Ombre di cicatrici

 

 

CAPITOLO 8 – Il Kaiser




Il ragazzo si sporse dal materasso, liberandosi dal groviglio di coperte che gli avvolgeva il capo e le spalle e raggiunse finalmente la cornetta del telefono.

- Sì?- rispose, quietando l’intenso squillare.

- Ken!- dall’altra parte un’acuta esclamazione.

Il portiere spalancò di scatto gli occhi, venendo improvvisamente investito dalla realtà. Il sonno scivolò via come frantumato, mentre si posizionava stabile sui gomiti.

- Eve...?- sussurrò incredulo, poi si schiarì la voce - Eve! Come stai!?- cercò di essere più naturale possibile, seppur lasciando che l’entusiasmo prendesse il sopravvento.

- Sto bene! Ciao, portiere! Mi dispiace se mi faccio sentire solo ora, reperire un telefono è facile, ma i problemi arrivano quando dici di dover fare un’intercontinentale!- rise lei, stringendo forte le dita attorno al ricevitore. Era così meraviglioso poter risentire la voce di Ken, si sentiva emozionata come una bambina.

- Volevo solo chiederti scusa.- aggiunse poi, sperando di riuscire a dire le parole giuste - Non dovevo andarmene così, solo... non potevo sopportare un altro arrivederci lungo ore.-

La sua determinazione avrebbe potuto crollare a momenti, se lui avesse seguitato a guardata per qualche istante di più. Avrebbe svelato al mondo che, tolta la maschera, in realtà avrebbe voluto restare tra le braccia di Ken, rimanere là o portarlo con sé in Germania - tutto pur di non separarsi da lui.

Ma non era così che dovevano andare le cose, non sarebbe stato giusto, non sarebbe stato maturo, non sarebbe stato furbo e nemmeno corretto nei confronti di entrambi e della possibilità che le veniva offerta.

- Ehi, non fa niente, non ti preoccupare.- la voce del ragazzo la riportò alla realtà, sollevandole un macigno dallo stomaco. Ken si ravviò alla meno peggio le ciocche ribelli che nel sonno avevano preso una direzione tutta loro, schiarendosi nuovamente la voce.

- Piuttosto, vedi di allenarti come si deve perché tra cinque mesi, quando arriveremo lì, vogliamo trovarti in forma e pronta a vincere di nuovo l’oro!- aggiunse, appoggiando il mento ad una mano e potendo finalmente sorridere.

Lei l’avvertì, dall’altra parte del telefono, il suo lieve e fiducioso sorriso, tanto che di nuovo la sensazione di slancio e trepidazione le cinse il cuore.

- Sarà fatto!- annuì energicamente - Non vedo l’ora di rivederti! Mi manchi moltissimo e...-

Si bloccò, ma che stava dicendo!? Forse si era fatta prendere un po’ troppo dall’entusiasmo.

- Io, emh... allenati anche tu, chiaro?!- riprese, in tono più quieto, ma categorico - Ho tutta l’intenzione di venire a tifare Giappone, quest’estate!-

Wakashimazu sorrise di nuovo, la voce di Eve gli era mancata così tanto...

- Lo farò.- rispose, mentre si liberava dell’ingombrante cuscino - Stenterai a credere quanto mi troverai migliorato!-

- Ci conto, sai!- fu la replica della bionda, che si voltò per controllare l’orologio a muro - Ora ti devo lasciare.-

- D’accordo...- annuì lui - Ci sentiamo presto, vero?- aggiunse, con la speranza di non doversi privare di nuovo tanto a lungo di un contatto con lei.

- Certo, hai carta e penna?- Eve gli dettò il numero dell’ostello ed i recapiti che avrebbero potuto essere utili per un futuro contatto, mentre Ken si premuniva di trascriverli dopo essere balzato giù dal letto ed afferrato una matita.

- Perfetto.- affermò, riappoggiandola sulla scrivania.

- Va bene, allora alla prossima.- sorrise.

- Ciao...- fece, vedendosi però subito interrotto.

- Ahm... Ken?- Eve trattenne il fiato, nel pronunciare il suo nome.

Wakashimazu riaccese l’attenzione, rimanendo immobile e concentrato.

- Nh?-

- Mi dispiace, non dovevo scappare così, ma se fossi rimasta un attimo di più, credo... non avrei avuto il coraggio di andarmene.- lo disse di nuovo tutto d’un fiato, fermandosi solo una volta, prima di concludere - Ti voglio bene anch’io, Ken.-

Riattaccò, considerando che probabilmente quella era stata la telefonata più disastrosa di tutta la sua vita... ma che perlomeno era riuscita a sentire di nuovo la sua voce, ad avvertire il suo sorriso... ed a comunicargli ciò che forse avrebbe dovuto dirgli molto tempo prima.

Il portiere rimase per qualche istante con il ricevitore ancora accanto all’orecchio, incerto se credere o no di aver realmente udito ciò Eve gli aveva detto.

Poi riagganciò, le labbra distese in un sorriso intenerito. Che ragazza strana. Allora non era arrabbiata, né se l’era presa per le sue parole, prima di lasciarsi.

Ma che era andato a pensare...? Si era preoccupato troppo, aveva addirittura ipotizzato che Eve l’odiasse per ciò che le aveva detto! Che stupido, aveva perso totalmente la cognizione della realtà, pensandola inesorabilmente lontana. Ma lei gli aveva appena dimostrato di essergli molto affezionata e questo gli aveva dato la carica giusta per affrontare in modo ottimista i mesi che ancora li separavano.

Si sarebbe allenato fino allo svenimento ogni giorno, avrebbe perseguito il suo scopo con una tenacia che mai aveva impiegato prima, sarebbe riuscito a migliorarsi in maniera severa e rigorosa, di modo da mirare ad un’eccellente prestazione a livello mondiale.

Tutti sarebbero rimasti sbalorditi... ed Eve sarebbe stata fiera di lui.


Domenica mattina.

Si presumeva riposo, invece per l’ennesima volta si apprestava ad uscire dall’ostello in tenuta sportiva.

Avrebbe corso sino a mezzogiorno, resistenza prima di tutto.

Era già passato un mese e mezzo dal suo arrivo ad Amburgo, ma stava facendo già visibili progressi, migliorando i suoi tempi. Sebbene fosse un’atleta di velocità, piuttosto che una maratoneta, aveva finito per non riuscire a fare a meno della corsa mattutina, sebbene Ren la considerasse pazza ad uscire ad allenarsi le uniche volte che poteva concedersi un riposino prolungato.

Ma ad Eve non importava granché, piuttosto guardava all’estate che sarebbe seguita, ai mondiali veri e propri... e poi tra meno di quattro mesi, avrebbe rivisto gli amici del Toho.

Si rigirò il berretto da baseball e cominciò a correre per la strada battuta e silenziosa.

La Germania, o almeno lo scorcio che aveva modo di vedere, era per lei decisamente un mondo nuovo. Davvero diversa dal Giappone; usi, costumi, cibo... era così somigliante all’Olanda che aveva visitato quelle rare volte da bambina e di cui il padre le raccontava spesso, in passato.

Quando giunse dinnanzi ad un’alta rete arrestò la marcia, rendendosi conto che lo spiazzo di verde che recintava altro non era che un campo da calcio e che un pallone stava rotolando adagio verso di lei.

Sorrise lievemente, chinandosi a raccoglierlo. Le sovvenne spontaneamente il ricordo del fugace incontro con Ken, ancor prima che lui conoscesse il suo nome.

Si guardò intorno, ma non notò nessuno: la strada era deserta ed il campo non ospitava alcuna attività, così lasciò cadere la sfera, bloccandola con un piede e prendendo a palleggiare.

Non l’aveva mai fatto, senza Ken - e soprattutto senza che lui ridesse della sua imbranataggine - ma dopotutto non c’era anima viva e poteva permettersi qualche ricordo piacevole.

- Non male.- le disse una voce alle spalle.

Eve gelò.

Ovviamente, scontato che non appena pensava una cosa, accadeva l’opposto.

Si voltò, tentando di mantenere un’espressione compita, ed incontrò due occhi di cristallo, un viso d’angelo, zigomi alti incorniciati da capelli biondi come oro, molto più chiari dei suoi.

- E’ tua?- gli domandò, indicando con un cenno del capo la palla che aveva stoppato sotto al tallone destro e notando la divisa calcistica che portava il nuovo venuto.

- Sì.- rispose lui, annuendo. La ragazza gliela rilanciò, facendo per voltarsi di nuovo e riprendere a correre. Quello la raggiunse subito, palla al piede.

- Non ti ho mai vista da queste parti.- fece, tenendo il passo.

- Non sono di queste parti. A dire il vero non sono nemmeno di Amburgo.- si limitò a replicare Eve.

- Il mio nome è Karl, gioco nella nazionale tedesca.- al solo sentir nominare la parola nazionale, la giovane si voltò repentinamente verso di lui, fermandosi di nuovo.

- Eve.- rispose, alzando un sopracciglio e stringendogli la mano.

- Sei una velocista.- era più un’affermazione che una domanda, quella del ragazzo, che rivolse il suo sguardo allo stemma della federazione agonistica sulla tuta di lei, all’altezza del seno.

- Sono qui per allenarmi con la lega. Vengo dal Giappone.- confermò la bionda, rivoltando le maniche della felpa.

- Giappone...- ripeté lui, serio e pensoso. Il sole del mattino si rifletteva morbido nelle sue iridi di cielo, di un azzurro chiaro e delicato e sul suo volto rilassato e signorile.

- Che c’è?- gli chiese lei, notando l’espressione impensierita.

- Quest’estate con tutta probabilità il Giappone sarà uno degli avversari che dovremo affrontare e a quanto mi hanno detto la squadra è migliorata moltissimo. Senza contare che è stato molto difficile confrontarsi con loro, tre anni fa...-

- Tu... hai giocato contro Wakashimazu? Ken Wakashimazu?!- la domanda enfatica di Eve interruppe il discorso del tedesco.

- Wakashimazu...? Intendi il portiere?- Karl tornò a rivolgere lo sguardo al volto teso e curioso di lei - Beh sì, ma durante gli scorsi mondiali non ne ho avuta l’occasione: è stato sostituito con Wakabayashi per un infortunio alla mano, prima di scontrarsi con la mia squadra.-

- Wakabayashi...?- all’udire quel nome la bionda fece per saltare come una molla, ma riuscì a trattenersi in virtù di ciò che aveva ancora da chiedere al nuovo incontro - E’ tanto migliore di Wakashimazu?-

Schneider alzò un sopracciglio, cominciando a chiedersi come mai una ragazza che non aveva nulla a che vedere con il calcio, fosse così interessata all’argomento.

- E’ la freddezza il suo segreto.- si spiegò - Genzo riesce a rimanere impassibile addirittura durante un rigore, mentre Wakashimazu ha dalla sua parte l’agilità di un gatto, e ti assicuro non ho mai visto fare parate come le sue... però si fa prendere dai sentimenti, dall’agitazione del momento. E’ il suo punto debole.-

Eve rimase tra il contrariato ed il riflessivo, taciturna. Non le piaceva che qualcuno parlasse a sfavore di Ken, anche se fosse stata la verità, provava come un senso di disapprovazione nei confronti delle parole di quel Karl.

- Ehi, qualcosa non va?- la smosse lui. La ragazza scosse il capo biondo, con un sospiro leggero.

- Devo assolutamente veder giocare questo Wakabayashi.- affermò, senza darci poi più di tanto peso. Forse avrebbe avuto l’occasione di farlo durante i mondiali, così avrebbe finalmente compreso cos’avesse di tanto speciale e di così fenomenale da rappresentare un gran cruccio per Wakashimazu.

- E’ una questione personale, allora!- rise il tedesco, le mani ai fianchi.

- Una specie.- rispose l’altra, rimanendo sul vago ed alzando le spalle, ancora chiedendosi se la fama di questo Genzo fosse meritata o meno.

Poi Karl disse qualcosa che la spiazzò.

- Giocava nell’Amburgo fino a poco tempo fa, il suo campo d’allenamento è poco lontano dall’aeroporto, hai presente?-

- Cioè... Wakabayashi è qui!?- sbottò, evitando di perdere l’equilibrio.

- Sì, si allena in Germania da tempo. Pensavo lo sapessi, dal momento che mi hai chiesto di lui.- l’aria del giovane si fece stranita e perplessa.

- No che non lo sapevo!- soggiunse a gran voce - Accidenti, devo vederlo!-

Karl le spiegò che generalmente la domenica sera si allenava da solo o con pochi presenti, maniaco della perfezione fino in fondo - pensò Eve, che colse l’occasione per farsi spiegare come avrebbe potuto raggiungere questo locus amenus e poter finalmente trovarsi faccia a faccia con il grande “Super Great Goal... qualcosa” di Fujiama.


Lo incontrò la sera stessa, sulle scalinate del palazzetto sportivo.

Non si aspettava di rivederlo, ma a quanto pareva il tedesco era venuto appositamente, dal momento che non indossava più nessuna tuta d’allenamento, ma una morbida camicia azzurra ed un paio di jeans.

- Credevo ti saresti vestita da... ragazza.- le disse Karl, incrociando le mani al petto ed evidentemente alludendo alla mise sportiva di Eve.

- Avrei dovuto...?- fece lei, alzando un sopracciglio e nascondendo le spalle all’interno della larghissima casacca. Si era vestita a quel modo per un motivo ben preciso e di certo non l’avrebbe spiegato a quel tizio, che tra l’altro pareva trovarsi lì per ammazzare il tempo.

- Beh, ad un appuntamento non ci si dovrebbe presentare con una semplice tuta di atletica...- alluse lui, tra il confuso ed il divertito.

Il sole all’imbrunire si rifletteva sui suoi capelli dorati, delineando i lineamenti d’angelo del suo volto maschile.

- Appuntamento?!- Eve fece tanto d’occhi, realizzando in un attimo che Schneider doveva aver afferrato in modo distorto la propria attenzione verso Wakabayashi, o forse era stata lei stessa con la sua astrattezza, ad aver lasciato che lui intendesse ciò che in realtà aveva quasi ribrezzo anche solo ad ipotizzare - Ma che hai capito! Credi che sia una fan di Wakabayashi!? Oh, questa sì che ha dell’incredibile!- soggiunse poi, scuotendo energicamente il capo.

- Ma... e allora...?- Karl non fece in tempo a terminare di chiederle per quale motivo in realtà si trovasse lì per incontrare Genzo, che Eve l’aveva già superato e si stava già dirigendo verso il campo.

Lo individuò immediatamente tra i pali bianchi della porta. E dove, sennò.

Si calcò il berretto sugli occhi e sistemò alla meno peggio la cerniera della tuta, ritenendosi per la prima volta fortuitamente lieta di non essere stata dotata dalla natura di un petto fin troppo florido. Si avvicinò al cesto stracolmo di palloni, afferrandone uno e portandoselo sotto un braccio.

Il campo era ormai semideserto, il verde intenso del prato accoglieva le ombre trasversali della recinzione alta e degli imponenti lampioni con molteplici scacchi di luci. L’esiguo gruppo di ragazzi che avevano accompagnato Genzo durante l’allenamento serale si erano già diretti verso gli spogliatoi, lasciandolo solo ed avviandosi celermente verso gli spogliatoi. Il portiere stava per fare lo stesso, dopo aver bevuto a grandi sorsi dalla propria borraccia rossa, quando una presenza in movimento lo fece voltare di scatto, di sorpresa.

Un ragazzetto esile e non troppo alto si era portato dinnanzi all’area di rigore, posizionando un pallone sul dischetto ed ora gli aveva voltato le spalle, allontanandosi di qualche buon metro.

Eve si voltò soltanto quando fu certa che Wakabayashi l’avesse scorta, fissando i suoi occhi neri e decisi da sotto la visiera del cappello, poi picchiò prima un tallone poi l’altro a tastare la consistenza del terreno.

Socchiuse le palpebre e come una cantilena, le parole e la voce ferma di Ken le tornarono alla mente con ritrovata energia.

Quando calci, cerca di prendere la mira.

E’ tutta questione di posizione.

Se riesci a ruotare il piede di modo da far prendere la rotta al pallone, hai già fatto metà del lavoro.

I portieri esperti si accorgono immediatamente della direzione che assumerà il tiro dalla posizione della gamba di chi lo sferrerà, ma essendo un’atleta di corsa e non un calciatore, dovresti riuscire ad eludere facilmente il problema con la tecnica della partenza.

Si accovacciò, spostando il baricentro un poco avanti, facendo leva sulle spalle.

Le dita appoggiate sull’erba, i quadricipiti contratti.

La tecnica della partenza. Ken aveva avuto un’idea geniale.

Non avrebbe mai pensato di poterla utilizzare, un giorno, né tantomeno in presenza di Wakabayashi, il quale stentava a credere ai suoi occhi e, soprattutto, aveva preso a chiedersi chi diavolo potesse essere quel ragazzino dalla corporatura esile e dalle mani lisce che - incredibile - stava davvero apprestandosi a tirare...?

Eve serrò gli occhi e prese un gran respiro.

Si era allenata più del dovuto da quando era arrivata ad Amburgo. Le sue gambe avevano acquisito una potenza di scatto dieci volte superiore alle aspettative ed ora tutto questo le sarebbe tornato utile per concludere l’improvvisata sfida.

S’immaginò di udire il fischio del direttore di gara e sollevò il bacino in alto, caricando i muscoli delle gambe e della schiena.

Nel momento in cui l’irreale sparo del via saturò la sua mente, riaprì velocemente gli occhi e fissò il volto di quel portiere dalle spalle larghe, senza espressione.

Non si fece attendere.

Contrasse ogni singolo nervo e scattò in avanti.

Una manciata di secondi.

Genzo lasciò cadere la borraccia a terra, che cadde rovesciando inconsistenti gocce d’acqua cristallina.

Quando giunse in prossimità della sfera si arrestò per un istante, sollevando minuscoli granelli di terra ed erba. Poi colpì.

Il pallone parve scomparire, tanta era la potenza impressa dalle gambe di una velocista. Eve si trovò irrimediabilmente sbilanciata dalla forza che aveva compresso al tiro, ma poco le importava oramai: la palla era in volo, rettilinea, dritta verso la porta.

Si lasciò cadere, appoggiando di nuovo una mano a terra per sorreggersi appena in tempo per vedere i pentagoni del globo bianco e nero confondersi, sfrecciare verso i pali e finire tra le mani di Wakabayashi, che si era tuffato verso l’angolo alto destro.

- Non è possibile!- Eve si lasciò sfuggire un urlo incredulo e rabbioso, nel constatare che quel ragazzo aveva stoppato il suo tiro con i palmi ed ora stava cercando di trattenerlo.

L’espressione stupita, contratta, sconcertata e rigida di Wakabayashi era tutta concentrata sulla sfera e sulla volontà di arrestare la sua corsa ed inibire la sua intensità schiacciante.

Scivolò.

Il pallone slittò dalle sue mani con un contraccolpo violento per andare ad insaccarsi in rete, deformando l’intreccio bianco alle sue spalle; il portiere cadde in ginocchio e prese a guardarsi attonito, irato ed incredulo prima le mani e poi la palla, che era tornata indietro, ora rimbalzando serena.

Karl la prese sotto il suo piede sinistro - era sceso sul campo proprio nel momento in cui aveva visto Eve avvicinarsi all’area di rigore, intendendo i suoi scopi.

Allibito, ma freddamente scostante, era rimasto a guardare l’azione, mentre mille pensieri e considerazioni si accavallavano nella sua mente sorpresa.

Genzo intanto si era alzato in piedi e, massaggiandosi lo sterno, tentò di individuare e catturare lo sguardo di quel tipo, seppur nascosto dalla visiera del cappellino da baseball.

Eve però si era già voltata ed aveva ripercorso velocemente la strada verso l’uscita del campo, infilandosi tra le inferriate basse e sparendo dietro la cancellata.


- Ren, Ren!- si imbatté nella compagna proprio quando, dopo una corsa furiosa ed incapace di trattenere l’entusiasmo, varcò la soglia della sala principale dell’ostello - Ce l’ho fatta! Ce l’ho fatta!!-

L’altra sorrideva, trasportata dall’enfasi della compagna, che l’aveva afferrata per le spalle e la stava scuotendo energicamente.

- Hai fatto... hai fatto cosa?- le domandò, tentando di capirci qualcosa.

- Ho segnato un gol memorabile a Wakabayashi!- la bionda scoppiò a ridere, togliendosi il cappellino e lanciandolo in aria, per poi riprenderlo e ripetere l’azione una seconda volta - Ah, avresti dovuto vedere la sua faccia! Avrei dovuto portare una macchina fotografica! Oh, accidenti, se solo Ken fosse stato lì! E’ stato... è stato... - e si lasciò di nuovo trascinare da un riso euforico.

- Che cosa hai fatto?!- la compagna spalancò gli occhi scuri e, dopo essersi fatta spiegare la questione a grandi linee, la guardò tra l’impressionato e l’atterrito - Ti rendi almeno conto di ciò che hai fatto?!-

- Eh?- l’altra si fermò, finalmente e la guardò dubbiosa.

- E’ Genzo Wakabayashi! Adesso a quello gli prenderà un colpo!- Ren si portò una mano alla fronte spaziosa, alzando gli occhi al cielo.

- Ma che dici!- Eve, contrariata, emise un sospiro spazientito - E’ un ragazzo come un altro, Ken almeno riusciva a trattenere i miei tiri!- ma l’altra non parve granché convinta.

- Sì, certo! Perché le tue gambe non avevano ancora sopportato due mesi di allenamento in federazione! Senza contare tutte le scappatelle che fai per esercitarti ancora non appena hai un attimo di tempo libero! Pensa se adesso Genzo comincerà a diventare paranoico! Insomma, battuto da un ragazzino, Eve!-

- Non m’importa!- sbuffò lei, perdendo totalmente l’accalorato trasporto e voltandosi dall’altra parte per raggiungere le scale che l’avrebbero condotta all’appartamento.

A quanto diceva la sua compagna, aveva commesso un abominio. Era migliorata moltissimo, tra l’altro, ma non le era piaciuto per nulla ciò che Ren le aveva appena detto. Se davvero Wakabayashi avesse iniziato ad allenarsi il doppio, frutto di una reazione a catena da lei stessa innescata, le cose sarebbero decisamente precipitate.

Inutile dirlo, ma cominciò a preoccuparsi. Forse aveva fatto una stupidaggine... l’ultima cosa che desiderava era che il rivale di Wakashimazu aumentasse le sue già ottime prestazioni. E adesso? Ah, se Ken l’avesse saputo, era certa che l’avrebbe rimproverata un sacco, o peggio...


- Aya! C’è il ragazzo delle consegne!- la voce della madre dal retro richiamava l’attenzione della ragazza all’ingresso, chiedendole di riporre la spesa a domicilio, mentre lei badava al bucato.

Ayame scostò lo sguardo dall’ingombrante pacchetto in carta verde che da diversi minuti stava fissando con occhi dubbiosi, incerta se aver fatto la cosa giusta ad acquistare ciò che conteneva, oppure no.

Si era chiesta a lungo se la sorpresa sarebbe stata accolta con gioia, oppure con reticenza, tanto a lungo da farla indugiare a tal punto da lasciare il fagotto sulla propria scrivania per una settimana intera.

Sospirò, scostandosi dalla sedia ed uscendo dalla propria stanza. Percorse a passi veloci il corridoio e raggiunse altrettanto velocemente la porta d’ingresso.

Poi uscì in cortile, percorrendo il breve tratto di mattonelle incastrate a mosaico tra loro sino al cancelletto basso.

- Ko... Koji!- esclamò stupita, rendendosi conto di trovarsi di fronte al capitano del Toho.

- Ciao, Aya.- la salutò lui con un sorriso solare, sollevando la busta in cartone scuro.

- Oh... emh, io... emh, ciao!- riuscì a sbrigarsela infine, tentando di rassettarsi come meglio poté la gonna al ginocchio ed i capelli castani dietro le orecchie. Hiyuga si sciolse in un’espressione affettuosa, notando il rossore sintomo d’imbarazzo sul volto della ragazza.

- Che fai, stai benissimo.- sussurrò, facendosi avanti e poggiandole una mano sulla testa.

Lei fu certa di essere sprofondata nel più acceso vermiglio, mentre le dita del cannoniere le carezzavano lentamente la fronte.

- Grazie, ragazzo delle consegne...- replicò mormorando, raggiungendo il suo braccio con le proprie, affusolate mani.

Poi il suo sguardo si posò sulla borsa che lui stava ancora sorreggendo.

- Oh, lascia che la prenda io.- ingiunse, facendo per chinarsi, ma lui la ritrasse dalla sua portata.

- Ehi, non ci pensare neanche, piuttosto fammi strada.-

Ayame tornò a specchiarsi sul volto abbronzato e sereno del compagno, distendendo le labbra in un soffice sorriso. Nonostante il suo essere scostante, Kojiro sapeva sempre come svegliare la tenerezza in lei, perfino ora che si era così indirettamente offerto di aiutarla a sistemare la spesa.

Le piacevano le sue frasi silenziose, che nascondevano i suoi intenti in poche parole, eppure sapevano essere così adorabilmente assordanti. Era così anche con i suoi fratellini, con la sua famiglia - ed era stato proprio quando Aya aveva scoperto questo suo lato premuroso ed impegnato, dietro il suo carattere fiero e caparbio, che si era innamorata di lui senza inibizioni.

Gli fece strada sin nella cucina, dove il ragazzo poggiò il suo fardello sul tavolo e prese a svuotarlo ordinatamente.

- Non perdi tempo qui? Di solito il tuo giro delle consegne copre la parte opposta della città.- realizzò la giovane, con una punta d’apprensione che il ragazzo si impegnò immediatamente a quietare, facendo cenno di no con il capo.

- E’ la mia ultima tappa. E poi, beh, ogni tanto i giri cambiano...- mentì, rimanendo sul vago.

In realtà non poteva certo dirle di aver fatto i salti mortali per accaparrarsi l’ordine, una volta udito che l’indirizzo per la consegna sarebbe stato quello di casa Akimoto. Un’occasione da non perdere per rivedere, anche solo per pochi minuti, il volto armonioso e gentile della sua Aya.

Lei contrasse il volto in un’espressione pensierosa, poi con un sospiro si decise.

- Aspetta qui.- gli disse, passandogli accanto velocemente e lasciando il piccolo ambiente domestico in favore del corridoio. Kojiro fece appena in tempo a chiedersi con espressione smarrita dove la ragazza fosse finita, che questa ricomparve sulla soglia con un pacco verde tra le mani, porgendoglielo con decisione.

- Tieni!- fece con enfasi, tendendo entrambe le braccia.

Hiyuga lo accolse tentennante, decisamente sorpreso.

- Che cos’è?- chiese, alzando il volto in quello lievemente imbarazzato della compagna.

- E’... una cosa che ho comprato per te.- Ayame si strinse nelle spalle, invitandolo con gli occhi a scartare.

- Per me...?- ripeté lui, quasi a sé stesso, disfacendo l’involucro di carta e scoprendo una casacca color grigio scuro con le maniche strette ai polsi e le rifiniture nere sulle spalle.

Fu così colto alla sprovvista che tentò due volte di parlare, ma entrambi gli sforzi gli morirono in gola. Era così poco abituato a ricevere qualcosa da qualcuno, figurarsi un regalo del genere! Da parte di Aya, poi...

- Ti piace?- la voce delicata di lei lo riportò alla realtà, facendogli sbattere più volte le palpebre e riprendere a fissare i suoi occhi neri ed il suo volto candido, rigido nell’attesa di una risposta - Avevi detto che lavorare od allenarti la sera è molto stancante, dato che le temperature calano... e poi le tue mani si stanno rovinando per il freddo, per cui pensavo... ho pensato che avresti avuto bisogno di qualcosa di adatto.- il suo sguardo si muoveva repentinamente da una parte all’altra del locale, ovunque tranne che sul viso meravigliato di Kojiro, poi si scosse e ritornò nei suoi occhi, con un gesto repentino delle mani - Oh, non che ciò che indossi ora non sia adatto, solo che... è che...-

Lui si avvicinò quel tanto che bastò per cingerle i fianchi e far aderire il suo esile corpo al proprio, quasi sollevandola da terra.

- E’ un regalo bellissimo, Aya.- le sussurrò sulle labbra, prima di stringerle alle proprie in un prolungato e morbido contatto. Il suo tenue profumo di narciso bianco si confuse con tutte le fragranze del mondo, colmando la sua mente ed accendendo ogni screziatura inesplorata dei suoi sensi.

Aveva notato la pelle rotta delle sue mani, aveva pensato a regalargli qualcosa che avrebbe potuto farlo stare meglio... aveva pensato a lui, esclusivamente a lui... Ayame.

Le carezzò il volto, scostandosi dalle sue labbra seriche e scostandole una ciocca di lunghi capelli castani dagli occhi.

- Ecco perché ultimamente sembravi così interessata alle taglie dei miei vestiti...- fece poi con un sorriso, ricordandosi a poco a poco di averla vista più volte leggere incuriosita le etichette delle proprie magliette nell’ultimo periodo, ma di non averci fatto poi molto caso al momento.

- Già... non sono stata molto accorta, vero?- le gote di Aya assunsero nuovamente un colorito acceso, stringendosi di nuovo nelle spalle e poggiando le dita sul suo torace d’uomo - Oh, a proposito! Provatela, vediamo come ti sta!-

Kojiro abbassò la cerniera della giacca e si infilò le maniche con disinvoltura, richiudendola poi ad azione terminata.

La ragazza batté le mani in un fremito entusiasta.

- Ah, è perfetta! Ti sta benissimo!- vociò estasiata, saltandogli al collo con entrambe le braccia trasportata dalla contentezza.

Questa volta fu lui ad avere la certezza di essere piuttosto arrossito, coinvolto e trasportato dallo slancio della ragazza che ora si stava stringendo felice al suo petto.


Quando lasciò campo era oramai di nuovo sera, gli allenatori stavano uscendo e portavano con loro i cronometri e gli attrezzi di atletica.

Erano giorni, settimane che i suoi allenamenti avevano preso un ritmo forsennato, smanioso: passava quasi tutta la giornata al campo della federazione, spesso anche fuori dall’orario di esercizio - senza contare le pause di cui approfittava per tornare ad addestrarsi.

La corsa e l’allenamento erano sempre stati un modo per esorcizzare i problemi e tenerli fuori dalla propria mente, e così stava capitando anche in quell’intenso periodo, soprattutto dopo che Ren le aveva rotto le uova nel paniere riguardo la faccenda di Wakabayashi.

- Signorina Springer?- il dirigente la scosse dai suoi pensieri, facendosi strada nella sua mente e riportandola al presente. Eve si voltò per incontrare la distinta figura d’uomo in giacca e cravatta che il più delle volte assisteva al training comune. Si fermò, appoggiando il borsone a terra sulla pista e lasciando che il responsabile le venisse incontro con uno sguardo indagatore rivolto all’intera sua giovane persona. I pantaloncini corti e neri le fasciavano le gambe, la maglietta elastica le arrivava poco sopra l’ombelico e la larga felpa verde aperta le cadeva morbidamente sulle spalle.

- Volevo parlarle del suo rendimento.- Eve gli scoccò un’occhiata interrogativa, alzando un sopracciglio, mentre l’uomo si lisciò il pizzetto finemente curato con una mano.

- Si sta impegnando molto, come ho potuto notare. Ma non crede che otto ore di allenamento al giorno siano un po’ eccessive?- domandò, con aria accademica.

- Non faccio soltanto corsa.- si limitò a replicare lei, rimanendo in attesa della seconda battuta dell’interlocutore.

- Questo lo so bene, ma le consiglio ugualmente di andarci piano. Il suo fisico potrebbe non reggere.- il tono di voce del dirigente si fece quasi apprensivo, famigliare, e nei suoi occhi chiari balenò un lampo di professionale consapevolezza. Sapeva bene il fatto suo.

- Lei è molto giovane e troppe ore di allenamento potrebbero sovraccaricare il suo intero organismo, spingendolo ad uno sforzo non proprio. Inoltre lo sport non dev’essere costrizione, non voglio certo che diventi una macchina!- concluse, annuendo brevemente al termine della frase.

Eve non rispose. Aveva capito perfettamente.

- Allenarmi di meno.- imitò il cenno del capo dell’uomo - Cercherò di riprendere il mio ritmo, allora.- sorrise poi, disponibile.

- Bene.- convenne lui - Allora non si faccia vedere qui per le prossime ventiquattro ore. Si prenda una pausa debita, poi si ricomincerà con la preparazione canonica.- sorrise di rimando, soddisfatto dell’esito della conversazione.

Poi i due si strinsero la mano e si salutarono, ognuno per la propria strada.

Eve uscì dal campo di atletica e si diresse stancamente verso l’ostello. Non badò a nulla strada facendo - niente vetrine, niente passanti - si limitò a raggiungere l’edificio tentando di non cadere preda di una sonnolenza prematura.

La hall era stranamente deserta e per le scale silenziose i suoi passi furono attutiti dalla grigia moquette.

Era tutto tranquillo, salvo quando aprì la porta della propria camera, incorse in una visita inaspettata.

Alzò un sopracciglio, non ricordandosi una Ren Dairou così teutonica, ma soprattutto così mascolina.

- E tu che ci fai qui?-

- Stai molto meglio in pantaloncini.- fu la replica dell’intruso, che si sistemò meglio sulla poltrona scura.

Lei scosse la testa ed appoggiò finalmente il borsone a terra, accanto al proprio letto.

- Allora?- soggiunse fiaccamente, già pervasa dalla debolezza e da uno sbadiglio incombente.

- Beh, sono venuto a farti una visitina.- rispose Schneider - Mi è bastato chiedere in giro ed ho trovato per caso una ragazza con la tua stessa divisa, nei dintorni. La tua amica Ren mi ha detto che alloggiate entrambe in questa stanza e mi ha dato le sue chiavi, è stata fin troppo gentile. Non è carino sparire senza dirmi nemmeno dove stai e il tuo cognome.-

Per poco Eve non fu presa dall’istinto assassino di scovare Ren e colpirla con due salutari ceffoni, era sempre la solita ingenua! Certo decisamente meno esuberante ed aggressiva, ma proprio come Mizuki non sapeva resistere al fascino di un bel ragazzo.

- Volevo parlarti di Genzo.- concluse.

La bionda fu sopraffatta da un altro sbadiglio, abbandonando i suoi propositi assassini scaturiti da un’aggressività a sua volta derivante dal duro e spossante allenamento.

- Non è diventato paranoico, vero?- chiese infine, lasciando che Karl si abbandonasse ad un riso divertito.

- No, niente paura.- era elegante e riservato anche nel modo di ridere - Si allena come sempre, è un tipo piuttosto razionale.-

Eve trasse un sospiro di sollievo, perlomeno poteva liberarsi dal peso di una congettura inutile.

- Perché hai sfidato Wakabayashi?- le chiese tutt’un tratto, i suoi occhi azzurri brillanti sotto la luce artificiale della stanza. La ragazza sospirò, massaggiandosi le braccia intorpidite.

- Una lunga storia.- buttò là, con espressione poco coinvolta - Diciamo che volevo solamente sapere se è degno di essere titolare.- rispose poi, alzando le spalle.

- E allora...?- riattaccò il tedesco, invitandola ad un giudizio.

- Allora non lo so.- di nuovo un’alzata di spalle da parte della bionda - E’ bravo, per quanto ne possa sapere io di calcio, ma non ho abbastanza schemi per valutare e poi, non so, forse sono migliorata troppo...-

Inevitabilmente la conversazione si spostò sul personale; il fatto di aver fatto grandi progressi non aveva più nulla a che fare con Genzo, anche perché chi gli aveva segnato quel goal non era stata lei, ma Ken. Era stato Ken ad insegnarle come mirare, come eludere i sensi di un portiere così preparato come Wakabayashi.

Non si considerava investita di alcun merito.

Eppure aveva paura... aveva paura di essere diventata troppo forte.

Ma che le prendeva, lei doveva correre, non giocare a calcio! E poi era tutto di guadagnato, o no...?

Si trovò a sospirare di nuovo intensamente e pesantemente.

Non era soddisfatta, per quanto potesse sforzarsi e mettere anima e corpo nell’atletica... a fine giornata riusciva a sentire solo un gran senso di spossatezza ed estrema frustrazione data da stupide piccole regole, prima fra tutte quella di non poter mangiare ciò che desiderava, seguire un rigore alimentare piuttosto ferreo... e poi stare attenta a non farsi male, perché altrimenti la federazione avrebbe dovuto sborsare palate di yen, ma soprattutto non poter trascorrere il vero tempo importante con chi ora sentiva così lontano ed intoccabile.

Il suo fisico, poi, era terribilmente messo a dura prova. All’inizio aveva cominciato a correre per sport, poi dopo la scomparsa di Nicholas ci si era buttata a capofitto, ma ora... ora che non aveva più nulla da cui fuggire e che tutto era diventato più serio - forse troppo serio - quello che un tempo era stato un divertimento, ora era divenuto un gran peso, un onere incombente.

- Lascerò la corsa, dopo i mondiali.- annunciò, rompendo il silenzio e, nonostante tutto, stupendo sé stessa nel rendersi conto che ne stava parlando con un tizio che nemmeno conosceva... e che forse proprio per questo motivo sentiva essere una persona come un’altra, la persona giusta per ascoltare le parole che l’avrebbero almeno parzialmente liberata da un ormai sgradevole carico.

- Sei molto forte, però.- sussurrò Karl di rimando, restando impassibile ed altero come un imperatore.

- E allora? Non devo dipendere dalla mia forza, non voglio.- rispose Eve, sedendosi stancamente alla scrivania e sorreggendosi il capo con entrambe le mani- Non so nemmeno perché ne sto parlando con te, Schneider, ma penso che se continuassi, finirei per dimenticare me stessa ed odiare l’atletica.-

- Dopo ciò che mi ha detto Ren, penso di essermi fatto una mezza e vaga idea su di te, Springer.- replicò lui, le braccia incrociate al petto - Sei la numero uno in Giappone, però se il prezzo da pagare per la gloria è troppo alto, penso non convenga giocarsi il tutto per tutto.- le sue parole le suonarono come un conforto - Ci si butta a capofitto solo se si è certi dei propri desideri.-

La ragazza scosse il capo, contrastando l’ultima affermazione del cannoniere.

- Credo ci si possa buttare a capofitto in qualsiasi impresa, anche in quelle il cui barlume di speranza è minimo, anche in quelle dettate unicamente dalla disperazione. Ma io non credo di essere così coraggiosa, o così nobile. Ci sono sacrifici che non sono disposta a fare. Nemmeno per tutta la gloria del mondo.- la sua voce suonò come lontana ed echeggiata, quasi rivolta ad un interlocutore lontano, solenne - Penso che riprenderò a disegnare, piuttosto. Oh, di quello non mi stancherò mai!- aggiunse poi, con tono più leggero, ritrovando la presenza di Karl poco lontano.

- Disegni?- chiese lui, con un cenno del capo.

- Già.- si limitò a rispondere Eve, sperando di allontanare l’attenzione da una passione così intima e privata, che forse avrebbe fatto meglio a non tirare in causa.

Seguì una breve pausa di silenzio, durante la quale il sommesso ticchettio della sveglia di Ren invase la stanza, poi il ragazzo si alzò, raggiungendo l’uscio e rivolgendole un ultimo sorriso.

- Ora devo andare.- annunciò, afferrando la maniglia - Se proprio vuoi lasciare, allora metticela tutta. E’ l’ultima gara, giusto? Allora lascia che la tua stella brilli un’ultima volta.-

Si sporse a consegnarle tra le mani le chiavi consegnategli poco tempo addietro dalla compagna di stanza della bionda, poi lasciò definitivamente Eve sola.

Sì, avrebbe corso per l’ultima volta, poi sarebbe tornata in Giappone a dedicarsi a ciò che realmente amava, a vivere la propria vita. Ne aveva già sprecata abbastanza, ora voleva fare ciò che desiderava e nulla più. Non le importava della fama, del denaro e di tutto il resto... solamente delle persone a cui era legata, a cui voleva bene, compresa sé stessa.


 

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