Ombre di cicatrici

 

 

CAPITOLO 9 – Dopo la morte, la vita




- Ancora, capitano! Tirane un altro!-

- Ne sei sicuro? Io comincio ad essere stanco.- Kojiro si portò una mano dietro la nuca di folti capelli scuri, sollevando diverse ciocche e sfregando via il sudore dal collo.

- Sicuro! Tira!- gridò di nuovo Ken, in impeccabile posizione tra i pali. Hiyuga fece partire l’ennesimo Tiger Shot, che si spense tra le braccia di Wakashimazu, saltato per afferrarlo ed atterrato al suolo in piedi, con uno scatto agilissimo.

- Ormai conosci a memoria i miei tiri! Dovresti allenarti con qualcun altro, tipo... qualcuno-che-non-si-chiami-Hiyuga.- il capitano raggiunse la porta con un mezzo sorriso, speranzoso di convincere il portiere a smettere l’allenamento, più che convinto delle proprie parole.

Di solito il maniaco dell’esercizio era lui, da quando Ken gli aveva sottratto il ruolo con così tanta discrezione? Sembrava che da un giorno all’altro dovesse sostenere l’esame della vita e che dovesse quindi mantenersi sempre, costantemente preparato.

Si rammentò dei primissimi allenamenti che, anni addietro, avevano sostenuto insieme. Sotto la pioggia, con il sole, tra la neve... avevano sempre lavorato sodo, ognuno per superare sé stesso, sin da quando erano dei ragazzini inesperti del mondo che non desideravano altro se non giocare a calcio.

Ken sospirò pesantemente, passandosi un braccio sulla fronte e le nocche di una mano sul volto, sporcandosi lievemente una guancia di terra. Si era appena tolto i guanti per lasciare respirare le dita gonfie ed arrossate, poi si fece un poco più avanti e si lasciò cadere schiena a terra al centro dell’area di rigore.

Il compagno gli schermò la vista del sole, fissandolo dall’alto con sguardo fraterno, braccia ai fianchi.

Accidenti, Wakashimazu stava diventando davvero forte, stava superando i suoi deficit e colmando le lacune che ancora non lo rendevano un completo estremo difensore. Doveva ammetterlo, era ammirevole.

- Sono passati quattro mesi, eh.- fece d’un tratto il capitano, evidentemente alludendo alla partenza di Eve. Il compagno si sfregò il volto con una mano, dando tregua alle gambe in tensione, ora morbidamente distese sull’erba.

- Quattro...- ripeté poi, quietando il fiato corto - Tra un mese ce ne andremo anche noi.-

- Sarà un bene poterci allenare con tutta la squadra.- aggiunse l’amico, raggiungendolo a terra e distendendosi qualche centimetro lontano da lui, non mancando però d’appoggiargli la testa nell’incavo morbido tra costole e anca destra.

- Ehi, ma che fai?! Sai che dovrai pagarmi per questo?- rise Ken, sollevando lievemente il capo e portandosi le braccia dietro la nuca.

- Taci, Wakashimazu, e fammi da poggiatesta.- fu la risposta di Kojiro, che si abbandonò con gli occhi chiusi e le mani intrecciate sul proprio ventre - Dopo tutto l’allenamento extra che mi fai fare, come minimo me lo devi.-


Il vento caldo di maggio soffiava tra i lunghi capelli castani della ragazza, che entrò in fretta in casa.

- Sono qui, scusate il ritardo.- si annunciò Ayame, togliendosi la giacca leggera e liberando le lunghe ciocche dall’impedimento del fermaglio nero.

Una volta raggiunto il salotto di casa Sawada, i ragazzi si accalcarono sul telefono, mentre il padrone di casa componeva il numero ed impostava il viva voce.

Dall’altra parte una voce femminile annunciò il costo della tariffa internazionale e pregò di rimanere in attesa: presto sarebbero stati collegati con l’interlocutore segnalato.

- La signorina Springer? Sì, stava uscendo un momento fa, un attimo.- la receptionista lasciò la hall in un sommesso picchiettio di tacchi e si affrettò a raggiungere Eve giusto sulla porta dell’ostello.

La ragazza si lasciò ricondurre indietro, chiedendosi stranita chi mai potesse telefonarle alle sette del mattino, mentre la donna le passò il ricevitore, sparendo di nuovo dietro il bancone ed impegnandosi in un repentino vai e vieni con plichi di cartelle, fotocopie e fogli volanti tra le mani.

- Pronto?- la bionda si schiarì la voce, venendo immediatamente investita da un’ondata di folle allegria.

- Auguriiiii!!- Eve scostò la cornetta dal volto, massaggiandosi l’orecchio tra l’incredulo e lo sbigottito.

- Come stai!? Da quanto tempo!- il tono di Sawada tornò a farsi sentire forte e chiaro.

- Takeshi...?- la ragazza riconobbe la sua voce non senza una punta di sorpresa, stranita dal fatto che a chiamarla fosse il giovane compagno - Io sto bene e tu?-

- Anche noi stiamo a meraviglia!- esclamò Mizuki, civettando vivace.

- Mizu!- al identificare anche lei, Eve sorrise di gioia - Che bella sorpresa!-

- Ci siamo tutti!- si annunciò Kazuki, sporgendosi sul microfono del viva voce.

- Per farti gli auguri!- soggiunse Ayame.

- Buon compleanno, Icaro!!- gridò ancora Mizuki, stringendo Aya per i fianchi e facendo perno su di lei per mettersi a saltellare e mantenere l’equilibrio.

- Sì, però non distruggermi il telefono!- protestò Takeshi, suscitando le risa del gruppo.

- Ciao, Eve!- il capitano esordì un sorriso deciso, liberando Ayame dalle grinfie della strega.

- Come vanno le cose?- fece Ken, appoggiandosi ad una spalla di Hiyuga.

Lei si trovò tutt’un tratto investita da un senso di famigliarità e stretta consuetudine: le tornarono alla mente come in una vampata d’aria improvvisa tutti gli odori, ordinari ma lontani, che aveva lasciato in Giappone.

L’odore caldo delle coperte del proprio letto, quando apriva gli occhi la mattina.

Quello del caffè, preparato in fretta e furia ed altrettanto repentinamente sorseggiato, prima di uscire di casa.

La fragranza del balsamo fruttato di Mizuki, che le dava il benvenuto a scuola e quello delicatissimo e quasi impercettibile di Aya, principessa di nuvola.

Il profumo d’erba e terra che adorava, mentre assisteva agli allenamenti ed alle partite del Toho. Il suono degli schiamazzi dei ragazzi, dei loro passi in corsa, decisi e calibrati.

L’odore della pelle di Ken.

L’aroma del tramonto sul far della sera.

- Eve...?- all’udire la voce del portiere che richiamava la sua attenzione, si rese conto con stupore e non senza darsi della stupida, che quasi le veniva da piangere. Erano ormai tre mesi che non sentiva la sua voce; l’ultima volta l’aveva chiamata lui, come promesso, eppure l’emozione era sempre uguale.

- Ken...- sussurrò, stupita dal sentire il proprio tono così debole.

Emise un leggero colpetto di tosse e tentò di riprendere padronanza di sé stessa, mentre scuoteva il capo e si stringeva una mano al polso.

- Come stai, allora? E com’è Amburgo?! Come sono i tedeschi? Scommetto dei fusti biondi alti due metri! Allora, allora, hai incontrato nessuno che corrisponda alla descrizione?!- Mizuki la investì di domande entusiaste ed accese, alle quali Eve non riuscì a rispondere in tempo, prima che le venisse posta istantaneamente un’altra questione animata.

Ma alle parole dell’amica si sovvenne dell’incontro che oramai qualche mese prima aveva avuto modo di fare, con quel calciatore, per cui decise di riportare la conversazione su toni un po’ meno frivoli e più... beh, calcistici. Sicuramente a Kojiro avrebbe fatto piacere sapere.

- A dire il vero ho incontrato un ragazzo che credo conosciate tutti, ha già giocato contro il Giappone e...-

- Chi!?- intervenne di nuovo Mizu, interrompendola - E’ un bel ragazzo!?... Ahio!- Takeshi le aveva tirato una gomitata, nella speranza di quietare i bollenti spiriti della compagna.

- E’... non lo so.- rispose Eve, mordendosi un labbro. Di certo non si aspettava che le venisse chiesta un’opinione riguardo all’aspetto di Karl e, soprattutto, era ben lungi dal concederla, principalmente in presenza di Wakashimazu - Si chiama Karl qualcosa Schneider.- annunciò, crucciandosi del suo difetto di mangiarsi parte dei nomi che avrebbe invece dovuto conoscere.

- Karl Heinz Schneider!?- per fortuna c’era Kazuki.

- Schneider!?- intervenne il portiere, altrettanto incredulo.

- Quel magnifico biondino?!- strillò Mizuki, di nuovo alla carica.

- Sì, ecco!- rispose l’altra, confermando il nome completo del tedesco - E’ molto preparato, vi conviene allenarvi molto, se non volete essere battuti da lui e dai suoi colleghi!- aggiunse poi, tentando di infondere nei compagni un amichevole incoraggiamento.

- Non succederà, ci stiamo allenando duramente anche qui.- annunciò Kojiro, con il suo piglio deciso ma sereno.

- E poi tra un mese arriviamo!- aggiunse Ken, sorridente.

- Sì, lo so, portiere! Non vedo l’ora di riavere un po’ di Toho, sto cominciando ad essere malinconica. Vi aspetto!- fu la replica di Eve, che ricambiò il sorriso invisibile, schermato dalla distanza.

Chiacchierarono ancora un po’, poi si salutarono con nuove promesse ed esortazioni e la bionda lasciò la sala grande per uscire all’aperto e raggiungere Ren, che l’aspettava da qualche minuto.

Sawada spense il viva voce e spinse il tasto di fine chiamata, riattaccando definitivamente il ricevitore.

- Però che fortuna!- sbuffò Mizuki - Voi ve ne andrete in Europa e noi qui a vedervi in tv!-

- Beh, non sarà grave, nonostante in differita sia tutta un’altra cosa, ma perlomeno li vedremo.- disse Ayame, pacata. L’altra non pareva per nulla convinta ed aveva preso a giocherellare contrariata con l’orlo dei corti calzoncini in jeans risvoltati al ginocchio.

- Ma io volevo gustarmi dal vivo quel bellissimo biondino di Schneider! Non è giusto!!- si lamentò, mettendo il broncio.

- Uffa, possibile che pensi sempre e solo a quello!? Sarà la primavera, ma ehi, tieni a freno gli ormoni!- Takeshi si portò le mani ai fianchi, assumendo l’espressione di una vecchia e stizzita suora di clausura.

- Ma non è vero!- gemette Mizuki, stavolta arrotolandosi intorno alle dita di una mano la lunga cordicella rosa che le pendeva dalla cintura e suscitando una risata generale tra i presenti.


Ken si portò la busta alla fronte, lasciandola in bilico ed allungando le braccia in atto di stiracchiarsi sul materasso.

Stava disteso supino nel silenzio della sua stanza, mentre il sole del primo pomeriggio si faceva largo tra le tende e conciliava il sonno del dopo pranzo.

Si sistemò le maniche della maglia nera, poi riprese la lettera tra le mani e si trovò di nuovo ad estrarne il contenuto per rileggerlo. L’aveva ricevuta qualche giorno addietro, euforico che Eve avesse mantenuto la parola.

Gli aveva scritto le proprie scuse per essere scappata via il giorno della partenza all’aeroporto ed un sacco di altre cose che oramai aveva imparato a memoria.

Sembrava piacerle, Amburgo. E sembrava anche allenarsi parecchio, il più delle volte saltando anche i corsi scolastici.

Inoltre gli aveva anche inviato il disegno che raffigurava il trio di spicco del Toho e che con stupore si era trovato in allegato. Allora non l’aveva affatto buttato via... l’aveva tenuto. E l’aveva migliorato e rifinito per fare in modo che ora potesse tenerlo lui, dal momento che aveva dimostrato tanta partecipazione sin dall’attimo in cui n’ebbe scoperto l’abbozzo. Era stato piacevolmente colto di sorpresa da quell’inaspettato pensiero.

Ma dopo la telefonata del giorno prima, non riusciva a tranquillizzarsi; era certo molto felice che gli avesse scritto e di sapere che tutto in Germania procedeva per il verso giusto... ma Eve aveva incontrato Schneider.

Chissà cosa si erano detti... e se quei due si fossero piaciuti? Infondo lei era molto attraente ed il tedesco non era da meno: possedeva quel fascino esotico e glaciale che gli conferiva l’attrattiva di un vero e proprio kaiser.

Ah, accidenti, stava cominciando a sognare ad occhi aperti come un ragazzino, riguardo eventuali ed inverosimili drammi! Senza contare che la possibilità si era estesa ad ogni singolo incontro che Eve avrebbe potuto fare.

Con nessun altra era mai stato così preoccupato dal rischio opprimente di perdita che ora gli ronzava acutamente in testa - anzi, addirittura non si era mai posto il problema. Ogni giorno che passava sentiva la tensione aumentare convulsamente, come se la possibilità di non rivederla più si stesse concretizzando a poco a poco, tanto da fargli scoppiare il cuore.

Aveva trascorso quasi cinque mesi senza di lei e nonostante dovesse pensare che il più fosse fatto, che oramai a settimane anche la nazionale giapponese avrebbe raggiunto Amburgo, in realtà si sentiva vuoto come non mai; desiderava di nuovo vedere il volto di Eve, sentirsi chiamare portiere con il suo tono energico ed esclusivo, i suoi occhi celesti guardarlo con l’irresistibile aria capricciosa che assumeva quando lui, dall’alto dei suoi quasi centonovanta centimetri, l’apostrofava scherzosamente come una pappamolle.

Mai era arrivato a nutrire simili sentimenti, credeva di essere già stato innamorato ed invece... solo ora se ne rendeva conto: c’era qualcosa di mille volte più intenso e distruttivo, carico ed appassionato in ciò che lo legava ad Eve. Si rendeva conto che non ne era banalmente innamorato, ma l’amava enormemente, più di ogni altra cosa.

Ci era voluto così poco perché accadesse... era stato così naturale, privo di affettazione... semplice. Ed ora era dannatamente perso di lei, non c’era giorno che non la pensasse; la lontananza non aveva spento un fuoco fatuo, ma alimentato un tizzone vivo e tra non molto tempo l’avrebbe raggiunta, le avrebbe dimostrato quanto era migliorato, tanto da meritare il posto da titolare. L’avrebbe fatto per sé... e per lei.


Priva di sensi, sognava distesa sul letto dell’infermeria.

Il tenue sole mattutino si rifletteva sul grande armadio a muro metallico, giusto davanti al suo temporaneo giaciglio, mentre il totale silenzio dominava il piccolo ambiente bianco.

Oramai pensava di aver acquisito un ritmo stabile e invece... un calo di pressione, diceva il medico. In effetti era così.

Stava correndo nei pressi del campo, ancor prima di entrare per l’allenamento, quando l’aveva colta un improvviso capogiro ed Eve si vista costretta ad appoggiarsi al muro, in preda alla vertigine.

Karl la stava accompagnando, mantenendo un invidiabile passo cadenzato, correndole al fianco diretto nel medesimo senso per raggiungere la piattaforma calcistica. Si era fermato, domandandole se ci fosse qualcosa che non andava, ma lei non aveva fatto in tempo a rispondere, che la vista le si era affievolita e le forze l’avevano abbandonata, lasciandola preda dello svenimento.

Schneider l’aveva condotta dentro al campo della federazione e, dopo la visita repentina da parte del medico di guardia, ora la bionda stava dormendo ancora su quel lettino spoglio, dietro la tenda bianca.

Karl era rimasto lì. Ed ora la guardava muto, mentre le sue palpebre erano serrate e la sua mente altrove, forse in un sogno che al risveglio sarebbe stato istantaneamente dimenticato.

Fu un istante. Il ragazzo si chinò su di lei per sfiorare le sue labbra con le proprie, esercitando una leggera, impercettibile pressione e socchiudendo gli occhi. La leggera brezza penetrata dalle imposte semiaperte gli smosse lievemente la frangia, che lambì impalpabile le ciglia silenti di Eve.

La ragazza arricciò il naso nel sonno, poi, come infastidita, emise un flebile sospiro e voltò il capo dall’altro lato.


Si ravviò senza badarci più di tanto i capelli biondi dietro le orecchie. Oramai stavano crescendo ed ancora non aveva pensato a tagliarli come di consueto.

Quando si era svegliata l’infermeria era deserta e si era sentita tutt’un tratto come trasportata in un luogo silenzioso ed etereo, tra il candore delle pareti ed il penetrante odore di asettici medicinali.

Poi era arrivata la signorina Rama, a dir poco furibonda.

Strano, Eve si aspettava un minimo d’apprensione, e invece...

- Eve!-

- Oh? Salve.- si voltò verso di lei, riappoggiandosi sul letto e calzando le scarpe da ginnastica..

- Vorrei dirti due parole, se non ti dispiace.- fece l’allenatrice, le mani ai fianchi e gli occhi semichiusi a scrutarla con aria di rimprovero.

- Nh?- fece la ragazza, seguitando nell’intento di sistemarsi i calzoncini elastici.

- Voglio che tu la smetta di allenarti per una settimana a partire da oggi.- la donna dai cortissimi capelli rossi spazzola la stava guardando severamente, per nulla intenzionata a rinunciare alla ramanzina che si era preparata per la sua atleta più scapestrata, la quale, dal canto suo, lasciò cadere una scarpa e prese a rivolgerle un’occhiata incredula.

- Ma che...? Non posso!- si ribellò - Tra quindici giorni ci sono le gare ufficiali!-

Mihoko Rama mosse un passo avanti e scosse il capo, lasciando tintinnare gli orecchini a cerchi intrecciati, prendendo poi a gesticolare animatamente.

- Ti rendi conto che se ti capitasse un altro calo di pressione simile a questo, rischieresti di non parteciparvi per nulla, alle gare ufficiali!? E fortuna che c’era Schneider con te, a portarti dentro al campo, altrimenti ti avremmo trovata dopo ore! Tu e la tua fissa di volerti allenare in ogni momento utile! Sei già stata richiamata dal dirigente coordinatore in persona una volta, sei proprio recidiva!- la sua voce acuta risultò ancor più stridula alle orecchie della bionda che, vedendosi attaccata in modo così imperativo, recuperò la scarpa e se la infilò stizzosamente al piede, cominciando ad armeggiare con i lacci.

Aveva già rinunciato agli esercizi serali, che diavolo doveva fare ancora?! Senza contare che il fatto d’essere svenuta sulla strada come un sacco di patate decisamente minava già di suo alla propria autostima.

- Se io mi rifiutassi?- domandò all’allenatrice, senza distogliere l’attenzione dal pavimento.

- Saresti fuori, Springer!- la donna si passò una mano sul capo, com’era solita fare quando la tensione si impadroniva di lei - Non sto scherzando, non posso rischiare la tua salute e, se tanto vale tanto, posso anche escluderti.-

Eve non aggiunse più nulla.

Ecco come rovinare il buonumore. Sembrava tutto andare per il verso giusto: aveva addirittura passato l’anno scolastico senza troppe preoccupanti lacune e, soprattutto, aveva cominciato a fremere per l’arrivo dei giocatori giapponesi, di lì a una settimana soltanto.

Aveva deciso di mettere tutta sé stessa in preparazione dell’ultima performance atletica della sua vita, ed ecco che qualcosa di stupido si parava sulla sua strada. Era soltanto svenuta - non aveva mica contratto un virus mortale! - ma la Rama sembrava più intransigente del solito e, dal momento che il coltello dalla parte del manico ce l’aveva lei, Eve convenne di distendere i nervi e lasciare che tutto scivolasse senza troppi scogli.

Non le diede la soddisfazione di farsi vedere ulteriormente contrariata, dispiaciuta o seccata. Si congedò un asciutto cenno di concordia e poi uscì sulla strada, il borsone su una spalla e la cerniera della tuta chiusa sino al mento.

E va bene, non si sarebbe allenata per una settimana, se era questo che voleva quella nazista nevrotica, ma questo non le avrebbe impedito di partecipare al campionato.

Quando rientrò nella propria stanza, tutto le sembrò più disteso e meno frenetico, quasi pervaso da un’atmosfera di consuetudine che pareva aver dimenticato in favore di sveglie all’alba e pasti veloci e poco sostanziosi. La camera era sgombra, Ren era uscita in tutta fretta poco prima che anche lei lasciasse l’ostello la mattina stessa, dicendo di dover andare a farsi bella per un appuntamento fissato per quel pomeriggio... o qualcosa del genere - in verità non era stata a badarci molto.

Si sedette al bordo del proprio letto ancora disfatto, sospirando pesantemente e considerando che forse era venuta l’ora di fare ciò per cui principalmente ed inconsciamente era stata spinta a volare sino in Europa.

Si portò le mani in grembo, esitando e tentando di riordinare i pensieri. Avrebbe voluto attendere sino al termine dei mondiali, all’inizio i suoi piani erano questi, ma ora il vuoto che si era fatto largo nella sua mente si stava lentamente colmando dell’idea pressante di prendere il primo treno per Amsterdam.

Era quasi contrariata dal fatto che si sentisse pressoché indolente per aver dovuto approfittare delle gare di atletica, per trovare il coraggio di ripensare alla notizia che tanto profondamente l’aveva scossa, mesi addietro... e soprattutto per decidere il da farsi.

Sospirò di nuovo, stavolta alzandosi per andare a frugare nel fondo della sua valigia - ormai quasi dimenticata sul fondo dell’armadio - alla ricerca della lettera di Dex. La trovò un po’ spiegazzata tra le pagine di un manuale di atletica.

La fissò per qualche istante, poi si decise ad aprirla e trascrisse il numero su un foglio di carta, che portò con sé nel salone d’ingresso dell’ostello.

Mentre percorreva il corridoio e le scale, i passi attutiti dai pesanti tappeti, si rendeva conto che forse bastava un impeto di decisione per indurla a compiere ciò che stava per fare ed evitare un osceno procrastinare.

Si fece lasciare la postazione telefonica da un impiegato con dei grossi occhiali quadrati poi, una volta che il giovane uomo si fu allontanato per tornare alle proprie occupazioni, Eve compose il numero riscontrandone la correttezza sul foglio che aveva portato con sé.

Un gran sospiro.

Primo squillo. Secondo. Terzo.

- Pronto?- la voce che le rispose suonò profonda e affannata. Era una voce ormai d’uomo, di qualcuno che ormai si chiedeva fosse stata in grado di riconoscere, dopo tutti quegli anni.

- Dex...?- domandò poi, appressando la bocca al ricevitore.

- Sì, chi è?- rispose quello, tra l’affermativo ed il titubante. Gli pareva di aver già udito quel tono, da qualche parte... eppure chi poteva chiamarlo sul numero privato? Non conosceva il mittente.

- Eve.- fece lei, semplicemente annunciando il proprio nome.

Silenzio.

Dexter non rispose, la sorella udì solo un rumore di diversi passi sommessi in sottofondo e qualche lieve sospiro.

- Eve...- ripeté con voce tremante - Pensavo che non avessi più chiamato.-

- Beh, lo sai come sono fatta, dimentico sempre tutto.- cercò di ironizzare, nascondendo l’emozione ed il rammarico di star risentendo il fratello in un’occasione tanto tragica. Dex emise un soffio, accompagnato da un lieve sorriso liberatorio.

- Che si dice?-

- Tutto al suo posto.- fu la risposta della ragazza, che si appoggiò con la schiena al bancone in legno - Sono in Germania e tra un paio di giorni ho intenzione di essere lì.-

- In Germania...?- dopo lo stupore iniziale, Dexter le confermò l’indirizzo della clinica in cui il padre era ricoverato da diversi mesi a quella parte, poi si preoccupò di darle le informazioni adatte perché potesse arrivare a destinazione senza problemi.

- Chiaro. Allora a presto.- annuì Eve, trascrivendo le informazioni sul medesimo pezzo di carta sul quale aveva scarabocchiato il numero di telefono.

- A presto.- le rispose l’altro, facendo per chiudere la chiamata.

- Mi dispiace, piccolo, ti chiedo scusa.- aggiunse brevemente lei, frettolosamente sperando di che il fratello non avesse riattaccato. Ed infatti era rimasto in ascolto.

- Avrei dovuto chiamarti prima, invece ho lasciato passare un sacco di tempo.- riprese, mordendosi il labbro inferiore con un canino - A quest’ora papà poteva non esserci più e io non...-

- Già.- la interruppe il ragazzo, dall’altra parte, in una triste e consapevole affermazione - Ma lo so come sei fatta, dimentichi sempre tutto.- aggiunse in un mesto sorriso.

Eve gelò e, nel suo cuore di brace, mille spine si fecero largo tra le vene.

Poteva sperare di essergli grata per alleviare il peso con le sue parole, ma certo il senso di colpa non sarebbe stato attenuato così altrettanto facilmente.

- Ti aspetto, allora.-

Riattaccò.

Era stata una conversazione breve, ma tesa. Ed aveva avvertito la tensione nella voce di quel ragazzo non più bambino, cresciuto lontano, separato da lei e dall’intero suo mondo... la voce di suo fratello, del suo piccolo, distante fratello.


- Lo so, Ren. Non ti sto chiedendo di mentire, soltanto non correre immediatamente a spifferare tutto alla Rama.- le disse Eve, pazientemente tentando di tenere a freno la rabbia per essere stata sorpresa dalla compagna con delle stupide e petulanti domande.

Ren era tutta eccitata e moriva dalla voglia di raccontare a qualcuno del suo appuntamento di qualche giorno prima che, a quanto pareva, era andato a gonfie vele ed ora necessitava di un consiglio sull’abbigliamento che avrebbe dovuto adottare per la seconda uscita.

Non appena aveva fatto il suo ingresso nella stanza comune aveva notato qualcosa di strano in Eve, che stava per lasciare l’ostello facendole trovare un biglietto in cui spiegava che era partita ed avrebbe fatto ritorno entro la settimana. Nulla più.

Ma si erano incontrate ed ora la bionda cercava di togliersi d’impiccio e tentare di arrivare alla stazione in tempo per salire sul treno che l’avrebbe condotta alla prima stazione di scambio.

- Ma lo sai che se lo sa la Rama ti potrebbe buttare fuori dalla squadra!?- squittiva Ren, con aria ansiosa.

- Ti ho già detto che lo so, non è questo il problema. Ho considerato il fatto che sono troppo importante per lei e la sua squadra, e lo dico perché è un dato di fatto, non un vanto. Ed anche se dovesse accadere, vedrai che mi farà correre. E poi mi è stata lei a darmi una settimana libera, sarebbe da sciocchi non prenderla in parola!- alzò le spalle, prendendo lo zaino.

- Eh... ma... non avresti fatto prima ad avvertire la federazione...?- la raggiunse l’altra, di nuovo esordendo con un’espressione irrequieta.

- Certo, e secondo te mi avrebbero lasciata partire?- intervenne Eve, rivolgendole uno sguardo alterato - Beh, ci si vede!-

Uscì dal portone principale, limitandosi a rivolgerle un cenno con la mano, oramai già voltata di spalle.

Era ovvio, lampante, palese che la Rama o chi per essa non le avrebbero mai concesso il permesso di andarsene: troppi rischi, troppo formalismo, troppa indiscrezione. Come sempre. Così aveva deciso di fare di testa sua; a dire il vero non le importava nemmeno granché del fatto che avrebbe anche potuto rischiare il posto ai mondiali, anche se era quasi sicura che l’allenatrice non l’avrebbe mai espulsa. Contava troppo, per il suo piccolo, gretto tornaconto.

Stupido a dirsi - oramai aveva preso la piega di un grande ossimoro - ma stava realmente ardendo a mandare all’aria l’intenso allenarsi dei mesi passati, il duro e prolungato lavoro che, nonostante tutto, era più che disposta a sacrificare, una volta resasi conto che per lunghi mesi, un po’ la paura ed un po’ la mancanza di risolutezza, l’avevano indotta a tralasciare parte di quella famiglia che già era andata in pezzi una volta e che, malgrado il destino, malgrado il dolore e malgrado il terrore di riaprire vecchie cicatrici, sentiva che non poteva lasciare indietro.

E poi non voleva avere cattivi pensieri, desiderava solo pensare a suo padre; Dex non le aveva detto nulla, quindi presumeva che la situazione dovesse essere più o meno stabile.

Le occorsero parecchi cambi e diverse ore di viaggio, ma alla fine la stazione centrale di Amsterdam la accolse costante ed invasa dalla folla, proprio come la ricordava. Si confuse tra la gente, tra i colori ed i profumi dell’Olanda, si specchiò in diverse decine di volti assorti, decisi, pensosi... ognuno aveva una propria strada da percorrere, ma era quasi grottesco pensare che per degli attimi più o meno lunghi, le vite delle persone si lambivano ed incrociavano, silenti ed immote, quasi inconsapevoli, per poi separarsi così come si erano avvicinate, ad ogni fermata del tram.

In poco tempo si trovò davanti al padiglione grigiastro che Dex le aveva descritto per telefono, scrutando i vetri delle finestre mute e pensando che dietro ad una di esse c’erano suo padre e suo fratello che la stavano aspettando.

Socchiuse gli occhi ed attraversò la strada, mentre il vento caldo le sfiorò i capelli e l’accompagnò finché non ebbe completamente raggiunto il lato opposto della via, tra il brusio dei frettolosi passanti.

Si avviò su per le scale senza prendere l’ascensore e seguendo le indicazioni stampate su grandi cartelli gialli.

Terapia intensiva.

Fuori dal reparto, un paio di infermiere.

L’acre odore tipico degli ospedali le invase le narici, sino a penetrarle nel cervello, nelle membra - sino a saturarla, ma malgrado ciò Eve non vi badò e percorse il lungo corridoio a passi spediti.

- Mi scusi, non si può entrare.- una voce alle sue spalle, una mano sul dorso.

La ragazza si voltò, trovandosi di fronte una delle infermiere che aveva notato poco indietro. Annuì, mentre lo sguardo sorpassò le spalle della donna, raggiungendo la sagoma solitaria di un ragazzo sui sedici anni, capelli chiari, occhi celesti. Era vestito con una semplice maglietta azzurra senza maniche ed un paio di pantaloni piuttosto larghi, sotto ai quali indossava un paio di scarpe da ginnastica.

Si sarebbe detto un giovane qualunque, nonostante l’aria stanca, ma Eve riconobbe immediatamente gli stessi lineamenti che la memoria le richiamava, silente... era forse solo più uomo.

Le labbra piegate all’interno della bocca e la testa china, i capelli troppo corti non gli permettevano di nascondere gli occhi. Se ne stava là, appoggiato al muro con la schiena come se aspettasse qualcuno... Dex.

- Mi faccia passare, quel ragazzo è mio fratello.- disse.

L’altra si voltò verso il diretto interessato, per poi tornare a rivolgere ad Eve uno sguardo sorpreso.

- Lei sarebbe la figlia del signor Springer?- le domandò, tra lo stupito e l’incredulo.

- Esatto.- rispose la bionda, distogliendo lo sguardo e prendendo a camminare verso di lui. L’infermiera non si oppose ulteriormente, notando la grande somiglianza con il ragazzo, il quale già da qualche tempo aveva annunciato di star attendendo la visita della sorella.

Lo conoscevano bene in reparto, Dexter Springer. Se ne stava per la maggior parte del tempo seduto accanto al padre, raccontandogli la propria giornata, chiedendogli consigli e pareri riguardo a fatti che probabilmente non erano altro che invenzioni, segni di allarmi che non esistevano e che avevano l’unico scopo di rendere l’uomo partecipe di una vita che si svolgeva ben al di là dell’ospedale. Avevano spettegolato parecchio su quei due, padre e figlio - senza pretese, senza cattiveria, avevano avanzato mille ipotesi sulla loro situazione, su una condizione famigliare e privata che nonostante la lunga permanenza in clinica, nessuno dei due aveva mai rivelato, forti di una gran riservatezza.

Il ragazzo alzò la testa assumendo un’aria corrucciata, infastidito dai passi che provenivano veloci - quasi correndo - verso di lui dal corridoio solitamente quasi deserto.

E in quell’attimo, occhi negli occhi, blu nel blu... Eve e Dex si scambiarono una lunga occhiata carica di ogni cosa dimenticata, di ogni sentimento sino ad allora sopito... eppure silente. Poi si mosse verso la nuova venuta.

S’intesero subito, al primo sguardo. Tre lunghi anni non bastavano a separare l’istinto di due fratelli, che s’infransero petto contro petto in un abbraccio violento e scosso dai singhiozzi soffocati di un ragazzo solo e afflitto, che fino all’ultimo aveva sperato.

- Eve...- sospirò più volte, stringendo la sorella per le spalle e colmandosi del suo profumo così lontano e dimenticato, ma d’un tratto intensamente vicino.

- Sono qui.- gli ripeteva lei, sforzandosi di trattenersi dall’impeto, sebbene una lacrima le rigò il viso pallido e latteo. Una lacrima che Eve non asciugò, né trasportò via; stette lungamente stretta tra le braccia di suo fratello, rendendosi conto che quello scricciolo che era, oramai l’aveva superata in altezza di una buona decina di centimetri. Poteva avvertire di nuovo il suo calore, il suo fiato caldo e tremante infrangersi su una spalla, insieme alle gocce di pianto.

Era quasi strano tenere accanto al cuore qualcuno di cui aveva voluto allontanare il ricordo sino a qualche mese prima. Un ricordo amaro, una cicatrice che per chiudersi necessitava il totale allontanamento dalla fonte di dolore. Non aveva mai tenuto Dex così vicino a sé, se non nella prima infanzia... ed ora era quasi come trovarsi catapultata in quel periodo di sorrisi e caramelle, dolcemente dimenticato ed amaramente rimpianto.

Lui si asciugò presto le lacrime con il dorso di una mano, fissando a terra ed infilandosi poi le mani nelle tasche dei pantaloni. Quando alzò il capo era pronto a sorridere, seppure le gote arrossate. Oh, quel sorriso... quanto le pareva opaco e trapassato, quasi parte di un’altra vita.

Adorabile angelo, i timidi e solitari occhi segnati dalla stanchezza facevano contrasto con il viso sereno e malinconicamente sorridente.

La guardava senza aggiungere nulla, Eve. Sua sorella. Era cresciuta tanto; la cosa che aveva notato sin da subito era l’altezza... ed i capelli che ora portava molto corti.

Il suo volto marmoreo aveva assunto lineamenti definiti più adulti, ora Eve poteva dirsi una donna... e questo creò non poco sconforto nel cuore del giovane, consapevole oramai che il tempo trascorso andava ben al di là di quanto aveva sino ad allora immaginato.

- Dov’è la tua treccia d’oro?- le chiese, sempre sforzandosi di sorridere e di non cedere all’impulso di gettarsi tra le sue braccia e piangere ancora.

- E chi lo sa...- rispose lei con lo stesso sorriso ed una quasi rassegnata alzata di spalle.


- E così corri.-

- Già, ma ho intenzione di lasciar perdere. Non mi ispira più così tanto... non posso mangiare quello che voglio, avere delle ore fisse di allenamento è dura e poi mi manca disegnare, mi mancano i miei progetti. Ho sempre qualcosa in sospeso che rischia di cadere nel dimenticatoio...-

Dexter si stiracchiò, serrando le palpebre con delicatezza.

- E’ tipico di te.- sospirò, tornando alla realtà, mentre Eve si era voltava verso di lui con uno sguardo interrogativo sul volto illuminato dai raggi del sole già alto nel cielo - Quando qualcosa comincia a farsi seria, te ne distacchi completamente.-

La ragazza non si sentì colpita negativamente da quell’affermazione, già più volte il fratello le aveva rivolto frasi del genere, in passato... e tutto quello non era motivo di amarezza, ma quasi debolmente fonte di una piacevole consuetudine che non era cambiata affatto dopo tutto quel tempo, la consapevolezza di avere ritrovato in Eve qualcosa che aveva lasciato, che non era mutata, che era sempre sua sorella.

- Già, che ci vuoi fare!- sospirò lei - Sarà un problema quando riceverò una proposta di matrimonio!- aggiunse con una breve risata. L’altro si lasciò trasportare dall’ilarità e la spintonò lievemente con la falsa intenzione di farla cadere dalla panchina in legno del piccolo cortile dell’ospedale su cui erano seduti, all’ombra di un imponente albero dalle diffuse e rigogliose fronde.

- Attenta o diventerai una cicciona, se smetti di fare la velocista!- scherzò, mentre Eve si aggrappava allo schienale per non finire per terra.

- Che fai, sfotti!?- lo attaccò con uno scatto repentino, grattandogli la testa biondissima con le nocche.

Dex si liberò dell’affettuosa stretta, poi si stiracchiò nuovamente e sospirò in un sorriso, lasciando ad Eve il tempo di considerare strano come quel ragazzo non avesse perso il sorriso, pur vedendo suo padre in fin di vita in uno squallido lettino bianco...

- E tu che mi dici?- gli aveva raccontato tutto di lei.

- Mh...- il giovane alzò le spalle, portandosi le mani dietro la nuca a sostenere la testa. Era una giornata limpida, le nuvole passeggere si rincorrevano per quel cielo incredibilmente azzurro, dello stesso cristallino colore degli occhi di Dexter.

Eve alzò lo sguardo, appoggiando un braccio allo schienale della panchina ed il volto ad una mano.

- Ti sei fatto grande, piccolo.- sussurrò, lasciando che la debole brezza le scompigliasse la corta frangia.

- Sì...?- il fratello si strinse nelle spalle - Ma ora non hai più scusanti, non mi puoi più chiamare piccolo, sono più alto di te!-

- Ah, ci vuole poco ad essere più alto di me!- rise Eve di rimando - E poi pensavo che ti piacesse!- aggiunse, con un moto di stupore.

- E’ da quando avevo cinque anni...- sorrise come un bambino. Placido e sereno, la replica di uno di quei sorrisi infantili e senza pensieri che la sorella manteneva intatto in uno dei frammenti della propria memoria.

Era rimasta a guardarlo per lunghi istanti senza proferire più alcuna parola, la spensieratezza appena sfiorata se n’era inesorabilmente andata, lasciando il posto non alla scontata malinconia, ma alla più nitida quiete.

L’ombra delle foglie mosse dal vento creava silenziosi giochi di luce sul volto del fratello, rendendolo muto e lontano come un’antica scultura di cui non si conosce origine, né fine.

- Non voglio che tu mi odi. Non avrei dovuto lasciarti solo.- mormorò Eve, poco dopo, chinando lievemente il capo e poggiando la guancia sull’avambraccio ancora addossato alla panca.

Lui non si mosse, era come se si aspettasse una frase del genere, o come se ciò che lei aveva appena detto gli suonasse del tutto inutile, superfluo.

Voltò lentamente la testa bionda, socchiudendo le palpebre e schiarendosi la voce d’uomo.

- Sei mia sorella.- replicò naturalmente, ma con una gravità nel tono che lasciava trasparire tutta la maturità di un ragazzo cresciuto troppo in fretta - Lo sei sempre stata, dovrei odiarti perché mamma e papà si sono separati?-

Eve sospirò pesantemente, sollevando il petto e riabbassandolo, tremante.

- Dovresti odiarmi per aver prorogato fino ad oggi. Per essere così poco risoluta, per...-

- Oh, piantala!- Dex le tirò un altro amorevole spintone - Non è questione di coraggio, io lo sapevo che saresti venuta. Sei mia sorella, te l’ho detto, no?- aggiunse poi, offrendole la propria mano come appiglio. Quando la ragazza alzò il capo, si specchiò nei suoi occhi fiduciosi ed afferrò la sua mano, stringendola forte.

Era come se tutto l’amore del mondo fosse canalizzato nelle sue dita; all’inizio le era parso che Dexter avesse imparato con il tempo e con i drammi a non badare a più nulla, a non aspettarsi più niente dalla vita, cosicché ogni buona cosa che ne veniva, potesse essere accolta come dono, con giubilo... ed invece... invece in quel momento si stava rendendo conto che suo fratello non aveva mai smesso di sperare, che anche se il suo cuore era a pezzi non ne aveva gettato via i cocci, convinto o forse aggrappato all’esile speranza e sogno di poterlo ricostruire, un giorno.

- Forse è meglio se la chiamiamo.- fece lei, tornando a sedersi accanto al giovane, che però scosse la testa.

- Non verrebbe.- asserì.

- E invece sì.- replicò Eve, mantenendo la stretta salda della mano. Dex alzò un sopracciglio, gettandole un’occhiata tentennante, come se fosse bastata una parola sola per essere totalmente convinto a fare ciò che entrambi sapevano, a fare ciò che andava fatto.

- Tentare...?-

- Tentare.- confermò lei.


Non le disse nulla di più.

Riattaccò il ricevitore, prima che potesse chiedere spiegazioni.

Le aveva solo fatto prendere nota dell’indirizzo e le aveva comunicato di venire il più presto possibile.

- Le hai detto nulla di papà?- le domandò Dex, quando Eve tornò dalla hall dei telefoni.

- Non potevo.- scosse la testa, trovandosi di nuovo a fissarlo in quegli occhi così simili ai propri - Voglio vederlo.- annunciò poi, reprimendo in gola un ennesimo sospiro.

Fu condotta senza frasi di rito, né sciocchi intercalari nella stanza in cui riposava Damien Springer. Attraversò il lungo corridoio con la stessa ansia e pesantezza che sentiva quando doveva coprire i cento metri che la separavano dal traguardo, a passi lenti, vuoti, che rimbombavano nell’androne bianco.

Quando l’infermiera scostò la tendina candida, Eve poté constatare che ogni cosa era vera - nessun sogno l’aveva ricondotta in Olanda - era tutta realtà.

Suo padre era malato. Gravemente malato.

Gli occhi azzurri infossati nelle cavità e semichiusi, persi, indistinti, spenti.

Era attaccato a delle macchine attraverso sonde, tubi, aghi.

Pallido, immobile. I capelli chiarissimi stavano quasi scomparendo, confondendosi con il colore bianco cadaverico e giallastro dell’ittero della pelle. Era dannatamente giovane... eppure sembrava così vecchio e debole.

Si avvicinò al letto senza dischiudere le labbra, sino ad allora serrate l’una sull’altra - Dex le stava al fianco.

Le palpebre dell’uomo ebbero un fremito e si volsero lentamente verso la nuova venuta, che si era portata dinnanzi alla finestra, schermandogli la luce tenue del sole ed apparendogli come eterea visione di qualcuno di trapassato.

- Nicholas...- sussurrò, facendo per muovere una mano verso la sagoma della ragazza.

Eve chiuse gli occhi e schiuse finalmente la bocca, facendosi avanti per permettergli di distinguere i lineamenti femminili sul proprio volto.

- No, papà. Sono Eve.- disse, lieve.

- Eve...- ripeté lui, mettendosi a sedere aiutato da entrambi i figli.

- Ciao...- sussurrò la ragazza, tentando di reprimere un leggero moto di confusione dato dall’essere stata scambiata per Nicholas in modo così inaspettato.

- Eve. Come stai?- ripeté l’uomo, protendendo entrambe le deboli braccia ed abbracciandola forte - Non credevo di poterti rivedere... come stai, piccolina mia...? Sei cresciuta tanto... tanto...-

- Sto bene.- rispose lei, evitando di apostrofare uno squallido e fuori luogo “e tu?” e lasciando che il padre le passasse una mano sui capelli, sorridendo debolmente e rimirandola sussultando a tratti.

- Sono contento... che tu sia venuta.-


Una sordida e strisciante rabbia le si era fatta largo nello spirito dal momento in cui suo padre le aveva rivolto il primo sguardo... dopo anni.

Come poteva vederlo così e non fare nulla? Sarebbe morto. A settimane. Trapianto? Troppo tardi.

Quell’uomo avrebbe chiuso gli occhi per sempre, oramai il tempo era soltanto qualcosa di vacuo e superfluo. Aveva aspettato troppo. Ed ora...? Ora non poteva compiangersi, Dex gliel’aveva già ripetuto mille volte. Ognuno, in quella storia, aveva avuto il suo ruolo; inutile dolere delle proprie volute azioni.

Qualche giorno prima aveva chiamato la madre, che sarebbe arrivata oramai a breve. L’aveva fatta preoccupare parecchio, nominando il reparto di terapia intensiva... ed ora era sicura che sarebbe stata da loro.

Aveva altresì richiamato più volte, ma Eve non si era sbottonata. Forse se sua madre avesse saputo il vero motivo per cui la sua presenza era richiesta in Olanda, non sarebbe più venuta... o l’avrebbe fatto con pensieri di ogni genere in mente. L’ansia non era certo una buona compagna di viaggio, ma era quantomeno meglio di ogni sentimento negativo avrebbe potuto causare il rivelarle ogni cosa.

- Allora?-

Dex scosse la testa.

Stavano per perdere le speranza, quando una giovane donna dai lunghi capelli corvini si avvicinò a lei correndo.

- Eve! Stai bene, grazie al cielo!- la abbracciò con veemenza, ma la ragazza non disse nulla - Sei impazzita?! Perché non mi hai detto nulla, che cosa ci...-

Fece per proseguire nel suo scatto d’apprensione, quando il suo sguardo superò la spalla della figlia ed incontrò gli occhi limpidi di quel ragazzo che ogni giorno della sua vita si rammaricava di non poter stringere a sé.

- Dexter...- soffiò, sforzando di mantenersi lucida e non cedere ad uno svenimento improvviso.

L’ansia data dal silenzio di Eve e dal viaggio preparato così in tutta fretta... tutte le ore passate a congetturare cosa potesse essere accaduto, ed ora... prima ancora che potesse pensarlo, le tracce di nero mascara si stavano sciogliendo sul suo viso pallido, trasportate via da lacrime nervose.

Eve si sentì tutt’un tratto come stretta in una morsa di ghiaccio. Ma infondo non doveva essere anche lei triste per suo padre? Per quell’uomo che avrebbe dovuto vedere come il papà di sempre, quello che l’aveva allontanata perché somigliava troppo a Nicholas... Solo allora cominciò a nascere nella sua mente l’idea che probabilmente era Nicholas ad assomigliare troppo a lei.

- Vieni con me.- le disse poi, prendendola per un braccio e senza darle il tempo di dare un abbraccio decente al fratello. Non poteva fermarsi, non adesso. Quella sarebbe stata un’altra cosa che Dex avrebbe dovuto perdonarle, nel corso del tempo. Se ci sarebbe riuscito, quello spettava soltanto a lui deciderlo... ora Eve sapeva che se avesse permesso al vuoto di impossessarsi di lei per un solo, misero istante, sarebbe stata capace di lasciare cadere tutto - compresa sé stessa - ai piedi di un letto bianco ed anonimo d’ospedale.

La condusse in quella stanza deserta e bianca... ecco cosa voleva farle vedere.

- Mio Dio...- mormorò la donna, bloccandosi.

- Narumi...?- disse flebilmente l’uomo disteso, mentre gli pareva di scorgere realmente il volto di colei che un tempo era stata la sua appassionata consorte.

Lei non si mosse, rinunciò repentinamente allo slancio di tornare indietro per strappare un abbraccio a Dex. Tutto si annullò in un istante solo, durante il quale i suoi occhi dal taglio orientale non incontrarono il corpo debilitato di Damien, la sua pelle itterica ed i mille aghi che gli penetravano nella carne.

Rimase in piedi senza riuscire a controllare il senso di smarrimento, improvvisa indolenza, spasmo e nausea che le aveva attanagliato lo stomaco, in un silenzio strano, teso, disperato. Poi scoppiò di nuovo in lacrime.

- Ma che... ma che ti è successo...??- urlò, gettandosi ai suoi piedi ed aggrappandosi alle sue mani bianche.

Alcune infermiere accorsero poco dopo, seguite da un medico in camice bianco e stetoscopio alla mano.

- Che succede qui!? Lo sa che non può...- la prima infermiera lasciò cadere la frase a metà, quando riconobbe i due fratelli fermi sulla soglia ed intendendo che la donna in lacrime che strofinava il volto alle braccia del paziente doveva esserne la madre.

Si trovò a considerare che si trattava una donna molto bella, persino con il volto distorto dal dolore di una scoperta così improvvisa e terribile.


Poco più tardi tutto le fu più chiaro.

- Eve, perché non me l’hai detto subito?-

- Perché se l’avessi fatto, tu non saresti mai venuta.- fu la risposta della ragazza, che prese l’ultimo sorso dal bicchiere d’acqua, poi lo riappoggiò sul comodino.

La donna tacque. Aveva ragione... non era altro che una vigliacca, non sarebbe mai andata se l’avesse saputo. Presa dalla pena, dalla paura, da ogni piccola inquietudine, che si sarebbe trasformata in una mostruosa angoscia, si sarebbe nascosta... finché tutto non sarebbe finito ed oltre.

Dio, era uno spettacolo orribile... quell’uomo ridotto ad uno straccio sul un lettino desolato in una clinica che non aveva saputo ridonargli la vita.

- Mi dispiace infinitamente, signora... ma glielo devo dire: a suo marito non restano che poche settimane. Il tumore localizzato è divenuto ormai inoperabile. Abbiamo tentato di proporre al signor Springer diverse volte terapie di termoablazione, iniezioni percutanee di etanolo e chemioembolizzazione, ma si è sempre rifiutato. Se vuole seguirmi, le illustro queste procedure.- il medico aveva proferito le parole che l’avevano fatto sentire in colpa già molte altre volte; si lisciò il pizzetto grigio e la accompagnò fuori.

- Aspetti...- la voce debole dell’uomo interruppe la marcia dei due, facendo sì che i presenti si voltassero verso il letto - Voglio che... che stacchiate queste macchine.- sorrise poi, placido.

- Cosa...?- domandò incredulo lo specialista.

- Ha capito cosa intendo. Credo che il destino si sia preso l’onere di riunire tutti qui, tutta la mia famiglia, prima che me ne andassi... e penso questa sia un’occasione insperata, forse addirittura troppo per me. Ora che siamo qui tutti e quattro insieme, vorrei dare l’ultimo addio alle persone che amo di più al mondo.- gli occhi della moglie si riempirono nuovamente di stille di cristallo, mentre si portava una mano alla bocca per evitare che i singhiozzi si facessero troppo acuti.

- Non voglio che restino ancora a lungo per vedermi deteriorare giorno per giorno. Immagino di essere già uno spettacolo abbastanza pietoso, non voglio pesare di più. Facciamolo, per favore.-

La richiesta era stata portata avanti con un tono fin troppo formale, quasi gelido... quasi non si trattasse della vita, ma di una decisione qualunque, professionalmente ponderata.

Ci vollero diversi minuti perché il dottore lasciasse la stanza - tra vani tentativi di convinzione e frasi mirate a comprendere il reale stato d’animo del paziente - cosicché l’uomo potesse rimanere solo con i famigliari.

- Cosa sono quei musi lunghi?- sorrise, facendo un grande sforzo - Non ho nulla da recriminare, voglio che siate felici, tutti voi.-

Narumi si avvicinò di un passo repentino, stringendogli di nuovo forte le mani. Tutt’un tratto si era ritrovata inesorabilmente vicino al cuore di un uomo che aveva ingiustamente tentato di reprimere e dimenticare, ma che dopotutto era rimasto sempre costantemente accanto al ricordo del suo figlio perduto, come ombra e come presenza.

- Perché non hai tentato di guarire?!- gli domandò con disperata aria di rimprovero.

- Perché... sono stanco.- un lungo sospiro rotto si fece largo tra il ventre gonfio e l’ampio ma debole petto dell’uomo che una volta doveva essere stato prestante e sano - Ho dato tutto alla vita, mi sono sforzato di viverla ogni giorno al massimo, senza rimandare, senza crucci, né pensieri. E non voglio che la mia condizione precluda a voi la possibilità di farlo. Non voglio costringere i miei figli a vegliare sul mio letto per anni, portandogli via il periodo migliore della loro vita, costringendoli a stare accanto a qualcuno che, anche con un trapianto, non avrebbe mai una possibilità di stare bene. Finirebbero per odiarmi ed odiare loro stessi. Ho già perso un ragazzo, non voglio rendere schiavi anche loro... anche te.- si specchiò nelle iridi scure della moglie, che d’un tratto aveva smesso di respirare, trattenendo il fiato - Sei giovane, affascinante... e intelligente. Hai ancora il tempo di essere felice... io mi faccio da parte.-

Eve serrò la mascella, mentre Dex strinse più che poté i pugni delle mani per evitare di piangere, per evitare di crollare. L’avrebbe fatto a suo tempo, quando ogni cosa che ora si muoveva caotica nel suo cuore si sarebbe quietata.

Poi il padre si rivolse a loro, con il medesimo sorriso provato.

- Siete cresciuti più belli di quanto immaginassi. Vivete le vostre vite nella gioia più intensa... e quando sarete tristi, ricordate che potete ricominciare quando volete. Non vi frena nulla, siete liberi di fare le vostre scelte come io ho compiuto la mia. E ora per favore, Narumi, non chiedere più. Ti sembrerà una frase fatta, ma forse un giorno capirai.-

- Papà...- sussurrò il ragazzo, mentre la donna non aggiunse nulla, si limitò a poggiare il capo pesante sulle lenzuola azzurrine, accanto alle mani ossute del compagno.

E rimasero lì... anche il giorno in cui videro i suoi occhi spegnersi per sempre.

L’avrebbero ritrovato, forse, prima o poi, nei loro cuori - giusto il tempo di ricomporne i pezzi - come avrebbero ritrovato Nicholas.

Ed avrebbero considerato entrambi parte di loro stessi, di nuovo.

Sarebbero venuti ad essere un ricordo dolcissimo, tenero e un po’ amaro... come il gusto di un caffè preso di fretta in un bar alla stazione, mentre i treni passano e il vento porta via fogli anonimi di giornale, tra il mormorio frenetico della folla e le mille direzioni che può seguire un binario.


Il sole al tramonto faceva capolino dagli alberi che costeggiavano la corsia.

Il punto cardine che doveva seguire, a cui si era riproposta di fare capo era la gratitudine che provava verso suo padre... per ogni cosa.

Il paesaggio sfrecciava veloce alla sua destra.

Non si sentiva più in conflitto con lui, probabilmente ogni parola che le aveva detto aveva concorso a far sembrare la scena più melodrammatica, ma in quel momento Eve si trovò serenamente a ringraziarlo con un muto sorriso per averla messa al mondo, per averle regalato la cosa più bella che aveva, per averle insegnato il valore di una scelta.

Il taxi frenò ed i tre scesero quasi contemporaneamente.

Per quanto si fosse sforzata di reprimere ogni cosa, non poteva non ammettere che l’amava e l’aveva sempre amato intensamente ed ora, forte del suo onore, non doveva far altro che vivere, solo... vivere. E lo avrebbe fatto - ora sì che era completamente libera del peso intossicante della morte - e le sembrava di volare, se solo avesse avuto un paio d’ali.

- Mamma...?- Dex sollevò il proprio zaino, poggiando una mano sulla spalla della donna - Ti posso chiamare ancora così?-

La donna si fermò, l’intero aeroporto ghiacciò dinnanzi agli occhi oltremare del ragazzo, desiderosi di una risposta, di un segno qualunque d’affetto. Eve avrebbe detto che la madre si sarebbe di nuovo lasciata andare ad una scossa di pianto... ed invece le sue labbra dipinte di tenue rosso si distesero in un sorriso così caldo ed avvolgente che le parve d’essere tornata bambina, al tempo in cui la vedeva accoccolata in poltrona a cullare quel fagottino minuscolo tra le braccia, illuminata dal sole del mattino che filtrava tra le imposte bianche semiaperte ed i ciliegi nel giardino mandavano un inconfondibile profumo di primavera.

- Vorrei che tu non avessi mai smesso di farlo...- sussurrò al suo orecchio, traendolo a sé con un braccio, mentre la ragazza si voltava con un sorriso sereno per pagare la corsa, lasciando ai due un nuovo attimo d’intimità.

Poche ore dopo erano di nuovo sul punto di salutarsi, al terminal. Sebbene Eve avesse già in programma un ritorno in treno, così com’era venuta, la madre aveva insistito per farla tornare in aereo: così facendo avrebbe guadagnato più tempo e accumulato meno stress. Protettiva fino in fondo.

- Sicura?- le chiese per l’ennesima volta, aggrottando le sopracciglia.

- Ma certo! Sono grande, ormai! E poi ho già il biglietto!- e per la milionesima volta, Eve le rispose le medesime parole - Perché non ti occupi un po’ di Dex, ora? Preparati a diventare il cocco di mamma!- rise, lanciando una gomitata al fratello, che si lasciò contagiare dalla battuta e le restituì l’affettuoso colpo.

- Non cantare vittoria, ti aspettiamo in Giappone!- sorrise, porgendole lo zaino che fino ad allora si era offerto di portare per lei.

L’aereo per Tokio partì prima di quello per Amburgo, così - dopo saluti, promesse e raccomandazioni - i tre si separarono ed Eve rimase un po’ di tempo ancora da sola, seduta sulla poltroncina della gigantesca sala, aspettando il suo turno per il check-in.

Era accaduto tutto così in fretta, che ci avrebbe messo mesi per abituarsi all’idea, al fatto che ora che lei, la mamma e Dex erano di nuovo insieme... residui di una famiglia spezzata, ma dopotutto ancora in piedi.

Avrebbero ricominciato daccapo, ma questa volta sarebbe stato per sempre - ed uniti. E non avrebbe pianto, né abbassato lo sguardo d’ora in poi, quando si sarebbe parlato di Nicholas o del padre. Avrebbe sorriso, pensando che le vite che entrambi avevano vissuto erano state sentite con ardore e lei aveva dedicato loro tutto l’amore del mondo.

Si sentiva tremendamente lontana anche da quel brutto periodo, scuri anni di sedicenne scontrosa e selvatica, quando credeva che il mondo era nero e buio, atroce e cattivo e le persone false e bugiarde. Quando trattava tutti come piccoli vermi striscianti, umiliava e faceva soffrire le persone per non finire vittima di un altro, tremendo dolore com’era stato perdere la sua perfetta metà e vedere la propria famiglia disfarsi come una statua di sale.


Era morto, scomparso per sempre dal mondo, l’uomo della sua vita.

L’aveva amato col cuore, con l’anima - non aveva mai smesso di farlo, infondo, e lo sapeva bene, Narumi, madre e moglie. Sapeva bene che se fosse rimasta al fianco di Damien, probabilmente prima o poi sarebbero finiti entrambi nell’apatia più totale, seguitando ad incolparsi per la perdita di Nicholas, per la disattenzione come genitori, per l’inadeguatezza ed ogni carenza, su ogni fronte.

E così si erano lasciati quella mano che si erano stretti per anni, prendendo direzioni diverse, provando a dimenticarsi, tentando di disprezzarsi.

Eppure... eppure.

Ma ora doveva guardare avanti, per il bene dei suoi due ragazzi e per il proprio.

Felicità. Il sogno che aveva da tempo, desiderava realizzarlo in qualunque modo.

Era riuscita lentamente a vincere la depressione, a non dipendere più dai farmaci. Aveva sconfitto i fantasmi del passato ed ora si sarebbe detta capace di vivere senza angosce, senza dubbi che le martellavano il cervello... dubbi di non essere una buona madre, una buona persona, una buona donna.

Niente era perfetto, certo, questa era forse l’unica cosa di cui era certa, ma poteva rendere tale ciò che amava di più e con esso rendere felici i suoi figli. Dex. Eve. Perché, dopotutto, non è il raggiungere la compiutezza, ciò che rende pienamente fieri ed appagati, ma gli sforzi che si fanno per raggiungere una perfezione che forse non arriverà mai, ma che i cui risultati sono in grado di scaldare il cuore, anche dopo anni di gelo.


Si era sentito vuoto per troppo tempo, era cresciuto repentinamente da un momento all’altro, quando gli avevano detto che suo fratello maggiore non c’era più, li aveva lasciati... era volato in cielo. Mille volte si era soffermato a guardare quello stesso cielo, sperando che prima o poi le nuvole gli restituissero Nicholas.

Eve era diventata fredda, selvatica, scontrosa ed aggressiva. Ciò che la circondava aveva perso ogni valore e si era trovata a rifiutare qualsiasi rapporto umano, divenendo per contro iperprotettiva nei suoi confronti, trattandolo come cristallo, arrivando addirittura ad alzare le mani su qualcuno che aveva la sfortuna di lanciargli uno sguardo non proprio benevolo.

Poi si erano separati e lui era stato catapultato in un mondo totalmente nuovo. Aveva dovuto imparare a cavarsela da solo, ad ambientarsi in un continente così diverso e che solo col tempo aveva smesso di parergli strano.

Ciò che ora si sentiva di fare era il riscattare tutto quello che si era perso in quegli anni, fingendo di sembrare forte, ma in realtà soffrendo terribilmente per essere stato sradicato e buttato a mare, dovendo ancora imparare a nuotare.

Sorrise, mentre voltò il capo dal viso provato della madre - reclinato dolcemente sulla sua spalla - ed andando a rivolgere lo sguardo limpido ai gonfi e voluminosi cirri nivei fuori dall’oblò del finestrino, come a dire nuvole, tenetevi Nicholas... e papà. E’ con voi che devono stare.


 

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