________________ Odi
et amo. Quare id faciam fortasse requiris nescio, sed fieri sentio et excrucior ________________ Orfèus
kài Eurìdike ________ Prologo: Tanto
tempo fa, quando gli uomini ancora riposavano nel freddo grembo della madre, e
gli animali erano troppo timidi per mostrarsi; tanto tempo fa, quando sulla terra
c'erano solo le piante, quando i boschi erano ancora floridi, quando l'acqua zampillava
felice dalle sorgenti e gioiva alla luce del sole, due alberi si amavano in silenzio.
Ogni tanto il vento, che scuoteva le loro fronde, gli permetteva di accarezzarsi,
ed il leggero aroma delle loro foglie si alzava e volava lungo il querceto bisbigliando
a tutti del loro amore clandestino. I due avrebbero voluto stare vicini, liberare
le radici dal terreno e correre l'uno verso l'altra, ma l'unica cosa che potevano
fare era giacere fermi e guardarsi a vicenda. Passavano i giorni e passavano le
notti, ma loro, instancabili, continuavano a sognare un grande amore libero, tanto
da far arrossire il Cielo, da far sognare i fiori e gli uccelli che si posavano
sui loro rami. In fondo, non c'era niente che avrebbero voluto di più.
Anche se non potevano toccarsi, non potevano parlarsi, non potevano abbracciarsi,
avevano l'uno l'amore dell'altro. Cosa potevano desiderare di meglio? Nulla avrebbe
potuto dividerli. Passarono miliardi di anni, sulla Terra si succedettero i dinosauri
ed infine gli uomini. E fu proprio a causa loro che una passione, creduta indissolubile,
spirò. Un' esile fiammella venne colta dal vento, viaggiò per i
prati diventando sempre più grande ed alla fine arrivò ad uno dei
due alberi, e pose alle fiamme il suo debole fusto. Il suo povero amante non potè
far altro che osservare l'unico amore che avrebbe mai potuto avere mentre si contorceva
per i dolori e si avvolgeva su sé stesso liberando mucchi di cenere. Il
suo più caro tesoro perì proprio sotto il suo sguardo sconsolato:
lui non aveva potuto fare niente, solo disperarsi per la sua perdita e sperare
che accadesse a lui ciò che era accaduto a lei. Si rivolse al fuoco ardente
che lo aveva privato della sua ragione di vita e lo pregò - Portami da
lei
portami da lei
- le fiamme sorrisero tristemente, consapevoli di
tutto il male che avevano arrecato e risposero - Lasciala andare -. Si abbassarono
sempre di più fino a scomparire, e lasciarono l'infelice solo, a cantare
il proprio dolore. Il povero albero si rattristò sempre di più,
perse tutte le foglie, i rami, un tempo forti e vigorosi, si raggrinzirono, e,
per quanto si sforzasse, nemmeno la sua linfa vitale potè restituirgli
tutto il suo antico fulgore. Passarono gli anni, miliardi di anni, i boschi vennero
completamente rasi al suolo, ma lui non venne mai reciso: era debole e malato.
Rimase per millenni a soffrire per il suo amore perduto, mentre la malattia lo
divorava. Intorno a lui vennero sradicati e piantati nuovi alberi, i bambini,
vedendolo così triste e malconcio, si rifiutavano di giocarci vicino, nessuno
uccellino si posò più sui suoi rami; ma lui non se ne curava affatto,
aspettava solo che qualcuno comprendesse il suo dolore e lo liberasse da quello.
Ed infatti un giorno, degli uomini con delle seghe recisero il suo misero tronco,
e ne fecero tanti piccoli pezzettini per il camino. Solo allora capì, solo
allora si rese conto di quello che aveva fatto e pensò "Ora che sto
per morire mi rendo conto di non aver affatto vissuto. Il fuoco, che quel giorno
mi ha portato via tutto ciò che avevo di più caro, ha voluto essermi
amico e mi ha permesso di vivere ancora a lungo, ma io
? Come l' ho ripagato?
Infangando il suo nome, e sprecando ogni attimo prezioso di vita, in cui avrei
potuto essere felice! Se il mio dolce amore mi avesse visto cosa avrebbe detto?
Poverina, avrebbe sofferto moltissimo
io l' ho fatta soffrire! Ti prego Zeus,
se esisti veramente dammi un'altra possibilità! Giuro che sta volta non
commetterò lo stesso errore, lasciami recuperare tutto il tempo perso!
So di esser stato causa di grande delusione e grande dolore, ma ti prego
Oh
no, ormai è tardi. Vedo le fiamme farsi sempre più vicine e ardenti
Che
tristezza, io non voglio morire così
" Invocazione
(Ninfe dei boschi):
I tuoni si sono spenti, il cielo non è più
uggioso, la fitta rugiada che ha rivestito il mondo si è sciolta, e uno
sfolgorio di colori e luci ha attraversato la vostra terra di mortali. Spruzzi
di rosa, giallo, viola e oltre, hanno toccato il cielo disegnandovi un ampio,
meraviglioso arco, e mentre sale la notte fregiata di stelle, noi, della nostra
compagna vi racconteremo la storia. Il suo nome fulgente era Euridice, la ninfa
dai capelli fulvi come il sole, che danzava ai piedi dell'arcobaleno ed abbagliava
uomini e mortali con la sua gentile figura. Grande, Diana dona a noi le parole
per narrare la storia di un amore ultraterreno, del quale gli uomini ancora non
conoscono la reale natura, e ti invochiamo affinché tu faccia scendere
un assoluto silenzio sulla terra in modo che il nostro racconto possa essere l'unica
cosa udibile. L'usignolo non canterà, ed il lupo non ruggirà.
L'unica voce che viaggerà lungo i boschi e le montagne, e l'unica poesia
che risuonerà fra le praterie, ed in mezzo agli oceani, sarà quella
del vento, e noi divine, per mezzo di essa, ed attingendo dai pensieri altrui,
narreremo una storia che bisogna udire. Così che anche i mortali possano
imparare, cosa vuol dire amare, soffrire e morire d'amore. E, mentre le nostre
voci si ergeranno in cielo dritte come le ali del celeste Cupido, che dell'amore
è l'artefice incondizionato, la loro cupidigia si intimidirà. E
la rilucente Persefone, dagli inferi più penetranti, ci accorderà
un onore indescrivibile: dalle profondità remote della fossa in cui, da
molto, giace, la voce inverosimile di un malinconico cantore ci accompagnerà
nel nostro errare lungo sentieri mai calpestati prima d'ora. ORFEO
Non so perché, ma era sempre stata mia abitudine quella di allontanarmi
dagli abitanti del mio villaggio, anzi non solo da quelli, ma da quasi tutte le
persone che conoscevo. Non mi piacevano i loro stupidi giochi, detestavo le feste,
e non ero poi così fraterno e di piacevole compagnia, per poter stare insieme
a degli 'amici', se così si possono definire
Io non ho mai avuto dei
veri amici: sono sempre stato troppo scontroso, troppo timido, troppo individualista,
o cose del genere. Ma soprattutto, ero troppo attaccato alla mia musica. Portavo
sempre la mia arpa con me, e suonavo ogni volta che c'era la possibilità,
oppure suonavo lo stesso
Perfino il mio maestro, quando vide quant'ero attaccato
alla mia piccola arpa, decise che probabilmente avrei potuto usufruirne come strumento
di offesa; lui comunque non mi sentì mai suonare, o meglio non mi sentì
mai suonare qualcosa di diverso da un requiem di morte per i miei avversari. Nessuno
mi sentì suonare. Nemmeno mia madre, e neanche gli abitanti del mio villaggio,
sebbene mi chiedessero spesso di dimostrar loro la mia bravura. La verità
era che io non volevo mettermi in mostra, e sinceramente non ho mai nemmeno saputo
quali fossero le mie capacità. Non m'interessava 'essere bravo ', mi bastava
solo intonare una musica che mi facesse sentire in pace con il mondo, e soprattutto
con me stesso, e
si, con la mia solitudine. Uscivo di casa la mattina presto
e tornavo solo la sera per dormire. Non mi piaceva stare con mia madre, né
tanto meno col mio maestro o i miei vicini di casa: finiti gli allenamenti m'inoltravo
nel bosco per stare a contatto con la natura e con la mia musica. Le piante, i
fiori, gli animali
loro erano la mia compagnia ideale. Solo io ed un mondo
totalmente incorrotto, dove tutto sembrava perfetto. E questo mondo non volevo
condividerlo con nessuno, solo la mia musica. Un ragionamento piuttosto egoistico,
lo ammetto, ma era il solo modo in cui potessi trovare un attimo di pace. Quando
suonavo, quando sfioravo con le dita le morbide corde della mia fedele arpa, tutto
scompariva, si liquefaceva, si sublimava in qualcosa d'indescrivibile. Tutte le
mie paure, le mie preoccupazioni svanivano per lasciare il posto ad un senso di
pace assoluta e pura. Più volte ho tentato di musicare quelle sensazioni,
così da poter condividerle con i fiori che ospitavano le mie melodie, ma
non ci sono mai riuscito, non come volevo io. La musica per me era tutto. Non
m'importava che mi dessero dello scontroso, del pessimista, no, io avevo la mia
musica, ed un mondo ideale. Sarebbe stato bello se quel mondo fosse esistito davvero,
ma naturalmente era impossibile, certo non per la mia mente, ma per gli altri
esseri umani. Chiudevo gli occhi e perdevo ogni cognizione della realtà:
solo io, una dolce armonia, i fiori, gli alberi, e il cielo. Niente cattiveria,
niente invidia, niente falsità. Forse era un po' rischioso, ma non potevo
farne a meno. Però, ogni volta qualcosa veniva a risvegliarmi dal mio sogno,
allora tutto si stracciava come un dipinto, la dolce melodia diventata un orrendo
sibilo, i fiori appassivano, gli alberi morivano, e il cielo piangeva. Io ritornavo
alla normalità affranto: la mia chimera sembrava così vicina, che
pensavo si potesse avverare. Soffrivo, eppure mi sentivo così felice. La
verità era che non trovavo pace. Ero un sognatore, non avrei mai smesso
di immaginare l'utopia di un universo a parte, un regno solo per me e la mia musica.
Il mio maestro spesso mi sgridava, ma so che infondo apprezzava questa mia fervida
immaginazione, mi diceva "Smetti di sognare, Orfeo, tu sei un cavaliere di
Atena, non puoi concederti certe debolezze. Adesso sei solo un ragazzino, ma un
giorno crescerai e capirai". Disse proprio così, eppure io non cambiai
mai: da adolescente quale ero diventai un uomo adulto, ma non smisi mai d'inseguire
le mie illusioni. Appena potevo m'isolavo dalla comunità, e mi rifugiavo
in mezzo alle piante baciate dal sole. E fu proprio in un bellissimo giorno
di sole che conobbi Euridice. Erravo per i prati in cerca della postazione ideale
dove segregarmi, quando sentì delle risa gaie provenire dal folto del bosco.
Mi avventurai fra i cespugli erbosi ed intravidi un gruppo di fanciulle ridere
e schizzarsi con le acque di una sorgente limpida. Capì subito chi erano:
Ninfe dei Boschi. I capelli come fili d'oro filati dalla Dea Afodite, quelle voci
limpide e cantilenanti, le vesti regali e le braccia candide potevano far pensare
solo alle fedeli accompagnatrici di Diana, la sovrana incondizionata della Luna.
Feci per andarmene, non ero certo interessato ai loro giochi, quando il mio sguardo
venne catturato da una figura fatta di alabastro e petali di rosa. Rimasi nascosto
fra i cespugli, e, seppur con mio sommo stupore, la spiai in silenzio per un po':
anche lei era una ninfa, solo che se ne stava isolata dalle sue compagne. La prima
cosa che mi colpì furono quei suoi capelli ribelli e riccissimi, e il modo
in cui si arrotolavano su sé stessi, per poi ricadere morbidi ai lati del
viso, e su quelle spalle spioventi e perfettamente dorate dal sole. La osservavo
mentre giocava con qualche ciocca e mi ritrovavo ad immaginare come sarebbe stato
passare le mani fra quei tessuti d'opale, e vedere come si attorcigliavano intorno
alle mie dita e scivolavano via bellissimi e leggeri, come pioggia. E lei, tentava
di portarli indietro con le mani, ma loro, capricciosi, non ne volevano sapere,
e le ricadevano sbarazzini davanti agli occhi color smeraldo. Affilai lo sguardo
e rimirai quelle labbra, rosse e fresche come fragole, contrarsi in leggeri sorrisi,
ed incitare le sue compagne al divertimento. Arrossii leggermente, ma me ne andai,
dopotutto come mi permettevo di fissarla in quel modo? Chi ero io per infastidire
una divinità
. Mi sistemai lontano da loro ed iniziai a suonare, immediatamente
avvertii dei fruscii scattanti nell'erba: le ninfe naturalmente si erano spaventate
ed erano scappate. Io un po' mi corrucciai di aver intimorito la splendida figura
che mi aveva incantato, ma poi pensai che era meglio così, che non avevo
alcun diritto su chi mi era superiore per nascita. Subito dopo però, percepii
un altro fruscio, stavolta timido e lieve: socchiusi gli occhi e vidi la sublime
creatura di prima nascosta dietro ad un albero. Istintivamente sorrisi, e continuai
a suonare. Man mano che la mia musica andava avanti, lei si avvicinava sempre
di più, sempre di più, ed alla fine si sedette accanto a me e mi
fissò con curiosità mista ad ammirazione. Io, senza però
smettere di suonare altrimenti avrei potuto metterle paura, aprì gli occhi
e potei finalmente ammirare quello splendido viso in tutto il suo fulgore divino:
mi parve di non aver mai visto niente di più bello neanche nei miei sogni.
Quei riccioli d'opale le incorniciavano il viso e le spalle come se volessero
dire "Hai visto quant'è bella la nostra signora?", e quegli occhi
verdi mi guardavano in quel modo un po' sfacciato, ma dolcissimo. Un perfetto
viso da bambina, ed una pelle color caramello. Una creatura immaginaria che aveva
preso vita solo per me, perché sapeva quant'ero solo, e quanto desideravo
qualcosa che mi facesse sentire bene, qualcosa che si potesse toccare, che esistesse
veramente, qualcosa da poter amare sul serio più di qualsiasi altra cosa.
Senza neanche rendermene conto le sorrisi dolcemente, come non avevo mai fatto
con nessuno, e lei prima arrossì intimidita, poi ricambiò. Pensai
che aveva qualcosa di speciale quella creatura, e non perché fosse una
divinità, ma perché
perché
neanche io so il perché,
forse la verità era che la sentivo più vicina di chiunque altro
pur avendo scambiato con lei solo uno sguardo. Forse mi sbagliavo completamente,
questo non lo saprò mai. Mi sentivo stranamente felice ora che lei era
seduta vicino a me. Io andavo a suonare in quello stesso posto ogni giorno, ed
ogni giorno lei era lì per me, per la mia musica. Mi sedeva accanto ed
appoggiava il capo sulla mia spalla così che qualche ricciolo ribelle si
spargesse sull'argento della mia armatura e mi sfiorasse il viso. Ora nel mio
mondo immaginario la cosa più bella era lei, la cosa che amavo di più
era lei. Non c'era momento della mia giornata in cui non pensassi a lei e non
sognassi il momento in cui l'avrei vista e avrei potuto respirare a fondo il profumo
della sua pelle, nel giro di poco tempo per me diventò tutto. Dove prima
c'era stata la musica, ora c'era lei e nient'altro. Non che la musica non m'interessasse
più, dopotutto era solo grazie a quella che avevo conosciuto la donna che
amavo, ma ormai avevo capito qual'era l'unica cosa che contasse nella vita di
un uomo. L'amore. Secondo me, era l'amore. Quando ami una persona tutto diventa
più bello, tutto ti sembra magico, e niente ti può ferire, e rendere
infelice, perché anche solo il fatto di saper amare qualcuno è speciale.
Un giorno mi feci coraggio e le chiesi "Come ti chiami", lei sorrise
e mi rispose "Euridice". Euridice
Euridice
quale nome più
adatto di quello a lei! Così musicale e dolce, mi faceva pensare ad una
melodia soave, ed effimera, proprio come lei. Potrà sembrare stupido il
fatto che ci siamo presentati solo dopo qualche tempo che ci frequentavamo, ma
come dire, il nostro rapporto non era fra i più ordinari. Non avevamo
bisogno di raccontarci a vicenda le proprio debolezze, i proprio gusti, i propri
difetti, come fanno di solito tutte le coppiette: ci bastava stare vicini per
sapere che ci amavamo, che non potevamo fare a meno l'uno dell'altra. O meglio,
all'inizio pensavo di essere il solo a provare quelle emozioni, ma capì
che le sentiva anche lei quando un giorno mi strinse con le sue candide braccia
e mi disse "Orfeo rimani con me. Voglio sentirti suonare l'arpa per sempre"
io rimasi felicemente stupito e risposi "Euridice io rimarrò sempre
con te e suonerò per sempre. Anche se dovessi morire, continuerei a suonare".
La mia dolce Euridice nascose il viso sulla mia spalla, ma potei vedere chiaramente
due limpide lacrime di felicità solcarle le guance rosse. Anch'io mi sentivo
incredibilmente felice: a modo nostro, ci eravamo confessati il nostro amore.
Ora sapevo cosa volevo veramente dalla mia vita, non la gloria di cavaliere, non
il successo come poeta, non l'ammirazione e l'affetto di coloro che mi erano accanto,
solo l'amore di Euridice. Solo quello. NINFE DEI BOSCHI
Ma c'era
una cosa che Orfeo non sapeva e, neanche lontanamente immaginava. Perso com'era
nella sua beatitudine, non si era accorto del dilemma che affliggeva la sua dolce
Euridice: Aristeo, un ragazzaccio dello stesso villaggio in cui abitava lui, li
aveva visti insieme ed aveva subito iniziato a desiderare ardentemente la nostra
bellissima compagna. Il suo non era amore, no, non era neanche lontanamente paragonabile
a quel sentimento puro, tutto ciò che voleva era possedere con la violenza
quel corpo d'alabastro e quelle labbra innocenti, che nessuno aveva mai osato
disonorare prima. Spesso aveva tentato di avvicinarsi a lei, ma noi l'avevamo
sempre protetta con l'aiuto della grande Diana, ciò nonostante lui, pur
sapendo che chi ardiva alzare le mani su una di noi veniva ucciso crudelmente,
non aveva mai rinunciato ad inseguire i suoi sporchi obiettivi. Quel maledetto
spergiuro non aveva paura neanche di una divinità, ma per questo fu punito,
eccome se fu punito, ma a quale prezzo? Quel fatidico giorno, avevamo accompagnato
la nostra signora Diana al fiume, e ci eravamo fermate a giocare fra di noi come
al solito, solo Euridice era rimasta in disparte. Si avventurò fra gli
alberi da sola, rassicurandoci sul fatto che non le sarebbe accaduto nulla, quando
sentimmo delle urla di terrore. Diana inalberò il suo possente arco e volò
verso il malandrino, che nel frattempo stringeva con la sua mano scura e grossolana
il polso sottile e candido della nostra compagna, e scoccò una delle sue
frecce dorate. Aristeo lasciò immediatamente la presa e cadde a terra fra
atroci dolori. Finalmente aveva ottenuto la punizione che si meritava, e non avrebbe
più ostacolato la felicità di Euridice. Non potemmo rallegrarci
però, che subito la vedemmo distesa nell'erba. Ci precipitammo verso di
lei, e capimmo che era morta. Gli occhi sbarrati, le labbra scolorite, le guance
scavate e due puntini minuscoli sulla caviglia. Ci sforzammo di pensare a cosa
era potuto accadere poi scorgemmo un guizzo giallognolo fra i cespugli: era stata
morsa da una serpe velenosa ed era morta nel giro di pochi secondi. Era davvero
così che doveva andare? Non c'era proprio un modo per farla stare insieme
all'uomo che amava? Perché proprio ora che l'unico ostacolo al loro amore
era stato abbattuto il fato doveva essere così severo? Mandammo Mercurio
ad avvisare Orfeo di ciò che era accaduto, il povero cantore fu colto da
un terribile dolore, e si accasciò al suolo in lacrime: lui
non aveva
mai pensato a quello che le succedeva, credeva che bastasse solo stare insieme
per avere tutto, invece si sbagliava. In più,se n'era andata così,
senza neanche dargli il tempo di salutarla ancora, e di chiederle scusa per il
suo egoismo, senza neanche dargli il tempo di baciarla per la prima e l'ultima
volta. Sentì di averle fatto del male, di aver fatto soffrire proprio lei
che era tutto il suo universo, che era la cosa più bella che potesse mai
desiderare. Non poteva permettere che tutto finisse così, non poteva
permettersi di perderla senza neanche aver suonato per lei un'ultima volta, non
poteva
concedersi una possibilità per rimediare? Se solo gli avessero
concesso di riprovarci, lui non sarebbe stato più così stupido,
come credeva di essere stato, no, stavolta l'avrebbe protetta contro tutto e contro
tutti. E fu così che decise di andare nell'Ade. Si
rivolse al fuoco ardente che lo aveva privato della sua ragione di vita e lo pregò
- Portami da lei
Portami da lei
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