Ombre di cicatrici

 

 

CAPITOLO 4 – Una notizia inattesa


La signorina Rama si lisciò i capelli rossi e si portò una mano sul fianco, sistemandosi la sciarpa.

- Avanti!! Uno! Due! Tre! Quattro! Mantenete il ritmo! Springer va’ piano! Piano!- gridò.

Eve rallentò il passo, le mani alla bocca, nelle quali soffiò nel tentativo di riscaldarsi un po’. Il fiato caldo attraversò la pesante lana dei guanti neri e la ragazza si fece schioccare le dita attraverso essi.

- Certo che è un supplizio!- mormorò una delle sue compagne di squadra - Perché con questo freddo ci devono far allenare ugualmente? Sto congelando!-

- Dairou! 300 metri in più!- vociò l’allenatrice, attenta come una sentinella. Ren, la diretta interessata, sbuffò e si distanziò dal gruppo, assumendo di nuovo un ritmo stabile.

- Avanti! Ancora venti giri e abbiamo finito!- la signorina Rama si portò il fischiettò alla mano, autoritaria.

- Abbiamo!?- mormorò una sua compagna accanto a lei. Eve le sorrise lievemente e l’altra ricambiò con un’espressione eloquente da compagna di sventura.

Le temperature erano calate vertiginosamente in quei giorni e, sebbene non avesse né piovuto né nevicato, la rugiada congelata sulle foglie, sull’erba e dovunque si rivolgesse lo sguardo, era il segno palese che il gelo oramai regnava sovrano sul mese di dicembre. Ci voleva proprio una bella gita alle terme! Ovviamente Mizuki sosteneva fieramente che il suo piano di convincimento aveva funzionato a meraviglia, nonostante Eve ben sapeva che i professori responsabili avevano già deciso di portare in gita quasi tutte le classi del corso superiore, ovvero la D, la E, la F e la G. Naturalmente Mizu era strafelice e non vedeva l’ora di mettere in atto il suo piano.

Sarebbero partiti la settimana successiva, di venerdì, ed avrebbero trascorso quattro giorni alle sorgenti termali di Onsensawa, una ridente località del nord che, con il suo ricco quartiere medievale, sarebbe stata oggetto di diverse visite a musei e siti archeologici.

Eve non aveva ancora espresso alcun parere al riguardo; pareva tutta presa dall’attività del club di atletica, anche se sembrava essere ben propensa ad una pausa di un pur breve periodo negli allenamenti.

Si sistemò il cappellino da baseball, calando bene la visiera davanti al volto per non ricevere le sferzate d’aria glaciale direttamente sugli zigomi, seguitando a correre con un ritmo impeccabile.


- Allora, che ne dici?- le chiese Ayame.

- D’accordo. Ci si vede!- salutò Eve.

- Ciao!- l’altra ricambiò il saluto e si allontanò dal campo con aria serena. Le aveva appena proposto di trascorrere la serata a casa di Takeshi, tutti assieme. Ed Eve aveva accettato, doveva solo tornare a casa, farsi una bella doccia e indossare qualcosa di adatto.

Sawada ultimamente pareva molto attivo, si dilettava a riunire gli amici anche al di fuori della scuola; sembrava ci tenesse particolarmente a creare un gruppo ben unito ed affiatato.

La ragazza fece per aprire la porta, quando la sua attenzione venne attirata da alcune buste che facevano capolino dalla cassetta delle lettere, stracolma. Sua madre si dimenticava spesso di prendere la posta - era una donna piuttosto distratta dal punto di vista amministrativo della casa, ma non al punto da farsi ritenere da Eve una cattiva madre.

Quest’ultima le voleva molto bene, anche se, a causa del suo lavoro e dei propri impegni, la poteva vedere sì e no qualche mattina e alcune sere nell’arco della settimana. Era ancora molto giovane e non era un segreto che avesse partorito la prima volta a diciotto anni. Ora ne aveva trentasei e per una donna di quell’età avere già una figlia maggiorenne era raro.

Eve afferrò il sottile plico di posta e, una volta varcata la soglia, si occupò di posare il tutto sul tavolo della cucina. Non si curò di posare lo zaino e la sacca che portava sulle spalle, né si slacciò la giacca, decise di dare una scorsa veloce alle buste e poi volare al piano di sopra per la doccia.

Bollette, alcune riviste indirizzate a sua madre, volantini pubblicitari.

Nulla d’interessante, solo una lettera silenziosa e dai mille timbri diversi giaceva placida tra la routine.

Una piccola, anonima busta.

Eve notò che il recapito era stato barrato, il vecchio indirizzo sostituito molto probabilmente da un segretario delle poste, che si era premunito di scrivere quello nuovo a fianco. Poi voltò di nuovo la lettera per constatare che non c’èra il nome di alcun mittente, ma doveva sicuramente provenire da molto lontano perché i francobolli non erano quelli giapponesi ed inoltre era stata timbrata più volte.

Finalmente si decise ad aprirla.

Non appena gli occhi incontrarono le prime righe, la sua espressione mutò da incuriosita a turbata. Aggrottò le sopracciglia, la data era di diversi mesi addietro.

Un tuffo al cuore.


“Cara Eve,

sono sicuro che mamma non leggerà mai queste righe, per questo mi rivolgo solo a te.

È trascorso da poco il mio sedicesimo compleanno, forse ti ricordi che sono nato il 10 di giugno e volevo augurare a te un buon diciottesimo compleanno. Così anche la mia sorellina è diventata maggiorenne! Come ci si sente?

Credo di dover smettere con questa commedia e passare a svelarti subito il motivo per il quale ti sto scrivendo queste poche righe.

Papà sta molto male. Gli è stato diagnosticato un cancro al fegato.

Non riesco ad usare parole che possano alleviare la notizia, o fare in modo che questa giunga a te in modo meno diretto, non ci riesco.

I medici dicono che si potrebbe guarire con un trapianto, ma lui è fermamente convinto di non voler subire alcuna operazione.

Sta peggiorando, morirà tra qualche tempo. Continua a ripetere nel sonno il nome di Nicholas e dice non preoccuparmi per lui, ma io lo sento, lo vedo, lo avverto vecchio, cambiato, deteriorato.

Eve, ho paura. Tu sei l’unica a cui possa rivolgermi.

Per cui ti prego, non buttare via questo foglio di carta e appena puoi chiamami, ho riportato in calce tutti i numeri e gli indirizzi a cui puoi fare riferimento.

Ti voglio bene,

Dex.”


La lettera le sfuggì dalle mani e toccò terra con un tonfo impalpabile e senza alcun suono.

Gli occhi fissi sulla busta.

La mente sgombera, quasi immersa in un limbo bianco e silenzioso.

Ci vollero diversi istanti prima che Eve si chinasse per raccogliere il foglio di carta e riporlo con flemma nella busta.

Si scostò dal tavolo e lasciò la cucina per raggiungere la propria camera da letto, aleggiante come uno spettro.

Infilò la lettera in un cassetto, avendo cura di richiuderlo con entrambe le mani.

Mentre si muoveva, i suoi occhi vuoti, spenti, erano fissi e vacui.

Una volta arrivata nella sala da bagno, si premunì di aprire l’acqua calda, lasciando che il vapore cominciasse a formarsi. Lasciò cadere ogni indumento l’uno sull’altro, senza badarvi; la sua pelle bianca pareva silenziosa e delicata quanto il suo stesso animo in quell’istante surreale.

Soltanto mentre si immergeva nella vasca stracolma d’acqua fumante, cominciò a riprendere contatto con la realtà. Le sue movenze ed i gesti vuoti scomparvero dal suo immediato ricordo, fu come se fino ad allora si era trovata in uno stretto passaggio onirico dalle forme e dai colori distorti.

Papà.

A stento ricordava la sua faccia.

Eppure non erano passati dei secoli, aveva semplicemente voluto dimenticarlo.

Ed ora... non era possibile che stesse per morire anche lui.

Le parole che aveva appena letto le sorsero alla mente come se in quell’istante stessero fluttuando nel vapore, sopra di lei.

Morire. Cancro. Rifiutare l’operazione.

Perché?

Ripetere il nome di Nicholas.

Eve ebbe un fremito di rabbia e frustrazione.

Nicholas era soltanto suo.

Un nodo duro e tagliente le attraversò la gola, per fermarsi giusto sotto il palato. Non doveva piangere, non di nuovo.

Aveva fatto una promessa a sé stessa.

Già... quante promesse si era fatta da quel giorno. E nonostante non ne avesse infranta nemmeno una, sentiva che ciò che aveva costruito con fatica, ciò che si era sforzata di dimenticare, ciò che con lacrime e sangue era riuscita a rimettere in piedi... che tutto questo era sul punto di essere abbattuto di nuovo, come un castello di carte.

E poi c’era Dexter.

Pena? Compassione? Angoscia? Che avrebbe fatto se papà fosse morto?

Nonostante fossero anni che non riceveva sue notizie, lo ricordava come un ragazzo sensibile che si sforzava di mostrarsi forte per non cadere.

Non avrebbe mai retto se l’avesse lasciato: suo padre era l’unica persona che aveva vicino, contava su di lui, era un esempio, gli voleva un gran bene.

Il mondo intorno a lei stava crollando. Per un’ennesima volta le pareti della sua vita stavano lasciando andare la loro aria solida e si liquefacevano come burro. Inconsistente.

Che doveva fare? Che diavolo doveva fare?! Chiamare il fratello? O fare finta di non aver mai ricevuto quella lettera?...

L’unico concetto che riuscì a porre su un piano razionale fu il desiderio di non rimanere chiusa tra le quattro mura di casa, ma di rimanere sola, nel vento. Di camminare tra anonime facce bianche, mescolarsi tra la folla e tentare di annullare la sua identità, la sua individualità che tante, troppe volte, le aveva ridotto in pezzi il cuore.


Si sentiva la testa pesare come se il suo collo dovesse sostenere un macigno.

Ma dove diavolo si trovava?

Chi se ne importa.

Continuava a camminare, senza badare a nient’altro.

Si fermò conto quello che le parve un muro e sospirò.

Il suo girovagare disperato l’aveva condotta in tre differenti locali di cui ignorava addirittura l’esistenza ed ora si trascinava lungo un’ampia strada deserta.

Strano per essere un sabato sera, di solito ogni via brulicava di giovani e coppie il cui scopo era quello di lasciarsi alle spalle le fatiche di un’intera settimana, divertirsi e staccare la spina.

Chissà dove si trovava? Scosse forte la testa per levarsi di dosso quella sensazione di confusione e stordimento, ma non fece altro che peggiorare le cose: il mondo vorticava vertiginosamente intorno a lei e solo quando chiuse forte gli occhi accennò a fermarsi. Affondò le mani nelle tasche, per poi estrarne poco dopo il pacchetto di sigarette. Ne portò una alle labbra e sospirò di nuovo, mentre l’accendeva con mano tremante.

Si rimise l’accendino in tasca ed inspirò profondamente il tabacco.

Guardò fisso davanti a sé, poi attraversò la strada a passi lenti e strascicati, appoggiandosi poi al parapetto della strada. Fissò giù, in basso: un dirupo piuttosto scosceso... e poi le luci della città. Tirò di nuovo e si sedette dando le spalle al centro abitato.

Si sentiva ebbra, malinconica e stordita allo stesso tempo, la sua mente non riusciva a canalizzare più alcun’idea lineare e coerente; non sapeva nemmeno ciò che stava facendo.


- A casa non risponde.- annunciò inquieta Ayame, riappendendo la cornetta.

- Non ti preoccupare, vedrai che ha avuto qualcosa da fare o si è semplicemente dimenticata.- Kazuki le mise una mano sulla spalla, Aya sospirò.

Ken invece non era per niente tranquillo.

- Io direi che possiamo tornarcene a casa. È quasi la una.- fece Kojiro, lanciando un’occhiata al padrone di casa. Takeshi annuì, seppur mantenendo la sua aria poco serena. Accompagnò gli amici fuori, rammaricato. Chissà perché Eve non aveva neppure avvertito che non sarebbe venuta...

- D’accordo.- fece poi, rassegnato.

Il volto pallido di Ayame fece capolino dall’auto di Kazuki, rivolta al portiere, che era rimasto pensoso sulla soglia del basso cancello bianco.

- Che fai, non vieni?- gli chiese, dal sedile anteriore. Ken scosse il capo.

- No, vado a piedi. Tanto abito qui dietro e due passi non possono farmi certo male.- fu la sua risposta vaga.

- Come vuoi, ci vediamo!- lo salutò il ragazzo, in posizione di guida. Prima di allontanarsi, Wakashimazu fece in tempo a cogliere un nuovo sguardo di Kojiro, eloquente, come se si stesse raccomandando di fare attenzione.

Ken alzò una mano in cenno di saluto e si allontanò dalla casa dell’amico più giovane, dopo aver rivolto anche a lui un silenzioso ‘a presto’.


Niente. Le luci erano spente e al campanello non rispondeva nessuno. Era di sicuro fuori.

Il portiere si spostò lungo il marciapiede, forse era meglio tornare.

Così si allontanò anche dall’abitazione di Eve e si diresse verso casa propria, passando davanti al campo che era stato teatro del loro secondo, rapido incontro.

Fu allora che notò una figura trascinarsi sulla strada, in direzione opposta. Un’ombra quasi conosciuta, al di là della terza rete, che lo spinse ad avvicinarsi.

- Eve! Ma dove... - esclamò, una volta riconosciutola, afferrandola per le spalle.

- Non urlare!- gridò lei, seppur non avendo cognizione dell’identità dell’interlocutore - Mi fa male la testa...- aggiunse in un soffio, appoggiandosi pesantemente al muretto con la schiena, poi si batté forte una mano sulla fronte.

Tirò un’ultima volta dalla sigaretta, poi gettò il mozzicone sulla strada.

Ken fu investito da un penetrante ed intenso l’odore misto d’alcool e fumo, tanto che sul suo viso si disegnò un’espressione tra lo stranito e l’irritato.

- Sei ubriaca!- esordì, stentando a credere ai propri sensi.

- Non è vero... mai stata meglio. - balbettò Eve, in tutta risposta.

Lui le si avvicinò di nuovo, guidandola fino ad una panchina poco più in là, accanto alla fermata deserta dell’autobus.

La ragazza emetteva gemiti di dolore intervallati da sospiri rotti, evidentemente si sentiva come se le stesse scoppiando la testa. Frugò nervosamente nella tasca del giubbotto ed estrasse il pacchetto di sigarette, quando lo aprì si accese l’ultima e lanciò di nuovo l’involucro in mezzo alla strada. Poi prese a giocare con l’accendino, passandoselo tra le dita e accendendolo a tratti.

Ken non parlava, fissava soltanto il volto sfiancato e contratto di Eve illuminarsi per brevi istanti e poi ripiombare nel pallido bagliore dei lampioni.

- Che hai da guardare?- sussurrò lei, infastidita.

- Che ti è successo?- ribatté lui, senza tono.

Eve non vi badò, anzi, si alzò di scatto e prese a cantare.

- Io non so come dirgli che non voglio sprecare il mio tempo... Quando mi sentivo così stanca... ho lasciato cadere tutto quanto... Io non voglio sprecare il mio tempo... Dimmelo tu, come faccio a dirgli che non ho più tempo... - erano parole di una vecchia canzone che non credeva le fosse rimasta impressa - da sobria non l’aveva mai nemmeno fischiettata una volta - forse per il significato delle parole, forse per la melodia.

Ci volle poco perché la voce pesante della ragazza si tramutasse in urla quasi disperate. Per Ken era un supplizio ascoltare quella voce che più volte aveva ritenuto calda e matura, così storpiata e vedere la stessa Eve talmente ubriaca da non riconoscerlo neppure.

La raggiunse in piedi, tappandole la bocca con una mano.

- Ma sei matto?!- protestò la bionda - Così mi soffochi! Mi soffooooochi!!- finì per tramutare le ultime parole in falsetto, nel tentativo di riallacciare la melodia.

Nell’animo di Wakashimazu si fece largo uno strano sentimento di nervosismo; più le si faceva vicino e più l’acre odore di fumo e alcolici gli invadeva le narici e più tentava di darsi una spiegazione razionale, più lo sconvolgimento di sapere Eve in quello stato mandava all’aria ogni pensiero sensato.

- Un momento... ma noi ci conosciamo... - gli piantò in faccia i suoi occhi azzurro cupo, fissandolo così da vicino che quasi con la bocca poteva sfiorare il suo mento.

- Gattino!!- esclamò allontanandosi di scatto e ridendo - Che bello vederti! Hai fatto i tuoi allenamenti? E gli altri?-

Eve si frenò di colpo, ed altrettanto di colpo smise di sorridere.

- Oh... ma oggi non dovevamo andare da Takeshi?... mi sono dimenticata!!- scoppiò di nuovo in una risata fragorosa. Era effettivamente fuori di sé.

Ken non aveva ancora accennato alcuna parola, si limitava ad osservarla con dipinta sul volto un’aria dura.

Cosa diavolo le era saltato in mente di fare?! Mentre i suoi occhi erano fissi su di lei, la prima cosa che si trovò a pensare fu solo che si stava rovinando; stava maltrattando il suo corpo, con il fumo, l’alcool... e il suo bel viso, fino ad allora così serio, coscienzioso e riflessivo.

Quella sera era tutto trasformato. Tutto di lei aveva mutato forma: il volto era stravolto e il sorriso isterico, le movenze nervose ed incontrollate.

Non poté attendere oltre, così si appressò un’ultima volta a lei, che non aveva frenato un attimo la sua convulsa risata. Ora si stava togliendo la giacca e la felpa che aveva indossato quella sera e le stava gettando sul marciapiede, mentre faceva delle giravolte su sé stessa e si scopriva le braccia, tenendo la sigaretta stretta tra le labbra.

- Neveeee! Neeeeve!!- invocava al cielo.

- Basta! Eve, smettila!!- Ken afferrò la sigaretta dalla sua bocca e gliela strappò dalle labbra, gettandola via. La scosse, agguantandola di nuovo per le spalle con una stretta ferrea. La ragazza perse d’un tratto il suo confuso sorriso, per coprirsi il viso con i pugni, fissando gli occhi scuri e arrabbiati di Ken sotto la luce fioca del lampione, da dietro le dita.

- Fammi male! Picchiami!! Voglio andare da Nicholas!!- urlò di nuovo - Portami da Nicholas!-

Lui fu colpito da una sordida confusione, all’udire quelle parole, ma il buon senso gli intimò di non perdere altro tempo, tentare di calmare Eve e riportarla a casa.

- Eve, ora basta. L’ultima cosa che farei è picchiarti.- le disse senza rabbia, diminuendo la presa su una spalla e prendendole quasi dolcemente entrambe le mani con la sua.

- Adesso basta!- urlò di nuovo lei - Mi sono stancata di costruire tutta questa montagna di stronzate! Lasciami andare da Nicholas... Nicholas...- il tono della voce della ragazza si stava smorzando, mano a mano che con dolore invocava quel nome, ma le mani erano tornate all’altezza del petto di Ken ed ora battevano forte, straziate.

Wakashimazu avvertì una forte nota di spasimo nella sua voce, che gli penetrò fin dentro il cervello. Per un qualche strano, sconosciuto motivo, fu quasi sul punto di non respirare più. Un’oscura sensazione di contrarietà gli percorse le vene, giungendo fino alle mani, che presero a prudergli come se da un momento all’altro fossero pronte a prendere a pugni l’intero mondo.

- Non ti farò male, capito?- si chinò su di lei, canalizzando quella sensazione in un abbraccio. Le cinse la vita ed il capo, guidandola stretta a sé e portando la sua fronte fredda e sudata accanto al proprio collo tonico e profumato di colonia.

- Ora calmati, mi capisci, Eve? Eve, ci sono io. Ci sono io... sempre.- con ritmo cadenzato, ripeté volutamente le medesime parole più volte, dandole modo di percepirle e di placare la rabbia, l’ebbrezza, il dolore.

Il suo sussurro le giunse chiaro, nonostante la confusione, la nebbia dei sensi. E la sua bocca sulla propria guancia le procurò una calda emozione di famigliarità, di protezione.

Il contatto le fece spalancare gli occhi, incredula. Perché la stava abbracciando?

Perché la stava proteggendo?

Perché la stava conducendo via, lontano da Nicholas?


Finalmente giunse dinnanzi all’uscio di quella casa che aveva sorpassato qualche ora prima. Le luci erano tutte spente, provò a suonare al campanello, ma non ricevette risposta.

Era evidente che non c’era ancora nessuno.

Fece scendere Eve dalle sue spalle con un’attenzione piuttosto riservata, mentre frugava in una sue delle tasche sperando di trovare le chiavi.

Intuizione corretta, dal momento che la ragazza non aveva con sé una borsetta. Ci volle poco perché il piccolo mazzo metallico gli scivolasse tra le dita, accompagnato dallo scampanellio del portachiavi d’argento.

Infilò la più grande nella serratura, palesemente la chiave d’ingresso - di quelle che si fabbricavano per i portoni - e dopo un po’ di giri la porta si poté aprire.

- Dov’è la tua stanza?- le sussurrò. Lei alzò fiaccamente lo sguardo, accompagnato da un debole gesto con la mano, verso le scale. Il portiere la aiutò a salire i gradini, sorreggendola finché raggiunsero la prima porta in legno bianco, che fortunatamente era proprio la stanza di Eve.

Ken accese la luce e la fece distendere sul letto, mentre lei si copriva gli occhi con le dita, infastidita dal bagliore improvviso.

Gli occhi del ragazzo spaziarono per la stanza, una volta preso un sospiro profondo; involontariamente si trovò ad incontrare schizzi sparsi sulla scrivania scura, matite e pennini senza cappuccio, righelli e tempere scoperte. Sulla parete, invece, fissate con delle puntine rosse, tavole intere dipinte e perfettamente rifinite, sfumate, particolareggiate. Un paesaggio, ritratti, montagne e poi... i mulini dell’Olanda.

Scostò lo sguardo, di nuovo sul tavolino basso, dove ancora un grande foglio giaceva incompiuto. Eve stava lavorando su uno studio di un guerriero, a quanto pareva. Stava rifinendo le circonvoluzioni di un’armatura decisamente complessa e l’elsa di una spada intarsiata e luminosa. Prese quel grande foglio tra le dita, per un angolo, stando attento a non rovinare o compromettere nulla e fece per lodare mentalmente la bravura e la pazienza della compagna, quando un nuovo pezzo di carta, più piccolo e certamente non destinato alla lavorazione con dei costosi colori, scivolò giù dalla scrivania.

Ken si chinò a raccoglierlo, ma si fermò rimanendo accovacciato e con l’espressione piacevolmente stupita che aveva assunto nel riconoscere sé stesso, Kojiro e Takeshi raffigurati come dei piccoli personaggi un fumetto, mentre si scambiavano delle vicendevoli boccacce infantili. Era carino, tanto che si trovò a sorridere di tenerezza.

Ed era altrettanto carino e lusinghiero sapere d’essere - almeno ogni tanto - nei pensieri di Eve.

- Nevica...?- il sussurro di lei lo strappò alle sue considerazioni.

- No, non nevica.- rispose lui, mentre riappoggiava il foglietto sul ripiano e si slacciava il giubbotto. Eve era ancora sdraiata con il dorso di una mano sul volto ed un’espressione vuota.

- Peccato. Tu dici che nevicherà?- farfugliò ancora.

- Non lo so.- fece Ken, posando la giacca su una sedia ed afferrando la coperta che stava sulla poltrona poco distante. Mentre faceva sedere Eve e la liberava dalla felpa maleodorante di fumo, avvertì il tocco gelido delle sue mani.

Si affrettò a circondarle le spalle con il plaid, sfregando al contempo le proprie braccia su quelle della ragazza, che però, d’un tratto, si ritrasse e si circondò i bicipiti con le mani.

- Non... non toccare il mio braccio...- mormorò, quasi incerta ed ancora annebbiata.

Alla mente di Wakashimazu sorse il ricordo della fasciatura che Eve aveva portato quell’estate, durante i loro primi incontri. Poi erano sopraggiunte le maniche lunghe e così non aveva più avuto occasione di accertarsi se la ferita fosse guarita oppure no o, semplicemente, aveva convenuto fosse stato così, legittimo dopotutto.

Ma in quel momento quel pensiero passò presto in secondo piano, ciò che contava era che lei si sentisse meglio al più presto e, da parte sua, capire per quale motivo Eve avesse fatto una cosa tanto stupida in un momento così apparentemente sereno.

La strinse a sé, allontanando le mani dal suo braccio e passandogliele sulle spalle, che trasse verso il proprio petto.

Per un attimo le parve di avvertire il profumo intenso di Ken. Le parve che Ken, il portiere, la stesse davvero abbracciando, riscaldando, proteggendo... e non fosse tutto solo un brutto sogno od un’allucinazione.

Il ragazzo abbassò lo sguardo e discostò il viso della ragazza dal suo collo. Il suo fiato caldo e profondo gli aveva fatto ben intuire che si fosse addormentata.

Guardò distrattamente l’orologio, erano quasi le due e mezzo.

Decise su due piedi di non tornare a casa, quasi non fece in tempo a razionalizzare il pensiero. Sua madre sapeva che se non rincasava, era perché si fermava a dormire da Kazuki, capitava spesso, non c’era ragione di farla preoccupare.

Rimase lì, in quella stessa posizione, ancora per qualche istante. Teneva ancora Eve tra le braccia, mentre il suo petto si alzava ed abbassava ad intervalli regolari.

Dietro quel volto marmoreo e silente era convinto fosse nascosto qualcosa di molto più difficile da immaginare che una lite familiare, una divergenza o una semplice serata allo sbando, quale poteva essere la causa delle azioni della ragazza, quella sera.

Lasciò che, allentando la presa, il corpo di Eve si distendesse placido sul materasso, mentre lei seguitava ad essere immersa nel sonno. Fece per alzarsi dal letto e dirigersi verso il bagno per rinfrescarsi il viso, quando fu preso da una strana curiosità. Le sue attenzioni si canalizzarono di nuovo in blocco su di lei, tanto che, quasi senza nemmeno accorgersene, si trovò a scoprirle parzialmente il braccio dal lembo della coperta e dalla corta manica della maglietta, finché la pelle libera dalla fasciatura poté rivelare ciò che con tanta tenacia voleva essere a tutti i costi celato.

Una cicatrice.

Un profondo sfregio trasversale proprio sul bicipite.

Per quanto poco se ne intendesse Ken, immaginò che non fosse così recente; si trattava di una ferita già rimarginata da tempo e che di certo non si rifaceva a quell’estate. A giudicare dalla profondità del taglio, era come se ciò che l’avesse colpita con tanta veemenza da penetrarle nella carne, risalisse ad un tempo decisamente molto anteriore addirittura a quello stesso anno.

L’ovvia domanda che si pose fu come fosse potuta accadere una cosa simile. Che cosa o chi l’aveva ferita. E com’era mai potuto succedere. In quale occasione, per quale ragione.

Realizzò in poco tempo che, dunque, la fasciatura che portava non era nient’altro che un modo per nascondere la lesione. Per occultarla e quasi... proteggerla, come se gli occhi del mondo potessero riaprirla soltanto guardandola.

Fu un attimo, un soffio, un sospiro.

Le sue dita spaziarono su quel braccio niveo e a poco a poco più tiepido, fino a delineare con una carezza i contorni della cicatrice, tanto dolcemente quasi avesse timore di frantumare un cristallo.

- Che cosa succede, Eve?- bisbigliò, poggiando la propria fronte sulla sua e lasciando che l’oro e l’ebano dei loro capelli si mescolassero in una danza fluente.


Passi pesanti sul pavimento, talloni che battono forte sulle mattonelle nude, poi un acuto colpo di tosse e un lamento soffocato.

Ken aprì lentamente gli occhi.

Il sole inondava la stanza, già alto, tanto che fu costretto a coprirsi gli occhi con una mano per evitare il classico bruciore del mattino.

Si sfregò le palpebre e si stiracchiò stancamente, scostandosi dalle coperte ancora calde e prendendo a guardarsi intorno alla ricerca della confusa compagna di quella notte, ma non trovando altro che la porta del bagno semiaperta dinnanzi al suo volto ancora assonnato.

Decise di alzarsi, nonostante avesse dormito con addosso jeans e maglietta - ora inutilmente ed inevitabilmente stropicciati. Riconoscendo lo scroscio dell’acqua, si avvicinò alla già socchiusa soglia del bagno e con un leggero colpo delle nocche, l’aprì.

Eve era china sul lavandino, tossendo forte e bagnandosi la faccia con ampi getti d’acqua gelida. Lui non disse nulla, solo afferrò l’asciugamano accanto al ripiano e glielo porse.

- Non mi serve aiuto.- la voce della ragazza gli suonò quasi metallica e le sue parole più assurde che superbe.

- Non dire stupidaggini, lo vedi come sei ridotta?- si sentì di replicare, incredulo.

Lei chiuse con veemenza il getto, poi tornò ad appoggiarsi con le mani serrate alla ceramica nivea del lavandino. Era come se mille tamburi le stessero rombando nelle orecchie ed i colpi delle bacchette si scagliassero direttamente contro le pareti del suo cervello.

- Ho detto che non mi serve aiuto!- ripeté, nervosa, stavolta alzando la voce.

Ken immaginò che non dovesse essere ancora in sé, dal momento che l’irrequietezza del suo tono era percepibile a fior di pelle, così si avvicinò di nuovo, poggiandole un braccio sulla schiena e l’altro a tenderle l’asciugamano.

- Non prendermi per una bambina stupida!- gli strappò la salvietta di mano - Non mi serve il tuo aiuto! Levati dai piedi!- si discostò di scatto, con un grido quasi isterico.

Per un attimo a Wakashimazu salì in gola l’istinto di afferrarla per le spalle e scuoterla violentemente, finché non avesse perso i sensi ed allora... allora avrebbe potuto trarla di nuovo a sé e saperla tranquilla.

- Finiscila! Non ti lascio qui in questo stato!- si trovò invece a ribattere, infastidito.

- Piantala di fare il premuroso, non ti ho certo chiesto io di aiutarmi!- gli occhi azzurri di Eve erano colmi di grigio rimorso - E adesso levati dai piedi!-

Lui contrasse i pugni, scuotendo il capo. Che diavolo le era preso, tutt’un tratto?

- Eve tu non sai quello che dici! Non sei ancora del tutto sobria!- asserì, con espressione inasprita - Hai corso un bel pericolo ieri notte ed hai avuto fortuna che t’abbia trovata! Non sai chi avresti potuto incontrare, quanti pazzi potrebbero abusare di una ragazza che non capisce niente?! Fin troppi!-

- Ah, sì?- la bionda si scostò un ciuffo dal viso, portandosi una mano al fianco - Allora immagino che tu ti sia divertito parecchio con me mentre non capivo un accidente!- le parole le uscirono dalla bocca senza averle pensate.

Il capo le doleva atrocemente, le pulsavano le palpebre, arrossate; avvertiva il battito del proprio cuore salire a mille, non si ricordava di nulla e, mentre gridava, pareva che la testa le stesse per scoppiare da un momento all’altro.

E, dopotutto... silenzio.

Si fissavano negli occhi senza aggiungere nulla, solo le gocce del rubinetto mal chiuso scandivano il procedere del tempo. Eve avvertiva pesantemente la rabbia di quei pugnali scuri e penetranti, immobili dentro i suoi occhi.

Rimasero lì, lei che tentava di mantenere un’espressione cinica ed indifferente, ma maliziosamente altezzosa e lui, che si sarebbe mangiato il fegato pur di farle comprendere che non c’era nulla a cui alludere e che razza di azzardo concreto aveva corso la sera prima.

Ma fu un attimo.

Ken si voltò, varcò prima la soglia del bagno, al contrario, afferrò la giacca e si tirò dietro quella della stanza da letto.

Se ne andò.

Ed Eve restò sola con il rumore rimbombante nella sua testa dell’uscio sbattuto brutalmente.

Indugiò in piedi con l’asciugamano in una mano per qualche secondo poi, quando udì anche la porta d’entrata chiudersi con la medesima violenza, sussultò e si svegliò da quella specie di trance.

Il mondo intorno a lei ricominciò a vivere; si gettò in ginocchio e con rabbia strinse gli occhi, scagliando un pugno al pavimento.

Le nocche si fecero rosse quasi subito e lo spasimo del colpo si propagò in tutto il suo fisico già svigorito.

- Dannazione!- urlò con tutto il fiato che aveva in corpo, prolungando la parola in un grido.

Non le importava del dolore lancinante che aveva alla testa, non le importava del suo corpo che pareva sfaldarsi, non le importava assolutamente di nulla se non di lui, l’unico a cui pareva importare qualcosa di lei... le aveva voltato le spalle... e se n’era andato.

Non una parola. Niente. Era stato orribile, una sensazione orrenda, e la cosa peggiore era ch’era stata proprio lei a volerlo. Gli aveva rivolto parole che non avrebbe mai potuto nemmeno pensare di indirizzargli.

Era stata crudele ed ingrata.

E lui? Lui si era occupato di lei senza chiedere nulla, anzi, dimostrando addirittura apprensione.

Sebbene si ricordasse poco o niente di quella notte, dei flash le soggiunsero dinnanzi agli occhi, come la fermata dell’autobus, l’alcool... e poi?

Wakashimazu l’aveva evidentemente portata a casa e le era rimasto vicino fino alla mattina. Quando si era svegliata aveva avvertito una strana sensazione di calore e protezione, come se qualcuno la stesse cullando.

Solo quando realizzò che quel qualcuno non era parte di un sogno, ma era proprio Ken, era corsa subito in bagno, dove era rimasta fino a quel momento.

Un conato improvviso la colse, facendola voltare di scatto verso il lavandino, dove cominciò a tossire impetuosamente, quasi con rabbia, tanto da farle parere di star rigettando lo stomaco intero.


Ken aveva l’aria di essere veramente furibondo.

Si fermò di scatto, piegandosi sulle ginocchia.

Il sole della domenica pomeriggio brillava tenue sulle strade velate di brina. Era uscito a correre un po’, nonostante il freddo. Era da pazzi, ma non riusciva a restare fermo.

Si domandava ancora che diavolo si fosse messa in testa Eve e se, soprattutto, aveva fatto bene ad andarsene e lasciarla sola, pieno di rabbia.

Sicuramente aveva ancora bisogno di una mano, aveva l’aria di dover rigettare da un momento all’altro, eppure non aveva retto all’insulto. Non si credeva così scioccamente permaloso.

Certo, l’azione di Eve poteva considerarsi benissimo un’evasione che prende tutti prima o poi, ma gli era rimasto impresso il suo comportamento, era quasi sul punto di piangere dalla rabbia, o forse dal dolore e l’aveva implorato di farle del male.

Si era sentito morire. L’aveva abbracciata, stretta quasi a soffocarla per implorarla di smettere. E le aveva assicurato la sua costante presenza... sempre.

In quell’istante, mentre pronunciava quella parola, si sentiva più sicuro e più distrutto che mai a dover assistere ad uno spettacolo simile. Ovvio che non l’avrebbe mai colpita... e poi quel nome: Nicholas.

Si era chiesto più volte chi fosse, dove fosse e perché Eve volesse raggiungerlo. Forse in Europa o magari a Okinawa... erano tutte domande a cui non sapeva rispondere e gli bruciava non poterlo fare. Per la prima volta si era sentito totalmente impotente, incapace di evitare uno scontro verbale, non all’altezza di sostenerlo.

E così si era allontanato, sebbene in quell’istante desiderasse ardentemente essere rimasto ed essersi preso cura di Eve fino alla fine.

Sospirò pesantemente e riprese a correre, proprio nel momento in cui il ricordo della notte di sonno trascorsa accanto a lei gli affiorò tiepido alla mente.


Quella mattina raggiunse la scuola in tutta calma, quasi non avesse voglia di entrarvi.

Non era né in anticipo né in ritardo, se l’era semplicemente presa comoda. Ormai si sentiva meglio, a parte l’umore. In verità avvertiva ancora un po’ di mal di testa, ma non pareva preoccuparsene più di tanto.

Era stata più di un’ora sotto la doccia, voleva lavare via quel senso di tristezza, rabbia e frustrazione che aveva addosso, ma evidentemente non ci era riuscita.

Non faceva che ripensare a ciò che aveva fatto, alla lettera, allo smarrimento e poi lo sconcerto, l’alcool... e Ken.

Una fitta le strinse lo stomaco, mentre un nuovo nodo in gola le impedì di deglutire.

Lo aveva davvero trattato da schifo. Non lo meritava di certo, ma si era subito resa conto che lui si era preso troppa confidenza. Non era questo ad averla infastidita a quel modo, anzi le faceva quasi piacere ma... ma non poteva permettere a nessuno di entrare nel suo cuore, di guardare ciò che conteneva ed addirittura di sperare di farne parte.

Non lo poteva permettere.

Era già troppo il fatto che Ken desiderasse proteggerla. Troppo. Eppure sentiva in seno un tremendo senso di colpa.


Stava... stava camminando verso di lei! Oh, meraviglia! Stava fissando proprio lei!

Mizuki si stava sciogliendo. Il suo piano infallibile aveva colpito ancor prima di essere messo in atto!

Difatti sarebbero dovuti partire per la gita di lì a poco, ma ciò che stava accadendo andava al di là di ogni sua più rosea previsione.

Così tentò di disegnare sul proprio volto il suo solito sorriso spontaneo, ma l’unico risultato che riuscì ad ottenere fu il nulla totale: Kojiro le passò di fianco senza badare minimamente a lei.

Mizuki fu spiacevolmente sorpresa, aggrottò le sopracciglia e fece per corrergli dietro, quando fu fermata da un ragazzino che le si piantò dritto tra i piedi.

- Ehi!- si lamentò lei - Vuoi farmi venire un infarto?-

Il ragazzo socchiuse gli occhi scuri sorridenti e rise.

- Scusa! Non volevo farti spaventare!- la trovava a tratti buffa.

- Ci mancherebbe altro! Ora levati!- esclamò Mizuki, cercando di seguire Kojiro almeno con lo sguardo.

- No, no! Un attimo! Volevo chiederti una cosa!- le andò dietro, fermandola di nuovo.

- Cosa vuoi?- sospirò la ragazza, alzando gli occhi al cielo, mentre il capitano del Toho spariva giù per le scale.

- Tu sei molto amica di Eve, vero?- domandò Takeshi, tentando di catturare l’attenzione dell’improvvisata interlocutrice. L’altra assunse un’espressione interrogativa.

Amica? Mh, per quanto riguardava lei, sì certamente, Eve era una grande amica... ma non era molto sicura che l’altra ricambiasse con così tanto trasporto. Ad ogni modo annuì.

- Volevo solo sapere se tu sai cosa le prende. È da lunedì che la vedo così... vuota. Hai notato?-

Mizuki annuì ancora, accantonando del tutto il sogno di salutare il bel cannoniere.

- Sì, ma non so che le sia successo. Però quando è così preferisce essere lasciata sola, non chiederle che ha e soprattutto non offrirti di aiutarla, non lo accetterebbe mai e ti risponderebbe male. E’ uno di quei periodi no che vengono a tutti, non ti preoccupare.-

Gli si stava rivolgendo con molta confidenza anche se in realtà non gli aveva mai parlato prima e, soprattutto, accidenti! La colse un brusco ritorno alla realtà: Kojiro era sparito! Sbuffò profondamente, portandosi le mani ingioiellate ai fianchi.

- Mh... spero le passerà!- replicò lui - Comunque, grazie!- sorrise ancora, prima di voltarsi e fare per andarsene. Mosse due lunghi passi di corsa lungo il corridoio, poi si voltò di scatto e tornò indietro.

- Scusa, non mi sono nemmeno presentato. Io mi chiamo Takeshi!- il ragazzo non smetteva di sorridere e di nuovo se ne andò così come era venuto, non lasciando neanche il tempo a Mizuki di dirgli il suo nome.

Piuttosto alienato per i suoi gusti, quel tizio.

Poi scosse la testa e tornò improvvisamente seria.

Eve... possibile che si tratti ancora di Nicholas...? pensò, dirigendosi a passi lenti verso il cortile esterno, dove sperava di incrociare di nuovo Kojiro.


Era stato tutto un gioco di sguardi per un’intera settimana: lui la fissava, poi distoglieva lo sguardo, lei lo guardava e repentinamente si voltava.

Ken sospirò.

Non aveva detto a nessuno ciò che era successo, aveva solamente spiegato agli altri che Eve non si era sentita bene.

Ma pensandoci e ripensandoci era giunto alla conclusione di non poter più reggere quella situazione. Le avrebbe parlato non appena fosse capitata l’occasione.

Ayame camminava accanto a loro, Ken e Kojiro.

Eve se n’era già andata e quel giorno Kazuki non c’era. La ragazza non aveva nemmeno provato a parlare con la sua compagna. La vedeva fredda, distaccata... e ad un certo punto aveva inteso che c’era qualcosa che non andava. I suoi occhi non avevano espressione, stava piuttosto male - o perlomeno non bene - ed Ayame l’aveva compreso, nonostante la volontà di Eve di dissimulare l’apparenza.


Aveva deciso di partecipare comunque alla gita, stare lontano da casa le avrebbe fatto solamente bene - senza contare che aveva versato la caparra almeno due settimane prima.

Eve si voltò appena in tempo verso il corridoio principale e vide Ayame arrivare di corsa.

- Ciao!!- esclamò quest’ultima, riprendendo fiato. Si era prefissa di far tornare alle stelle il morale di Eve, cercando di essere il più allegra possibile - un’impresa piuttosto difficoltosa anche per lei.

- Ehi, che allegria!- l’altra si sforzò di sorridere.

- Già! Dovresti sorridere anche tu! Da oggi abbiamo quattro giorni da trascorrere insieme! Non sei felice? Entusiasta? Non stai nella pelle, nh?- le batté una mano sulla spalla, provando una tattica più diretta.

Eve sorrise di nuovo, ma si limitò a non aggiungere altro.

Quando salirono sull’autobus, erano già stati divisi in gruppi per ogni due classi. La ragazza si diresse senza pensarci due volte verso uno degli ultimi posti in fondo, seguita da Ayame e ben presto furono raggiunte da Ken e Kojiro che litigavano tra loro.

- Ti ho detto che non è colpa mia! Finiscila, Wakashimazu!-

- Ah, sì?- rispose bruscamente Ken - E allora a chi vuoi darla, questa colpa?-

- ...Takeshi!- fece a voce alta Kojiro, esclamando il nome del suo capro espiatorio.

Il portiere si sedette e scosse la testa, sciogliendosi in una risata, mentre Kojiro arrossì.

- Che hai da ridere?!- lo incalzò, tra l’imbarazzato e il contrariato - È... È il primo nome che mi è venuto in mente! Ken, piantala di ridere!!-

Il cannoniere si lanciò contro l’amico che, dal canto suo e a discapito dell’ordine del capitano, era energicamente piegato in due. Inutile resistere, trovava estremamente buffo quando Hiyuga perdeva le staffe in quel modo!

Ayame era sprofondata nella poltroncina, limitandosi a sorridere sotto i baffi. Non amava essere al centro dell’attenzione, né vicino ad una di quelle scene che avrebbero canalizzato gli occhi del resto della classe su di lei.

Eve, invece, si limitava a seguire la scena con la coda dell’occhio. Non rise, né accennò nemmeno un piccolo sorriso. Le sue labbra rimasero immobili e i suoi occhi tornarono a fissare fuori dal finestrino in pochi istanti.

Poco dopo venne alla luce il vero motivo del litigio: quei due rischiavano di fare tardi e, dal momento che i genitori di Ken erano già usciti, uno doveva svegliare l’altro suonandogli alla porta di casa. Ma Kojiro se n’era completamente scordato e a metà strada era tornato di corsa indietro, totalmente ed immediatamente memore di Wakashimazu che, se non avesse ricevuto il segnale concordato, avrebbe seguitato a dormire fino a mezzogiorno.


Teneva gli occhi chiusi mentre gli altri parlavano. Fingendo di dormire, era sprofondata nei suoi pensieri.

Il viaggio era quasi giunto al termine e pensava che se avesse tenuto gli occhi aperti, avrebbe fatto sentire a disagio gli altri, così immersa nel suo mutismo.

Ken si sistemò gli auricolari del lettore musicale ed affondò ancora di più nel sedile, non era certo facile divertirsi, vedendo Eve in quello stato. Ayame si era spostata, credendo che l’amica dormisse davvero ed ora stava parlando con quel suo speciale e dolcissimo sorriso assieme all’inavvicinabile Kojiro, il quale, stranamente, sembrava gradire la compagnia della ragazza.

Kazuki, invece, sembrava contrariato. Se ne stava in disparte ad ascoltare il discorso dei due con un’espressione poco bendisposta sul volto e le braccia incrociate al petto.

Si sistemarono in un albergo lontano dal centro di Onsensawa, immerso nel verde. I professori si erano dati un gran daffare per scegliere il luogo della sosta. Ovviamente ci sarebbe stato un gran numero di siti da visitare, ma questo non avrebbe avuto motivo d’essere d’intralcio al divertimento comune.

Aya appoggiò il borsone ai piedi del letto in cui avrebbe dormito, guardandosi intorno ed esaminando bene i particolari della stanza. Lo stesso fecero Eve e Mizuki.

- Che ne dite di andare a mangiare qualcosa?- sorrise Ayame.

- Ma tu pensi solo a mangiare?- la riprese Mizuki, lisciandosi uno zigomo, laddove era caduto un po’ di mascara.

- Eh? Ma... se è la prima volta che dico una cosa del genere... - si lamentò candidamente l’altra.

- Sì, certo! E tutti quei pranzetti, onigiri, bento e tortine che porti alla squadra?- Mizu era piuttosto stizzita, agitava un braccio con il caratteristico suono dei mille braccialetti tintinnanti sotto la manica del cappotto rosso.

- Finitela voi due.- sbuffò Eve - Siamo appena arrivati ed è quasi mezzogiorno. Concordo con Ayame.-

Mizuki sbuffò: due contro una, così si vide costretta a seguire le altre in sala da pranzo. Alcuni dei loro compagni erano già lì, seduti ai tavoli con i piatti colmi.

Parevano tutti fremere e doversi caricare a dovere per affrontare al meglio la prima interessante escursione della giornata. Così anche lei si gettò alle spalle l’impellente bisogno di punzecchiare Aya e si fiondò direttamente sul vassoio dei dolci, accaparrandosi immediatamente le sfoglie più grosse e zuccherate.


Eve si buttò sul letto con inerzia.

Accidenti, non aveva nemmeno più una sigaretta. Era sicura di averle finite qualche giorno prima, solo che poi non ci aveva nemmeno più pensato ed ora... ora le servivano proprio!

Sospirò lungamente e socchiuse gli occhi. L’uscita di quel pomeriggio era stata a dir poco sfibrante. I templi antichi erano senza dubbio interessanti, ma lei non era certo in vena di riscoprire le magnificenze del passato. Non quel giorno.

Mizuki aveva saltellato tutto il tempo con la sua macchina fotografica all’ultima moda, scattando una miriade di foto anche ai soggetti più improbabili, Kazuki e Ayame erano rimasti piuttosto distanti, mentre Kojiro e Ken sembravano i più normali di tutti - niente gridolini fuori luogo, né eccessivo entusiasmo.

Il pensiero delle sigarette la riportò immediatamente alla sera in cui Ken l’aveva trovata che vagava confusa per strada; i suoi pensieri al riguardo erano altrettanto disordinati.

Talmente annebbiati che le si chiuse immediatamente lo stomaco, quando un dubbio atroce prese a ronzarle per la testa. E se avesse detto o fatto qualcosa di equivocabile, mentre Wakashimazu era con lei?

Oh, maledizione.

Perché non ci aveva pensato prima?

Senza ragionarci due volte, si drizzò a sedere di colpo e cercò inutilmente di ricordare: vuoto totale, a parte ciò ch’era accaduto al mattino e momenti di cui già vagamente aveva cognizione. Forse era anche per una qualche cosa detta o accaduta che lui non le parlava più.

Un senso di impaccio e agitazione le si insinuò prepotentemente in testa. Questa poi, non poteva essere... ma più cercava di razionalizzare, più il dubbio cresceva, insieme alla certezza che il sapere ed il vedere Wakashimazu così distante era insopportabile.

Convenne che doveva parlargli subito e, prima di tutto, scusarsi per il comportamento idiota che aveva tenuto, insieme al domandargli che cosa era successo precisamente, fonte prima del problema.

L’unica cosa certa in quell’istante fu che Ken non le avrebbe mentito; c’era qualcosa di così innocente e leale in lui, che ogni cosa al confronto scompariva.

Così uscì di corsa dalla stanza, decisa a trovarlo.


 

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