Figli

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Rise perché credeva non riuscissero a colpirlo.
Non immaginava si stessero esercitando a mancare la mira.
Brecht

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Los Angeles

Hyperion Hotel

Angel era felice. Che Dio lo perdonasse, perché in quella stanza d'albergo dall'assurda tappezzeria bordeux, in quel momento immobile, poco prima dell'alba, lui era felice. Forse non era una felicità perfetta. L'anima era ancora al suo posto dopotutto. Eppure era felicità, non aveva dubbi su questo.

Lei era distesa sul letto, le gambe imprigionate nell'intricato groviglio delle coperte. Non era mai stata una che dormiva sonni tranquilli. Ma del resto neanche lui era un gran dormitore. Non lo era mai stato, neanche da umano. Una creatura della notte in senso lato, ancora prima di diventarlo in senso stretto. E lei gli assomigliava, sempre iperattiva, sempre desiderosa di occuparsi di tutto, di avere tutto sotto controllo.

Ma non in quel momento. Non in quel brevissimo lasso di tempo in cui la pallida luce del giorno cominciava a filtrare tra le tende. Perché quello era un momento di pace. Un momento di pace, perfettamente cristallizzato.

Lo stringeva a sé, con il temperamento possessivo che la caratterizzava, quasi fosse davvero suo. E lui sembrava sentirsi a casa tra le sue braccia sottili. Respiravano piano, l'uno sul volto dell'altra, all'unisono. E il battito dei loro cuori era come una musica ritmica e sommessa. La musica migliore che Angel avesse mai ascoltato.

Continuò a guardarli, incapace di distrarsi.

Seduto su quella sedia, a pochi passi da loro, eppure così inesorabilmente lontano. E forse era questo che mancava per rendere perfettamente felice quel momento. Per quanto potesse star loro vicino, per quanto potessero fingere di essere una famiglia come tante, un'intera vita li divideva. Molte vite a dire il vero. E molte morti.

Per quanto lo desiderasse non poteva entrare in quel quadro. Quel quadro di perfetta felicità, dipinto con morbide tinte acquerello. Perché lui aveva colori scuri e densi, colori che avrebbero stonato tra gli altri.

Così si accontentava di osservare, come sempre. Si accontentava di proteggere e salvare, come da molto tempo. Si accontentava di amarli in silenzio.

Amarli.

Entrambi.

Suo figlio e la sua strabiliante compagna di avventure.

Chi lo avrebbe detto? Il Flagello d'Europa vittima del fascino posh di Cordelia Chase, la reginetta del liceo.

Sembrava una storiella buona per un romanzetto d'appendice.

Eccetto che non lo era, vero? Una storiella.

Oh no. Quella era una dannata Storia con la S maiuscola. Anzi sospettava che la parola fosse tutta scritta a lettere maiuscole. E del resto non poteva essere altrimenti trattandosi di lui. Le cose non erano mai semplici quando coinvolgevano Angel, il vampiro con l'anima al servizio dei Poteri Che Sono. Le cose non erano mai state semplici neppure per Liam. Amare non era mai stato semplice per nessuno.

La vide muoversi, ormai vicina al risveglio. Forse avrebbe dovuto andarsene, fingere di non essere rimasto lì ad osservarla per tutto il tempo. Forse avrebbe dovuto sforzarsi di non amarla, fingere che lei fosse solo una preziosa alleata, una che lo capiva al volo senza bisogno di parole, una che riusciva a strappargli un sorriso anche quando sembrava non ci fosse più niente per cui sorridere, una che aveva ascoltato le sue confidenze più atroci senza mai abbassare lo sguardo, una che non aveva mai paura di dirgli come stavano le cose, belle o brutte che fossero. Una di cui ci si poteva innamorare.

E così si tornava al punto di partenza.

Cordelia aprì gli occhi e lo fissò con un'intensità che lo lasciò senza fiato. O lo avrebbe lasciato senza fiato se avesse avuto bisogno di respirare, a essere precisi.

E se avesse capito? Se guardandolo negli occhi in quel preciso istante avesse capito tutto quanto? Tutti i sentimenti che cercava di ricacciare da dove erano venuti, ma che tornavano sempre indietro a colpirlo, precisi come un boomerang. Tutte le paure e le incertezze che gli impedivano di lasciarsi andare, di vivere quel momento...

In fondo lei era una persona intuitiva e lo conosceva forse meglio di chiunque altro...

Cordelia sbatté le palpebre più volte, cercando di mettere a fuoco l'immagine di fronte a lei. Angel, seduto a cavalcioni di una sedia, a pochi centimetri dal letto, che la fissava con quello sguardo...

E cos'era? Un sorriso quello?

Per un attimo continuarono a fissarsi in silenzio, fino a che Cordelia non sentì che il suo cuore accelerava inesorabilmente i battiti.

Dio, se c'era una cosa che Angel sapeva fare bene era fissarti come se fossi diventata d'un tratto l'unica creatura sulla faccia della terra degna della sua attenzione.

Una ragazza normale avrebbe anche potuto perdere la testa per uno capace di fissarla in quel modo. Per fortuna lei non era una ragazza normale. Lei era Cordelia Chase. La mangiauomini. La reginetta del liceo. La promettente stellina pronta a risplendere sfolgorante nel cielo di Hollywood. Per quanto, a dire il vero, non doveva essere uno spettacolo sfolgorante quella mattina, senza trucco, con i capelli spettinati e la bavetta di Connor sul suo orribile pijama azzurro.

Lui invece era lì, immobile nella sua prorompente bellezza, non un capello fuori posto. Ed era legale che uno che dormiva non più di due o tre ore al giorno non avesse neanche l'ombra di un'occhiaia? Di certo non era legale essere sexy alle sei del mattino dopo aver passato la notte a fissare una povera ragazza che necessitava del suo sonno di bellezza...e a proposito di questo...

-Sai Angel, questa abitudine di fissare le persone mentre dormono, in uno di quegli inguardabili film francesi che ti ostini a noleggiare può anche sembrare una cosa affascinante, ma nel mondo reale? Decisamente un'abitudine fastidiosa-

Angel strinse le dita sullo schienale della sedia, mentre il sorriso gli sfuggiva dalle labbra.

-Scusa, non era mia intenzione infastidirti. Volevo solo passare un po' di tempo con Connor...e con te, ma capisco che non sono il massimo come compagnia-

E così dicendo si alzò dirigendosi verso la porta.

Cordelia sbuffò riordinandosi distrattamente i capelli.

-Ma tu non passi il tempo con noi, Angel! Passi il tempo ad osservarci quando credi che non ce ne accorgiamo o quando fisicamente non possiamo accorgercene! Certo che non sei il massimo come compagnia...non sei affatto di compagnia! Appena le cose rischiano di coinvolgerti più del previsto tu ti ritiri nell'ombra e questa routine da creatura della notte francamente comincia a diventare un tantino noiosa e prevedibile-

Angel richiuse la porta con un colpo secco e tornò verso il letto, furente.

-Mi dispiace se non ti sembro abbastanza coinvolto e mi dispiace se non sono abbastanza di compagnia. Ma cosa pensi che dovrei fare, Cordelia? Non posso accompagnare te e Connor al parco a fare un pic nic sotto il sole di mezzogiorno, non posso condividere la vita quotidiana con voi perché dannazione io non ce l'ho più una vita! Tutto quello che ho è una lunga e interminabile notte. Scusa se l'unica cosa che voglio è passarla con voi!-

Cordelia lo fissava con il capo leggermente reclinato, gli occhi verdi illuminati da una luce strana, i capelli castani che ricadevano morbidi sulle spalle. Ed Angel si sentì perduto. Di nuovo. E cosa aveva detto esattamente? Possibile che di fronte a lei perdesse ogni senso di autocontrollo? Ogni spirito di autoconservazione a dirla tutta...perché nonostante lei fosse irritante e sgarbata, piena di sè e ostinata, nonostante tutto, l'unica cosa che desiderava fare in quel momento era baciarla fino a dimenticare se stesso in quel bacio, fino a lasciarsi avviluppare completamente dal suo profumo fresco e sensuale, fino a non ricordare altro sapore che quello delle sue labbra morbide e invitanti come quel frutto proibito che aveva condannato l'umanità e che ora stava per condannare lui. O forse per salvarlo.

-Se è questo che vuoi, perché non lo fai?-

Angel fissò la ragazza con un'espressione attonita.

-Perché non faccio *cosa*?-

Cordelia gli sorrise tornando a distendersi accanto a Connor che gorgogliò soddisfatto.

-Perché non passi la notte con noi?-

Angel sorrise suo malgrado, socchiudendo gli occhi.

-Credevo di averlo già fatto...-

Lei scosse la testa con decisione.

-No Mister sono un'anima in pena. Tu hai passato la notte a guardarci, non hai passato la notte con noi. C'è una bella differenza!-

Con una mano la ragazza indicò lo spazio vuoto, accanto a Connor. Angel serrò i pugni lungo i fianchi. Non ci volevano due secoli alle spalle per capire che quella situazione lo avrebbe messo nei guai. Non ci volevano due secoli alle spalle per capire che l'unica cosa sensata da fare era precipitarsi fuori da quella stanza, lontano da lei, il più in fretta possibile.

Naturalmente capire e volere erano due cose completamente diverse.

E così Angel si lasciò ricadere sul letto, vinto. Non ricordava neanche più l'ultima volta che aveva vinto una battaglia verbale, o di qualunque altro tipo, contro di lei. E il pensiero era stranamente riposante. A volte era bello affidarsi a qualcuno, accettare una decisione invece di prenderla.

"Ci vuole coraggio per affidarsi agli altri, un coraggio che non hai e non avrai mai, Liam!"

Se solo suo padre avesse potuto vederlo adesso...

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La risata cristallina del demone tintinnò nella penombra della stanza. Angel osservò la donna ballare in tondo con passi leggeri, la camicia da notte bianca e leggera le volteggiava intorno seguendo il ritmo di una musica immaginaria. Dopo aver lasciato il calore dell'abbraccio di Cordelia, la camera di Drusilla gli sembrava ancora più fredda. Ma forse era questo il suo destino, camminare in un precario equilibrio tra il fuoco e il ghiaccio, incapace di comprendere quale gli sarebbe stato più fatale.

-Cos'è che ti fa ridere Dru?-

Il demone scosse la testa lasciando che i lunghi riccioli scuri ricadessero come un velo di fronte al suo volto cereo.

-Molti ridono per non piangere-

Angel sospirò intrecciando le dita sotto il mento. Parlare con Drusilla non gli era mai sembrato difficile come in quei giorni.

-Allora cos'è che ti fa piangere?-

Drusilla interruppe di colpo la sua danza fissando i suoi occhi violetti e colmi di stupore sofferente in quelli di Angel.

-Le stelle mi hanno raccontato una storia così dolce che mi riempie gli occhi di lacrime salate-

Lo sguardo di Drusilla si alzò verso il soffitto mentre la sua voce intonava una cantilena da bambini.

"Una ragazza all'angolo della strada

vende il suo zucchero per sopravvivere nella notte senza vita

La sua anima è nel suo zucchero e il suo cuore è nel fango

mentre canta tra le lacrime per qualche straniero di passaggio

Guardami e trovami,

liberami e salvami

Un cavaliere all'angolo della strada

guarda una ragazza vendere il suo zucchero nella notte senza vita

e vede in lei un angelo nel più crudele dei mondi

un angelo che si nasconde nell'oscurità

e grida il suo bisogno di amore

Guardami e trovami,

liberami e salvami"

La canzone si spense in un singhiozzo mentre Drusilla si portava le mani sulle orecchie come a non voler sentire altre storie dalle labbra degli spiriti che la tormentavano.

-Perché il mio cavaliere non viene a salvarmi?-

Angel serrò le labbra. Drusilla parlava di Spike, ovviamente. In effetti non faceva altro che parlare di lui negli ultimi tempi come se non riuscisse a sopportare la sua ostinata lontananza.

Eppure Drusilla e Spike erano già stati separati, lei stessa lo aveva lasciato al suo destino, non molto tempo prima. Non era certo la distanza fisica dunque che la tormentava. Si trattava di una distanza meno tangibile, meno definibile eppure molto più dolorosa.

Una distanza dello spirito.

Per quanto lontani, nello spazio e negli intenti, Drusilla aveva sempre saputo dove fosse il suo cavaliere, quali fossero i suoi sentimenti e le sue sofferenze, anche quando lui stesso non ne era consapevole. Aveva sempre saputo come raggiungerlo.

Ma non ora.

Non più.

Ed Angel comprendeva con cristallina chiarezza il suo smarrimento, perché era lo stesso che provava anche lui di fronte alla consapevolezza sfuggente che il legame che aveva unito la loro disfunzionale famiglia era stato reciso di colpo, senza alcun preavviso. Era come se lo Spike che aveva condiviso con loro gli anni delle passioni oscure e dense di sangue innocente fosse scomparso da quel mondo.

Eppure Angel sentiva che da qualche parte Spike continuava a esistere. Forse solo in un modo diverso.

Il vampiro scosse la testa infastidito. Di cosa diavolo si preoccupava tanto? Ci mancava solo che si lasciasse coinvolgere nei folli deliri di Drusilla.

-Il mio angelo finge di non capire, ma presto sarà costretto a sentire quello che io già so-

La cantilena di Drusilla si insinuò tra le falde dei suoi pensieri aumentando il senso di angoscia che già provava alla bocca dello stomaco.

-Cos'è che devo capire, Dru?-

Il demone dalle labbra rosse come corallo gli sorrise sornione.

-Non si può sempre vincere, Angelo mio-

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La porta si spalancò di colpo, come investita da un vento violento. Wesley fu il primo a vederla. Aveva il volto tumefatto e le mani grondavano sangue. I capelli erano appiccicati alla fronte e alle guance mentre i suoi occhi li guardavano sgranati di terrore.

Angel le corse in contro, appena in tempo per sostenerla nel suo crollo.

Abbandonata tra le braccia del vampiro, la donna prese a singhiozzare in modo convulso. Un orecchio umano non avrebbe mai potuto distinguere le parole che ripeteva tra un gemito e l'altro, ma per Angel erano chiare come grida.

-Salvate mio figlio-

Cordelia scese le scale lentamente, richiamata dai rumori nell'atrio.

-Nuova cliente o nuova vittima?-

Scandì con il suo solito tono noncurante. Assolutamente essenziale per evitare di svenire alla vista di tutto quel sangue.

Wesley alzò lo sguardo su di lei, mentre finiva di scendere le scale. Non importava quanto disperata fosse la situazione. Cordelia Chase scendeva sempre le scale dell'Hyperion come se fossero state quelle di Piazza di Spagna e lei una modella di Valentino. O magari lei era una più adatta ad Armani...con un sospiro l'Osservatore tornò a guardare la donna esangue che tremava tra le braccia fredde e salde del vampiro. Il sangue denso le aveva inondato i vestiti e i suoi occhi erano spalancati in un'espressione estatica. Un chiaro risultato dello shock subito. I capelli sparsi sulle spalle e il volto rigato di lacrime completavano il macabro quadro. Sembrava un'immagine creata dalla mente di Braam Stocker. Eppure era quasi certo che neanche la mente contorta dell'ideatore di Dracula avrebbe mai potuto immaginare qualcuno come Angel. Con un sospiro Wesley riportò lo sguardo su Cordelia.

-Direi attuale vittima e potenziale cliente, Cordelia. Ma dovremo aspettare che sia di nuovo in grado di parlare. Perché nel frattempo non chiami un'ambulanza?-

Angel cercava inutilmente di stabilire un qualunque tipo di comunicazione con la donna che sembrava riuscire a pronunciare soltanto un'unica, incessante frase.

-Salvate mio figlio-

Cordelia riagganciò il telefono tornando a concentrarsi sulla scena che si dipingeva davanti ai suoi occhi.

-Ambulanza in arrivo. Vi rendete conto che il tizio del centralino mi ha salutato come se fossimo vecchi amici? Sbaglierò ma non credo sia un buon segno...insomma dovremmo farci fare uno sconto cumulativo o qualcosa del genere! Ogni dieci chiamate al pronto intervento potrebbero darcene una gratis...o magari un rimborso simbolico...anzi no, ci sono! Ogni dieci chiamate abbiamo diritto a una pizza gratis!-

-Cordelia...-

Wesley fissava la ragazza con occhio severo. Lei scrollò le spalle sbuffando.

-D'accordo, d'accordo! Volevo solo sollevare un po' l'umore! In questi giorni non capitano altro che catastrofi! Lo scaldabagno che si rompe, Connor che mi tiene sveglia tutta la notte, una sconosciuta che inonda di sangue l'atrio che, per la cronaca, avevo appena ripulito...avete idea di quanto ci voglia a far venire via le macchie di sangue dal granito? Ah e naturalmente tutta quella storia dell'anima di Angel che francamente è peggio dell'ultimo film horror che ho visto in tv e ehi! Quello era un B-movie anni '70 per cui...-

-Cordelia!-

-D'accordo sto zitta!-

Wesley scosse la testa, ancora intontito dalle chiacchiere della ragazza. Lentamente si avvicinò ad Angel che era rimasto immobile, il corpo della donna stretto tra le braccia.

-L'ambulanza impiegherà un po' a quest'ora. Forse sarebbe meglio controllare le ferite della nostra nuova cliente, Angel...-

Il vampiro alzò i suoi occhi scuri sull'Osservatore, un'espressione indecifrabile sul volto.

-Non ci sono ferite da controllare. Tutto questo sangue...è di qualcun altro-

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Angel misurava la stanza a grandi passi, come sua abitudine.

Cordelia sospirò annoiata, continuando a sfogliare la sua rivista di moda. Dio, Cher non aveva il minimo senso estetico. Dopo aver speso i miliardi per tutti quegli interventi chirurgici avrebbe anche potuto buttare qualche soldo in una boutique decente! Conosceva giusto il posto adatto...forse se fosse riuscita a contattare il suo agente...

-D'accordo, grazie Gunn-

Wesley riagganciò la cornetta del telefono.

-La nostra sconosciuta risponde al nome di Marge Wellington. Sposata da circa tre anni con Martin Wellington, un assessore del consiglio cittadino. Hanno avuto un figlio proprio quest'anno e a quanto sembra la nostra Marge è stata ricoverata per una depressione post parto proprio il mese scorso, nello stesso ospedale in cui è stata portata oggi. Sembra anche che il marito stia cercando di ottenere la custodia del bambino. Alcune infermiere hanno confermato che la donna ha manifestato in diverse occasioni un'indole violenta ed è costantemente sotto sedativi. Due giorni fà, però, è stata dimessa, suo padre è venuto a prelevarla in ospedale per portarla nella vecchia casa di famiglia nel Wisconsin. A quanto pare Marge non era d'accordo con la decisione ed è scappata. Le infermiere hanno raccontato a Gunn che la donna ha avuto una vera e propria crisi isterica nell'ingresso dell'ospedale, ripeteva che avrebbe ucciso suo figlio piuttosto che lasciarlo tra le mani di quel mostro di suo marito. Abbiamo chiaramente a che fare con una maniaco-depressa che probabilmente ha compiuto qualche atto efferato senza neppure rendersene conto...-

-Non sappiamo ancora se è colpevole di qualcosa-

La voce di Angel risuonò seccata dal fondo della stanza. Wesley tossicchiò nervosamente.

-Certo, non abbiamo prove...ma, Angel, quella donna era letteralmente ricoperta di sangue...sangue non suo, come tu stesso hai accertato...non possiamo escludere un suo coinvolgimento in un qualsivoglia delitto avvenuto di recente...-

-E poi non mi è venuta l'emicrania-

Cordelia alzò gli occhi dalla rivista per puntarli sui volti perplessi di fronte a lei.

-Emicrania, visioni, Poteri che Sono, vittime innocenti...vi dice niente? Non ho avuto nessuna visione su questa donna, quindi con ogni probabilità è solo un'altra psicopatica che infesta le notti di Los Angeles...non che di giorno le cose siano poi così migliori...-

Angel alzò le braccia esasperato.

-E' venuta a chiederci aiuto! Ci ha implorato di salvare suo figlio e non mi sembrava certo una recita ben congeniata! Quella donna era terrorizzata da qualcosa...forse da qualcuno...magari suo figlio è stato rapito, forse in questo momento lo stanno uccidendo e noi cosa facciamo? La accusiamo di essere una serial killer! E' così che aiutiamo gli indifesi? Rimanendo a fare congetture in questa stupida stanza?-

-Non esattamente-

La voce di Fred risuonò calma e pacata dalla soglia.

-Ho fatto qualche ricerca incrociando i dati che mi ha fornito Gunn con i rapporti della centrale di polizia degli ultimi mesi. Il nome di Marge Wellington compare con una ricorrenza a dir poco inquietante-

Wesley guardò Angel in tralice con la classica espressione "te l'avevo detto" dipinta sul volto.

-E questo, mi rammarico di notarlo, conferma le nostre teorie-

Fred fissò Wesley dritto negli occhi, con decisione.

-Molto prima del suo ricovero per una crisi depressiva, Marge Wellington ha frequentato assiduamente il General Hospital. Cadute dalle scale, tamponamenti, incidenti domestici, perfino uno scippo. O questa donna è davvero sfortunata o suo marito non è il cittadino modello che vuole sembrare-

L'Osservatore distolse lo sguardo infastidito.

-Se suo marito è davvero così violento, perché non l'ha denunciato? Perché non se ne è andata con il bambino in un posto sicuro...perché è venuta qui soltanto adesso?-

Cordelia si strinse le braccia attorno al corpo, come percorsa da un tremito.

-Perché aveva paura-

Angel scrutò il volto contratto della ragazza in cerca di risposte che non era sicuro di voler avere, poi la voce di Fred riportò prepotentemente la sua attenzione a problemi più attuali e concreti.

-Naturalmente non ci sono prove che Martin Wellington sia coinvolto nei piccoli "incidenti" subiti da sua moglie...ma indovinate chi si sta occupando della causa per l'affidamento del figlio dei coniugi Wellington...-

Wesley serrò le labbra, mentre un fastidioso presentimento si faceva strada nel suo stomaco.

Fred girò il foglio da cui stava leggendo perché tutti lo potessero vedere.

-I valenti avvocati della Wolfram e Hart-

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La porta si aprì ancora prima che avessero il tempo di suonare.

-Lo avete trovato?-

Un uomo sulla cinquantina li guardava con apprensione dalla soglia elegante di un palazzo in stile coloniale. Con un provvidenziale portico ombreggiato. Angel fissò il padrone di casa con uno sguardo eloquente. Wesley si aggiustò istintivamente la cravatta prima di parlare.

-Signor Wellington, siamo qui per farle qualche domanda su sua moglie...-

Lo sguardo dell'uomo si oscurò all'istante e l'espressione preoccupata si trasformò in una smorfia di pura rabbia.

-Quella donna...come posso ancora considerarla mia moglie dopo tutto quello che ha fatto? E' un mostro...il suo unico scopo è distruggere me e la mia famiglia...-

Angel avanzò di un passo, con decisione.

-Signor Wellington, sua moglie è stata ricoverata all'ospedale centrale in stato di shock e a giudicare dalle contusioni e dai graffi direi che è una vittima di questa situazione almeno quanto lei-

Wesley si parò di fronte al vampiro, interrompendo il conflitto sul nascere.

-Signor Wellington, sua moglie si è presentata nel nostro ufficio investigativo questa mattina, pregandoci di salvare suo figlio...ora se lei volesse mostrarci il bambino anche solo per un istante in modo che possiamo accertare il suo effettivo stato di salute...-

L'uomo li guardò con evidente disprezzo.

-Chiedete a mia moglie dov'è nostro figlio! Chiedetelo a quel mostro cosa ne ha fatto! Si è presentata qui ieri notte, ignorando un'ordinanza restrittiva che le vietava di avvicinarsi a me o al bambino! Neanche le avrebbero dovuto permettere di lasciare l'ospedale, ma a quanto pare il padre che aveva dato per morto è improvvisamente stato colto da un rigurgito di affetto familiare e ha deciso di venirsela a prendere, salvo poi farsela scappare da sotto il naso! E cosa credete che abbia fatto non appena ne ha avuto la possibilità? E' venuta qui a riprendersi il suo bambino! "Dammi il mio bambino". Questo mi ha detto mentre mi puntava una pistola contro la tempia! Bè quello è anche mio figlio, per Dio! Ma sapevo che non avrebbe esitato due secondi ad uccidermi se avessi fatto resistenza e così le ho consegnato il bambino. Naturalmente ho chiamato immediatamente la polizia e ho fatto tutto quanto era in mio potere per fermarla...-

-Naturalmente-

La voce di Angel risuonò carica di sarcasmo dietro le spalle di Wesley.

Martin Wellington scostò l'uomo di fronte a sè per fissare lo sguardo in quello profondo e oscuro che lo accusava così apertamente.

-Sta insinuando che non ho fatto tutto quello che potevo per ritrovare mio figlio?-

Angel sostenne lo sguardo dell'uomo.

-Oh no. Sono sicuro che ha fatto tutto quello che era in suo potere per ritrovarlo. Solo, se davvero tiene così tanto alla vita di suo figlio, mi chiedo perché ha lasciato che sua moglie, a quanto pare una pazza isterica, portasse via il bambino-

L'uomo lo squadrò confuso.

-Le ho già spiegato che avevo una pistola puntata alla testa...-

Angel assentì distrattamente.

-Già, una pistola...ma vede se si fosse trattato di *mio* figlio, avrei preferito farmi sparare piuttosto che consegnarlo nelle mani di qualcuno che con ogni probabilità gli avrebbe fatto del male o avrebbe potuto metterlo in pericolo. E allora non posso fare a meno di chiedermi, signor Wellington, era davvero così paralizzato dalla paura da non riuscire a tenere testa a una donna che ha più volte spedito all'ospedale o più semplicemente era sicuro che sua moglie non avrebbe torto un solo capello a vostro figlio?-

Martin Wellington si erse in tutta la sua altezza, stringendo tra le dita lo stipite della porta.

-Non ho tempo da perdere con degli sconosciuti che pretendono di giudicarmi in qualità di padre o di marito. Se siete qui per aiutarmi a ritrovare mio figlio, siete i benvenuti, in caso contrario vi conviene sparire dalla mia vista prima che vi denunci per violazione di proprietà-

Angel sorrise sornione.

-Non si preoccupi Martin. Le assicuro che arriveremo in fondo a questa faccenda-

+ + +

Il cellulare squillò più volte prima che Angel si rendesse conto che era il suo. Ci vollero circa altri tre squilli prima che si decidesse a estrarlo dalla tasca tenendolo tra le dita come se fosse stato un ordigno nucleare. Altri quattro squilli ed era riuscito a ricordarsi come funzionava il meccanismo di apertura. Dannata tecnologia moderna.

-Angel! Possibile che tu debba sempre metterci le ore prima di rispondere? Cos'è devo infilarti nelle tasche della giacca le istruzioni oltre che il cellulare?-

-Cordy, questa telefonata ha un altro scopo oltre a quello evidente di farmi sentire un idiota?-

-Non ti tratto come un idiota...solo come un essere tecnologicamente incapace...-

Angel trasse un profondo sospiro. Com'è che diceva sempre a Spike? Ah sì. Conta fino a cento prima di parlare.

-Cordy...-

-Ho un mal di testa feroce-

Uno. Due. Tre. Quattro. Sì, poteva bastare.

-Questa conversazione ha anche solo lontanamente a che fare con il caso che stiamo cercando di risolvere?-

-Un mal di testa da visione, Angel! Ho avuto una visione! Un uomo su una terrazza con qualcosa tra le braccia, un fagotto o roba del genere...la terrazza di quel ristorante...come si chiama...quello dove siamo andati quella volta dopo che abbiamo ucciso il Troll...-

-Poporoya...-

-Sì, esatto quello dove ci hanno dato tutto quel pesce crudo...Dio, a ripensarci mi viene ancora la nausea, avrei dovuto prendere quella roba fritta con i gamberi...-

-Cordy, concentrati sulla visione, cos'altro ricordi?-

-Non so...era piuttosto buio...ma ho visto bene la faccia dell'uomo, era di mezza età e aveva una cicatrice sulla guancia destra...-

-Wellington-

-Come?-

-Dì a Wesley che sto andando al ristorante e che Wellington è il nostro uomo-

-Angel aspetta c'è...-

Angel richiuse il cellulare con decisione. Non aveva tempo per un altro dei voli pindarici di Cordelia.

Dannazione. Avrebbe dovuto fidarsi del suo istinto e mettere quell'uomo alle strette.

Mentre correva lungo i tunnel sotterranei non riuscì a liberarsi dall'opprimente sensazione che fosse già troppo tardi.

+ + +

-Non è un po' troppo piccolo suo figlio per apprezzare la cucina giapponese?-

L'uomo si voltò di scatto in direzione della voce, tra le braccia stringeva un fagotto azzurro. Quel dannato investigatore privato continuava a stargli tra i piedi.

-Non ha proprio nient'altro da fare?-

Angel sorrise nell'ombra.

-C'era la partita di Hokey in tv, ma la mia squadra stava perdendo-

L'uomo strinse a sé il fagottino azzurro, guardandolo con apprensione. Angel lo fissò più intensamente, mentre il sorriso sarcastico di poco prima spariva dalle sue labbra.

-Non crede che suo figlio possa sentire freddo quassù? Non crede che possa sentire la mancanza di sua madre?-

Martin Wellington strinse più forte il fagotto.

-Sua madre è morta-

Angel si avvicinò di qualche passo.

-Mi dispiace deluderla ma, nonostante i suoi sforzi, la madre del bambino è viva e vegeta e a piede libero-

L'uomo scosse la testa convulsamente.

-Voi non capite...nessuno può capire!-

-Chissà, forse se provasse a spiegarmi, magari dopo che abbiamo portato suo figlio in un posto sicuro...e un po' più confortevole della terrazza di un ristorante giapponese-

Un'altro passo in avanti. Fino al limitare dell'ombra proiettata dalla tettoia della terrazza. Sole maledetto. Ed era ancora troppo lontano. Sarebbe stato ridotto in cenere ancora prima di avere la possibilità di avvincinarsi al bambino. L'altro sembrò non intuire il suo disagio perché di scatto salì sul parapetto.

-Se ti avvicini ancora giuro su Dio che mi butto-

Angel poteva odorare la disperazione dell'uomo e la sua paura. Due cose che non promettevano niente di buono. Se solo fosse riuscito a convincerlo a scendere da quel parapetto. Se solo il bambino non fosse stato tra le sue braccia. Se solo l'ombra fosse stata un po' più lunga...

-Ridammi il mio bambino!-

La voce della donna ruppe l'atmosfera di silenzio che aveva avvolto la terrazza.

L'uomo sembrò irrigidirsi e Angel sentì distintamente il suo cuore accelerare freneticamente i battiti. Esattamente quello di cui non avevano bisogno in quel momento.

-Piuttosto che dartelo lo ammazzo!-

La donna si avvicinò singhiozzando convulsamente.

-Ti prego! Ne ho bisogno! Ti prego! Ridammi il mio bambino, Martin! Non posso fare a meno di lui!-

L'uomo indietreggiò pericolosamente fino all'orlo del cornicione.

Angel afferrò la donna per le spalle tirandola indietro.

-Marge, stia lontana, salveremo il suo bambino, glielo prometto, ma adesso deve fare quello che le dico-

-Lo ucciderà non lo ha sentito? Mi odia a tal punto che lo preferisce morto che tra le mie braccia!-

-Stia calma, andrà tutto bene...solo, ora voglio che si allontani, molto lentamente...-

-Oh ma lei non si allontanerà, vero Marge?-

L'uomo rise sguaiatamente.

-Non può farlo. Ha bisogno del suo bambino. Ne ha bisogno per sopravvivere, non è vero Marge?-

Angel si separò dalla donna e riportò la sua attenzione sull'uomo.

-Non faccia idiozie Martin. Lei non vuole fare del male a suo figlio, ne sono sicuro. Perché non lascia che prenda il bambino...-

L'uomo strinse il fagotto al petto come se si trattasse di un'ancora di salvezza.

-Sa, aveva ragione prima...-

Angel osservò il sole sopra la sua testa. Ci sarebbero volute ore prima che calasse e non c'era una sola nuvola all'orizzonte. Tanto valeva provare a giocare un po'.

-Quando, Martin? Mi dica quando ho avuto ragione-

Se solo fosse riuscito a distrarlo...

-Prima. Io ho avuto paura. Per questo ho lasciato che prendesse mio figlio. Che Dio mi perdoni, ho lasciato che prendesse mio figlio. Ma io amo mio figlio. Lo amo con tutte le mie forze-

Angel assentì silenziosamente.

-Ma certo. Sappiamo tutti quanto lo ama. Adesso perché non scende da lì e...-

L'uomo sorrise con amarezza.

-No. Vorrei, ma non posso. Ho tradito mio figlio una volta, ma ora...ora so cosa devo fare. Ora so come salvarlo-

Angel parlò con un tono pacato, cautamente.

-Ed è quello che vogliamo tutti, Martin. Vogliamo salvare il bambino-

Martin Wellington strinse il fagotto al petto e guardò negli occhi spenti di sua moglie.

-Sono...felice che capiate-

E mentre pronunciava quelle parole si lasciò cadere oltre il parapetto.

L'urlo della donna lacerò l'aria prima che il suo corpo spossato si accasciasse a terra come un sacco vuoto.

Angel si lanciò istintivamente verso la ringhiera, incurante della luce che gli bruciava la pelle e i vestiti. In tempo per vedere il sorriso dell'uomo mentre cadeva a capofitto nel vuoto. E forse Angel lo avrebbe anche afferrato, prima di tramutarsi in cenere. Se due braccia forti e decise non lo avessero trascinato di nuovo nell'ombra, al sicuro.

Se si fosse mosso una frazione di secondo prima. Se fosse stato un centimetro più vicino.

Se qualcuno non avesse voluto salvarlo.

Gunn.

Lo vide uscire nel sole e sporgersi dal parapetto.

Le sagome disarticolate di padre e figlio dovevano giacere a terra, sotto di lui. Due bambole rotte.

Ma non poteva essere, vero?

Come potevano essere morti così, proprio sotto i suoi occhi?

Non c'era neanche stato un vero e proprio combattimento. Non c'era neanche stato un vero e proprio demone da affrontare. Non c'era neanche stato il minimo dubbio che sarebbe riuscito a salvarli. A salvarli tutti. Perché era quello che faceva, no? Lui salvava la gente.

Eppure oltre quel parapetto, due fagotti informi giacevano a terra e un bambino aveva smesso di piangere. Per sempre.

+ + +

Cordelia appoggiò la tazza fumante sul comodino. L'altra non si voltò neppure a guardarla, ostinandosi a rimanere immobile nel letto.

-Le ho portato una tisana...è molto efficacie, davvero...io soffro di terribili emicranie e questo è un vero toccasana, sono sicura che la farà stare meglio-

-Hai mai perso un figlio?-

Cordelia si irrigidì ed esitò un istante prima di rispondere.

-No-

La donna la guardò con un sorriso spento e compiaciuto.

-Allora non venirmi a dire quello che mi può far stare meglio...o peggio-

Cordelia serrò i pugni cercando di trattenersi dal fuggire il più lontano possibile da quella stanza, da quel dolore troppo intenso, troppo bruciante. Ne bastava una di fughe per il momento. Angel non era neanche rientrato in albergo dopo il fatto. Perciò ora toccava a lei affrontare la cosa. E l'avrebbe affrontata a modo suo.

-Ho perso molte persone. Persone che amavo. E non credo che vorrebbero vedermi sprecare la vita a commiserarmi. Credo invece che vorrebbero che vivessi anche per loro, con tutte le mie forze. Lo so che in questo momento il dolore sembra impossibile da sopportare...che tutto questo sembra ingiusto e assurdo...e lo è...ma rinunciare a vivere non è una soluzione. Mi creda. Io lo so-

La donna si voltò verso di lei allora, gli occhi chiari fissi e lattiginosi. Aveva uno sguardo inquietante. Uno sguardo troppo profondo per essere umano. Cordelia scacciò quella sensazione di disagio cercando di concentrarsi sulle parole della donna.

-Perché credi che non l'abbia salvato?-

-Come?-

-Perché l'investigatore...il tuo amico, non ha salvato mio figlio?-

Cordelia scosse la testa stancamente. Si sentiva ancora a pezzi dopo la visione. Già, quella stupida visione. A quanto pare i Poteri Che Sono cominciavano a perdere dei colpi. La testa quasi le scoppiava e per cosa? Per vedere quell'idiota di Wellington che veniva ucciso, mentre a quanto pareva l'uomo si era suicidato, portando con sé anche suo figlio. Non riusciva a capire per quale oscuro motivo un uomo così le fosse apparso come uno degli innocenti che salvavano di solito. E perché non aveva visto nessun bambino nella sua visione? Il fagotto azzurro, per come l'aveva visto lei non era affatto un neonato...e poi nella sua visione il fatto accadeva di notte e non in pieno giorno. Alla fine non era riuscita ad aiutare Angel, diamine non era neanche riuscita a raccontargli la visione per intero...anche se a conti fatti forse era stato meglio così, dato che era evidentemente una visione distorta. Forse stava diventando troppo debole per leggere le visioni correttamente. Forse quelle emicranie feroci che la tormentavano le avrebbero presto distrutto il cervello. Con un sospiro tornò a guardare la donna.

-Mi creda, Angel ha fatto tutto quanto era in suo potere per salvare il bambino...-

La donna assentì distrattamente.

-Già. Alla fine è tutta una questione di potere, vero?-

Cordelia rimase a fissarla in silenzio, incerta se rispondere o meno.

Poi il pianto di Connor ruppe il silenzio.

-Cos'è?-

Cordelia si avviò verso la porta della stanza.

-E' Connor-

La donna la guardò confusa e Cordelia sentì il bisogno di chiarire.

-Il figlio di Angel...-

-Il figlio di Angel-

Ripeté la donna.

Con movimenti lenti e dinoccolati si alzò dal letto e raggiunse Cordelia sulla porta.

-Potrei vederlo?-

Cordelia si morse il labbro inferiore nervosamente.

-Non so...è un bambino piuttosto solitario...non ama gli estranei e non vorrei che si agitasse...-

Gli occhi della donna si riempirono di lacrime brucianti.

-La prego, io devo...ho bisogno di vedere un bambino vivo...ho ancora davanti agli occhi la visione di mio figlio...il mio povero piccolino immobile su quella strada sudicia...io...per favore...-

Cordelia passò un braccio attorno alle spalle della donna in un gesto di conforto.

-Sono sicura che Connor sarà felice di conoscere una vera mamma-

La donna la guardò con gratitudine prima di lasciarsi guidare lungo i corridoi dell'albergo.

+ + +

Gunn continuò a seguire l'ufficiale di polizia lungo i corridoi della centrale.

-Guardi che deve esserci un errore. Controlli meglio! Un uomo e un bambino, precipitati da un tetto questo pomeriggio. L'uomo risponde al nome di Martin Wellington...-

Il poliziotto si girò seccato verso di lui.

-So benissimo chi è Martin Wellington e le assicuro che non è precipitato da nessun tetto e di certo non è morto. Per quanto riguarda suo figlio è ancora nella nostra lista dei bambini scomparsi-

Gunn si parò davanti a lui con decisione.

-E io le assicuro che ho visto Martin Wellington precipitare dalla terrazza del ristorante giapponese sulla dodicesima e che tra le braccia aveva suo figlio. Forse i cadaveri sono stati trafugati...o magari sono stati portati in ospedale...-

-E' impossibile-

-Ma come fa a dire che è impossibile se neanche si prende la briga di controllare!-

Il poliziotto lo fissò con i suoi occhietti acuti e sottili.

-Senta signor...-

-Gunn-

-Signor Gunn-

Acconsentì l'uomo.

-Se è in cerca di pubblicità, non la troverà in questo dipartimento e se è un altro di quei giornalisti in cerca di scoop...-

-Voglio solo che faccia una verifica, non chiedo altro! Le ricordo che il suo stipendio è pagato con i soldi delle mie tasse-

Gunn incrociò le braccia sul petto, irremovibile.

Il poliziotto gli fece cenno di seguirlo.

-E va bene-

Attraversarono diversi uffici fino a raggiungere quello del capo della polizia. Oltre la porta due uomini stavano seduti a una scrivania, uno di fronte all'altro, due tazze di caffé tra loro. Uno indossava la classica divisa nera e azzurra, l'altro, di spalle, un elegante completo di vigogna nera.

-Signor Wellington, mi scusi il disturbo ma quest'uomo sembra avere molto a cuore il suo stato di salute-

Martin Wellington si girò verso i nuovi arrivati con un movimento fluido e aggraziato. Il poliziotto squadrò Gunn dalla testa ai piedi con un'espressione strafottente sul volto.

-Le sembra una verifica abbastanza accurata questa, signor Gunn?-

+ + +

Nel silenzio della sera i passi attutiti dai folti tappeti scuri risuonavano stranamente inquietanti.

-A volte questo posto è un po' lugubre vero?-

La donna rimase in silenzio dietro di lei. Cordelia si strinse nelle spalle e proseguì fino a raggiungere la stanza di Connor.

Aveva già smesso di piangere. Forse era stato solo un brutto sogno, ma tutto sommato meglio controllare.

Si chinò con attenzione sulla culla. Connor dormiva tranquillo e sereno le manine strette a pugno sul petto.

Cordelia sorrise carezzandogli una guancia.

La voce della donna risuonò bassa e profonda alle sue spalle.

-Quando si chiude una porta...-

Troppo profonda.

-Se ne apre sempre un'altra-

Cordelia si girò di scatto, ma era già troppo tardi. Una forza devastante la mandò a sbattere contro la parete opposta facendole perdere i sensi.

La donna si avvicinò alla culla con un sorriso compiaciuto sulla bocca deformata.

-Ecco qui il mio tesorino. Ti è mancata la mamma, vero?-

Connor fissò gli occhi in quelli vitrei della donna, prima di mettersi a piangere convulsamente.

-Oh non piangere amore. La mamma è tornata, vedi? E non ti lascerà andare mai più-

+ + +

-Io l'ho vista morto...lei e suo figlio...morti-

Martin Wellington si alzò in piedi con decisione.

-Lei ha un macabro senso dell'umorismo signor Gunn e la avverto fin d'ora che sta camminando su una linea molto sottile-

Gunn scosse la testa con ostinazione.

-No, le assicuro che l'ho vista sulla terrazza di quel ristorante giapponese con un fagotto azzurro tra le mani e...-

L'uomo lo fissò con uno sguardo acuto e penetrante.

-Come fa lei a sapere dell'appuntamento?-

Gunn ricambiò il suo sguardo, confuso.

-Quale appuntamento?-

L'uomo raccolse un foglio dalla scrivania e glielo mostrò. Si trattava di un semplice foglio bianco, battuto a macchina. "Alle due di stanotte porta cinquantamila dollari avvolti in una coperta azzurra sulla terrazza del ristorante giapponese sulla dodicesima. Quando tornerai a casa tuo figlio sarà nella sua culla".

-Che diavolo...-

+ + +

Il demone osservò con occhio critico il corpo schiantato ai suoi piedi. Era stato decisamente un bel volo. Da manuale.

Con la punta del piede scrollò la figura informe che si mosse con la stessa consistenza della gelatina.

-Zathor, non ho tempo di aspettare i tuoi comodi-

Il cadavere cominciò debolmente a muoversi. Mentre si rialzava da terra la sua forma cambiava impercettibilmente e quando fissò i suoi occhi acuti in quelli scuri del suo padrone, il suo volto aveva perso i connotati di Martin Wellington per ritrovare quelli originari.

-Credi che sia stato comodo schiantarsi giù da un palazzo di otto piani?-

Doc agitò una mano con noncuranza.

-Lo sai che sarai pagato adeguatamente. I nostri cari amici della Wolfram e Hart sembrano avere molto a cuore questa faccenda-

Il demone mutaforma sorrise con le sue labbra violacee.

-Già, ma ho come l'impressione che non sia per loro che stiamo lavorando-

Doc sorrise compiaciuto aggiustandosi l'elegante cappotto nero.

-Diciamo che gli obiettivi di quegli omuncoli per il momento coincidono con i miei. E dato che è così non vedo perché non approfittare della loro collaborazione-

Il demone si liberò degli abiti umani accatastandoli in un mucchio informe ai suoi piedi.

-E naturalmente il fatto che ti abbiano dato in dotazione un attico sulla quinta strada e praticamente regalato un intero guardaroba di Armani non c'entra affatto...-

Doc strinse con decisione il pomello d'avorio del suo bastone, senza smettere di sorridere.

-Vedi Zathor, una cosa che la tua razza non ha mai imparato è usare con oculatezza le creature che servono nel momento in cui ci servono e sbarazzarsene quando non ci servono più-

Il demone si sfregò le mani nodose soffiandovi sopra con il fiato caldo. La notte invernale era più fredda di quanto non avrebbe immaginato. Del resto la sua *razza* come la definiva Doc non era abituata a stare all'aperto in quel periodo dell'anno. Se non fosse stato per tutti i soldi che gli aveva offerto non si sarebbe mai mescolato con una creatura insidiosa come quel Doc. Quello era un periodo nero per tutti e lui aveva un'intera famiglia da sfamare. Si chinò a raccogliere il fagotto azzurro che aveva stretto tra le mani fino a pochi minuti prima, con la stessa cura con cui avrebbe stretto suo figlio. I soldi che Doc gli aveva anticipato per il suo lavoro. E ora che il lavoro era finito ce ne sarebbero stati molti altri.

-E quindi cosa conti di fare? Usare i soldi e il potere di quegli avvocati e poi schiacciarli sotto i piedi come scarafaggi?-

Doc scrollò le spalle con noncuranza rigirandosi il bastone tra le mani. Il demone gli dava le spalle, lo osservò rialzarsi, il fagotto azzurro tra le mani, e quando fu completamente in piedi, gli ficcò il bastone acuminato al centro della schiena, con un gesto secco.

-Avevo pensato di infilzarli come farfalle a dire il vero-

Con forza ritirò il bastone che lasciò dietro di sé uno squarcio da cui un liquido viola cominciò a uscire a fiotti. Il demone crollò sulle ginocchia senza neanche avere la forza di girarsi verso di lui.

-Ma terrò senz'altro conto del tuo suggerimento-

Doc raccolse la giacca che il demone aveva indossato e ripulì il suo bastone dal liquido organico che l'aveva imbrattato. A pochi passi da lui il demone cadde riverso al suolo, mentre una macchia viola e densa si allargava sulla sua schiena.

Doc lo rigirò con la scarpa di cuoio lucido e si chinò a strappargli di mano il fagotto dei soldi. Gli occhi ormai vitrei del demone lo fissavano con sdegno e delusione.

Doc scosse la testa con condiscendenza.

-Eppure te l'avrò ripetuto un milione di volte, Zathor. Fidarsi è bene, ma non fidarsi è meglio-

Con un ultimo sorriso Doc si allontanò dal luogo di morte, facendo roteare il bastone. A chi lo osservava passeggiare non doveva apparire altro che un vecchietto elegante, che fischiettava la melodia di un vecchio film di Fred Astaire.

+ + +

Angel rimase fermo di fronte all'ingresso dell'Hyperion. Sapeva cosa lo avrebbe aspettato una volta entrato. Gli occhi spenti di quella donna a cui aveva chiesto fiducia. Una fiducia che non aveva saputo ripagare. E gli occhi di Cordelia? Come lo avrebbero guardato? Delusi? Furenti? Compassionevoli? E la meritava poi la sua compassione, la sua rabbia, la sua delusione? Lui che si era calato nel ruolo del paladino senza accorgersi che il suo mantello lucente era inesorabilmente strappato e annerito. Lui che li aveva traditi tutti. Lui che aveva fallito, ancora una volta.

Serrando le labbra Angel posò una mano sulla superficie di legno lucido, cercando di trovare la forza di aprirla.

Senza che avesse il tempo di girare la maniglia la porta si spalancò di fronte a lui e la sagoma di Wesley lo accolse sulla soglia.

Angel serrò i pugni, sentendosi peggio di un ladro colto nell'atto di rubare.

-Wes...io...sarei dovuto tornare prima...come sta la madre?-

Wesley non si scompose, rimanendo a fissarlo con i suoi occhi penetranti.

-E' vero. Saresti dovuto tornare prima-

Angel distolse lo sguardo con un sospiro.

-Senti, Wes, se vuoi farmi la paternale, d'accordo lo accetto...hai ragione, mi sono comportato da idiota e non avrei dovuto lasciarvi da soli a rimediare ai miei casini, ma prima che ci addentriamo nella discussione del totale fallimento che è la mia vita che ne dici di lasciarmi entrare? Ho bisogno di vedere Connor...-

Wesley rimase immobile sulla soglia.

-Non è possibile, Angel. Mi dispiace-

Angel salì anche l'ultimo gradino fino a che il suo corpo non sovrastò in altezza quello dell'Osservatore.

-Non ho bisogno del tuo permesso per vedere mio figlio-

Così dicendo lo superò, entrando nell'atrio dell'Hotel. La voce di Wesley lo raggiunse alle spalle, fredda come la lama di un pugnale.

-Connor è scomparso-

Angel si girò lentamente, un sorriso incredulo sulle labbra.

-Come sarebbe a dire che Connor è scomparso? Guarda Wes che non sono in vena di scherzi-

L'Osservatore gli rispose con mortale serietà.

-E io non sono in vena di farne, Angel. La nostra cliente è scomparsa, insieme a Connor. Sono propenso a credere che lo abbia rapito. Con ogni probabilità era lei ad essere alle dipendenze della Wolfram e Hart e non suo marito come credevamo...del resto Gunn mi ha appena telefonato per confermarmi che Martin Wellington è vivo e vegeto. Sembra avesse ricevuto una richiesta di riscatto dai presunti rapitori di suo figlio e si preparasse a consegnare loro cinquantamila dollari. L'appuntamento era sulla terrazza del ristorante giapponese e Wellington doveva presentarsi con i soldi avvolti in un fagotto azzurro. Solo che l'ora dell'incontro era fissata per le due di stanotte e non per oggi a mezzogiorno. Inoltre la visione di Cordelia mostrava l'uomo mentre veniva buttato giù dalla terrazza, assassinato, e non mentre si lanciava di sua spontanea volontà nel vuoto insieme a suo figlio. E' chiaro che siamo stati ingannati... se tu avessi dato il tempo a Cordelia di spiegarsi, quando ti ha telefonato...-

-Dov'è Cordelia?-

Wesley si irrigidì impercettibilmente.

-Angel, non credo che...-

Il vampiro si proiettò sull'Osservatore sollevandolo per il bavero della giacca e sbattendolo contro il muro.

-Voglio sapere dov'è Cordelia e cosa diavolo stava facendo invece di badare a mio figlio!-

Wesley si liberò a fatica della stretta del vampiro.

-Per tua conoscenza Cordelia era con Connor quando è stato rapito e stava badando a lui, come sempre!-

Angel scrollò le spalle con noncuranza.

-Benissimo, così potrà dirmi come diavolo ha potuto permettere che una donna che non aveva neanche la forza di reggersi in piedi prendesse mio figlio e uscisse da questo albergo senza che nessuno si degnasse di fermarla!-

Con rabbia Angel salì i gradini della scalinata dell'atrio, i muscoli pronti a scattare, l'istinto che prendeva lentamente il sopravvento sulla ragione.

-Cordelia non ti dirà niente, Angel!-

Il vampiro si voltò verso l'Osservatore le labbra aperte in un sorriso cinico.

-Ti assicuro che mi dirà tutto quello che voglio sapere-

Wesley guardò il demone negli occhi, accorgendosi, non per la prima volta, di quanto fosse ancora vivo e potente all'interno del corpo umano di Angel.

-Cordelia non è all'Hyperion...-

Angel ridiscese in fretta gli scalini, poco impressionato.

-Ah, dunque ha preferito scappare. Ma non c'è problema, la troverò comunque-

Wesley si lasciò superare dal vampiro, senza tentare di fermarlo.

-Giusto perché tu lo sappia, Angel. Cordelia ha difeso Connor fino all'ultimo istante-

Angel si voltò verso di lui, sorridendo.

-Se permetti, vado a sentire la *sua* di versione-

Wesley assentì silenziosamente prima di replicare.

-General Hospital, stanza 376-

Angel fissò l'Osservatore, smarrito.

-Come?-

Wesley incrociò le braccia sul petto, osservando il volto del vampiro cambiare sotto il flusso delle emozioni contrastanti che lo possedevano.

-General Hospital, stanza 376. E' lì che troverai Cordelia, ma temo che le sarà difficile rispondere alle tue domande, dato che è caduta in coma-

+ + +

La donna strinse al petto il bambino camminando veloce tra i vicoli oscuri. Doveva allontanarsi e doveva farlo in fretta prima che...

-Sembra avere molta fretta, signora Wellington-

Marge si voltò in direzione della voce profonda e pacata che l'aveva interpellata.

Una limousine nera era parcheggiata all'angolo della strada e un ometto di mezza età se ne stava appoggiato alla fiancata dondolando con indolenza un bastone dal pomello d'avorio.

-Cosa volete?-

L'uomo sorrise innocente.

-Noi non vogliamo nulla signora Wellington. A quanto mi risulta è lei che vuole qualcosa. Disperatamente a quanto ho saputo-

-Non so di cosa sta parlando-

La donna ricominciò a camminare, allontanandosi nella direzione opposta.

La voce dell'uomo la raggiunse comunque, spietata e tranquilla.

-Parlo di suo figlio, signora. O forse ora che l'ha abilmente sostituito, l'articolo originale non le interessa più?-

Marge Wellington sentì le gambe cedere sotto il peso di quella infinita giornata, ma trovò comunque la forza di voltarsi a guardare l'uomo negli occhi.

-Lei sa dov'è mio figlio-

Doc guardò negli occhi la sua preda, sorridendo. Ancora una volta aveva vinto. Gli occhi pieni di speranza di quella creatura glielo gridavano a gran voce.

Con assaporata lentezza fece scattare la trappola.

-Perché non entriamo in macchina e ne parliamo con calma?-

La donna strinse il bambino tra le braccia, evidentemente indecisa. Doc le parlò con tono rassicurante. Era bravo in questo.

-Le assicuro che ridarle suo figlio è anche negli interessi della Wolfram & Hart. Al contrario di certe persone i miei superiori non hanno nulla contro le unioni tra demoni e esseri umani, ritengono anzi che i genitori di origine demoniaca dovrebbero poter godere degli stessi diritti riconosciuti a quelli umani-

Marge nascose il capo contro la testolina del bambino che stringeva tra le braccia.

-Mio marito ha sostenitori molto potenti...ha minacciato di denunciare pubblicamente la mia natura...-

Doc assentì comprensivo.

-Immagino sia stato un colpo per lui venire a conoscenza della reale natura di sua moglie-

Così dicendo passò un braccio intorno alla vita della donna e la condusse verso la macchina.

-Mi tolga una curiosità signora Wellington, per quale motivo non ha mai parlato a suo marito delle sue origini?-

Marge Wellington lasciò che il demone le aprisse la portiera della macchina, con misurata galanteria.

-Quando si è innamorati si fanno cose molto stupide-

Concluse la donna accomodandosi sui sedili di pelle chiara.

+ + +

-L'orario di visita sta per terminare, signorina-

Fred strinse la mano di Cordelia prima di alzarsi e lasciare la stanza. Ad aspettarla, sulla soglia, trovò Gunn.

Gli sorrise debolmente.

-Come è potuto succedere, Charles?-

Charles Gunn contemplò la figuretta minuta che gli stava davanti, senza particolare emozione. Era da tempo ormai che aveva perso l'abitudine di provare dei sentimenti per qualcuno. A parte la rabbia, forse. Di quella ne aveva fin troppa in corpo. Anche in quel momento. Rabbia per non aver capito in tempo. Rabbia per essere arrivato, come sempre, un istante troppo tardi. Rabbia per un mondo che tormentava degli innocenti e infieriva sui loro protettori. Rabbia per una ragazza troppo bella e vitale per essere costretta, immobile, in un letto di ospedale.

-Certe cose succedono, Fred. In questo mondo e in quest'epoca gli eroi non sono senza macchia e senza paura. Di certo non sono invincibili. Dovresti saperlo meglio di chiunque altro dato che lavori per un vampiro che ha alle spalle più di un secolo di omicidi-

Fred guardò il volto contratto dell'uomo con smarrita sorpresa, ma prima che potesse rispondere fu interrotta dalla voce di Angel.

-Gunn ha ragione. Questo è un mondo dove gli eroi cadono e perdono. Forse sarebbe meglio per tutti voi se mi lasciaste continuare questa guerra da solo. Gli ultimi fatti dimostrano fin troppo chiaramente che non sono in grado di garantirvi alcuna protezione-

Fred serrò le labbra, mentre gli occhi le si riempivano di lacrime.

Gunn si voltò a guardare Angel e scandì la sua risposta, sillaba dopo sillaba.

-Forse un giorno ti lasceremo proseguire la tua guerra da solo. Ma non oggi. Oggi abbiamo una battaglia da combattere e da vincere. Insieme-

Angel fissò l'uomo negli occhi, sorpreso. Gunn gli diede una pacca sulla spalla e lo superò lasciando un'ultima frase dietro di sé, prima di sparire oltre il corridoio del reparto.

-E poi Cordy non ce lo perdonerebbe mai se ti lasciassimo solo in un momento come questo-

Angel socchiuse gli occhi cercando di mettere a tacere il doloroso senso di colpa che quel nome ancora gli suscitava.

Sentì le mani di Fred sulle sue, ancora prima di vederle.

-Se vuoi vederla devi fare in fretta Angel, l'orario di visita sta per finire...-

-Non sono venuto per vederla-

Fred lasciò andare le sue mani, stupita.

-Ma che stai dicendo?-

Angel fissò gli occhi neri in un punto imprecisato oltre le spalle della ragazza.

-Non merito di guardarla in faccia...non dopo il modo in cui ho dubitato di lei. Dio, Fred. Dopo tutto quello che abbiamo passato insieme...io ho dubitato di lei...ho davvero creduto che non avesse fatto tutto il possibile per proteggere Connor...le ho dato la colpa di quello che è successo, senza pensarci due volte!-

Il vampiro tornò a guardare la ragazza, il viso stravolto dalla rabbia.

-Ma la verità è che l'unico colpevole in questa storia sono proprio io. Sono io che non ho voluto ascoltare i dubbi di Wes, sono io che non ho dato il tempo a Cordelia di raccontarmi la sua visione per intero, sono io che ho lasciato lei e Connor da soli, in balia di chissà quale demone mandato dalla Wolfram e Hart. E tutto perché non volevo accettare di avere torto, non volevo accettare di poter fallire, non volevo credere di aver fatto la scelta sbagliata. Tutto perché non ho voluto prendermi le mie responsabilità...forse se avessi parlato subito a quella donna...e se...-

-E se hai finito di autocommiserarti ora vorrei dirtele io due paroline-

Fred guardò il vampiro dritto negli occhi, senza mostrare la minima debolezza.

-Devi smetterla di sentirti il peso del mondo sulle spalle, Angel, non sei tu l'unico responsabile di quello che succede. Ognuno di noi avrebbe potuto agire diversamente in questa situazione. Anche Cordelia. Avrebbe potuto lasciare che rapissero Connor, ad esempio, senza opporre resistenza. Ma non l'ha fatto. Ha agito seguendo il suo istinto, come tutti noi. Si è impegnata fino alla fine per salvare un innocente, come tutti noi. Incolparci l'un l'altro per quello che è successo non serve a nient'altro che a farci perdere tempo. Ed è esattamente questo che vuole la Wolfram e Hart. Ricordi i romani? Dividi et impera. Metti i tuoi nemici uno contro l'altro e sarà più facile governarli. Bè io non permetterò che questa storia ci divida...che il senso di colpa ci affoghi. Dobbiamo rimanere uniti, in questo momento più che mai, se vogliamo salvare Connor-

Fred si morse il labbro inferiore impressionata dalla violenza del proprio sfogo.

-E...sono sicura che Cordelia direbbe le stesse cose se potesse parlare...-

Angel socchiuse gli occhi e, per la prima volta da quando tutta quella storia era cominciata, sorrise.

-Ne sono sicuro anch'io-

E' proprio questo il problema.

+ + +

Early one morning,

just as the sun was shining,

I heard a maid sing in the valley below

Drusilla lasciò che i riccioli neri le volteggiassero intorno seguendo il ritmo delle sue piroette. Le mani bianche stringevano i veli candidi delle sue vesti sollevandole e abbassandole al ritmo della musica che risuonava nella sua mente.

Un applauso deciso riempì la stanza, accompagnando le note dell'antica melodia, e sebbene sapesse che quelle mani non avevano nulla di familiare, Drusilla non poté fare a meno di sentire un brivido conosciuto lungo la schiena.

Si voltò a guardare il nuovo venuto prima di rivolgergli un sorriso consapevole, come se non avesse aspettato altro che di vederlo.

-Ecco il visitatore notturno venuto a darmi quello che voglio-

Poi, riprendendo a cantare come se nulla fosse accaduto, rivolse la sua attenzione alla bambola bendata che se ne stava comodamente seduta sul letto, quasi fosse stata la padrona della stanza.

Oh, don't deceive me

Oh, never leave me

How could you use a poor maiden so?

L'ometto si inchinò profondamente come se si trovasse al cospetto di una vera regina.

-Mia signora, siete pronta per imbarcarvi in un lungo e avventuroso viaggio verso un nuovo mondo?-

Drusilla intrecciò le mani davanti agli occhi come a volersi riparare da una luce troppo intensa e scrutò gli occhi neri e liquidi del demone di fronte a lei attraverso le dita sottili.

-Mi darai ciò che desidero, che io lo voglia o no?-

Doc sorrise sornione indicandole la finestra, fingendo di ignorare la sua esitazione.

-Purtroppo sono costretto a offrirvi una via d'uscita di fortuna mia signora, ma vi prometto che il resto del viaggio sarà all'altezza del vostro rango-

Drusilla lasciò andare le braccia lungo i fianchi mentre l'aria della notte attraversava la finestra spalancata e le soffiava in faccia scostandole le ciocche nere dal volto. Lentamente mosse una passo verso il demone e un altro e un altro ancora, fino a che non gli fu di fronte a sovrastarlo con la sua altezza flessuosa.

-Bisogna fare attenzione ai desideri che si esprimono. Potrebbero avverarsi-

Senza aggiungere una sola parola scavalcò il davanzale della finestra, rifiutando la mano del demone che le offriva sostegno.

Doc serrò le dita sul pomo d'avorio del suo bastone investito dall'aura potente che le scorreva intorno come un torrente oscuro e luccicante al tempo stesso. Potere. Era questo che cercava. Solo che quella creatura ne aveva fin troppo per i suoi gusti e non era più certo che fosse il tipo di potere di cui aveva bisogno.

Si sporse dal davanzale assicurandosi di vederla sparire nella vettura che aveva fatto preparare per lei. Quando vide i fari sparire in fondo al vicolo richiuse la finestra e si sedette sulla sedia a dondolo al centro della stanza.

Bè come si dice, se non puoi batterli fatteli amici. O quanto meno portali dalla tua parte.

Con una scrollata di spalle Doc cominciò lentamente a dondolare sulla sedia. Aspettando di fare la sua prossima mossa.

+ + +

Wesley Windham Price era sempre stato un uomo controllato. Rispettare le regole che gli venivano imposte non era mai stato un problema. Una sfida forse, ma mai un problema.

Wesley Windham Price non era mai stato un uomo d'azione. Suo padre era un Osservatore e così il padre di suo padre. E così via, per generazioni. Restare calmo ad osservare non era mai stato un problema. Poco comprensibile per gli altri, forse, ma mai un problema.

Ecco perché nessuno pensò di doverlo fermare o trattenere quando trovarono Doc nella stanza destinata a Drusilla, al terzo piano dell'Iperion. Ecco perché nessuno si preoccupò quando lo vide avanzare sul demone con passi lenti ma decisi. Ecco perché nessuno riuscì a credere che Wesley Windham Price avesse davvero scaricato la pistola automatica che teneva nascosta nel fodero della giacca contro il nemico del giorno.

Solo Doc non sembrò stupito da quella reazione, perché invece di terrore o sorpresa mostrava una certa condiscendenza nello sguardo mentre si alzava barcollando dalla sedia a dondolo e ricadeva in avanti con un tonfo sordo.

Angel incrociò le braccia sul petto senza tradire la minima emozione.

-Ti senti meglio adesso?-

Wesley rilasciò un respiro pesante prima di rimettersi la pistola in tasca e aggiustarsi gli occhiali sul naso. E dato che quella di Angel era chiaramente una domanda retorica non si prese la briga di rispondere.

-Si muove-

La voce di Fred spezzò l'aria di attesa che li circondava e gli sguardi di tutti si concentrarono sulla forma di Doc che si rimetteva in piedi apparentemente senza fatica.

-Bene, bene, bene. Chi se lo aspettava? Un Osservatore che si lascia dominare dalle sue pulsioni. A giudicare dai miei incontri precedenti avevo inziato a credere che il Consiglio reclutasse solo animali a sangue freddo-

Doc puntò gli occhi in quelli chiari dell'uomo che lo aveva appena ucciso, o quanto meno ci aveva provato.

-Cosa direbbe suo padre, signor Price, della sua incauta scelta? Uccidere l'unica creatura che può aiutarvi a riavere il bambino, o quanto meno a scoprire dove è stato portato-

Wesley sorrise calmo.

-Come mio padre non ha mancato di insegnarmi, un demone originario non si può uccidere con armi comuni. Tuttavia ritengo che la morte non sia necessariamente la peggiore delle punizioni o delle minacce-

Doc si spazzò la polvere dal soprabito prima di tornare a guardare il gruppetto di creature che lo squadrava dal fondo della stanza.

Miscuglio interessante. E pericoloso.

-Temo che la minaccia presunte punizioni future non sia uno strumento che vi aiuterà a scendere a patti con un demone originario. Non abbiamo la mente annebiata da inutili sensi di colpa o da religioni prescrittive e restrittive, noi-

-Cosa vuoi, Doc-

Un'affermazione, non una domanda. Il demone fissò gli occhi liquidi sul vampiro lasciandosi colpire dall'onda delle sue emozioni, pur così abilmente nascoste da una maschera impenetrabile.

Un sorriso gli si allargò sul volto. Non così impenetrabile, dopo tutto.

-Non è quello che voglio io che conta, ma quello che volete voi e fino a che punto siete disposti ad arrivare per riaverlo-

+ + +

La sua vita non era mai stata regolare. Non aveva mai avuto appuntamenti fissi, orari da rispettare, né tanto meno il solito posto a cui tornare. Avesse avuto il tempo e la voglia avrebbe scritto On the Road parte seconda. Ma lei non aveva mai avuto la passione della scrittura. Per quanto di passione se ne intendesse anche troppo.

Aveva sempre saputo istintivamente che un giorno sarebbe arrivata la resa dei conti e se l'era sempre immaginata violenta e mortale, una specie di sfida all'Ok Corral. Solo con molto più sangue.

Certo non si sarebbe mai aspettata che la sua espiazione si potesse risolvere così. Giornate intere passate in una stanza più grande e confortevole di quelle degli alberghi in cui aveva trascorso gran parte della sua esistenza, davanti a una tv accesa sul canale dei telefilm o dietro le pagine di uno dei migliaia di libri che non aveva mai letto.

Gentile cortesia del direttore del carcere che data la sua "particolare condizione" aveva ben pensato di fornirle una cella di massima sicurezza lontana da tutte le altre, dove potesse scontare la sua pena nel più completo e perfetto isolamento.

All'inizio si era limitata a starsene distesa sul letto a fissare il soffitto ripercorrendo la sua vita a ritroso. Alcuni momenti li vedeva al ralenty, come la prima volta che aveva tradito la fiducia di Wesley, la prima volta che aveva mentito a Buffy, la prima volta che aveva ucciso un uomo. Li riviveva istante per istante provando tutte quelle emozioni che non si era data il tempo o il diritto di provare la prima volta. Altri le scorrevano davanti così veloci che quasi non riusciva a distinguerli. E in mezzo a tutto quel caos di immagini violente e accelerate rimanevano certi sguardi, certi abbracci, certi gesti di affetto. Erano quelli che facevano male. Male veramente.

Dopo un mese di autocommiserazione mascherata da presa di coscienza dei torti fatti e subiti nella sua vita aveva deciso che si era annoiata abbastanza. E aveva acceso la tv.

Era stato così che il suo tempo aveva cominciato ad essere scandito da una serie di appuntamenti fissi e regolari legati a orari prestabiliti e ricorrenti. La sua vita aveva acquisito un ritmo. Le Soap Opera del mattino. Il Legal Drama del mezzogiorno. I talk show del primo pomeriggio. Il film Universal o Metro Goldwin Meyer delle quattro. I reality di prima serata. Le maratone notturne.

Ogni appuntamento era intervallato dall'ora d'aria che il sistema sanitario del carcere imponeva alle detenute. Faith passava quell'ora completamente sola. Non perché si isolasse volontariamente dalle sue compagne di sventura, non perché ignorasse volontariamente le guardie addette alla sua sorveglianza, cose che avrebbe anche fatto volentieri se gliene fosse stata data la possibilità, ma perché di compagne e guardie non ne aveva. Il direttore del carcere aveva ben pensato di riservarle l'ala nord dell'edificio, quella completamente automatizzata dove la sorveglianza si basava su un sistema di monitor che registravano la presenza e gli spostamenti dei detenuti in termini di calore corporeo, i pasti arrivavano direttamente in cella tramite un sistema di montacarichi, i percorsi da seguire erano segnalati tramite spie luminose e sollecitati da una serie di stimoli elettrici collegati ai bracciali elettronici imposti ai detenuti. In sostanza l'ala dove vigeva il completo isolamento e l'unico contatto con l'esterno nonché con il resto del genere umano era il televisore sistemato in un angolo della cella e la famosa ora d'aria da passare nella più completa solitudine. La soluzione era stata adottata ufficialmente "per tutelare la sicurezza di detenuti considerati obiettivi sensibili", cosa esattamente questo significasse, Faith non avrebbe saputo dirlo, ma di certo sapeva che tutto si poteva dire di lei tranne che fosse "sensibile". Aveva più che altro il sospetto che il direttore del carcere, un simpatico burocrate che aveva fatto della massima "beata inoranza" una regola di vita, sbattesse in quell'area riservata i detenuti di cui non voleva preoccuparsi. Della serie lontan dagli occhi e lontan dal cuore, o qualcosa del genere. Per quanto la riguardava non aveva niente in contrario. Anzi. Del resto meglio soli che male accompagnati. O qualcosa del genere.

Da quanto aveva scoperto le meraviglie del mezzo televisivo, Faith passava la sua ora d'aria a chiedersi chi avesse davvero ucciso Laura Palmer, quale segreto nascondessero i nuovi abitanti di Wisteria Lane, di chi fosse davvero innamorata Brooke Forrester e se Sam Beckett sarebbe mai tornato a casa. Non guardava mai oltre le mura. Mai oltre la rete metallica. Soprattutto non guardava mai giù. Non più.

Non che non avesse mai fatto tutte queste cose. Anzi all'inizio passava quell'ora appesa alla rete metallica a guardare giù, verso il selciato sottostante. Almeno un'ottantina di metri sotto di lei. Un bel volo senza dubbio. Del resto in una città di grattacieli un carcere doveva per forza svettare. Alto e imponente come un avvertimento forte e chiaro ai cittadini. Occhio a quello che combinate nei vicoli o nelle cantine, gente, perché se non fate i bravi è questo che vi aspetta. O forse era solo il prodotto di un architetto con forti esigenze di compensazione. Del resto come monito non è che funzionasse molto, dato il costante incremento del tasso di criminalità in quel di Los Angeles.

In ogni caso, e qualunque fosse la ragione per cui era stata costruita così alta, quell'ala del carcere dava le vertigini. Una colata di cemento a picco sull'asfalto sporco. Liscia come l'olio. Niente finestre o mattoni a interrompere tutta quella rettitudine. Niente alberi o cespugli a distrarre lo sguardo. Chi aveva costruito quel muro voleva che tu guardassi giù. Verso il fondo. Solo che laggiù non c'era niente da vedere. I tuoi occhi erano attirati da niente. Ed era esattamente così che ti sentivi mentre guardavi quel fondo vuoto. Niente.

Niente paura. Guardando giù ti sentivi pronto a morire. Una caduta sull'asfalto da quell'altezza avrebbe ucciso chiunque all'istante. Anche una creatura ancestrale e potente come una cacciatrice. Niente fughe di mezzanotte da lì. Niente evasioni spettacolari alla Clint Eastwood. Niente ali della libertà. Niente di niente. Morta. Punto e a capo.

Morire, dormire...sognare forse. Ah qui è l'incaglio. Perché quali sogni possano venire dopo la morte...no. Non era stato il pensiero del dopo a frenarla. Per quanto con quelle battute Mel Gibson l'avesse quasi convinta che fosse quello il problema, il post mortem, Faith sapeva che non era così. Non per lei. Il problema non era quello che le sarebbe successo dopo, ma era quanto sarebbe accaduto subito prima.

Guardando giù da quell'altezza vertiginosa non potevi fare a meno di pensare all'infinita lunghezza della caduta. Quante volte avresti potuto pentirti prima di arrivare a spiaccicarti sull'asfalto? Quanto sarebbe durato il volo prima di concludersi con l'atteso splat finale? E se non si fosse concluso affatto?

Perché era questo che sognava ogni notte. Un lungo e interminabile volo verso il fondo. Senza fine. Cercava di accelerarlo a volte, muovendo freneticamente gambe e braccia, assumendo la posizione più areodinamica possibile. Ma niente. La caduta continuava all'infinito, fino al risveglio. E forse era questo che le impediva di buttarsi. La possibilità che non finisse tutto e subito in uno splat.

E forse era questo che intendeva Mel. Quello che ti impedisce di suicidarti è la possibilità di non morire. Quello zero virgola zero virgola zero un percento che hai di sopravvivere, anche lanciandoti giù da un grattacielo. Perché nella vita non si sa mai e il destino aveva un modo beffardo di giocare e giocarti. E lei ne sapeva qualcosa.

E senza la certezza di fare splat una volta e per sempre non aveva senso buttarsi. Perché non era quello che voleva. Non era morta e basta.

Ecco perché era meglio pensare al programma tv che aveva appena visto o a quello che stava per iniziare, invece che guardare oltre la rete. Qualunque cosa era meglio del pensiero di quel lungo e interminabile volo. Perché non era quello che voleva. Lei non voleva morire. Voleva essere morta e basta.

Per quanto le costasse ammetterlo le piacevano soprattutto le Soap del mattino. Protagonisti carini ma non abbastanza belli da farti sentire uno schifo. Storie abbastanza semplici da poter essere seguite distrattamente, abbastanza lente da permetterti di perdere una puntata, o venti, senza perdere il filo. Di violenza si parlava a volte, ma i fatti di sangue erano sempre già accaduti o relegati fuori dall'inquadratura principale.

E fu proprio mentre qualcuno piangeva inconsolabile nella sua soap preferita, chiedendo perdono per un tradimento, proclamando un amore eterno e disperato, che lo sentì.

E seppe con certezza che il tempo delle regole e degli appuntamenti fissi era già finito. Peccato si stava quasi abituando.

-Ho bisogno di te, Faith-

Gli rispose senza voltarsi a guardarlo e senza staccare gli occhi dallo schermo.

-Nadia ha appena scoperto che l'uomo che ama è in realtà sempre stato innamorato di sua sorella e l'ha sposata solo per potersi avvicinare a lei. Lui però sostiene di non poter più fare a meno di lei, anche se è stata un ripiego-

Sentì il suo sguardo addosso, nero e caldo come lo ricordava.

-Pensavo che discorsi così potesse farli solo un attorucolo di serie zeta con evidente bisogno di un nuovo parrucchiere e invece eccoti qui a dirmi che hai bisogno di me, anche se evidentemente sono la tua seconda scelta-

Angel si appoggiò alle sbarre della cella serrandole tra le dita con forza.

-Non sei una seconda scelta-

Lei si alzò scrocchiando le dita e distendendo i muscoli della schiena.

-Sei l'unica speranza che mi rimane-

Faith si voltò allora, perché a stento riconosceva quella voce. Non aveva mai sentito quella strana inflessione nel suo tono...cos'era? Dolore, rabbia, paura...no.

Era pura e semplice disperazione.

La stessa che si rifletteva nel sorriso forzato che le stava rivolgendo.

-Non ho niente da offrirti in cambio. Speranza, vie di fuga, riabilitazione. Niente di tutto questo-

Faith strinse i pugni lungo i fianchi, ma non tradì la minima emozione.

-Voglio che sia chiaro che ti chiedo di tornare a combattere non per il bene dell'umanità, ma per un puro interesse privato ed egoistico. Non per una giusta causa, ma per la mia causa-

Angel si passò una mano sul volto nascondendo una risata stanca.

-E l'unica motivazione che posso darti è che quello che devo fare non posso farlo senza il tuo aiuto. Ho bisogno di te, Faith. Non ho altro da darti-

Faith si avvicinò alle sbarre e appoggiò le mani su quelle di Angel, stringendole tra le sue.

-Non hai bisogno di darmi niente, Angel. Mi avevi già convinto quando sei entrato qui-

Gli sorrise in tralice e lasciò che si allontanasse da lei di qualche passo prima di scardinare la porta della cella e scaraventarla con noncuranza dietro di sé.

L'allarme cominciò a risuonare con forza facendo vibrare le pareti, ma loro parevano non sentirlo.

-Allora quale inferno mi offri questa volta?-

-Il solito-

Faith lo superò con una scrollata di spalle entrando nel corridoio e approfittandone per sbattere contro il muro la testa di una delle guardie che le venivano incontro con il fucile spianato.

-Tu sì che sai come mettere una ragazza a suo agio-

E lo era davvero, a suo agio. Mentre combatteva di nuovo con lui e per la prima volta per lui. Si chiese quanto sarebbe durata quella sensazione di benessere. Probabilmente giusto il tempo necessario a compiere il viaggetto all'inferno che lui le aveva proposto.

Un inferno che, ne era più che certa, faceva rima con Sunnydale.

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