Capitolo
4
"
Tant
que mon corp frémira sous tes mains,
Peu m'importe les problèmes,
Mon Amour puisque tu m'aimes
"
( Edith Piaf )
Da quando ero bambina, la mia cantante preferita è sempre stata
Edith Piaf.
L'ho sempre amata, profondamente.
La sua voce forte e dolce allo stesso tempo, quella raffinatezza che usciva
dalle sue canzoni, la sua spensieratezza, leggerezza, rendevano anche
la mia vita tale.
Quando imparai a suonare bene il violino, volli suonare le sue canzoni.
Tra i miei primi concerti, c'è stata anche una sua melodia, e forse,
per l'amore che ho sin da infante nutrito per lei, vinsi quel concorso,
con grande gioia di mia madre, che vedeva in me, il riflesso di sua madre,
mia nonna Shaylon, appassionata di arte classica e manco a dirlo, della
meravigliosa Piaf, deceduta qualche anno fa.
Quando arrivai davanti a casa Sendoh, deglutii.
Non era la prima volta che io e lui passavamo la serata insieme.
Non era la prima volta che dormivamo nello stesso letto, da piccoli, di
sovente lo facevamo, con celato disappunto di sua madre, naturalmente
gelosa del suo unico figlio.
Eppure, mi sentivo strana e il leggero vestitino che mi ero messa, mosso
dal vento tiepido di un fine marzo ben più caldo di come lo ricordavo,
mise in discussione il mio subconscio.
Con quali reali intenzioni mi ero diretta verso casa sua?!
Avevo il terrore di ammettere il responso.
- Vuoi violentarmi!? - gli chiesi imparziale, quando lui mi aprì
il portone di casa.
Mi guardò sbigottito per poi sorridermi e lasciarmi entrare.
Mi fece strada senza dire nulla verso la biblioteca di suo padre, per
poi farmi accomodare sul divano in pelle nera situato in centro all'enorme
sala sciolta nel perimetro di scaffali in legno pieni di libri di ogni
genere.
Illuminata da luci soffuse e il camino spento, che da piccola, ricordo,
mi incuteva sempre una gran paura, l'atmosfera iniziava ad innervosirmi.
La biblioteca era sempre stata la parte della sua casa che preferivo,
e lui lo sapeva benissimo.
- Brindiamo!? - mi chiese versando del wiskey in un bicchiere appositamente
affiancato alla bottiglia, porgendomelo, una volta riempito
- A cosa!? - chiesi stupefatta appoggiando il mio violino sul tavolino
che divideva il divano dall'altro e dall'unica poltrona, ove era appoggiato
un libro di Seneca del quale non distinguevo il nome e che naturalmente,
io non avevo mai letto. I libri, nonostante amassi vederli in quella sala,
non sono mai stati la mia passione, nemmeno per brevi periodi nel mio
passato.
- Brindiamo a questa serata, visto che è da tanto tempo che non
stiamo un po' da soli per i fatti nostri...- mi disse sbattendo il suo
bicchiere contro il mio, sorridendomi per poi andare a sedersi sul divano
davanti a me - Mi sei mancata tanto, sai?! - mi disse e io mi misi a ridere,
turbata dal suo tono di voce, stranamente sommesso e che non ero abituata
a sentire da parte sua e che, soprattutto, non volevo udire da parte sua.
Lui doveva essere sempre felice, per quanto mi riguardava. Sempre. - Sto
parlando seriamente. - proseguì e io mi zittii e lo guardai colpevole.
Mi sentivo in colpa di averlo trascurato.
Sapevo ogni volta quando era solo, ogni volta che non aveva gli allenamenti,
ogni volta che non usciva con qualcuno...eppure non avevo mai fatto nulla
per ricordargli che io ero sempre al suo fianco, quando ne aveva bisogno.
Aki-chan è sempre stato un bambino e un ragazzo, solo.
Suo padre faceva il diplomatico in Francia e tornava a casa raramente
e sua madre era una detective e sovente restava fuori per lavoro.
Da piccolo veniva a dormire da me, da Hisa, o da chiunque altro di noi
del gruppetto riusciva a vincere l'appalto per la sua persona dopo una
strenua lotta contro il tempo e su chi, per primo, riceveva l'informazione.
Per tutti noi, Kicchan è sempre stato una sorta di mascotte, colui
che riusciva a mettere sempre d'accordo tutti quanti noi e raramente,
da bambini, ci trovavamo d'accordo su più di un punto. Nutrivamo
tutti quanti un affetto particolare nei suoi confronti, perché,
alternativamente, lui diventava il nostro fratellino di turno.
I miei genitori lo hanno sempre considerato come un figlio e mio fratello,
che addirittura a me proibiva di toccare le sue cose, lo amava e lo lasciava
entrare in camera sua e fare tutto ciò che voleva.
E' sempre stato una persona tranquilla, gentile con grandi valori morali.
La cosa che di lui più mi colpiva era l'estrema semplicità
e generosità. Non era come gli altri bambini che avevano genitori
importanti, lui era diverso e di lui, questo mi piaceva tanto.
Mi ha sempre insegnato tutto quello che veniva a conoscere dai suoi libri
che si divertiva a leggere ogni volta che il basket glielo permetteva.
Da quando lo ricordo, lui ha sempre giocato a pallacanestro.
Diceva che quello sport era come il violino per me. Lo potevi amare o
odiare ma non potevi farne a meno.
Aveva ragione. Lui aveva sempre ragione.
Credo che in fondo, senta la mancanza di quelle presenze che nella mia
vita sono state fondamentali.
Sono delle ottime persone, sua madre è così amorevole e
gentile che sembra finta e suo padre, bè, suo padre io l'ho da
sempre adorato.
Era identico ad Aki nel carattere e ogni volta che tornava dalla Francia,
portava sempre un regalo anche per me.
Mi chiamava "Petit Piaf" in analogia con il termine -passerotto
- in francese, per quanto da piccola, la prima parola che gli chiesi di
tradurmi dal francese fu appunto quella, o forse, ha deciso di darmi quel
soprannome in affinità con quello di Edith Piaf , che lui sapeva
io amassi particolarmente.
Glielo aveva rivelato Akira quando avevamo otto anni e noi stavamo giocando
in giardino. Una domenica di sole. Un sole splendente e mai aggressivo.
Lo scorso anno mi regalò " La vie en rose" .
Ancora oggi, ogni volta che sento la mancanza di ciò che ho perso,
riguardo quel film e ogni volta, immancabilmente, piango.
Mashimoto Sendoh ha sempre sostenuto che Edith Piaf fosse l'unica cosa
francese che amasse ascoltare.
Mi faceva ridere, sempre.
- Eppure, sono sempre stata accanto a te...- gli dissi, talmente superficiale
da volermi seppellire con le mie mani.
- Suonami il tuo violino. Suonami "L'hymne à l'amour"
e non smettere finchè non sarai esausta, ti va? - mi chiese e io
risposi tacitamente. Presi il mio strumento dalla custodia e iniziai a
suonare, mentre lui si abbandonava al nulla, come era sempre solito fare,
ogni volta che mi chiedeva di suonargli qualcosa.
Suonai, suonai per più di un'ora e quando smisi, preoccupata per
la sua totale inerzia, il suo viso era rigato dalle lacrime.
Fu la prima volta.
Lo abbracciai impensierita e lo strinsi forte a me, con tutta la forza
che avevo in corpo, nel forse vano tentativo, di trasmettergli quel calore
del quale necessitava terribilmente, e di nuovo, ogni volta che lo abbracciavo,
lui mi sconvolgeva. Metteva in bilico le mie certezze e m'inquietava.
Lui mi abbracciò con veemenza e si rannicchiò dentro di
me scusandosi.
Qualche minuto dopo, prese il mio viso fra le mani e mi baciò
sulla fronte. Scusandosi di nuovo con me.
Finì di bere il suo wiskey e iniziò a canticchiare la canzone
che avevo appena suonato accoccolandosi sulle mie ginocchia. Gli accarezzai
il viso finchè non si addormentò, russando lievemente.
Quando si svegliò era ormai mattina.
Mi guardò stupito e poi sorrise scuotendo la testa.
- Non hai chiuso occhio, vero? -
- Volevo assicurarmi che l'uomo nero non ti portasse via! - gli dissi
strizzandogli l'occhio, mentre lui mi tirava su dal divano di peso, andando
in cucina dove preparò ad entrambi un caffè amarissimo e
fortissimo. Non ricordavo che il caffè che preparava fosse così
orribile.
- Ma quanto fa schifo il tuo caffè?! - gli chiesi disgustata seduta
a fianco a lui sull'isolotto della cucina principale color rosso fuoco.
- Signorina, non si lamenti dei servigi offertiLe! -
- Finiscila! - gli dissi rubandogli la fetta biscottata che aveva appena
finito di spalmare con la marmellata ai mirtilli
- Sei anche cleptomane?! -
- E che altro sarei!? - gli chiesi finta offesa
- Una persona speciale - mi disse con sguardo penetrante che lui sapeva
bene, io odiassi
- Ti ho detto mille volte di non guardarmi con gli occhi da Homme Fatale.
Mi spaventi! Limitati ad usarlo con le tue donne e basta! - risposi cercando
di nascondere il piacere delle parole che mi aveva indirizzato.
Si mise a ridere e continuò a mangiare tranquillo.
- Sai, all'inizio, era mio obiettivo ubriacarti, portarti in piscina e
indurti a fare l'amore con me, poi, come al tuo solito, hai rovinato tutto!
- mi disse guardandomi di sottecchi
- Cosa vorresti dire!? - chiesi oltraggiata
- Ogni volta che sento quella canzone è come se tutto quello che
mi circonda mi abbandonasse e mi giurasse che mai più tornerà
da me. All'inizio promette ogni meraviglia per poi, fatalmente, abbandonarmi.
Tu, cosa desideri? -
- Hai paura che io ti abbandoni seguendo la mia strada? - chiesi maligna,
irritata da questo suo atteggiamento auto - commiserante - Forse lo farò,
forse non lo farò. Dipende dove il destino mi porterà. Se
deciderà di portarmi lontano da qui, io lo seguirò, non
c'è essere umano che mi tratterrà e mi spiace dirtelo, nemmeno
tu, Aki-chan...- lui mi guardò serio e poi mi sorrise ancora. Quel
sorriso divenne una risata fragorosa.
- Non cambierai mai, Akira! Sempre la solita faccia di bronzo! Eppure,
è questo lato del tuo carattere che più amo. So che non
mi tradirai mai. - concluse abbracciandomi forte a se e persuadendomi
di andare a dormire.
Dormii nel suo lettone così comodo, con lui a mio fianco che mi
teneva la mano.
Quella mano, che io non volli mai abbandonare ma che il destino, così
sadico e così ingiusto, ha voluto strapparmi via senza nemmeno
darmi il tempo di dirgli addio.
Continua...
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