L'operaio, il figlio, la lotta e il fantasma della controparte

"LOST CITIZENS" (Italia - 2014 durata 46 min.)
Regia Sebastiana Etzo e Carla Etzo,
riprese e montaggio Vincenzo Rodi,
musiche e suono Marco Messina (99 Posse)
e Marco Della Monica.

 
 

Considerazioni personali sul documentario "LOST CITIZENS"

 

"Lost Citizens" è un interessante documentario che descrive le vicissitudini degli operai del Sulcis che lottano affinché le fabbriche nelle quali lavorano, un tempo fonte sicura di reddito per le famiglie degli abitanti di quella zona della Sardegna,  non chiudano. Gli autori, Sebastiana e Chiara Etzo, con le riprese e il montaggio di Vincenzo Rodi, decidono di proporre il punto di vista dei figli dei lavoratori, oramai cassintegrati o disoccupati, che sopravvivono grazie a occasionali attività, senza prospettive per il futuro. Un lavoro, lo suggerisce il titolo, che comunica lo smarrimento di diverse generazioni davanti alla perdita della speranza nel futuro, e che rischiano di non sentirsi più parte di una comunità.  È una testimonianza che fa riflettere, grazie ad una serie di interviste ai diretti interessati che domina la prima parte del film e che scivola poi nel drammatico finale degli scontri con le forze dell'ordine.

Ora, aldilà di un'ovvia solidarietà con coloro che vivono sulla propria pelle problemi che coinvolgono più generazioni in una regione, come il Sulcis-Iglesiente, che rischia il tracollo economico, è giusto porre le questioni sollevate dal documentario in una dimensione dialettica affinché, dalle certezze e dagli eventuali dubbi che possono sorgere dalla visione e dalla riflessione sulle problematiche affrontate, si possa contribuire ad una discussione che, in quanto tale, non può che essere un arricchimento, in termini culturali innanzitutto e di conseguenza, credo, anche in termini politici.

C’è un aspetto che risalta ad una prima analisi sulla struttura di questo lavoro: nel documentario ascoltiamo le voci dei protagonisti che parlano delle “fabbriche che chiudono”, li vediamo manifestare contro questa chiusura, ma non c’è la controparte, non appare, è come un fantasma di cui a malapena si fa qualche cenno. Solo che le fabriche non chiudono da sole, ci dovrebbe essere qualcuno che prende la decisione di chiuderle. Chi? Vediamo per tre volte qualche politico: all’inizio il ministro Castelli, cacciato “a son’e corru” durante la trasmissione di Santoro; poi verso la metà del documentario il Ministro Fornero, della quale ascoltiamo alcuni propositi pressoché anòdini, e infine, a conclusione del video, l’immagine emblematica dell’elicottero sul quale, senza poterli vedere, sappiamo si trovano alcuni ministri del governo Monti che, tra i fumi di un autentico campo di battaglia, abbandonano precipitosamente l’incontro con gli operai, protetti dallo schieramento di polizia e carabinieri.

No, non sono i politici la controparte, tantomeno lo sono le forze dell’ordine che compaiono in un paio di scene con la funzione di attutire e contenere la rabbia dei lavoratori.

Anche se “Lost Citizens” non è una fiction, è comunque il resoconto di un conflitto per cui,  se volessimo elaborare un schema che sintetizzi la struttura "sintattica" del documentario, ovvero tentare di chiarirci qual è il ruolo di ciascuna delle parti che intervengono nella realtà così come viene ritratta dal lavoro delle sorelle Etzo, potremmo liberamente ispirarci al sistema attanziale di Greimas. Vediamo:

il conflitto in questione ruota attorno alle fabbriche (oggetto1), con un elemento (soggetto) rappresentato dagli operai e dai loro familiari che vorrebbero tenerle aperte, e che iniziano una lotta contro chi vorrebbe chiuderle (opponente1); il destinatario finale di questa lotta (destinatario1), nel caso in cui si riesca ad evitare la chiusura, è rappresentato, oltre che dagli stessi operai, da tutti gli abitanti del Sulcis che ne trarrebbero beneficio (e che nel caso di una sconfitta subirebbero un grave danno):

Solo che quel qualcuno che si oppone, i proprietari delle fabbriche, sono un'entità non presente, distante, appena nominata se non come, per l'appunto, qualcuno che non si vede e che si trova chissà dove, per cui il soggetto è costretto a individuare come obiettivo della lotta i politici (opponente 2) poiché intuisce che si muovono per conto dell'opponente1 (e forse ne sono un'emanazione) :

In favore dei politici intervengono puntualmente le forze dell'ordine (aiutante1) i quali, evitando il contatto tra il soggetto e l'opponente2, inevitabilmente assumono la (ingrata) funzione di opponente 3:

Il soggetto dunque, continuando a mantenere nominalmente l'oggetto della sua lotta, si ritrova nella bizzarra situazione di doversi contrapporre ad un attante (l'opponente3) che non potrebbe nemmeno se lo volesse soddisfare gli obiettivi in questione. L'opponente 1 scompare. Per di più il soggetto non riesce a trovare un aiutante che possa sostenere la sua lotta (i sindacati non vengono più considerati un valido aiuto), nemmeno tra i destinatari finali (non partecipano alla lotta e, a parte vaghi propositi di solidarietà, non si presentano alle manifestazioni e quindi di fatto se ne disinteressano), per cui è costretto a continuare a lottare, anzi a porsi l'obiettivo di tener vivo lo scontro affinché tutti sappiano, soprattutto attraverso i media, che si continua a lottare, nella speranza che muti la situazione. In realtà fatica ad accorgersi che l'unico mutamento rischia di risiedere nel fatto che l'obiettivo principale (oggetto1) tendendo a divenire irraggiungibile, subisce la sovrapposizione (sostituzione) di un altro obiettivo, ovvero la lotta in sè (oggetto2), mentre l'unico aiutante possibile lo si può scorgere al di fuori di tale schema, probabilmente nel fruitore dell'evento mediatizzato, ovvero il pubblico della Tv, dei social networks o di una sala cinematografica, che tende però a diventare il nuovo destinatario (aiutante2 = destinatario2):

Non è un caso infatti che, in occasione della proiezione presso la Cineteca Sarda lo scorso 17 giugno, quando alla fine si sono accese le luci in sala, il pubblico si è trovato di fronte gli stessi protagonisti del documentario (Antonello Pirotto con il figlio e un altro operaio) i quali, dopo aver risposto alle domande degli spettatori e ascoltato alcuni commenti, hanno ribadito gli stessi concetti esposti nel lavoro delle Etzo, con accenti ancora più forti, determinando di fatto una sorta di continuazione "live".

Probabilmente qualcuno può trovare irriverente questa analisi basata su criteri strutturali ispirati al sistema attanziale del semiologo Julien Greimas;  in realtà non c'è niente di esaustivo ed è solo un pretesto di cui mi sono però servito per spingere la riflessione aldilà delle scontate dichiarazioni di solidarietà e per trarre alcune conclusioni personali sul documentario. Trovo sia stato un grande merito degli autori il modo con il quale hanno "fotografato" la realtà drammatica del Sulcis e, partendo dalla volontà di mostrare le conseguenze disastrose che l'impatto di tale crisi sta causando sulle nuove generazioni, un'allarmante ipoteca sull'immediato futuro della regione, hanno di fatto messo in risalto la kafkiana situazione dei lavoratori (costantemente "in praesentia" nelle inquadrature) alle prese con una crisi il cui responsabile, la controparte che nessuno riesce a individuare, è delineato unicamente "in absentia".

I protagonisti, gli operai che lottano, sembrano giganteggiare come eroi (emblematica la scelta della sequenza iniziale con lo scontro verbale tra l'operaio dell'Alcoa Antonello Pirotto e l'allora Ministro Castelli la cui figura a malapena scorgiamo abbandonare lo studio mentre viene inseguito dagli epiteti lanciatigli contro dall'operaio, ripreso invece sul megaschermo in un primo piano che domina l'ambiente). Eppure è il vuoto determinato dalla totale assenza dell'antagonista alle legittime rivendicazioni del bravo Pirotto e dei suoi compagni a creare questo sbilanciamento non corrispondente alla realtà (percepibile invece nel documentario), per cui questa lotta contro un'entità che non si conosce e della quale non si conoscono gli obiettivi, fa purtroppo venire in mente l'immagine di un Don Quijote, nobile e gigantesco, che cavalca, lancia in resta, contro i mulini a vento.

Non si può che essere solidali con questi lavoratori che si impegnano con tutte le loro forze per impedire la desertificazione del territorio nel quale vivono (nel quale viviamo), ma è allo stesso tempo difficile non essere pessimisti. Quale prospettiva per il futuro?

Forse lo suggerisce, molto timidamente, il documentario stesso quando dopo l'oscurità della discesa a precipizio in miniera e le sequenze da girone dantesco degli scontri con la polizia, mostra improvvisamente nel finale un luminoso scorcio della costa sud-orientale: pochi fotogrammi in campo lungo che ci fanno percepire le bellezze di quella zona, il verde della flora, la luce che si staglia sui faraglioni a picco sul blu del mare agitato.

Probabilmente si sta concludendo un'epoca e forse bisognerebbe rielaborare lo sviluppo della nostra bella isola in altri termini.

 

p.s. Dopo la proiezione del documentario alla Cineteca sarda lo scorso 17 giugno, tra gli interventi succedutisi in sala, l'unica voce critica è stata quella di Antioco Floris, docente di Linguaggi del Cinema, della Televisione e dei New Media, il quale, presentandosi giustamente come intellettuale, in mezzo a tante parole di encomio e di solidarietà, ha invece sollevato un dubbio "cartesiano" rimarcando come, dopo decenni di lotte che non hanno di fatto mai impedito la chiusura di fabbriche e di miniere, fosse consequenziale porre un punto interrogativo sull'efficacia di tali battaglie (cito a memoria). Evidentemente porre dubbi in alcune situazioni può essere interpretato come un'attentato alla purezza dei valori che si vogliono celebrare, tant'é che la definizione di intellettuale è stata poi rispedita al mittente, utilizzata però quasi come un epiteto dalla connotazione negativa. Vorrei qui sottolineare che qualunque sia il tema affrontato in un film, fiction o documentario che sia, non può che essere analizzato in termini intellettuali, altrimenti si mette il tappo alla cinepresa e si va tutti a manifestare davanti ai cordoni della polizia. Credo però che un lavoro intellettuale come un documentario, con le riflessioni e le discussioni che può e che deve generare, sia più utile alla crescita sociale che non il lancio di un paio di sassi. E questo, lo si evince da "Lost Citizens", lo sanno bene anche gli operai dell'Alcoa e dell'Eurallumina.

 

Pio Bruno
presidente del cineclub FEDIC - Cagliari