II

     Fin dai primi anni dell’ottavo secolo le navi islamiche iniziarono a solcare incontrastate il Mediterraneo e ad affacciarsi minacciose alle coste sarde. Nel 711 una flotta salpata dall’Africa Settentrionale, ormai completamente islamizzata, dopo la caduta dell’esarcato, entrò nel porto di Karales. La città fu saccheggiata e i musulmani, nell’ebbrezza della rapina, si abbandonarono a una serie di atrocità, devastando luoghi sacri e infierendo sulla popolazione inerme, tanto che quando le loro navi, al ritorno, cariche di bottino furono disperse da una tempesta e colarono a picco, gli stessi cronisti arabi definirono la sciagura una giusta punizione del cielo adirato[1]. L’emozione suscitata da quell’episodio raggiunse gli estremi limiti dell’Europa e il venerabile Bèda, dall’Irlanda, pianse per la triste sorte toccata alla gente sarda. A detta di quel sant’uomo, fu in quell’occasione che le reliquie di Sant’Agostino, troppo esposte nella città mediterranea agli assalti dei rapinatori d’oltre mare e alla profanazione, furono fatte trasportare a Pavia da Liutprando, re dei longobardi.

     Le visite dei crudi vicini lasciarono ovunque segni funesti, soprattutto nelle borgate e nelle città costiere. Il Judex Provinciae, retaggio della scomparsa amministrazione bizantina, poco poteva contro le forze preponderanti degli invasori e nell’anno 815 chiese al re dei franchi, Ludovico il Pio, un aiuto contro le scorrerie moresche. Questo però, che aveva già i suoi grattacapi in casa propria, dovette lasciare insoddisfatta la richiesta dei sardi, che vennero a trovarsi, per la prima volta dopo alcuni millenni, a dover decidere da soli della propria sorte.

     Da soli! Ma spingendo lo sguardo sulla distesa salata oltre le sponde, non vedevano più quel mare amico che tanti pacifici scambi commerciali e culturali consentì in passato agli antenati nuragici: scambi e rapporti d’amicizia con le popolazioni e le genti più lontane, fino agli estremi limiti orientali. Questo mare, divenuto ostile per i sardi, pullulava di navi predaci, che allungavano gli artigli da ogni parte tenendoli lontani dalle loro coste.

     Il fumo delle case incendiate, le devastazioni e i saccheggi indicavano l’arrivo di gente nuova dal mare e l’invasione dell’entroterra. Ogni apparire di vele all’orizzonte segnava una data funesta in questa terra e seminava tra la sua gente un panico maligno che l’allontanava sempre più dalle coste in cerca d’un più sicuro rifugio all’interno e induceva a considerare il mare stesso un nemico. Giovani, uomini in grado di lavorare e donne, venivano prelevati e inviati ai mercati degli schiavi.

     Il Judex Provinciae, data anche la posizione geografica di questa terra, la sua distanza da Costantinopoli, da cui la separava una distesa sempre più infida, aveva ricevuto da Costantino VIII Porfirogenito, una più larga autonomia, codificata da un diploma sigillato con una bolla d’oro, che doveva contraddistinguerlo fra i dignitari più eccellenti amici di Cristo. Il Judex, con il titolo di protospatario, veniva così considerato dalla corte imperiale come un vassallo italico[2], ma in realtà non era già più soggetto all’autorità di Bisanzio e si affermava sempre più come un governatore indipendente. Karales però, posta all’estremità meridionale dell’isola, era ormai inidonea ad esercitare un effettivo controllo sull’intero territorio. Il Judex, pertanto, cominciò dapprima col nominare i suoi Loci Servatores, che da Tharros, da Turris Libisonis e da Olbia, governassero in sua vece ciascuno la propria zona (Logu). Questi, acquisiranno col tempo una sempre maggiore autonomia e costituiranno dei veri e propri minuscoli regni, con pari dignità del Giudicato di Karales e spesso sopravanzandolo. Si svilupperanno così il Giudicato di Torres, di Gallura e d’Arborea.

     Si sviluppava un ordinamento nuovo, tale da rendere più agile l’amministrazione, più efficace il controllo del territorio e l’azione di contrasto degli attacchi famelici mossi da ogni parte. Il nuovo assetto politico, territoriale e giuridico della Sardegna, agli inizi dell’anno Mille, più snello e più agile, non risultò tuttavia sufficiente a scongiurare il pericolo arabo, per cui le città più fiorenti, soprattutto quelle situate lungo il litorale, cadranno presto sotto le scimitarre di Allah.

     Cadde Bitia; caddero Nora, Sulki, Othoca; caddero Tharros e Turris Libisonis e gli stessi abitanti di Karales, terrorizzati dai reiterati assalti, si trasferirono in massa a Santa Igia, al riparo delle paludi di Santa Gilla.

     Sulki era ormai in stato di completo abbandono. Presa d’assalto già qualche secolo prima, i vecchi, i soli ostinati, con più nulla da perdere e nulla da temere e pertanto decisi a restare nel luogo, vivevano di stenti: mangiavano quando il tempo, il mare e i pericoli ignoti, consentivano loro di allontanarsi dalla costa in cerca di qualcosa con cui sfamarsi. L’istinto di sopravvivenza acuì presto quell’astuzia primitiva che consentirà loro di sfuggire ai pericoli immediati. Vennero riscoperte, sotto l’incalzare degli assalti, le pieghe più riposte e gli anfratti dimenticati in lunghi anni di vita tranquilla.

     Quella mattina una turba spaurita di pescatori lasciò rapidamente le reti e le barche e cercò rifugio entro gli ipogei punici e romani. Questi, riadattati miseramente, erano ormai diventati rifugio e abitazione per la gente del luogo.

     Al largo, il mare pullulava d’una moltitudine di sagome nere di vascelli, sospinti verso terra da una nube di vele gonfie, su cui sventolava quell’insegna ch’essi avevano imparato da tempo a conoscere e a temere.

     Il Califfato di Cordoba terminava il suo ciclo: ne era consapevole e, prima di morire, voleva ancora mostrare gli artigli. La flotta che si spiegava al largo della costa sulcitana era salpata dal porto di Denia ed era comandata dallo stesso Mugahîd.

     Questi, già liberto di Al Mansur[3], ultimo rappresentante della dinastia degli Omayyadi, era ora Signore del luogo. Nelle sue mire era ancora Karales. La città fu nuovamente aggredita e invasa. I sardi che già in passato ripetutamente riuscirono a prevalere sugli assalitori del mare, questa volta non ebbero fortuna. Si gettarono con impeto e generosità sugli invasori, ma furono sconfitti e lo stesso Salusio, il giudice di Karales, rimase sul campo.

     Jorxij procedeva con sempre maggior fatica. Era stanchissimo. A oriente il cielo cominciava a impallidire ed egli non dormiva dal giorno precedente. Aveva le gambe intorpidite e i piedi pesti e indolenziti, quando giunse in prossimità del SantEremilis e della collinetta gemella, a oriente il cielo cominciava a schiarire. Vapori d’un azzurro scuro si stemperavano in lievi toni di turchese e, su uno spicchio lattescente, sorrideva la stella mattutina.

     La campagna, intorno, echeggiava di voci e di rumori agresti e qualche gallo porgeva il suo saluto al nuovo giorno. Il maestrale, fino alla stradina di Perd’ ‘e Massa, portava al visitatore mattiniero, coi profumi dei campi, un effluvio intenso di frutta matura frammisto a una nube di essenze dolci e inebrianti che contrastava con la rudezza di quegli spigoli selvaggi, di quegli spini e di quelle rocce. Un misto di odori e di profumi che riusciva a sopraffare persino la puzza di vomito che impregnava le sue vesti. Proprio il contrasto con questo tanfo e il fatto che se lo portasse appresso, fece apprezzare maggiormente a Jorxij quegli effluvi agresti e gli diede l’impressione di non avere mai, fino a quel momento, potuto cogliere nulla di più bello. Più s’avvicinava a Leni e più la nube dei profumi si faceva intensa e inebriante. Ora ne era completamente avvolto.

     S’inoltrò tra le viuzze e sbucò nella piazzetta del mercato. Da un cortile arrivava uno starnazzare di galline e, da una porticina a pochi passi, il tinnire d’un martello su l’incudine.

     - “Benagattaus![4]

salutò il ragazzo entrando nella stanzetta fumosa.

     - “Beni eniu

rispose il fabbro, senza alzare la testa.

     - “Beni eniu su strangiu![5]

fecero eco distrattamente due vecchietti. Seduti accanto alla fucina.

     Questi, visitatori quotidiani, avevano il compito di intrattenere il fabbro con le novità del paese. Ricevevano, a loro volta, novità da parte di chi, per ragioni professionali, contattava la quasi totalità dei lenesi e andavano poi a riportarle alle botteghe dei calzolai, dei barbieri e dei mastri di panno. Quella bottega era insomma una sorta di agenzia locale di smistamento delle informazioni.

     - “Ita bonas novas?[6]

Jorxij, senza dire nulla, chinò la testa, infilò la mano nella tasca della bisaccia, ne tolse la testa dell’animale trovato ucciso e la gettò per terra; la spinse con un piede e la fece rotolare in direzione dei presenti. Questi allungarono la testa, fecero una smorfia e alzarono le spalle mostrando di non aver capito cosa volesse. Uno dei vecchi diede un’occhiata al compagno e poggiò l’indice sulla tempia:

     - “Questo è tocco!”

bisbigliò accostandosi all’amico. Il fabbro martellava senza levare lo sguardo. Jorxij raccolse allora la testa e mise bene in evidenza le orecchie con le incisioni.

     - “Sapete dirmi a chi appartiene questo segno?”

chiese. I due vecchi si guardarono l’un l’altro, poi scrutarono Jorxij con sospetto, muti e attenti, come se volessero contargli i peli della barba:

     - “perché mai questo forestiero viene qui a fare domande di questo tipo? Ha la faccia e s’ ‘esti imbrattate di sangue, ma non ha l’aspetto di un malfattore...”

Si creò un’atmosfera di tensione che indusse anche il fabbro ad arrestare il suo tintinnante ritmico martellare. Con ostentata noncuranza, questi osservò il ferro che stava sagomando: il rosso incandescente che pian piano si abbruniva; lo ricoprì di carbone ardente e, di nuovo, diede mano al mantice. Uno dei vecchi serrò la bocca sdentata, allungò il mento e tentò di darsi un atteggiamento altero; distorse il muso e fece con la testa un segno di diniego. L’altro si avvicinò, osservò con attenzione e:

     - “Sembra... sembra il segno del gregge di Boboi”

disse al primo.

     - “Boboi!”

strillò Jorxij,

     - “Ecco, si... Boboi!... Proprio lui... Boboi!”

     I due vecchi sgranarono tanto d’occhi. Il fabbro arrestò il suo lavoro e squadrò il ragazzo da capo a piedi.

     - “Ma... allora lo sapevi, allora lo conosci! Perché sei venuto a chiedere?”

     - “No...sì! Juana, Juana Boboi... Ne parlava il ragazzo, prima di morire”.      -“Prima di morire?... Juana Boboi?... Ma, che cazzo vai dicendo?..: Prima di morire hai detto, ragazzo? Ma chi è morto?”

     - “Un ragazzo”

balbettò Jorxij

     - “L’hai ucciso tu?”

     - “Perché pensate questo di me?”

     - “Sei pieno di sangue!”

     - “Puzza anche di vomito”

aggiunse l’altro sottovoce,

     - “Neppure lo conosco e neanche so come si chiami...”

     - “Non è necessario fare conoscenza prima di uccidere una persona!”,      - “Ho lasciato il mio gregge incustodito per venire qui a dare la notizia ai familiari. l’ultima parola che ha detto è Juana... Juana Boboi e Vedelana... e poi più nulla. È spirato, È certamente caduto in un’imboscata, una bardana!... Sono qui per trovare la famiglia... i genitori... e informarli di quanto è successo.”

I vecchietti rimasero taciturni, poi:

     - “Ma, cos’hai in faccia? Sei pieno di sangue!”

e Jorxij raccontò allora del vecchio decapitato...”

     - “Gianuario!”

urlò il fabbro,

     - “Gianuario ed Efisio...”

“Efisio?”

     - “sì, Efisio, l’aiutante. Guidavano un grosso gregge”

 “Sì, un gregge molto grosso... circa trecento pecore...”

     - “Hanno ucciso Gianuario Boboi... Oh... Dio!!! Dio!!! Dio!!!”

     Il fabbro si sfilò in un baleno il grembiule di cuoio e si mosse per accompagnare Jorxij alla casa del ragazzo morto, poi si fermò.

     - “è meglio che vada tu da solo.”

disse e indicò con il braccio la strada che dalla piazzetta portava verso il fiume. Il ragazzo si fermò un attimo a osservare l’acqua sporca di su lacu, dove il fabbro infilava il ferro caldo per dargli la tempra:

     - “Posso darmi una lavata al viso?”

chiese,

     - “Ma certo! Il padre, Luxorio... il nostro Maiore... Luxorio Boboi!... Che uomo!... Ma perché, tutto questo?”

e cadde su uno sgabello, muovendo la testa, come a voler negare caparbiamente una realtà crudele che il capo stimato del paese non meritava. Jorxij si sfregò ben bene la faccia e la barba, per staccare il sangue rappreso e il vomito. Si levò s’ ‘esti, diventata impresentabile e la infilò nella bisaccia. I vecchietti rimasero seduti, ammutoliti, guardandolo increduli, senza vederlo, mentre andava via.

     - “Deus si ddu paghit![7]

fece Jorxij accennando un saluto con la mano. Rimise la testa della pecora nell’altra tasca della bisaccia e uscì, senza ricevere risposta.

     Un cancello di quercia, che avrebbe potuto anche non esservi dal momento che giorno e notte era sempre aperto, lasciava libero ingresso a un orto. Il miscuglio di fragranze avvertito sulla strada di Perda ‘e Massa, qui era intensissimo. Qui aveva origine e da qui si diffondeva per il paese e per tutta la campagna intorno.

     Il sole, a oriente, mostrava ora tutta intera la sua facciona tonda. Non era ancora alto; si mostrava, attraverso i rami, come un grande disco rosso, dai raggi obliqui, ma già l’aria, calda ancora del fuoco del giorno precedente, ne sentiva la presenza. Per Jorxij, sfinito dal sonno, dalla stanchezza e dal caldo, quell’orto e l’ombra di quelle piante erano un paradiso in terra, e un gorgogliare fresco d’acqua ristorava l’anima e i sensi. L’acqua proveniva da una canaletta lungo la siepe e un ragazzo con una zappa la guidava verso le piante aprendo in terra il passaggio perché potesse scorrere e andare a invadere il piccolo bacino scavato attorno a ognuna di esse. Ogni tanto scuoteva il fango raggrumato sulla lama picchiando la zappa contro un sasso e il picchiettio rimbalzava sulle pareti del Sant’Eremilis, mescolando l’eco al fruscio del vento tra le fronde, al gorgoglio fresco dell’acqua nella canaletta e a quello smorto del fiume quasi asciutto.

     Le piante erano coperte da una candida trina e il profumo delicato che ne esalava andava a mescolarsi a quello delle pere mature che, in mezzo ai fiori, appesantivano i rami. Miriadi di fiorellini bianchi spiccavano tra il verde scuro del fogliame. Qualcuno cadeva svolazzando e andava a ispessire il tappeto che, come una tiepida nevicata, ricopriva i solchi. Su ciascun rametto restava un embrione, ch’era il perpetuarsi dei frutti già maturi che lo flettevano.

     La siepe era costituita da una fitta vegetazione di lauri e lungo questa correva un lungo filare di limoni alternati ad alberi, forse della stessa famiglia, dal fogliame, come questi, spesso e scuro. Jorxij non li aveva mai visti prima. Le chiome di queste erano coperte da una coltre ricamata di fiori, da cui si levava l’effluvio colto nell’aria lungo la strada. Dall’altra parte dell’orto arrivava un lieve tintinnio di campanelli.

     - “Forse lungo l’altra siepe”

pensò Jorxij

     - “pascolano gli agnelli svezzati”.

     - “Benagattau!

esclamò rivolto al ragazzo.

     - “Beni enìu!

rispose questi, riposandosi un attimo appoggiato al manico della zappa.

     - “Un profumo veramente squisito!”

fece accennando col capo al filare scuro degli alberi sconosciuti. Il ragazzo scosse un tantino il capo. Indovinò che il forestiero si riferiva al nuovo tipo di agrume che si alternava ai limoni nel filare, con un gesto di affettata noncuranza, accompagnato da un sorrisetto compiaciuto, disse:

     - “Le auranzie! Le teniamo soprattutto per bellezza. Il sapore del frutto non è molto gradevole!”

     Jorxij voleva mostrarsi interessato alle informazioni dettagliate su questa, per lui nuova, varietà di piante di cui in realtà non gli importava assolutamente nulla. Vicino alla siepe che costeggiava la strada un sasso grosso e piatto, evidentemente usato come sedile, lisciato e lucidato da chissà quante migliaia di natiche, rifletteva i raggi ancora obliqui del sole. Una lucertola sgusciò fuori dall’erba, vi saettò sopra e stette a godersi il sole guardando Jorxij con aria di condiscendenza. Il cuore del ragazzo pesava più di quel sasso, ma quel sasso era scaldato dal sole e il suo cuore era gelido e tetro e sembrava bloccargli il respiro. Cercò di conservare la calma; cercò di fingere disinvoltura e accennò persino un sorriso. Sgranò gli occhi mostrandosi meravigliato, senza dire una parola.

     - “Ha un succo amarissimo”

proseguiva tranquillo il ragazzo.

     - “Noi lo chiamiamo arangiu[8]. La sua scorza però, fatta bollire nel vino, fa molto bene alla digestione, guarisce la tosse e lo scorbuto, scioglie il catarro...”

     Jorxij ascoltava distrattamente l’elenco delle virtù terapeutiche e mirabolanti di quel frutto esotico. Era venuto a riversare l’angoscia che gli pesava in cuore, più dura e più cruda dei massi del Sant’Eremilis, su quella famiglia ancora ignara e felice; era venuto a gettare la desolazione e non sapeva come iniziare il suo discorso.

     -“Ma come si può entrare in una casa”

rimuginava,

      “e, di punto in bianco, annunciare: Vostro figlio è morto! Oppure: Abbiate pazienza, ma vostro figlio è stato ucciso dai briganti...; Non vorrei darvi un dolore, ma a vostro figlio i ladri di bestiame anno squarciato il petto e la pancia a colpi di roncola. Quel ragazzino dev’essere un suo fratello, il fratello minore si direbbe.”

     Anche se Jorxij aveva visto l’altro solo per pochi istanti, notava in questo una certa aria di famiglia.

     - “Sto cercando”

esordì con voce malsicura,

     - “sto cercando Luxorio Boboi”

A queste parole il giovanotto s’irrigidì e la sua cordialità divenne pura cortesia formale, fredda e distaccata.

     - “Boboi”

disse,

     - “è il nomignolo che mia nonna diede al suo piccolo Luxorio per la straordinaria bellezza dei suoi lineamenti e per gli occhioni celesti che ne illuminavano - e, grazie a Dio, ancora illuminano - il viso. Dicono che riuscisse ad essere simpatico anche quando faceva i capricci”

aggiunse con orgoglio.

     - “La nostra famiglia però si chiama Sulki e la nostra casa è costruita su basi ben più solide delle smorfiette di un lattante. Poggia sulla gente di Maureddus[9]

     Tacque per un istante e studiò l’effetto delle sue parole sul forestiero, poi gonfiò il petto, levò il mento e assunse un’aria di sufficienza:

     - “Gente fiera e irriducibile, che ha combattuto contro i Vandali di Genserico. Sono stati deportati qui dalla Mauritania. Sopraffatti, ma mai vinti... Questa è ora la casa del maior villae di Leni...”

     Jorxij aveva sentito parlare della Mauritania dal vecchio Simmaco. Ricordava le lunghe e noiose lezioni, che ascoltava cercando di vincere il sonno, su paesi dal nome strano e di cui non gli importava assolutamente nulla. I paesi più lontani, secondo la sua visione del mondo, si trovavano oltre la cinta dei monti azzurrini che chiudevano l’orizzonte a settentrione di Leni. Era convinto che anche la Mauritania si trovasse subito dopo quella barriera, ammucchiata in un coacervo di altri paesi sconosciuti. Quando sentì che era di là dal mare, si vergognò della propria ignoranza.

     Ma la spocchiosa risposta di quel ragazzino, sbruffone e pieno di sé (in cui cominciava a non vedere già più una grande somiglianza con quello della notte prima), lo indispettì. Si disse che, in fondo, anch’egli aveva combattuto le sue battaglie, contro il vento e contro la pioggia e il gelo, nella solitudine dei campi, tante volte sopraffatto ma mai vinto. Aveva retto il capo a un ragazzo morente, che forse era suo fratello, durante la sua ultima, tragica battaglia, a Punt’ ‘e Istadi. Anche questo fatto forse, potrebbe essere menzionato con orgoglio e ascoltato con rispetto, non meno delle origini decantate da quel giovincello imberbe e borioso.

     - “Io non sapevo tutto questo”

rispose, confuso e un po’ risentito,

     - “Io sono di Hipis; vengo da Punt’ ‘e Istadi e porto nuove di un ragazzo di nome Gianuario. Quel nomignolo mi è stato dato da lui: anzi, credevo fosse riferito a una donna... o a due donne... Juana... Vedelana... Il fabbro, in piazza, mi ha detto...”

     Al nome di Juana, il ragazzo s’infastidì ancora di più e lo manifestò platealmente con una smorfia, ma non disse nulla. Il nome di Vedelana invece disegnò un muto sorriso sulle sue labbra. Tra il serio e il divertito. Poi assunse un tono grave e chiese:

     - “Hai sentito da Gianuario la parola Boboi? E cos’altro ti ha detto?

     - “Nient’altro!”

Avrebbe voluto dire che non ne ha avuto il tempo, perché è spirato quasi subito, ma non vi riuscì. Il ragazzo riprese le sue pose e gli accenti teatrali e disse:

     - “Comunque, se ti manda Gianuario, sei ospite gradito nella casa di Luxorio, figlio di Gianuario. Segui il sentiero inghiaiato”

gli fece indicandogli un vialetto fiancheggiato da rose multicolori.

     - “In fondo troverai il padre, seduto in sa lolla. Digli pure che ti ha indicato la strada Antioco, figlio di Luxorio”.

     Luxorio figlio di Gianuario, non era seduto in sa lolla, come aveva indicato Antioco figlio di Luxorio. Il maior villae, nel cortile retrostante la casa, in vesti più dimesse, era intento a gettare grossi recipienti d’acqua su un alto mucchio fumigante di letame.

     Il letamaio, una fossa al centro di un grande spiazzo, conteneva gli strami e gli escrementi degli animali (e spesso anche degli uomini). L’odore che questo mucchio di residui biologici emanava era decisamente poco gradevole. Gli effluvi maleodoranti venivano però affievoliti e smorzati da cespugli di menta, di salvia, di puleggio e di lavanda selvatica, sistemati appositamente tutt’intorno.

     Era indispensabile bagnare il letame in continuazione, specialmente nella stagione calda, in modo che l’umidità e il calore del sole favorissero quel processo fermentativo atto alla sua trasformazione in ottimo concime. Il bosco rigoglioso di erbe aromatiche che vi cresceva intorno, oltre ad essere la dimostrazione più chiara della sua efficacia, costituiva un’ottima barriera contro il fetore.

     Barbara era una donnetta vispa e arzilla, con un visino minuto e liscio come un uovo di gallina. Piena d’energia, non mostrava i suoi quarantacinque anni, anche se qualche filo d’argento cominciava a rigare la sua chioma e qualche lieve increspatura ad apparire agli angoli delle labbra e degli occhi. Ogni mattina, all’alba, vestita d’una tunica rustica, faceva la visitina di prammatica al pollaio, ripuliva i trespoli e le nidiate; ripuliva i recipienti dell’acqua e del becchime; distribuiva nuove provviste; raccoglieva le uova fresche; ammoniva severamente le galline distratte che non versavano il contributo giornaliero; tornava dentro casa, si lavava, si riassettava, vestiva una tunica pulita e nuova e cercava il suo fuso e la sua lana (o il suo lino). In inverno si sistemava in cucina e filava alla luce del focolare, in estate godeva il fresco in sa lolla, sfruttando la luce del primo sole nascente. Quella mattina le galline l’avevano intrattenuta più a lungo del solito ed era un po’ in ritardo. Quando Jorxij, dopo la chiacchierata con Antioco, comparve di fronte a sa muredda[10] cercava di recuperare il tempo perduto e sistemava frettolosamente lo scanno in posizione strategica, di fronte a un sole già un po’ più alto i cui raggi filtravano tra il fogliame del pergolato.

     Una nube oscurò per un attimo l’orizzonte e il maestrale si fermò; tacque il brusio che dava voce alle fronde e i riverberi dorati della collina s’incupirono. Tacque anche lo stridio delle rondini e si intensificò il pigolio dei rondinini nei nidi sotto il tetto di sa lolla, lungo tutto il muro di cinta. Barbara posò di nuovo il fuso e la rocca nella corbuletta, si drizzò, scosse dal grembiule il pulviscolo lasciato dalla pennecchia e si volse con la mano tesa al nuovo arrivato.

     - “Ben’agattada”

balbettò Jorxij,

     - “Sono di Hipis... e vengo da Punt’ ‘e Istadi....”

     - “Beni enìu![11]

fece eco lei; lo invitò ad accomodarsi su uno scanno accanto al suo:

     - “col tuo permesso...”

disse. Si voltò, s’infilò nell’atrio, entrò in saposentu bonu, lo percorse a passettini felpati e, attraverso la cucina, si diresse al cortile posteriore per chiamare il marito.

     - “Dati una pulitina”

disse,

     - “abbiamo un ospite: dev’essere un amico di Gianuario. È di Hipis ed è appena arrivato da Punt’ ‘e Istadi!”

     Luxorio si ritirò un attimo in su pinnatzu[12]; si lavò i piedi, infilò un paio di calzari nuovi, indossò una tunica candida di lino bordata di scarlatto e uscì, facendo il percorso inverso: la cucina, saposentu bonu[13] e l’atrio, in sa lolla, incontro all’ospite.

     Sopra il riquadro d’accesso all’atrio Jorxij osservava l’emblema che sintetizzava per il visitatore quello ch’era l’attività, la cultura e la fede della gente che abitava in quella casa. Intrecciato con le spighe scelte del grano migliore dell’annata, un grande cuore dorato sormontato da una croce, fatta pure di spighe, circoscriveva l’iniziale del nome di Maria, patrona di Leni e di quel vasto rione disteso lungo le rive del fiume. La fila di nidi sotto il tetto che punteggiava i muri di sa lolla salutò con uno stridio l’arrivo del padrone di casa. Sciami di moscerini vorticavano al sole tra le chiome degli alberi e qualche rondine solitaria volteggiava ancora in larghi giri irregolari poi, saettando, si tuffava nella nube e tornava, con la gola piena d’insetti, alla nidiata affamata, accolta da un’esplosione cinguettii festosi.

     La figura dritta e slanciata come un pioppo che si materializzò nell’inquadratura dell’ingresso rassomigliava in modo straordinario a quella del ragazzo a cui aveva retto il capo la notte prima... Gianuario. Forse dimostrava qualche luna di troppo rispetto agli anni effettivi. La barba e i capelli, forse precocemente candidi, ma lisci e ben curati contrastavano con il colorito bruno e ruvido di un viso molestato dalle intemperie. Tutti questi caratteri e questi segni, insieme, conferivano al personaggio un’aria patriarcale che incuteva stima e rispetto e rendevano incerta la determinazione dell’età. Le rughe profonde che ne solcavano il viso lasciavano in lui solo un vago ricordo del Boboi[14] che dicevano essere stato da ragazzo. Quei lineamenti però, l’espressione di quegli occhi chiari, mansueti, ma vivi e intelligenti e, all’occorrenza, fermi e risoluti, erano quelli che, dall’ultima notte scorsa, anche se li aveva visti solo per un istante e al lume incerto della luna, Jorxij portava bene impressi nella mente.

     Il patriarca allungò una mano di pietra, dura e callosa, per salutare l’ospite e questi credette di sentire scricchiolare le ossicine della propria, nella morsa di quella stretta:

     - “Un amico di nostro figlio non può che essere di famiglia qui”

disse.

     - “E, per la prima volta che entra in questa casa”

aggiunse rivolto alla moglie, in un tono di amoroso rimprovero,

     - “tu lo vai a ospitare in sa lolla...

E, chinandosi su di lei proseguì sottovoce:

     - “Chiama un po’ Tarcisio e digli di preparare quello che sa”.

     Tarcisio era il ragazzo che custodiva quel minuscolo gruppetto di agnelloni castrati di cui Jorxij, entrando nella proprietà, aveva sentito i campanelli. Questi non dividevano la pastura col grosso del gregge. Pascolavano lungo la siepe dell’orto ed erano le vittime sacrificali, in ogni rito, sull’ara dell’ospitalità. La brevità della loro esistenza era compensata da qualche privilegio. Uno di questi era quello di poter brucare placidamente l’erba tenera e abbondante lungo la siepe dell’orto.

     Tarcisio, quando vedeva un forestiero varcare l’ingresso della proprietà, sapeva già cosa avrebbe dovuto fare. Avrebbe aspettato il cenno della padrona solo per avere una conferma ufficiale. Avrebbe allora acchiappato la bestiola dal pelo più lucido, l’avrebbe condotta sotto la tettoia di su pinnatzu, l’avrebbe scannata e scuoiata e ne avrebbe messo le carni in un pentolone di rame, dove, nell’acqua condita con un corno d’aceto e un limone e insaporita con un fascio di ramoscelli di mirto avrebbe lasciato un po’ del grasso eccedente. Era un rito che si celebrava ad ogni visita in quella casa e di cui egli indossava i panni del sacerdote.

     Il tempo di preparare uno spiedo d’olivastro e la carne sarebbe stata bell’e pronta e resa tenera dalla sbollentatura. Tarcisio l’avrebbe infilzata, l’avrebbe accostata, pian pianino, a un fuoco di lentischio, rigirandola assiduamente con pazienza, fino a farne scolare ben bene l’acqua e il grasso eccessivo eventualmente ancora rimasto; l’avrebbe poi esposta a un fuoco sempre più vivace fino ad una rosolatura completa e dorata. Avrebbe messo il solito dadetto di lardo sulla punta d’un ramoscello d’albatro montano accanto alle fiamme perché iniziasse a trasudare e quando la carne sarebbe stata pronta inondando del suo profumo l’ambiente circostante, il dadetto si sarebbe acceso. Avrebbe, allora lasciato cadere le sue gocce fiammeggianti sulla spiedata, completando così la rosolatura e conferendo alla carne quella sua particolare fragranza. A questo punto la specialità di Tarcisio sarebbe stata pronta per essere servita.

     Quel giorno però la conferma della padrona non arrivò e questo gli creò un certo disappunto, perché già pregustava la tratalia[15], che normalmente gli era riservata... Cosa mai poteva essere successo?

     In sa lolla Jorxij, che aveva colto il messaggio (da queste parti poi non troppo misterioso) si affrettò a precisare:

     - “No! Non preparate nulla per me, perché non posso assolutamente fermarmi!”

E, per quanto cortese, l’affermazione era tanto decisa che Luxorio non osò insistere.

     - “Onora almeno questa casa”

disse solo,

     - “entrando e accettando di bere un calice di vino con me!”

Jorxij seguì Luxorio e Barbara all’interno. Assieme attraversarono l’atrio ed entrarono in saposentu bonu. Il profumo delle pere camusine che lo colse all’arrivo in questa zona, qui si fece più penetrante e lo avvolse in una mescolanza di essenze agresti. Sotto una panca, al centro della stanza, le piastrelle irregolari d’ardesia erano coperte di pelli di montone e, accovacciato su queste, un bel gattone grigio striato sonnecchiava beato. L’ingresso dei due uomini non lo turbò minimamente. Volse appena lo sguardo in direzione di Jorxij, lo guardò con un misto d’indifferenza e di commiserazione, richiuse gli occhi e rientrò nel suo mondo onirico. La panca, coperta da un lino, certamente uscito dal telaio di Barbara, ostentava un maestoso lume ad olio in terra cotta ornato con figure mitologiche immerse in un’atmosfera locale.      L’artista ignoto, con una fantasia sfrenata, aveva voluto raffigurarvi Enea che attraversava un bosco di sughere, sui fianchi del Sant’Eremilis, portando il vecchio Anchise sulle spalle. Volgendo lo sguardo attorno al globo rotondeggiante del lume vi si poteva vedere la riviera sulcitana pullulante di guerrieri troiani, appena sbarcati, al seguito di Eleno, che s’inoltrava presumibilmente in cerca d’una nuova patria, seguito da Andromaca. Nella parete di fronte, in questa sala, era un Crocefisso di ginepro e un parastaggiu[16] lavorato con motivi floreali. All’angolo, un arcaiolu[17] conteneva taglieri, anfore, piccole brocche, caraffe, ciotole, calici e crateri e un’infinità di corni d’uso giornaliero per il vino. Tutt’intorno erano sistemati sgabelli e panche ricoperte di coberibangus, anch’essi certamente usciti dal laborioso telaio di Barbara. Jorxij posò la bisaccia accanto a sé e sedette con le mani incrociate sulle ginocchia e con la testa china e così stette per un bel po’, senza pronunciare parola.

     Barbara tolse dall’arcaiolu alcuni calici: scelse con cura quelli più eleganti, li strofinò con un panno di lino per renderli più brillanti, li posò sulla panca centrale e sparì dietro una tenda. Dalla stanza nascosta da questa tenda arrivava un canto ritmato dal suono inconfondibile del battito d’un telaio.      - “C’è dunque un’altra tessitrice”

disse tra sé il ragazzo,

     - “in questa casa!”

     Jorxij aveva bisogno di non pensare e seguiva con l’immaginazione il viavai della spola sulle trame, cercando di placare l’ansia che lo tormentava. Ascoltava il canto che arrivava da dietro la tenda e si chiedeva se Gianuario avesse qualche sorella in età da marito e se fosse lei che ora, al telaio, preparava il corredo per le nozze. Luxorio, notato il disagio dell’ospite e le difficoltà che incontrava nell’affrontare un discorso per cui sembrava essere venuto apposta fin qui da Hipis, prese l’iniziativa:

     - “Quindi, vieni da Hipis, così almeno ha detto la mia donna!”.

     -“Veramente, vengo da Punt’ ‘e Istadi

balbettò Jorxij.

     - “Ah, già, da Punt’ ‘e Istadi... Sei di Hipis, ma vieni da Punt’ ‘e Istadi... e... anche mio figlio si trova lì col suo bestiame... Gianuario... Lo chiamano tutti Gianuario Boboi... È il mio primogenito... Boboi è il mio soprannome... Io mi chiamo Luxorio Sulki, sono il maiore di questo paese, ma per tutti sono solo Luxorio Boboi. Se vuoi, puoi chiamarmi anche tu così, non mi offendo!...”

     Levò gli occhi su Jorxij e sorrise dei suoi modi impacciati, della sua timidezza, del suo modo di stare a capo chino, le mani strette alle ginocchia, rispondendo solo se interrogato e a monosillabi. Luxorio parlava in continuazione, nella speranza di mettere così l’ospite a suo agio:

     - “Sono molto contento”

diceva e ripeteva,

     - “che abbiate fatto amicizia, tu e Gianuario, perché sei certo venuto a parlarmi di lui, vero? A portarmi sue notizie... Dimmi... cosa t’ha detto?”

     Jorxij taceva, sempre a capo chino, sempre le mani tra le ginocchia e le dita nervose strette a pugno, tanto strette che dalla pelle tirata spuntavano le nocche aguzze circondate da macchie bianche; tanto strette che le unghie gli si conficcavano nel palmo della mano. Un atteggiamento inusuale, anche per una persona molto timida, che diamine!. D’altronde, cos’è venuto a fare, questo ragazzo, qui? Una nube d’inquietudine iniziò a invadere la stanza e a ispessirsi. Sul viso di Luxorio iniziò a stendersi il velo d’un vago ignoto timore. Che Gianuario si sia sentito male? che abbia avuto qualche malore?...      Le notizie di bardane nelle campagne lungo la costa, ai danni di custodi di greggi e di armenti erano diventate purtroppo negli ultimi tempi una cosa abituale. Leni però, lontana dalle coste, a ridosso della barriera del monte Linas, aveva vissuto sempre al sicuro dalla cupidigia di tutti i predoni forestieri e non aveva conosciuto le devastazioni subite dalle più sfortunate borgate lungo il mare. L’atteggiamento di questo ragazzo tuttavia, il suo viaggio a piedi, da Punt’ ‘e Istadi fin qui, questa sua titubanza, questo suo voler dire e non dire, dopo una lunga camminata...

     - “Dimmi!”

chiese infine risoluto,

     - “Dimmi la verità! Sta male? Si è ammalato?... È successo qualcosa? Cos’è successo? Dimmi!”

poi, cercando di dominare la propria agitazione:

     - “Ma, se preferisci parlarne con calma, resta pure a pranzo con noi... rimani... potremmo parlare più tardi e in modo più tranquillo... più serenamente...”

Jorxij rispose solo con un cenno della testa, si chinò, prese dalla bisaccia la testa della pecora trovata morta e la mostrò a Luxorio:

     - “Questo segno...”

e non riuscì ad aggiungere altro.

     - “Questo è il mio segno, sì... Com’è che hai questa testa nella bisaccia? Come l’hai avuta? Dove l’hai trovata? Cos’è successo?”

     Cercava di dominarsi, ma gli sforzi che compiva erano anche troppo evidenti e inutili. Qualcosa, doveva essere accaduto: qualcosa di molto grave... se questo ragazzo, taciturno e imbarazzato, è venuto apposta a piedi da Punt’ ‘e Istadi a mostrarmi la testa d’una mia pecora morta...

     - “E Gianuario... Cos’è successo a Gianuario!...”

e l’urlo che uscì dalla sua gola aveva qualcosa di inumano.

     - “Dimmi di Gianuario... Dimmi subito cos’è successo!”

Jorxij continuava a tormentarsi le dita e non trovava le parole: non riusciva a trovarle e non riusciva a cercarle. Alla fine si alzò, si avvicinò al vecchio e l’abbracciò. Sentiva le scosse dei singhiozzi del vecchio che si stringeva forte a lui:

     - “Fillu miu stimau!!![18]

     Lacrime roventi rigavano la sua barba candida e scorrevano, calde, fino al petto.

     - “Com’è avvenuto? Dimmi, figlio mio!”

     e se lo stringeva al petto,

     - “Dimmi, posso chiamarti cosi?”

     - “Ma, certo!”

     gemeva a sua volta il ragazzo,

     - “Ma certo! Una bardana!”.

     Si riaffacciava, in quel momento, Barbara e colse le ultime parole. Le mani si abbandonarono lungo i fianchi e la caraffa scivolò e si frantumò sull’ardesia. Il gatto schizzò via con un balzo. Il vino corse in piccoli rivoli e andò a inzuppare i candidi velli che coprivano il pavimento, il suo profumo arricchì il miscuglio d’altre fragranze di quell’ambiente e la donna si lasciò andare per terra e così rimase, muta.

     Non una parola; non un lamento. Il minuto visino ovale divenne una pietra rigida e rugosa; tutta la sua figura, di colpo, si tramutò in un sasso e il suo aspetto divenne simile alle pietre che il Leni lascia lungo il tragitto, impassibili sotto la sferza del vento di gennaio e sotto il fuoco del sole di luglio. Non sedette: si trovò così, di colpo, per terra, in un angolino, e così stette, immobile, abbracciandosi le ginocchia e fissando il vuoto. Il canto, dietro la tenda, tacque e tacque l’accompagnamento ritmico del telaio.

     La tenda si mosse ancora e apparve una ragazza con una scopa di verbasco in mano. Questa lasciò vagare uno sguardo spaventato in giro e si chinò per raccogliere i cocci della caraffa rotta. Jorxij seguì molto distrattamente l’operazione di riordino. Osservò una testolina dorata, dai capelli simili a un cespo di caraganzu[19] in fiore, in cui brillavano due occhioni di giada e sbiancò quasi in viso. In un ciuffo di riccioli biondi ornati da una rosellina rossa Jorxij vide un campo di grano maturo punteggiato da papaveri. Pensò che in un’altra circostanza, quella boccuccia ora piegata in una smorfia di pena, forse avrebbe sorriso e per lui si sarebbero spalancate le porte del paradiso. Subito dopo trovò frivole queste sue sensazioni e si vergognò del piacere che aveva provato nell’abbandonarvisi, in casa di un amico morto per giunta, e mentre era lì per dare ai suoi il triste annuncio! Sì, perché Gianuario, di cui pochi istanti prima neppure conosceva il nome, era già diventato amico per Jorxij. Abituato com’era ai soliloqui o, tutt’al più, ai colloqui con gli agnelli del suo gregge, l’avere per una volta rivolto la parola a un suo simile; l’avergli retto il capo mentre spirava, aveva per lui stabilito un rapporto d’amicizia indissolubile.

     La notizia, per chissà quali misteriosi canali, raggiunse in breve ogni angolo del paese. Processioni di donne cominciarono ad arrivare alla casa dei Sulki, a capo chino, biascicando orazioni. Altre seguirono, per il resto del giorno, portando ciascuna la sua pentolina di brodo, il suo pollo lessato e insaporito con le foglie di mirto o di basilico, per il pranzo. Sì, perché i familiari del defunto non dovevano pensare ad altro che a pregare per la salvezza della sua anima. Erano i vicini, in circostanze simili, gli amici e i conoscenti che prendevano in mano la situazione e s’incaricavano di tutte le incombenze e dell’assistenza materiale alla famiglia colpita.

     Jorxij, assolto ormai il suo impegno, doveva andare.

     - “Non posso proprio restare... d’altronde, non posso fare proprio nulla! Baingiu Mannu a quest’ora avrà condotto già le pecore alla mungitura. Ma non posso abusare della sua disponibilità”

     Piuttosto, prima di andar via, doveva trovare Juana... Juana e Vedelana...

     - “Ma forse, considerata la rapidità di propagazione delle notizie in questo paese, anche loro saranno certamente già a conoscenza della disgrazia”

     Aveva promesso tuttavia a sé stesso che le avrebbe trovate e lo avrebbe fatto, qualunque cosa avesse dovuto costargli!

     - “Le promesse fatte a un amico in punto di morte sono sacre e vanno rispettate!”

     Qualcosa, in fondo alla sua coscienza, gli diceva che la sua era solo carità pelosa, che non aveva fatto promesse a nessun amico morente e che nulla poteva impedirgli di ripartire, se lo avesse voluto. Ma subito un cespo di caraganzu in fiore e una rosellina rossa sorridevano alla sua fantasia, risvegliando le ansie del pastore ventenne sottoposto a perpetue astinenze, e dando la misura di quanto sacra fosse la missione a cui s’era votato.

     La casa era ormai letteralmente invasa. Donne attorno a Barbara; uomini attorno a Luxorio; gente che pregava in tutte le stanze. In sa lolla, alcune donnette recitavano il rosario e il cortile s’era tramutato in una sorta di formicaio impazzito.

     - “E la moglie del povero Efisio?”

chiese una vecchietta,

     - “È stata avvisata?”

Jorxij udì

     - “Non conosco la famiglia”

rispose,

     - “potrebbe farlo qualcuno di voi!”

     Approfittò dell’occasione; si chinò sulla donnetta e chiese notizie delle ragazze che cercava e dove abitassero. Al nome di Vedelana, la dolce nonnina sbiancò in viso e si segnò come se avesse udito il nome di Satana:

     - “Tu sei forestiero...”

disse soltanto,

     - “ma la dovresti conoscere ugualmente...”

e mostrò un mesto sorriso.

     - “E perché mai la dovrei conoscere?”

     Jorxij pensò che la donnetta fosse un po’ svanita. Al suono del nome di Juana, lei invece levò il mento e assunse un’aria sostenuta. Jorxij rimase mortificato e, piuttosto goffamente, cercò di farfugliare la stessa domanda ad altre persone, ma ebbe da tutte la stessa risposta.

     - “Ma perché dovrei conoscere questa Vedelana, pur essendo forestiero? E perché non rispondono alle mie domande su Juana?”

     Cominciò a insinuarsi in lui il sospetto che le ragazze dei deliri di Gianuario fossero poco serie e che per le donne di qui, fosse motivo di scandalo anche solo sentirle nominare, per lo più in casa di un morto.... Continuò a vagare, stordito, in sa lolla.

     Non ebbe il coraggio di entrare in saposentu bonu e salutare i genitori di Gianuario. Vide alcuni uomini che armeggiavano attorno ai carri e agli animali nel cortile retrostante e vide i servi girare a vuoto, senza avere un’idea di cosa dovessero fare. Sentiva squillare in continuazione ordini discordanti. Felicino aggiogava i buoi al plaustro per riaccompagnare Gianuario nel suo viaggio di ritorno:

     - “No!”

urlava Antioco,

     - “col plaustro arriveremmo a notte alta a Punt’ ‘e Istadi. Attacca il cavallo al carro!”

     - “Portiamo su anche Efisio?”

     - “Certo! Portiamo su anche Efisio!”

     In sa lolla e nelle stanze interne, voci, concitate chiamavano con insistenza qualcuno:

     - “Silana!... Chiamate Silana!...”

     - “Silana non c’è!...”

     - “Era qui poco fa”

     - “E adesso non c’è più!”

     - “È andata via?”

     - “è andata via!”

     - “Mandate a cercarla!... A casa sua!...”

     - “A casa sua non c’è!... Non c’è nessuno!”

     - “Neanche sua madre?”

     - “Neanche sua madre!”

     Il vocio si faceva sempre più caotico ma le parole arrivavano sempre più nitide e creavano una sempre maggiore confusione.

     - “Sta male... Est dismainada![20]

     - Issu puru![21]

     - “Antioco... dov’è Antioco?”

Antioco volò dentro. Poi qualcuno chiamò su piccioccu strangiu[22]. Jorxij si riaffacciò timidamente dentro.

     - “Accompagnali tu.”

Antioco aveva perso un po’ della sua supponenza e, contro ogni aspettativa, supplicò:

     - “Accompagna tu i servi, te ne prego: io non mi posso muovere!”

Con un gesto del capo Jorxij offrì la propria disponibilità.

     - “Ma, certo!”

avrebbe voluto dire,

     - “Piuttosto, io non posso poi tornare con loro: Ho necessità di andare a Hipis, a casa mia... Prenderò un cavallo poi e arriverò più tardi.”

Pensò questo, ma non lo disse. Non disse nulla. Il tumulto era tale che non gli fu possibile. Sentiva poi che il cuore non gli avrebbe retto. Voltò le spalle e se ne andò.


[1] Storia Della Sardegna -  RAFFAELE TUCCI - G. DESSI EDITRICE.

[2] Sardegna Bizantina e Giudicale - ROBERTO BOSCOLO.

[3] Alberto Boscolo - Opera citata.

[4] Bentrovati.

[5] Benvenuto il forestiero.

[6] Quali buone nuove?

[7] Che Dio vi ricompensi.

[8] Arancia. La pianta di cui si parla è l'arancio amaro. In seguito, molto più tardi, verrà usato come porta innesto per le varietà edule che dalla Cina verranno importate in Europa.

[9] Popolazione della Sardegna stanziata nell'attuale Iglesiente. Gente molto fiera, originaria della Mauritania e deportata in Sardegna durante la dominazione vandala di Genserico.

[10] Gradino d'accesso.

[11] Benvenuto al forestiero!

[12] Loggia coperta dove trovava riparo il bestiame. Qui venivano anche custoditi gli attrezzi agricoli e qui si eseguivano alcuni lavori rustici.

[13] Stanza riservata, dove si ricevevano gli ospiti di riguardo.

[14] Dolcetto.

[15] Coratella.

[16] Rastrelliera o scansia per gli utensili da cucina.

[17] Sorta di armadietto a muro.

[18] Figliolo mio amato!!!

[19] Tipo di margherita agreste, gialla. Il suo nome, che in greco significa “capo splendente”, in riferimento al suo aspetto raggiante e luminoso, è stato forse lasciato in Sardegna dai bizantini.

[20] E' svenuta.

[21] Anche lui!

[22] Il ragazzo forestiero