Ombre di cicatrici

 

 

CAPITOLO 1 – Qualcosa sta cambiando


Una goccia. Tante gocce.

La pioggia scendeva di traverso, la finestra si stava completamente bagnando.

Un'altra giornata grigia.

Sospirò ancora, distendendosi sul letto, poi chiuse gli occhi. Ancora una volta aveva litigato con suo padre.

Di nuovo un sospiro.

Accese la radio che stava sul comodino e cominciò a battere il ritmo di una canzone con le dita dietro la nuca. Eppure pensava di aver convinto suo padre che il calcio era la cosa più importante del mondo. Del suo mondo.

Già, il calcio. Malgrado tutti i battibecchi, i contrasti e gli accordi raggiunti senza in realtà arrivare ad un punto fermo, sembrava che a suo padre non fosse mai andata giù questa decisione, così approfittavano di ogni minima sciocchezza per scontrarsi.

La canzone terminò senza una vera e propria nota finale, lasciando che sulla sua scia ne cominciasse subito un'altra.

Odiosa. Davvero odiosa per i suoi gusti.

Allungò un braccio verso il comodino e lasciò che la sua mano colpisse bruscamente la radiosveglia, che cadde quasi per terra, rimanendo attaccata al muro e penzolando dalla presa di corrente.

- Maledizione!- fece con rabbia.

Si alzò di scatto e con violenza diede un calcio all'oggetto, rompendolo definitivamente.

Ma non gli bastava, voleva continuare a tirare calci a qualcosa, desiderava sfogarsi, distruggere e non pensare a quella serpeggiante sensazione di frustrazione che gli aveva artigliato le viscere.

- Ken, scendi! C'è il pranzo!- la voce della madre, dal piano di sotto.

Al pensiero di mettere qualcosa sotto i denti, mi viene la nausea. E poi non ho la minima intenzione di rivedere papà.

Afferrò la giacca leggera e scese veloce le scale.

- Ken... dove... dove vai?- gli chiese la madre stupita, incontrandolo al pianterreno.

- Fuori.- rispose lui con noncuranza, afferrando un ombrello dal portaombrelli, infilandosi le scarpe e uscendo sbattendo la porta - Ci vediamo.- aggiunse.

Una volta fuori aprì l'ombrello e si strinse nella giacca, muovendo i primi passi per la strada grigia e piatta.

Diciassette anni. Ken era già stanco di tutto.

L'estate lo annoiava, soprattutto quando pioveva.

Non poteva allenarsi con il Toho, poteva giocare raramente a calcio, dal momento che suo padre si preoccupava di lanciargli occhiate piuttosto maldisposte ogni volta che prendeva in mano un pallone e poi perché la sua squadra era in vacanza.

Kojiro lavorava duramente anche d'estate, per la sua famiglia. Takeshi se ne stava in vacanza chissà dove, mentre lui aveva scelto di non partire quell'anno.

Sempre il solito motivo: non ne aveva voglia. Forse avrebbe trascorso qualche giorno al mare con gli altri, ma ancora non lo sapeva e decisamente il pensiero di organizzare qualcosa era ben lungi dalla sua mente.

In quel momento stava camminando, gli bastava questo.

Arrivò a guardare distrattamente le vetrine, rigate dalle gocce di pioggia.

Considerò il fatto che, dal momento che aveva appena fatto a pezzi la radiosveglia, probabilmente gli conveniva acquistarne una nuova.

Così entrò nel negozio più vicino.


- Accidenti!!- esclamò.

- Avanti, vedrai che presto smetterà di piovere! D'estate è sempre così.- l'amica cercò di tranquillizzarla.

- Speriamo.- sospirò la ragazza dai capelli biondi, appoggiandosi stancamente al muro.

Le due rimasero a guardare la pioggia scendere dietro la vetrina del negozio, così monotona da sembrare addirittura silenziosa, e chiacchierarono un po', finché non una delle due non adocchiò una figura conosciuta.

- Ehi, guarda un po'! Quel tipo frequenta la nostra scuola.- sussurrò la ragazza con i capelli ricci, indicando con gli occhi un ragazzo e stando ben attenta a non dare a vedere un interesse palese.

- Dici?- l'altra lo guardò distrattamente; che strano, l'aveva sicuramente già visto... ma dove? Aveva uno sguardo così vuoto, quasi quella fosse una delle classiche giornate no che capitano irrimediabilmente quando si è già preda del malumore.

- Ehi, ma quello è Wakashimazu!- affermò poi l'amica, riconoscendolo.

L’altra distolse lo sguardo da lui e i suoi occhi si posarono sull'espressione sognante della compagna.

- Wakashimazu?- ripeté.

- Esatto! Il portiere del Toho!- fu la risposta che le arrivò dall’amica, cercando di trattenere l'emozione e mantenere il tono di voce basso.

Il ragazzo, dal canto suo, si voltava in continuazione alla ricerca di un acquisto che il suo portafogli non avrebbe disdegnato, ma non sembrava vedere nulla di interessante, finché non incontrò gli occhi di quella ragazza con i capelli ricci che lo fissava sognante.

Fu un attimo. Alzò lo sguardo, spazientito, appena in tempo per trovarsi dinnanzi un volto decisamente estatico.

La bionda si occupò di tirare una poco gentile gomitata alla compagna, non appena si accorse che anche lui le stava guardando.

- Eh... mi... mi sta fissando...- mormorò l'amica, arrossendo, ma non accennando minimamente a voler distogliere lo sguardo.

L'altra scosse la testa, con aria annoiata, mentre il portiere ancora non era arrivato a capire per quale motivo quella ragazza si fosse fossilizzata su di lui in modo tanto esplicito e così seguitava a rivolgere loro un’espressione interrogativa.

- Guarda un po'! Ha smesso di piovere! Io vado a prendermi un bel gelato!- esclamò ad un tratto la bionda, uscendo a grandi passi dal negozio.

Una volta fuori respirò a pieni polmoni l'aria pulita e assaporò il lieve profumo della pioggia appena caduta. Le strade erano tornate a brulicare di passanti, mentre il sole faceva capolino da dietro i nembi passeggeri.

- Accidenti! Avevo davanti un bel panorama! Perché sei uscita?!- la raggiunse l'altra.

- E tu perché non sei rimasta dentro, se proprio tenevi a quel panorama?- replicò scherzando.

- Beh... non...-

- Ecco, lo sapevo. Non puoi muovere un passo senza di me, dì la verità, eh Mizuki?- continuò a prenderla in giro.

L'altra fece una smorfia arrabbiata, mentre l'amica cominciava a camminare lungo la strada con le mani dietro la nuca e la borsetta che penzolava lungo la schiena.

- Ehi!! Non è vero!-

- E allora perché mi segui?- ridacchiò.

- Smettila Eve!-

La bionda scoppiò in una risata divertita, mentre ascoltava la voce contrariata della compagna che la pregava di smettere di prenderla in giro.

Ken, invece, era rimasto nel negozio e dalla vetrina le seguì andare via con lo sguardo.

Strano incontro, decisamente.


- D'accordo, allora ci sentiamo.-

- Contaci! Ciao ciao!-

La ragazza guardò l'amica correre via, poi si diresse verso il campo.

Passò attraverso al cancello e appoggiò la leggera giacca in jeans e la borsetta sulla panchina che di solito occupava l'allenatore. Si stiracchiò sospirando ancora una volta e si sedette su quella stessa panchina con le gambe aperte, chinandosi e tenendo gli avambracci appoggiati poco sopra le ginocchia.

Si guardò intorno. L'erba del prato luccicava al sole, la pioggia andava e veniva in quel periodo, ma lei odiava gli ombrelli, per questo per quanto forte potesse piovere non ne aveva mai uno con sé, soprattutto perché sembrava avere la sfortuna di romperli, perderli o vederli scoperchiare dal vento.

Così, nell’evenienza, andava a ripararsi sotto qualche tettoia spiovente, in qualche bar o, al massimo, indossava delle giacche con un ampio cappuccio.

Quel giorno lei e la sua amica avevano deciso di uscire, ma erano state sorprese dalla pioggia ed erano state costrette ad entrare in quel negozio, dove Mizuki aveva perso la ragione, incontrando quel tizio: Wakashimazu.

Wakashimazu? Per Eve fu come un lampo, ecco dove l'aveva già sentito! Ken Wakashimazu era il portiere della squadra in cui giocava Hiyuga! Wakashimazu e Hiyuga erano considerati i giocatori più promettenti del quartiere, la loro squadra era quella dell’istituto superiore Toho.

Ecco dove aveva già sentito questo nome! Ed ecco perché Mizuki si era agitata a tal punto. Il Toho era la squadra di calcio della scuola che avrebbe dovuto cominciare a frequentare dopo l'estate.

E così ho visto in faccia un gran campione... beh, dall'espressione addormentata non mi pareva proprio un fuoriclasse. Chissà se avrò l'occasione di vedere anche Hiyuga prima che inizi la scuola? E magari scoprire che la sua faccia è molto più assonnata di quella di quell’altro tipo.

I pensieri della ragazza furono interrotti dalla vista di un pallone che rotolava sospinto dal vento sul selciato ancora bagnato, a bordo campo.

Eve si alzò e lo recuperò coi piedi lo ricondusse sull'erba. Si passò una mano sui pantaloni bianchi e si sistemò le spalline della canottiera corta. Palleggiando arrivò fino alla porta, poi tornò indietro e scattò in avanti, caricando il destro e calciando una cannonata. Il pallone passò oltre lo scheletro della porta senza rete e si fermò solo quando raggiunse la ringhiera degli spalti bassi, conficcandosi tra due sbarre di metallo. Le labbra della ragazza curvarono per disegnare un sorriso dai tratti soddisfatti, poi alzò il capo e scorse una figura indefinita che camminava al di là del cancello, così si affrettò a correre alla panchina per riprendere le sue cose.


Gli passò accanto velocemente, come se stesse fuggendo da qualcosa.

Ken fu strappato ai suoi pensieri da quella saetta che gli sfrecciò di lato, sussultando si voltò e stranito la chiamò:

- Ehi!! Fermati un momento!-

La ragazza sentì richiamare la propria attenzione dalla voce del tizio che aveva appena superato. Probabilmente non ci aveva fatto caso e aveva rovesciato qualcosa che gli apparteneva. Si infilò in fretta la giacca, una volta ferma si voltò verso Ken con sguardo interrogativo, notando con stupore che non c’era nulla che non andasse e di cui scusarsi, ma semplicemente quello era il fantomatico Wakashimazu.

- Tu sei la ragazza di prima, vero?-

- Scusala.- si limitò a dire Eve, infilandosi le mani nelle tasche.

- Scusarla? Chi?- le domandò il ragazzo cambiando espressione.

- La mia amica. La ragazza con cui stavo quando ci hai viste nel negozio. Credo si sia presa una gran cotta per te.- aggiunse con sguardo malizioso.

Il ragazzo ci mise un po’ per metabolizzare l’affermazione dell’interlocutrice, poi credette di arrossire e farfugliò:

- Una cotta per me...?-

- Ehi, non hai visto con che sguardo ti fissava? Credo l'abbia notato anche un cieco!- l’altra alzò un sopracciglio, di nuovo stranita.

- Ma veramente io non...-

- Penso che tu sia uno di quei classici ragazzi che non si accorgono minimamente delle migliaia di ragazze che vi muoiono dietro. Oppure fai finta di niente?- continuò a sorridere, con l’aria di chi la sa lunga.

- Non credo che queste ragazze contino un numero così stratosferico.- Ken alzò lo sguardo, pensando.

- Hai poca stima in te stesso, portiere!- replicò lei mettendosi le mani sui fianchi - Beh, ora devo proprio andare, mi sa che ricomincia a piovere! Ti saluto!-

Eve mosse in fretta le gambe e corse via; proprio quando le prime gocce cominciarono a cadere, lei non c'era già più, sparita dietro l'angolo. Non gli aveva lasciato nemmeno il tempo di salutarla, tantomeno di dare un senso a quella fugace conversazione.

Ken era rimasto in piedi vicino al cancello, ma si affrettò ad entrare nel campo ed a sedersi sulle gradinate coperte. Anche se aveva l'ombrello, non avvertiva alcun desiderio di far ritorno a casa. Davvero nessuna.

Si prese il viso tra le mani e sospirò. Una giornata fatta di sospiri.

Quel campo... quanti allenamenti aveva sostenuto lì con i suoi compagni. Quante volte si era messo alla prova duramente per migliorare. E quanta fatica aveva fatto per diventare quello che era.

Il suo sguardo fisso verso l’indefinito mise d’un tratto a fuoco un pallone. Un pallone fissato tra due sbarre di ferro del parapetto. Si alzò e lo afferrò con entrambe le mani.

Mentre tirava la sfera verso di sé, ebbe modo di constatare con meraviglia che questa era incastrata. Fece molta fatica per riuscire a toglierla di lì. Forzò la palla un’ultima volta e come per magia, finalmente, se la ritrovò tra le mani.

Giochetti stupidi di qualche ragazzino.

Ken si risedette stancamente sulle gradinate e lasciò cadere le braccia sullo schienale della panca, discostando le ginocchia e piegando la testa all’indietro.

Ne aveva decisamente abbastanza di annoiarsi a morte, di cadere irrimediabilmente nell’apatia più totale, finché non il sonno non lo sopraffaceva.

Decise su due piedi che quella sera sarebbe uscito. Sarebbe uscito e basta, senza programmare una meta ed una compagnia precisa: gli bastava trascorrere fuori da quella casa il maggior tempo possibile.

Non aveva alcuna voglia di chiamare od incontrarsi con qualche amico. Sentiva il pressante desiderio di rimanere solo.

Era assolutamente un periodo nero. Pensava fosse uno di quei momenti d’insofferenza che passano gli adolescenti. Ma Ken sopportava da troppo quella situazione, da quando aveva dodici anni.

Respirò l’odore d’erba bagnata e chiuse gli occhi.

Forse non avrebbe dovuto trattare in quel modo sua madre. Lei non aveva colpa di niente. Non si era mai opposta ai suoi progetti, ai suoi sogni e l’aveva sempre aiutato.

Accidenti. Non riusciva a combinare nulla di buono. Non era nemmeno riuscito a trovare una dannata radiosveglia nuova! E poi ci si erano messe quelle due curiose tipe a confermargli che il mondo era ben strano, la ragazza bionda e l’altra con i capelli ricci.

Un momento: la ragazza che aveva appena incontrato l’aveva chiamato “portiere”, ma come faceva a saperlo, visto che non la conosceva per niente?

Oh, già... di sicuro o lo sapeva già o gliel’aveva detto l’altra. C’erano momenti in cui non sopportava d’essere un personaggio semi famoso nel suo quartiere. Era tutt’altro che una star di Hollywood, eppure sapeva bene che il suo volto era conosciuto.

Tra le altre cose, la biondina l’aveva manovrato per bene, con quelle poche, semplici battute. Per quale motivo, poi, l’aveva fermata? Gli era passata vicino così velocemente da mettere in allerta i suoi sensi.

“Di ragazze che vi corrono dietro ce ne sono tante!” , “Lo sai o fai finta di niente?” , “Hai poca fiducia in te stesso, portiere!”

Aveva ragione. Aveva maledettamente ragione! E la cosa l’infastidiva parecchio.

Attese pochi istanti ancora, poi si alzò e percorse le ultime grandinate di corsa, scendendo sul campo con il pallone tra le mani. Si fermò di scatto e lasciò cadere la sfera, colpendola con violenza. La palla attraversò il campo e si fermò solo quando sbatté contro il muro dietro agli spalti opposti, rimbalzando e poi rotolando in discesa per frenarsi con un sonoro splash sull’erba bagnata.

Ken respirò a fondo. Una folata di vento caldo mosse i suoi lunghi capelli scuri. Poi prese l’ombrello, lo riaprì e si diresse verso casa.

Non aveva nemmeno mangiato.


- Pronto?... Sì. Ken?... mi dispiace, stasera è uscito... oh, sì di’ pure a me... due giorni?... Ma certo... glielo dirò. Ciao... ah, e auguri!-

La donna riappese la cornetta sospirando. Era preoccupata. No, non tanto per il fatto che Ken anche quella sera fosse fuori casa, più che altro perché aveva cominciato a comportarsi senza riguardo nei suoi confronti e nei confronti del padre.

Sperava con tutto il cuore che si trattasse solo di una fase della crescita, i problemi dei ragazzi sono più o meno comuni a tutti, eppure l’apprensione di una madre era unica ed esclusiva.

Si portò una mano al petto e fissò per terra.

Spero ti passi presto, figlio mio.


Il soffitto era buio come il cielo d’inverno, quella notte non c’era la luna.

Dovevano essere su per giù le tre, ma come poteva saperlo, visto che la sveglia era in frantumi?

Ken si alzò e raggiunse la finestra.

Appoggiato con i gomiti sul davanzale sgomberò la mente da ogni pensiero. Non voleva pensare a nulla. Ma le immagini riaffioravano vive davanti ai suoi occhi.

Aveva riso e fatto baldoria con persone che probabilmente non avrebbe più rivisto nemmeno lontanamente. Ma si era divertito, dopotutto. Era piacevole passare il tempo facendo confusione e ridendo. In questo modo dimenticava i brutti pensieri... però quella notte era solo. Era tornato solo come quando era partito e tutto quello che aveva fatto in quell’intermezzo, gli pareva mille volte sempre più pesantemente effimero.

Perché suo padre non aveva mai accettato l’idea che per lui essere un calciatore fosse più importante che diventare un karateka? Eppure gli era parso contento di vederlo giocare e vincere fino a qualche tempo prima... per quale ragione si comportava in quel modo?! La vita non era la sua.

Ken voleva essere lasciato libero di poter scegliere, non era una di quelle crisi di ribellione contro i genitori, sapeva benissimo che di momenti del genere avrebbero potuto esisterne milioni... ma non a lui. Lui viveva un’esistenza continuamente in lotta con sé stesso, a causa dell’ostinato volere del padre.

Ecco. Di nuovo quella voglia di prendere a calci qualcosa!

Il ragazzo non si trattenne. Sfogarsi non poteva fargli altro che bene, no?

Velocemente si rivestì e scese le scale. Uscì di casa e attraversò il giardino, arrivando all’entrata della palestra. Fece scorrere l’ingresso ed entrò richiudendo la porta dietro di sé. Poi accese le deboli luci che si rifletterono sul suo viso determinato.

Il giovane sospirò, chiuse gli occhi e rimase immobile al centro della sala. Tutt’un tratto li riaprì con decisione e sferrò una serie di pugni veloci all’aria, poi mosse le gambe e colpì con foga un nemico invisibile.


Le dieci.

Il sole filtrava caldo tra le pareti semiaperte della palestra.

Ken aprì lentamente gli occhi e si guardò intorno, portandosi una mano agli occhi.

Si chiese come era stato possibile addormentarsi come un sacco di patate sul pavimento, poi ricordò... si era talmente affaticato che non ce l’aveva fatta nemmeno a reggersi in piedi, così si era adagiato contro al muro e si era lasciato andare trasportato dalla stanchezza.

Ma... quella coperta? Qualcuno era entrato in palestra lo aveva coperto con una trapunta leggera. Sicuramente sua madre. Ken sorrise alzandosi in piedi e stiracchiandosi. Fu come se si fosse tolto un peso.

Quella mattina stava veramente meglio! Avrebbe anche potuto sorridere a suo padre da quanto stava bene! La raccolse e attraversò di nuovo il giardino, tornando in casa e incrociando la madre che parlava al telefono.

- ...no... oh! Un attimo! Eccolo qui. Te lo passo subito.-

La donna fece cenno a Ken di fermarsi e gli passò la cornetta. Il ragazzo la prese e poi mise una mano sul ricevitore per evitare che chi chiamava sentisse ciò che stava per dire alla madre.

- Buongiorno mamma! E... scusami.- sorrise lievemente, mettendole una mano su una spalla - Grazie per la coperta.-

Poi rispose al telefono.

- Sì?... Kojiro!... certo che sto bene, e tu?!...-

La donna lo guardava esterrefatta, beh... pareva tornato il ragazzo di sempre e ciò non poteva che scaldarle in cuore. Sapeva che quella notte il figlio si era allenato fino al mattino, ma non era andata a portagli nulla. Credeva che un po’ di solitudine gli avrebbe fatto bene. Infatti, era stato così. La madre sorrise pensando che solo una persona avrebbe potuto portargli quel lenzuolo in cotone...

La donna scomparve su per le scale, lasciando che Ken continuasse a parlare al telefono.

- Certo che ci sarò, quel ragazzino non vive senza di noi!-

- Perfetto e... ehi! Molla la cornetta! Sawada!!-

Ci fu una breve pausa poi Ken poté sentire la voce squillante del giovane amico.

- Pronto? Ken??-

- Takeshi! Ridammi la cornetta!!- gridò Kojiro.

- Avanti, capitano!!- protestò l’altro.

- Sto parlando io!!- fece ancora il compagno.

Ken allontanò il ricevitore dall’orecchio per evitare che il suo timpano si smembrasse. Guardò il soffitto e sospirò. Quei due erano una cosa impossibile... però quanto avrebbe dato per vedere Kojiro perdere la pazienza per una sciocchezza del genere, con Takeshi, poi! Sul suo viso si disegnò un sorrisetto divertito.

- Ubbidisci al tuo capitano!-

- Ma la festa l’ho organizzata io!!-

- Vuoi mollare quest’affare?!-

- Neanche per sogno!!-

Ken sospirò di nuovo, spazientito.

- Vuoi finirla, Sawada?!- gridò - A questo punto faremmo prima a parlare di persona!-

Silenzio. Kojiro strattonò la cornetta e Takeshi fu costretto a mollare la presa.

- Pronto? Scusalo Ken... allora, tornando al discorso di prima... ci sarai, vero?-

- Sì, ci sarò, non vi preoccupate.-

- E già che ci sei, porta anche qualche amica carina!- la voce di Takeshi suonò lontana ma chiara.

- Aspetta...- Kojiro appoggiò da qualche parte il ricevitore per poi rivolgersi a Takeshi - Ma la vuoi piantare?? È solo un compleanno, non la fine del mondo! E ringrazia il cielo che oggi mi sono svegliato di buonumore o ti avrei già fatto fare il giro delle consegne al posto mio!!-

- Wakashimazu, sei ancora lì?- riprese a parlare con il portiere.

- Avevo pensato di andarmi a fare un giro.-

- Io me ne andrei volentieri se non dovessi lavorare, comunque è deciso, mi fa piacere ci sia anche tu. Non so cosa gli sia preso, sarà l’euforia dei miei diciotto anni ma temo che nemmeno un esercito riuscirebbe a farlo star buono!-

- Lo sai com’è, ti stima moltissimo ed è felice per te.-

- Non sono abituato a festeggiare, devo dire la verità, però sembra che gli faccia così piacere...-

Ken sorrise. Il suo capitano era sempre stato severo e a tratti intransigente; gli procurava un certo senso di piacere misto a calore famigliare sapere che alla fine aveva ceduto ad un’iniziativa del genere.

- Fa piacere anche a te, capitano, ammettilo.-

- Sì, beh, non posso negarlo. Ad ogni modo Sawada non sembra ancora completamente sedato, ti saluto, vado ad occuparmene. A presto.-

I due si salutarono, mentre Ken seguitò a pensare che gli sembrava strano che Kojiro si fosse lasciato convincere da Takeshi nell’organizzare una festa per il suo diciottesimo compleanno. Di solito era disinteressato a questo genere di cose, ma fortunatamente doveva essere di buon umore o semplicemente era diventato uomo, attento anche al resto del mondo.

Aveva sempre posseduto un animo gentile sotto la corazza, e crescendo questo aveva avuto modo di far parlare di sé, lasciando che si distinguesse come senso del dovere, benevolenza e maturità.

Ad ogni modo la festa si sarebbe tenuta due giorni dopo a casa dell’amico più giovane, appena tornato dalle vacanze, che si era offerto di organizzare tutto. A quanto aveva detto Kojiro ci sarebbe stata tutta la squadra e qualche ragazza.

Ken tornò in camera propria per prendere degli abiti nuovi. Spiegò tutto alla madre, che gli rispose che anche qualche sera prima, quando lui era fuori Takeshi aveva telefonato.

- Bene. Allora mi faccio una doccia e...-

- ...e dove credi di andare? Tu ci stai sempre ore sotto la doccia e ormai tra poco è mezzogiorno!-

- Mi hai letto nel pensiero! Vorrà dire che la radiosveglia nuova la comprerò questo pomeriggio!-

La madre finì di ripiegare la leggera coperta e poi scese in cucina, mentre Ken si dirigeva verso il bagno.

Si tolse la maglietta, scoprendo i pettorali tonificati e si massaggiò il collo. Decisamente si sentiva meglio... forse il karate serviva a questo, a lasciare che la rabbia si scaricasse totalmente. Al contrario del calcio, che praticava per amore totale per la disciplina, le arti marziali erano per lui una sorta di valvola di sfogo.

Entrò velocemente nella doccia e chiuse gli occhi, avvertendo il getto d’acqua tiepida battergli sulla pelle.

Rilassante, davvero rilassante.


Se la prese comoda. Indossò una maglietta a maniche corte blu e un paio di pantaloni grigi, poi si mise un asciugamano piccolo sulla testa e cominciò a muovere la mano sui capelli.

Dopo pranzo tornò in camera propria a dare un’occhiata al portafogli. Sì, aveva abbastanza soldi da potersi permettere una sveglia nuova.

Guardò l’orologio. Avrebbe potuto recarsi in poco tempo in quel negozio di qualche settimana prima. Col buonumore sarebbe riuscito sicuramente a farsi andar bene qualcosa, così uscì.


Si sedette scompostamente sulla panchina e si accese una sigaretta. La fasciatura le dava fastidio, ma non se la sarebbe di certo tolta.

Era una bella giornata. Bella davvero.

Quel giorno era uscita per disperazione, a casa non c’era nessuno e starsene da sola non era piacevole, almeno era uscita a prendere una boccata d’aria. Guardò la sigaretta e tirò... già, una boccata d’aria.

Fece uscire il fumo dal naso, poi aprì la bocca e il resto passò di lì. Sarebbe potuta andare dall’altra parte della città, dove stavano i suoi vecchi conoscenti, ma chi aveva voglia di prendere il treno? Così ciondolava per quei quartieri senza meta.

Ci volle un attimo perché volgesse lo sguardo da sinistra a destra, e notasse una persona conosciuta che si dirigeva verso di lei.

Toh, guarda chi c’è.

Rimasero a guardarsi per qualche secondo, poi lui sempre camminando si avvicinò.

- Mi pareva che fossi tu.-

- Ci si rivede, portiere!-

La ragazza lo guardò negli occhi, che a sua volta la fissavano. Occhi profondi e scuri... diversi dall’altro giorno.

- Sembri di buonumore.- commentò lei facendo un altro tiro.

- Mh. - Ken alzò le spalle sorridendo - Può darsi.-

I due rimasero in silenzio. Erano passati alla fase del riconoscersi a vista, ormai, anche se la ragazza pareva piuttosto indifferente, a tratti ironica.

- Non frequenti il Toho, vero?- chiese lui rompendo il ghiaccio.

- Tra un mese non sarà più così. Mi sono trasferita all’inizio dell’estate, prima vivevo dall’altra parte della città.- fece lei.

- Beh, spero che ti trovi bene qui.-

Ma che stai dicendo, stupido! Cos’è, un villaggio turistico?

La ragazza gli tolse tutti i dubbi con un sorriso.

- Sì, non è male.-

- Ehi, stiamo parlando da un po’ e non mi hai ancora detto il tuo nome. Io sono...-

- Wakashimazu.- lo interruppe lei - So chi sei, abbastanza famoso da queste parti. Avevo già letto il tuo nome e visto la tua faccia su qualche giornale. Ti chiami Ken, non è così.-

- Esatto. E tu...-

- Eve.-

- Eve.- ripeté più volte il ragazzo -...mh, è un bel nome.-

- Grazie.- gli rispose, distogliendo lo sguardo.

- Ce l’hai un cognome o devo chiamarti soltanto Eve?- chiese Ken, di nuovo sorridendo.

- Springer.-

Ken le tese una mano, l’altra la tenne nella tasca posteriore dei jeans.

- Piacere di conoscerti, Eve Springer.-

La ragazza passò la sigaretta all’altra mano. Non era abituata alle strette di conoscenza.

- Piacere mio, Ken Wakashimazu.-

Il portiere si scostò un ciuffo di capelli dagli occhi e Eve si alzò, lasciando cadere il mozzicone per terra. Ken la guardò.

- Dove andavi di bello, eh?-

- Dovevo comprarmi una radiosveglia nuova, diciamo che ho praticamente disintegrato quella vecchia... e tu che fai?- riprese lui, sperando e tentando di non risultare ridicolo dopo quell’affermazione.

- Nulla. Semplicemente giro senza meta.- fu la risposta, accompagnata da un’alzata di spalle.

- Ti... ti andrebbe di venire con me?- disse lui mettendosi una mano dietro alla testa.

Sto veramente invitando una ragazza a comprare una sveglia?

- Okay.- fece lei, portandosi le mani nelle tasche dei pantaloni. Non sembrava minimamente stranita dalla singolarità della proposta, né dell’evento scatenante l’acquisto, tanto che Ken si chiese se avesse compreso davvero quello che le aveva appena detto, oppure davvero per lei non faceva né caldo, né freddo.

I due cominciarono a camminare parallelamente, sul largo marciapiede di mattoni.

- E così ti piace frantumare le radiosveglie?- sorrise ad un tratto la ragazza, dissipando tutti i suoi dubbi.


- Allora, soddisfatto, portiere?-

- Mi accontento.-

Eve mangiava tranquillamente un cono gelato all’arancia, mentre Ken si era portato la borsa di plastica bianca su una spalla; avevano ricominciato a camminare.

- Che hai fatto al braccio?- si decise a chiedere lui. La fasciatura che la ragazza portava aveva attirato la sua attenzione dal primo incontro e dopo tutto il tempo che era passato dal giorno in cui si erano incontrati per la prima volta, ancora seguitava ad essere stretta intorno al suo muscolo bicipite, così si chiese se non fosse qualcosa di grave, se non avesse per caso dei punti sotto la benda.

La ragazza si fermò di scatto. Ken, qualche passo avanti, si voltò.

- Qualcosa non va?- le domandò.

- No, no. Tutto okay.- fu la risposta di Eve - Un piccolo incidente. Una cosa da niente... dì un po’ ma tu non sarai il figlio del signor Wakashimazu, il proprietario della palestra di karate?-

Era riuscita a cambiare discorso. Ken sospirò.

- Già.-

Eve non volle andare oltre, notò perfettamente l’ombra che calò sul volto del ragazzo quando si trovò a pronunciare la parola karate.

Si sedettero in un parco, poco più in là della gelateria dove la ragazza aveva comprato quel cono, ormai finito.

- Adoro l’arancia!- fece lei, infilandosi in bocca l’ultimo pezzo di cialda.

Il ragazzo si appoggiò con la schiena alla panchina, mentre lei si accendeva un’altra sigaretta.

- Da quanto tempo giochi nel Toho?- gli chiese.

- Circa cinque anni, ormai.-

Eve rimase zitta, lasciando che la brezza estiva le solleticasse la cortissima frangia.

Aveva i capelli biondi, e gli occhi di un azzurro intenso che ora fissavano il vuoto. Di sicuro non era di origine giapponese.

Non desiderava sospendere quell’incontro verbale, gli piaceva la sua compagnia, quel pomeriggio era stato quasi piacevole.

- Gioco a calcio da quando avevo undici anni. - riprese lui - Inizialmente giocavo nella Meiwa per migliorare la tecnica del karate, però poi... beh diciamo che mi sono appassionato troppo!-

- È bello avere una passione?- fu la domanda leggera che sfiorò le sue orecchie.

- Meraviglioso!- gli occhi di lui s’illuminarono - Ci metto tutto me stesso in questo sport!-

Tornò a guardarla, sorrideva. - Tu non hai una passione?-

- Nh.-

- Sì, un interesse, una mania, qualcosa di cui ti importa veramente.- esclamò Ken con entusiasmo.

Eve assunse un’aria pensosa. Che cosa poteva interessarla davvero? A che cosa non avrebbe mai rinunciato?

- Il disegno.- fece alla fine.

L’espressione del ragazzo si fece interessata, ma non perse il suo entusiasmo:

- Parlamene.-

La giovane si stupì. Era la prima volta che qualcuno le chiedeva di parlare di qualcosa di personale che la riguardasse direttamente, solo lei, nessun altro, senza nessuna sfumatura, nessun secondo fine.

Spense la sigaretta.

- Io... io disegno da quando ero piccola. Quando ho in mano una matita, una penna... o qualunque cosa che scriva, mi sento libera di poter tracciare linee che compongono un viso... un corpo... un oggetto. E i miei sentimenti... beh... li esprimo così, credo.- alzò le spalle, rivolgendogli i suoi occhi azzurri che parevano aver assunto un’aria così innocente.

Eve si alzò di nuovo per prima e Ken fu come svegliato da un sogno. Guardò l’orologio... le 18.30.

- Accidenti!- gridò alzandosi di scatto.

- Che cosa? Che c’è?!- la ragazza si spaventò facendo un passo indietro.

- Emh... - sorrise, tra il divertito e il preoccupato - di solito quanto ci si mette per comprare una sveglia?- le chiese.

- Non lo so... una mezz’ora, penso.- rispose lei, alzando di nuovo le spalle e tentando di indovinare il motivo di quella strana domanda.

- Ecco. Credo che quattro ore siano un po’ troppe!-

- Quattro ore?- Eve sgranò gli occhi.

- Appunto.- lui si strinse nelle spalle.

- Accipicchia come vola il tempo!- pensò ad alta voce.

- Beh, ora è meglio che vada, prima che mettano in giro delle mie foto segnaletiche!-

Ken rimase a fissarla... gli balenò in testa un’idea.

- Hai da fare domenica?-

- Credo... credo di no, perché?- rispose lei stranita.

- Ecco, volevo chiederti... un mio caro amico compie diciotto anni. Che ne diresti di venire con me alla festa? Ci sarà il Toho al completo e le ragazze di qualcuno di loro. Gente simpatica.- aggiunse, sperando di essere convincente e di non risultare fin troppo invadente con una persona che conosceva solo da poche ore.

- D’accordo.- sorrise invece, Eve.

- Che?- Ken si stupì dell’immediatezza della risposta - Cioè, volevo dire... bene!-

Eve si limitò a sorridergli di nuovo, come divertita. Il portiere era evidentemente in imbarazzo, si era accorta che i suoi occhi scuri vagavano dappertutto tranne che il proprio viso.

- Sai dov’è la palestra, giusto? Ti aspetto lì alle otto?- le chiese lui sempre muovendo lentamente gli occhi da una parte all’altra.

- Ci sarò.- confermò lei, strizzandogli un occhio.


Accidenti, ma cosa gli era saltato in mente?

Tutta colpa di Takeshi! Era stato lui a chiedergli di portare delle amiche, delle... ragazze.

Quella Eve non era sua amica, la conosceva da appena qualche ora, eppure le aveva proposto di uscire, come se, arrivato il momento di salutarsi, avesse avvertito il bisogno di rivederla ed avere un nuovo contatto.

Okay, calma Ken. Dopotutto lo fai per Takeshi, no?

Era lui ad essere come impazzito al solo sentir parlare di ragazze.

La parola ragazze lo ricondusse inevitabilmente a pensare a quegli occhi tanto strani e rari in Giappone. Azzurri, con una vena di malinconia che non era riuscito a comprendere. Li avrebbe rivisti tra pochi giorni.

Si passò una mano tra i capelli, affacciandosi alla finestra tenne le dita sul collo, fermando i fili sottilissimi e bruni che gli scivolavano sulle spalle. Fissò i suoi occhi scuri e penetranti al cielo che, per l’ennesima volta, si persero nelle tenebre della sera appena nata.

Con un rapido movimento spostò la mano dal collo al davanzale, avvertendo il vento caldo della notte incombente sfiorargli la fronte.

Un’altra giornata era giunta al termine e stranamente quel giorno era stato bene, non aveva avuto diverbi con suo padre, anche perché praticamente l’aveva visto solamente a pranzo e a cena. E poi niente più problemi interiori... era semplicemente tutto okay.

Poteva addirittura sentirsi pronto a promettere a sé stesso che tutto sarebbe stato diverso e piacevole d’allora in poi.

Sarebbe andato alla festa per Kojiro col sorriso sulle labbra e... un attimo, tra pochi giorni poi sarebbe sopraggiunto anche il suo di compleanno.

Già, possibile? Se lo stava addirittura dimenticando.

 

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