni di allevatori e agricoltori del territorio. Progetti sono in corso per le filiere dell’olio di palma (sino alla produzione di saponi), di latte (produzione di formaggi e altri prodotti caseari vaccini), carne, cereali e manioca (con due mulini per produrre farine). Per concretizzare l’accesso all’acqua, si stanno realizzando circa 25 pozzi* nei pressi di centri sanitari diocesani e pubblici, dove sono stati realizzati anche orti comunitari, per garantire l'alimentazione ai malati non assistiti da famigliari. Infine, per rispondere all’emergenza umanitaria  in atto nel Nord Kivu, Caritas Italiana partecipa  all’Emergency Appeal di Caritas Internationalis, che prevede l’assistenza a oltre 10 mila famiglie sfollate.

 

Nota: * Anche la Caritas diocesana di Gaeta, in aggiunta a quanto sopra, ha promosso una microrealizzazione per la Sistemazione e captazione di 15 fonti d'acqua potabile nella Parrocchia di Mingana – Diocesi di Kasongo – RD Congo

      

Inizio pagina

    

          

EGITTO

Cresce lo scontro fra al-Azhar e Fratelli musulmani per il controllo dell'islam sunnita

AsiaNews - Il Cairo - 4 luglio 2012

Gli islamisti vogliono limitare il potere della più famosa e autorevole università del mondo islamico e imporre la loro visione radicale del Corano. Ahmed al-Tayeb, grande imam di al-Azhar abbandona in anticipo il primo discorso del neo-presidente Morsi. Lo staff del capo di Stato lo aveva lasciato senza posto riservato.

     

Il conflitto storico fra al-Azhar, la più importante università islamica sunnita, e i Fratelli musulmani esce allo scoperto e divide l'Egitto.  In questi giorni i media locali hanno dato ampio spazio alla polemica fra Ahmed al-Tayeb, grande imam di al-Azhar e il presidente Morsy. In occasione del suo primo discorso a tutta la nazione, lo staff presidenziale ha lasciato in piedi il leader religioso che ha risposto in modo plateale abbandonando l'evento poco prima dell'intervento del neo presidente. 

P. Rafic Greiche, portavoce della Chiesa cattolica egiziana, spiega che "i Fratelli musulmani stanno facendo di tutto per surclassare al-Azhar e imporre la loro interpretazione radicale dell'islam. Per questa regione il grande imam non ha trovato un posto a sedere degno del suo rango al primo discorso di Morsi presso l'università islamica del Cairo". Il sacerdote dice che tale tensione è palpabile da quasi un mese. Prima della sua dissoluzione ad opera dei militari, il parlamento a maggioranza islamista ha fatto in tempo a proporre e votare una legge che limita il ruolo e i poteri dell'istituzione islamica in tema non solo di politica, ma anche di religione.

"Lo scopo dei Fratelli musulmani - aggiunge p. Greiche - è azzerare la presenza di al-Azhar e soprattutto la sua visione moderata dell'Islam nelle istituzioni e nelle scuole, sostituendola con l'interpretazione letterale e radicale propria del movimento e dei salafiti".

Per evitare uno vero e proprio scontro aperto fra istituzioni, oggi Morsi ha fatto le sue scuse ad al-Tayeb, giustificando l'accaduto come una svista organizzativa. In una nota l'università ha sottolineato il suo disappunto affermando che in passato al grande imam veniva riservato un posto accanto al Primo ministro.

In questi anni al -Azhar si è fatta portavoce di un islam più moderato e in  dialogo con le altre religioni, contrastando in modo netto con le posizioni estremiste e di interpretazione letterale del Corano proposte da Fratelli musulmani e salafiti. Fra gli insegnanti dell'Università vi sono diversi affiliati alla Fratellanza, ma essi non hanno spazio e sono guardati a vista dalle gerarchie accademiche e religiose.  

    

Inizio pagina   

  

 

FILIPPINE

Ritirata legge sul divieto ai segni religiosi nei luoghi pubblici. Plauso dei vescovi

Radiovaticana - 3 luglio 2012  

      

Nelle Filippine è stato ritirato un progetto di legge che voleva vietare le manifestazioni e i simboli religiosi in tutti gli edifici pubblici e statali. La proposta era stata presentata da un deputato del “Kabataan Partylist” (il Partito dei Giovani) con l’argomento che le espressioni pubbliche della fede “minano la neutralità che lo Stato deve mantenere nei confronti delle diverse religioni” stabilita dalla Costituzione filippina. La notizia del ritiro del progetto – riferisce l’agenzia d’informazione dei Missionari di Parigi Eglises d’Asie - è stata accolta con unanime soddisfazione dai vescovi filippini che, insieme alle organizzazioni cattoliche, avevano espresso un coro di critiche all’iniziativa. Tra queste quella di mons. Deogracias Iniguez, vescovo di Kallokan e responsabile degli affari pubblici della Conferenza episcopale (Cbcp), secondo il quale “lungi dal garantire la libertà di fede, la legge avrebbe semplicemente limitato la pratica religiosa”. In una nota la Conferenza episcopale aveva inoltre rilevato che la stragrande maggioranza dei dipendenti pubblici filippini sono cattolici e che la presenza di un crocifisso e la recita di qualche preghiera non possono che avere effetti positivi”. Ironico il commento del responsabile dell’Ufficio stampa della Cbcp mons. Pedro Quitorio secondo il quale il governo filippino ha sicuramente “problemi più importanti di questa legge”. Particolarmente duro poi il giudizio di mons. Ricardo Vidal, arcivescovo emerito di Cebu: “La religione cattolica fa parte della nostra identità – ha dichiarato nei giorni scorsi il presule. Essa dà i valori essenziali a partire dai quali lo Stato definisce il proprio ordinamento etico e spirituale. Senza di essa lo Stato diventerebbe un’area senza diritto”. (L.Z.)  

 

Inizio pagina   

 

 

INDIA

Presto medicine gratis per tutta la popolazione

AsiaNews - Mumbai - 6 luglio 2012

Il governo ha annunciato un progetto da 5,4 miliardi di dollari. Il piano riguarda solo i farmaci generici. I medici che prescriveranno medicinali di marca rischiano di incorrere in multe. Critiche grandi case farmaceutiche: così affossano il mercato.

    

Oltre metà della popolazione indiana potrà presto curarsi in modo gratuito. Il governo centrale ha infatti avviato un progetto da 5,4 miliardi di dollari, che prevede la distribuzione di medicinali generici a costo zero. La decisione ha già attirato forti critiche da parte delle grandi case farmaceutiche straniere, che accusano le autorità di minare il mercato per attirare consensi in vista delle elezioni generali del 2014. Tuttavia, se dovesse rimanere inalterato, il progetto promette di cambiare la vita a milioni di persone, e il volto dell'intero sistema sanitario indiano.  

Che lavorino in grandi ospedali cittadini o in piccoli ambulatori di aree rurali, i medici statali potranno prescrivere farmaci generici a tutti i pazienti. Secondo il piano del governo, se scoperto a rilasciare medicine "di marca", il dottore incorrerà in multe di varia entità. Tuttavia, i medici potranno spendere il 5% del loro budget complessivo (circa 50 milioni di dollari l'anno) in medicine di marca che non hanno l'equivalente generico. Resta invece invariata la situazione di chi lavora in cliniche e strutture private.  

Il piano ha del rivoluzionario, soprattutto in un Paese come l'India dove la sanità è ancora considerata un bene di lusso: le cliniche private spendono in media quattro volte in più degli ospedali statali, nonostante il 40% della popolazione viva con appena 1,25 dollari al giorno.  

Secondo il governo, nel giro di cinque anni almeno metà della popolazione indiana (circa 1,2 miliardi di persone) potrà usufruire di questo servizio. "La politica del governo - ha spiegato L.C. Goyal, segretario aggiuntivo del ministero della Salute - vuole promuovere un uso maggiore e più ragionato dei medicinali generici, che rispettano ogni standard qualitativo, ma costano molto meno di quelli di marca".  

Case farmaceutiche di livello mondiale - come Pfizer, GlaxoSmithKline e Merck - saranno tra le più colpite da questo progetto. Ogni anno infatti spendono miliardi di dollari in ricerca, con l'obiettivo di distribuire in modo massiccio farmaci di marca nelle economie emergenti (come quella indiana), dove il 90% delle vendite di medicinali è rappresentata da medicinali generici.  

In India, l'americana Abbott Laboratories e la GlaxoSmithKline sono i più grandi distributori di farmaci, sia di marca che generici. Nel 2010, la prima ha rilevato una società indiana di produzione di medicinali generici.  

    

Inizio pagina

 

 

"Anno della fede" e nuova evangelizzazione, doni immensi per la Chiesa in India di Nirmala Carvalho

AsiaNews - Mumbai - 3 luglio 2012

P. Savio de Sales è il nuovo direttore dell'ufficio per le Pontificie opere missionarie dell'arcidiocesi di Mumbai. La festa di s. Tommaso apostolo, patrono dell'India, ricorda le priorità della Chiesa in vista dell'Anno della Fede: catechesi di adulti e bambini; dialogo interreligioso.

     

L'"Anno della Fede" è "un dono immenso per la Chiesa in India, un momento di grazia per i tesori e la saggezza di Santa Madre Chiesa, perché siano ascoltati, celebrati e testimoniati". A parlare è p. Savio de Sales, nuovo direttore dell'ufficio per le Pontificie opere missionarie dell'arcidiocesi di Mumbai. In occasione della festa di s. Tommaso apostolo, patrono dell'India di cui oggi si celebra la memoria liturgica, il sacerdote spiega ad AsiaNews il valore dell'"Anno della Fede" (v. 15/10/2011, "Il Papa indice un "Anno della Fede" per la Nuova Evangelizzazione e la missione ad gentes") per la Chiesa indiana e l'importanza della nuova evangelizzazione.

P. de Sales illustra la grande "eredità della Fede" in India: "La nostra Chiesa ha ricevuto il dono della fede dal santo apostolo, Tommaso, e più tardi da s. Francesco Saverio, patrono delle missioni. La società moderna ha visto la fede testimoniata attraverso beata Madre Teresa". Secondo il sacerdote, proprio alla luce di questo passato l'Anno proclamato da Benedetto XVI rappresenta un momento fondamentale "per approfondire, formare e testimoniare la fede in India. E la nuova evangelizzazione è una risposta alle sfide del secolarismo".

Le Pontificie opere missionarie in India seguiranno due direttrici fondamentali: la catechesi degli adulti e quella dei bambini. "La nostra priorità - spiega - sarà istruire studenti e giovani adulti sfruttando le tante istituzioni cattoliche e il nostro sistema educativo. Inoltre, vogliamo promuovere la Holy Childhood Association (la "Santa Infanzia") in tutte le scuole: un'organizzazione dedicata ai più piccoli, per illustrare e spiegare loro la natura missionaria della Chiesa, che vuole mettersi al servizio delle scuole attraverso programmi e progetti".

Il pluralismo religioso e culturale di cui si è ricca l'India, secondo p. de Sales rendono fondamentale il dialogo tra i diversi credo: "I santuari mariani qui sono un luogo dove si celebra il pluralismo dell'India. Decine di migliaia di non cristiani li riempiono. E in particolare in occasione di speciali novene, i santuari dedicati alla Vergine diventano luoghi dove la Parola di Dio deve essere proclamata. I cristiani In India sono appena il 2,3% della popolazione: la fede deve essere condivisa. Gesù deve essere mostrato agli altri, soprattutto quelli che non lo hanno mai conosciuto. Conosco molte persone che vorrebbero abbeverarsi della Parola del Signore: alcuni magari hanno sentito parlare di lui, ma non sanno come giungervi".  

    

Inizio pagina   

   

   

Cristiani in India, nuovi attacchi alla libertà religiosa di Nirmala Carvalho

AsiaNews - Mumbai - 4 luglio 2012

Il Global Council of Indian Christians (Gcic) denuncia aggressioni anticristiane in Uttar Pradesh e in Karnataka, perpetrati da ultranazionalisti indù. In entrambi i casi, la matrice comune è la complicità di polizia e autorità con gli aggressori.

     

Non si fermano le aggressioni contro i cristiani dell'India, perpetrate da ultranazionalisti indù con la complicità della polizia. Gli ultimi episodi in ordine di tempo sono avvenuti in Karnataka e in Uttar Pradesh. Sajan George, presidente del Global Council of Indian Christians (Gcic), denuncia una situazione "non più tollerabile per l'India laica", dove "sempre più spesso i cristiani non godono della libertà costituzionale di professare e praticare la propria religione, nei loro luoghi di culto".

Il primo luglio scorso a Vijayapura (Karnataka) il rev. Kantharaj Hanumanthappa, pastore della Chiesa pentecostale Zion Prarthana Mandira, stava conducendo un servizio di preghiera nella sua abitazione. All'improvviso, circa 20 attivisti delBajrang Dal (gruppo ultranazionalista indù) hanno interrotto il raduno, insultando i fedeli presenti e accusandoli di fare proselitismo tra gli indù. Per non far degenerare la situazione, il pastore ha deciso di interrompere il servizio. Poi, insieme ad alcuni dei presenti si è recato alla stazione di polizia di Burmasagar per sporgere denuncia, ma gli agenti non hanno effettuato ancora alcun arresto.

Una situazione analoga si è verificata nel villaggio di Rahika (distretto di Sitapur, Uttar Pradesh), durante un raduno di tre giorni (26-28 giugno) di una Chiesa pentecostale della zona. Intorno alla mezzanotte del primo giorno, alcuni poliziotti si sono introdotti nella casa del pastore Ramgopal, gli hanno sequestrato il cellulare e lo hanno portato alla stazione di polizia. Gli agenti lo hanno minacciato: "O ve ne andate via da qui e non tornate mai più, o ti arrestiamo". Inutili gli interventi di funzionari locali del Gcic: la polizia ha rilasciato il pastore solo dopo avergli fatto firmare una dichiarazione, in cui prometteva di non condurre più alcun servizio di preghiera nella zona.

"Episodi come questi - sottolinea Sajan George - sono ormai una consuetudine, soprattutto negli Stati guidati dal Bharatiya Janata Party (Bjp, partito ultranazionalista indù, ndr). Membri del Sangh Parivar attaccano la vulnerabile comunità cristiana, nel silenzio e nella protezione delle autorità. I nostri appelli per garantire maggiore sicurezza sono inutili".  

   

Inizio pagina

 

 

INDONESIA

Seminaristi cattolici in una comunità musulmana per rafforzare il dialogo di Mathias Hariyadi

AsiaNews - Jakarta - 6 luglio 2012

All’insegna dell’amicizia e della tolleranza, p. Robert Suraji Pr ha organizzato un corso di formazione dedicato a 22 futuri preti dello Java. L’iniziativa sostenuta a livello “materiale e morale” dalla Conferenza episcopale. I partecipanti trascorreranno qualche giorno in un “seminario” musulmano, per conoscere e incontrare le guide religiose del futuro.

     

Seguendo l'ideale di società pluralista e multiconfessionale che ha ispirato la nascita dell'Indonesia, un sacerdote cattolico ha promosso un'iniziativa dedicata ai seminaristi per rafforzare lo spirito di "amicizia e tolleranza" verso i concittadini musulmani. L'arcipelago è stato spesso teatro di violenze interreligiose, con attacchi e discriminazioni della maggioranza islamica nei confronti delle minoranze, fra cui cristiani, indù e ahmadi. Per favorire l'incontro e il dialogo p. Robert Suraji Pr ha organizzato corsi di formazione rivolti ai futuri preti, che prevedono studi e approfondimenti volti a "migliorare la conoscenza" dell'islam. A questi si aggiunge anche la possibilità di trascorrere un breve periodo all'interno delle scuole musulmane "santri", il corrispettivo nell'islam dei seminari cristiani.  

Al programma partecipano 22 seminaristi provenienti da diocesi e arcidiocesi di Semarang, Malang, Surabaya, Purwokerto e Bogor, tutte situate sull'isola di Java. Nell'area, solo l'arcidiocesi di Jakarta - per ragioni che al momento non sono state chiarite - non ha ritenuto opportuno aderire all'iniziativa inviando i futuri preti alle giornate di incontro.  

P. Robert spiega ad AsiaNews che "per sei giorni, dal 2 al 6 luglio, 22 seminaristi di cinque diocesi a Java hanno seguito corsi di approfondimento nel campo del dialogo interreligioso con altre comunità, in particolare con i nostri concittadini musulmani". L'iniziativa è stata realizzata in collaborazione col padre gesuita Heru Prakosa, di Yogyakarta e col sostegno "materiale e morale" della Commissione interreligiosa della Conferenza dei vescovi indonesiani (Kwi).  

In primo luogo, chiarisce p. Robert Suraji Pr, tutti i seminaristi sono formati per "essere mentalmente aperti e preparati ad aprire cuore e mente al dialogo interreligioso", perché le "buone intenzioni" sono fondamentali per la riuscita del programma. A questo si unisce anche la formazione al dialogo, mediante lo studio e l'incontro con personalità di primo piano dell'islam. Durante le giornate è intervenuto lo studioso musulmano Kiai Hajj Moh. Roqhib, che ha portato "la propria esperienza", sottolineando "le linee guida dell'islam e spiegando la propria visione del dialogo con le comunità non musulmane".  

Conclusi gli incontri e le discussioni, ai seminaristi viene infine proposta la possibilità di trascorrere qualche giorno in un "santri" a Purwokerto. In lingua locale javanese un "santri" (studenti) è l'equivalente musulmano del seminario cattolico e al suo interno vengono formati i futuri esperti di legge e le guide religiose islamiche del Paese musulmano più popoloso al mondo.  

  

Inizio pagina   

 

 

ITALIA

Dall’Asia all’Italia: migranti aumentati del 600% negli ultimi 20 anni

Radiovaticana - 4 luglio 2012  

        

Viene presentato oggi a Roma il volume “Asia-Italia. Scenari migratori”, curato da Idos e promosso da Caritas e Fondazione Migrantes. La ricerca – riferisce l’agenzia Sir – è stata effettuata al termine di un viaggio di studio nelle Filippine, e approfondisce la situazione delle migrazioni tra l’Asia e l’Italia e come queste siano cambiate nel corso degli ultimi decenni. Il continente asiatico negli ultimi 60 anni è stato il primo per numero di migrazioni, con 65 milioni di partenze, e il primo per numero di rifugiati: 6 milioni, senza contare i palestinesi. In Italia nel 2011 gli asiatici residenti erano 767 mila, 6 volte in più rispetto a vent’anni prima. Per provenienza, le prime 6 nazionalità presenti in Italia sono cinesi (210 mila), filippini (134 mila), indiani (121 mila), bangladesi (82 mila), srilankesi (81 mila) e pakistani (76 mila). I settori di impiego lavorativo sono vari, e coloro che si dedicano ad iniziative imprenditoriali sono perlopiù cinesi, bangladesi, indiani e pakistani. I curatori del volume sottolineano come, in questo momento di crisi, il mercato “continua a offrire agli immigrati asiatici discrete possibilità di inserimento, soprattutto in agricoltura e nel settore domestico, dall’altra, provoca l‘espulsione di quote consistenti di occupati, per i quali la perdita del lavoro può condurre a quella del permesso di soggiorno”. Ricordano, infine, che le aggregazioni religiose, i partiti, i sindacati e le associazioni hanno un ruolo fondamentale nell’integrazione tra le diverse comunità locali fra loro e con gli italiani. (A.C.)  

    

Inizio pagina   

     

    

Migranti, la nuova Italia di nome Hu di Annachiara Valle

Famiglia Cristiana - 6 luglio 2012  

I risultati della ricerca ''Asia-Italia. Scenari migratori'' di Caritas italiana e Migrantes, curata da Idos e finanziata dal Fondo europeo per l’integrazione: 210 mila i cinesi.

       

Se n’era avuto sentore già quando, dati anagrafici alla mano, il cognome Hu aveva scalzato dal secondo posto dei cognomi più diffusi a Milano il classico Brambilla. In questi giorni è arrivata la conferma, dalla pubblicazione Asia-Italia, scenari migratori, che le presenze asiatiche nel nostro Paese sono decisamente in crescita. Secondo la pubblicazione di Caritas italiana e Migrantes, curata da Idos e finanziata dal Fondo europeo per l’integrazione, infatti, i cittadini provenienti da Paesi orientali iscritti nelle anagrafi italiane alla fine del 2010 erano 767 mila (il 16,8 per cento del totale degli stranieri) con un aumento rispetto all’anno precedente dell’11,5. In tutta l’Unione europea i cittadini d'origine asiatica erano poco più di quattro milioni.  

In Italia le comunità più numerose sono quella cinese (210 mila, di cui il 48,4 per cento donne), quella filippina (134 mila, di cui 57,8 per cento donne). Seguono i cittadini provenienti dall’India (121 mila, 39,3 per cento donne), dal Bangladesh (82 mila, 32,2 per cento donne), Sri Lanka (81 mila, 44 per cento donne) e Pakistan (76 mila, 34 per cento donne). Le principali Regioni di destinazione sono la Lombardia (30,4 per cento), il Lazio (13,2 per cento) e l’Emilia Romagna (11,5 per cento). «Il libro», ha spiegato Angelo Malandrino, responsabile per l'Italia del Fondo europeo per l'integrazione, «ha lo scopo di introdurre alla situazione presente, per prepararsi agli scenari futuri che dovremo affrontare».

Secondo il Comitato di presidenza del Dossier statistico immigrazione che ha voluto la pubblicazione e di cui fanno parte monsignor Francesco  Soddu, direttore di Caritas Italiana, monsignor Giancarlo Perego, direttore generale della Fondazione Migrantes e monsignor Enrico Feroci, direttore della Caritas diocesana di Roma, «una buona conoscenza della situazione attuale e dei futuri scenari migratori è indispensabile per impostare adeguatamente i rapporti tra l’Italia e i diversi Paesi dell’Asia e conseguire, così, obiettivi soddisfacenti a livello economico, socio-culturale e anche religioso».  

Dalla ricerca emerge anche che molti vescovi cattolici dei Paesi asiatici hanno esortato i Governi a non considerare l’emigrazione una scappatoia ai problemi politici, economici e sociali di un Paese e a impegnarsi per favorire la crescita interna. Inoltre è stato sottolineato che l’Asia è l’area di destinazione della maggior parte delle rimesse mondiali. Quelle in partenza dall’Italia sono oltre 6,5 miliardi di euro.  

 

Inizio pagina

    

     

Migranti, più diritti con il decreto contro il lavoro nero

Misna - 6 luglio 2012  

          

“Un passo avanti molto importante verso la legalità e il contrasto al lavoro nero”: lo dice alla MISNA Andrea Olivero, presidente nazionale delle Associazioni cristiane lavoratori italiani (Acli), dopo che il Consiglio dei ministri italiano ha recepito le normative europee sulla regolarizzazione del lavoro degli immigrati irregolari. Il decreto legge, basato sulla normativa 2009/52 dell’Unione Europea, permette al lavoratore irregolare di ottenere il permesso di soggiorno denunciando il proprio sfruttatore e inasprisce le sanzioni per il datore di lavoro che assume al nero. Il decreto è stato sostenuto in maniera particolare dal ministro per la Cooperazione Andrea Riccardi.  

“Questo provvedimento è intelligente e realistico – dice Olivero – perché dimostra la presa di coscienza di una realtà fortemente esistente come quella del mercato nero dei lavoratori stranieri”.  

La protesta contro il sistema del caporalato aveva acquisito un vasto eco sui mezzi di informazione l’estate scorsa a partire dalle iniziative in Puglia dei cosiddetti “braccianti di Nardò” che avevano fatto venire alla luce un sistema diffuso di sfruttamento dei lavoratori stranieri nella raccolta dei pomodori nelle campagne del Salento e in tutto il meridione. “Le organizzazioni sociali – assicura il presidente delle Acli – faranno tutta la loro parte per sostenere chi vuole denunciare: non ci saranno più alibi per i datori di lavoro che finora hanno sostenuto di non poter regolarizzare i propri dipendenti”. Secondo Olivero, il decreto approvato oggi permette all’Italia di avviarsi verso “un modello di difesa della dignità del lavoratore piuttosto che sostenere la politica delle espulsioni, rivelatesi inutili”.  

La possibilità di denunciare il proprio datore di lavoro in caso di irregolarità, dice il presidente delle Acli, può essere ancora più importante in tempi di crisi quando molti stranieri sono stati costretti ad accettare assunzioni in nero. “Speriamo – aggiunge Olivero – che non sia fatta demagogia e che l’approccio a questa problematica rimanga intelligente e realistico”.  

       

Inizio pagina   

     

     

Tortura, la lettera di Amnesty al ministro

Repubblica - 6 luglio, 2012  

"Che diventi un reato è un obbligo del governo"

Il messaggio inviato dalla direttrice generale dell'organizzazione per la difesa dei diritti umani, Carlotta Sami, alla responsabile del dicastero della Giustizia, Paola Severino. Raccolto con favore la ripresa della discussione in commissione, ma c'è ancora molto da fare, secondo Amnesty.

       

Carlotta Sami, direttrice generale di Amnesty International Italia 1, ha inviato oggi una lettera al ministro della Giustizia, Paola Severino, chiedendole "di esercitare un ruolo fondamentale nell'assicurare che l'Italia introduca finalmente nel codice penale il reato di tortura, adottando un testo che sia in linea con il dettato della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, ossia non restrittivo rispetto alla definizione in essa contenuta". Nella lettera inviata al ministro Severino si legge: "assicurare l'attuazione della Convenzione in tutte le sue parti, inclusa quella fondamentale di introdurre il reato di tortura nel codice penale, è un preciso obbligo del governo italiano, sinora disatteso, con effetti pratici molto negativi che non hanno mancato di farsi sentire in processi in cui le responsabilità di funzionari e agenti dello stato erano soggette ad accertamento".

  

Le cose da cambiare. "Amnesty International Italia - prosegue la lettera inviata dall'organizzazione al ministro Severino - ha accolto con molto favore la ripresa della discussione in sede parlamentare della proposta di introdurre il reato di tortura nel nostro ordinamento, attualmente all'esame della Commissione Giustizia del Senato. Tuttavia, alcuni aspetti dell'ultimo testo proposto in Commissione Giustizia destano la preoccupazione dell'organizzazione per i diritti umani, come ad esempio l'assenza degli elementi di intimidazione e coercizione tra le finalità della tortura e la sostituzione delle parole 'fisiche o psichiche', contenute nella Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, con il termine riduttivo 'psico-fisiche'".

  

Una petizione popolare. Carlotta Sami ha infine informato il ministro che "l'appello sul rispetto dei diritti umani da parte delle forze di polizia, rivolto al presidente del Consiglio Monti e ai presidenti delle Camere, è stato presentato come petizione popolare sia al Senato che alla Camera nel mese di maggio, date le migliaia di firme raccolte da Amnesty International Italia".  

       

Inizio pagina   

 

 

Sentenza della Corte di Cassazione per i fatti della scuola Diaz ...

importante ma incompleta e tardiva secondo Amnesty International

Amnesty.it 5 luglio 2012  

    

Quella emessa oggi dalla Corte di Cassazione su quanto accaduto alla scuola Diaz di Genova nel luglio 2001 è, per Amnesty International, una sentenza importante, che finalmente e definitivamente, anche se molto tardi, riconosce che agenti e funzionari dello stato si resero colpevoli di gravi violazioni dei diritti umani di persone che avrebbero dovuto proteggere.  

Tuttavia, Amnesty International ricorda che i fallimenti e le omissioni dello stato nel rendere pienamente giustizia alle vittime delle violenze del G8 di Genova sono di tale entità che queste condanne lasciano comunque l'amaro in bocca: arrivano tardi, con pene che non riflettono la gravità dei crimini accertati - e che in buona parte non verranno eseguite a causa della prescrizione - e a seguito di attività investigative difficili ed ostacolate da agenti e dirigenti di polizia che avrebbero dovuto sentire il dovere di contribuire all'accertamento di fatti tanto gravi. Soprattutto, queste condanne coinvolgono un numero molto piccolo di coloro che parteciparono alle violenze ed alle attività criminali volte a nascondere i reati compiuti.  

Per Amnesty International, la conclusione di questo difficile processo non può rappresentare la fine del tentativo di dare piena giustizia alle vittime del G8 di Genova. Terminata la fase degli accertamenti delle responsabilità individuali, resta infatti tutta da fare un'analisi che porti a conclusioni condivise su cosa non funzionò a Genova nel 2001 a livello di sistema e su come fare in modo che ciò non si ripeta più.  

  

Amnesty International continuerà a chiedere alle istituzioni italiane di:  

· condannare pubblicamente le violazioni dei diritti umani commesse dalle forze di polizia 11 anni fa e fornire scuse alle vittime;  

· impegnarsi ad assicurare che violazioni quali quelle accadute a Genova nel 2001 non si verifichino di nuovo attraverso l'attuazione di misure concrete per garantire l'accertamento delle responsabilità per tutte le violazioni dei diritti umani commesse dalle forze di polizia;  

· introdurre nel codice penale il reato di tortura e adottare una definizione di tortura che includa tutte le caratteristiche descritte nell'articolo 1 della Convenzione Onu contro la tortura;  

· creare un'Istituzione nazionale sui diritti umani in linea coi "Principi riguardanti lo statuto delle istituzioni nazionali" (Principi di Parigi);  

· ratificare il Protocollo opzionale alla Convenzione Onu contro la tortura e istituire un meccanismo indipendente nazionale per prevenire torture e maltrattamenti;  

· condurre una revisione approfondita delle disposizioni in vigore nelle operazioni di ordine pubblico, incluse quelle in materia di addestramento e dispiegamento delle forze di polizia impiegate nelle manifestazioni, di uso della forza e delle armi da fuoco e che tenga conto della necessità di introdurre elementi di identificazione individuale degli appartenenti alle forze di polizia nelle operazioni di ordine pubblico.  

     

Inizio pagina

    

      

LIBIA

L'Unione europea non può delegare il controllo dell'immigrazione alla Libia

Amnesty.it  - 5 luglio 2012 

        

Commentando il nuovo rapporto di Amnesty International sulla Libia, che descrive una situazione di gravi violazioni dei diritti umani ad opera delle milizie armate, Nicolas Beger, direttore dell'Ufficio di Amnesty International presso le Istituzioni europee, ha dichiarato:

 

"È inaccettabile per qualsiasi stato europeo continuare a cercare la cooperazione della Libia in materia di controllo dell'immigrazione, quando è ampiamente noto cosa sta accadendo ai migranti e ai richiedenti asilo politico in quel paese. L'Italia deve immediatamente revocare ogni accordo con la Libia sull'immigrazione e rendere interamente noti i contenuti degli accordi di cooperazione precedenti o allo studio, compresi quelli finanziati da fondi dell'Unione europea".  

Il rapporto di Amnesty International rileva come i cittadini provenienti dai paesi dell'Africa subsahariana, in particolare i migranti irregolari, continuino ad andare incontro ad arresti arbitrari, detenzioni a tempo indeterminato, pestaggi che in alcuni casi arrivano a costituire tortura e sfruttamento da parte delle milizie armate. Di solito, coloro che arrestano i cittadini stranieri non fanno distinzione tra migranti e altre persone che fuggono dalla guerra e dalla persecuzione nei loro paesi.  

     

Inizio pagina 

 

 

KENIA

"Non è una guerra di religione, ma siamo turbati per gli attacchi contro le chiese"...

scrivono i Vescovi del Kenya

Agenzia Fides - Nairobi - 3 luglio 2012 

 

"Siamo profondamente preoccupati per gli attacchi mortali contro keniani innocenti all'Africa Inland Church e alla Cattedrale cattolica di Garissa" scrivono i Vescovi del Kenya, in un comunicato inviato all'Agenzia Fides, firmato da Sua Eminenza il Cardinale John Njue, Arcivescovo di Nairobi e Presidente della Conferenza Episcopale del Kenya.

Domenica 1° luglio uomini armati, che si presume siano legati agli Shabaab somali, hanno assalito la Cattedrale cattolica di Garissa e la locale chiesa evangelica dell'Africa Inland Church provocando almeno 17 morti e una cinquantina i feriti (vedi Fides 2/7/2012).

"Questi ingiustificati atti di violenza inflitti ai keniani, inclusi donne e bambini, non solo provocano la perdita di vite innocenti ma creano anche un senso di insicurezza tra i cristiani e tutti i keniani desiderosi della pace" afferma il comunicato.

I Vescovi precisano inoltre: "mentre riaffermiamo il nostro convincimento che non siamo in presenza di una guerra di religione, siamo turbati dal fatto che gli attacchi sono stati condotti contro chiese cristiane. Come Conferenza Episcopale del Kenya, chiediamo a tutti i keniani di lavorare per promuovere la coesistenza pacifica".

Nel messaggio si chiede inoltre a tutti di collaborare con le forze di polizia per fermare le violenze e il terrorismo e si richiamano le responsabilità del governo perché conduca indagini approfondite e valuti le condizioni di sicurezza del Paese. (L.M.) 

   

Inizio pagina

   

    

"Cerchiamo di accrescere la collaborazione con i musulmani" dice il Vescovo coadiutore di Garissa

dopo gli attentati contro le chiese

Agenzia Fides - Nairobi - 4 luglio 2012 

             

"La situazione è calma. Sia i cristiani sia i musulmani hanno condannato gli attentati. Tutti affermano che non esiste una guerra di religione ma che gli assalti alle due chiese sono probabilmente una reazione alla presenza dell'esercito keniano in Somalia" dice all'Agenzia Fides Sua Ecc. Mons. Joseph Alessandro, Vescovo coadiutore di Garissa, la località del Kenya dove domenica 1° luglio sono state attaccate due chiese, tra le quali la Cattedrale cattolica.

"Ieri si è svolto un incontro con le autorità civili e religiose dell'area, al quale abbiamo partecipato come Chiesa cattolica" dice Mons. Alessandro, che aggiunge: "il Vescovo, Mons. Paul Darmanin, ha organizzato una riunione che si terrà domani con i sacerdoti, i religiosi e le religiose per verificare la situazione. L'intenzione è quella di accrescere gli aiuti ai musulmani per dimostrare che non abbiamo nulla contro di loro. Già ora ogni mese distribuiamo cibo anche a famiglie musulmane in difficoltà a causa della carestia".

La stampa somala riporta l'arresto di alcune persone che sarebbero coinvolte nel duplice attentato contro le chiese di Garissa. "Non abbiamo ancora notizie di arresti di persone coinvolte negli attentati - afferma Mons. Alessandro - e non si sa se gli attentatori provengano da fuori o siano del posto. È comunque vero che qui ci sono alcuni simpatizzanti degli Shabaab. D'altronde la popolazione dell'area è formata da somali, ed è difficile distinguere tra chi è del posto e chi viene dalla Somalia" conclude Mons. Alessandro.  

        

Inizio pagina   

 

 

"Si colpiscono le chiese perché sono bersagli facili, ma la motivazione è politica"...

dice a Fides il Vescovo di Garissa

Agenzia Fides - Nairobi - 2 luglio 2012 

     

"Non penso che si tratti di un problema religioso, ma di una reazione per mettere in imbarazzo il governo di Nairobi per quello che l'esercito keniano sta facendo in Somalia contro gli Shabaab" dice all'Agenzia Fides Sua Ecc. Mons. Paul Darmanin, Vescovo di Garissa, la località del Kenya dove ieri, domenica 1° luglio, uomini armati, probabilmente integralisti islamici somali Shabaab, hanno attaccato due chiese, tra cui la Cattedrale cattolica.

Mons. Darmanin descrive a Fides gli attacchi: "Il 1° luglio, intorno alle 10,30 del mattino ora locale, sono state lanciate contro la chiesa di Nostra Signora della Consolata due bombe a mano, delle quali solo una è esplosa di fronte all'edificio, non al suo interno, provocando alcuni feriti leggeri. Alla African Inland Church l'attacco è stato più letale. Gli assalitori, dopo aver ucciso due soldati che montavano la guardia al luogo di culto, hanno gettato alcune bombe a mano all'interno dell'edificio dove i fedeli erano riuniti per la funzione religiosa. Lo scopo era farli fuggire fuori, dove sono stati colpiti con gli AK 47 presi ai soldati. Si è trattato di un attacco ben organizzato nel quale almeno 16 persone sono morte e diverse sono ferite gravemente".

Il Vescovo ritiene che la pista più probabile sia quella politica: "Gli Shabaab avevano minacciato rappresaglie per le operazioni condotte dall'ottobre 2011 dall'esercito del Kenya in Somalia. Ora che l'esercito di Nairobi ha accresciuto la pressione su Chisimaio, la loro ultima roccaforte nel sud della Somalia, gli Shabaab hanno aumentato le minacce di colpire in territorio keniano".

"Garissa non è lontana dal confine con la Somalia" continua Mons. Darmanin. "Il confine è facilmente attraversabile nonostante il governo stia facendo del suo meglio per controllarlo".

Chiediamo al Vescovo di Garissa perché se il movente di questi assalti è politico si colpiscono le chiese. "Le chiese sono attaccate perché sono bersagli facili da colpire ("soft target"). Inoltre la popolazione locale è quasi totalmente musulmana, i cristiani sono keniani provenienti da altre zone del Paese, che sono considerati come stranieri almeno da una parte della popolazione autoctona" risponde Mons. Darmanin, che conclude chiedendo a tutti di pregare per la pace nel Paese. (L.M.)  

 

Inizio pagina

 

 

MALI

Peggiora quadro umanitario, Timbuctù perde pezzi di storia

Misna - 2 luglio 2012  

        

Il peggioramento della situazione umanitaria nel nord del Mali e la distruzione dei mausolei di Timbuctù sono stati al centro di un intervento del segretario generale dell'Onu, Ban Ki-moon. In un comunicato diffuso ieri, il massimo rappresentante delle Nazioni Unite ha ribadito il suo sostegno agli sforzi per risolvere la crisi condotti in particolare da Unione Africana e Comunità economica dei paesi dell'Africa occidentale (Cedeao, riunitasi giovedì e venerdì scorso per affrontare la questione maliana e gli altri fronti caldi della regione), ma ha anche manifestato rammarico per la perdita di patrimoni culturali senza prezzo come i mausolei di Sidi Mahmoud, Sidi Moctar e Alpha Moya.

I mausolei erano stati inseriti soltanto la scorsa settimana nella lista del patrimonio mondiale in pericolo. La decisione era stata presa dal Comitato del patrimonio mondiale dell'Unesco (Organizzazione Onu per l'educazione, la scienza e la cultura) riunito a San Pietroburgo. Sebbene invocata dal governo di Bamako, la misura potrebbe però aver sortito l'effetto contrario a quello sperato, spingendo Ansar al Din - uno dei gruppi armati che controlla il nord del Mali - a distruggere luoghi di culto e pellegrinaggio che esulano dalla sua rigida interpretazione dell'islam. Di quella lista fa parte anche la tomba di Askia, a Gao, ancora apparentemente integra.

A Gao gli islamisti del Movimento per l'unicità e il jihad nell'Africa occidentale (Mujao) stanno intanto consolidando il controllo della città, completamente sottratta all'influenza già relativa dei tuareg del Movimento nazionale di liberazione dell'Azawad (Mnla). Di questi ultimi, cacciati da Gao ma anche da Timbuctù, non sono ancora chiari né posizione né possibili nuovi obiettivi.

Le ultime vicende hanno ulteriormente appesantito il bilancio umanitario. Secondo l'ultimo rapporto dell'Ufficio dell'Onu per il coordinamento degli aiuti umanitari (Ocha) gli sfollati interni sono 158.857, i rifugiati registrati in Burkina Faso, Mauritania e Niger 181.742. A questi occorre aggiungere i migliaia che hanno trovato riparo in Algeria dove gli aiuti non sono coordinati dalla comunità internazionale.  

       

Inizio pagina 

         

     

MEDIO ORIENTE

È tempo di salvare i Luoghi santi di Joshua Lapide

AsiaNews - Gerusalemme - 2 luglio 2012

La Basilica della Natività sotto l'Unesco; il Monte Tabor come "parco nazionale".

L'accoglienza della Basilica della Natività nella lista del "Patrimonio dell'umanità" è accolta con soddisfazione dei cattolici perché la chiesa ha urgente bisogno di restauro, finora frenato dalla comunità ortodossa. Importante garantire "l'integrità architettonica" per evitare scempi come quello compiuto nel Santo Sepolcro con la costruzione del Katholikon. È anche importante vigilare sui tentativi israeliani di mettere "sotto la protezione dello Stato" i Luoghi santi della Galilea.

      

L'inserimento della Chiesa della Natività a Betlemme fra i siti "patrimonio dell'umanità" da parte dell'Unesco,  ripropone il problema e la precarietà dei Luoghi santi spesso sottoposti a ingerenze ingiuste dalle stesse comunità cristiane e dalle autorità israeliane e palestinesi.

Cominciamo con la Basilica della Natività. Il Custode di Terra Santa, p. Pierbattista Pizzaballa, ha espresso un cauto ottimismo sulla vicenda. Ma fra i cristiani - soprattutto i cattolici - vi è meno cautela ed essi esprimono soddisfazione per il riconoscimento dell'Unesco. In questo modo, infatti, l'Autorità palestinese avrà possibilità di lanciare una campagna internazionale per raccogliere le offerte necessarie al restauro e soprattutto alla riparazione del tetto della basilica, che necessita un urgente intervento.

La Basilica della Natività - con quella del Santo Sepolcro a Gerusalemme e la cripta della Tomba di Maria ai piedi del Monte degli Ulivi - sottostanno al regime giuridico internazionale noto come "Status quo". Non risulta che la Chiesa cattolica o altre comunità cristiane abbiano  titolo di proprietà  sulla Basilica. Vi è piuttosto è una complessa distribuzione di diritti di possesso, uso, officiatura, della cui osservanza è garante lo Stato.  Questi ha anche il dovere di intervenire  per far osservare lo Status quo nel caso ci siano o si temano violazioni; per garantire la solidità ed agibilità degli edifici qualora non ci sia unanimità tra le Chiese principali lì presenti. Tali Chiese sono: il Patriarcato greco-ortodosso di Gerusalemme; la Custodia francescana di Terra Santa (che, per mandato pontificio, vi rappresenta la Chiesa Cattolica); il Patriarcato armeno ortodosso di Gerusalemme.

Fino ad ora, proprio i greco-ortodossi avevano ostacolato ogni intervento comune per riparare il tetto della Basilica, che ne ha bisogno urgente. Se ci fosse stato l'accordo fra di loro, le tre comunità avrebbero dovuto riparare in proprio l'edificio pericolante (come in un passato non lontano è stato fatto nella Basilica del Santo Sepolcro a Gerusalemme). Ma la mancanza di accordo e lo stato di pericolo del tetto ha obbligato l'Autorità nazionale palestinese ad intervenire e a provvedere per il restauro.

Da un certo punto di vista, perciò, la mossa palestinese di far dichiarare all'Unesco la Basilica della Natività quale "patrimonio  dell'umanità"  salva il Luogo santo e rende più facile reperire  la copertura economica necessaria, molto dispendiosa. Inoltre, le comunità cristiane che officiano alla Natività hanno ricevuto la garanzia scritta che l'Anp non intralcerà l'uso della Basilica e anzi garantirà lo svolgimento delle funzioni secondo lo "Status quo"; il che del resto è garantito nell'Articolo 4 dell' Accordo di Base tra la Santa Sede e l'Olp (2000).

Fra i cattolici vi sono coloro che dall'Unesco si attendono qualcosa di più: l'inclusione della Basilica della Natività nel Patrimonio dell'umanità dovrebbe garantire anchel'integrità architettonica del Luogo santo. E questo per evitare che anche nella Basilica della Natività avvengano in futuro degli scempi come quello che è avvenuto nella Basilica del Santo Sepolcro. Essa è un bellissimo gioiello di epoca crociata a pianta circolare. Ma alcuni decenni fa, proprio i greco-ortodossi hanno innalzato il cosiddetto Katholikon, due mura che racchiudono un sacello e che ha sconvolto lo spazio architettonico dell'edificio. Ormai, quando uno entra dalla porta e incontra la cosiddetta Pietra dell'unzione, non si trova davanti la corona di colonne attorno all'edicola del Santo Sepolcro, ma un semplice, banale muro, che distrugge la logica architettonica della chiesa più importante della cristianità.

Per tutti i Luoghi santi non di proprietà delle singole Chiese, è importante che venga perciò garantito nel presente e nel futuro l'integrità architettonica.

Vi è però la stragrande maggioranza dei Luoghi santi (in effetti, tutti gli altri, che non sono retti dallo "Status quo") di proprietà delle singole Chiese. In quanto proprietà privata, essi non devono essere assunti da nessuno Stato per farne in alcun senso Patrimonio di alcuno, anche se essi per sé rivestono un'importanza mondiale. Da tempo, ad esempio, lo Stato israeliano spinge perché alcuni Luoghi santi come il Monte Tabor, Cafarnao, e altri santuari cattolici della Galilea vengano messi sotto la "protezione" dello Stato. La Chiesa cattolica si oppone per principio: essi sono proprietà privata degli enti ecclesiastici e non possono in alcun senso essere ceduti ad altri. Del resto, non si capisce che valore avrebbe la "protezione": proteggere da chi? Se lo Stato vuole proteggerli, basta che li rispetti e faccia magari azioni in positivo, senza pretendere di intromettersi, rischiando interferenze indebite.

Da questo punto di vista, la decisione dell'Unesco di accogliere la Basilica della Natività nel Patrimonio universale, pur positiva, rischia di offrire un sostegno e un pretesto ai tentativi di nazionalizzazione di altri santuari in Israele e Palestina.

Per questo, la Chiesa cattolica insiste da tempo perché si tolga, ad esempio, la definizione di "parco nazionale" al Monte Tabor e ad altri maggiori santuari in Galilea, proprio perché questi sono santuari cattolici e proprietà privata.

Rendere questi santuari dei "parchi nazionali" rischia di negare, negli effetti, la proprietà della Chiesa e minano il loro carattere sacro.  

      

Inizio pagina   

   

   

MONGOLIA

A 20 anni dalla nascita, la Chiesa punta sui giovani e sulla famiglia...

per essere “luce e Buona Novella”

Agenzia Fides - Ulaan Bataar -  7 luglio 2012      

        

E' una Chiesa giovane, che affida il suo futuro ai giovani e alle famiglie: la comunità cattolica in Mongolia, forte di oltre 800 fedeli, celebra i 20 anni della sua presenza nel paese e lo fa, come dice all'Agenzia Fides S.Ecc. Mons. Wenceslao Padilla, Prefetto Apostolico, “con lo spirito del Magnificat di Maria, riconoscendo che il Signore ha fatto grandi cose per noi”, continuando a “promuovere la dignità della persona umana, la dignità del matrimonio e della vita familiare, la formazione dei giovani”.

“La celebrazione dei 20 dalla nascita della prima missione in Mongolia – spiega il Prefetto Apostolico – ci ricorda che siamo chiamati a camminare in questo mondo con la luce di Cristo, a vivere la nostra vita etica e morale in pienezza, secondo il Vangelo, cercando di essere luce e Buona Novella l'uno per l'altro”. Mons. Padilla continua: “Siamo chiamati a rafforzare il nostro contributo alle opere sociali, di sviluppo, educativo e spirituale di cui a popolazione ha bisogno. Come discepoli di Gesù Cristo, Verbo incarnato, non possiamo vivere senza prendere in considerazione la situazione concreta della società, facendo opere di carità e atti di misericordia”

Fra le attività speciali previste per il 20° anniversario, oggi, 7 luglio, vi è la celebrazione della “Giornata nazionale della Gioventù mongola” (Mongolian Youth Day) e domani, 8 luglio, una solenne Eucaristia presso la Cattedrale di Ulaan Baatar, alla presenza delle autorità civili e religiose, fra le quali di S. Ecc .Mons. Savio Hon Taifai, Segretario della Congregazione per l'Evangelizzazione dei Popoli, e di Mons. Lazzaro You Heung-sik, Vescovo della diocesi di Daejeon, in Corea del Sud.

Inoltre, in occasione del XX anniversario, le parrocchie in Mongolia passeranno da 4 a 5, con l’elevazione della Chiesa “Maria Madre della Misericordia” a rango di parrocchia, mentre sarà inaugurata la Scuola elementare cattolica, che la Chiesa ha iniziato a costruire due anni fa. Nei prossimi mesi, Mons. Padilla prevede incontri particolari con le comunità e i diversi settori della Chiesa locale, per ascoltare le aspirazioni e i desideri di tutti le componenti ecclesiali. Le celebrazioni culmineranno il 7 ottobre 2012, giorno in cui tutti i fedeli cattolici mongoli sono invitati a piantare un albero, in ricordo dei primi 20 anni di vita della Chiesa.  

   

Inizio pagina

    

     

Da zero a 800 fedeli: una comunità in piena crescita, impegnata per il bene della società

Agenzia Fides - Ulaan Bataar - 7 luglio 2012   

              

Seminare il Vangelo, impegnarsi per bene comune, lottare contro la povertà, contribuire allo sviluppo umano, culturale, morale e spirituali: con tali criteri la Chiesa in Mongolia prepara il suo futuro, a 20 anni dalla sua nascita nel paese. E' quanto afferma, in una Lettera pastorale dal titolo dal titolo "Celebrare i 20 anni della presenza cattolica in Mongolia", S.Ecc. Mons. Wenceslao Padilla, Prefetto Apostolico. La Lettera inviata, all'Agenzia Fides, traccia un quadro storico e contemporaneo della Chiesa locale in Mongolia.

Alla caduta del regime comunista, nel 1991 - ricorda il Prefetto - in Mongolia non c'erano cattolici. Nel 1992, con la nuova Costituzione che riconosce la libertà religiosa, fu istituita la prima "Missino sui iuris" e furono allacciate relazioni diplomatiche fra Santa sede e Mongolia. In quell'anno Giunsero nel paese i primi tre missionari pionieri, che hanno ricostruito luoghi di culto e aiutato la popolazione, rinnovando il cammino di evangelizzazione. Nel 2006 i cattolici erano circa 600, compresi 350 nativi mongoli. Oggi i missionari sono 81 di 22 nazionalità diverse e di 13 istituiti religiosi o gruppi diversi. Dopo 20 anni di evangelizzazione, i fedeli cattolici battezzati sono oggi 835 e molti altri continuano la preparazione per il battesimo. La prima vocazione del paese è nata nel 2008 e due giovani mongoli sono ora in uno dei seminari più importanti della Corea del Sud, presso l'Università Cattolica di Daejeon, perseguendo il cammino e la formazione al sacerdozio.

Con l'aumento del personale della Chiesa (missionari e collaboratori locali), sono fiorite opere pastorali, sociali, di sviluppo, educative, caritative e umanitarie. La missione cattolica conta oggi 2 Centri per bambini di strada, una casa per anziani, 2 asili Montessori, 2 scuole primarie, un centro per bambini portatori di handicap, una scuola tecnica. Ha creato inoltre 3 biblioteche con sale di studio e strutture informatiche, un ostello per gli studenti universitari, dotato di moderne strutture, vari centri per attività giovanili. Sono in pieno funzionamento due 2 aziende agricole in aree rurali, con programmi che aiutano le comunità rurali, un ambulatorio e un clinica. La Caritas Mongolia, conclude Mons Padilla, porta avanti programmi di approvvigionamento idrico, costruzione di case per indigenti, agricoltura sostenibile, sicurezza alimentare, promozione sociale, lotta al traffico di esseri umani. (PA)  

  

Inizio pagina

 

 

MOZAMBICO

Un paese in (s)vendita di Giacomo Palagi

Nigrizia - 5 luglio 2012  

Gli interessi stranieri per i giacimenti di carbone e per le terre coltivabili

     

Maputo, in questi anni, ha ricevuto decine di miliardi di euro in finanziamenti e aiuti. Ma non si sa dove siano finiti, se si guarda lo stato della sanità, della scuola, delle infrastrutture. O meglio, sono finiti nelle tasche dei potenti del Frelimo, partito onnivoro al potere. Non è un caso che l'uomo più ricco del paese sia proprio il presidente Guebuza.

Sono seduti sui binari, decisi a non far passare i convogli che trasportano il carbone al porto di Beira, 500 km più a sud. Dicono: "Il treno può passare, non però il nostro carbone". Gli abitanti di Kateme, nella provincia di Tete, si sono proprio arrabbiati e sono scesi in strada per rivendicare ciò che era stato loro promesso: case decenti, terreni da coltivare, servizi comunitari, trasporti... La scoperta del carbone - si parla di giacimenti tra i più ricchi del mondo - li ha costretti a lasciare i loro villaggi e a spostarsi a Cateme, 40 km da Moatize, lungo la ferrovia. La compagnia brasiliana Vale, concessionaria della miniera, ha ricostruito qui il loro nuovo villaggio. Ma già lo scorso anno, alle prime piogge, le casette avevano cominciato a mostrare crepe e diventare inabitabili.  

Anche a Maputo e a Matola, ai primi di settembre 2010, in seguito all'aumento dei prezzi dei generi di prima necessità, la gente era scesa in strada e il governo aveva usato la mano forte per reprimere la protesta. Poi, però, aveva dovuto fare marcia indietro e calmierare i prezzi. Già due anni prima, la rivolta per l'aumento del prezzo del combustibile e dei trasporti aveva causato a Maputo e in altre città del paese violente proteste represse con la forza, causando anche vittime. Il governo, che ha assistito con molta apprensione all'esperienza della primavera araba del 2011, ha paura che la gente scenda in piazza per rivendicare diritti e promesse non mantenute e non plauda più come in passato.    

È da poco terminata una campagna per porre il paese "in marcia per la pace minacciata". Se ne è fatto promotore il partito al potere, il Fronte di liberazione del Mozambico (Frelimo), nella speranza di mettere a tacere la società civile che si sta formando e organizzando, al di fuori (e al posto) delle organizzazioni ufficiali di massa promosse dal partito, dalle quali non si sente più rappresentata.  

Il Frelimo non è più granitico e monolitico come un tempo. In più occasioni, è dovuto ricorrere a tutto il suo apparato di propaganda per ricompattare i ranghi, richiamando lo spauracchio della guerra e parlando di pace in pericolo.  

In settembre sarà celebrato il 10° Congresso del partito, con la proposta di modifiche alla costituzione, per rafforzare ancora di più la sua leadership. Il partito di opposizione, la Resistenza nazionale mozambicana (Renamo), in declino da anni, sembra essersi adattato al suo ruolo di eterno perdente, anche se ben installato. La terza forza, il Movimento democratico mozambicano (Mdm), nata attorno alla figura carismatica di Davis Simango, sindaco di Beira, la seconda città del paese, per ora non impensierisce più di tanto, sia per i numeri, sia per la scarsa presenza al di là del territorio in cui è nato, anche se riscuote una certa simpatia tra gli intellettuali.  

Già, gli intellettuali. Salvo rare eccezioni, sembrano tenersi fuori dalla contesa politica, per non rischiare libertà e pane quotidiano, lasciando il paese in mano a politici e amministratori di carriera, più interessati ai propri affari che al bene della gente. Ma è proprio tra gli intellettuali che si intravedono fermenti nuovi e sorgono associazioni, gruppi di riflessione e di azione in svariati campi: integrità pubblica, giustizia, buon governo, ambiente, acqua, terra, risorse naturali, deforestazione, energie rinnovabili...

 

Paese a due velocità  

Non c'è alcun dubbio che 20 anni di pace e di governo stabile abbiano portato i mozambicani fuori dalla tragedia della guerra civile, in uno sforzo di ricostruzione del quale si vedono oggi i frutti e che ha infuso fiducia nella gente: strade, ponti, ferrovie riattivate, comunicazioni migliorate, servizi di base sempre più estesi. Il settore educazione è in continua espansione, anche se sempre costretto a inseguire la domanda. La sanità segna il passo, alle prese con una cronica insufficienza di personale, soprattutto medico, e ultimamente anche di medicine, poiché le tradizionali fonti di rifornimento in Europa si stanno esaurendo.

In due decenni sono stati iniettati nel sistema Mozambico decine di miliardi di euro tra donazioni, investimenti a fondo perduto, prestiti e altro, da parte di paesi donatori, Fondo monetario internazionale, banche e imprese. Ci si chiede dove siano andati questi soldi, oltre che a finanziare l'apparato dello stato.  

Piazzato al 184° posto (su 187 paesi) per Indice di sviluppo umano, il paese gode di una crescita annua del pil del 7-8%. È evidente che si sta procedendo a doppia velocità. Il 38% della popolazione che risiede nelle città ha maggiori possibilità economiche e di lavoro, entrate sicure e regolari (anche se i salari sono molto bassi), migliori servizi scolastici e sanitari. Nelle zone rurali, invece, la vita sembra essersi fermata, a parte i cellulari oggi onnipresenti, quasi sempre senza credito e segnale. Il settore agricolo familiare non gode di alcuna assistenza, anche se costituisce la base dell'economia del paese. Lontano dai centri urbani le comunicazioni sono difficili, le strade giacciono in uno stato di abbandono, mancano i servizi, le strutture scolastiche e sanitarie sono insufficienti e localizzate in edifici precari e disertate da insegnanti e infermieri. La gente si sente dimenticata dal governo, impegnato in altre faccende ben più redditizie e presente solo al momento delle campagne elettorali.  

La doppia velocità si vede anche nei consumi. Per i pochi benestanti ci sono centri commerciali, boutique, negozi esclusivi con merce importata, trasporti. I mercati rionali e il commercio informale servono il resto della popolazione con prodotti mozambicani, spesso di qualità scadente.  

Il governo è impegnato in una campagna di lotta alla povertà, che dovrebbe culminare con il 2015, l'anno degli Obiettivi del Millennio. Sono discorsi che non convincono nessuno. Lo scrittore Mia Couto dice: "La maggior povertà di cui soffre il Mozambico è l'incapacità di produrre un discorso innovatore. Quello contro la povertà è un discorso povero, ripetitivo, fondato su stereotipi e slogan populisti. Non tocca la realtà, non va al fondo della questione".

 

C'è un partito... più partito  

Lo strapotere del Frelimo ha impedito ogni tentativo di un pensiero diverso. Ha continuato a confermare al potere i soliti dinosauri che, da politici, si sono trasformati in padroni dell'economia e della finanza. Non c'è conflitto di interessi che li fermi. Li trovi a capo di banche, di imprese telefoniche e di trasporto. Mediano megaconcessioni di terre agricole e di miniere. Siedono nei consigli di amministrazione dei mezzi d'informazione, di agenzie e fondazioni varie.  

Maestro in tutto questo è il presidente Armando Guebuza, l'uomo più ricco del paese. I ministri e i parlamentari non sono da meno: l'importante è che siano del partito al potere. I vescovi cattolici hanno definito questo stato di cose partidarização: tutto deve girare sotto l'insegna del partito. Serve la tessera del Frelimo per avere un lavoro pubblico, un posto di insegnante o la pensione, e per aprire un'attività commerciale e ottenere un appalto.

 

È vero che la costituzione nata dagli accordi di pace del 1992 ha introdotto un sistema democratico multipartitico. Ma da tempo è in corso un colpo di stato strisciante, che ha riportato il paese al monopartitismo (il Frelimo ha oltre il 70% dei seggi in parlamento e governa tutte le province e municipi, con l'eccezione di Beira e Quelimane, in mano all'Mdm), rende nulla l'opposizione e allontana gli elettori dal voto. Il parlamento ha il solo compito di ratificare le leggi presentate dall'esecutivo. La magistratura è succube del potere politico.  

Ci sono due città in Mozambico che stanno letteralmente esplodendo. Una è Tete, importante nodo stradale tra Zimbabwe, Zambia e Malawi, centro carbonifero già dal tempo coloniale, con riserve stimate tra le più grandi del mondo. Qui si sono concentrati le maggiori compagnie minerarie (Rio Tinto, Vale, Jindal-India) e gli interessi di paesi emergenti affamati di fonti energetiche (Brasile, Cina, India, Giappone, Vietnam, Malaysia, Sudafrica...). L'altra è Nacala, sull'Oceano Indiano, con un porto naturale tra i più profondi dell'Africa Orientale. Le due città stanno vivendo uno sviluppo industriale e un incremento di popolazione unici in Africa. Il fatto che le miniere e il porto distano 1.000 km non scoraggia le compagnie, che stanno ricostruendo la ferrovia (che passa per il Malawi).

 

"Eldorado" Mozambico  

Gli enormi giacimenti di carbone nella provincia di Tete hanno attratto investimenti, imprese di appoggio, di servizi, di costruzioni. Tra il 2009 e il 2011 sono state date 112 concessioni minerarie a compagnie straniere; gli investimenti tra il 2005 e il 2011 sono stati di circa 20 miliardi di euro. Ora il governo ha messo uno stop a nuove concessioni, aprendo la possibilità anche a compagnie mozambicane.  

E non c'è solo il carbone. Abbondano anche oro, uranio, grafite, tantalite, pietre preziose. Da sempre i garimpeiros sono al lavoro: basta ricordare le miniere dell'impero di Monomotapa, che tanto alimentarono la leggenda e la brama dei primi coloni portoghesi, fino a identificarlo con il mitico regno di Ofir. In tutto questo carosello di concessioni, la corruzione regna sovrana, sotto le mentite spoglie di partnership e imprese miste. Tutto è concordato a Maputo, sotto l'occhio vigile del Frelimo.  

Anche le concessioni agricole obbediscono alla stessa logica di partito. Dal 2004 al 2009 sono stati dati in concessione 2,5 milioni di ettari di terre fertili. Lo scorso anno 60.000 km2 di terre agricole sono stati ceduti, a prezzi irrisori e per 50 anni, a "coloni" brasiliani nelle province di Nampula, Niassa e Zambezia, per coltivare soia da mettere sul mercato cinese; 40.000 ettari a imprese vietnamite e 60.000 alla brasiliana Vale nella provincia di Nampula. Le foreste, invece, sono appannaggio di imprese cinesi: l'esportazione massiccia di legname serve a pagare le grandi opere che la Cina sta facendo per il governo (stadio nazionale, aeroporto di Maputo, strade, edifici pubblici e altro).  

Il paese è sotto attacco con la pratica del land grabbing, che mette a rischio gran parte della popolazione rurale, obbligata a lasciare le terre o a reimpiegarsi in monocolture per biocombustibili. Al confine con la Tanzania, nel bacino del fiume Rovuma e al largo delle coste, si sono installate imprese petrolifere con le loro piattaforme: la Galp portoghese, l'americana Anadarko, l'italiana Eni. È di pochi mesi fa l'annuncio da parte dell'Eni dell'esistenza di enormi giacimenti di metano: il gas dai campi di Temane e Pande, nella provincia di Inhambane, è già convogliato verso il Sudafrica, in un metanodotto che lambisce Maputo, ma che non ne lascia nel paese nemmeno un metro cubo.  

Da questo "Eldorado" cosa ricava lo stato? Notizia del 9 gennaio scorso: secondo il Supremo tribunale amministrativo, nel 2011 i megaprogetti hanno contribuito per meno dell'1% alle entrate dell'erario. Ogni anno, il governo di questo "Eldorado", diventato ormai un vero paradiso fiscale per le imprese multinazionali, prepara la lista della spesa per i paesi donatori. Questi, però, cominciano a stufarsi e a storcere il naso, davanti a tutto questo ben di Dio che lascia il Mozambico esentasse.  

Interessa sapere com'è finita la protesta degli abitanti di Cateme? Sono stati presi a manganellate dalle Forze di intervento rapido (Fir), che li hanno dispersi e rincorso fin dentro le loro fatiscenti case.

 

I TRE "TEMPI" DELLA CHIESA LOCALE  

Nei 20 anni succeduti all'Accordo di pace (1992), che vide protagonisti i vescovi e le comunità cristiane mozambicane, la chiesa cattolica ha conosciuto momenti diversi.  

C'è stato un primo periodo di euforia per la pace ritrovata e per la libertà di movimento, di culto, di insegnamento, contrassegnato dal ritorno in massa alla pratica cristiana, dal moltiplicarsi di comunità cristiane, dalla necessità di ricostruire i luoghi di culto, gli edifici ecclesiastici e scolastici restituiti dallo stato. Peccato che si sia ricaduti nella tentazione dell'avere e del potere, perdendo la forza profetica che veniva da un annuncio libero da privilegi.  

In un secondo momento c'è stato l'arrivo di nuove forze missionarie, soprattutto dall'America Latina. Inesperti, con scarsa inculturazione e poca conoscenza del cammino storico della chiesa mozambicana, sono parsi tesi a riprodurre modelli di chiesa e di pastorale buoni altrove, ma poco accetti qui.

È seguito un terzo momento incentrato sulla formazione dei sacerdoti diocesani (in aumento numerico costante) e sulla fondazione dell'Università Cattolica. Da parte degli istituti religiosi c'è stata una "corsa alle vocazioni", con il pericolo di una scarsa qualità formativa, disincarnata e lontana dalla missione, rivolta soprattutto alla promozione dei candidati e dell'istituto stesso.  

Oggi si invoca da più parti maggior profetismo sia nella chiesa locale che negli istituti religiosi. La missione rischia di ridursi alla gestione delle parrocchie, ignorando i nuovi "areopaghi" in cui il messaggio evangelico va annunciato.  

Il nuovo Piano pastorale della Conferenza episcopale del Mozambico (Cem), vorrebbe colmare questi vuoti e ridare rilevanza alla presenza della chiesa in una società in grande fermento. Nelle parole del suo presidente, mons. Lucio Andrice Muandula, vescovo di Xai-Xai, il Piano intende "aiutarci a garantire la nostra partecipazione nelle grandi sfide della chiesa in Africa, incarnata nella realtà sociale concreta della nostra gente".  

Il Piano ha tre ambiti fondamentali: i nuovi "areopaghi" che il paese oggi presenta, con i suoi scenari politici, economici, sociali, del lavoro, dell'ambiente; la famiglia, in difficoltà e non tutelata per la latitanza delle istituzioni; la formazione degli agenti di pastorale, meglio qualificati e più aperti alle sfide che l'evangelizzazione presenta.  

    

Inizio pagina 

    

       

MYANMAR

Rakhine: le autorità birmane arrestano 10 operatori umanitari Onu e Msf  

AsiaNews - Yangon - 6 luglio 2012 

Il personale è stato fermato nei giorni scorsi per “interrogatori”. Il governo non ha ancora fornito risposte ufficiali sulle loro condizioni. L’ong umanitaria ha sospeso le attività per motivi di sicurezza. La zona è stata teatro delle violenze interconfessionali fra buddisti e musulmani. Ancora decine di migliaia gli sfollati che vivono nei campi profughi.

       

Le autorità birmane hanno arrestato dieci operatori umanitari - fra cui alcuni dipendenti delle Nazioni Unite - nello Stato occidentale di Rakhine, in Myanmar, nelle scorse settimane teatro di violenti scontri fra buddisti Arakan e musulmani Rohingya che hanno causato almeno 80 morti e decine di migliaia di sfollati. È quanto denuncia l'Onu in una nota, secondo cui alcune persone impegnate in progetti di aiuto alla popolazione sono state trattenute nei giorni scorsi per "interrogatori" e non sono state ancora rilasciate. Il governo birmano, prosegue il comunicato, non avrebbe inoltre risposto alle domande sulle condizioni dei fermati, tra i quali vi sono anche sei dipendenti dell'ong Medici senza frontiere (Msf).  

Sulla vicenda è intervenuta anche Msf, che riferisce di "non possedere informazioni dettagliate"; dal mese scorso l'ong internazionale ha sospeso le attività nello Stato di Rakhine e ridotto il personale ai minimi termini per motivi di sicurezza. Ancora oggi decine di migliaia di sfollati vivono nei centri di accoglienza e nei campi profughi allestiti dal governo, con l'aiuto del World Food Program (Wfp) Onu, che fornisce ogni giorno cibo e pasti per circa 100mila persone.  

Nell'area è tuttora in vigore lo Stato di emergenza. Secondo denunce di Human Rights Watch (Hrw), le forze di sicurezza birmane hanno compiuto "ispezioni di massa" e altri abusi ai danni delle comunità musulmane della zona. Per gli attivisti le autorità locali sono responsabili di atti "discriminatori" contro le minoranze, perché lasciano impuniti i buddisti Arakan mentre si accaniscono nei confronti dei Rohingya.   

A giugno la Corte distrettuale di Kyaukphyu, nello Stato di Rakhine ha condannato a morte tre musulmani, ritenuti responsabili dello stupro e dell'uccisione a fine maggio di Thida Htwe, giovane buddista Arakanese, all'origine dei violenti scontri interconfessionali fra musulmani e buddisti (cfr. AsiaNews 19/06/2012 Rakhine, violenze etniche: tre condanne a morte per lo stupro-omicidio della donna). Nei giorni seguenti, una folla inferocita ha accusato alcuni musulmani uccidendone 10 che viaggiavano su un autobus ed erano del tutto estranei al fatto di sangue. La spirale di odio, sfociata in una vera e propria guerriglia e ha causato la morte di altre 29 persone, di cui 16 musulmani e 13 buddisti, altri 38 i feriti. Secondo le fonti ufficiali sono andate in fiamme almeno 2600 abitazioni; centinaia i profughi Rohingya che hanno cercato rifugio sulle coste del Bangladesh, ma sono stati respinti dalle autorità di Dhaka.  

Il Myanmar, composto da oltre 135 etnie, ha avuto sempre difficoltà a farle convivere e in passato la giunta militare ha usato il pugno di ferro contro i più riottosi. I musulmani in Myanmar costituiscono circa il 4% su una popolazione di 60 milioni di persone. Secondo l'Onu, nel Paese vi sono 750mila Rohingya, concentrati in maggioranza nello Stato di Rakhine. Un altro milione o più sono dispersi in altre nazioni: Bangladesh, Thailandia, Malaysia. Lo stato di emergenza è il primo intervento eccezionale ad opera di Thein Sein, presidente da oltre un anno, che sta traghettando il Paese dalla dittatura militare a una democrazia almeno minima.  

 

Inizio pagina 

   

    

NEPAL

Donne e poveri: le migliori guide di trekking sull'Himalaya

AsiaNews - Kathmandu - 4 luglio 2012

Nei distretti alle pendici dell'Himalaya la popolazione non gode dei flussi turistici gestiti da società straniere. La gente vive con pochi dollari al giorno e muore di malattie. Ong e agenzie internazionali combattono la fame, ma non considerano il turismo come opportunità di sviluppo. Con un'agenzia di trekking per sole donne, tre sorelle della città di Pokhara offrono lavoro a decine di ragazze.

 

I pachidermici progetti di organizzazioni non governative e agenzie internazionali per sconfiggere la povertà hanno portato pochi risultati dalla fine delle guerra civile nepalese. La maggior parte della popolazione nei distretti alle pendici dell'Himalaya vive con meno di due dollari al giorno e muore ancora di malattie come dissenteria, malaria, tubercolosi, dengue. E questo in regioni visitate ogni anno da migliaia di turisti e alpinisti.

Lucky, Dicky e Nicky Chhetry, fondatrici della 3Sisters Adventure Trekking di Pokhara, spiegano che nessuno considera il turismo un'occasione di crescita per i più poveri e gli emarginati. Esse notano che la parola "sviluppo"  è divenuta comune fra la popolazione, ma in pochi potrebbero spiegare il suo concreto significato. In questi anni economisti, politici e agenzie internazionali hanno creato e sponsorizzato enormi progetti di breve periodo e campagne per sfamare la gente, ignorando le possibilità offerte dal settore turistico a poveri ed emarginati.

La 3Sisters Adventure Trekking è nata nel 2001 per coinvolgere le donne dei villaggi della periferia di Pokhara (regione di Gandaki - Nepal occidentale) nell'industria dei trekking sull'Himalaya, spesso gestiti da grandi agenzie turistiche straniere. Con l'aiuto di guide esperte, le tre sorelle organizzano da oltre 11 anni corsi di alpinismo per sole donne.  "All'inizio le persone ridevano di noi - afferma Dicky Chhetry  - molte ragazze erano diffidenti. Una donna che lavora nel turismo è considerata una prostituta. Nonostante le critiche decine di giovani si sono iscritte e sono diventate guide, raggiungendo un'autonomia finanziaria che ha consentito loro di studiare ed emanciparsi dalle proprie famiglie". La piccola azienda ha resistito alla guerra civile e con la caduta della monarchia ha ricominciato a lavorare e pieno ritmo. Nel 2008 la società ha gestito circa il 52% dei trekking montani della regione Himalayana, divenendo leader del settore. A tutt'oggi la maggior parte dei clienti sono donne. "Alcune alpiniste - spiegano - hanno difficoltà a trattare con guide di sesso maschile. Così si rivolgono a noi e alle nostre giovani scalatrici".

Secondo una ricerca del Nepal Tourism Sector Analysis, è dal 1983 che il turismo occupa un parte importante dell'economica nepalese. Tuttavia il Nepal è ancora in fondo alla lista dei 139 Paesi analizzati  dal Rapporto sulla competitività turistica 2011 del Wolrd Economic Forum. Tale situazione è dovuta al disinteresse delle autorità per questo settore, alle poche infrastrutture e alla totale assenza di politiche di marketing. Le autorità locali non incentivano il turismo e non offrono sicurezza, costringendo gli stranieri ad affidarsi ad agenzie estere.  

       

Inizio pagina   

    

     

PAKISTAN

Lahore: l'opera delle Suore della Carità, per dare un futuro a bambini e tossicodipendenti di Jibran Khan

AsiaNews - Lahore - 7 luglio 2012

Dal loro arrivo, nel 1982, le religiose hanno valorizzato l'educazione, promosso la cura pastorale, dato una casa ai disabili e curato le dipendenze da droghe. Nelle scuole rette minime o studio gratuito per i figli di famiglie povere. Superiora regionale invita i sacerdoti a potenziare l'insegnamento della catechesi.

        

Valorizzare l'educazione fra i giovani, promuovere la cura pastorale, aiutare i tossicodipendenti e prendersi cura di disabili ed emarginati dalla società. Sono solo alcune fra le moltissime attività avviate negli anni dalle Suore della Carità di Santa Giovanna Antida Thouret (Sdc), giunte per la prima volta in Pakistan nel 1982 sotto la guida di sr. Anna Sammut. Le religiose hanno scelto Lahore (nel Punjab) come base di appoggio, occupandosi all'inizio di incentivare lo studio e l'istruzione fra i bambini poveri di Shahdara Bagh, un sobborgo a nord della città, situato sulla sponda settentrionale del fiume Ravi. A raccontare ad AsiaNews il loro lavoro oggi è suor Hend Salloum, prima superiora regionale delle Sdc in Pakistan. Arrivata nel 2001 da Damasco, in Siria, in precedenza aveva prestato la propria opera anche in Libano, Egitto, India e sull'isola di Malta.    

Attraverso l'educazione, sottolinea la suora, anche i minori nati in famiglie povere possono conquistare un proprio spazio fra le mura domestiche e nella società. Per raggiungere l'obiettivo è importante promuovere un lavoro di pastorale, che favorisca lo sviluppo integrale dei bambini. 

    

Dopo anni sono gli stessi genitori che si rendono contro dell'importanza dello studio e "fanno tutti gli sforzi possibili" per consentire ai figli di studiare. 

E proprio a Shahdara, dove è sorto il primo centro, le suore hanno predisposto agevolazioni e aiuti per le famiglie numerose, perché tutti i bambini abbiano accesso e diritto allo studio.  

Suor Hend Salloum spiega il lavoro delle religiose a Lahore, nel campo della pastorale e dell'educazione, unita alla gestione di un centro per disabili mentali - ospita donne e bambini - chiamato Dar-ul-Krishma e situato nel sobborgo di Youhanabad. Alle famiglie che non hanno risorse sufficienti per mandare i figli a scuola, aggiunge, garantiamo un'istruzione gratuita oppure chiediamo solo una retta minima. "La scuola - afferma suor Hend - è di grande aiuto per la Chiesa locale in Pakistan".  

A Faisalabad, invece, sorge un centro per tossicodipendenti che organizza incontri e iniziative per donne e ragazze con problemi di droga. Ad alcune di loro è fornito anche un alloggio e la possibilità di proseguire negli studi, per cercare di costruirsi una vita migliore. Alla Baji Mariam, questo il nome dell'istituto fondato da una missionaria originaria di Malta, si prendono cura di un centinaio di ragazze - all'inizio erano una ventina - grazie alla dedizione delle religiose e delle loro collaboratrici. Spesso accade che la polizia consegni delle ragazze alle suore, non sapendo a chi affidarle. E anche i sacerdoti, in caso di bisogno, sanno di poter contare sull'aiuto e l'opera solerte Suore della Carità.  

Ma il punto centrale, conclude suor Hend Salloum, ruota attorno alla formazione religiosa delle persone; per questo lancia un invito a sacerdoti e religiosi, perché siano "più appassionati" e vigorosi nel lavoro pastorale e nell'insegnamento del catechismo.  

 

Inizio pagina

 

 

PERU'

I Vescovi: la violenza non può essere un mezzo per raggiungere lo sviluppo dei popoli

Agenzia Fides - Lima - 5 luglio 2012 

       

"Di fronte agli episodi dolorosi di martedì 3 luglio, la Conferenza Episcopale Peruviana (CEP) ha lanciato un nuovo appello a tutti i protagonisti del conflitto, perchè mettano da parte i discorsi che incitano alla violenza, valutino la forza impiegata per controllare gli scontri, riflettano insieme sulle soluzioni comuni e in particolare rinuncino alla violenza come mezzo per raggiungere gli obiettivi di una comunità o di un popolo". Nel comunicato dal titolo "La violenza non può essere un mezzo per raggiungere lo sviluppo dei popoli", inviato all'Agenzia Fides, la Conferenza Episcopale torna sui gravi episodi avvenuti il 3 luglio nella zona di Cajamarca (a nord del Perù), dove la popolazione manifesta contro la realizzazione del progetto minerario Conga, che hanno causato morti e feriti.

Nel comunicato i Vescovi ricordano anche che la vita umana è un valore supremo e deve essere protetta e privilegiata da tutti. I Vescovi sono addolorati per la morte violenta delle persone coinvolte in questo conflitto e chiedono alle parti di "riprendere il dialogo, come unica via per risolvere in modo razionale e pacifico i conflitti". Alla fine del testo, la Chiesa si mette a disposizione per mediare e riportare la calma, perché "la Chiesa annuncia il valore della vita e il rispetto dei diritti fondamentali dell'uomo, Promuove l'atteggiamento di rispetto per la natura e promuove una cultura di pace e dialogo". Il comunicato è firmato dal Presidente della CEP, Sua Ecc. Mons. Salvador Piñeiro García-Calderón, Arcivescovo Matropolita di Ayacucho.

Un nuovo scontro tra polizia e manifestanti contrari al progetto minerario Conga si è verificato il 4 luglio nella città di Cajamarca, malgrado questa si trovi in una delle tre province della regione dove è stato decretato lo stato di emergenza. Secondo le informazioni fornite dalla Radio cattolica Onda Azul all'Agenzia Fides, il nuovo scontro si è verificato ieri, 4 luglio, verso le nove del mattino, quando la polizia ha cercato di disperdere un gruppo di persone che si erano radunate all'esterno della Cattedrale della città di Cajamarca. Le forze dell'ordine hanno dovuto usare gas lacrimogeni per disperdere i manifestanti, che hanno risposto con il lancio di oggetti come bottiglie di vetro. Va ricordato che, a causa dello stato di emergenza nella zona, sono sospese alcune garanzie costituzionali relative alla libertà personale e alla sicurezza: l'inviolabilità del domicilio (la polizia può entrare nelle case), la libertà di riunione e di transito. (CE) 

  

Inizio pagina

 

 

REP. DOMINICANA

No alla chiusura dei "mercati binazionali" fonte di sostentamento per migliaia di famiglie

Agenzia Fides - Santiago - 4 luglio 2012 

       

La Chiesa cattolica nella Repubblica Dominicana ha espresso parere negativo sulla chiusura dei "mercati binazionali" che si svolgono ogni settimana in punti diversi lungo il confine con Haiti, mettendo in guardia chiunque promuova tale misura, perché non tiene conto del danno che arreca a migliaia di haitiani e di dominicani che affollano i mercati e riescono a sopravvivere proprio grazie a questo tipo di commercio.

La voce della Chiesa si è fatta sentire nell'editoriale intitolato "Abbandonati" (Desamparados), pubblicato nell'ultimo numero del settimanale "Camino", in cui tra l'altro si afferma: "Coloro che sostengono la chiusura dei mercati binazionali mostrano che il loro cuore è lontano dal confine". La settimana scorsa il Primo ministro di Haiti, Laurent Lamothe, aveva proposto di chiudere i mercati binazionali come parte di una serie di misure volte ad eliminare il contrabbando e ad ottenere un aumento delle entrate fiscali del paese.

La Chiesa avverte che, se si applicano queste misure, le autorità haitiane dimostrano di misconoscere i reali bisogni dei loro compatrioti, "perché questo commercio informale tra i due popoli viene dal periodo coloniale ed è stato rafforzato al tempo dell'embargo che ha colpito Haiti" decenni fa. La Chiesa, infine, invita il governo haitiano ad aprire le porte al commercio "e a non ostacolarlo, altrimenti vorrà dire solo aumentare la miseria. Se il problema è la mancanza di entrate nelle casse dello stato haitiano, queste si devono trovare altrove, e non mettendo in croce i più poveri". (CE)  

 

Inizio pagina

    

    

SOMALIA

Transizione passa da sicurezza e sviluppo, e dal rispetto dei minori

Misna - 4 luglio 2012 

 

Il rispetto delle scadenze fissate e la stabilizzazione delle regioni cadute sotto il controllo del governo daranno la misura del successo o dell'insuccesso del vertice del gruppo di Contatto internazionale sulla Somalia. Svoltosi negli ultimi due giorni alla sede del ministero degli Esteri italiano, a Roma, l'incontro è giunto a poche settimane dalla scadenza del calendario fissato dalla Road map e che dovrebbe portare entro il prossimo 20 agosto allo scioglimento delle Istituzioni federali di Transizione e all'approvazione di una nuova Costituzione.

Nel comunicato finale, il Gruppo internazionale di Contatto sottolinea che le date da rispettare sono l'apertura (il 12 luglio) e la chiusura (il 20 luglio) dell'Assemblea nazionale costituente, la selezione di un nuovo parlamento federale (20 luglio), l'elezione di un presidente del parlamento (4 agosto) e di un capo dello Stato (20 agosto).

Nella nota che ha chiuso il vertice gli altri punti toccati sono la sicurezza, la stabilizzazione, la giustizia e il coordinamento internazionale. Sul primo punto è stato preso atto del rafforzamento della missione dell'Unione Africana e della progressione del governo federale nel confronto armato con gli Al Shabaab. Un fatto che ha consentito al governo di Mogadiscio di recuperare territorio e che ora pone con urgenza la questione di stabilizzare le conquiste fatte per un efficace sviluppo regionale. Il Gruppo di Contatto ha anche avvertito della necessità di avviare un settore indipendente per la gestione della giustizia in Somalia che sia fondato sia su sistemi formali che informali nel rispetto dei principi internazionali.

E' stato infine sottolineato con ottimismo il ripetersi negli ultimi mesi di diverse conferenze internazionali sulla Somalia a partire da quella di Londra, a febbraio, per passare a quelle di Istanbul e Dubai. Il Gruppo internazionale di Contatto tornerà a riunirsi agli inizi del 2013 e il vertice potrebbe tenersi in Sudafrica, paese che si è proposto di ospitare i partecipanti nel corso dell'appuntamento romano.

A margine dell'incontro il governo di transizione somalo ha sottoscritto un piano d'azione per mettere fine al reclutamento di minori nelle forze armate. Il piano, sostenuto dall'Onu, prevede il coinvolgimento di rappresentanti delle Nazioni Unite a sostegno degli sforzi per ristabilire pace e sicurezza. Esso prevede inoltre l'inserimento in percorsi speciali dei minori attualmente arruolati, l'approvazione di leggi ad hoc che criminalizzino tale pratica e la garanzia all'Onu di potere accedere alle strutture militare per verificare il rispetto dell'accordo.  

    

Inizio pagina

 

   

SRI LANKA

Premio alla cristiana Nimalka Fernando per la lotta in favore dei diritti umani

Radiovaticana - 4 luglio 2012  

    

L’attivista cristiana Nimalka Fernando, presidente dell’International Movement Against all Forms of Discrimination and Racism, è stata insignita – riferisce l’agenzia AsiaNews – del Citizen’s Peace Award 2011, uno dei più importanti premi dello Sri Lanka, promosso dal National Peace Council (Npc) del Paese asiatico. Il riconoscimento, consegnato lo scorso 26 giugno, è stato assegnato alla donna per il coraggio, l’impegno e l’iniziativa che ha dimostrato, in modo consistente e per molto tempo, lavorando per i diritti umani e la giustizia delle persone per una pace duratura in Sri Lanka. “In tutta onestà, sono solo una delle migliaia di persone e movimenti che dalla fine degli anni '70 lavorano per la giustizia e la pace in Sri Lanka”, ha commentato Nimalka Fernando durante il discorso di ringraziamento. “Questo è anzitutto il 'loro' premio, più che il mio, e per questo lo voglio dedicare a tutti i miei compatrioti” ha proseguito. “Come vincitrice, questo riconoscimento mi pone dinanzi a una sfida. Ma esso rappresenta anche un incoraggiamento per tutti noi, a continuare il nostro lavoro. Grazie per aver voluto premiare la pace e i diritti umani in Sri Lanka”. Alla consegna del premio, avvenuta al centro culturale Lakshman Kadirgamar di Colombo, erano presenti membri del governo e dell’opposizione, attivisti della società civile. Il Citizen’s Peace Award è un premio nato due anni fa per riconoscere l’impegno di quanti, nella società civile, lavorano per la pace, i diritti umani e l’armonia tra le diverse comunità. (A.C.)  

 

Inizio pagina

 

 

SUD SUDAN

L'arcivescovo  di Juba: ora costruire la pace

Misna - 7 luglio 2012   

   

“L’unica soluzione è la pace” dice alla MISNA Paulino Lukudu Loro, arcivescovo di Juba e presidente della Conferenza episcopale del Sudan (Scbc). Lunedì si festeggia il primo anniversario dell’indipendenza del Sud, ma questo missionario comboniano non è solo o soltanto “felice”. Ha servito la sua gente nella anni della guerra civile (1983-2005) e ora non dimentica le sofferenze di chi, anche dall’altro lato del nuovo confine, aspetta ancora giustizia.

 

Monsignore, come ha vissuto questo primo anno di indipendenza?

“Sono felice. Finalmente mi sento un cittadino, con un mio paese. Credo che tutti i sud-sudanesi si sentano allo stesso modo. Anche se ci rendiamo conto, tutti, che per molti aspetti è stato un anno difficile. Ma questo non oscura né diminuisce l’importanza, storica, dell’indipendenza”.

 

In Sud Sudan, però, è già emergenza. Lo scontro con Khartoum sul petrolio ha finito per privare lo Stato di gran parte delle sue entrate. Dopo 22 anni di guerra civile, come si costruisce il futuro?

“Il petrolio è una delle grandi sfide da affrontare. Deve farlo il Sud Sudan e deve farlo il Sudan, entrambi paesi appena nati. Il blocco delle esportazioni causato dai contrasti con Khartoum sulle tariffe per il transito del greggio è un fatto molto negativo, che nessuno voleva. Ad avere le responsabilità maggiori è però il Sudan, che non ha mai provato a negoziare su basi di uguaglianza. La conseguenza è che adesso mancano i fondi non solo per le scuole ma anche per garantire la sopravvivenza stessa delle persone”.

 

A Juba si festeggia mentre in diverse regioni del Sudan, dai Monti Nuba al Nilo Blu, si continua a combattere…

“Sono in molti a soffrire. Ci sono migliaia di sud-sudanesi trattati duramente dal governo di Khartoum e ci sono, certamente, i Nuba. Questo popolo vive in Sudan, intendo dire dall’altra parte del confine, dove hanno sempre avuto la loro terra. È un popolo che sta subendo restrizioni, violenze e abusi e questo è inaccettabile. L’unica soluzione è la pace. Per prima cosa il Sudan deve accettare di parlare di pace”.

   

Inizio pagina 

   

   

VIETNAM

L'attacco ai cattolici di Vinh, "pulizia religiosa" imposta da Hanoi di J. B. An Dang

AsiaNews - Hanoi - 4 luglio 2012

Si fa sempre più serrata la lotta delle autorità contro la pratica del culto. Il governo vuole "spazzare via" ogni traccia della fede, ma nel popolo si assiste a una rinascita spirituale. La fiera opposizione del sacerdote e dei fedeli di Con Cuong all'assalto di militari e teppisti organizzati. Sacerdote locale: morire sull'altare "una benedizione".

 

La repressione contro la libera professione del culto in Vietnam si fa sempre più marcata. L'ultimo episodio di violazione alla libertà religiosa nel Paese comunista - peraltro un diritto riconosciuto dalla legge dello Stato - è avvenuto il primo luglio scorso in una cappella missionaria di Con Cuong, zona rurale della provincia di Nghe An, nella diocesi settentrionale di Vinh; nel raid contro i cattolici locali sono state utilizzate anche truppe da combattimento e "teppisti", al soldo delle autorità per colpire minoranze o reprimere il dissenso (cfr.AsiaNews 03/07/2012 Vinh: cattolici nel mirino di teppisti e autorità. Decine di feriti fra i fedeli durante la messa). Fonti locali parlano di una vera e propria campagna di "pulizia religiosa" mirata a "spazzare via" ogni traccia della fede e del culto; la stretta riguarda in particolare le aree rurali o remote del Vietnam, dove è invece in atto una forte rinascita del senso religioso e del cristianesimo in particolare, dopo decenni di indottrinamento ateo e comunista.

Le autorità del distretto di Con Cuong sono sempre più intenzionate a reprimere la pratica del culto e il bisogno di spiritualità della popolazione locale, dopo aver più volte - in passato - ingaggiato malviventi e bande criminali per minacciare e terrorizzare i fedeli riuniti nella cappella per pregare. In una circostanza, essi hanno anche cercato di far saltare in aria il piccolo luogo di preghiera ma ogni loro tentativo è risultato vano.

L'ultimo episodio risale a domenica primo luglio. Testimoni raccontano ad AsiaNewsche decine di teppisti e agenti in borghese hanno cercato di impedire a p. J B Nguyen Dinh Thuc di raggiungere la cappella per celebrare la messa. Il sacerdote ha opposto una fiera resistenza, provando a violare lo sbarramento; in risposta, gli agenti lo hanno picchiato con brutalità punendo anche i fedeli giunti in suo soccorso. Tra loro vi è anche la signora Maria Ngho Thi Than che ha riportato una frattura al cranio ed è tuttora ricoverata in condizioni definite "critiche" all'ospedale Viet Duc di Hanoi. Molti altri sono stati arrestati e rinchiusi in galera.

La determinazione del sacerdote e dell'intera comunità cattolica a celebrare le messe domenicali ha scatenato la repressione di funzionari e amministrazioni, che hanno chiesto l'intervento di un reparto dell'esercito a sostegno delle bande di teppisti. Oltre ad attaccare con brutalità i fedeli, essi hanno anche compiuto devastazioni ai simboli della fede cristiana, ribaltando e distruggendo una statua della Madonna (nella foto) di fronte ai fedeli attoniti e impauriti, lanciando al contempo insulti e improperi. Grazie alla collaborazione di altre quattro parrocchie della zona, alcuni cristiani hanno raggiunto e circondato una ventina di questi "teppisti", i quali hanno confessato di ricevere circa 25 dollari come "compenso" per le loro malefatte.

Nel tentativo di rispondere alle violenze, i fedeli di Con Cuong hanno promosso manifestazioni davanti alla caserma di polizia del distretto: essi hanno chiesto il rilascio dei cattolici arrestati e di aprire un fascicolo di inchiesta sugli incidenti, sul coinvolgimento delle autorità e le violenze compiute dai malviventi. La comunità locale non intende cedere alle pressioni e rivendica il diritto alla libera pratica del culto. Una lotta per la libertà religiosa, seguendo l'esempio e le parole del loro parroco: "Morire sull'altare - ha dichiarato p. JB Nguyen Dinh Thuc - sarebbe una tale benedizione per me".  

 

Inizio pagina   

   

   

Cattolici nel mirino di teppisti e autorità. Decine di feriti fra i fedeli durante la messa di Nguyen Hun

AsiaNews - Hanoi - 3 luglio 2012

Un gruppo legato al Fronte patriottico ha colpito i cattolici di Con Cuông mentre celebravano messa. Una donna ha riportato fratture alla testa ed è ricoverata. Le autorità pagano fino a 25 dollari gli autori dei raid, come "rimborso" per la loro "opera". Protesta dei fedeli: violano la libertà religiosa e le leggi del Paese.

 

Un gruppo di teppisti legato al Fronte patriottico vietnamita, fomentati dalle autorità locali, ha colpito i fedeli riuniti in una casa di preghiera di Con Cuông - distretto della provincia di  Ngh? An, diocesi di Vinh - intenti a celebrare la messa domenicale. L'attacco contro la comunità cattolica è avvenuto la sera del primo luglio ed è solo l'ultimo di una serie di episodi di persecuzione, che hanno preso di mira le comunità cristiane della zona dal novembre dello scorso anno. Fonti anonime interpellate da AsiaNewsriferiscono inoltre che le cosiddette "autorità locali" devolvono fino a 25 dollari di "ricompensa" a malviventi che picchiano sacerdoti e laici che desiderano solo incontrarsi per celebrare l'eucaristia.

La sera del primo luglio, come ogni domenica, p. J.B. Nguy?n Ðình Th?c ha riunito i fedeli in una cappella di Con Cuông per celebrare la messa. All'improvviso, un gruppo di teppisti - con molta probabilità vicini ad un movimento nazionalista ed estremista - ha interrotto la funzione prendendo di mira i presenti. Fomentati dalle autorità locali, che pagano questi gruppi per colpire le comunità cattoliche, gli assalitori hanno colpito con forza e brutalità ferendo dozzine di persone. Una di loro, la signora Maria Ngô Th? Thanh, ha riportato una frattura cranica ed è stata ricoverata in ospedale per cure intensive.

Nelle scorse settimane funzionari di Con Cuông hanno più volte vagato per le strade del distretto a bordo di jeep, dalle quali lanciavano slogan e moniti contro i cattolici - laici e sacerdoti - colpevoli di "celebrazione illegale di messe". Alcune famiglie confermano che "le autorità locali non sanno" o fingono di non conoscere "le leggi che regolano la libertà religiosa in Vietnam". Polizia e agenti della sicurezza minacciano i cristiani e costringono i fedeli a promettere che non parteciperanno in futuro a funzioni o cerimonie. "Stanno violando - commentano i membri della comunità - le leggi del Vietnam e i diritti umani di base".

Tuttavia, a dispetto di minacce e persecuzioni che proseguono da un anno e mezzo p. .B. Nguy?n Ðình Th?c celebra la messa domenicale e i riti legati alle principali festività. In tutta risposta, l'amministrazione locale ha rafforzato la politica repressiva "mobilitando centinaia di persone fra forze di polizia, agenti in borghese e gruppi di malviventi" che lanciano sassi, colpiscono i fedeli, compiono arresti. Una fonte, dietro anonimato, confida ad AsiaNews che i violenti "sono ricompensati con 25 dollari ciascuno" per le loro azioni ai danni di fedeli pacifici.

In risposta all'ennesimo attacco, i parrocchiani hanno protestato davanti agli uffici del Comitato popolare del distretto Con Cuông, chiedendo al segretario locale del partito di mettere fine alle violazioni e rispettare il principio della libera professione del culto. Ma i leader continuano a ignorare le richieste e stanziano forze di polizia per provocare i fedeli. Nelle ultime settimane, gli agenti addetti al controllo del traffico hanno chiuso gli accessi alle chiese, rendendo sempre più difficile la partecipazione a messe e funzioni. I fedeli attendono una presa di posizione forte e decisa del vescovo di Vinh, a tutela della libertà religiosa.  

       

Inizio pagina