EDIZIONI DELLA BATTAGLIA

 

 

 

Gioacchino

Nania

 

San Giuseppe

e la mafia

 

Nascita e sviluppo del fenomeno

nell’area dello Jato

 

 

 

 

 

Introduzione di

Marcelle Padovani

 

 

 

 

 

 

Attraverso documenti, in massima parte inediti, questo lavoro ricostruisce, in maniera sistematica, nascita e sviluppo del fenomento mafioso nell'area dello Jato a partire dall'abolizione dei diritti feudali,  nel 1812, sino ai tempi moderni con particolare riferimento a San Giuseppe Jato e San Cipirello. Due comuni, in unica realtà urbana, ubicati alle spalle di Palermo in posizione baricentrica rispetto al circolo formato da Monreale, Piana degli Albanesi, Corleone, Alcamo, Partinico, Montelepre.

Comuni noti per i Brusca, Di Maggio, Siino, Salamone e per la base operativa insediatavi, negli ultimi decenni, da Salvatore Riina. Comuni che, con motivazioni diverse, si rilevano nelle biografie non solo di Calvi, Insalaco, Salvo, Sindona ma anche di Marco Minghetti, Benito Mussolini, V.E. Orlando o dei parlamentari Rocco Balsano, Alfredo Cucco, Lanza di Trabia, Giovanni Lo Monte, Francesco Termini, Nicolò Zito. Sono i comuni di Portella della Ginestra e dell' "ideologo" della banda Giuliano, Pasquale Sciortino. Comuni di luminari, professori, professionisti e di straordinari arricchimenti attraverso mediatori, assicuratori, industrie conserviere e portuali, mulini e pastifici. Nel 1927 l'on. Rocco Balsano dichiarava dinanzi al giudice Triolo: "Se un comune vi era in Sicilia dove la maffia era onnipotente era proprio quello di San Giuseppe Jato". Erano gli anni del ducino on. Alfredo Cucco, plenipotenziario del fascismo in Sicilia, legato alla mafia dei comuni jatini attraverso il suo compare d'anello Santo Termini, Sindaco di San Giuseppe Jato. Erano gli anni del prefetto Mori che, quasi certamente indagando sulla mafia dei comuni jatini, veniva "promosso" e trasferito.

L'esposizione, sotto forma di dialogo, e lo stile, a tratti ironico, rendono la lettura scorrevole e piacevole senza nulla togliere alla serietà dell'argomento e  al contenuto, spesso tragico, della documentazione d'archivio riportata.

 

 

 

 

 

 

Indice

 

 

Pag.

Nota della Casa Editrice a cura di F.P. Castiglione

5

 

 

Introduzione di Marcelle Padovani

10

 

 

Prologo

 

Internet da Paradiso

14

I Beccadelli: Principi di Camporeale e fondatori del centro jatino

16

Alla ricerca di San Giuseppe su Internet. Sorpresa! La mafia

18

Riina, Di Maggio, Brusca, Siino…

23

Non solo Andreotti e San Giuseppe: anche Marco Minghetti, Benito Mussolini e Vittorio Emanuele Orlando

 

27

Un noto anonimo degli anni '90. Vip

29

Portella della Ginestra

33

Anno 1999: "Non c'è nulla di male a essere mafiosi!"

38

Anno 1926. On. Rocco Balsano: "Se un comune in Sicilia vi era dove la maffia era onnipotente era proprio quello di San Giuseppe Jato."

 

40

San Giuseppe nelle aspirazioni del Principe

42

Luminari, professori, professionisti, mediatori, assicuratori, industrie conserviere e portuali, mulini e pastifici

 

43

Per conoscere la mafia.

49

 

 

1918-1925: gli anni dei grandi arricchimenti

 

Alfredo Cucco, Santo Termini, Ciccino Cuccia e il Prefetto di Ferro Cesare Mori

 

55

Truffe, estorsioni, ruberie e ammazzatine. Le grandi retate di Mori. Il Processo a Santo Termini e compagni.

 

62

Elementi utili per un’analisi economica del territorio

91

San Giuseppe Jato nel memoriale di una cooperativa

94

1922-23: quando per eleggere l’Arciprete di San Giuseppe Jato si mobilitava mezza Italia

 

97

 

 

Nascita e sviluppo della mafia sul territorio: analisi storico-documentale

 

108

I primi abitanti: vittime del maggiorasco e liberati dal carcere

109

I gestori di violenza

117

L'ordine pubblico sul territorio

120

I galantuomini: l'alba dei mafiusi

123

Compagni d'armi, campieri e galantuomini

127

I medi proprietari ovvero la borghesia nascente all'assalto dei latifondi

 

129

Mafiusi, rivolte e rivoluzioni: 1820, 1848, 1860, 1866

132

Dal 1866 al 1912. I Fasci Siciliani

136

1912 - 1925: nascita della mafia moderna

142

La mafia è…

154

La mafia oggi: primo, secondo e terzo livello

157

Non solo mafia. L'area dello Jato: terra di lotte e ribellioni.

167

 

 

Bibliografia

177

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Realtà mafiosa e burattinai

Nota della Casa Editrice «Edizioni della Battaglia»

a cura di Francesco Paolo Castiglione

 

E’ incredibile la rapidità e la pervasività con cui un certo sistema speculativo violento - che oggi chiamiamo mafia - finalizzato al rapido arricchimento di individui e di gruppi familistici, sia comparso e si sia immediatamente e largamente diffuso, come maligna metastasi, in molti piccoli centri dell’agro palermitano, tra la fine del Settecento e gli anni dell’Unità italiana. Questo lavoro di Gioacchino Nania ne fornisce un esempio da manuale, scoprendo, con impressionante evidenza, lo spessore e l’incredibile ampiezza delle dinamiche mafiose che hanno agito nel piccolo centro di San Giuseppe Jato, condizionandovi, per quasi due secoli, la realtà socioeconomica e politica.

 

San Giuseppe Jato, naturalmente, non è il solo centro interessato al fenomeno. Molti storici, e non ultimo Salvatore Lupo, hanno indagato la realtà mafiosa della fascia agrumicola palermitana. Chi scrive, nel corso del riordino dell’archivio storico di una famiglia della buona borghesia palermitana, oriunda di Misilmeri, si è trovato a constatare, naturalmente da un limitato angolo visuale quale può essere l’archivio di una sola famiglia, lo stesso tipo di dinamiche. E’ apparso chiaro, dai documenti notarili - molti dei quali relativi ai vari passaggi di proprietà dei cespiti poi pervenuti ai proprietari dell’archivio - che le leggi eversive della feudalità e della manomorta ecclesiastica e quelle relative alla liquidazione delle “promiscuità” feudali, degli usi civici e dei beni demaniali dei Comuni, hanno dapprima favorito il nascere di una forte classe di proprietari, appartenenti alla piccola nobiltà e alle professioni. A Misilmeri, centro feudale dominato dai principi della Cattolica e dai marchesi di Spedalotto, grazie a questi meccanismi e col ricorso generalizzato allo strumento dell’enfiteusi, vediamo emergere piccoli nobili come i Tasca, che ben presto si fregiano dei titoli di principi di Cutò e di Trabia, già appartenuti alle antiche famiglie dei Filangeri e dei Lanza; o come i Pilo, conti di Capaci, già feudo della rinascimentale famiglia dei Bologna. Tra i funzionari pubblici e i professionisti di Misilmeri, spicca l’elevazione sociale della famiglia Paternostro, ben presto trasferitasi a Palermo dove sarà protagonista della vita civile e politica. Tutta gente che parteciperà in diverse maniere, assieme ai facinorosi delle “squadre” di picciotti, ai moti unitari. Basti pensare a Rosolino Pilo, dei conti di Capaci.

  

Assieme a costoro, vediamo nitidamente emergere altri personaggi, senza che la documentazione e la logica ci aiutino a comprenderne le modalità di arricchimento. Per esempio: un carrettiere, impossidente e analfabeta, che già nel 1863, subito dopo l’avventura garibaldina, è in grado di dotare il figlio, per atto notarile, di appezzamenti di terreno e case. Naturalmente, gli atti notarili non documentano sopraffazioni, violenze e profferte di protezione. Documentano, però, l’usura; e la documentano in una dimensione insospettabile in un piccolo centro come la Misilmeri ottocentesca. Numerosissime sono le vendite con patto di riscatto entro un certo tempo e per un certo importo: nient’altro che pegni reali rilasciati ai prestatori di capitali. Quasi sempre, alla scadenza di queste vendite fittizie segue l’atto di presa di possesso del nuovo proprietario: l’usuraio. E il sistema è tanto generalizzato che i pochi notai attivi sul territorio si fanno predisporre a stampa apposite cartelle-copertine per gli atti di “Mutui privati” e relativi “Atti di quietanza”, tutti elegantemente rifiniti con la cura calligrafica ottocentesca. E tra i concedenti di questi mutui, che rodono le proprietà dei debitori, troviamo anche uno di questi stessi notai attivi a Misilmeri. Quasi sempre, sulle proprietà così finite nelle mani dei prestatori di capitali, gravano canoni enfiteutici in favore degli antichi feudatari o del “Fondo per il culto”, prova inoppugnabile che si tratta di cespiti assegnati ad enfiteuti in forza delle leggi eversive della feudalità e della manomorta, finiti, come si paventava da più parti, nelle mani degli usurai. Tra le righe non scritte degli atti, si può indovinare la notevole capacità di imposizione del rispetto delle condizioni usurarie da parte di questi finanziatori, in un’epoca e in un contesto dove i morti ammazzati, spesso per molto meno e quasi sempre per conflitti di proprietà, si contano a decine. Un doveroso riserbo professionale nei confronti dei committenti del riordino dell’archivio ci ha distolti da un approfondimento che pur ci tentava; speriamo che queste poche righe invoglino qualcun altro, non vincolato a riserbo alcuno, a farlo.

 

Anche a San Giuseppe Jato si è avuta una prima fase di arricchimento di una nutrita classe di imprenditori e di professionisti di importanza regionale, sui cui meccanismi di elevazione sociale il lavoro di Nania non indaga. E in parallelo con l’elevazione di questo ceto, esplode, con inequivocabile nitidezza, il fenomeno mafioso; uno dei cui primi obiettivi sarà l’occupazione   dell'amministrazione comunale, con la benedizione di settori del clero locale e di politici regionali e nazionali. Nessun legame tra i due fenomeni è desumibile dal pregevole lavoro di Nania; ciononostante, sembra di potersi affermare che, per una sorta di incomprensibile meccanismo - ma forse non tanto incomprensibile se lo si collega ai repentini arricchimenti e al successivo bisogno di protezione dei beni acquisiti - la potenza delle cosche mafiose locali è direttamente proporzionale alla potenza economica e sociale raggiunta da questo nuovo ceto di possidenti.

 

E non possiamo, a questo punto, non accennare al problema delle cosiddette “relazioni esterne”.

 

Marcelle Padovani, nella sua bellissima introduzione, ricordando la lezione del compianto Giovanni Falcone, esclude categoricamente l’esistenza del “terzo livello” e del “grande burattinaio”. Siamo d’accordo con lei, ma a certe condizioni e con alcuni distinguo. Allo stato delle indagini - culturali e giudiziarie - non siamo in grado di affermare che esista un “terzo livello”; ma possiamo affermare, senza tema di smentite, che esistono  “reati di terzo livello”, come dimostrano, per esempio, i «casi» Salvo, Contrada, Mandalari, Sindona, Siino, e via elencando. “Reati di terzo livello”, per stigmatizzare i quali, come ben ha affermato lo storico Salvatore Lupo nel corso di un dibattito più avanti citato, la procedura giudiziaria è spesso strumento non idoneo o inadeguato, e nei cui confronti i giudizi vengono validamente pronunciati dalla storia, con maggiore incidenza, pregnanza e validità di quelli pronunciati dai magistrati. E la società civile e il mondo della cultura hanno il diritto-dovere di pronunciarli, anche in disaccordo con la magistratura: basti pensare alle assoluzioni giudiziarie di tanti importanti personaggi coinvolti nello scandalo della “Banca Romana”, condannati, però, dalla storia e dalla pubblica opinione, o alle motivazioni politiche che hanno provocato la strage di Portella della Ginestra, rimaste ignote ai magistrati. Ed hanno il dovere di ricordare alla classe dirigente del Paese le sue responsabilità politiche, anche quelle di carattere etico e morale.  Il magistrato persegue - quando lo fa - reati individuali; la cultura, invece, giudica fenomeni sociali e culturali che incidono positivamente o negativamente sull’evolvere dei contesti umani. Le stesse parole di Falcone vanno riferite alla situazione di molti anni fa; il magistrato ignorava alcune cose che il tempo ha poi disvelato, e subiva la pressante necessità di non prestare il fianco ad attacchi politici, possibili in quei giorni e in quel contesto, da parte di chi non aspettava che un suo passo falso per vanificare il suo intero operato. Di conseguenza, non ha toccato il tasto delle “relazioni esterne”; e anche per questo, forse, è caduto; vittima non solo di “cosa nostra”, ma anche di “complicità occulte in settori deviati e corrotti delle istituzioni e del mondo politico-economico-finanziario” (Luca Tescaroli, Perché fu ucciso Giovanni Falcone, Rubettino).

 

In un recente, pregevole ed originale studio sociologico sulla mafia - Mafie vecchie, mafie nuove (Donzelli Editore) - lo studioso Rocco Sciarrone dedica molte pagine di acute analisi al cosiddetto “capitale sociale” della mafia, o delle mafie. Cioè, a quell’assieme di risorse che permettono alla mafia di imporsi su un territorio, di operarvi con successo e di caratterizzarsi. Componente essenziale di questo “capitale sociale” è il controllo del territorio, risultante dalla combinazione estorsione-protezione e dall’esistenza di una fittissima rete di “relazioni esterne”, senza le quali la mafia non sarebbe mafia ma delinquenza comune. Relazioni esterne, nel cui ambito Sciarrone individua una scala di “prossimità” mafiosa, che va dall’imprenditore vittima dell’estorsione, che subendo la protezione mafiosa senza ribellarsi, incrementa, suo malgrado, il capitale sociale della mafia, ai “succubi”, agli imprenditori “subordinati”, ai “collusi” e agli “integrati”. Assieme a costoro, danno vita a “relazioni esterne” politici di ogni livello istituzionale e infedeli funzionari dei pubblici uffici. Basti ricordare alcuni recenti - e tuttora insoluti - casi di assassinio di funzionari della Regione Sicilia.

 

Il libro di Sciarrone è stato presentato a Palermo, nel corso di un dibattito a cui hanno partecipato il penalista Giovanni Fiandaca, il magistrato della Procura di Palermo, Antonio Ingroia e lo storico Salvatore Lupo; dibattito pubblicato sulla prestigiosa rivista palermitana “Segno”, diretta da Nino Fasullo. L’analisi di Sciarrone è apparsa a tutti convincente e scientificamente corretta. E tutti hanno lamentato l’attuale disattenzione e la colpevole sottovalutazione, riservate dall’opinione pubblica, ma soprattutto dalle istituzioni, siciliane e non, al problema mafia; un fenomeno tuttora vivo e vegeto e in fase di riorganizzazione “sommersa”. Una riorganizzazione che ha l’obiettivo primario di riacquistare un pieno controllo del territorio, attraverso la ricostituzione capillare dei due basilari meccanismi: quello dell’estorsione-protezione e quello delle indispensabili relazioni esterne. Un fenomeno che, in una qualche maniera, non può non essere in itinere anche in un tradizionale centro di mafia come San Giuseppe Jato; Nania, però, non ce ne parla.

 

Allora, occorre che le istituzioni e l’opinione pubblica restino sveglie e vigili: non esiste, di sicuro, un grande burattinaio; ma esiste un vasto ceto di disponibili insospettabili, che conferisce consistenza e valore al “capitale sociale” della mafia.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

a Salvatore Mineo,

capo dell'opposizione in consiglio comunale.

Assassinato, nel corso principale

alle ore 21 del 29 maggio 1920,

 dalla mafia che spadroneggiava

al Comune di San Giuseppe Jato.

Privato, sino ad oggi,

del riconoscimento che spetta

agli uomini forti e generosi:

la memoria del proprio sacrificio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Marcelle Padovani

 

Sono stata colpita anch'io dal valore metaforico, dal punto di vista della mafia, di San Giuseppe Jato.

Era il Natale del '98. Ero lì a intervistare il sindaco, Maria Maniscalco, per il mio giornale[1].

Mi saltò agli occhi la concentrazione di tematiche mafiose (ed antimafiose) che questa piccola città della provincia di Palermo accumulava.

C'era in giro la "carovana antimafia". C'erano Falcone e Borsellino sulla facciata del municipio. C'era il sindaco, impegnato a fare chiarezza nell'amministrazione comunale. C'erano le iscrizioni sui muri. E c'erano anche i "mostri di Cosa Nostra", ben presenti, quasi palpabili, i Brusca, i Di Maggio, i Siino, tramite le loro donne, imperterrite e a volte arroganti. In mezzo a una popolazione che "si sentiva presa in ostaggio sotto il tiro incrociato dei pentiti nemici" (così scrissi).

Ma mai avrei immaginato quanto questo primato "mostruoso" avesse radici così lontane e così profonde.

L'ho capito leggendo il libro di Gioacchino Nania.

L'ho letto d'un fiato, non lo dico per retorica. Oltre alle sue qualità espositive e alla sua costruzione convincente, "San Giuseppe e la mafia" mi è apparso subito come un esempio di ricerca sociologica, lo studio di una realtà locale col senso della sua rappresentatività generale. Seguendo le ricerche di don Giuseppe, principe di Camporeale, personaggio altamente emblematico, a metà strada fra Candide e Giufà, sempre in cerca di ragionamenti logici, si capisce perché, quando e come si sviluppa la mafia.

"San Giuseppe e la mafia", ricostruzione metodica dei meccanismi dell'insediamento e del radicamento mafioso sul territorio, fa capire col massimo della concretezza la funzione decisiva svolta dall'abolizione del feudalesimo, il ruolo contraddittorio della Chiesa, e quello, ancora più paradossale dello Stato, nell'affermazione di Cosa Nostra in Sicilia.

A questa lettura documentata dei processi di formazione mafiosa, che delinea un "ideal-type" alla Max Weber, si accede con stile ironico, e con la passione civile tipica di molti Siciliani illuministi: è proprio vero che il racconto "voltairiano" corrisponde bene a questa mentalità insulare alla ricerca perenne della ragione.

Sociologo e cittadino, Gioacchino Nania si dimostra così maestro nel raccontare la mafia vera, tangibile, quella che fa soffrire al quotidiano, e attraverso i secoli.

Ecco: uscendo, appunto, dalla concretezza vissuta, c'è un punto, un solo punto di analisi col quale mi permetterò di dissentire con Nania. Riguarda il "terzo livello". Lo so che la mafia ha avuto, ed ha, degli alleati anche molto potenti. Ma non credo, per dirla brevemente e prosaicamente, che ci sia qualcosa "al di sopra della mafia", degli uomini, dei livelli decisionali, degli interessi potenti e occulti che spiegherebbero la vitalità di Cosa Nostra e la difficoltà a sradicarla. Penso invece che la mafia, "essendo un fenomeno umano, ha avuto un inizio, e un culmine ed avrà una fine". E che bisogna convincersi, per lottare efficacemente contro la mafia che non c'è la mano oscura di un eventuale puparo dietro le cose di Cosa Nostra.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Trainava l'aratro, il carretto e 'a stravula.

Trasportava  covoni, frumento, paglia, fieno,

uva, mosto, legna ed anche le persone.

Percorrendo infinite circonferenze

  pisava grano, fave, favetta, pruvènna e cìciri.

Produceva il concime.

Partecipava all'occupazione delle terre.

Si rendeva utile anche quando riposava: nella stalla,

ricavata all'interno dell'abitazione,emanava calore.

Mai un lamento.

Sembrava (o forse era?) una macchina.

Solo il padrone sapeva che il mulo aveva un'anima.

No! Non era istinto!

Secondo lui il mulo capiva le difficoltà della famiglia e…lavorava…lavorava.

Nella solitudine e nel silenzio della campagna

al mulo raccontava tutto:

i suoi segreti, le aspirazioni, le angosce, le paure.

Ed anche i rancori.

Era un amico vero.

Solamente a una cosa teneva il mulo:

la festa di Tagliavia. E lui l'accontentava.

Il dì di festa, dopo averlo lavato e strigliato,

montava 'a vardedda, la sella delle occasioni, e,

con una coffa di pruvenna, via! Al santuario.

Lì comprava due bandierine

con l'immagine della Madonna

che attaccava al testale già adorno di fiori di campo.

Certo! Non è che quel giorno sembrasse  un cavallo!

Era però un mulo felice. Come il suo padrone.

 

"Avvenuta la rapina, com'era costume in quei tempi, mi recai a trovare Santo Termini capo della delinquenza che imperava in paese e ne ebbi assicurazione che avrebbe spiegato il suo interessamento per il recupero degli animali, avendo io fatto atto di prontezza per il pagamento del prezzo che egli avrebbe fissato per il riscatto degli animali…e mi diede in cambio un mulo vecchio che io poi rivendetti, dopo circa 15 giorni, per lire 1050. Io non volevo cambiare il mulo con quest'altro più vecchio ma temendo le rappresaglie a malincuore dovetti cedere e me ne tornai piangendo a San Giuseppe Jato."

(Giuseppe Piediscalzi al giudice Triolo, 1926)

 

Tutte le fonti relative all’Archivio di Stato di Palermo (ASP), all’Archivio Storico Diocesano di Monreale (ASDM) e all’Archivio Comunale e Parrocchiale di San Giuseppe Jato sono inedite. Si precisa inoltre che le fonti riferite ai siti WEB di Internet risultano consultabili, alla data di pubblicazione del presente lavoro, presso gli indirizzi riportati.

 

 

 

 

L’autore accetta precisazioni, consigli, complimenti oltre ad eventuali insulti. Ma non oltre.

Si rammenta ai lettori che attentati, sparatorie e affini sono severamente vietati, e talvolta puniti, dalla legge.

 

 

 

 

Ringrazio gli amici Guido Agnello, Francesco Paolo Castiglione, Giuseppe Grippi, Pino Guarneri, Antonio Jovane, Domenico La Porta, Lino Maniscalco, Enzo Micciché, Mario Scamardo, Enrico Simonetti, Pippo Taormina, per le lunghe discussioni, soprattutto a tavola, nell'analisi del fenomeno.

Un ringraziamento particolare a Maria Teresa Anelli di Roma per la sua preziosa disponibilità.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

PROLOGO

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Internet da Paradiso

 

La mattina del 6 gennaio 2000 alle ore 7.00 don Giuseppe Beccadelli Bologna, Principe di Camporeale, attraverso il motore di ricerca AltaVista iniziava a navigare in Internet. Aveva appena digitato il tema della sua ricerca - Dammusi - ed immediatamente una lunga teoria di pagine Web si era messa a scorrere sul monitor.

Internet! Che grande invenzione! Collegava gli angoli più remoti della terra consentendo l'accesso a miliardi e miliardi di informazioni. Risultava, nel campo delle comunicazioni, la più grande tra le realizzazioni della comunità internazionale. Aveva un solo difetto: la rete delle reti era sprovvista di un collegamento con l'aldilà.

Il Padreterno, inizialmente un po' scettico, si era ben presto reso conto della mancanza. Nella sua infinita sapienza e bontà non poteva consentire che di un tale strumento, che tanti uomini rendeva felici sulla terra, fosse privo proprio l’aldilà dove la felicità dei trapassati avrebbe dovuto essere completa. In occasione del Giubileo 2000, per la cronaca la notte di San Silvestro, il Creatore aveva risolto il problema, com'era sua abitudine, alla grande.

Intanto, attraverso una maxi-indulgenza, aveva condonato tutti i peccati commessi nel millennio precedente trasferendo tutti in Paradiso e chiudendo temporaneamente sia Purgatorio che Inferno. La sospensione del servizio di Purgatorio e Inferno si rendeva necessaria per la disinfestazione e, soprattutto, per la manutenzione ordinaria dell'impianto di riscaldamento. Poi, con una operazione da manuale, aveva risolto in pochi istanti il problema del collegamento. Attraverso i normali canali col Vaticano aveva dato incarico al suo stretto collaboratore, Gian Paolo, di occuparsi delle autorizzazioni presso l’Authority di Internet, il NIC com'era indicato tra gli addetti.

Nella comunità dei beati si soleva ricordare, sempre con contenuta ilarità, la risposta del Vaticano trasmessa in codice Morse attraverso l'uso del vecchio e obsoleto telegramma (in Paradiso - per l'assenza di Internet - mancava anche il servizio di e-mail, la posta elettronica). C’era scritto:

 

COMUNICASI AUTORIZZAZIONE NIC ALLACCIAMENTO ATTRAVERSO VATICANO punto COLLEGAMENTO PARADISO EST IMPOSSIBILE punto DITTE CONTATTATE TELECOM virgola INFOSTRADA virgola WIND NON SUNT ATTREZZATE FARE MIRACOLI punto STIAMO CONTATTANDO DITTA AMERICANA BELL CHE virgola SETTORE COMUNICAZIONI virgola DICUNT FACIT MIRACOLI punto QUID DEBEMUS FACERE punto interrogativo TUO GIAMPAOLO.

 

Subito dopo ne era pervenuto un altro:

 

RIFERIMENTO PRECEDENTE TELEGRAMMA INFORMASI CHE GRUPPO FIAT HABET PROPOSTO COSTITUZIONE CONSORZIO CUM ISTITUTO OPERE RELIGIONE PER ACQUISTO CINQUANTUN PER CENTO parentesi apertura CINQUANTUN PER CENTO parentesi chiusura AZIONI AMERICANA BELL punto ATTENDONSI DISPOSIZIONI punto SEMPRE TUO virgola GIAMPAOLO.

 

Alla lettura dei telegrammi al Padreterno erano girate le scatole. Ma come! Ora si rivolgevano agli americani anche per i miracoli!? A parte quelle locuzioni telegrafiche in latino macheronicus questa era la seconda che Gian Paolo gli combinava! La prima volta, con un comportamento a dir poco leggero, aveva fatto vacillare la fede di milioni di fedeli: Gian Paolo, in occasione della nota malattia, invece di andare a Lourdes si era fatto ricoverare in un ospedale di Roma.

«Pazienza!» Aveva detto. Si era trattato di un pronto soccorso, Lourdes era al di là delle Alpi e… c'era passato sopra! Questa però un ci calàva. Anche perché se gli americani si erano pure messi a fare miracoli e persino il Vaticano gli dava corda, a Lui, all’Onnipotente, che restava da fare?! Entrare in concorrenza?

Si calmò subito. Il perdere la pazienza non faceva parte del suo carattere. Abbozzò un breve paternale sorriso, guardò con aria di compatimento in direzione del Vaticano e, sottovoce, sussurrò:

«FIAT!».

Immediatamente, proveniente dalle parti di Torino, sentì una voce chiara e inconfondibile:

«Pvego! Dica puve, Eccellenza!»

«Accidenti!» Esclamò il Creatore. «In questo mestiere non è consentita la benché minima imperfezione!»

Rifece l'operazione. Si concentrò. Guardò con occhi a pampinedda verso l'estremità sinistra dell'infinito e, stavolta in minuscolo, pronunziò la biblica parola: «fiat!»

E Internet fu.

Subito dopo, a differenza del millennio precedente, pensò di festeggiare - era la prima volta - la Befana. Fu così che ciascun inquilino del Paradiso, oltre ad essere beato, divenne felice possessore di un computer Pentium III, ultimo modello, con relativo modem e abbonamento a Internet per 5000 anni. Quest’ultimo automaticamente rinnovabile.

 

I Beccadelli, Principi di Camporeale e fondatori del centro jatino

 

C’era stata un po’ di ressa durante la distribuzione dei computers. Anche in Paradiso occasioni come queste erano motivo di confusione. Una delle cose che nessuno riusciva a spiegare era come mai la comunità dei beati inglesi, al solito in perfetta fila, risultava sempre l'ultima a raggiungere il punto di distribuzione.

Don Giuseppe Beccadelli, attraverso buone amicizie che non aveva smesso mai di coltivare, era stato il primo a munirsi di computer e collegamento a Internet.

Essere o arrivare primi i Beccadelli se lo portavano nel sangue.

Don Ferdinando Beccadelli, ad esempio, il 31 luglio del 1790 era stato il primo a raggiungere con un barca il temerario e coraggioso cavalier Vincenzo Lunardi che, sul lungomare tra Palermo e Aspra - alla presenza del viceré, di una gran moltitudine di nobili e di popolo - aveva effettuato la prima ascensione in Sicilia su un pallone aerostatico.

Don Gaspare Beccadelli, ambasciatore di Sua Maestà il Re di Napoli a Vienna nel 1776 era stato nominato Primo Segretario di Stato e per tale nomina Giovanni Evangelista Di Blasi, autore di una voluminosa quanto noiosa "Storia del Regno di Sicilia", aveva scritto per i posteri:

 

…i palermitani sperimentarono una indicibile allegrezza nel vedere innalzato a tale carica un loro concittadino.

 

Il primo però in assoluto, colui che nel corso dei secoli continuava a dare lustro alla famiglia Beccadelli, era e rimaneva Antonio Beccadelli detto il Panormita (Palermo 1394–Napoli 1471) umanista, diplomatico, autore dell’Hermaphroditus: una raccolta di ottanta epigrammi latini elegiaci modellati sulla poesia di Catullo e Marziale.

In verità anche il senatore Pietro Paolo Beccadelli Acton, pure lui Principe di Camporeale, era stato primo cittadino di Palermo nel 1900. Ma più che come Sindaco di Palermo di lui si rammentava che aveva primeggiato per la sua notevole perizia nel settore vitivinicolo: perizia che aveva concorso a porre

 

…i Camporeale a San Giuseppe assieme ai Di Rudinì a Pachino, i Florio a Marsala, i Tasca Lanza a Palermo tra i protagonisti della ristrutturazione viticola attraverso l’uso razionale degli innesti e il perfezionamento dei sistemi di vinificazione[2].

 

Nessun ospite, nella sontuosa dimora di Dammusi, si era mai congedato senza aver prima adempito un preciso desiderio del Principe: la visita alla sala dove, con mal celato orgoglio, mostrava la splendida cornice d'argento contenente il "Primo Premio" alla Mostra Internazionale di Bruxelles assegnato al vino jatino "Signora".

Anche don Giuseppe Beccadelli, durante la sua vita terrena, era riuscito ad arrivare primo. Nel 1779 era stato primo all’asta relativa ai feudi Dammusi, Signora, Mortilli, Macellaro, appartenuti ai Gesuiti e confiscati, da re Ferdinando, nel 1767 dopo la loro espulsione dal Regno delle Due Sicilie. Era stato primo e si era accaparrato l'intero territorio per 89.000 once. Sì! Allora erano circolate voci di concorrenza sleale nei confronti dell'unico, oltre a lui, partecipante all’asta: un certo Randazzo che, al momento dell'offerta, aveva ritenuto cautelativo ritirarsi; erano stati in molti a sostenere che il Principe aveva fatto pesare troppo la parentela con il Primo Segretario del Regno di Napoli; poi ci si era messo pure il Marchese di Villabianca con l'insinuare che il prezzo di aggiudicazione corrispondeva, sì e no, a un quarto del valore effettivo. Ma era durata poco. Da parte sua teneva troppo a quelle contrade - un tempo appartenute ai Perollo, baroni del Cellaro – per porsi scrupoli di correttezza nella concorrenza. Alla fine del 1500 i Perollo, famosi per i cosiddetti casi di Sciacca, inseguiti dai debiti, erano stati costretti a cedere tutto. I Camporeale, legati ai Perollo da un sottilissimo filo di parentela, avevano tentato l’acquisto dei feudi: erano però stati beffati da un certo don Cristofaro Bassèt, mercante catalano, il quale nei ritagli di tempo si dedicava, con ottimi risultati, all’usura. Non era solo la parentela che legava i Perollo, chiamati anche Pirrello, ai Camporeale: c’era sempre stato un rapporto di buon vicinato. La baronia del Cellaro comprendeva infatti parte dell’attuale Sambuca di Sicilia e i Beccadelli Bologna, oltre ad essere Principi di Camporeale, erano anche Marchesi di Sambuca. Ma forse è il momento di elencare, assieme al nome completo, i titoli di cui andava sovraccarico don Giuseppe: egli era

 

l’Eccellentissimo don Giuseppe Beccadelli da Bologna e Gravina, Marchese di Sambuca, Grande di Spagna, Cavaliere dell’Insigne Real Ordine di San Gennaro, Gentiluomo di Camera con esercizio dell’Invittissimo Sovrano Ferdinando III, Consigliere di Stato residente nella dominante Palermo e Principe di Camporeale.

 

Oltre all’acquisto di quell'esteso territorio don Giuseppe Beccadelli aveva ottenuto dal Re di Napoli anche la licentia populandi: poteva edificare nuovi centri abitati. Il primo centro iniziò a edificarlo in contrada Macellaro e lo denominò con una parte del titolo di cui i Beccadelli erano in possesso almeno dal XV secolo: Camporeale. Il secondo decise di edificarlo in contrada Mortilli e, nell'assegnargli il proprio nome, forse pensò di soddisfare le aspettative dello sposo della Madonna di cui era devoto. Fu naturale che, per distinguere il nuovo San Giuseppe dai numerosi centri con lo stesso nome, divenisse San Giuseppe li Mortilli. Scorrevano dinanzi ai suoi occhi, in quel momento, le numerose rimostranze dei nuovi abitanti. Tutti avevano contestato l’irrazionale esposizione a nord del sito scelto e, soprattutto, l’edificazione su un terreno che, alle falde del monte San Cosmano, minacciava da un momento all’altro di scoscendere verso valle.

 

Alla ricerca di San Giuseppe su Internet. Sorpresa! La mafia.

 

I siti restituiti da Internet alla richiesta Dammusi erano circa 80. In buona parte si trattava di pubblicità relativa ai dammusi, freschissime casette ad un piano caratteristiche delle isole di Pantelleria e Lampedusa, che non interessavano il Principe. Solo tre siti non appartenevano a tale tipologia. Don Giuseppe scelse il primo che gli capitò e cliccò:

 

http://www.cyberworld.it/carabinieri/html/archivio/.

 

Immediatamente sul monitor apparve la risposta:

 

Omicidio: Scaglione Salvatore. In San Giuseppe Jato, contrada Dammusi, in data 30.11.1982

 

Pensò non trattarsi del termine Dammusi da lui cercato e passò oltre: cercava infatti contrada Dammusi di San Giuseppe li Mortilli non di San Giuseppe Jato.

Decise allora di cercare su Internet direttamente l’Università - oggi diciamo il Comune - di San Giuseppe e digitò:

 

SAN GIUSEPPE LI MORTILLI

 

Ebbe subito la risposta:

 

AltaVista found no document matching your query

(AltaVista non ha trovato alcun documento relativo alla vostra richiesta)

 

Al Principe, che aveva subito compreso il senso della frase, si gelò la schiena. In parole povere San Giuseppe li Mortilli non esisteva. Almeno su Internet.

«E che era successo all’Università di San Giuseppe li Mortilli?!» Si chiese incredulo e stupefatto.

«Era stata abbandonata?»

«Oppure era franata?» Pensò subito dopo.

Nel fare queste considerazioni il Principe focalizzò la sua attenzione sul monte sovrastante San Giuseppe li Mortilli e ricordò che non erano tutti a denominarlo San Cosmano: alcuni lo chiamavano monte Mori altri ancora monte Jato. Attraverso il toponimo Jato il Principe intuì allora che San Giuseppe li Mortilli e San Giuseppe Jato erano esattamente la stessa cosa. Digitando monte Jato scoprì che l’Università di San Giuseppe li Mortilli era, come da molti paventato, veramente franata a valle quasi per intero l’11 marzo 1838. Per fortuna però i suoi industriosi abitanti, oltre ad edificare il limitrofo centro di San Cipirello, avevano anche ricostruito le abitazioni crollate.

Rianimatosi don Giuseppe Beccadelli si rese conto che il primo sito Web relativo a Dammusi era proprio quello che cercava e, passando ad altra pagina, cliccò:

 

http://www.cyberworld.it /carabinieri/html/archivio/com2.html

 

Alla lettura di quel che apparve sul monitor esclamò in modo quasi spontaneo «per D.» ma non terminò la locuzione immediatamente corretta in «per dinci!». Poi fissò il monitor leggendo senza pronunciare ed anche senza pensare.

 

VITTIME

Inzerillo Santo, nato a Palermo 23.4.1946, strangolato in San Giuseppe Jato in contrada Dammusi il 26.5.1981;

Di Maggio Calogero, nato Torretta (PA) 16.8.1924, strangolato in San Giuseppe Jato in contrada Dammusi il 26.5.1981;

Scaglione Salvatore, nato a Palermo il 6.4.1940, strangolato in San Giuseppe Jato in contrada Dammusi il 30.11.1982;

Riccobono Rosario, nato a Palermo IL 10.2.1929, strangolato in San Giuseppe Jato in contrada Dammusi il 30.11.1982;

Micalizzi Salvatore, nato a Palermo il 23.8.1952, strangolato in San Giuseppe Jato in contrada Dammusi il 30.11.1982;

Savoca Carlo, nato a Palermo il 28.10.1943, strangolato in San Giuseppe Jato in contrada Dammusi il 30.11.1982;

Cannella Vincenzo, nato a Palermo il 13.8.1947, strangolato in San Giuseppe Jato in contrada Dammusi il 30.11.1982…[3]

 

Quando completò la lettura ed ebbe modo di riprendersi riuscì a chiedere ad un vecchio santo appollaiato su una nuvoletta limitrofa:

«Scusassi zio santo, nel 1982 in Sicilia guerra ci fu?»

«No.» Rispose sicuro il santo che dall’aria sembrava molto informato. Poi continuò: «tieni però presente, Principe, che ci sono tanti tipi di guerre: guerre alla povertà, guerre di religione, guerre di mafia…».

Il Principe, pensando che il vecchio santo avesse trovato lo spunto per attaccar bottone, lo liquidò di colpo con un «grazie!!» e, stordito per quanto aveva letto sulla sua Dammusi, non si preoccupò neppure di chiedere cosa significasse mafia, termine del quale sconosceva l’esistenza.

Ma com’era stato sbadato! Era mai possibile che nel 1982 gli uomini si fossero ridotti a far le guerre strangolandosi! E che avevano fatto, il disarmo totale? E poi tutti quei morti ammazzati nel mese di novembre! Che ammazzassero la gente per festeggiare le ricorrenze!? No. Non era possibile. Dalle notizie giunte nell'aldilà, in verità col contagocce, risultava che novembre era e continuava ad essere il mese dei morti, non dei morti ammazzati. Ad ogni buon conto si propose un approfondimento successivo.

La cosa che più lo sconvolgeva era il pensare che quella carneficina fosse avvenuta nella sua Dammusi, il suo Eden, il luogo dove lui, i suoi figli, i figli dei suoi figli avevano trascorso buona parte della loro terrena esistenza. Certo! Non è che ai suoi tempi ci fosse penuria di morti ammazzati! Ma, Dio mio, a questo livello! E poi tutti nella stessa giornata!

In modo quasi automatico, utilizzando la tecnica dell'ipertesto, portò il cursore su un certo Scaglione Salvatore, pigiò il tasto sinistro del mouse e sul monitor spuntò:

 

Omicidio: Scaglione Salvatore. In San Giuseppe Jato, contrada Dammusi, in data 30.11.1982…I quatto cadaveri, a cui dopo si aggiunse quello dello Scaglione, furono messi in 2 bidoni con acido nel vicino torrente. Si dovette inoltre procedere all’acquisto di altro acido perché la bassa temperatura del torrente rallentava l’opera di corrosione

 

Dalla lettura integrale[4] di quanto riportato non è che il Principe ci capì tanto. Il linea di massima riuscì ad afferrare che si trattava di regolamento di conti tra persone appartenenti a gruppi con posizioni strategiche (e ideologiche?) diverse. Comprese che a volte la gente, oltre ad essere strangolata, veniva disciolta negli acidi. Ed in relazione a quest'ultima operazione, tra gli addetti ai lavori detta squagghiatìna, opinò che potesse trattarsi di una nuova tecnica finalizzata alla salvaguardia dell'ambiente. Per il resto non capì un tubo. Uomini d'onore! Mandamenti! E che erano?! Non riusciva poi ad inquadrare nel verso giusto quel rapporto tra famiglia e mandamento. Ai suoi tempi quando si scioglieva una famiglia (non negli acidi!) si ottenevano due persone, marito e moglie, che se ne andavano ognuna per i cavoli propri. Ora, invece, dallo scioglimento di una famiglia nasceva un nuovo mandamento. Vacci a capire!

Decise allora di ripiegare nuovamente sull'ausilio del santo appollaiato il quale, in quel momento, era occupato a spalmarsi sulle spalle un po' di crema anti-ustioni.

«Scusassi ancora, zio santo, cosa significa uomo d'onore lei lo sa?»

«Uomo d'onore» rispose subito il santo «è un appartenente alla mafia.»

«E la mafia che cos'è?» Chiese, senza pensarci, il Principe.

«La mafia,» disse il santo, «in altri tempi chiamata maffia inizia la sua opera nel secolo scorso o meglio, considerato che siamo già entrati nel 2000, nel secolo XIX…»

Ma non ebbe il tempo di completare la frase perché fu interrotto, ancora una volta, dal Principe.

«No! No! Zio santo! Mi interessa solo una definizione concisa del termine. Il significato e basta. Può usarmi la gentilezza di indicare dove posso trovare una spiegazione breve, precisa ed esaustiva?»

«Ascolta Principe!» Rispose il santo ostentando velatamente la propria autorità gerarchicamente superiore. «Prima di lanciarti a capofitto sulla tastiera del computer hai frequentato il corso su Internet?»

«No.» Rispose il Principe.

«Io invece sì.» Disse secco il santo. E continuò:

«Stamattina mentre tu te la fissiàvi ad armeggiare col mouse e la tastiera io ero impegnato a seguire il corso accelerato “Come diventare luminari di Internet in tre milionesimi di secondo”: corso che non solo era gratis ma ti avrebbe consentito, se lo avessi frequentato, di acquisire un titolo più adeguato ai tempi moderni. Invece dovrai aspettare altri 1000 anni per il prossimo corso! Sì. E' vero. Potresti sempre ripiegare sui corsi per corrispondenza. Ma consentimi: non ne vale la pena! Ti rilasciano un ridicolo e misero attestato che non porta mai molto lontano.»

«Ma allora il senatore Bossi che ha seguito il corso per corrispondenza della Scuola Radio Elettra di Torino?!» Disse il Principe tra il timido e la consapevolezza di aver preso il santo in castagna.

«L'eccezione, lo sanno cani e gatti, conferma la regola.» Rispose mezzo incazzatizzo il santo. Poi continuò:

«Sì è vero. Bossi ne ha fatta di strada. Ma dove? Sulla Terra. In Italia. Qui non avrebbe fatto neppure un centimetro della via Lattea! Qui in Paradiso, come dovresti sapere, le correnti di pensiero dominanti ormai fanno quasi tutte riferimento al neopositivismo del Circolo di Vienna e al pragmatismo americano di James. E allora siamo pratici, Principe! Tu credi che se a Bossi si guastasse il televisore o il frigorifero di casa lui sarebbe in grado di ripararlo? Ascoltami bene. Il tipo di ricerca su cui ti vedo impegnato, in altri tempi avrebbe presupposto la frequenza a biblioteche e archivi con code e lunghe attese. Oggi è possibile accedervi attraverso Internet. Bisogna però conoscere i relativi siti. Per le biblioteche uno dei migliori servizi in Italia lo trovi all'SBN - Servizio Bibliotecario Nazionale - il cui indirizzo, che ti invito a memorizzare, è

 

 http://www.iccu.sbn.it/sbn.htm

 

Collegandoti a tale sito e digitando, che so… un autore, un titolo, un editore, un argomento, potrai sapere in quali biblioteche italiane trovare il volume e consultarlo.»

«E per gli archivi?»

«Per gli archivi puoi collegarti al sito

 

http://www.archivi.beniculturali.it/

 

oppure, visto che la tua Dammusi ricade in territorio di Monreale, al sito

 

http://www.archiviomonreale.sicilia.it/»

 

«Grazie!» Rispose il Principe.

«Aspetta! Non ho ancora finito.» Continuò il santo. «Io ho bisogno di distendermi perché la frequenza al corso mi ha molto stressato. Vado a riposarmi su quella nuvola in fondo a circa 18.000 km da qui. Tu dirai: perché così lontano? Per il semplice motivo che non sopporto il ticchettio della tua tastiera! Se dovessi ancora avere bisogno chiamami al cellulare. Ah! Stavo dimenticando! Una delle prime definizioni sulla mafia puoi reperirla in un'opera giovanile di Giuseppe Pitrè: Vocabolario marinaresco siciliano. Ciao!». E volò via.

 

Riina, Di Maggio, Brusca, Siino…

 

Il Principe, seguendo le istruzioni del santo, trovò subito la definizione nel volume indicato:

 

Io son pago di affermare la esistenza della nostra voce - mafia - nel primo sessantennio di questo secolo in un rione di Palermo, il Borgo, che fino a vent’anni addietro faceva parte per se stesso, e si reputava qual era topograficamente, diviso dalla città. E al Borgo la voce mafia coi suoi derivati valse, e vale sempre, bellezza, grandiosità, perfezione, eccellenza nel suo genere…Alla idea di bellezza la voce mafia unisce quella di superiorità e di valentia nel miglior specificato della parola, e discorrendo di uomo, sicurtà d’animo, e in eccesso di questa, baldezza, ma non mai braveria in cattivo senso, non mai arroganza, non mai tracotanza. L’uomo di mafia o mafioso, inteso in questo senso naturale e proprio, non dovrebbe metter paura a nessuno perché pochi quanto lui sono creanzati e rispettosi.

 

Alla lettura della definizione del Pitrè il Principe di Camporeale fu assalito da nuova confusione oltre che da sconforto: la strada era diventata ancora più ripida.

«Ma come!?» Disse. «Se i mafiosi - belli, grandiosi, perfetti, eccellenti - si strangolano tra loro sciogliendosi negli acidi, allora i non mafiosi che faranno?».

«Minimo minimo,» rispose a se stesso «si sbraneranno le carni leccandosi il sangue e riducendo le ossa in polvere con un martello!»

Si rese allora conto della necessità di ulteriori approfondimenti. Ripristinò nuovamente il collegamento col motore di ricerca AltaVista, digitò mafia e sul monitor spuntò:

 

Word MAFIA: AltaVista found 181050 Web pages

(AltaVista ha trovato 181.050 pagine Web della parola mafia)

 

Fece allora, ad alta voce, un rapidissimo calcolo ragionato: «Se ogni pagina Web la facciamo corrispondere mediamente a 10 pagine normali, fanno 1.810.050 pagine normali. Se ad ogni pagina normale corrispondono in media 400 parole, fanno 724.020.000 parole. Se in un minuto si riescono a leggere 60 parole, allora per leggerle tutte occorreranno 724020000/60 =12.067.000 minuti. Ovvero circa 23 anni; notti comprese! Senza contare le frequenti interruzioni nei collegamenti dovute al pessimo servizio dei gestori della telefonia in Italia.» Certo, di tempo a disposizione ne aveva quanto voleva, ma non lo allettava affatto la prospettiva di impiegare 23 anni della sua eternità nella lettura di quella montagna di informazioni. Anche perché non era assolutamente sicuro - in questi casi, si sa, ognuno dice o scrive la sua - che sarebbe riuscito alla fine ad avere le idee chiare sull'argomento. Fu così che il Principe decise di navigare nell'ambito di quelle pagine selezionando, con opportune operazioni di filtraggio, i siti Web mafiosi - in tal modo li definì per distinguerli dagli altri - legati alla sua San Giuseppe Jato.

Scoprì allora che la mafia aveva avuto origini in Sicilia; che si trattava di un'organizzazione criminale; che quasi certamente la definizione del Pitré era da riferire ad altra epoca; che la mafia si era diffusa in tutto il mondo e che il capo dei capi era stato, o forse continuava ad essere, un certo Totò Riina. Seppe che Riina aveva trascorso molti anni della latitanza nella sua Dammusi dove, secondo le dichiarazioni di Giovanni Brusca di San Giuseppe Jato, era stato custodito una sorta di arsenale militare della mafia. Notò pure che buona parte dei siti, nazionali ed internazionali, relativi alla mafia riconducevano a San Giuseppe Jato e, viceversa, digitando San Giuseppe Jato si ritornava, come se si trattasse di sinonimo, alla mafia.

«Ma guarda un po'!» Pensò «quanto è divenuto importante il centro da me fondato!».

Continuando a navigare in Internet venne a conoscenza di un famoso magistrato, Giovanni Falcone, fatto saltare in aria con un ordigno esplosivo, il cui pulsante era stato cliccato da uno di San Giuseppe Jato: Giovanni Brusca. Poi si accorse che Riina, ricercato dalle polizie di mezzo mondo per oltre vent'anni, era stato arrestato nel 1993 e che l'operazione era stata resa possibile da un certo Balduccio Di Maggio.

E di dov'era Balduccio Di Maggio?

Di San Giuseppe Jato.

Scoprì pure che la mafia, in Sicilia, aveva un proprio Ministro dei Lavori Pubblici.

E di dov'era il Ministro?

«Di San Giuseppe Jato?» Tirò ad indovinare.

Non si era sbagliato. Era Angelo Siino nato e domiciliato a San Giuseppe Jato.

E giacché navigava nell'area dei Lavori Pubblici fece una capatina sul sito delle imprese che operavano nel settore. Scoprì così che nel 1987 all'Albo Nazionale dei Costruttori del Ministero dei Lavori Pubblici - quello statale - risultavano iscritte 84 imprese di San Giuseppe Jato. Un vero e proprio record: per ogni cento abitanti, inclusi vecchi e bambini, c'era un'impresa operante nel settore dei lavori pubblici.

«Meno male!» Pensò il Principe. «Per fortuna eccelliamo anche nel mondo del lavoro!»

Nel visitare il sito relativo all'Albo Nazionale si era un po' allontanato dai siti mafiosi. Tornò allora indietro e la sua attenzione si centrò sull'indirizzo

 

http://www.itdf.pa.cnr.it/web/andreotti/atti/procura/.

 

Cliccò e gli spuntò:

 

ESPOSIZIONE INTRODUTTIVA DEL PUBBLICO MINISTERO nel processo penale n. 3538/94 N.R., instaurato nei confronti di Giulio ANDREOTTI, nato a Roma il 14.1.1919, per il reato di cui all'art. 416 C.P. (fino al 28.9.1982), e per il reato di cui all'art. 416 bis c.p. (dal 29.9.1982 in poi).

 

«Possibile?!» Esclamò il Principe.

E invece sì. Era proprio lui: il Presidente, elevato alla settima, Giulio Andreotti.

In Paradiso era già ritenuto di casa. Di lui si diceva un gran bene e se ne elogiava particolarmente l'impegno: un vero paladino della Fede e del Vaticano. Si diceva che da un momento all'altro sarebbe arrivato per unirsi alla comunità dei beati in attesa di diventare santo. Così almeno avevano assicurato quasi tutti i Papi approdati negli ultimi cinquant'anni in Paradiso, ciascuno adducendo sempre la stessa motivazione: Giulio, giorno dopo giorno, rischiava la pelle; continuava a fare troppe, troppe leggi che mettevano il bastone fra le ruote alle varie criminalità, organizzate e non, ma soprattutto alla mafia. Di Papi però ne erano arrivati ben quattro e del Presidente non si era vista neppure una delle sue sette ombre. Anzi l'ultimo - Luciani - per evitare di fare la figuraccia dei predecessori non solo aveva cominciato a mettere in dubbio la certezza della morte, ma aveva pure improvvisato una sorta di bisca dove accettava puntate sull'arrivo del quinto Papa ancor prima di Giulio. In ogni caso, sostenevano con sicurezza i beati più anziani, prima o poi si sarebbe presentato. In Paradiso circolava voce che per il suo arrivo sarebbe stata organizzata una grande parata: si dava per certo infatti l'arrivo di Giulio in carrozza. Negli ultimi tempi però l'euforia era scemata. Tutta colpa di quella frase delle zie del Presidente:

«Giulio,» gli avevano detto «in Paradiso non si va in carrozza!».

Era quella una frase usuale per esprimere le difficoltà che si incontrano nel guadagnarsi il Paradiso. Nel caso di Giulio, però, era apparsa molto sibillina: si trattava di un ordine del Padreterno trasmesso attraverso le zie? Le zie sapevano qualcosa di cui non volevano o potevano parlare? Nessuno era stato in grado di fornire una spiegazione plausibile.

«Certo,» pensò il Principe «se dovesse rispondere a verità quanto scritto sulle pagine delle ordinanze dei pubblici ministeri di Palermo e Perugia, altro che carrozza! Minimo minimo rischia di arrivare in Paradiso arrampicandosi su una fune; se non dovrà addirittura attendere la maxi-indulgenza del prossimo millennio!». Non è che il G.U.P. (Giudice Unico del Paradiso) si ritenesse vincolato alle sentenze dei tribunali terreni. Ci sarebbe mancato altro! Sull'associazione mafiosa, ad esempio, si poteva pure intavolare una trattativa. Ma sul bacio no. Al bacio il G.U.P. era particolarmente allergico. Ogni volta che si parlava di bacio gli venivano in mente, come in un incubo, evangelici tradimenti. In fondo come si poteva dargli torto!? Come poteva mai dimenticare che per un bacio ci aveva appizzàto un figlio!?

Continuando a leggere il Principe notò che il capo d'imputazione più grave, o forse più eclatante, era legato alla testimonianza di un uomo il quale asseriva di avere assistito al bacio tra Andreotti e Riina.

«Se è di San Giuseppe Jato,» aveva pensato, «stasera me la vendo al Club Paradise

Non si era sbagliato! Era Balduccio Di Maggio.

E non era finita. Nel corso del processo del secolo, così era stato definito, il Di Maggio denunziava un tentativo di corruzione, per svariati miliardi, finalizzato alla ritrattazione di quanto dichiarato a proposito del bacio di Andreotti. E chi era il sedicente corruttore?

L'ex Sindaco di San Giuseppe Jato, Baldassare Migliore.

Sempre nel corso del processo veniva organizzato un falso complotto ai danni di Andreotti: Giovanni Brusca avrebbe dovuto dichiarare di avere raggiunto un accordo con Luciano Violante, poi Presidente della Camera, per incastrare Andreotti. Il Brusca, nel frattempo pentito, non aveva mai messo in atto il progetto. Chi invece aveva sparso ai quattro venti il falso complotto, presentandolo per vero e creando più che uno scoop un putiferio, era stato un avvocato di San Giuseppe Jato: Vito Ganci.

Certo tali notizie erano da prendere con le pinze.

«E chi se ne frega!» Pensò il Principe. «Gli autori sempre di San Giuseppe Jato sono!»

 

Non solo Andreotti e San Giuseppe: anche Marco Minghetti, Benito Mussolini e Vittorio Emanuele Orlando

 

«Chi l'avrebbe mai immaginato» pensò il Principe poco dopo «che il centro da me fondato avrebbe avuto a che fare per la terza volta con un Presidente del Consiglio! Almeno alla luce del sole.»

Oltre un secolo prima, subito dopo l'Unità d'Italia, un altro grande Presidente del Consiglio, Marco Minghetti, a San Giuseppe Jato ci si era addirittura sposato, impalmando la mortillara - così erano denominati anticamente gli abitanti di San Giuseppe li Mortilli - donna Laura Beccadelli Acton di casa Camporeale. All'epoca, grande era stato il giubilo dei mortillari - oggi jatini - per un sì grande onore, tanto che una delle principali vie del paese era stata poi intitolata al grande statista. E, come risulta dal carteggio presso l'Archivio Storico Diocesano di Monreale, notevole era stato anche l'attaccamento e la riconoscenza degli jatini a donna Laura la quale, pur tra i numerosi impegni mondani della Capitale, aveva sempre continuato a occuparsi e preoccuparsi dei bisogni dei suoi concittadini e, soprattutto, concittadine. In verità, in casa Camporeale, quello era stato un matrimonio alquanto contrastato: una famiglia del passato regime borbonico non poteva unirsi al principale rappresentante del nuovo Governo usurpatore. Poi però erano prevalse le logiche di sopravvivenza. La famiglia Beccadelli, dagli Aragonesi in poi, sfruttando il momento giusto si era sempre trovata al posto giusto. Non poteva lasciarsi sfuggire la ghiotta occasione. E così quella sofferta decisione aveva contemporaneamente determinato la celebrazione di due sacramenti: il matrimonio di donna Laura e il battesimo del passaggio di casa Camporeale al nuovo regime dei Savoia.

Un altro Presidente del Consiglio risultava ufficialmente legato a San Giuseppe Jato: il Presidente dei Presidenti S.E. Benito Mussolini. Il 6 maggio 1924 si trovava a Piana degli Albanesi alla testa di un lungo corteo. Accanto a Benito, nella macchina presidenziale, don Ciccino Cuccia - sindaco di Piana e capo indiscusso della locale consorteria mafiosa - sussurrava una frase poi consegnata alla storia:

 

Voscenza, signor Capitano - così aveva chiamato familiarmente Benito - Lei è con mia, è sotto la mia protezione. Che bisogno aveva di portare tanti sbirri?

 

Don Ciccino era strettissimo amico di don Santino Termini, Sindaco di San Giuseppe Jato. Ma quel grande onore di cui aveva goduto don Ciccino era stato l'elemento scatenante, malgrado l'amicizia, l'invidia del Termini. Certo! Benito sempre amico di un amico era! Ma per don Santo non era stato sufficiente. Messi da parte i propri trascorsi liberali, popolari e di altri partiti dei quali non ebbe il tempo di ricordarsi, iscritto un solo punto all'ordine del giorno e riunito, in seduta straordinaria, il Consiglio Comunale, conferiva la cittadinanza onoraria al Duce[5]. Alla seduta 9 consiglieri su 20, in parte militanti del fascio, risultavano assenti. Per quasi tutti gli unanimi il conferimento della cittadinanza onoraria al Capo del Governo non era stato però sufficiente, alcuni mesi dopo, ad evitare il soggiorno nelle patrie galere con l'accusa di mafia, assassini e ruberie varie, assieme a circa 150 elementi di San Giuseppe Jato e San Cipirello. In ogni caso Mussolini rimase sempre grato per tale riconoscimento che lo poneva sullo stesso piano di un altro cittadino onorario qual era il prof. on. Giuseppe Caronia, scienziato, e successivamente, ma questo non poteva saperlo, dell'archeologo prof. Hans Peter Isler, Direttore della Facoltà di Archeologia dell'Università di Zurigo e degli scavi dell'antica Jato e dell'ex Procuratore della Repubblica di Palermo dott. Giancarlo Caselli. E la gratitudine ebbe a manifestarla, in maniera concreta, alle ore 15.30 del 27 maggio 1927 in un famoso discorso alla Camera, poi pubblicato su due grandi manifesti fatti affiggere in tutte le piazze d'Italia. Nell'elencare uno per uno i comuni del palermitano dove maggiore era la presenza della mafia - Corleone, Piana dei Greci, Santa Cristina Gela, Parco, Termini Imerese, Belmonte, Mezzoiuso, Bisacquino, Chiusa Sclafani, Contessa Entellina, Campofiorito, Casteldaccia, Baucina, Ventimiglia, Bagheria, Ficarazzi, Villabate, Santa Flavia, Roccamena - tralasciava di citare la sua città onoraria San Giuseppe Jato. E dire che per numero di arresti, di diffidati, di delitti commessi, il comune jatino risultava il primo tra quelli elencati. All'occasione fruivano della gratitudine del Capo del Governo anche i limitrofi San Cipirello, Partinico e Borgetto che, in fatto di mafia, costituivano un gruppo inscindibile con San Giuseppe Jato.

C'era un altro Presidente del Consiglio che, quasi certamente, aveva avuto legami diretti con i due comuni jatini: S.E. l'on. prof. Vittorio Emanuele Orlando. Il Principe si trovò nel dubbio se annoverarlo in questa sorta di albo d'oro. Sì! C'era tanta gente che giurava di averlo visto diverse volte a schiticchiari, mangiando castrato e salsiccia, assieme ai componenti dell'amministrazione comunale poi tutti arrestati. Ma si trattava di fatti non documentati anche se, sulla attendibilità delle persone, si poteva mettere la mano sul fuoco senza il rischio di far la fine di Muzio Scevola. In verità trovò un documento, diciamo ufficiale, che lasciava supporre l'attendibilità delle dichiarazioni: una delibera del 5 febbraio 1921, proposta dal sindaco Santo Termini, relativa alla realizzazione della linea ferrata. Così concludeva:

 

Il Consiglio Comunale delibera di chiedere a S.E. il prof. V.E.Orlando, on. Giovanni Lo Monte, on. Nicolò Zito, S.E. Lanza di Trabia, cui a cuore stanno i bisogni di questa cittadinanza, perché spieghino vivamente il loro autorevole interessamento presso il Governo del Re.

 

Il Principe, per capirci meglio, fece allora un ragionamento alla fimminina, semplice ed efficace:

- l'Amministrazione di Santo Termini era qualificata mafiosa.

- l'on. prof. V.E. Orlando doveva alla mafia buona parte delle sue fortune elettorali.

- l'on. Giovanni Lo Monte era appoggiato dai mafiosi Cassini di Contessa Entellina; era legato alla mafia di San Cipirello; risultava, negli archivi della polizia, che nel 1911 aveva organizzato una rapina sul vagone postale del treno nella tratta Vita - Salemi assieme a Termini Santo di San Giuseppe Jato e Todaro Vito di San Cipirello.

- l'on. Nicolò Zito, un vecchio notabile proprietario di agrumeti a Palermo Mezzomonreale, era appoggiato dal mafioso don Vito Cascio Ferro di Bisacquino. Quest'ultimo, a sua volta, era ritenuto responsabile dell'assassinio del tenente Joe Petrosino, avvenuto nel 1909. Era stato però scagionato dalla dichiarazione di un deputato: all'ora del delitto il Cascio Ferro si trovava a cenare a casa sua.

- S.E. Lanza di Trabia apparteneva alla famiglia che aveva concesso al mafioso Giuseppe Genco Russo, responsabile di una cooperativa di pastori, l'ex feudo Malpertugio e l'ex feudo Polizzello di circa 2000 ettari.

Trovò che tutti i personaggi citati avevano in comune la parola mafia, e poté concludere:

«Anche i mafiosi mangiano.» Aggiungendo poi: «coi Presidenti del Consiglio!»

 

Un noto anonimo degli anni '90. Vip

 

Continuando a navigare sui siti Web mafiosi venne pure a conoscenza di un fatto abbastanza singolare che, all'epoca, aveva subito fatto il giro delle redazioni dei giornali. Agli inizi degli anni novanta un anonimo, si opinava trattarsi di un addetto ai lavori, aveva messo in giro una serie di previsioni che, a distanza anche notevole di tempo, si sarebbero rivelate di una esattezza sconcertante: roba da fare innervosire persino il Padreterno il quale, nella nobile arte di prevedere il futuro, riteneva di avere l'esclusiva. Era riportato l'imminente arresto, meglio la consegna spontanea, di Riina; si parlava minuziosamente degli attuali (di allora) assetti del potere; ma soprattutto veniva tracciato, minuziosamente e su vasta scala, un nuovo organigramma del potere politico e criminale per gli anni successivi: ministri che sarebbero caduti in disgrazia, deputati che sarebbero divenuti ministri, boss che sarebbero emersi, altri che sarebbero stati messi a riposo, alcuni in quello eterno altri - sarebbe stata la prima volta - in pensione. L'anonimo poi precisava che il nuovo organigramma non era il parto delle sue logiche deduzioni; era invece il risultato di estenuanti trattative tra le parti interessate. Fatte dove?

«Vuoi vedere…» pensò il Principe.

Sì. Proprio lì. A San Giuseppe Jato.

Tra i personaggi reperiti su Internet, degno di citazione sembrò al Principe anche l'on. Insalaco.

Giuseppe Insalaco a San Giuseppe Jato c'era nato e ci si era anche sposato. Negli anni '60, poco più che ventenne, era stato un enfant prodige della politica locale. In quegli anni svolgeva le mansioni di segretario particolare dell'on. Franco Restivo, professore universitario, grande proprietario terriero nell'area belicina, ex presidente della Regione e vice-presidente della Camera. L'on. Restivo, o il Presidente com'era chiamato, aveva fatto il grande salto come Ministro degli Interni e, successivamente, della Difesa: due ministeri chiave, specie quello degli Interni, nel proprio collegio elettorale. A San Giuseppe Jato e San Cipirello non v'era elezione in cui il primo degli eletti non fosse il candidato di Insalaco. E se il secondo racimolava più della metà delle preferenze rispetto a quelle del Presidente allora la parola più pronunciata, tra gli intristiti sostenitori restiviani, risultava debacle: il cui significato, ai più, era sconosciuto. Tutti, nei due comuni jatini, ricordavano le lunghe code di individui, delle più variegate estrazioni sociali, presso la segreteria particolare di via Dante n. 55 a Palermo. Tanti erano stati gli jatini che, grazie al suo interessamento, avevano risolto l'endemico problema del lavoro con accesso, per chiamata diretta, presso la pubblica amministrazione. Poi Pippo, così era chiamato indistintamente da tutti, faceva il grande salto a deputato regionale e, successivamente, a Sindaco di Palermo. E, continuando a fare salti, ci aveva pure rimesso la pelle. Anche allora si era a conoscenza che due potevano essere i risultati dei grandi saltatori: o campioni mondiali o guaribili in una trentina di giorni salvo ricovero al cimitero. Che l'avesse assassinato la mafia non c'erano dubbi. Nessuno, però, era mai riuscito a capire su quale fronte fosse caduto. Nel tentativo di darsi una risposta il Principe non poté far altro che utilizzare il metodo semiprobabilistico: in genere il 99% degli assassinati faceva parte, su avversi fronti, della stessa organizzazione mafiosa. Poi c'era l'1%. Ma rimase sempre nel dubbio.

 

A proposito di sindaci trovò pure che il padre del Sindaco di Milano, Paolo Pillitteri, a sua volta cognato di Bettino Craxi, era di San Giuseppe Jato.

Quello degli anni settanta-ottanta era stato un periodo particolare. Sembrava che in Italia nessuno potesse accedere alle stanze del potere politico ed economico se nel DNA non avesse un qualcosa che lo legasse alla Sicilia.

Craxi, ad esempio, era originario del messinese.

Enrico Cuccia era siciliano. Non v'era Cuccia al mondo le cui origini non risalissero al limitrofo Comune di Piana degli Albanesi. La presenza dei Cuccia a Piana, documenti alla mano, risaliva alla fondazione della città nel XV secolo. Di Cuccia a Piana ce n'era un quarto di paese e di tutti i colori: ricchi, poveri, di sinistra, di destra, mafiosi e poliziotti.

Michele Sindona il plurititolato: banchiere di Dio, salvatore della lira. Titoli che, in occasione del noto fallimento, erano stati sintetizzati nell'unico di cui in carcere potesse ancora gloriarsi: bancarottiere siculo. Michele Sindona era nato a Patti, si era girato il mondo ma, chissà per quale motivo, una parte della convalescenza - dopo un colpo di lupara alla gamba in un finto sequestro - aveva preferito trascorrerla all'aria tersa e limpida del territorio jatino. Così almeno sembrava assicurare Anciluzzo Siino di San Giuseppe Jato nelle sue dichiarazioni come collaboratore di giustizia. Chi mai avrebbe poi immaginato che don Michele, carico di lauree honoris causa, sarebbe morto d'ignoranza!?

«Dottore Sindona!» Gli avevano proposto in carcere, «lo gradirebbe un caffè corretto all'asparìno

«Sì, grazie, con vero piacere!» Aveva risposto don Michele convinto che l'asparìno, detto in minuscolo, fosse un concentrato di asparagi e rosmarino: roba di cui andava matto. Si era sbagliato. Sapeva che Pisciotta nel '54 in carcere aveva gradito un caffè corretto alla stricnina, sapeva che all'anagrafe era registrato col nome di Gaspare, ignorava però che amici e conoscenti lo avevano sempre affettuosamente chiamato Asparìno!

Roberto Calvi non aveva legami con la Sicilia ma gli erano stati procurati da un gruppo di killers di Altofonte, un comune dipendente dal mandamento (mafioso) di San Giuseppe Jato: con l'utilizzo di robuste liàmi era stato legato e suicidato sotto il ponte dei Frati Neri a Londra.

Uno che aveva rischiato di interrompere una brillante carriera per mancanza di origini sicule era stato l'on. Claudio Martelli, allora delfino del poi divenuto extracomunitario Bettino Craxi. In occasione delle elezioni nazionali del 1987 era stata proposta la sua candidatura nel Collegio della Sicilia Occidentale. Malgrado fossero state assoldate alcune squadre di topi d'archivio non era stato reperito uno straccio di documento che potesse far supporre un legame, anche lontano nel tempo, del Martelli con l'isola. Il responsabile delle squadre di topi era stato lapidario:

«Qui,» aveva detto sicuro «continuando la ricerca indietro nel tempo, andiamo a finire dritti dritti ad Adamo ed Eva!»

«E non è sufficiente?!» Aveva esclamato uno degli interlocutori convinto che il sito del Paradiso Terrestre fosse stato la Sicilia.

«Non basta.» Gli avevano risposto in coro gli altri interlocutori. «In questo modo tutti siciliani sono!»

Il Martelli allora, sceso in Sicilia, si adoperava tentando l'impossibile. Rovistando con impegno nel proprio passato trovava la soluzione. Riuniva gli interlocutori e, con una oratoria forte e appassionata ma anche ragionata, riusciva ad ammorbidire i loro cuori e a illuminarne le menti. Nel corso dell'intervento alcuni termini quali onore, amicizia, silenzio erano stati utilizzati a tinchitè incastonati in alcune espressioni di notevole effetto attraverso l'utilizzo sporadico di vocaboli siculi appresi nottetempo. Concludeva con orgoglio:

«Da tempi immemorabili, nel cuore, siciliano sempre sono stato! La sofferenza per l'impossibilità di ostentare la sicilitudine repressa mi è stata compagna nel corso degli anni. Paragonati al mio patologico pathos i Dolori del giovine Werther erano palìchi. Ora nel momento più importante e delicato della mia travagliata esistenza mi rivolgo a voi, uomini che nell'onore avete riposto il senso e lo scopo della vostra vita, perché possa essere annoverato ed iscritto negli elenchi del nobile popolo siciliano!» Poi precisava:

«In ogni caso, se questo non dovesse bastare, ecco la prova certificata del mio sicilianesimo.»

Delicatamente poggiava sul tavolo un certificato dell'Ufficio Leva attestante che il soldato Claudio Martelli aveva prestato il servizio militare a Trapani.

«Pure all'interno del collegio elettorale!» Avevano pensato tutti.

A quel punto gli interlocutori, tutti assieme e all'unisono, profferivano:

«Che siciliani si nasce vero è; ma, in caso di necessità, pure si diventa!»

Era chiaro, considerate le premesse, che il Martelli avrebbe dovuto essere il primo degli eletti. Ed infatti lo fu. Anche a San Giuseppe Jato e San Cipirello. Peccato che poco dopo, divenuto prima Vice Presidente del Consiglio e successivamente Ministro di Grazia e Giustizia, procedeva a cancellarsi dall'elenco dei siculi. Colpa, si diceva, di un attentato nella sua villa di Roma tentato dai Ganci di San Giuseppe Jato[6]. E dire che, prima della trasferta sicula, gli era stato ricordato a chiare lettere:

«Claudio!» Gli avevano detto «ti consigliamo di non fare promesse. Ma se dovessi farle o capisci che laggiù capiscono che tu gliele hai fatte, mantienile! Tieni pure presente che a volte capiscono che tu hai capito ciò che in realtà non hai capito. Stai attento che in Sicilia in fatto di impegni politici un si cugghiunìa e ci po' puru scappari 'u mortu

Si racconta che Martelli, appena a conoscenza dei rudimenti del dialetto, in occasione dell'attentato, si era espresso in siciliano perfetto:

«Minchia!!!» Aveva detto «ora puru 'u chiummu accuminciò a circolari?»

Mai, come in quel momento, aveva tanto desiderato di sentirsi italiano. E un vero italiano divenne. In Sicilia non solo non fu mai più rivisto ma della parentesi sicula cercò pure di cancellarne il ricordo.[7]

 

Portella della Ginestra

 

Un toponimo che ricorreva spesso nell'ambito dei siti Web mafiosi era Portella della Ginestra.

Il Principe conosceva bene quel luogo a un tiro di lupara dalla sua proprietà. Situato a circa tre miglia da San Giuseppe Jato era il passaggio obbligato per chi voleva recarsi a Piana degli Albanesi, allora denominata dei Greci. Utilizzando il toponimo come filtro ottenne un gran numero di pagine Web che gli consentirono di farsi un'idea sul perché della fama. A Portella era stata consumata una strage il 1° maggio 1947. Ufficialmente, almeno dalla lettura del verdetto dei Giudici della Corte di Viterbo, risultava che a sparare su una folla di contadini, inermi e in festa, erano stati solo ed esclusivamente i componenti di una banda di briganti che, guidata da Salvatore Giuliano, scorazzava sul territorio. Giuliano era di Montelepre ma - notò di sfuggita il Principe - aveva iniziato la sua fulminante carriera criminale a San Giuseppe Jato assassinando, il 2 settembre 1943, il carabiniere Antonio Mancino. Dalla lettura, invece, di quanto trovò attraverso Internet, sui media, nelle biblioteche e negli archivi, il Principe trasse la conclusione che doveva trattarsi di un autentico manicomio. A seconda delle correnti di pensiero i motivi e i mandanti della carneficina andavano ricercati in:

- una risposta, di sapore vendicativo, alla vittoria delle sinistre del Blocco del Popolo nelle prime elezioni regionali del 20 aprile 1947, organizzata da alcuni partiti (monarchico soprattutto);

- un'azione propedeutica, disposta dal Ministro degli Interni Scelba di concerto con gli americani, tendente a preparare il campo per le elezioni nazionali del 18 aprile 1948;

- un'azione dimostrativa dei gabelloti, quasi tutti mafiosi, del territorio che nelle organizzazioni cooperativistiche locali trovavano delle agguerritissime concorrenti nell'affitto (o gabella) dei feudi;

- un'azione dimostrativa degli agrari preoccupati dalle recenti occupazioni delle terre;

- una vendetta personale di Giuliano.

- un'azione combinata di parte o di tutte le precedenti.

Quanto agli esecutori materiali della strage notò che quasi nessuno si era bevuta la tesi risultante dagli accertamenti processuali che individuava nei componenti la banda Giuliano i soli responsabili dell'eccidio. A seconda delle diverse scuole di pensiero a sparare a Portella erano stati:

- solo i banditi;

- i banditi e i mafiosi;

- i banditi, i mafiosi e i servizi segreti italiani;

- i banditi, i mafiosi, i servizi segreti italiani e quelli americani;

- i banditi, i mafiosi, i servizi segreti italiani e quelli americani con l'ulteriore precisazione:

- i servizi segreti americani sapevano che a sparare assieme a loro c'erano: i servizi segreti italiani, i mafiosi e i banditi;

- i servizi segreti italiani erano certi della presenza dei mafiosi e dei banditi ma non lo erano della presenza dei servizi segreti americani;

- i mafiosi sapevano che c'erano i banditi, ma non sapevano che c'erano pure i servizi segreti italiani e americani;

- i banditi non sapevano che a sparare assieme a loro c'erano i mafiosi, i servizi segreti italiani e quelli americani. Per personale constatazione erano solo certi di esserci e null'altro.

«Un casino!» esclamò il Principe «E chi ci va dietro?!».

Era quasi deciso a passare oltre. Poi, però, la curiosità di verificare se i suoi concittadini avessero o meno preso parte ad una tale impresa ebbe il sopravvento. Notò intanto che, nella strage, almeno sei jatini ci avevano lasciato la pelle. Poi trovò che al processo di Viterbo si era molto dibattuto sull'esistenza di una lettera consegnata a Salvatore Giuliano tre giorni prima della strage. In quella sede era stato sostenuto che la lettera aveva dato il via ai preparativi per l'eccidio perché Giuliano, dopo averla letta, aveva detto a Giovanni Genovese suo compagno fidato: «E' venuta l'ora della nostra liberazione!» Poi, forse, l'aveva bruciata.

Sulla provenienza della lettera c'erano state diverse precisazioni: Asparìno Pisciotta il 15 gennaio 1951 aveva dichiarato testualmente

 

…che il Giuliano recentemente, e circa un anno addietro, parlando di tale lettera mi disse che questa gli era stata inviata dal Ministro Scelba a mezzo di un deputato di cui Giuliano non mi fece il nome.

 

La madre di Giuliano, Maria Lombardo, il 25 maggio 1951 confermava l'esistenza della lettera ma dichiarava che proveniva dall'America. Sia la Lombardo che il Genovese erano però concordi nell'indicare il latore della lettera nella persona di Pasquale Sciortino di San Cipirello marito di Mariannina, sorella di Giuliano.

«E chistu è 'u primu!» disse il Principe. Poi cercò di conoscere il personaggio attraverso la lettura di un recente volume[8]. In carcere, nell'attesa di scontare i 26 anni della condanna definitiva, Sciortino aveva trovato il tempo di diplomarsi geometra e successivamente di conseguire la laurea in Agraria scrivendo, contemporaneamente, libri di carattere autobiografico, oltre ad una Storia di Salvatore Giuliano precisando, in retro copertina, che si trattava di suo cognato.

«Mah!» si chiese il Principe «questo Sciortino era un bandito, un mafioso o tutte e due le cose?»

Pier Paolo Pasolini aveva asserito trattarsi di un mafioso. Lo scrittore, nel suo Scritti corsari, aveva fatto una lucida analisi del linguaggio di Sciortino nel volume Zagare, arance e limoni concludendo che, per mentalità, era un mafioso. Anche i Giudici della Corte d'Appello di Roma nella sentenza del 10 agosto 1956 lo avevano definito

 

essenzialmente un mafioso e che esprimeva nella banda gli interessi della mafia e di quel ceto agrario cui apparteneva.

 

Il Principe alla fine rimase nel dubbio su che cosa fosse effettivamente lo Sciortino. Un mafioso? Un bandito? Un illuso? Contemporaneamente mafioso, bandito e illuso? Uno a cui era andato tutto storto? Una cosa era certa: alla fine non gli era rimasto nulla del pur notevole patrimonio del nonno.

«Mah!» Tagliò corto il Principe «sarà stato tutto e niente nello stesso tempo! Di tipi come lui, ogni tanto, se ne incontrano. E' pure probabile che neppure lui sapesse cosa fosse!». E chiuse l'argomento.

Sempre alla ricerca di elementi jatini che avevano partecipato all'impresa di Portella trovò poi una relazione[9] del Questore di Palermo Filippo Cosenza dell'8 maggio 1947 da cui si evinceva che tre individui di San Giuseppe Jato Troia, Romano e Marinotto erano probabilmente tra i responsabili della strage.

Leggendo negli Archivi del Fondo Polizia il Principe trovò pure che Troia, Romano e Marinotto, che in realtà si chiamava Marino, non appartenevano alla banda Giuliano: erano schedati come mafiosi appartenenti alla mafia di San Giuseppe Jato. Il Troia Giuseppe e il Marino Elia, in particolare, con un curriculum che affondava le radici nel periodo anteriore l'avvento del Fascismo. Poi notò che tali individui non erano i soli mafiosi presenti a Portella, naturalmente a sparare. Andrea Borruso di anni 19 da San Giuseppe Jato, ad esempio, aveva visto e, subito dopo denunziato, "Benedetto 'Troia' il quale armato di un fucile mitra sparava continue raffiche". C'erano altri testimoni che dichiaravano la presenza delle persone citate: Alvaro Scaduto di 13 anni, Menna Faraci di 18 anni. I soggetti, subito arrestati, trovavano diversi testimoni pronti a dichiarare di averli visti, all'ora della sparatoria, a San Giuseppe Jato. Inoltre in loro ausilio scendeva in campo la locale sezione della Democrazia Cristiana. Il 25 luglio 1947 in un Memoriale della sezione del Partito Democratico Cristiano di San Giuseppe Jato inviato al Procuratore della Repubblica, il segretario, Siviglia, faceva notare

 

…gli alibi incontrovertibili presentati dai quattro suoi concittadini, convalidati da numerose testimonianze degne della maggior fede ed attendibilità nonché l'impossibilità materiale della contemporanea loro presenza in due luoghi diversi e pertanto sollecitava l'acceleramento dell'istruttoria per il conseguente rilascio dei quattro poveri innocenti.

 

Gli indiziati venivano in seguito rilasciati per l'impossibilità, da parte del Giudice Istruttore, di interrogare i principali testimoni. Il Cusimano perché, prelevato da non precisate autorità, era stato portato a Palermo e da allora - fa scrivere a verbale la madre Anna Guzzetta - non l'ho più visto né so dove si trovi. Il Borruso dietro invito di un'autorità era stato anch'esso portato a Palermo e di lui - fa verbalizzare la madre Giuseppa Bono il 3 giugno 1947 - non ho più notizie.

Il Principe scorrendo la relazione del questore Cusenza stralciò poi alcuni passi relativi ad una informativa dei Carabinieri di San Cipirello[10].

Sul sito della Biblioteca Regionale di Palermo consultò il Giornale di Sicilia del 02 maggio 1947, giorno successivo a quello della strage, e rimase particolarmente colpito da un passo della cronaca:

 

Un po’ più a valle intanto, due ragazzetti venuti giù da San Cipirello, bighellonavano in riva al lago; cercavan fave e volevan forse fare un bagno. Ma c’era parecchia gente in giro, affaccendata, che non voleva importuni tra i piedi; poi venne un grosso camion rosso con a bordo cinque o sei figuri e si cacciò nella galleria presso il lago...dall’altro lato, s’era ai piedi di Monte Pizzuto, d’onde s’organizzava l’agguato. I ragazzi guardavano un poco e poi tiravan diritto, abituati ad essere poco curiosi...poi cercavan fave...ad un tratto un sussurrò piano qualcosa all’altro; e si nascosero; passava, carponi, un tizio con su le spalle un’arma grossa, che avevan visto di rado in giro, pur in questi tempi larghi di esibizioni del genere...a fatica s’è riuscito a capir poi, che si trattava di una mitragliatrice pesante, del tipo in uso nel nostro esercito. I ragazzi rimasero un attimo senza respiro, poi pensarono di raggiungere la comitiva; ché quel luogo era poco rassicurante per troppi sintomi...

 

Il Principe, dopo brevi ricerche, notò che nessuna autorità giudiziaria aveva mai chiamato a testimoniare i due ragazzi di San Cipirello. Eppure la loro dichiarazione poteva risultare molto importante:

- poteva essere la prova che si sparava sulla folla anche dal lato opposto a quello da cui sparavano i componenti della banda Giuliano;

- poteva essere spiegata la provenienza di alcuni proiettili, trovati addosso ad alcuni feriti, che certamente non provenivano dalle armi dei banditi posizionati sotto il Pelavet (dal giornalista impropriamente chiamato Pizzuto);

- poteva pure scoprirsi chi era il proprietario del camion rosso: in paese ne esisteva, a quanto pare, solamente uno ed apparteneva ad un nipote del capo mafia di San Cipirello Salvatore Celeste.

«Boh!» Esclamò il Principe. «Ed era scritto sul giornale locale!» Ma non si meravigliò più di tanto. Pensò che non fosse cambiato nulla rispetto agli ultimi tempi della sua vita terrena quando le forze dell'ordine - le Compagnie d'Armi - non leggevano i giornali per il semplice fatto che non sapevano leggere.

 

Anno 1999. "Non c'è nulla di male a essere mafiosi!"

 

Si era allontanato un po' troppo indietro nel tempo. Cercò allora di navigare alla ricerca di notizie più recenti e digitò ancora una volta San Giuseppe Jato. Lesse all'indirizzo

 

http://www.gds.it/archivio/searchreg.html[11]

 

"Chiodo svela i piani di Brusca: Voleva morti quei due sindaci.

I due sbirri e comunisti dovevano morire come coloro che le cosche intendono punire col massimo della pena: dovevano essere inghiottiti dalla lupara bianca. Una fine terribile era stata progettata dai Brusca di San Giuseppe Jato per il sindaco del paese, Maria Maniscalco , e per il marito, Domenico Giannopolo, primo cittadino di Caltavuturo, anche lui, come la moglie, esponente del Pds: gli uomini dei boss avrebbero dovuto rapirli e non farli ritrovare mai più, probabilmente sciogliendoli nell'acido; la stessa fine riservata al piccolo Giuseppe Di Matteo. A raccontare questo progetto di morte è stato, ieri pomeriggio, al processo per gli attentati agli amministratori progressisti, il collaboratore di giustizia Vincenzo Chiodo, ex fedelissimo di Brusca, uno degli assassini confessi (e liberi) del figlio del collaborante Santino 'Mezzanasca' Di Matteo. L'episodio descritto da Chiodo, sentito in videoconferenza, è inedito…Ieri Chiodo ha sgombrato il campo dagli equivoci. Rispondendo alle domande del pubblico ministero Franca Imbergamo e dell'avvocato Vincenzo Gervasi, che tutela, come parte civile, il Comune di San Giuseppe Jato, il collaborante ha detto con chiarezza che la Maniscalco era nel mirino: La strategia - ha detto l'ex mafioso - era di isolarla, intimidendo tutte le persone che le erano vicine. Volevamo fare terra bruciata attorno a lei, senza colpirla in modo diretto. Ma prima c'era stato un periodo, attorno al '93-'94, in cui era stata decisa una soluzione finale. La Maniscalco, sbirra e comunista, la definisce Chiodo riferendo le parole che avrebbe usato Giovanni Brusca, aveva vinto le elezioni, battendo il candidato che le cosche avrebbero portato. Da quel momento il sindaco entrò nel mirino: Enzo Brusca - prosegue Chiodo - mi disse che dovevamo ammazzare lei e il marito. Mi disse che avrebbero voluto fare sparire tutti e due. Chiodo non sa perché il progetto non venne portato a compimento. Il collaborante ha poi parlato della strategia complessiva dell'organizzazione, che intendeva scoraggiare le iniziative antimafia, attraverso una serie innumerevole di atti di intimidazione: incendi, danneggiamenti di automobili, attentati alle abitazioni di campagna. Cose che comportavano danni che in sè e per sè erano di modesta entità, ma che creavano grossi problemi economici a chi li subiva ed era costretto a ripararli a proprie spese. Una filosofia, questa, spiegata dallo stesso Enzo Brusca durante le indagini: A un cristianu, si cì tocchi 'a sacchetta, allura sè, ca ci fai dannu."

 

E in

 

http://www.mafianews.net

 

03 settembre 1999 - San Giuseppe Jato (PA). Un sondaggio rivela: Non c'è nulla di male a essere mafiosi…

Ad esprimere questa convinzione sono il 61 per cento degli abitanti del paese del palermitano che ha dato i natali ai Brusca, ma anche al sindaco antimafia Maria Maniscalco. Più della metà della popolazione, secondo un sondaggio realizzato dalla Servizi Italia per conto dell'arcidiocesi di Monreale, retta dal vescovo Pio Vigo, non nasconde di non avere alcuna remora contro i mafiosi. L'indagine è stata condotta su un campione di 1.200 persone dai 15 anni in su, con un questionario di 34 domande realizzato dalle Università Cattolica di Milano e di Palermo.

 

Alla lettura di notizie del genere il Principe pensò che non c'era nulla da pensare ed infatti non pensò nulla. Dopo un po', rimessosi a pensare, pensò che era venuto il momento di riposarsi. Sarebbe anche servito a scollegarsi da Internet e liberare la linea telefonica per eventuali chiamate. Certo il Padreterno avrebbe potuto fare un ulteriore sforzo e munirli di linea ISDN!

Sistemò ben bene la nuvola, vi si distese lungo lungo, ordinò, al Bar Paradise, un the per il pomeriggio, compì l'atto di spegnere la luce e chiuse gli occhi.

Si era appena addormentato quando, improvvisamente, venne svegliato da urla di disperazione, pianti, minacce, bestemmie e imprecazioni varie. Provenivano da un'astronave russa che, in quel momento, transitava nei paraggi. Da Mosca, qualche istante prima, avevano comunicato a quei disgraziati la totale mancanza di fondi per le operazioni di ritorno sulla Terra nonché le istruzioni da seguire:

"Vykrucivajtes!!!" (Arrangiatevi!!!) Lampeggiava il monitor di bordo.

 Per fortuna l'astronave, continuando le rivoluzioni attorno al globo, si era subito allontanata.

Quella pur breve interruzione era stata però sufficiente a fargli perdere il sonno e a riportarlo con la mente alla sua San Giuseppe Jato. Erano tante le domande che si poneva e alle quali non riusciva a dare una risposta: ma cos'era veramente la mafia? Pur operando tutti nel settore della violenza perché alcuni erano chiamati mafiosi mentre altri seguitavano a mantenere la qualifica di banditi, briganti, ladri, etc.? E poi: perché San Giuseppe Jato era, in fatto di mafia, tanto importante? Si trattava di un fenomeno recente? Si era reso conto che le informazioni di cui era in possesso erano insufficienti per abbozzare una benché minima spiegazione. Era necessario acquisire altri elementi.

 

Anno 1926. On. Rocco Balsano: "Se un comune in Sicilia vi era dove la maffia era onnipotente era proprio quello di San Giuseppe Jato."

 

Si collegò allora all'Archivio di Stato di Palermo e trovò, in un verbale d'interrogatorio[12], un'affermazione che avrebbe dato il via ad ulteriori approfondimenti:

 

Per ragioni del mandato politico ho per molti anni avuto a che fare con i cittadini del Comune di San Giuseppe Jato e per essere più preciso sin dal 1909 allorché contrapposi la mia candidatura a quella dell’on. Masi potei conoscere l’ambiente. In quel comune sin da quell’epoca i capi della maffia avevano assunto il potere amministrativo ed annidati nell’amministrazione vi spadroneggiavano dilapidando il denaro pubblico e commettendo ogni sorta di delitti.

Se un comune in Sicilia vi era dove la maffia era onnipotente era proprio quello di San Giuseppe Jato.

Sulle elezioni politiche del 1919 il Mineo Salvatore sostenne la mia candidatura, come l’aveva sostenuta in passato contro quella dell’avv. Francesco Orlando fratello del Ministro del tempo, che era appoggiata dai componenti l’amministrazione comunale capeggiata dal famoso Ninu 'u latru cioè Pulejo Antonino. Il gruppo dei facinorosi si manteneva al potere per la protezione che aveva da parte del Governo, quindi dalle autorità, contro la volontà di quasi tutta la cittadinanza composta di uomini onesti che per timore di vendette subivano la situazione… Palermo 5 gennaio 1927. Letto, confermato e sottoscritto. Firmato: on. Rocco Balsano           il Giudice: Triolo

 

«Finalmente!» Esclamò il Principe. «Questo sì che si chiama parlar chiaro!» Poi continuò:

«Rocco Balsano! E cu è

Non ci volle molto a trovare la risposta:

 

On. Rocco Balsano fu Calcedonio nato a Porto Empedocle nel 1863. Avvocato. Sindaco di Monreale a 21 anni. Consigliere provinciale a Palermo per circa trent'anni. Deputato al Parlamento dalla XXIII alla XXV legislatura.

 

«Sarà stato,» pensò il Principe, «uno di quei deputati oppositori di governi violenti e corrotti che trovava credito e consensi elettorali presso le masse di contadini diseredati.»

Ma quando mai! Aveva sbagliato tutto. Si rese subito conto, attraverso le notizie che scorrevano sul monitor, di avere commesso un macroscopico errore di valutazione. In realtà l'on. Balsano i consensi elettorali li trovava, eccome! Era il credito presso le masse che non trovava. Si accorse infatti che il Balsano non solo era ritenuto il più famoso procacciatore di porto d'armi per mafiosi e malavitosi di tutta la Sicilia Occidentale ma rappresentava soprattutto il principale riferimento, in Parlamento, della potentissima e sanguinaria cosca di Monreale detta la mafia degli stuppagghiari[13] contrapposta a quella degli scurmi fitusi.

«Minchia!!!» Pensò sottopensiero il Principe per eludere i controlli ambientali del Padreterno basati sull'intercettazione delle emissioni cerebrali. Poi continuò sottovoce:

«E se lo dice lui! Se un addetto ai lavori, come l'on. Balsano, afferma che la mafia di San Giuseppe Jato è la più potente - anzi onnipotente - della Sicilia, chi potrà mai contraddirlo?»

«San Giuseppe Jato» disse a quel punto con l'aria di chi stava per affermare una grande verità, utilizzando un barbarismo d'importazione nord-americana «è veru, veru 'mportanti!». «Very, very important!» così si esprimevano i numerosi jatalo-americani di ritorno da Nova Orlìn o da Nova Iocchi.

 

San Giuseppe nelle aspirazioni del Principe di Camporeale

 

Fare di San Giuseppe li Mortilli un centro famoso ed importante era stata, al momento della fondazione, una delle principali aspirazioni di don Giuseppe Beccadelli. All'epoca ciò che più lo aveva affascinato era stata la consapevolezza di passare alla storia. Ne aveva infatti tutti i motivi. Attraverso l'edificazione di San Giuseppe don Giuseppe entrava a far parte della ristretta elite dei fondatori di città: Romolo, Aceste, Entello, Eryx e pochissimi altri. E il Principe aveva cercato di fare del suo meglio nell'emulazione dei colleghi. Solo così può essere spiegata l'assegnazione del proprio nome al nuovo centro. Non era stato, come maliziosamente qualcuno aveva opinato, un atto di pura vanità. Era stata invece una precisa scelta determinata dal rispetto dei canoni dell'ideale Manuale del perfetto fondatore di città. Era Roma, tra le poche città che potevano vantare un fondatore, e soprattutto il Vaticano[14] ad esercitare su di lui un particolare fascino. Ma l'attaccamento del Principe al nuovo centro si era soprattutto manifestato nel 1792, all'atto della posa della prima pietra della Madrice: al momento della benedizione aveva deposto un diamante sotto le fondamenta. Peccato che tutto era poi franato l'11 marzo 1838! E chissà se una delle concause della frana non era da addebitare ai soliti ignoti alla ricerca del diamante sotto le fondazioni della chiesa! Certo, tra i campi in cui la sua creatura avrebbe dovuto eccellere non poteva, all'epoca, prevedere la mafia! Allora pensava all'arte, alla cultura, alle professioni e, perché no? Alla ricchezza: ottenuta, però, con metodi almeno semi-ortodossi. Invece la ricchezza c'era! Ma ottenuta come? Rubando a più non posso? Imponendo la tangente anche sulla retribuzione giornaliera degli operai? Assassinando le persone? Sciogliendo negli acidi perfino i bambini?

L'argomento mafia l'aveva molto avvilito e cercò di inventarsi qualcosa per risollevare lo spirito. Si ricordò allora che, ancor prima del collegamento a Internet, la notorietà di alcuni jatini era giunta sin nell'aldilà. Certamente la fama che avevano dato al proprio paese non era minimamente paragonabile a quella della mafia; pur tuttavia il ricordarli servì a bilanciare in parte il proprio orgoglio ritenuto offeso. E ricordò:

 

Luminari, professori, professionisti, mediatori, assicuratori, industrie conserviere e portuali, mulini e pastifici

 

- Il prof. Salvatore Riccobono di San Giuseppe Jato: Rettore dell'Università di Palermo che aveva insegnato a Londra e a Washington dove in suo onore era stato fondato il Riccobono Seminar of Roman Law. Di lui era stato scritto che

 

…era un maestro insigne del Diritto, critico profondo, pensatore, scrittore, scienziato, giurista, ammirato ed apprezzato in tutto il mondo intellettuale sia per la sua vastissima produzione di opere scientifico-giuridiche, come per la sua logica serrata.

 

Le sue opere più importanti erano state pubblicate in lingua tedesca e, tradotte in più lingue, avevano formato testo di studio in parecchie università del mondo, specialmente americane.

- Il prof. dott. Pietro Benigno di San Cipirello: direttore dell'Istituto di Farmacologia dell'Università di Padova e di Palermo, Preside della Facoltà di Medicina dell'Università di Palermo che aveva lavorato a Parigi presso l'Institut du Radium con I. Joliot Curie.

- L'on. prof. Giuseppe Caronia[15] di San Cipirello: medico e scienziato i cui studi del Kala-Azar avevano portato alla cura specifica di questa malattia molto diffusa nel bacino del Mediterraneo e nelle Indie

- Il dott. Antonino D'Alia di San Giuseppe Jato: grande diplomatico degl'inizi del secolo XX, Ambasciatore in Iugoslavia nel periodo dello scoppio della Prima Guerra Mondiale.

Poi volle anche ricordare alcuni che in vari settori, soprattutto dell'economia, in pochi lustri avevano dato lustro al proprio paese.

- Se il sen. don Paolo Beccadelli Acton, suo discendente, era stato uno dei più grossi produttori di vino in Sicilia, non meno importanti erano stati Antonio e Vincenzo Micciché di San Giuseppe Jato nel settore della commercializzazione del prodotto. Alla fine del secolo XIX in società con i tedeschi Hohenzollern risultavano i principali esportatori di vino italiano in Inghilterra.

- Don Nenè Castro di San Cipirello. Aveva scritto di lui Giuseppe Scarpace:

 

"agricoltore intelligente e appassionato, assertore convinto dello spezzettamento del latifondo, propugnatore della piccola e media proprietà. Acquistava, verso il 1922 dalla Regina di Spagna, Maria Cristina d'Austria, in quel di Ginosa (Taranto), assieme ad altri animosi agricoltori, una rilevante estensione di terreno improduttivo e malsano ove la malaria imperava incontrastata (circa 7500 ett.)" [16].

 

Il Principe si accorse che lo Scarpace aveva forse dimenticato a scrivere che don Nenè Castro, più che come agricoltore, era conosciuto come uno dei più grandi mediatori dell'epoca, specializzato nell'acquisto di vasti latifondi e nel successivo spezzettamento e lottizzazione. Lo Scarpace forse non sapeva che molti latifondi acquistati da don Nenè, sempre in compagnia di altri soci, si trovavano non in lontane lande deserte e abbandonate ma all'interno della città di Palermo. Ai tempi in cui scriveva Scarpace (1956) la locuzione speculazione edilizia non andava di moda ma la speculazione edilizia veniva regolarmente praticata. Uno di questi latifondi, ad esempio, era costituito dall'intero Parco d'Orleans dove veniva edificata l'attuale Città Universitaria. Poi lo Scarpace non si era accorto che i soci di don Nenè - gli intraprendenti e animosi agricoltori Domenico, Santo e Giovanni Pardo - nel 1926 erano stati tutti arrestati, assieme al fratello Vincenzo, con l'accusa di essere tra i capi della maffia di San Cipirello[17]. Lo Scarpace - segretario comunale di San Cipirello da trent'anni nel momento in cui scriveva - era stato il primo a passare ai posteri una storia di San Cipirello. Da buon sancipirellese - non lo era di origini ma si sentiva, dopo 30 anni, di esserlo diventato - aveva messo in risalto gli aspetti positivi della vita del paese. Aveva fatto un lavoro da certosino riportando le più minute notizie sul Comune sin dalla fondazione: sindaci, preti, segretari comunali, caduti in guerra, feste e sagre paesane. Aveva solo trascurato alcuni aspetti che probabilmente, a parer suo, non erano meritevoli di citazione: la mafia, il banditismo, Portella della Ginestra, i fasci siciliani, i morti ammazzati degli anni '20 e i contemporanei arricchimenti di tanti personaggi.

«Chissà!» Considerò il Principe «forse pensava di scrivere un altro libro che non ebbe mai il tempo di scrivere!». Poi passò a

- i Virga: gl'industriali pastai. Avevano iniziato i fratelli Pietro e Giuseppe Virga,

 

…probi e intraprendenti cittadini di San Cipirello creando un complesso industriale di rispettabile importanza sotto la Ditta P&G.Virga che comprendeva Molino - Pastificio e Distilleria di alcool delle vinacce.

 

Successivamente il grande salto:

 

…i figli Giovan Battista e Francesco del fu Pietro e Giovan Battista e Salvatore del fu Giuseppe, allargavano l'orizzonte della attività industriale, rilevando in proprio, or son diversi decenni, complessi industriali di primissimo piano nella città di Palermo, quali l'ex molino-pastificio Petix di Sant'Erasmo e l'ex Molino Pecoraino del Corso dei Mille.

 

Grande famiglia quella dei Virga! Quanti professionisti! Ingegneri, medici, avvocati! Tutti affermati e tutti grandi proprietari!

- Il Prof. Pietro Virga di San Cipirello: ordinario presso l'Università di Palermo prima di Istituzioni di Diritto Pubblico poi di Diritto Amministrativo. Sulle sue numerose pubblicazioni si erano preparate generazioni di studenti. Conosciuto in tutta Italia era stato un continuo e sicuro punto di riferimento per la Regione Siciliana nella difficile preparazione di numerose leggi e nella loro successiva interpretazione, soprattutto nel settore urbanistico. Vice Presidente della Commissione di Controllo di Palermo sin dal 1956 aveva rivestito la carica di Assessore ai Lavori Pubblici del Comune di Palermo dal 1953 al 1956. Un periodo quello particolarmente delicato: quando occorreva un freno allo scatenarsi di vari interessi sul Piano Regolatore Generale allora in itinere. E chi a Palermo meglio del prof. Virga, un luminare nelle discipline urbanistiche, poteva rivestire quella carica?

E poi quanti generi e parenti di generi di Virga anch'essi affermati! E a chi non era già affermato bastava affermare che non si fermava e subito si affermava!

- l'ing. Francesco Benigno, padre del poi Preside di Medicina prof. dott. Pietro Benigno, di San Cipirello

 

…che ha svolto la sua attività principale in altri rami di industria dando vita in Palermo e Bagheria, da circa un trentennio, ad importanti complessi industriali tuttora fiorenti.[18].

 

- l'agronomo dott. Antonino Benigno di San Cipirello fondatore nel 1908 de

 

La luce Società Anonima Cooperativa di Assicurazione la quale operando nei rami assicurativi contro i danni dolosi alle piante e contro i rischi dell'incendio delle proprietà mobiliari e immobiliari…trovò presto il consenso di larghe masse di agricoltori…[19]

 

- l'ing. Sebastiano D'Agostino di San Cipirello, dopo aver sposato una Virga, costituiva a Palermo la SAILEM: una struttura con oltre 1000 addetti specializzata in lavori portuali con commesse in tutto il bacino del Mediterraneo.

- dei due ricchi Leone di San Cipirello uno impalmava una Virga, l'altro la figlia del divenuto ricchissimo don Santo Termini.

- l'on. Giovanni Lo Monte non era sancipirellese di nascita ma lo era divenuto d'adozione. Era sempre lì perché divenuto socio del locale mulino e pastificio Virga. Anche lui sposava una Virga. Il Lo Monte era stato un fervente nittiano ma nel 1923 era passato nel Fascio con l'amico on. Alfredo Cucco che, nel 1927, abbandonava al suo destino sotto i colpi inferti dal prefetto Mori. Oltre a sposare una Virga e la politica aveva anche sposato un'altra causa molto di moda in quegli anni: il Prefetto di Palermo Barbieri nel 1925 lo aveva definito[20] capo politico della mafia.

E poi quanti altri figli dei comuni jatini avevano occupato importanti cariche nel mondo delle professioni!

- il prof. Domenico Barbaro di San Giuseppe Jato, Direttore dell'Istituto di Fisica Tecnica della Facoltà d'Ingegneria dell'Università di Palermo, per moltissimi anni Presidente dell'Ordine degli Ingegneri della Provincia di Palermo.

- il dottor Giuseppe Troia, chirurgo, che per molti anni aveva rivestito la carica di Direttore di uno degli Ospedali più importanti di Palermo: Villa Sofia.

- il dottor Sebastiano D'Agostino, medico Direttore di un altro ospedale di Palermo: il Cervello.

A proposito del Molino Pecoraino[21] di Palermo, poi Molini e Pastifici Virga, il Principe volle vederci un po' più chiaro. Si era accorto che c'era di mezzo anche il sen. Paolo Beccadelli, Principe di Camporeale, suo diretto discendente.

 

Nella primavera del 1906 la lotta politica per il rinnovo del Consiglio Comunale s'imperniò esclusivamente sulla questione del mulino: nonostante l'opposizione dei socialisti ufficiali e i denari spesi da Pecoraino per foraggiare la lista del Principe di Camporeale, il successo elettorale arrise ai democratici di Tasca Lanza sostenitori del progetto Bosco. Nel frattempo il moderno stabilimento del Pecoraino era andato distrutto da un incendio doloso, in città era subentrata la concorrenza di nuove imprese, facendo venir meno i pericoli del monopolio privato.

 

Subito dopo l'incendio subentravano nella proprietà del mulino i Virga di San Cipirello. Peccato che i Mulini e Pastifici Virga di San Cipirello il 22 novembre 1908 subivano la stessa sorte del mulino Pecoraino.

«Strana fine quella dei mulini dell'epoca e, soprattutto, strano modo di cambiar proprietario!» Notò il Principe nel rilevare un successivo incendio di un mulino a San Cipirello.

Nel 1923[22] Matteo e Salvatore Accardi fu Vincenzo di San Cipirello possedevano la metà della gabella del mulino Jato sull'omonimo fiume. L'altra metà era stata da poco acquistata da don Santino Termini, Sindaco di San Giuseppe Jato. Il Termini convinceva gli Accardi della necessità di assicurare l'impianto. Gli Accardi, considerata l'insicurezza dei tempi, concordavano pagando la quota loro spettante.

«Santo Termini vero un santo fu! Meno male ch'è stato così previggente!» Andavano ripetendo, dopo alcuni giorni, gli Accardi. Non era infatti passata neppure una settimana e il mulino, ch'era ad acqua, aveva già preso fuoco. Dopo alcune settimane il Termini - riscosso l'intero premio assicurativo di lire 12000 - si presentava agli Accardi e, in via strettamente amichevole, faceva questo ragionamento:

«Per voi, cari amici, non è conveniente lavorare coi mulini! Vedete che fine fanno? S'abbrùcianu! Ormai i tempi sono cambiati! In questo genere di lavoro non basta più essere bravi a macinare frumento occorre gente che, al momento opportuno, sappia… spegnere il fuoco! Capito? Gente…che so!…»

«I pompieri?» Avevano detto in coro gli Accardi.

«Ma quali pompieri e pompieri! Per il bene che vi voglio, ascoltate vostro fratello! Prendete queste 6000 lire dell'assicurazione e ìtivi a buscàri u pani a cocchi n'atra banna. Io, per il fraterno consiglio che ho dato, vi sarò grato se la vostra quota di gabella la cedete ad altri due miei fraterni amici che sunnu mmenzu a strata ma chi s'afìranu a stutàri focu: Onofrio Calò e Salvatore Terranova. Le 6000 lire che io vi consegno, quindi, è come se ve le avessero date loro per l'acquisto della gabella! Mi sono spiegato bene?»

«Sì, don Santino! Grazie assai!» avevano risposto un po' turbati gli Accardi nel firmare l'atto di rinunzia alla gabella.

Alcuni giorni dopo si presentavano i nuovi gabelloti del mulino, Calò e Terranova, i quali con aria incazzatìzza facevano notare agli Accardi la totale assenza di serietà nelle transazioni. Loro - Calò e Terranova - avevano acquistato, per come era scritto nell'atto, la gabella di un mulino non la gabella di un mulino bruciato. Ragion per cui chiedevano la restituzione delle 6000 lire oltre al risarcimento danni. Per il risarcimento si accontentavano, non volendo portare le cose alle lunghe, della cessione gratuita della gabella. Gli Accardi acconsentivano. Stavolta senza ringraziare. «Per paura!» Dichiaravano al Giudice Triolo tre anni dopo.

 

Per conoscere la mafia

 

Risollevato in parte lo spirito il Principe venne ben presto assalito dalle solite domande: che cos'è la mafia? Perché così importante proprio a San Giuseppe Jato e San Cipirello?

Si era reso meglio conto che il tempo occorrente per leggere tutta quella letteratura specialistica era veramente lunghissimo. Cominciò a temere che non ce l'avrebbe fatta. Sì, l'eternità c'era!

«Ma un po' di questo Paradiso devo godermelo oppure no?» Considerò con aria sconsolata.

Decise di ricorrere, ancora una volta, alla disponibilità del santo che di esperienza doveva possederne certamente tanta. Se n'era accorto dal numero di cellulare. In Paradiso i numeri erano stati assegnati seguendo l'ordine d'ingresso.

«Ne avrà sicuramente sentito e visto di tutti i colori!» Pensò il Principe mentre componeva il numero 3.

«Hallo!»

«Pronto! Zio santo? Giuseppe Beccadelli sono.»

«Ciao, Principe! Come va?»

«Zio santo nei guai sono! Non riesco più a dormire! Mi sono intestardito a cercare di capire cos'è la mafia e sono in un mare di confusione! Non riesco poi a spiegarmi perché il centro da me fondato sia diventato, in tale specialità, tanto importante. Pensavo che si trattasse di un fenomeno limitato agli ultimi decenni. Invece ascolti cosa ho trovato:

 

se un comune in Sicilia vi era dove la maffia era onnipotente era proprio quello di San Giuseppe Jato»

 

«Questo quando?»

«Tra il 1909 e il 1926.»

«E chi ha scritto quella frase?»

«Non è che l'ha scritto, l'ha dichiarato al Giudice firmando il relativo verbale, aspetti…si chiama…ecco! Rocco Balsano

«Rocco Balsano chi? L'onorevole?»

«Sì. Perché lo conosce?»

«Certo che lo conosco! Come si fa a non conoscere un tipo come Rocco Balsano?! Ricordo come ora quando arrivò in Paradiso! Si presentò con una lettera di raccomandazione dell'Arcivescovo di Monreale. Il Padreterno, però, non volle sentire ragioni e lo spedì dritto dritto alle fiamme: si era subito accorto che la lettera era falsa. Poi una decina d'anni fa, fuggito non si sa come dall'Inferno, era riuscito ad introdursi in Paradiso cercando di barattare voti elettorali con permessi di porto d'armi. Non ti dico il tempo impiegato per fargli capire che il nostro era un sistema monarchico! Finì con i porto d'armi e cominciò a far propaganda politica per un sistema monarchico-liberal-socialista-democratico-fascista con suffragio universale, sostenendo, questa la cosa più grave, che era giunto il momento di cambiare e prendere le armi contro il Padreterno. Armi che lui era in grado di fornirci a metà prezzo. Per farla breve fummo costretti a telegrafare a Lucifero e, in camicia di forza, farlo riportare al caldo. Scusa Principe, hai detto che l'on. Balsano fu interrogato da un Giudice nel corso di un processo. Qual era l'oggetto del processo?»

«Anno 1926. Processo a Santo Termini e compagni

«Santo Termini il Sindaco di San Giuseppe Jato?»

«Sì. Perché conosce pure lui?»

«Bi! Bi! Bi! Bi! Bi! Santo Termini? Ma figurati! All'epoca qui fece epoca! Lo conoscono tutti. Anzi mi meraviglio come mai tu non ne abbia sentito parlare!»

«E che fece di tanto importante?»

«Quando arrivò nell'aldiquà si presentò in Paradiso con una bisaccia di lettere di raccomandazioni! Ce n'erano di tutti: del Presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando, dell'on. Alfredo Cucco, dell'on. Francesco Termini, dell'on. Rocco Balsano, dell'on. Giovanni Lo Monte, dell'on. Nicolò Zito - tutta gente in strettissimi rapporti con i principali malacarne di San Giuseppe Jato e San Cipirello e che trovi citata nella quasi totalità dei trattati di mafia - oltre ad una serie di lettere di politici e malacunnutta in senso lato di cui, in questo momento, non ricordo i nomi.»

«Anche lui con le lettere di raccomandazioni! E che avevano scambiato il Paradiso per un Ministero?»

«Il Termini era così convinto della funzionalità delle raccomandazioni che portò pure una lettera di una suora dell'Opera Pia Riccobono di San Giuseppe Jato che, successivamente, si è scoperto essere stata estorta sotto la minaccia di un revolver. Per non parlare di due lettere anonime, preparate per due possidenti della zona, che nella foga aveva messo assieme alle altre! Mi ricordo che il Padreterno non volle leggere alcuna lettera. Dato uno sguardo ai mittenti non ci pensò due volte e lo scaraventò all'Inferno.»

«Poi che successe?»

«Non l'avesse mai fatto! Successe l'inferno! Pensa che Lucifero ebbe a minacciare il Padreterno: qui dentro - gli intimò - o io o lui! Giunto all'Inferno, il Santo Termini, era stato accolto a braccia aperte dai suoi compaesani Troia, Termini, Todaro, Terrana, Zito, Balistreri, Scaglione, D'Anna, Micciché, Mustacchia, Romano, Rampudda, Pardo e da tanti altri malacunnutta del circondario i cui nomi li troverai sicuramente agli atti del processo. Da quel momento furti, rapine, tagli di alberi secchi dentro l'Inferno non si contarono più. Pensa: non era neppure entrato e già aveva messo gli occhi sulla barca di Caronte. Un solo giorno era passato! E a Caronte toccò farsela a nuoto!»

«Poverino! Immagino la fila di anime in attesa del traghettamento!»

«Gente non ne ammazzavano per evidenti motivi. Non rubavano muli perché all'Inferno non ce n'erano più: l'ultimo se l'era beccato Antonino Pulejo, inteso Ninu 'u latru, Sindaco di San Giuseppe Jato prima del Termini. La mania di fregare quadrupedi era però tale che, introdottisi furtivamente in Paradiso, erano riusciti a rubare un cavallo.»

«A chi apparteneva?»

«Principe ma non ti guardi attorno? Non ti sei accorto che, da almeno quarant'anni, San Giorgio è rimasto a piedi? Poi una cosa veramente vergognosa: fregare il pasto al conte Ugolino!»

«A quel povero disgraziato morto di fame!»

«E dire che all'Inferno aveva cominciato a riprendere colore! Si erano carriàto sano sano l'arcivescovo Ruggieri che, poveraccio anche lui, aveva approfittato dell'occasione per farsi medicare.»

«E Lucifero?»

«Lucifero faceva il diavolo a quattro per lo spegnimento dell'impianto di riscaldamento: l'ultima fornitura di combustibile era sparita. Ti assicuro che non era mai successo nulla di simile!»

«Sì. Tutto ciò è interessante ma non da una risposta alle mie domande.»

«Hai ragione! Torniamo al nostro tema. In verità non è che io sappia esattamente cosa sia la mafia, o maffia com'era chiamata in tempi passati. Di essa possono darsi tante definizioni, a volte anche discordanti, ma tutte con un comune denominatore: l'uso della violenza. Sto pensando, però, che abbiamo una grande occasione.»

«Quale?»

«Abbiamo la possibilità di fare uno studio particolare. Ascoltami! Noi stiamo parlando di San Giuseppe Jato e San Cipirello: due centri dove, come sinora hai potuto verificare, di mafia ringraziannu a Dio nun s'ha fattu mai malavita»

«Non se n'è sentita mai la mancanza!»

«Il nostro è un osservatorio, a parer mio, eccezionale. Siamo in possesso di un insieme di strumenti che consentono di affrontarne lo studio: Internet con possibilità di accesso ad archivi e biblioteche; tu che conosci la realtà del territorio di San Giuseppe Jato dal 1779 ai primi decenni del 1800; io che, modestia a parte, ne ho viste e sentite di cotte e di crude; siamo in possesso, sebbene incompleti, degli atti relativi al processo a Santo Termini e compagni - che poi non è altro che il processo alla mafia di San Giuseppe Jato e San Cipirello - tutti da scoprire. Tutti da scoprire perché, come sai, i regolamenti italiani non consentono di consultare materiale archivistico, relativo a processi penali, prima di 70 anni.»

«Siamo quindi capitati nel momento giusto!»

«Proprio così. Allora - mi hai proprio coinvolto - noi dobbiamo cercare di capire: innanzitutto che cos'è e com'è nata la mafia a San Giuseppe Jato e San Cipirello. Successivamente perché la mafia dei due comuni è divenuta così importante. Naturalmente senza alcuna pretesa di generalizzare le conclusioni.»

«Ho capito. In poche parole dobbiamo fare, finalizzata al problema, una microstoria del territorio.»

«Non credere che sia un compito facile! Se però riusciremo a capirci qualcosa, considerata l'importanza del sito nel settore specifico, probabilmente avremo buoni elementi per comprendere meglio il fenomeno nel resto dell'isola. E sarebbe tanto!»

«E come pensa di procedere. Ha qualche idea?»

«Non è che vi siano alternative! Innanzi tutto è necessario leggere, trascrivere e catalogare i documenti di cui sei in possesso e che io non conosco. Successivamente organizziamo una bella nuvola rotonda sull'argomento con analisi e approfondimenti. Della prima operazione sarai tu ad occuparti perché io non ho ancora completamente smaltito la stanchezza e poi perché dovrò ancora leggere il breviario.»

«Il breviario? Scusi non si leggeva sulla terra per guadagnarsi il Paradiso?»

«Così sapevamo! Forse tu non sai che noi santi, non si è mai capito il motivo, siamo obbligati anche qui a leggere il breviario. A leggerlo, capisci? Anche se lo conosciamo a memoria alla Pico della Mirandola: dalla prima parola all'ultima e dall'ultima alla prima! Dicono che rientri tra gli imprescrutabili disegni divini: qui però cani e gatti sono convinti che sia l'espressione di una forma repressa di divino sadismo. In ogni caso è una disposizione governativa e bisogna tassativamente rispettarla: dura lex sed lex. Si rischia il declassamento a semplici beati! Finito il breviario penso di perdere un po' di eternità a tampasiàre in piazza Paradise. Non si può sapere mai! Scambia una parola con uno, poi con un altro e puoi venire a conoscenza di fatti non sempre riportati nei documenti. Non pensare però che sia una cosa facile!»

«Perché?»

«Perché questi jatini duri sono! Non parlano neppure a marruggiàti! Omini di panza eranu e òmini di panza sunnu.»

«Ai miei tempi non erano così!»

«Il Padreterno ha cercato più volte di fargli capire che ormai era tempo di pentirsi e di parlare. Gli aveva detto che in Paradiso non c'era pericolo, che non avevano da temere ritorsioni. Invano! Pensa che il Padreterno ha tentato pure di punzecchiarli nell'orgoglio dicendo che i loro compaesani, nell'aldilà di qua, erano più avanzati: ormai si erano in buona parte pentiti e parlavano che era un piacere. Tutto inutile! Alla fine aveva tentato l'ultima carta con un baratto. Gli aveva addirittura proposto il pentimento a fronte della promozione a santi senza sostenere esami, per chiamata diretta.»

«E che successe?»

«Ntùppati arìcchi! Sai cosa gli hanno risposto? Senza fari musiòni gli hanno risposto: No!!!»

«In-cre-di-bi-le dictu!!!» si espresse in latino il Principe per evitare di sottopensare l'equivalente e polivalente termine siculo.

«E avevano pure avuto la sfacciataggine di rispondergli! Eccellenza! - gli avevano detto - Questo che vossìa chiama baratto noi non lo sappiamo che cosa è. Se vuole dire barattolo e dentro questo barattolo ci sono pìccioli, moneta sonante, a sua completa disposizione siamo! Vossìa faccia conto che già pentiti siamo! Altrimenti il baratto si lo tinìssi per vossìa!»

«Moneta che, come si sa, in Paradiso non può circolare!»

«Fu la prima volta che vidi il Padreterno nero! Pensa che gli stava scappando pure un'autobestemmia. Mai più - disse - farò una maxi-indulgenza! Roba da perdere la faccia! Non ho potuto convincerli! L'On-ni-po-te-nte so-no!!! E chi ci crede più?!»

«Grazie! Zio santo! A più tardi!»

«Ma quale grazie e grazie! Non ho ancora finito! Ma quando capirai che devo essere io a decidere se chiudere il telefono! E porca miseria! Un po' di rispetto per le autorità!»

«Mi scusi! Non volevo…»

«Allora. Nel leggere e catalogare i documenti non devi trascurare assolutamente nulla. Anche i particolari che potrebbero apparirti insignificanti possono essere utili alla ricerca. In minimis, maxima, le cose grandi si ottengono da un insieme di cose piccole. Trascrivere tutto potrà sembrarti anche noioso. Poi, però, ti accorgerai dell'importanza dei particolari. Un'ultima cosa. Devi inquadrare questo processo nel contesto storico in cui avviene. E sto pensando che forse è meglio darti alcune indicazioni per evitare di farti perdere un mare di tempo. Dunque il processo a Santo Termini e compagni inizia dopo l'arrivo in Sicilia del Prefetto Mori

«Chi era Mori?»

«Lo dicevo io! Neanche questo sai? Cesare Mori era un piemontese mandato in Sicilia da Mussolini per debellare la mafia. I poteri di cui disponeva erano pressoché illimitati e ne fece un uso tale che i garantisti dei nostri giorni minimo minimo lo avrebbero disciolto negli acidi. Riuscì a ripulire interi territori infestati da briganti e, senza guardare in faccia nessuno, portò in carcere centinaia e centinaia di mafiosi. Questo fatto innescò un meccanismo, sino allora ma anche ora, impensabile in Sicilia: la gente, constatato che si faceva sul serio, dimenticando cos'era l'omertà, cominciò a denunciare e a parlare. E che parlare! Ci lanzàru i virmicèddi!»

«Insomma raccontarono le minime cose.»

«A confronto i più loquaci pentiti dei nostri giorni potrebbero tranquillamente essere definiti muti senza speranza di guarigione. E non solo parlare! Leggi in nota cosa scriveva[23] il Prefettissimo il 20 aprile 1926. Mori riesce a bloccare la cosiddetta bassa mafia, quella più appariscente. Nel momento in cui però tenta di passare al gradino superiore, viene nominato (meglio: promosso), il 22 dicembre 1928, senatore del regno.»

«Immagino che, come ai miei tempi, la promozione era sinonimo di trasferimento!»

«Proprio così. Lo scontro più violento - questo interessa in maniera particolare la nostra ricerca – si verifica tra Mori e l'on. Alfredo Cucco, una sorta di plenipotenziario del Fascismo in Sicilia, soprannominato il ducino

«E chi ha la meglio?»

«In un primo momento Mori. Successivamente però Mussolini con sua lettera personale del 30 marzo 1928 comunica a Mori le ultime direttive:

 

…disinteressarsi delle vicende Cucco e accoliti, poiché l'individuo non ha importanza né bisogna dargliene facendolo assurgere al ruolo di vittima e provvedere alla liquidazione giudiziaria della mafia nel più breve tempo possibile e limitare l'azione di ordine retrospettivo. Punire implacabilmente ogni nuovo delitto. Vigilare sulla eventuale formazione di nuovi nuclei mafiosi.»

 

«Ma anche i bambini capiscono che Mussolini, in tal modo, stava tagliando le gambe a Mori. No?»

«Certo! Limitare l'azione di ordine retrospettivo significava chiaramente che non doveva indagare sul passato dei mafiosi!»

«E su che cosa avrebbe dovuto indagare?»

«Sul futuro! No? Infatti il prefetto Mori, dopo numerosi tentativi di apprendimento dell'arte di prevedere il futuro presso alcuni maghi di Catania, riusciva solo a prevedere che, se avesse continuato, avrebbe avuto buone possibilità di trascorrere la pensione al cimitero. E così preferì fare il senatore.»

«E come andava al Cucco

«Il Cucco riusciva, già il 10 aprile 1931, ad uscire definitivamente dai processi ottenendo l'assoluzione con formula piena perché vittima degli intrighi del prefetto piemontese. Tieni presente che l'on. Alfredo Cucco è compare d'anello di Santo Termini, Sindaco di San Giuseppe Jato ed in strettissimi rapporti con lui nel settore della munìta. Un'ultima cosa. Alcuni elementi, ma anche documenti, su questo rapporto li puoi reperire sul volume di Arrigo Petacco - Il Prefetto di Ferro, Cesare Mori e La Mafia - Oscar Mondadori. E ora puoi anche chiudere! Buon lavoro!»

«Ossequi!» rispose il Principe. E chiuse.

 

 

1918-1925. GLI ANNI DEI GRANDI ARRICCHIMENTI

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Alfredo Cucco, Santo Termini, Ciccino Cuccia e il Prefetto di ferro Cesare Mori

 

Prima di passare alla lettura degli atti del processo al Principe parve opportuno dare uno sguardo al volume del Petacco stralciando alcuni passi inerenti il tema della ricerca.

 

"Cucco possiede ora anche il quotidiano Sicilia Nuova, ed è appunto su questi fogli che il giovane uomo politico inizia la sua furibonda battaglia. Ma, per la verità, la sua è una battaglia senza vittime. I suoi articoli sono infuocati, ma privi di sostanza; le sue inchieste denunciano il male, ma non i malfattori. La sua campagna assomiglia al classico gioco mafioso di attaccare la mafia per meglio difenderla, di sollevare una gran polverone solo per nascondere il vero obiettivo. Tuttavia col suo attivismo, Alfredo Cucco si mette ancor più in buona luce. E, in seguito, il suo nome sarà per un certo tempo strettamente legato dai cronisti a quello dell'epuratore numero uno: Cesare Mori. In realtà, anche Alfredo Cucco ha dovuto scendere a patti con la mafia come un qualsiasi altro uomo politico siciliano del passato. E ora ha stretti rapporti, anche di natura economica, con Francesco Cuccia, sindaco e capo mafia di Piana dei Greci; Santo Termini, sindaco e capo mafia di San Giuseppe Jato; Antonino Lopez, sindaco e capo mafia di Mezzoiuso, e molti altri padrini diventati nel frattempo esponenti locali del fascismo. Da questi amici, Alfredo Cucco ha ottenuto voti, appoggi e favori di ogni genere, comprese due automobili nuove di zecca frutto di una colletta 'spontanea', organizzata da Santo Termini e da don Francesco Cuccia. Grazie a questi amici, il ras del fascismo siciliano, che è anche un oculista molto noto, ha allargato la sua attività professionale e ha potuto sistemare un buon numero di parenti e di camerati. Persino il giornale Sicilia Nuova, diventato il vessillo dell'antimafia, è stato fondato col denaro fornito da esponenti mafiosi. Ed è stata la mafia - evidentemente non intimorita da Cucco - a fornire al nuovo quotidiano 7000 abbonamenti sostenitori e a garantirgli un milione di lire l'anno di pubblicità." (pag. 68)

 

"Ma nelle grandi retate di Mori non restano pesci molto grossi. Oltre un buon numero di persone che risulteranno innocenti, sono arrestati soltanto esponenti della bassa mafia, in gran parte semplici esecutori di ordini. I mandanti restano ancora nell'ombra. Gli unici arrestati di un certo rilievo sono Genco Russo, il capomafia della Sicilia Occidentale Antonio Lopez da Mezzoiuso, amico di Alfredo Cucco e membro del direttorio dei Fasci siciliani; l'avv. Gaetano Salemi, detto Scarpazza, definito da Mori "figura rilevante della mafia di Montemaggiore, che si è resa responsabile di vari delitti dei quali ha affidato l'esecuzione ai suoi sicari". E ancora un buon numero di sindaci, come Santo Termini di San Giuseppe Jato, Giuseppe Randone di Santa Cristina Gela, Francesco Badolato di San Cipirello e il notissimo primo cittadino di Piana dei Greci, Francesco Cuccia, al quale le altolocate amicizie negli ambienti fascisti isolani non eviteranno questa volta un lunghissimo soggiorno nelle carceri dell'Ucciardone." (pag. 93)

 

"Interrogatorio di F. Cuccia. «Pochi giorni dopo ebbe luogo una riunione al municipio di Palermo di tutti i Sindaci della provincia. L'on. Cucco ci disse che si doveva fondare un giornale e che tutti dovevamo contribuire. In tale occasione egli aveva al suo fianco Santo Termini, Sindaco di San Giuseppe Jato. Il Cucco cominciò proprio da me imponendomi di versare lire 12.000. Cercai di ridurre la somma e soltanto grazie all'intercessione di Santo Termini, Cucco ridusse la sua richiesta a lire 10.000. Qualche tempo dopo, Cucco mi telefonò per dirmi di recarmi da lui. Nella sua casa trovai il dottor Scarcella, amministratore del giornale Sicilia Nuova. Essi mi dissero che il proprietario della casa nella quale si doveva impiantare la tipografia stessa non intendeva consentire l'esercizio della tipografia stessa, così mi affidarono l'incarico di persuaderlo [sic!] a firmare il contratto di consenso…e così fu possibile aprire la tipografia…In seguito fui invitato a procurare gli abbonamenti. Ne procurai molti, fra i quali quelli di Badolato Giuseppe, che mi diede lire 900 raccolte a San Cipirello." (pag. 98)

 

"Poi c'è la deposizione del sindaco mafioso, Santo Termini, di cui Cucco è addirittura compare d'anello e che oltre a contribuire con soldi propri (ma presentati come frutto di una colletta) alla nascita di Sicilia Nuova, ha dichiarato di avere adottato la stessa scusa della colletta per giustificare il suo regalo personale al federale di una splendida Isotta Fraschini." (pag. 131)

 

"Cesare Mori mette al corrente l'ispettore del partito circa i presunti legami di Cucco con la mafia. Anche quest'ultimo rapporto è eccezionalmente voluminoso. Vi si parla di uno strano conto, sequestrato in casa di Santo Termini, nel quale il sindaco mafioso ha annotato le somme sborsate ai complici usando dei numeri a copertura dei nomi. Secondo Mori, sotto il numero 10, al quale risultano elargite somme vistose, si nasconderebbe il nome di Cucco. Nel rapporto sono anche illustrate altre complesse operazioni e, naturalmente, non viene dimenticata la faccenda delle sottoscrizioni 'volontarie' inventate da Francesco Cuccia e Santo Termini ora per regalare un'automobile al 'ducino', ora per mantenere il giornale 'cucchiano' Sicilia Nuova. Le cifre citate nel rapporto vanno dalle 10 mila lire alle 100 mila lire. Di quei tempi, 10 mila lire rappresentano un piccolo capitale: basti dire che il semplice regalo di nozze di 25 mila lire, che risulta offerto da Santo Termini a Cucco, equivale allo stipendio annuo di un generale di corpo d'armata o di un prefetto di prima classe come è appunto Cesare Mori. L'ispettore Galeazzi, che ha la carica di deputato, guadagna in quel periodo 1500 lire al mese." (pag. 142)

 

a) dalla deposizione di Castagnaro Francesco, resa alla polizia (folio 12, vol. IV) risulta che nel 1924, tanto a questo che al padre erano state tolte le licenze di porto d'arma; che essi si rivolsero a Termini Calogero, famoso associato per delinquere (di San Giuseppe Jato), e che questi, per mezzo dell'on. Cucco, riuscì a fare restituire le suddette licenze; che però quasi contemporaneamente, il Termini fece comprendere l'opportunità di sottoscrivere azioni per il giornale 'Sicilia Nuova', alla cui richiesta i Castagnaro aderirono, sottoscrivendo per lire 10000." pag. 200)

 

"g) dalla deposizione del ragioniere Purpura Giuseppe da San Giuseppe Jato (folio III, Vol. I) è risultato che forti pressioni l'onorevole Cucco esercitava su chicchessia per tenere saldo al suo posto Termini Santo, il quale solo così poté consumare le numerose malversazioni a danno del comune. Egli si vantava di simile protezione, e non avendo ritegno di palesare, ovunque e a chicchessia, così come lo disse al tenente Ugo Corrado, che il Cucco gli costava lire 100.000. Né valsero a dissuadere l'onorevole Cucco dalla protezione dei Termini e dall'affidare a costoro cariche importanti, le proteste e gli avvertimenti di persone cospicue quale Prestigiacomo Vincenzo (folio 113, Vol. I)" (pag. 201)

 

"Dalla deposizione di Bavastrelli Giuseppe risulta, pure, che l'on. Cucco non versò alla cassa un vaglia di lire 25 e 30 mila dategli per il giornale da Santo Termini (foli 518, 519, vol. XII)" (pag. 215)

 

Il Principe ritenne verosimile la supposizione del prefetto Mori, relativa all'elenco cifrato delle somme elargite laddove, sotto il numero 10, pensava si nascondesse l'on. Alfredo Cucco; pur tuttavia, per un eccesso di scrupolo, tentò di verificarne l'attendibiltà attraverso materiale archivistico. Fu fortunato nel trovare[24] alcuni documenti che confermavano, in maniera chiara e inconfutabile, quanto intuito dal Mori.

Iniziò con una lettera anonima perché, pensò, in genere gli anonimi che trattavano cose di San Giuseppe Jato risultavano sempre molto informati e attendibili. Infatti:

 

(ff. 139-140-141)[25]

"Ill.mo Avv. Comm. Triolo, Giudice Istruttore della 3^ Sezione. Personale.

Ci pregiamo porre a conoscenza della S.V. che in occasione di una perquisizione fatta in casa di Calogero Termini, ex tesoriere di questo Comune, furono trovate due note, scritte di pugno di detto Termini, molto compromettenti per lo stesso e per altre persone. Nella prima era specificatamente indicato il modo come furono divise le lire duecentocinquantamila ricavate dalla compra dei tubi la quale, sequestrata e verbalizzata, già trovasi in suo potere alligata al processo. La seconda, già vista ed osservata dal Commissario dei Carabinieri e dal Commissario di P.S. non fu alligata al processo ed annotata fra le carte sequestrate ma, presa dal Commissario Prefettizio, fu consegnata al Comm. Tomaselli V. Prefetto di questa provincia. Nella stessa era detto che alcuni dei beneficiati della prima nota, e cioè, i nominati Termini Calogero, Termini Santo ex sindaco, Troia Vincenzo, Pulejo Antonino ed altri, rilasciavano, di accordo, una somma complessiva di lire diecimila ad un uomo politico della nostra città.

La ricordata 2a nota prova di quali mezzi di corruzione si servivano certi signori e, come, per alcuni la politica sia mezzo di corruzione e affarismo.

Dette note, sottratte in precedenza per un caso fortuito dal carteggio segreto dell'ex tesoriere Calogero Termini, furono fotografate e riposte al proprio posto. Le fotografie furono conservate per poterle all'occorrenza presentate appena si fosse presentato il tempo che, spazzando tutto il fango di San Giuseppe, avesse posto luce su quanto certi manigoldi tramavano. Interessa ai sottoscritti cittadini, che si mantengono anonimi per ragioni facili a comprendersi, perché tutta la luce sia fatta sui fattacci di San Giuseppe e che si colpisca chiunque abbia approfittato del denaro dei contribuenti in alto e in basso che sia.

Per fortuna di noi il processo è trattato dalla S.V., magistrato integro per altezza di coscienza, per dirittura di carattere, per altissimo sentimento del proprio dovere. Pertanto facciamo vivo appello alla S.V. perché richiami dal V. Prefetto Tomaselli la 2a nota e l'allighi al processo per tutti gli effetti. Con sicura fede che V.S. accontenti un gruppo di cittadini desiderosi di luce piena. La ossequiamo distintamente.

 

Il 21.11.1926 (f. 167) il giudice Triolo chiedeva ufficialmente la 2a nota indicata dall'anonimo al vice prefetto Tomaselli che rispondeva:

 

(24.11.1926 f. 174)

"Al giudice Triolo, 3^ sezione,

negli atti sequestrati in casa del tesoriere Calogero Termini e consegnati a questo ufficio dal Commissario Prefettizio di San Giuseppe Jato non trovasi il documento di cui alla Sua lettera controdistinta.

L'unico atto che certamente potrebbe avere riferimento al documento cui accenna la S.V. è un doppio elenco di sottoscrizione per una macchina da offrire all'on. Cucco, che rimetto unito alla presente per sua conoscenza.

Con osservanza. Dott. Placido Tomaselli, Vice Prefetto."

 

E in allegato:

 

(f. 175)

"Comune di San Giuseppe Jato: Sottoscrizione per una macchina da offrire all'on. Alfredo Cucco: Municipio (corretto in Sindaco) di San Giuseppe Jato (lire 1000), Termini Emanuele (500), Sindacato Agricolo (850), Sindacato Rivenditori (500), Sindacato Arti e Mestieri (400), Sindacato Muratori (250), Sindacato Carrettieri (250), Cooperativa Maria SS. della Provvidenza (750), Impresa Elettrica (500), Troia cav. Giuseppe (500), Pulejo Antonino (500), Troia Gaetano (500), Sunseri Carmelo (500), Mannino Nicolò (100), Termini Francesco (100), Sunseri Salvatore (100), Troia Benedetto (100), Traina Vincenzo (500), Traina Antonino (100), Traina Giuseppe (50), Balistreri Domenico (100), Termini Federico (100), Ganci Antonino (50)" oltre a 36 persone che sottoscrivevano lire 50 a cranio. Per un totale di lire 10.100

 

Il Questore di Palermo dava incarico al commissario di P.S. Ferrara di indagare. Quest'ultimo rispondeva in data 23.12.1926 con prot. n. 1397:

 

(f. 487)

"Riservata. Oggetto: Sottoscrizione in San Giuseppe Jato per l'offerta di una automobile all'on. Cucco. Ill.mo sig. Questore di Palermo, conformemente all'incarico affidatomi dalla S. V. Ill.ma il 21 corrente mi sono recato in San Giuseppe Jato per accertare se le sottoscrizioni figuranti in due elenchi, già in possesso dell'autorità giudiziaria, per l'offerta di una automobile all'on. Alfredo Cucco fossero veritiere. Detti elenchi di sottoscrizioni, di cui unisco copia, sono due. Uno di essi è scritto a macchina e porta l'intestazione "Comune di San Giuseppe Jato - Sottoscrizione per una macchina da offrire all'on. Cucco". L'altro è scritto a mano. Entrambi portano l'iscrizione degli stessi nomi in tutto circa una sessantina…Come rilevasi dagli acclusi verbali ho interrogato circa una trentina dei presunti sottoscrittori ma nessuno di essi ha ammesso di avere sottoscritto somma alcuna di denaro per la offerta predetta ed anzi la totalità delle persone interrogate ha dichiarato di non essere stata neppure interpellata, non solo, ma che in San Giuseppe Jato tale sottoscrizione non fu assolutamente fatta perché, essendo quello un piccolo centro, una raccolta del genere, sarebbe subito venuta a conoscenza dell'intera cittadinanza. Non ho potuto interrogare gli altri indicati nei predetti elenchi perché alcuni di essi sono arrestati, altri latitanti, altri assenti da quel comune e qualcuno si è reso financo irreperibile. Nei predetti due elenchi figurano anche sottoscrizioni da parte di Sindacati. Trattasi di Sindacati che morirono sul nascere. Essi non avevano ancora locali per le riunioni degli iscritti ed erano diretti quasi tutti dal Termini Santo, dai Troia, dal Calò Gaspare persone queste tutte arrestate o latitanti. Così dicasi per la Cooperativa Maria SS. della Provvidenza di cui dirigeva le sorti, non so sotto quale titolo, il Termini Emanuele anch'esso arrestato, e per l'Impresa Elettrica diretta dal Termini Santo, mentre per la Cooperativa Agricola diretta da Padre Virga, tenace oppositore dell'amministrazione allora al potere, figurante quale sottoscrittrice solo nell'elenco scritto a mano, non vi è indicazione di cifra, ma un punto interrogativo… Il commissario di P.S.: Ferrara." 

 

Il Principe volle ulteriormente approfondire per comprendere meglio i meccanismi e lesse:

 

(f. 704. Originale)

"Federazione Provinciale Enti Autarchici - Palermo 18.2.1926

Sig. Sindaco, per domenica 21 febbraio data del Congresso Provinciale Fascista e degli Enti Autarchici, i Fasci della Provincia preparano all'on. Alfredo Cucco una sorpresa: l'offerta di un'automobile che serva a tenerlo sempre più in contatto con i centri della Provincia e gli consenta di intensificare viemmaggiormente la sua feconda attività. Perché la nostra Federazione non sia seconda nella gara di slancio e di entusiasmo per questa opportuna iniziativa, esprimo l'augurio che ogni Sindaco o Commissario si interessi personalmente della sottoscrizione promossa dai Fasci, collaborando col Segretario della Sezione Fascista o sviluppando una sottoscrizione a parte, in modo che essa riesca anche manifestazione popolare e cittadina. Poiché domenica tutte le contribuzioni devono essere presentate prego voler agire con prontezza e comunicare subito i risultati o, al più tardi, consegnare le offerte di persona domenica stessa venendo a Palermo per il Congresso. Il Segretario Generale della Federazione Provinciale Enti Autarchici: G. Caruso."

 

Don Giuseppe notò che il firmatario cav. Giuseppe Caruso oltre ad essere  Segretario Generale della Federazione Provinciale degli Enti Autarchici di Palermo era anche cognato, per un puro caso, dell'on. Alfredo Cucco. Nello stesso tempo non ritenne di sottolineare che il Caruso era anche ingegnere, si occupava di appalti pubblici ed era impelagato, secondo quanto sostenuto dal prefetto Mori, nella spartizione di una tangente di lire 37000 per un appalto nel Comune di Montemaggiore Belsito.

 

(f. 486. Originale)

"Partito Nazionale Fascista - Sezione di Palermo - 25.2.1926 - prot. n. 464

Signor Sindaco del Comune di San Giuseppe Jato, nell'accusare ricevuta di lire 10000,00 per l'automobile già offerta all'on. Cucco, prego gradire i miei più sentiti ringraziamenti, anche per la prontezza con la quale Ella ha risposto al nostro appello. Con i sensi di ossequio. Il Segretario Politico: Scarcella[26]."        

 

Ambedue le lettere erano indirizzate a tutti i Sindaci della Provincia di Palermo. Da ciò don Giuseppe trasse  la conclusione che si era in presenza di due circolari. Sapendo inoltre fare di conto e volendo valutare la somma raccolta fece, ad alta voce, il seguente calcolo ragionato:

"Il Comune di San Giuseppe ha versato alla Federazione Fascista di Palermo lire 10000. Gli abitanti del Comune di San Giuseppe Jato costituivano, all'epoca, circa l'1% della popolazione dell'intera Provincia di Palermo. Problema: se il Comune di San Giuseppe Jato ha pagato lire 10000, utilizzando il metodo della proporzionalità lineare, quanto ha pagato l'intera provincia?"

Semplicissimo: lire 10000 x 100 = lire 1000000.

Altro problema: "Quanto costava una macchina all'epoca?"

Purtroppo agli atti del processo non trovò il tipo di macchina regalata all'on. Cucco. Si collegò allora con la Fondazione Agnelli e trovò che nel 1925 era entrata in produzione la FIAT 509 il cui costo variava tra le 16000 e le 25000 lire. Trattandosi di un onorevole non ebbe dubbi a prendere in considerazione il tipo accessoriato da lire 25000. Fu così che don Giuseppe venne a trovarsi dinanzi al seguente trilemma:

- o il Comune di San Giuseppe Jato, da solo, aveva affrontato il 40% della spesa.

- o all'on. Cucco erano state regalate 40 macchine.

- oppure l'acquisto di una sola macchina era servito da pretesto per fottersi lire 975000.    

Si accorse pure che nell'elenco scritto a mano vi erano alcune correzioni dalle quali si evinceva il tentativo di far quadrare il totale. Da questa considerazione e dal fatto che i documenti facevano parte degli atti relativi all'appalto truccato dell'acquedotto della Chiusa, il Principe trasse la conclusione che il prefetto Mori aveva pure inzertato nell'affermare che si era in presenza di sottoscrizioni inventate.

Al Principe parve anche opportuno controllare se il Comune di San Giuseppe Jato, di cui Santo Termini in quel periodo rivestiva la carica di Sindaco, avesse contribuito direttamente al sostegno del giornale 'cucchiano e antimafioso' Sicilia Nuova. Trovò una delibera di Giunta Comunale del 25 febbraio 1926:

 

"Sono presenti: Termini cav. Santo, sindaco, Troia cav. Giuseppe, Pulejo cav. Antonino, Sunseri Carmelo, Traina Vincenzo, assessori. Oggetto: abbonamento sostenitore a Sicilia Nuova. Il Presidente riferisce: - Poiché Sicilia Nuova è il battagliero quotidiano che trovasi sempre all'avanguardia per le campagne più belle e più sante che interessano questa isola benedetta; - Che per queste benemerenze ha riscosso il plauso di questa cittadinanza che vede in quel periodico l'espressione e la difesa di tutti i suoi interessi politici, morali ed economici; - Pertanto al fine di stringersi sempre più alle lotte strenuamente difese dal magico organo propone un sostegno di lire 500. La Giunta plaudendo all'energica opera di risanamento politico, morale ed economico spiegato da Sicilia Nuova, all'unanimità approva."

 

«Certo,» pensò il Principe «trattandosi di un giornale 'antimafioso' su putìanu stuccàri 'u coddu e citare, almeno una volta, la parola "mafia"!»

Volle contemporaneamente verificare se l'assessore Troia Giuseppe avesse rapporti di parentela con il Troia Giuseppe che alcuni testimoni, il 1° maggio 1947, avevano visto sparare a Portella della Ginestra. Accertò che i Troia Giuseppe erano ambedue nati a San Giuseppe il 19.1.1884, ambedue risiedevano in via Nuova n.52 e non si trattava di gemelli con lo stesso nome.

Il Principe rimase molto incuriosito dal personaggio Cucco e così, tra le pagine 183 e 184 del volume del Petacco, lesse:

 

"Il processo si svolge a Palermo il 10 aprile 1931. Alfredo Cucco si presenta davanti ai giudici in camicia nera…A difendere Cucco è giunto da Napoli l'onorevole De Marsico, alto esponente del PNF e futuro Ministro di Grazia e Giustizia. Più che un processo, per Cucco è un'apoteosi. I giudici lo assolvono con formula piena da tutte le imputazioni. Sono pure assolti il console della milizia, Fiumara, e tutti gli altri membri del direttorio fascista rinviati a giudizio assieme al ducino. La sentenza, raccontano i giornali, è festeggiata dai fascisti palermitani con una grandiosa manifestazione di piazza. Tutti gridano: Viva il Duce! Viva la giustizia fascista. Pochi mesi dopo, Alfredo Cucco è riammesso con onore nel partito dal quale era stato espulso per indegnità morale e politica. Gli riconoscono anche l'anzianità dal 20 novembre 1920. Per Cucco è un vero trionfo…Appoggiato da Roberto Farinacci, Cucco riguadagna alla svelta il terreno perduto. Il deriso eroe del tracoma ridiventa un pezzo grosso del regime tanto che, il 17 aprile 1943, viene nominato vicesegretario generale del PNF (il segretario è Carlo Scorza) e manterrà quell'incarico fino al colpo di stato del 25 luglio. Dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943 sarà chiamato a far parte del governo della repubblica di Salò con l'incarico di sottosegretario alla cultura popolare. Finita la guerra, un tribunale popolare condanna Alfredo Cucco a trent'anni di carcere per collaborazionismo, ma la pena gli è subito condonata. Nel 1946, infatti, figura tra i fondatori del MSI e presiede i primi congressi nazionali del partito. Nel 1953 è eletto deputato del MSI per la circoscrizione di Palermo-Trapani-Agrigento-Caltanissetta con 73.783 preferenze. Sarà rieletto ininterrottamente fino al 1967, anno della sua morte. Malgrado gli impegni politici, Alfredo Cucco non ha mai abbandonato la sua attività di oculista. Fra i suoi pazienti ha avuto anche Sofia Loren."

 

 

Truffe, estorsioni, ruberie e ammazzatine. Le grandi retate di Mori. Il Processo a Santo Termini e compagni.

 

A questo punto don Giuseppe Beccadelli iniziò la lettura degli atti relativi al processo e di altri atti inerenti il periodo in esame.

Cercò inizialmente di calcolare il numero degli arrestati. Dalle carte disponibili, però, non poté accertarlo perché gli elenchi erano stati stilati per carcere e le carceri non erano tutte riportate. Era solo in possesso di un primo elenco di 66, poi di un successivo di 33 ed infine di un altro di 17 per un totale di 116. Ma non dovevano essere tutti sia perché c'erano verbali di interrogatorio di arrestati che non figuravano in alcun elenco sia perché in molti si erano dati alla macchia. Se ne accorse da alcuni verbali di vane ricerche[27] del 24.05.1926. Poi divise i verbali di interrogatorio e di dichiarazione in tre gruppi:

a - Verbali degli arrestati.

b - Verbali dei testimoni a difesa.

c - Verbali dei testimoni di accusa e delle parti lese.

 

a - Verbali degli arrestati

Ripartì i verbali in ulteriori 6 sotto-gruppi:

 

a.1 - Verbali immacolati:

Arrestati che non sapevano come si chiamavano, di dov'erano e neppure quando e se erano nati.

 

a.2 - Verbali semi-immacolati:

Arrestati che conoscevano sì le proprie generalità ma non conoscevano neppure gli stretti familiari. La dichiarazione era canonica:

 

"Sto in campagna e non vengo mai in paese!"

 

a.3 - Verbali semi-normali:

Quelli che riportavano quattro parole, oltre le generalità e un punto:

 

"Mi dichiaro totalmente innocente."

 

a.4 - Verbali normali a tre quarti:

Quelli che riportavano al massimo sedici parole, oltre le generalità e un punto esclamativo:

 

"Mi meraviglio che un onesto lavoratore quale sono io debba essere accusato di associazione a delinquere!"

 

a.5 - Verbali immacolati con allegato successivo carteggio epistolare:

Termini Emanuele: tentativo di intenerimento del cuore del Giudice della 3a sezione Triolo

 

"Ill.mo sig. Giudice, Ella, a buona ragione, dirà: Ancora! Mi permetto risponderle che la bugia può considerarsi siccome quel tortuoso sentierucolo che, pur essendo incassato fra cespugli e boscaglie, viene rintracciato e, in mille guise, intersecato dal sole. Invoco pertanto la sua benevola attenzione. Il 26.12.1902 fui al capezzale di un agonizzante. Con mano tremante m'indicò un gruppo piangente e volle da me un sacro giuramento, che io solamente feci. Fu allora che il morente chiuse gli occhi per il sonno eterno. Quel gruppo era costituito da Federico di anni 2, Provvidenza di anni 4, Francesco di anni 8: il defunto era mio padre. E mi misi all'opera investito, come mi ritenni, dell'affetto paterno. Col Parini potevo cantare "La mia povera madre non ha pane!" e io, puntualmente, ogni mese le consegnavo il mio stipendio: lire 66.20." (f. 644)

 

L'epistola, se non riusciva ad intenerire il giudice Triolo, in compenso spezzava i cuori del Collegio Giudicante della IV Sezione del Tribunale di Palermo il quale il 16 agosto 1928 con una sentenza ineccepibile e con una motivazione formalmente logica assolveva il Termini, definendolo povero, anche se figurava, con ben 500 lire italiane, tra i sottoscrittori per offrire una macchina all'on. Alfredo Cucco:

 

"Per il Termini Emanuele il Collegio ritiene che si sia data soverchia importanza, parlando nei suoi riguardi di mafioso pericoloso, dedito ai colpi di tavolino[28] ecc. Sembra invece che egli sia un povero esaltato, dedito, se mai, a qualche pistolotto (sic!) o a qualche discorsetto da comizio. E' quasi cieco, obbligato al lavoro perché povero. Che male poteva fare? Quali benefici poteva trarre (e trasse) dall'associazione?"

 

a.6 - Verbali normali:

Santo Termini. Considerata la caratura del personaggio il Principe ritenne di dedicargli uno spazio personale riportandolo nel gruppo c sottogruppo c.10

 

a.7 - Verbali non classificabili nelle categorie precedenti:

Rampudda Sebastiano:

 

"Sconosco completamente i fatti e chiedo che sulla mia onorabilità sia chiamato a testimoniare Brusca Calogero[29] di San Giuseppe Jato, mio compare." (f. 469)

 

Di Corte Calogero[30] fu Nicolò: difesa attraverso il periodo ipotetico di terzo tipo o dell'irrealtà:

 

"Sono stato sempre uomo di ordine e ho subito furti di animali, danneggiamenti mediante incendio di granaglie, incendio di due pagliai ed altro. Se fossi stato una persona di maffia[31], nessuno avrebbe osato commettere delitti in mio danno. Respingo pertanto tutte le accuse." (f. 23)

 

b - Verbali dei testimoni a discolpa.

 

Le dichiarazioni, tranne due con un minimo di giustificazione, risultavano di una monotonia indicibile:

 

(La maggior parte)

Tizio "per me è un galantuomo. Non ho alcun fatto specifico da dire in suo favore che valga a dimostrare la esattezza del mio giudizio."

 

(Baccarella Emanuele fu Girolamo di anni 46 da San Cipirello)

"Sono amico d'infanzia di Pardo Vincenzo di Francesco ed essendo cresciuti insieme posso attestare che egli è un galantuomo. Non ho alcun fatto specifico a prova di ciò."

 

(Campochiaro Giuseppe di Nunzio di anni 29 da Montelepre, guardia campestre)

"Conosco Balistreri Vincenzo che giornalmente vedevo lavorare in contrada Mortilli; e poiché faceva buon viso a noi agenti della forza pubblica lo ritengo una persona per bene e un perfetto galantuomo."

 

c -  Verbali dei testi di accusa e delle parti lese.

 

c.1 - Situazione generale

 

(Ferrara Salvatore fu Federico di anni 37 di Girgenti commissario di P.S.- 23.10.1926. f. 516)

"Dal complesso delle indagini da noi svolto è risultato in maniera lampante che nei due comuni di San Giuseppe Jato e San Cipirello un gruppo fortissimo di malviventi uniti tra loro da vincoli di parentela, di amicizia, di comparatico e più specialmente delittuosi, avevano formato una associazione col fine di arricchire commettendo atti contro la proprietà. Tutti i mezzi erano buoni per riuscire allo scopo. Dal furto alle rapine, alla truffa, alle estorsioni, tutto era buono per far denari. I delitti venivano commessi in circostanze pressoché uguali perché venivano preventivamente organizzati dai dirigenti ed eseguiti or da uno or da altro dei gregari dell’associazione. Questa a mezzo di una fitta rete di campieri, sparsi nelle varie contrade, sorvegliava le mosse della polizia, aiutava gli esecutori materiali dei delitti a sottrarsi alle ricerche dell’autorità, nascondeva la refurtiva, provvedeva a portarla nei comuni vicini ad altri associati, faceva commettere intimidazioni, danneggiamenti e furti nei feudi custoditi da campieri non aggregati all’associazione per costringerli a cedere il posto a propri gregari, imponeva taglie ai proprietari che non volevano subire danneggiamenti continuati, assicurava con la prepotenza i feudi da coltivare ai propri gregari più facoltosi, annullava l’opera dei contadini costretti a patti angarici, giacché non si poteva avere terra da lavorare se non presso i maffiosi gabelloti dei feudi. Nessuno poteva sottrarsi a tale giogo. Dovunque tale associazione trovava aderenti. Con la violenza era riuscita a conquistare le amministrazioni comunali; imponeva i candidati nelle elezioni comunali, spadroneggiava nei consigli comunali e provinciali. Se qualcuno dei gregari era, per quanto raramente, denunziato e veniva sottoposto a procedimento penale, violenze e minacce alle parti lese, deposizioni di favore di testimoni, intimidazioni dei testimoni, pressioni e corruzione di giurati, tutto si metteva in essere per sottrarre i rei alla giustizia. Ben si comprende quali gravi danni, specie all’agricoltura, venissero da tale stato di cose; quanto danno all’amministrazione della giustizia. L’associazione, a mezzo dei suoi gregari, riusciva in tutto ciò che voleva."

 

(Corrado Ugo di anni 32 da Pontremoli - Tenente RR.CC. - 17.08.1926. f. 369)

"Facevano parte del gruppo dirigente della maffia di San Giuseppe Jato i fratelli Termini Calogero, Emanuele, Federico e Francesco, Troia Giuseppe e Pulejo Antonino i quali si vantavano pubblicamente di essere lo stato maggiore degli ideatori. Il Calogero e il Santo Termini erano quelli che si mantenevano a contatto con le autorità politiche ed in genere con tutte le autorità per potere sfruttare la conoscenza a beneficio proprio e degli associati. Essi si occupavano di ottenere per i loro gregari i permessi di porto d'armi anche quando le autorità locali di polizia erano contrarie alle concessioni. Si occupavano inoltre di ogni sorta di concessione percependo spesso lauti compensi. Una recente inchiesta sull'andamento dell'amministrazione comunale della quale era a capo il Termini Santo e sulla gestione della tesoreria tenuta dal Termini Calogero ha portato alla scoperta di falsi, di appropriazione indebita, di peculati da parte di tali individui. Gregari dell'associazione ma di secondo ordine erano il Traina Vincenzo, Zito Filippo, Micciché Nicolò, Calò Gaspare, Balistreri Domenico, Candela Antonino, D'Anna Antonino e Antonio nipoti di Pulejo soprannominato Ninu u Ladru, Rampudda Sebastiano, Terrana Tommaso ed Ignazio, Rampudda Giuseppe, Immordino Salvatore. In San Cipirello, come dissi era a capo il Todaro Vito. Facevano parte del gruppo dirigente i fratelli Pardo Domenico, Santo, Giovanni e Vincenzo, Leone Francesco, Todaro Giuseppe e Battista, Mustacchia Ignazio. Altri gregari erano Battaglia Francesco, Randazzo Filippo, Antonino, Nicolò e Giuseppe."

 

(dalla dichiarazione resa da Purpura Giuseppe di Francesco di anni 29 da Monreale domiciliato in San Giuseppe Jato. f. 426)

"Nessuno osava resistere perché ciò facendo sfidava la morte. Gli omicidi infatti si susseguivano con un crescendo impressionante e se qualche volta gli uccisi erano dei delinquenti ad ucciderli erano sempre i componenti della associazione per volere dei loro capi i quali si disfacevano di quelli tra i gregari che osavano agire per conto proprio e senza il permesso e il consenso dei capi."

 

(dalla dichiarazione di Belli dott. Nicolò fu Vincenzo di anni 47 nato a San Giuseppe Jato, farmacista. f. 542)

Dopo aver fatto l'elenco dei maffiosi il Belli distingue i delitti in due grandi categorie. Delitti commessi per mantenere l'Amministrazione Comunale: L'assassinio di Mineo Salvatore, capo dell'opposizione. Calunnia organizzata contro il sac. Virga. Predisposizione di progetti per somme ingenti ed esecuzione parziale delle opere pubbliche progettate. L'associazione criminosa percepiva sulle opere pubbliche una percentuale fissa nella misura del 22,5%. Grandi lucri nell'approvvigionamento dello zucchero e di altri generi tesserati; nei sussidi alle famiglie dei militari e negli esoneri. Delitti nelle campagne contro la proprietà: Elenco delle tipologie: omicidi, furti ecc. Inoltre dichiara: "Il più pericoloso è Termini Calogero, ideatore dei colpi più importanti e dei delitti più eclatanti tra i quali l'uccisione del Mineo e la calunnia al Virga. Figura di prim'ordine l'ex sindaco, ora assessore, Pulejo Antonino soprannominato 'Ninu 'u latru' e negli ultimi anni 'Nerone' perché sanguinario e feroce".

 

(prima parte della lettera al Giudice Triolo di Termini Federico fu Giuseppe inviata "Dalle carceri giudiziarie di Palermo lì 18.06.1926". f. 232)

"Ill.mo sig. Giudice Istruttore della 3^ Sezione presso il Tribunale di Palermo, io sottoscritto Termini Federico fu Giuseppe nato e domiciliato in San Giuseppe Jato espongo alla S.V.Ill.ma quanto segue: a completamento degl'interrogatori subiti e al fine di spezzare le armi, che un cumulo di facinorosi, hanno costruito all'ombra dell'insidia e della calunnia, per colpire l'onorabilità di un libero e onesto cittadino, che con lo studio e col proficuo lavoro cerca di costruirsi un avvenire, mi permetto inviare il presente memoriale da allegarsi agli atti processuali. Per quanto riguarda l'associazione a delinquere di cui la S.V. Ill.ma ha voluto farmi cenno, e che più direttamente viene a colpire la mia onorabilità, desidero che oltre i testi da me indicati a deporre sulla mia onorabilità, altre siano intese, persone incensurate e incensurabili e che per la loro posizione civile e per le carriere pubbliche occupate possono essere accreditati più e meglio di qualsiasi altro libero e onesto cittadino. Indico come primo l'Ill.mo Sig. Pretore del Mandamento di Piana dei Greci, Romano Antonio ed il Cav. Sig. Di Miceli Giuseppe, chiamo pure a deporre sulla mia onestà il Tenente dei RR.CC. sig. D'Ercole Palminide. Cito dette persone i primi per il loro continuo contatto col mio paesello ed il secondo per avervi risieduto per più di un anno, e tutti insieme per aver avuto aggio di conoscere e studiare l'ambiente e le singole persone. Gli arresti eseguiti nel Comune di San Giuseppe Jato non sono arresti causati da questioni a delinquere, ma sono la conseguenza di lotte politiche locali i cui principali promotori della parte avversa sono il sac. Giulio Virga ed i fratelli Nicolò e Francesco Belli. Dato che ho già fatto i nomi di tante persone prego la S.V.Ill.ma di voler domandare ai testi succitati, oltre a deporre sulla mia moralità, in quella anche di tutta la mia famiglia e vedrà se i fratelli Termini sono stati mai amici e affiliati alla maffia. Pregola inoltre di voler domandare ai detti testi di ciò che sono capaci di fare i Belli ed il Virga per l'avidità del potere."

 

(Fazio Ferdinando, commissario prefettizio nel Comune di San Giuseppe Jato. 26.03.1927. f. 761)

"Allorché il Prefetto comm. Crivellari mi mandò a San Giuseppe Jato per eseguire la inchiesta sul ricorso inviato da Giambrone Nicolò e firmata da un gran numero di cittadini, il Sindaco, gli Assessori, il Tesoriere ed il Segretario Comunale si assentarono dall’ufficio ed il Calogero Termini si recò a Roma per scongiurare dal Ministro Orlando la mia revoca, giacché si sapeva che io ero persona che non avrei ceduto a lusinghe né a minacce e che avrei accertato tutti i fatti e le malefatte sue e dei suoi amici. Sindaco era allora Pulejo Antonino che il tenente dei Carabinieri del tempo mi disse essere soprannominato Nino il Ladro. Tesoriere era il Calogero Termini, segretario il Manno. Nei pochi giorni in cui mi occupai dell’inchiesta ricevevo durante la notte nell’albergo il Mineo Salvatore il quale mi veniva ad informare di quanto doveva formare oggetto della mia inchiesta. Il Mineo veniva di notte per non farsi vedere dagli avversari. Mentre io eseguivo l’inchiesta stessa improvvisamente, chiamato in Prefettura, ebbi dal comm. Crivellari ordine di troncare l’inchiesta e rientrare in residenza. Seppi poi che erano pervenuti al Prefetto ordini categorici in proposito; ed alle prime resistenze da parte del Prefetto, era pervenuto un telegramma cifrato col quale gli si ingiungeva di farmi rientrare con minacce di trasloco in altra sede se avesse trasgredito. La mia relazione fu trattenuta in prefettura. Il 29 maggio il povero Mineo Salvatore alle nove di sera nella via principale del paese venne barbaramente assassinato. La mattina successiva alle nove in piazza Bologni, a Palermo, incontrai il Pulejo Antonino con altri due individui a me sconosciuti e compresi che si trattava di un incontro voluto per procurarsi un alibi. E’ mia convinzione che il Mineo sia stato assassinato per mandato del Pulejo. Avvenuto l’assassinio fu inviato a Palermo l’ispettore generale comm. Lutrario che ebbe a interrogarmi e mi comunicò che l’inchiesta non era stata mandata al Ministero ma trattenuta in Prefettura. Il 27 luglio 1920 mi chiamò il segretario del Prefetto cav. Serio Francesco e mi disse, a nome del Prefetto, che dovevo tornare a San Giuseppe Jato per completare l’inchiesta. Cercai di esimermi ma il Serio mi disse che il Prefetto comm. Pesce intendeva che andassi proprio io. Ubbidii e mi recai ancora una volta a San Giuseppe Jato. Dopo tre giorni tornai a Palermo ed informai oralmente il Prefetto del disordine amministrativo esistente in quel Comune. Il Prefetto mi disse di essere obiettivo ed io lo assicurai. Il giorno successivo prima che partissi mi ingiunse di non tornare a San Giuseppe Jato perché temeva della mia vita. Gli dissi che non avevo paura, ma egli fu irremovibile. Però ciò malgrado dovetti tornare a San Giuseppe Jato per la riconsegna degli atti all’Amministrazione. Giunto a San Giuseppe Jato trovai il Pulejo baldanzoso per la seconda vittoria e nel Municipio cominciò ad insultarmi. Io reagii ed il Pulejo allora mi afferrò per buttarmi dal balcone in presenza del Cavallaro Simone e di Giambrone Nicolò fu Giuseppe. Furono costoro che impedirono al Pulejo di portare a termine il suo divisamento. Non denunziai il Pulejo per l’oltraggio subìto perché compresi che in quel tempo egli godeva la protezione del governo ed era inutile una denunzia. Subito dopo dal Prefetto Pesce fui sostituito col consigliere aggiunto dott. Venuti, oggi defunto come il Pesce ed il Crivellari. Il Venuti era nativo del collegio politico del Ministro Orlando. Non so quale esito abbia avuto l’inchiesta da lui fatta. Non so dire da chi il prefetto Pesce abbia saputo che io correvo pericolo di essere ucciso se avessi persistito nel fare l’inchiesta a San Giuseppe Jato."

 

(Dalla dichiarazione del sac. don Giulio Virga fu Gioacchino e fu Domenica Balsamo nato a Monreale. ASP - Fondo Tribunale Penale - Busta 3105, f. 377. In data 12.4.1926)

"Da quando risiedo a San Giuseppe Jato e San Cipirello e cioè dal 1903 la mia attività si è svolta principalmente per l'organizzazione delle Cooperative Agricole nell'interesse e il benessere degli agricoltori e contadini. Tale scopo è stato pienamente raggiunto nonostante le lotte che io e i contadini abbiamo dovuto sostenere specialmente contro la delinquenza organizzata che cercò in ogni modo e con ogni mezzo di sfruttare i fondi di qualsiasi tempo. Intendo riferirmi alle violenze e prepotenze esplicate dai componenti ed affiliati alla maffia che anche in questi comuni, come altrove, ha cercato con imposizioni, minacce, rapine, omicidi e danneggiamenti fare allontanare i contadini dalle terre allo scopo evidente di impossessarsi a breve scadenza delle terre, sia prendendole in gabella sia acquistandole definitivamente. Ho sempre combattuto apertamente la delinquenza ovvero la maffia che ho sempre considerato la rovina di questi paesi. Infatti se si pensa che infinito è il numero dei poveri contadini che sono stati privati di quadrupedi e sottoposti a pagamento di una data somma per il riscatto degli animali, che infinite furono le violenze e le prepotenze esercitate nelle campagne in danno degli onesti e pacifici contadini, che tutti i delitti più gravi, specialmente di sangue, sono stati consumati dalla maffia che era sicura di rimanere impunita per le aderenze e protezioni che vantava anche da parte di personalità politiche, ritengo di avere accennato per sommi capi alla situazione dolorosa in cui queste laboriose popolazioni erano costrette a sottostare. Tali condizioni di vita si sono aggravate maggiormente dopo la guerra e se da circa un anno nel territorio di San Giuseppe Jato e San Cipirello le condizioni della pubblica sicurezza erano sensibilmente migliorate ciò si deve al fatto principale che i capi maffia, assicuratasi una non indifferente posizione economica e preveduto, specialmente dopo le elezioni amministrative di Palermo, che il nuovo regime fascista avrebbe fatto trionfare la legge, cercarono con tutti i mezzi di limitare e quasi impedire il verificarsi di abigeati ed altri reati…"

 

(Dichiarazione resa il 13.10.1926 da Cimino Giuseppe fu Calogero di anni 46, Presidente della Cooperativa Pio X. f. 454. Quasi identiche risultano le dichiarazioni di Sciortino Vito di anni 51 e di Sansone Santi fu Filippo di anni 56 ambedue di San Cipirello componenti della Cooperativa Pio X. f. 446 e segg.)

"Sono buon amico del sac. Virga perché sono il Presidente della Cooperativa Pio X di San Cipirello della quale egli è il Direttore. La cooperativa sorse con un programma ben definito, quello cioè di affrancare i contadini dal servaggio al quale dovevano sottostare perché i maffiosi di San Giuseppe Jato e San Cipirello erano gabelloti di tutti i feudi vicini a questi comuni ed imponevano in conseguenza ai contadini patti angarici per la coltivazione delle terre. La cooperativa si propose di affittare dei feudi cedendo poi parte dei terreni in affitto ai soci allo stesso prezzo per il quale la cooperativa prendeva in affitto i feudi. Or il ceto dei gabelloti, che si identifica con la maffia, vedeva di malocchio il sorgere della cooperativa giacché non soltanto la cooperativa offriva ai proprietari prezzi di affitto di gran lunga superiori a quelli praticati dai gabelloti ma provocava la rarefazione della mano d’opera in quanto i contadini preferivano lavorare direttamente la terra avuta in affitto invece di sottostare ai patti imposti loro dai gabelloti. La maffia quindi si mise contro il sac. Virga, propulsore di questo movimento e lo fece segno ad una quantità di delitti nella speranza che egli, intimidito, dovesse finire col ritirarsi dalla direzione della cooperativa Pio X di San Cipirello e da quella Giosuè Borsi di San Giuseppe Jato. Nel contempo la maffia prese a bersagliare i contadini soci di tali cooperative che diventavano le vittime sistematiche di una serie di rapine che venivano commesse su gli animali da lavoro, agli stessi appartenenti, e sulle strade che conducevano ai feudi tenuti in affitto dalle cooperative e perfino sulle stesse terre dove i contadini lavoravano in maniera tale da costringere i contadini ad abbandonare le terre da coltivare per non subire ulteriori rappresaglie. La maffia così ricavava dall’industria delle rapine di animali lucri rilevantissimi, in quanto che i derubati erano costretti a venire a patti per la restituzione di animali ed a sborsare somme non indifferenti e spesso quasi equivalenti al valore degli animali rapinati. Colui però che più fu fatto segno alle persecuzioni della maffia fu il sac. Virga il quale subì un danneggiamento di viti in contrada Dammusi, lo svaligiamento di un negozio in San Giuseppe Jato con danni ingenti e fu anche fatto segno a bastonamento dentro la chiesa di San Cipirello ad opera di Todaro Vito ed altri. Saputosi ciò nella cooperativa si comprese che la maffia non si sarebbe fermata a tanto ed avrebbe finito, com’era costume in quel tempo, col sopprimere il Virga che in tutti i modi ostacolava lo svolgimento dell’attività economica dei gabelloti. Intanto si pensò da me e da altri di comunicare all’arciprete Migliore Natale, ora defunto, che i soci della cooperativa avrebbero lottato ad oltranza contro la maffia e vendicato ogni ulteriore affronto che sarebbe stato fatto al sac. Virga. Si diede incarico al Migliore di portare ciò a conoscenza dei capi maffia di San Giuseppe Jato e San Cipirello Termini Santo e Todaro Vito i quali compresero che la sfida da parte del ceto dei contadini avrebbe potuto esporli a seri guai ingaggiando una lotta della quale non si sarebbero potute prevedere le conseguenze. Il sac. Virga non fu più toccato ma la maffia continuò nella sua azione di rappresaglia facendo commettere il furto della bottega di cui dianzi ho parlato ed organizzando infine la calunnia in danno di lui e dei suoi congiunti, facendo collocare i biglietti falsi nella sua bottega e denunziandoli come spacciatori di biglietti falsi. E’ stato un vero miracolo che lui sia riuscito a dimostrare la propria innocenza. La maffia ancora per evitare che la cooperativa concludesse un lungo affitto per 24 anni con l’on. Di Lorenzo per il feudo Desisa offerse una cifra ingente al sac. Virga perché mandasse a monte le trattative e non essendo riuscita a corromperlo, Troia Vincenzo, Celeste Giuseppe (ora ucciso) e Todaro Vito chiamarono me e mio cognato Sciortino Vito, componenti del consiglio direttivo della cooperativa, offrendoci delle terre e facendoci delle minacce velate perché ci distanziassimo dal Virga e dalla cooperativa e mandassimo a monte l’affitto dell’ex feudo Desisa. Questo feudo era indispensabile nelle mani della maffia; era tenuto sino ad allora in affitto da persone di Vita e da Lorenzo Speciale da Partinico, noti malviventi e capi maffia, e serviva alla delinquenza interprovinciale come luogo di ricovero di animali rapinati e di individui ricercati dalle autorità, che trovavano in tali luoghi ricovero, assistenza e aiuto. Per la maffia quindi era un punto strategico in quanto rappresentava la via di transito per gli animali rubati, provenienti, od avviati, da Partinico e comuni vicini, da Alcamo e comuni vicini, da Corleone e comuni vicina, da Piana e comuni vicini, in quanto era situato in centro e rappresentava un prezioso punto di appoggio. La maffia aveva sviluppato la sua azione specialmente dopo la guerra facendo un gran numero di gregari e costituendo una vera e propria associazione di individui uniti tra loro da vincoli di delinquenza e sottoposti a gerarchia. Capi riconosciuti come tali, sia dagli associati sia dai cittadini di questi paesi e dai comuni vicini erano: per San Giuseppe Jato: Termini Santo, Troia Vincenzo, Termini Calogero, Pulejo Antonino, Terrana Ignazio, Troia Giuseppe, Traina Vincenzo, Rampudda Sebastiano. Per San Cipirello: Todaro Vito, Pardo Domenico, Mustacchia Ignazio. Tra i più influenti gregari dell’associazione vi erano: D'Anna Antonino e Antonio, Bellone Giuseppe e Calogero, Battaglia Francesco, Termini Emanuele e Federico, Balistreri Domenico, Candela Antonino, Musunserra Gaetano, Di Piazza Vincenzo, Nania Baldassare, Maniscalco Pietro, Cavallaro Giovanni, Micciché Nicolò, Pardo Vincenzo, Vivona Giuseppe, Calò Onofrio e Gaspare, Russo Francesco, Rampudda Giuseppe, Terrasi Domenico e Nicolò, Balistreri Vincenzo, Immordino Salvatore, Todaro Giuseppe, Leone Francesco, Pardo Santo e Giovanni, Mustacchia Giuseppe, Croce o meglio Crociata Francesco di Giuseppe, Zito Filippo. Per Randazzo Nicolò e Giuseppe debbo dire che mi sembra un errore averli compresi tra i componenti dell’associazione e così pure per Bonanno Giuseppe. Non voglio dire nulla in ordine a Cimino Francesco, mio parente in sesto grado, perché la mia deposizione in suo favore potrebbe essere sospettata data la relazione di parentela. Escludo anche che sia un componente dell’associazione il Todaro Battista di Gaetano."

 

(dalla deposizione di Monteleone Paolo di Salvatore di anni 48 da San Cipirello, ex presidente della Cooperativa Pio X. f. 485)

"Vero è che demmo incarico all'arciprete Migliore di far sapere al capo maffia di San Giuseppe Jato Termini Santo che se fosse stato toccato ancora una volta il sac. Virga Giulio, noi avremmo usato le armi e vendicato il Virga."

 

(dalla deposizione di Nania Salvatore fu Vincenzo di anni 49 da San Cipirello, componente del Consiglio della Cooperativa Pio X. f. 483)

Pur essendo fratello dell'imputato per maffia Nania Baldassare, rinuncia alla proposta di un "regalo due salme (4 ettari) di terra in Pietralunga fatta da Troia Vincenzo, Termini Santo e Termini Calogero" a condizione che abbandoni la Cooperativa e il sac. don Giulio Virga. "Rinunciai per non tradire i soci" detta a verbale.

 

(Perugino Umberto di ignoti ex impiegato comunale accusato di associazione per delinquere. 26.07.1927. f. 84)

"Mi protesto innocente dell'imputazione che mi si ascrive. Non è vero che io sia associato per commettere reati con Santo Termini o con altri. Io dimoravo a San Giuseppe Jato dove ero guardia municipale e Santo Termini era Sindaco. Egli e i suoi compagni mi disprezzavano, come è notorio a San Giuseppe Jato, e basta questo a dimostrare come io non fossi in relazioni criminose con tale compagnia. Risulta già da precedenti dichiarazioni che una volta fui costretto con minacce di morte da Termini Calogero, Tesoriere del Comune di San Giuseppe Jato a firmare per quietanza diversi mandati per compensi nel servizio di nettezza urbana ammontanti a complessive lire 89.000 circa (4 o 5 mandati), mentre questa somma io non l'ho ricevuta affatto. Ciò avvenne nel 1921. Risulta ancora che sempre con minacce di morte il Termini Santo, Termini Calogero ed altri loro compagni mi costrinsero a depositare un pacchetto di biglietti di banca falsi da lire 50-25-10 nella bottega di certo sacerdote Virga Giulio e ad inviare due lettere di denunzia ai carabinieri contro il detto Virga come spacciatore di biglietti falsi e detentore di armi. Io di fronte alle gravi minacce di morte, così dissero che se non eseguivo i loro voleri facevo la fine di Sereno Oreste e se parlavo facevo la fine di Bosco. Non potei fare che quanto volevano.»

 

(continuazione della lettera al Giudice Triolo di Termini Federico fu Giuseppe inviata "Dalle carceri giudiziarie di Palermo lì 18.06.1926". f. 232)

"…Per quanto riguarda le singole calunnie di cui sono accusato mi permetta di dare inoltre questi chiarimenti. Perugino Umberto era un salariato del Comune durante il tempo che prestò il suo servizio, oltre a dimostrarsi inadatto nelle sue mansioni era insubordinato e di modi inurbani. Per queste sue specifiche qualità ben presto venne a noia dell'Amministrazione Comunale e mio fratello Calogero, che ne era il Tesoriere e uno dei più ferventi sostenitori, fece in modo che il Perugino venisse dal sindaco Santo Termini licenziato dal posto che occupava. Odi e rancori nacquero nell'anima del Perugino per l'avvenuto licenziamento, minacciando propositi di vendetta. Di ciò se richiesti potranno farne fede Manno Gaspare e Mazzeo Fortunato. Avvenuta la circostanza delle carte false, Perugino che era a conoscenza dei forti attriti che correvano tra l'Amministrazione Comunale e il sac. Giulio Virga e specialmente perché in quell'epoca vi era un Commissario d'inchiesta al Comune per salvarsi da una sicura condanna credette opportuno fabbricare dei castelli e così veniva anche a sfogare tutta la sua bile contro i facienti parte l'A.C. e i suoi principali sostenitori. Desidero infine sapere dove, quando e chi fummo a minacciare il Perugino di calunniare il sac. Virga, affinché in presenza della S.V. Ill. ma, e riandando la memoria ai tempi passati, possa io dimostrare in quale altro luogo diverso da quello indicato, e con quale altre persone mi trovavo in quel periodo di tempo. Dall'esame minuto di tutte queste circostanze da me citate emergerà chiara, specifica e limpida la mia innocenza per questa infame calunnia. Voglio ancora mettere a conoscenza la S.V.Ill.ma che per una combinazione venni a conoscenza che il Perugino per sfuggire alla Giustizia e perché non potesse tradire in un possibile confronto da noi richiesto cerca emigrare. Pregola pertanto perché voglia fare impedire a che il fuggitivo scappi e perché voglia informare da chi è stato suggerito a fuggire e chi ancora gli abbia apprestato i mezzi di fuga, non avendo il Perugino beni di fortuna, e per dirla in una parola, povero ai sensi di legge. Per l'ultima calunnia ancora più arbitraria delle precedenti e affidatami dalla Bonfiglio nella sua denunzia, insisto nel dire che è un vero e proprio ricatto e di ciò potrà farne fede il sig. Sunseri Carmelo (Nota in rosso del Giudice: 'arrestato o latitante!') domiciliato e residente in San Giuseppe Jato. Chiudo il presente, sicuro che Giustizia sarà fatta, riconoscendo nella S.V. Ill.ma il magistrato integerrimo, leale, giusto ed onesto. Con osservanza. Termini Federico fu Giuseppe."

 

c.2 - Assassinio di Salvatore Mineo: capo dell'opposizione al Comune

 

(Francesco Belli – Ricordi storici e statistici di San Giuseppe Jato e San Cipirello – 1934 – pag. 130)

"Il 29 maggio 1920 nella pubblica piazza e di pieno giorno veniva soppresso proditoriamente e da ignota mano assassina il signor Mineo Salvatore, leader dell'opposizione, che godeva la stima di tutti pel suo animo generoso e pel suo schietto civismo. Fu un orrore e un rimpianto generale. Non entriamo nei particolari del misterioso assassinio, la voce pubblica e la giustizia hanno dato il loro verdetto."

 

(Dalla dichiarazione del sac. don Giulio Virga fu Gioacchino e fu Domenica Balsamo nato a Monreale. ASP - Fondo Tribunale Penale - Busta 3105, f. 377. In data 12.4.1926)

"…Il delitto Mineo è stato causato dai contrasti politici. Il Mineo era infatti un capo partito in opposizione allora al sindaco Pulejo Antonino, Termini Santo e Troia Vincenzo. Il Mineo era molto stimato e benvoluto da tutti tanto che lo chiamavano il padre del paese. Escludo in modo assoluto che egli sia stato ucciso perché strozzino: questa è un'infamia creata ad arte dagli autori e mandanti del delitto per sviare le tracce. Il Mineo che era persona coraggiosa, che affrontava in pubblico gli oppositori non aveva peli sulla lingua…"

 

(on. Rocco Balsano fu Calcedonio di anni 63 nato a Porto Empedocle. Avvocato. 05.01.1927. f. 656)

"Per ragioni del mandato politico ho per molti anni avuto a che fare con i cittadini del Comune di San Giuseppe Jato e per essere più preciso sin dal 1909 allorché contrapposi la mia candidatura a quella dell’on. Nasi potei conoscere l’ambiente. In quel comune sin da quell’epoca i capi della maffia avevano assunto il potere amministrativo ed annidati nell’amministrazione vi spadroneggiavano dilapidando il denaro pubblico e commettendo ogni sorta di delitti. Se un comune in Sicilia vi era dove la maffia era onnipotente era proprio quello di San Giuseppe Jato. Sulle elezioni politiche del 1919 il Mineo Salvatore sostenne la mia candidatura, come l’aveva sostenuta in passato contro quella dell’avv. Francesco Orlando fratello del Ministro del tempo, che era appoggiata dai componenti l’amministrazione comunale capeggiata dal famoso Ninu 'u latru cioè Pulejo Antonino. Il gruppo dei facinorosi si manteneva al potere per la protezione che aveva da parte del Governo, quindi dalle autorità, contro la volontà di quasi tutta la cittadinanza composta di uomini onesti che per timore di vendette subivano la situazione. Soltanto il Mineo, apertamente, deplorava la cosa e pubblicamente commentava le malefatte di quella gente che aveva per esponente il sindaco Pulejo. Più volte in occasione di discorsi politici io ebbi a dire ciò in San Giuseppe Jato e lo ripetei anche dopo l’assassinio del Mineo dovuto unicamente ed esclusivamente a tale causale. Il Mineo, uomo onesto, coraggioso, che beneficava largamente chi a lui ricorreva, si era fitto in mente di abbattere l’Amministrazione Comunale e di inaugurare nell’amministrazione metodi di correttezza e di onestà sconosciuti a quell’amministrazione e nel 1920 subito dopo il successo riportato facendo convergere su me i voti dei suoi amici si era illuso che nelle successive elezioni amministrative sarebbe riuscito nello scopo. Questi (il Mineo) all’epoca della prima inchiesta Fazio aveva aiutato il Fazio stesso nello svolgimento del proprio lavoro facendo così convergere su di lui l’odio del Pulejo e dei suoi seguaci. E tale odio si inasprì perché il Mineo si ingerì in procedimenti penali svoltisi a carico dei nipoti del Pulejo certi D'Anna, attirando su di se altri motivi di risentimento. Più volte avvertii il Mineo di stare guardingo perché da più parti mi si diceva che prima o poi avrebbero finito per ucciderlo ma egli, uomo coraggioso, mi diceva che si trattava di vigliacchi, che non avrebbero mai avuto il coraggio di andare di fronte a lui e che egli non avendo inimicizie ed anzi beneficando quanti a lui ricorrevano, poteva tenere a posto quei malfattori, perché un delitto in suo danno avrebbe immediatamente fatto consegnare le ricerche delle Autorità su di loro. Purtroppo egli fu assassinato e a nulla valsero le sollecitazioni che io a quell’epoca feci alla vedova perché resistesse alle imposizioni e perseguitasse gli assassini del marito, perché essa si lasciò vincere dalla paura e il delitto rimase impunito. Morto il Mineo finì l’opposizione ed io stesso nelle elezioni del 1921 dovetti ritirarmi. Tutto questo ebbi a riferirlo al Prefetto del tempo ed alle autorità competenti. Sin dall’epoca del delitto appresi che autori materiali dell’assassinio erano tre individui da Borgetto e Partinico ma non ne ho mai saputo i nomi. Credo che la vedova non abbia voluto mai assumere una posizione netta contro la maffia perché parente di Vincenzo Troia che era un assessore ed uno dei capi maffia.»

 

Al Principe apparve strana la difesa del Mineo fatta dall'on. Balsano, notoriamente uomo legato alla maffia. Il Balsano, nel 1894 sindaco di Monreale, aveva creato uno dei fasci di Monreale ed era stato sconfessato da Garibaldi Bosco. Nel 1919 lo trovò nella lista nittiana assieme all'on. Lo Monte. Quasi certamente le fortune mafiose del Balsano erano venute meno con il tracollo della giovane mafia degli stuppagghiari di Monreale nel secondo decennio del 1900 e non è improbabile che, annusata l'aria, abbia pensato di trasferirsi, armi e bagagli, nel partito dei nuovi vincitori.

 

(Niotta Ignazio fu Stefano di anni 50 Presidente della cooperativa Giosuè Borsi di San Giuseppe Jato. f. 565. Dichiarazione simile a quella di Li Bassi Salvatore di Francesco di anni 29, segretario della stessa cooperativa)

"La cooperativa Giosuè Borsi ha circa 300 soci e coi sindacati agricoli che ci fiancheggiano possiamo dire che conta 500 soci quasi tutti contadini….a proposito di chi ha sfidato la maffia va ricordato che Mineo Salvatore fu assassinato perché apertamente avversario della delinquenza."

 

(Riela Vincenzo di Antonino di anni 58 da San Giuseppe Jato. 14.10.1926. f. 468)

"Confermo la dichiarazione che resi al commissario di pubblica sicurezza nell'aprile scorso relativa sia all'omicidio di Mineo Salvatore che per voce pubblica si dice sia stato ucciso o fatto uccidere da Pulejo Antonino, Termini Santo, Troia Giuseppe e Vincenzo, Termini Calogero, Federico, Emanuele e Francesco e da altri del loro partito, sia ai nomi dei capi maffia che imperavano in San Giuseppe Jato."

 

(Lettera dal carcere di Santo Termini al Giudice. F. 670)

"Ill.mo sig. Giudice della 3^ Sezione, pregiomi inviarle le sottoscritte aggiunzioni. Delitto Mineo. Tengo a far rilevare alla S.V. Ill.ma che i più cordiali rapporti corsero tra me e Mineo Salvatore, potendo io citare altresì la convenzione stipulata amichevole tra me e la vittima circa la cessione di un suo diritto di gabella dell'ex feudo Pietralunga, di mia proprietà, con l'incarico di continuare la lite a suo nome, previo compenso di Lire 18.000 con altro pretendente. L'avvenuta morte del Mineo fu il motivo per cui mancando il suo sostegno perdetti la lite in appello (avendola di già il Mineo vinta in Tribunale) apportandomi ciò un danno per avere rilasciata la gabella. Aggiungo, inoltre, che pochi mesi prima della morte del Mineo, io con lui ed altri fummo in società per l'acquisto dell'ex feudo Argivocale."

 

(Ordinanza di rinvio del 27.12.1927. n. 1036/27 R.G.)

"Il primo procedimento per l'assassinio di Mineo Salvatore viene fatto contro ignoti. Il secondo contro Rappa Filippo ed Amato Antonino di Borgetto indicati quali esecutori materiali da certo Di Marco Vincenzo figlio di Antonino. Successivamente il Di Marco precisa che la fonte delle sue informazioni era un certo Petruso Santo, testimone oculare, in seguito soppresso."

 

c.3 - Ammazzatìne

 

(Da "Belli – Ricordi storici e statistici di San Giuseppe Jato e San Cipirello – 1934" – pag 130)

"L'11 marzo 1919 triplice omicidio dei fratelli Giuseppe e Giacomo Maniaci e di G. Maria Brusca in ex feudo Traversa. Il 15 ottobre nella via Vittorio Emanuele assassinio di Lazio Calogero. Il 26 dicembre nel limitare della propria casa assassinio di Ricotta Dionisio. Il 20 luglio 1920 Bruno Mario fu Rosario in ex feudo Giambascio. Questo fatto di sangue dimostra come l'audacia e la sicurezza degli assassini fosse enorme, perché accolsero con delle ben nutrite fucilate la pattuglia dei Reali Carabinieri accorsa sul posto per le constatazioni di legge. Se ne stavano tuttora appostati sul luogo. Nell’anno seguente (1921) avvennero le elezioni politiche (ministero Giolitti) col sistema proporzionale provinciale. Niente avvenne di notevole. Elenchiamo intanto senza commenti gli assassini che si seguono a ripetizione. Il 19.07.1921 Bruno Salvatore. L' 1.08.1921 Giordano Giuseppe fu Girolamo in ex feudo Mortille. Il 02.11.1921 Caiola Baldassare di Giuseppe entro l’abitato. Il 09.11.1921 Bommarito Onorato entro l’abitato. Il 28.11.1921 Musonserra Baldassare entro l’abitato. Il 29.11.1921 Sgroi Giuseppe. Il 27.01.1922 D'Anna Stefano in ex feudo Mortille. Il 27.01.1922 Salamone Filippo in ex feudo Mortille. Il 31.05.1922 Romano Benedetto in ex feudo Mortille. Il 31.05.1922 Fratelli Romano Girolamo. Il 10.08.1922 Scomparsa di Maniscalco Calogero presunto autore del sequestro del ragazzo Termini Emanuele. L' 08.11.1922 Rinvenimento in ex feudo Disisa di un cadavere in putrefazione di sconosciuto. L' 08.11.1922 Rinvenimento in un gorgo del fiume Jato del cadavere di una donna sconosciuta con una grossa pietra legata al collo. Date imprecisate: scomparsa dei due fratelli Terrasi, di Finazzo Giuseppe e di tanti altri. L'8 settembre 1923 Di Piazza Michele. Il 18 settembre 1923 Pullarà Santo in ex feudo Giambascio. Il 14 aprile 1923 Clemenza Pasqua in casa propria (N.d.A.: era casalinga). Il 17 maggio 1923 Di Maggio Salvatore. Il 19 giugno 1923 Polizzi Calogero. Il 31 gennaio 1925 Lo Cicero Pietro sullo stradale per San Cipirello. Il 15 dicembre 1925 Lo Re Gaetano."

 

(Dal 'Memoriale dei Sindacati Agricoli Fascisti di San Giuseppe Jato e San Cipirello' inviato al Prefetto Mori. Febbraio 1926.)

"L’azione dei componenti della maffia in queste contrade, e in ispecie del trinomio Termini-Troia-Pulejo, che reggeva le sorti del comune, è stata terrorizzante al non plus ultra – assassinii commessi impunemente in gran numero (nel solo mese di febbraio del 1922 furono uccise più di trenta persone), abigeati innumerevoli a danno dei pacifici lavoratori ed altri infiniti reati contro la proprietà e le persone che per brevità omettiamo."

 

(07.06.1921 f. 64)

"Omicidio di Cannella Gaetano"

 

(Ordinanza di rinvio. f. 81)

"Omicidio di Moscona Antonino"

 

(Ordinanza di rinvio. f. 81)

"Rinvenutosi nel settembre 1921 il cadavere di Giordano Giuseppe, aveva vicina una rivoltella appartenente al suo intimo amico Caiola Baldassare, poi ucciso anch'egli"

 

(31.03.1924. f. 187)

"Omicidio di Madonia Calogero nella pubblica via di San Cipirello."

 

 

(21.10.1920. f. 435)

Viene ucciso mentre rincasava Saverio Turacciolo, socio della cooperativa Pio X. Quindici giorni prima aveva preso parte all’occupazione del feudo Jannuzzo. All’occasione la maffia locale aveva assoldato un certo numero di altri delinquenti e, assieme, avevano affrontato i contadini costringendoli ad abbandonare tutto. Il Turacciolo la sera dell’assassinio, è la madre a dichiararlo, era stato chiamato in casa del capo maffia Vito Todaro e sul luogo del delitto poco prima era stato visto Giuseppe Todaro, affiliato alla maffia di San Cipirello.

 

(20.10.1921. f. 188)

Garrisi Francesco di Angelo (nato nel 1896) è imputato di associazione a delinquere e di omicidio qualificato in persona di Turacciolo Saverio.

 

(Ordinanza di rinvio. f. 54)

"Labbruzzo Baldassare era notoriamente un poco di buono. Egli fu ucciso in San Cipirello il 31.10.1921 ed il processo si chiuse contro ignoti. Ora il padre narra che prima aveva taciuto per imposizione di Sgroi Leonardo e per timore incussogli da Termini Santo."

 

(14.06.1921)

Giuseppe Di Maggio, implicato nel mancato assassinio di Vito Todaro, esce di casa e non vi fa più ritorno. Assieme a lui scompare anche Giuseppe Faraone. Negli stessi giorni viene ucciso Giuseppe Celeste anch’egli implicato nel mancato omicidio di Vito Todaro.

 

(dichiarazione resa dalla sorella di Finazzo Giuseppe al giudice Triolo. f. 460)

Finazzo Giuseppe nel marzo 1921 per dissidi sulla spartizione del bottino con Terrana Ignazio, Immordino Salvatore, Candela Antonino e Rampudda Sebastiano viene preso a fucilate da questi ultimi. Dichiara ai carabinieri un incidente di caccia. Guarito pensa di emigrare in America. Viene avvicinato da Santo Termini il quale lo consiglia, prima di partire, di riappacificarsi con Terrana, Immordino, Candela e Rampudda. Il Finazzo si presenta all’appuntamento e da quel momento non si ebbero più notizie di lui.

 

(Lo Cicero Giuseppe di anni 62. 29.10.1926. f. 591. Dello stesso tenore sono le dichiarazioni di Finocchio Giovanni e Lo Cicero Antonina.)

"Subito dopo l’assassinio di mio nipote Lo Cicero Pietro seppi da suo fratello Vincenzo che il Pietro, prima di morire gli aveva rivelato di avere riconosciuto gli assassini e che essi erano Balistreri Domenico e Vincenzo, Candela Antonino e Cavallaro Giovanni. Pur essendo a conoscenza di ciò, quando fui interrogato dal Pretore, essendo la istruzione svoltasi nei locali del Municipio di San Giuseppe Jato e vedendo la intimità del Santo Termini e del Pretore considerato anche che il Santo Termini entrava e usciva dalla stanza ove il Pretore interrogava credetti opportuno di tacere quanto era a mia conoscenza perché il rivelarlo mi avrebbe esposto alla vendetta del Santo Termini e della maffia. Il Santo Termini era a capo della delinquenza di San Giuseppe Jato ed era lui che si interessava della sorte del Balistreri Domenico. Infatti i testi furono reclutati nella delinquenza di San Giuseppe Jato. Il Traina Antonino è fratello di Traina Vincenzo, uno dei capi maffia, il Bonura Giuseppe è cugino del Balistreri, il Gambino Vincenzo è un intimo amico del Balistreri, Pulejo Antonino soprannominato Ninu ‘u latru è uno dei peggiori delinquenti, Ferrara Benedetto era guardia campestre dipendente del Santo Termini. Da ciò si comprende che si tratta di testimonianze di favore preparate da Santo Termini per portare, come portarono all’assoluzione di Balistreri Domenico. Il Santo Termini accompagnò il Pretore anche in casa della vedova ed in quei tempi bastava la sua presenza perché nessuno osasse parlare."

 

(Ordinanza di rinvio f. 97)

"3 agosto 1922: Clemenza Michele subì in San Cipirello una rapina di equini. Gli autori rimasero ignoti. 22 agosto 1922 Clemenza Giuseppe, fratello del rapinato, andò in cerca degli equini e scomparve definitivamente. 26 luglio 1924: Clemenza Vito, l'altro fratello del rapinato venne ucciso a San Cipirello. 18 luglio 1925: fu ucciso tale Sciortino Giuseppe e di tale omicidio si diè carico al rapinato Michele il quale a 13 maggio 1926 fu pure ucciso a Palermo ov'era latitante e per questo delitto si procedeva a carico di Bono Tommaso e Celeste Salvatore."

 

(Dichiarazione di Di Marco Vincenzo fu Antonino 34 anni di Borgetto. 28.02.1927. f. 643)

"Il 1° maggio 1921 fu in Borgetto assassinato mio padre etc.". Il Di Marco chiede informazioni ad un certo Petruso. Il Petruso risponde che "tra la maffia di Borgetto e quella di San Giuseppe Jato c’era uno scambio continuo di prestazioni di opere delittuose specialmente per la commissione di assassini." L’assassino del padre del Di Marco è Rappa Filippo. Rappa Filippo aveva pure assassinato, in contrada Bommarito, un certo Finazzo, ritenuto scomparso a San Giuseppe Jato. I motivi: il Finazzo aveva avuto mandato dal Rappa Filippo di assassinare un certo Celeste Giuseppe di San Cipirello. Mentre il Finazzo preparava l’assassinio, il Rappa si riappacificava con il Celeste Giuseppe o, forse, veniva a conoscenza che qualcun altro si stava occupando dello stesso. Il Rappa Filippo, temendo che il Finazzo potesse svelare il mandato assunto, lo attirava in una imboscata, lo freddava e lo seppelliva in contrada Bommarito. Quella del Finazzo risultava alla fine un'ammazzatina inutile. Dopo pochi giorni il Celeste Giuseppe veniva assassinato da un'altra squadra: Todaro Vito e compagni di San Cipirello.

 

(f. 10)

Imputati dell'omicidio di Giuseppe Celeste: Todaro Vito fu Giuseppe; Pardo Giovanni di Francesco; Todaro Giuseppe di Vincenzo; Mustacchia Ignazio di Bartolomeo; Mustacchia Giuseppe da Camporeale; Crociata Francesco inteso Croce; Pardo Domenico di Francesco; Pardo Santo di Francesco.

 

(f. 8)

Todaro Giuseppe di Vincenzo (nato nel 1899) imputato di omicidio premeditato di Celeste Giuseppe commesso la mattina del 5.6.1921 in San Cipirello con vari colpi di arma da fuoco si difende sostenendo che il 5.6.1921 si trovava in corso Tukory a Palermo in una clinica al capezzale di Vito Todaro ferito nel tentato omicidio ad opera del Celeste.

 

(Comunicazione di RR.Carabinieri. f. 242)

D'Anna Stefano di Girolamo e fu Pulejo Nicolina, correo di una rapina, risulta ucciso in conflitto da altri malfattori.

 

(Ordinanza di rinvio. f. 103)

"Certi Terrasi G. Battista ed Agostino, datisi alla latitanza in seguito all'arresto dei fratelli Domenico e Nicolò, ebbero modo di far sapere alla madre, Lo Coco Giuseppa, che erano al sicuro presso Santo Termini nella contrada Dammusi ov'era campiere Terrana Ignazio. Costui, in seguito, fu arrestato insieme alla Lo Coco e le disse essere convinto che l'arresto proveniva per chiamata di correo dei Terrasi da lui ospitati, quindi minacciava di sterminare la razza. Si è ritenuto che i due Terrasi, di cui non si ha più notizia, siano stati soppressi anche per ordine della mafia, ma giustamente il Pubblico Ministero rileva che non può indagarsi sulla prova della responsabilità, quando non si ha la prova che un omicidio esista. Provato è invece ad esuberanza che il Termini ed il Terrana furono favoreggiatori dei Terrasi."

 

(Verbale dei RR.CC. f. 24)

Clemenza Michele di San Cipirello riconosce, prima di morire, i propri assassini nelle persone di: Bono Tommaso (ora detenuto), Immordino Giuseppe (o Francesco) di Giuseppe e Celeste Salvatore fu Pietro.

 

(Niotta Ignazio fu Stefano di anni 50 Presidente della Cooperativa 'Giosuè Borsi' di San Giuseppe Jato. f. 565)

"Sono da ricordare gli assassini e le scomparse di Maniscalco Calogero fatto sparire dalla maffia perché aveva sequestrato il figlio di Calogero Termini, l'assassinio di Celeste Giuseppe autore di un mancato omicidio di Vito Todaro; la scomparsa di Finazzo Giuseppe, l'assassinio dei fratelli Romano, quello di Caiola Baldassare e quello di Labbruzzo Baldassare, che ora viene attribuito ai fratelli Bellone Giuseppe e Calogero a Stefano Allegro e Vicari Onofrio."

 

(f. 613)

Grippi Pietro assassinato dai figli di Di Corte Calogero fu Nicolò a nome Vincenzo e Nicolò.

 

c.4 - Sequestro di un bambino

 

(1924)

Trovati due scheletri in una fogna. Viene fatto riferimento al sequestro del bambino Termini Emanuele.

 

(Ordinanza di rinvio. F. 55)

"Per pubblica notorietà venne a conoscenza dei funzionari di polizia che verso le ore 21 dell'8 agosto 1922 il bambino di quattro anni Termini Emanuele figlio di Calogero, attratto fuori l'abitato di San Giuseppe Jato era stato sequestrato a scopo di ricatto. Interrogato il genitore Termini Calogero, confermando il fatto, narrò che già qualche giorno prima si era tentato il sequestro attirando fuori il paese il bambino, visto, per caso, da amici del Termini che lo interpellarono ed egli aveva detto che andava in cerca di San Calogero. Si fecero febbrili ricerche essendo anche i funzionari pressati dal Ministero, quando il Termini narrò che durante la notte dell'11 agosto, mentre egli vegliava, aveva sentito la voce del bambino, rilevando così che i malfattori lo avevano spontaneamente rilasciato. Questa narrazione non apparve verosimile e si ritenne che il Termini occultasse i mezzi adoperati per la liberazione del figlio, quando il 19 dello stesso agosto si presentò al commissario di P.S. Bonfiglio Francesca, moglie di Maniscalco Calogero, cugino e lavorante ai servizi di Termini Calogero, e narrò che il marito, la sera in cui era avvenuto il sequestro era stato fuori di casa dicendo che andava per cooperare alle ricerche del bambino; la notte dal 10 all'11 agosto era stato pure fuori, rincasò alle ore 3 e poi, verso le ore 6, venne in casa sua la zia Maniscalco Caterina rimproverandogli di aver preso parte al sequestro del bambino e dicendogli che certamente non sarebbe sfuggito alla vendetta dei Termini. Narrò ancora la donna che il marito, preoccupato, le confidò che d'accordo con Termini Calogero, il quale aveva avuto richiesta la somma di lire 10000 pel rilascio del figlio, andò a trattare coi malfattori la riduzione della somma a lire 6000; che il Termini Calogero, fornitolo di orologio e rivoltella, gli consegnò quella somma che egli, sul luogo convenuto, diede ai malfattori, ricevendo il bambino. Continuò la Bonfiglio dicendo che, la sera dello stesso 11 agosto, il marito uscì di casa dopo aver preso un fil di ferro e da quel momento era scomparso. Disse che aveva un'amante a Roccamena e che avrebbe in precedenza voluto emigrare; soggiunse di aver saputo da sua zia che, quando il Maniscalco era andato a rilevare il bambino sequestrato, era stato pedinato da quattro persone. Nel gennaio del 1924, in una fogna pubblica si rinvennero dei resti di scheletro umano ma, per il momento, non se ne ricavò alcun costrutto. Le indagini sui fatti sopra esposti si ripresero nell'occasione del procedimento attuale e la polizia formulò l'assunto seguente: 'Maniscalco fu soppresso per mandato di Termini Calogero e Federico; i quattro che pedinarono il Maniscalco, quando si recò a rilevare il bambino sono: Terrana Ignazio, Troia Vincenzo, Fiore Antonino e tal Pizzo (Salvatore), ora morto; contro i primi tre e contro i due Termini si è quindi rubricato l'omicidio del Maniscalco. La narrazione della vedova, ripetuta ora e confermata dalla zia Maniscalco Caterina, dimostra più che chiaramente la partecipazione del Maniscalco nel sequestro e dimostra la vendetta da parte del Termini il quale ha sempre persistito nel negare la missione assunta dal Maniscalco nella liberazione del bambino. Per altro ancora, risulta che il detto Termini ed il fratello Federico, hanno finito per ammettere alla vedova del Maniscalco che questi fu ucciso, pur dicendosi estranei al delitto ed asserendo che fu commesso da loro ignoti amici, per far loro cosa grata."

 

(8 maggio 1926. f. 157. Verbale dei Reali Carabinieri)

"Bonfiglio Francesca di anni 26 moglie di Maniscalco Calogero (ucciso) fa verbalizzare che nel mese di aprile si sono presentati a lei due sconosciuti, inviati da amici comuni, che cercarono qui in San Giuseppe Jato di indurre la vedova a recarsi a Palermo allo scopo di farle modificare di fronte a qualsiasi autorità di quella città le dichiarazioni più volte rese ai carabinieri di San Giuseppe Jato e San Cipirello. L'invito rivolto alla Bonfiglio era accompagnato da promesse di ricompensa varie. Fortunatamente noi verbalizzanti ci siamo trovati di fronte ad una giovane donna che, pur di vendicare il marito ucciso, a nessuna lusinga ha ceduto."

 

Il Principe rimase colpito dall'intera vicenda ma limitò le considerazioni all'oggetto della sua ricerca monografica. Sottolineò così che il Calogero Termini non aveva denunziato, all'autorità giudiziaria, la scomparsa del figlio ma contemporaneamente, attraverso propri collegamenti certamente altolocati, aveva interessato il Ministero il quale aveva pressato i funzionari perché si facessero febbrili ricerche.

 

c.5 - Violenza privata

 

(Ordinanza di rinvio. f. 104)

"Rampudda Sebastiano e Giuseppe possono ritenersi raggiunti da prova per violenza privata in forma indiretta, ma non meno efficace, se si considera che, essendo tal Giambrone campiere di Dolce Carmelo, costui subì molti furti tra cui quello di una cavalla e non cessarono se non quando assunse Rampudda Sebastiano a posto del Giambrone. E quando il Rampudda dovette andar via pel decreto prefettizio sui guardiani, i furti ricominciarono e cessarono quando fu assunto l'altro fratello Giuseppe come guardiano."

 

c.6 - Curriculum con scambio di persona

 

(Catturando Candela Antonino di Giuseppe di anni 36 inteso Ramaglia accusato di associazione a delinquere contro le persone e la proprietà. Verbale di costituzione. 22.09.1927. f. 2 bis)

"Inoltre: per omicidio volontario in persona di Lo Cicero Pietro in San Giuseppe Jato nel 1925; per violenza privata aggravata commessa da più persone per avere costretto Sudano Giuseppe con minacce ad abbandonare il posto di guardia giurata nel feudo Argivocale, conseguendo l'intento nel 1924; in data 25.10.1925 per rapina aggravata in danno di Faraone Santo e Guarneri Giovanni; per omicidio qualificato in persona di Finazzo Giuseppe scomparso da San Giuseppe Jato sin dall'aprile 1922; per omicidio qualificato in persona di Laudani Antonio di Antonino scomparso da San Giuseppe Jato il 2.3.1923 in c.da Argivocale; per correità nel delitto di rapina a mano armata con restrizione della libertà di Guarneri Giovanni e Faraone Salvatore per avere il 16.10.1924 in c.da Passo Polledro costretto gli stessi a tollerare che si impossessassero di un mulo; correità di rapina a mano armata in danno di Bonanno Rosario, Candela Antonino, Simonetti Michelangelo, Lombardo Francesco in c.da Jannuzzo di San Cipirello il 19.02.1921; imputato di avere determinato uno sconosciuto a commettere una rapina aggravata in danno di Mazzola Gaetano di una giumenta del valore di lire 9000."

 

(Dichiarazione di Candela Antonino di Salvatore del 14.10.1926)

"Sono cugino in quarto grado con Candela Antonino fu Giuseppe; ma tra me e lui vi è la stessa differenza che esiste tra un diavolo e un santo."

 

c.7 - Storie di muli

 

Vincenzo cav. Troia, Assessore del Comune di San Giuseppe Jato durante la sindacatura di Ninu 'u Latru, sin da bambino era stato attratto dalla carriera diplomatica e da un amore spasmodico per gli indifesi poveri animali. Era sempre stato alla ricerca di un'associazione di animalisti in cui iscriversi; purtroppo, all'epoca, non ne esistevano. Per queste peculiari attitudini gli era stato affidato il compito, nell'organizzazione mafiosa, di prendere in consegna i muli rubati sul territorio, condurli al porto di Trapani e, per evitare che le povere bestie soffrissero la malinconia dell'espatrio e il mal di mare, li accompagnava sino in Tunisia dove si accertava che venissero consegnati in buone mani.

 

(30.5.1926. f. 250)

Rapine di muli mai denunziate relativamente al periodo 1920-22: n. 35

 

Alle origini del teorema Buscetta

 

 (dalla dichiarazione di Galati Benedetto fu Antonino di San Cipirello. 26.05.1926 f. 245)

Il Galati era stato derubato di una mula da tre individui e aveva fatto regolare denunzia ai Reali Carabinieri. - Dichiara: "Successivamente mi adoperai a parlare con qualcuno della maffia per avere la restituzione dell'animale, ma poiché io ero un avverso aperto alla delinquenza non potei ottenere la restituzione della mula malgrado avessi disposto di pagare la somma per il riscatto che mi avessero imposto. Ricordo che mi rivolsi anche al mio parente Vito Todaro capo maffia di San Cipirello e costui disse che non poteva provvedere perché l'animale era troppo lontano (in Tunisia). Ricordo che i campieri erano i pessimi arnesi Immordino Salvatore e Candela Antonino ambedue maffiosi. Su di essi cadono i miei sospetti e pertanto io li denunzio. Non solo. Siccome senza l'autorizzazione dei capi maffia, coi quali dividevano il bottino, nessuno dei seguaci avrebbe commesso reati del genere allora denunzio pure i capi maffia di San Giuseppe Jato e San Cipirello nelle persone di Santo Termini e del mio parente Vito Todaro. Denunzio solo ora quanto sopra perché mi avvedo che solo ora la Giustizia trionfa e dà i mezzi per garentire gli onesti."

 

(Dalla dichiarazione di Piediscalzi Giuseppe fu Lorenzo da San Cipirello domiciliato in San Giuseppe Jato)

Il Piediscalzi viene derubato di due muli del valore di Lire 6000. Dichiara: "Avvenuta la rapina, com'era costume in quei tempi, mi recai a trovare Santo Termini capo della delinquenza che imperava in paese e ne ebbi assicurazione che avrebbe spiegato il suo interessamento per il recupero degli animali, avendo io fatto atto di prontezza per il pagamento del prezzo che egli avrebbe fissato per il riscatto degli animali." Dopo qualche giorno gli si presentano Gaspare Calò e Giovanni Piediscalzi, quest'ultimo suo lontano parente, e gli chiedono un riscatto di Lire 1500. Contrae un mutuo di Lire 1500 con la cooperativa agricola Pio X e lo stesso giorno consegna il denaro al Calò e Piediscalzi i quali gli fanno sapere che 5 giorni dopo avrebbe ritrovato i muli, legati ad un albero, in contrada Figurella. Una settimana dopo trova i muli privi del basto e delle bisacce che avevano al momento della rapina, ma trova di nuovo il Calò e il Piediscalzi che lo costringono ad andare a Piana con i due muli. Lo costringono a consegnarne uno ad un campiere del feudo Rossella il quale lo ricambia con un asino del valore di lire 300 oltre a lire 1100 mentre il valore del suo mulo era di lire 3000. L'altro mulo è costretto a consegnarlo al gabelloto del feudo Rossella, un certo Palazzotto, al cui servizio era Piediscalzi Giovanni suo parente. Poi continua "…e mi diede in cambio un mulo vecchio che io poi rivendetti, dopo circa 15 giorni, per lire 1050. Io non volevo cambiare il mulo con quest'altro più vecchio ma temendo le rappresaglie a malincuore dovetti cedere e me ne tornai piangendo a San Giuseppe Jato. In complesso dopo avere sborsato le lire 1500 io non ebbi che due pessimi animali del valore equivalente alla somma sborsata sicché i miei due muli che valevano più di lire 6000 andarono a beneficio del Termini, del Calò, del Piediscalzi e dei due individui di Piana".

 

c.8 - Furto, denunzia e ritrattazione

 

(Cangelosi Antonino fu Pietro da San Cipirello. 13.10.1926. f. 437)

Il Cangelosi, nel 1917, aveva subito il furto di due muli del valore di circa lire 6000 in contrada Giammascio. Fatta la denunzia di rito aveva tentato di riscattarli rivolgendosi ad un certo Crozza Francesco il quale gli aveva risposto che non era possibile in quanto gli animali erano stati venduti a coloro che incettavano muli per conto dell'amministrazione militare. Nell'aprile del 1926 denunzia Maniscalco Francesco, Di Maggio Giuseppe e Crozza Francesco (nel frattempo tutti assassinati) quali autori del furto. Chiamato il 13.10.1926 a riconfermare quanto in precedenza denunziato dichiara: "Io vivo in campagna. Non conosco nessuno. Ho sentito nominare tante persone come gente affiliata alla delinquenza ma non potrei fare il nome di alcuno perché li ho dimenticati!"

 

Tra moglie e marito…

 

(Vinciguerra Giuseppa fu Giovanni di anni 50 domiciliata in San Giuseppe Jato, moglie di Consiglio Giuseppe. 15.10.1926. f. 487)

Circa 10 anni prima il marito era stato derubato di due muli e una cavalla in contrada Muffoletto da Scaglione Luigi e Giovan Battista. Denunciava gli Scaglione e subiva minacce dagli uomini di maffia Traina Vincenzo e Terrana Ignazio. Quest'ultimo puntava una pistola alla tempia della Vinciguerra. Dichiara la donna: "Viste inutili le minacce alla ritrattazione ci fu offerto il valore degli animali ed un mulo, che probabilmente era stato rubato ad altri." S'intrometteva l'avv. Pulejo Pietro, difensore degli Scaglione e consigliere alla Provincia di Palermo, promettendo la restituzione degli animali. Trascorreva circa un mese e gli animali non erano stati ancora restituiti. La Vinciguerra si presentava all'avv. Pulejo Pietro minacciando che avrebbe denunziato anche lui, perché in relazione coi malfattori, se avesse continuato a difendere gli Scaglione. L'avv. Pulejo Pietro dichiarava alla Vinciguerra: "Io non ci posso fare nulla se i miei paesani sono dei mascalzoni!" Dichiara la Vinciguerra: "Si celebrò il processo e mi costituii parte civile ma per l'interessamento della maffia e le deposizioni di falsi testimoni il processo finì con l'assoluzione come soleva sempre accadere."

 

(Consiglio Giuseppe, marito di Vinciguerra Giuseppa. 15.10.1926. f. 494)

"Non è esatto quello che ha riferito mia moglie che io abbia riconosciuto i malfattori; ciò non soltanto non è vero, ma io non l'ho mai dichiarato. Subito dopo la denunzia si presentarono in casa nostra Terrana Ignazio e Traina Vincenzo promettendo di interessarsi per la restituzione degli animali ma nello stesso tempo imponendoci di non fare i nomi dei malfattori. Poiché mia moglie disse loro che erano ladri e soci dei ladri, essi la minacciarono con la rivoltella."

 

c.9 - San Cipirello: quando, in 'era fascista', era difficile iscriversi al partito unico del fascio .

 

(Ordinanza di rinvio. f. 106)

"Molti soci della sezione del Fascio di San Cipirello furono costretti a dimettersi, contro la loro volontà e con minacce adoperate da Pardo Vincenzo, Leone Francesco, Badolato Giuseppe, Bilello Ignazio, Mustacchia Ignazio, Passalacqua Michele, Russo Filippo, Pardo Santo, Battaglia Leonardo; elementi indicati tutti dalla polizia come mafiosi ed agenti al fine di ricostituire a modo loro la sezione, onde paralizzare l'attuazione di uno dei fini principali del regime fascista: la distruzione della mafia. Ciò costituisce, evidentemente, violenza privata ed è vano, ai fini dell'amnistia porre avanti il movente politico, escluso da ciò che si è esposto. La prova poi si raccoglie dalle dichiarazioni delle parti lese, del maresciallo Trombino e di parecchi altri testi tra cui uno zio dello stesso imputato Russo. Va disposto il rinvio a giudizio."

 

c.10 - Santo Giacomo Termini fu Giuseppe e Morici Vita nato a Castelvetrano nel 1877 coniugato con Grazia Pecoraino.

 

Al momento dell'interrogatorio del 19 maggio 1926 sul suo certificato penale risulta:

 

 "28.12.1907 – Tribunale di Palermo: multa di lire 50 per lesioni personali volontarie. 06.09.1919 – Sezione accusa di Palermo: non doversi procedere per insufficienza di prove per omicidio e porto di fucile. 01.05.1920 – Giudice Istruttore di Palermo: non doversi procedere per insufficienza di prove per incendio doloso. 01.02.1926: Tribunale di Palermo: assoluzione per amnistia per appropriazione indebita."

 

Annotò il Principe: la prima volta che si incontra il nome di Santo Termini nei documenti d'archivio del Comune di San Giuseppe Jato è nel 1916 durante la sindacatura di Antonino Pulejo, 'Ninu 'u latru', poi assessore nella Giunta Termini. Era stato eletto componente nella Commissione consiliare per i reclami contro la tassa di famiglia, assieme a Termini Emanuele fu Giuseppe, Marsala Vincenzo fu Francesco e Giambrone Vincenzo fu Vitale. Già nel 1911 risultava qualcosa a carico del Termini, stranamente, non riportata sul certificato penale:

 

(Verbale dei Reali Carabinieri: 6 marzo 1916 f. 202)

"La sera del 2.3.1911 tra la stazione di Gibellina e Salemi due sconosciuti svaligiavano il treno portando via i pacchi dei valori postali. Sospettati di allora erano il capotreno Lo Bosco Giuseppe da Palermo e il conduttore Bertolino Giuseppe di Saverio da Partinico. Attraverso indagini si è scoperto che ad opera di Santo Termini di Giuseppe di anni 39 da Castelvetrano assieme a Di Girolamo Rosario di Francesco e un sedicente Pollarà Salvatore, identificato per Riela Rosario fu Vincenzo di anni 30 da San Giuseppe Jato, erano stati messi in circolazione effetti bancari per lire 11.000 compendio della rapina in parola. In seguito tutti i suddetti vengono prosciolti in Camera di Consiglio. Ora secondo la dichiarazione resa da D'Anna Stefano fu Antonino di anni 45 da San Cipirello il reato in parola sarebbe stato organizzato dall'avv. Lo Monte Giovanni da Mezzoiuso e consumato materialmente da Todaro Vito, dal fratello Angelo, dal Termini e da un forestiero. La rapina fu organizzata dall'avv. Lo Monte che aveva conoscenza con i sospettati di Partinico. Il D'Anna è attendibile perché egli è un maffioso uscito fuori dalle righe in seguito all'uccisione del fratello ad opera della maffia stessa."

 

Il Principe volle verificare se, come supponeva, l'organizzatore avv. Giovanni Lo Monte fosse lo stesso on. Giovanni Lo Monte deputato al Parlamento e si rese conto di avere inzertato. Poi riportò il verbale d'interrogatorio del Termini subito dopo l'arresto:

 

(Interrogatorio di Termini Santo. 19.05.1926. Pag. 4)

"Da cinque anni mi sono domiciliato a Palermo destinando la mia attività in parte alla famiglia e agli affari personali ed in gran parte anche per il miglioramento del Comune di San Giuseppe Jato del quale sono Sindaco e dei miei amministrati. In cinque anni di sindacatura non ostante io sia riuscito a far portare l'acqua nel mio Comune, a risolvere il problema della illuminazione elettrica, della viabilità urbana e rurale, della fognatura, dell'impianto di telefoni ed altro, molte animosità si sono accumulate contro di me perché è risaputo che nei piccoli ambienti chi si dedica all'amministrazione spesso è ripagato con la più nera ingratitudine ed io sostengo che agli odi politici si deve, se su di me grava l'accusa di avere costituito una associazione a delinquere al fine di commettere reati contro la proprietà, contro le persone, contro la fede pubblica della quale S.E. mi dice che mi si accusa di essere uno dei promotori e dei capi. Non ho mai fatto male a nessuno né posseduto armi. Quanto sia assurda l'affermazione che io abbia formato la mia posizione economica col provento dei delitti mi è facile dimostrare. Ereditai da mio padre un mulino in San Giuseppe Jato, che all'epoca del mio matrimonio, circa diciannove anni fa, valeva oltre centomila lire ed altrettanta somma ebbe in dote mia moglie all'atto del matrimonio. Ho dedicato la mia attività al commercio dei cereali e dei vini ricavando ingenti utili specie nel periodo antecedente alla guerra e durante la guerra. In società con altri ho fatto diversi affari acquistando e rivendendo i terreni dell'ex feudo Pietralunga (proprietà Forcella) per 3 milioni, rivendendoli per circa 15 milioni, rivendendoli a spezzoni. Altri terreni acquistammo in contrada Argivocale dal conte Forcella per 800.000 lire, rivendendoli per un prezzo quadruplo di quello per l'acquisto. Acquistammo ancora l'ex feudo Raitano guadagnando nella rivendita circa 300.000 lire. Ho acquistato per mio conto un giardino in contrada Jato che ho rivenduto con un utile di circa 100.000 lire. Nessuna intimidazione è stata fatta ai venditori per addivenire a tali contratti. Ho avuto ed ho in affitto quattro feudi cioè Manali, Sparacìa, Sagana e Pietralunga per prezzi in rapporto all'attuale situazione economica generale veramente esigui, tali cioè che mi hanno reso almeno il decuplo del prezzo da me pagato come estaglio. Pertanto data la mia posizione economica non è concepibile che io mi sia dedicato ai reati contro la proprietà, ed è notorio in paese che la mia attività come Sindaco mi costava almeno lire 100.000 all'anno spese per i miei conterranei, per tutelare in Palermo e altrove gli interessi del Comune nell'esercizio della rappresentanza del Comune stesso."

 

(Di Giovanni Pasquale di Giuseppe di anni 53 da San Giuseppe Jato. 6.8.1926. f. 345)

"Ho detto e confermo che sino a pochi anni addietro e cioè prima del suo matrimonio Santo Termini viveva in grandi ristrettezze economiche. Egli possedeva un piccolo cavallo e non aveva mezzi per comprare la paglia e trebbiava insieme a me alle dipendenze di Pietro Cannella in contrada Passo Palermo. Ricordo che tale era la sua povertà che non aveva pane per mangiare ed io ebbi a dargli da mangiare. Le sue sorelle nubili emigrarono in America per procacciarsi da vivere col lavoro. Anche il Calogero Termini viveva allora in grandi ristrettezze facendo un po' il copista presso i notai, un po' l'usciere e lucrando qualche soldo da chi si rivolgeva a lui per sbrigare qualche faccenda. In pochi anni il Santo e il Calogero Termini, riusciti a mettersi a capo dei delinquenti di questi due comuni, divennero milionari facendo rubare animali, estorcendo denaro, costringendo con le prepotenze i cittadini a subire le loro sopraffazioni. Dopo che io subii la rapina della quale ho parlato nella mia dichiarazione alla polizia, poiché io mi ero più volte pubblicamente scagliato contro la maffia e la delinquenza, circa 3 anni addietro, in occasione delle elezioni amministrative in seguito alle quali fu eletto Sindaco egli ebbe a dirmi: Io non ti ho fatto né ti facevo ammazzare, non ostante che tu parli assai, perché mi ricordo dei tempi della nostra giovinezza, e ti stimo ancora. Tu non solo sei rimasto a piedi (alludeva alla rapina da me subita) ma vuoi rimanere sempre a piedi; finiscila di parlare, perché puoi rimetterci anche la pelle."

 

(Cannella Salvatore di anni 63 da San Giuseppe Jato. 12.10.1926 f. 415)

"Sino a pochi anni addietro il Termini Calogero faceva lo scribacchino presso i notai guadagnando qualche lira mentre il Termini Santo lavorava materialmente in campagna e viveva in assoluta povertà."

 

(Dichiarazioni varie)

Ogni settimana veniva sparsa in paese la falsa notizia che Santo Termini e compagni stavano per essere scarcerati e si sarebbero vendicati nei confronti dei dichiaranti.

 

(Baccarella Emanuele fu Girolamo. 9.8.1926. f. 337)

Ritratta tutto quanto in precedenza dichiarato e ammette solo "di aver saputo che Santo Termini si era arricchito" poi continua "sono un galantuomo e non voglio impicci. Però se coloro che sono stati arrestati sono dei colpevoli mi piacerebbe che andassero alla forca!"

 

(dalla dichiarazione di Pullarà Gaspare di Giovan Battista di anni 22 da San Giuseppe Jato. 14.10.1926. f. 482)

All'età di 15 anni aveva subito il furto di un mulo. - Lo aveva recuperato attraverso la mediazione con riscatto di Lo Cicero Pietro (poi assassinato). Nell'aprile del 1926 aveva accusato Balistreri Domenico, i fratelli D'Anna, Pulejo Antonino e Santo Termini quali organizzatori di omicidi. Interrogato il 14 ottobre 1926 dichiara: "E' vero che la dichiarazione venne dettata dal maresciallo Trombino ad un carabiniere in mia presenza, ed è vero che io la sottoscrissi; ma poiché io ero distratto non capii quello che dettava il maresciallo Trombino e firmai in buona fede."

 

Quannu si futtìanu puru i chiova ri mura!

 

(Ordinanza di rinvio. f. 105)

"Peculato. Sorge da una denunzia del Commissario Prefettizio di San Giuseppe Jato che Termini Santo, Presidente del Circolo Unione, vi trasportò divani, mobili, quadri, sedie appartenenti al Comune; inoltre quattro brande, dieci leggii, una poltrona, una scrivania, un quadro, pure del Comune, trasportò a casa sua, dove si rinvennero in una perquisizione e si trovarono pure delle munizioni non denunziate."

 

(Ordinanza di rinvio. f. 110)

"Il Commissario Prefettizio di San Giuseppe Jato trovò che mancavano dall'archivio comunale una serie di atti, pratiche e mandati che il segretario Manno Gaspare dichiarò trovarsi presso il Sindaco e il Tesoriere Termini Santo e Calogero. Ordinata la perquisizione tutte le pratiche e tutti gli atti di cui si faceva ricerca, tra cui progetti tecnici in lavori pubblici e mandati, vennero rinvenuti non in unica perquisizione ma in successive nel domicilio di Termini Calogero."

 

Puru pi i ligna si mittìanu!!

 

(Dichiarazioni varie)

Santo Termini era anche socio di Baio Francesco, pecoraio, "nell'industria della pastorizia". Contemporaneamente il Baio si dedicava al furto di legna che depositava nel suo magazzino. Nel momento in cui i derubati scoprivano la refurtiva interveniva il sindaco Santo Termini che si preoccupava di minacciarli.

 

(Bonura Domenico fu Lorenzo di anni 60. 14.10.1926. f. 479)

"Il sindaco Termini Santo avvalendosi della qualità di mio superiore ebbe financo ad impormi di non denunziare Baio Francesco pecoraio, suo socio, in possesso del quale io e altre guardie campestri avevamo rinvenuto legna di provenienza furtiva."

 

Truffe

 

(Informativa dei reali carabinieri. Truffe per esoneri militari e per emigrazione clandestina. 30.05.1926. f. 192)

"Abbiamo già dimostrato come le dette truffe abbiano costituito una delle più sicure fonti di arricchimento nonché la facilità con la quale furono perpetrate essendo perfetta e disciplinata l’associazione che in tale ramo maggiormente espletava la sua deleteria influenza. Facevano parte di questa combriccola: Termini Santo, Traina Vincenzo, La Puma Salvatore, Napoli Enrico, Ferruggia Giuseppe, Bondì Bartolo, Passannanti Antonino." Ciascuno degli elementi aveva un preciso compito: La Puma Salvatore e Ferruggia Giuseppe erano procacciatori di clienti. Termini Santo e Napoli Enrico, l’uno sindaco l’altro impiegato comunale, si occupavano della falsa documentazione al Comune. Bondì Bartolo, residente a Palermo (già per tre volte perseguito per truffa), si occupava della falsa documentazione a Palermo. Passannanti Antonino risultava pressoché sconosciuto ai Reali Carabinieri ma, dopo approfondite indagini, gli stessi Carabinieri scoprivano che faceva la spola tra San Giuseppe Jato e l'America dove era pronto ad accogliere coloro che riuscivano ad arrivare per assisterli nei loro nuovi bisogni.

 

(Napoli Carmelo fu Calogero)

Nel 1924 si rivolge a Santo Termini e Passannanti Antonino che dietro pagamento di Lire 8000 gli procurano l’imbarco per Tunisi e Marsiglia. Quivi giunto, evidentemente per irregolarità nei documenti, viene rimpatriato. Tornato a Palermo pretende la restituzione del denaro. Lo recupera in parte. Il solo Passannanti trattiene Lire 500 per spese.

 

(Marchione Giuseppe fu Salvatore)

Il figlio Antonino per emigrare si rivolge a Ferruggia Giuseppe. Paga Lire 6500. Parte. Viene rimpatriato. Ma non vedrà neppure una lira.

 

(Elenco parziale di truffati per tentata emigrazione clandestina. f. 286)

La Milia Francesco, Di Miceli Rosalia, Micciché Gerlando, Di Lorenzo Pietro, Barbaccia Vincenzo, Scalici Lorenzo, Viviani Giuseppe, Ruffino Francesco, Alfano Antonino, Pillitteri Francesco e Antonino.

 

(Dichiarazioni di Liuzza Antonino e Panepinto Francesco)

Altro elemento di introito: i disertori. Attraverso Santo Termini e compagni pagando 1000 lire si riusciva a sfuggire ai rigori della legge. Non sempre però. Ne sapeva qualcosa Panepinto Francesco che aveva perso sì le 1000 lire ma in compenso aveva recuperato il carcere.

 

Non riusciva a distrarsi un attimo.

 

(Dichiarazioni varie)

Una volta arrestato il Santo Termini anche all'interno del carcere si dava da fare per arrotondare gli introiti. Ai detenuti che venivano scarcerati per mancanza di indizi faceva sapere che, grazie all'interessamento dell'avv. Arturo Siracusa di Palermo, era riuscito a fargli ottenere la libertà. Era quindi necessario sdebitarsi. Svolgeva le mansioni di esattore, all'esterno del carcere, un certo Scimone. L'avv. Arturo Siracusa, venutone a conoscenza, denunziava il Termini e lo Scimone.

 

Le donne: solo loro hanno la sensibilità di capire le cose a cui più tengono gli uomini. La Lo Cicero, sorella di un assassinato, non augura al Termini una morte violenta ma…

 

(Lo Cicero Antonina fu Salvatore di anni 44. 29.10.1926. f. 593)

Interrogata a proposito dell'assassinio del fratello Pietro, dopo avere accusato Termini Santo, chiude la deposizione: "Spera Diu (speriamo in Dio) che egli debba ritornare povero qual era fino a pochi anni addietro".

 

c.11 - Miscellanea

 

(informativa dei Reali Carabinieri. Ottobre 1926)

"Ganci Giovanni: ex consigliere comunale noto in San Giuseppe Jato come una delle persone più influenti nel campo della maffia e come tale sfacciato favoreggiatore della delinquenza"

 

(Ferruggia Salvatore, ex guardia municipale, contro Pulejo Antonino Ninu 'u latru ex assessore e Sindaco di San Giuseppe Jato prima del Termini)

Il Ferruggia circa sei anni prima era stato licenziato per non essersi piegato ai voleri del Pulejo, "noto maffioso ed allora sindaco di San Giuseppe Jato". Costui avrebbe preteso che il Ferruggia frequentasse gli uffici di Pubblica Sicurezza e dei Carabinieri, allora esistenti in paese, al solo scopo di riferire al Sindaco o chi per esso quanto in detti uffici avveniva. Il Ferruggia rifiutatosi veniva licenziato dal Comune.

 

(Dalla dichiarazione di Sudano Giuseppe di Filippo. f. 759)

Il Prefetto aveva stabilito che l’esercizio di guardiania doveva essere esercitato solo da guardie giurate e non da campieri. Il Sudano, diventato guardia giurata, esercitava la guardiania nei feudi Arcivocale e Arcivocalotto. Veniva minacciato da Cavallaro Giovanni e Candela Antonino di abbandonare il posto. Il motivo era logico: essendo guardia giurata e non campiere, era automaticamente diventato un “infame” e avrebbe potuto conferire con i Reali Carabinieri. Il Sudano abbandonava il posto.

 

(Informativa dei Reali Carabinieri)

Battaglia Leonardo fu Francesco di anni 34. Accusato di violenza privata in danno di Crociata Calogero, Lazzo Salvatore, Galati Salvatore e Valido Rodolfo. Accusato inoltre di aver preteso lo scioglimento della sezione fascista di San Cipirello.

 

(Attraverso una serie di metodi alla Mori si consegnano spontaneamente alle autorità: 22.10.1927. f. 31)

"Candela Antonino di Giuseppe; Rampudda Sebastiano; Todaro Giuseppe; Bommarito Salvatore fu Bernardo; Garrisi Francesco di Angelo; Zito Filippo fu Giuseppe; Randazzo Giuseppe di Pasquale; Di Maggio Giuseppe fu Salvatore; Zito Nicolò fu Giuseppe; Celeste Salvatore fu Pietro; Battaglia Leonardo fu Francesco."

 

c.12 - Storie d'appalti

 

(Processo verbale dei carabinieri del 5.11.1926)

Gravi vessazioni consumate a danno del Comune di San Giuseppe Jato tra il 1920 e 1925. Arresto dell’ing. Francesco Savagnone e compagni, in numero di 15, con l'accusa di aver defraudato il Comune nell'appalto dei lavori per la costruzione dell'Acquedotto della Chiusa. La sezione dei tubi della condotta risultava metà di quella in progetto.

 

(Lettera al Prefetto Mori di Maria Sunseri - Archivio storico diocesano di Monreale - Fondo Governo Ordinario Sez. 9 Serie 56-1)

Carmelo Sunseri è assessore nella Giunta Termini e in stato di arresto con l'accusa di associazione a delinquere. Scrive la Sunseri che la sua famiglia è incensurata. Che i Sunseri sono sempre stati dei bravi appaltatori. Poi continua: "Per ragione di mestiere, avendo alle dipendenze una certa massa di operai, rappresentando perciò una forza elettorale, il figlio Sunseri Carmelo di Salvatore fu invitato e pressato ad entrare disgraziatamente nell'Amministrazione Comunale di San Giuseppe Jato. L'Amministrazione Comunale era comandata dai Termini, però aveva i pieni poteri il Tesoriere Cav. Calogero Termini, il quale essendo più intelligente ed istruito degli altri, si occupava lui delle pratiche amministrative; e poiché disponeva di forti amicizie in tutti gli uffici statali, era lui che dirigeva la macchina amministrativa. Il Sunseri Carmelo non essendo proprietario e vivendo di lavoro, non era nella possibilità di svolgere alcuna attività amministrativa; tutta la sua attività si riduceva al fatto che qualche domenica, quando aveva un momento libero delle sue occupazioni si recava al Municipio dove, in assenza di qualche altro assessore, veniva invitato dal tesoriere Termini, a firmare le pratiche e qualche mandato di pagamento, che egli vedendolo già firmato dal Sindaco e dal Segretario, firmava per "routine" d'Ufficio; d'altra parte anche se avesse voluto chiedere spiegazione di qualche cosa, o di qualche spesa, era sicuro che avrebbe urtato la suscettibilità del Termini, il quale avrebbe considerato il fatto quale offesa, e dato l'ambiente che imperava, non rimaneva altro al Sunseri che tacere e ubbidire. Egli in tale situazione, più volte espresse al detto cav. Termini Calogero che era l'esponente dell'Amministrazione il desiderio di dimettersi, ma anche questo atto veniva considerato come un'offesa, e quindi il Sunseri era costretto a restare al suo posto…" Nel 1923-24 l'impresa Castagnaro Matteo si aggiudica dei lavori all'interno del centro abitato. Il Sunseri Salvatore (padre), trovandosi quasi senza lavoro, sollecitò il Castagnaro a dargli parte di tali lavori; il Castagnaro addivenne a cointeressarlo nel lavoro…

 

«Che circonlocuzione!» - pensò il Principe - «bastava scrivere sub-appalto!»

 

…dicendogli che per impegni da lui assunti doveva rilasciare (agli amministratori) il 22,50% sull'importo dei lavori; tale percentuale doveva essere rilasciata sui prezzi di Capitolato d'appalto, già approvato dalle autorità competenti"…"Durante l'esecuzione dei lavori, si dovette rilevare che il Calogero Termini, faceva intestare i mandati di pagamento al Comune anziché all'Impresa, dimodoché lui in qualità di tesoriere riscuoteva i mandati di nascosto dall'appaltatore, li negoziava per conto suo e poi, a piccole rate e a distanza di tempo, somministrava l'importo all'appaltatore. Essendosi questo fatto ripetuto varie volte, l'appaltatore Castagnaro si decise a fare ricorso al sig. Prefetto, chiedendo che i mandati fossero intestati all'Impresa e non al Comune. Il ricorso non ebbe alcun esito; risulta però che detto ricorso inviato regolarmente alla Prefettura, fu sequestrato in casa dello stesso Calogero Termini."

 

c.13 - Attrezzature per lo svago: il primo cinematografo di San Giuseppe Jato

 

(dalla lettera al Prefetto Mori del Consiglio della Cooperativa Pio X)

"Nel 1924 il sac. Giulio Virga apriva un cinematografo nella Villa del Sacro Cuore a scopo educativo e ricreativo per i ragazzi dell'oratorio festivo e a beneficio della Chiesa Parrocchiale, su cui gravava un forte debito per i restauri in essa eseguiti. L'iniziativa incominciò ad essere ostacolata dai noti fratelli Troia Vincenzo e Giuseppe, che essendo proprietari dell'impresa elettrica, pretendevano che fossero ammessi come soci nella distribuzione degli introiti. Per non chiudere il cinematografo con la perdita delle spese d'impianto, il sac. Virga, suo malgrado, dovette cedere alle imposizioni dei maffiosi. Dopo due mesi, la prepotenza di quei signori giunse a tal punto che egli fu costretto a rinunziare definitivamente alla benefica iniziativa con gravi perdite per la Parrocchia."

 

(lettera dell'Arciprete Caronia all'Arcivescovo di Monreale. 23.5.1924. ASDM Fondo governo ordinario Sezione 9 Serie 56-1 Busta 11)

"Si è aperto un cinematografo morale-religioso nella villa del S. Cuore a sconto del debito delle lire 58000 gravanti sulla Madrice, resistendo alla pretesa del presidente del Comitato maffioso della Chiesa di S. Francesco, sig. Troia Giuseppe, che voleva entrare in parte negli utili delle rappresentazioni cinematografiche."

Elementi utili per una analisi economica del territorio

 

(San Giuseppe Jato - Delibera di Giunta del 11.10.1925 - Mete)

Pasta 2.75 lire/kg - Pane 2.15 lire/kg - Caciocavallo 15 lire/kg Vitella 16 lire/kg - Maiale 10 lire/kg - castrato 7 lire/kg. Costo medio di una giornata lavorativa nel 1908: lire 2. Costo medio di una giornata lavorativa nel 1925: lire 12. Costo medio di un mulo giovane nel 1925: lire 3000

 

(1° Memoriale dei Sindacati Agricoli Fascisti di San Giuseppe Jato e San Cipirello presentato a Sua Eccellenza il Prefetto Mori. 15 giugno 1926)

"Incoraggiati dalla legge testé approvata sui contratti e sulla protezione del lavoro, ci rivolgiamo all’Eccellenza Vostra sicuri del suo intervento energico per segnare un basta ai sorprusi che i contadini di San Giuseppe Jato e Sancipirrello hanno dovuto subire da parte di quasi tutti i gabelloti dei feudi. Da molto tempo si praticano i seguenti patti: i gabelloti concedono i terreni e le sementi, i contadini sono obbligati a prestare tutti i lunghi e faticosi lavori occorrenti durante l’anno e la produzione in grano viene divisa finalmente nel seguente modo: Dall’intiera massa del grano, il gabelloto prende prima 3 salme di frumento, cioè Kg. 666 e il rimanente viene diviso metà il gabelloto e metà il contadino per una salma di terreno. In tal modo, se il terreno dà l’uno per otto, il gabelloto prende Kg. 1221 e il contadino prende Kg. 333. Il gabelloto impiega i seguenti capitali per ogni salma di terreno:

 

Estaglio annuo medio

Lire

500

Ricchezza mobile

Lire

50

Interessi

Lire

55

Custodia e luce

Lire

15

Assicurazione

Lire

3

 

Calcolando kg 1221 di grano con un prezzo medio di lire 180, il gabelloto introiterebbe lire 2200 con un utile di lire 1577 a salma di terreno. Il contadino impiega il seguente lavoro che calcoliamo in denaro:

 

Stroffatura

8 operai a lire 12

Lire

 96

Aratura

12 aratri a lire 50

Lire

600

Zappatura

8 operai a lire 12

Lire

 96

Scurritura

8 operai a lire 12

Lire

96

Mietitura

12 operai a lire 12

Lire

144

Trebbiatura

8 animali a lire 50

Lire

400

Pulitura

6 operai a lire 12

Lire

72

Legami

 

Lire

50

Totale

 

Lire

 1544

Introito

 

Lire

 1000

Perdita

 

Lire

 544

 

Alcuni gabelloti non hanno ancora smesso il metodo delle intimidazioni contro i contadini che chiedono patti agrari equi in conformità della legge sui diritti del lavoro. I gabelloti hanno esposto al Segretario dei datori di lavoro che essi in quegli anni in cui sono costretti a coltivare i terreni a favate e a sullate, subiscono una perdita in denaro, perché per un anno non producono grano. Noi invece proviamo con i dati di fatto che ciò è falso. Il terreno seminato a sulla viene venduto per pascolo da lire 1500 a lire 2000. Venduto per fieno s'introitano da lire 1800 a lire 2400. Venduto a granello di sulla, siccome una salma di terreno produce circa salme 50 di granello, il gabelloto, vendendo il granello a lire 60, ha un introito di lire 3000; togliendo lire 300 per sementi e lire 400 per mano d'opera, resta un utile di lire 2300."

 

(Lettera inviata al Prefetto Mori dalle Cooperative Pio X e Giosuè Borsi - ASDM - Fondo governo ordinario - sez. 9 - serie 56-1)

"Si accusa il sac. Giulio Virga di avere promosso un'agitazione agraria contro alcuni proprietari di San Giuseppe Jato e di Sancipirrello allo scopo di far cedere le terre ai Sindacati agricoli. Ma su ciò potrebbero rispondere le autorità competenti che in data 12 settembre 1927 dichiaravano "centri infetti" le terre dei mafiosi; potrebbe rispondere la commissione paritetica che in data 8 novembre 1927 deliberava che le terre appartenenti ai mafiosi detenuti, fossero cedute in gabella alla Cooperativa Pio X in conformità al contratto sulle affittanze collettive del 16 luglio 1927; potrebbe rispondere la Federazione dei Datori di Lavoro di Palermo che con lettera n. 1794 di prot. in data 17 novembre 1927 ordinava ai proprietari mafiosi di ottemperare alla deliberazione della Commissione Paritetica; potrebbero rispondere i Comandanti delle Stazioni dei Reali Carabinieri di San Giuseppe Jato, Sancipirrello e Piana dei Greci, che per ordine della R. Questura di Palermo in data 19 novembre 1927 diffidavano i proprietari mafiosi di cedere in gabella le terre senza ulteriore remora alla Cooperativa Pio X."

 

La Cooperativa inviava al Prefetto Mori un elenco delle terre dei mafiosi detenuti.

 

"Feudi vicini a S. Giuseppe Jato e Sancipirrello appartenenti a gabelloti e ricchi proprietari che trenta anni addietro erano quasi nullatenenti.

Feudo

Contrada

Ett.

Proprietario

Pietralunga

Giangrosso

145

Novara Giuseppe, zio di Micciché Nicolò detenuto per associazione a delinquere.

Pietralunga

Galera

125

Termini Santo ex Sindaco, capo maffia e detenuto, possiede tre milioni di proprietà.

Pietralunga

Pietre cadute

65

Novara Ignazio, suocero di Micciché Nicolò, detenuto per associazione.

Gabelloti: Fratelli Calò Gaspare e Onofrio, accusati per associazione a delinquere e Zito Filippo, capo esecutore della maffia. Posseggono quasi un milione.

Pietralunga

Pietre cadute

85

Gabelloti: Fratelli Ruffino Francesco e Salvatore, cognati di Troia Vincenzo, capo maffia latitante e cugini di Traina Vincenzo, latitante accusato per associazione a delinquere.

Pietralunga

Pennatelle

175

Proprietari: Lupo Leonardo e Antonino, affiliati alla maffia e parenti di latitanti e detenuti. Posseggono circa due milioni.

Pietralunga

Finocchiaro

85

Proprietario: Fiore Antonino cognato di Troia Giuseppe, detenuto per associazione. Possiede circa due milioni usuraio. E’ anche nipote di Pulejo Antonino, capo maffia latitante.

Pietralunga

Finocchiaro

125

Proprietario: Pulejo Antonino ex Sindaco, capo maffia latitante. Possiede circa tre milioni.

Lo stesso fondo

 

 

Gabelloto: Salamone Antonino affiliato alla maffia, zio materno di Zito Filippo, latitante e cognato di Pardo Domenico, capo maffia di Sancipirello, detenuto.

Pietralunga

Giangrosso

85

Gabelloti: Fratelli Riccobono Erasmo e Pasquale, cognati di Pardo Domenico, detenuto, e cugini di Ferrugia Giuseppe, detenuto per associazione a delinquere.

Pietralunga

Tamburinajo

85

Simonetti Domenico fu Giuseppe, detenuto per associazione e cognato di Todaro Vito, capo maffia di Sancipirrello, latitante. Possiede un milione.

Zabbìa

 

62

Fiore Antonino. Vedi n.6

Zabbìa

 

130

Proprietario: D'Agostino Sebastiano, zio di Ferrugia Giuseppe, detenuto per associazione e suocero della sorella di Micciché Nicolò, detenuto per associazione. Possiede due milioni.

Zabbìa

 

70

Gabelloto: Troia Vincenzo, capo maffia latitante. Possiede tre milioni.

Zabbìa

 

85

Pulejo Emanuele fu Giuseppe, fratello di Pulejo Antonino latitante, suocero di Fiore Antonino. Possiede circa tre milioni. Usuraio.

Argivocale

 

85

Proprietario: Pulejo Emanuele fu Giuseppe. Vedi n.14.

Argivocale

 

85

Vaccaro Carlo, suocero di Pardo Vincenzo, detenuto per associazione. Possiede due milioni.

Argivocale

 

85

Proprietaria: Mannino Rosa, vedova Mineo, cognata di Troia Gaetano, fratello di Troia Vincenzo e Giuseppe, capi maffia. Possiede due milioni. Usuraio.

Argivocale

 

42

Proprietario: Leone Francesco, capo maffia di San Cipirello, latitante. Possiede due milioni.

Argivocale

 

42

Proprietario: Leone Salvatore, fratello di Leone Francesco, latitante.

Argivocale

 

42

Proprietario: Prasca Vincenzo, cognato di Termini Santo, capo maffia detenuto. Possiede due milioni.

Argivocale

 

42

Gabelloti: fratelli Riccobono Erasmo e Pasquale, vedi n. 9, e Terrana Ignazio, capo esecutore materiale della maffia, latitante.

Argivocale

 

54

Proprietari: fratelli Randazzo Calogero e Santo, nipoti di Leone Francesco. Vedi n.18.

Torre dei Fiori

 

22

Gabelloto: Candela Antonino di Giuseppe, latitante perché accusato per associazione a delinquere.

Torre dei fiori

 

22

Gabelloto: Di Giovanni Gaetano fu Domenico, affiliato alla maffia.

Torre dei Fiori

 

45

Di Maggio Giuseppe fu Salvatore, capo maffia in contrapposto a quella di Troia e Termini.

Montaperto

 

67

Gabelloti: fratelli Randazzo Calogero e Santo. Vedi n.22

Jannuzzo

 

195

Gabelloto: Bilello Ignazio, capo maffia di Sancipirrello, latitante. Possiede due milioni.

Balletto

 

190

Gabelloti: Badolato Giuseppe ex Sindaco di Sancipirrello, detenuto per associazione e i di lui fratelli: Filippo, Domenico e Vincenzo.

Balletto

 

85

Gabelloto: Ganci Giovanni, detenuto per associazione. Possiede un milione.

Bommarito

 

325

Gabelloti: fratelli Troia Vincenzo e Giuseppe. Vedi n.13

Signora

 

52

Proprietario: Cangelosi Francesco affiliato alla maffia. Possiede due milioni.

Fiotto

 

63

Gabelloto: Rampudda Sebastiano, capo esecutore della maffia, latitante.

Pedistanga

 

130

Gabelloti: Leone Francesco e Salvatore, capi maffia; il primo è latitante; e il di loro cognato Calabrese Pietro.

Dammusi

 

100

Proprietari: fratelli Traina Vincenzo, latitante per associazione e Antonino e Giuseppe e il di loro cognato Motisi Francesco, latitante.

Pioppo-Tagliavia

 

65

Proprietari: fratelli Termini Giuseppe e Emanuele fu Salvatore: cugini di Traina Vincenzo, latitante.

Pioppo-Tagliavia

 

20

Proprietario: Grigoli Salvatore d’ignoti, fratello adottivo di Troia Giuseppe e Vincenzo, capi maffia.

 

(Molini e pastifici Virga di San Cipirello f. 599)

Al 7.11.1926 Troia Giuseppe, Micciché Nicolò fu Vincenzo, Calò Gaspare - arrestati per maffia - risultano soci dello stabilimento Virga rispettivamente con i seguenti capitali: lire 98913 - 55556 - 42725. Al 18.11.1929 la situazione generale risulta la seguente: On. Giovanni Lo Monte (lire 31250) - Benigno Francesco (31250) - Virga dott. G. Battista (31250) - Virga ing. Francesco (31250) - Virga G. Battista (31250) - Virga Salvatore (25000) - Virga Giuseppe (25000) - Lombardo Anna (25000) - Leone avv. Calogero (25000) - Micciché Nicolò e compagni (125000) - (Troia Giuseppe e compagni (125000). Troia Giuseppe risulta anche amministratore della Banca del Sud.

 

San Giuseppe Jato nel memoriale di una cooperativa

 

(Inchiesta parlamentare sulle condizioni dei contadini pubblicata da Bertero nel 1910 riportata nel memoriale della cooperativa Pio X indirizzato al Prefetto Mori.)

"Volendo abbreviare il nostro compito in proposito ci piace riportare il giudizio steso dall’On. Commissione parlamentare d’inchiesta sulle condizioni dei contadini in Sicilia, nella sua visita fatta in questo Comune di San Giuseppe Jato or sono più di 15 anni. "San Giuseppe Jato: comune di 7200 abitanti a pochi chilometri a occidente di Piana dei Greci, ha territorio ristretto e ne chiederebbe l’allargamento. E’ paese vinicolo e produce ottime qualità di vini fra cui famoso quello di Signora. Buona parte di vigneti sono di proprietà del Principe di Camporeale, il rimanente si trova frazionato fra tutti i ceti del paese, che lo posseggono per la più parte in enfiteusi a piccolissimi lotti. La fillossera li aveva distrutti per intero, ora sono ricostituiti per quasi due terzi. La ricostituzione avvenne o per economia diretta del proprietario, o per mezzo di due tipi di contratto a miglioria, uno a base di mezzadria, l’altro a gabella. Nel 1° il proprietario dà la terra, le barbatelle e gl’innesti, tutto il rimanente è a carico del mezzadro che deve coltivare a proprie spese. La durata del contratto è per solito di 18 anni, spirati i quali il fondo ritorna al proprietario che non dà alcun indennizzo. Nei primi cinque anni il prodotto va per intero al mezzadro, dopo si divide a metà; ma come è noto la vite americana è in pieno sviluppo solo al quarto anno, e perciò alcuni contadini ritengono poco conveniente questo contratto, e non furono rari quelli che abbandonarono il fondo ed emigrarono. Nei primi cinque anni il proprietario dà soccorsi in misura di 25 o 50 lire per ogni mille viti, e s’occupano oltre a ciò a giornata. Nel contratto di miglioria a base di gabella il contadino paga un tanto fisso per ogni mille viti, s’obbliga di piantare il vigneto e di restituirli in buono stato allo spirar del contratto che dura solitamente 18 anni. Non ha diritto né a compensi né a soccorsi. Questo contratto è preferito al primo perché concede maggior libertà, e lo fanno specialmente i piccoli proprietari che non hanno bisogno di sovvenzioni, o che se li possono facilmente procurare. L’estaglio è di circa 150 lire per ogni 10.000 viti. In tutte e due queste forme accade che il colono o il piccolo gabelloto debbono per mancanza di locali adatti vendere il loro prodotto al proprietario al prezzo che correrà sul mercato, il che talvolta dà luogo a contestazioni. Una parte del vigneto di San Giuseppe Jato è posseduto in enfiteusi originata da concessioni risalenti al 1755 e per la quale si paga un canone medio di Lire 38 a salma. Domino diretto è il Principe di Camporeale che è il più grosso proprietario di San Giuseppe e Camporeale, è molto benemerito e attivo agricoltore. I canoni per successive divisioni si sono spezzati talmente che una gran parte di essi è inferiore alla lira. Questo fatto della divisibilità del canone rende ormai restii ad altre concessioni enfiteutiche e il detto censisti pirdisti (hai dato in enfiteusi ed hai subito una perdita), è divenuto proverbiale. Il latifondo è dato annualmente in affitto a grossi gabelloti che alla loro volta lo cedono a mezzadria o in affitto ai contadini, a condizioni simili a quelle già menzionate di Piana dei Greci. V’ha però più: a Piana diffondendosi la sulla, sia in sostituzione della fava, che come cultura di rotazione, in luogo del maggese usato. I salari dei contadini per i lavori ordinari oscillano (1907-1908) sulle lire 2,50, a volte sopra a volte sotto di questa media, secondo l’urgenza dei lavori. Nella mietitura si giunge anche alle 4 lire. Nel passato era più basso, e dell’aumento oltre che all’emigrazione va dato merito ad una Lega di miglioramento. I contadini abitano tutti in paese nelle solite casette a un vano “che somigliano all’arco (sic!) di Noè”. Non dormono quasi mai in campagna anche se questa è distante, e il cattivo stato della viabilità rurale si ripercuote anche su di loro. Il territorio è malarico lungo il fiume Jato. Il paese stesso però è in luogo molto salutare. Esiste il tracoma “importato specialmente all’epoca dell’emigrazione in Tunisia”. La sifilide è rara; qualche giovane ne risulta affetto in seguito al servizio militare o “a qualche escursione nel capoluogo della Provincia”. Le scuole si trovano in locali non igienici e non adatti. La loro frequenza si è di molto accresciuta negli ultimi tempi; e “mentre prima la maggioranza degli allievi era composta di persone civili, ora la maggioranza è di popolani”. L’usura, malgrado il denaro degli emigranti e la recente istituzione di una Cassa Rurale, è ancora una piaga del Comune, e si narrano dei casi veramente impressionanti, che non sarebbero neppure rari. Pei crediti superiori alle lire 500 garentiti da ipoteca, gli interessi variano dal 12 al 15%: i cambiari portano un interesse dal 50 al 120%. Casi tipici di strozzinaggio sanno misure che sembrerebbero fantastiche se non fossero una delle più tristi realtà. Un contadino sul punto di emigrare richiede 100 lire in prestito; gli si danno con un interesse, e non sarebbe questo il nome, di 100 lire per un mese, cioè al 1200%. Non è affatto raro il caso di 200 lire restituite dopo tre mesi per un prestito di lire 100, al 400%. Vi è un’altra piaga ancora che non dà un’ora di pace alla vittima. La usura a giornata. Si prestano 10,15 lire con l’interesse di un soldo a lira per ogni 24 ore. Si faccia un po’ il conto. Un disgraziato che avrà ricevuto 10 lire, se non si libera d’una maniera qualunque, avrà pagato 180 lire alla fine dell’anno, il che significa il 1800%. A questo vergognoso stato di cose ha in parte rimediato la Cassa Rurale, che essendo di carattere confessionale non è però aperta a tutti. Essa prende depositi al 4% e fa prestiti al 6%. Quando essa si trasformi sì da essere accessibile a tutti, od un altro istituto sorga come ente intermediario del Banco di Sicilia, giova sperare che l’usura riceverà il colpo di grazia. L’emigrazione fu ed è fortissima. Determinata dapprima dalla distruzione dei vigneti operata dalla fillossera che gettò sul lastrico molte famiglie, divenne poi un’abitudine. Nella media del triennio 1905-07 fu del 64 per mille abitanti. Essa fece elevare notevolmente il prezzo delle case e delle terre attigue al paese e bonificabili. Di recente sono stati venduti a piccoli lotti quattro feudi al prezzo variabile dalle 3000 alle 4000 lire a salma. A volte si pagano prezzi talmente esagerati che i contadini si vedono costretti a lasciare la terra di troppo gravata e a coltivare la quale mancano del necessario capitale e tornano così ad emigrare. Un altro effetto dell’emigrazione è stato di far estendere la pastorizia non convenendo dopo il rincaro della mano d’opera la cultura granaria nei terreni lontani e poco fertili. E siccome la pastorizia attualmente è abbastanza proficua, le gabelle dei feudi non sono diminuite come lo sarebbero state senza questo contrappeso. L’emigrazione ha migliorato le condizioni della pubblica sicurezza; la delinquenza è tuttavia sempre forte, con prevalenza di reati di omicidi per vendetta. Alla vendetta nessuno vuole rinunziare e si attende per lunghi anni l’occasione propizia. Correlativo a questo principio è l’omertà, ossia il silenzio assoluto agli offesi dinanzi alla giustizia. Gioverebbe al miglioramento della pubblica sicurezza una più ricca rete stradale e mezzi rapidi di comunicazione”.

 

 

 

 

 

1922-1923. Quando per eleggere l'Arciprete di San Giuseppe Jato si mobilitava mezza Italia.

 

(Principali enti e personaggi: Vaticano - Arcivescovado di Monreale - Procuratore del Re - don Luigi Sturzo - on. Francesco Termini - on. Giovanni Lo Monte - on. Giuseppe Caronia - Casa Camporeale - Popolo e amministratori comunali - Giornali a tiratura nazionale - Cooperative - Mafia di Casteltermini, di Cinisi, Terrasini, San Giuseppe Jato, San Cipirello - Altri)

 

Il 2 novembre del 1922 don Natale Migliore, Arciprete di San Giuseppe Jato, passava a miglior vita. A lui, come ad un intermediario, i soci delle cooperative agricole locali avevano sempre affidato i messaggi di risposta alle intimidazioni mafiose. Di lui, ventunenne suddiacono nel 1863, il precedente arciprete don Francesco Ferruggia aveva scritto:

 

Il suddiacono Natale Migliore promette molto. Si avviò sin dall’età della sua giovinezza nella carriera ecclesiastica: intanto è stato vario. Fu sotto Garibaldi nell’ultima spedizione sino a Catania; ma rimessosi nello stato ha dato prova di fermezza e di una condotta irreprensibile.

 

Il profilo del Ferruggia, a sua volta, era stato tracciato il 16 maggio 1862 in una lettera, purtroppo anonima anche se non unica, indirizzata all'Arcivescovo di Monreale:

 

Ed è pur vero, Eccellenza Rev. ma, che una grave sciagura sia per piombare addosso la popolazione di San Giuseppe? Che si è appunto, la nomina d’Arciprete della Comune in persona del sac. don Francesco Ferruggia? L’E.V. Rev.ma ignora forse che questi non si ha alcun merito per l’importantissima carica? Ignora forse i demeriti, l’ignoranza e i vizi di cui è adorno? Ignora che non ha guari ingravidava una certa Vita Sciarabba che stava ai di lui servigi, e poscia ne procurava l’aborto? Che in atto è voce da per tutto, che ha illecita tresca con una giovane naturale di Piana dei Greci, che la fa d’ancella nella di lui casa? Chi giammai ha fatigato nella Chiesa, passando la sua vita in campagna ed alla caccia, e che solamente di prete ne ha il semplice collare? Ignora pure l’E.V.Rev.ma che il Ferruggia è un avaraccio a segno che non si è veduto giammai stendere la mano in soccorso degli indigenti? Ignora finalmente che suddetto Ferruggia è la man destra del notissimo per usura di lui zio P. Francesco Riccobono?

 

Mai previsione si era rivelata più azzeccata. Il promette molto riferito al Migliore trovava puntuale conferma sin dal 1912, anno dell'allargamento del suffragio elettorale. Tutti a San Giuseppe Jato rammentavano le molte promesse dell'arciprete Migliore in occasione di defatiganti campagne elettorali[32] a favore ora dell'on. V.E. Orlando ora dell'on.Termini ora dell'on. Lo Monte ora del consigliere provinciale il mortillaro avv. Pietro Pulejo. Per non parlare delle elezioni comunali allorché, sempre promettendo molto, andava a caccia di voti, sino al 1921, per il sindaco Pulejo cav. Antonino, Ninu 'u Latru per amici e conoscenti, e successivamente battendosi, sino alla morte, per il cav. Santino Termini. Il settore dove i compaesani avevano le idee più chiare sulla pastorale attività del Migliore era quello degli imbrogli: alla Cassa Rurale Leone XIII, all'Opera Pia Riccobono, in alcune congregazioni parrocchiali, in tutti i posti insomma dove c'era ciàvuru 'i munìta. Nessuno, tranne naturalmente gli amministratori, era a conoscenza di un peccatuccio veniale perpetrato, nel corso del tempo, ai danni del Comune di cui era Arciprete. Se n'era però accorto il commissario prefettizio Battioni. L'11 aprile 1914, rovistando nella contabilità, aveva notato che l'arciprete Natale Migliore, insegnante comunale, percepiva la pensione e contemporaneamente figurava tra i salariati del Comune. Per evitare poi che i fedeli parrocchiani sospettassero l'imbroglio, ricorreva alla sostituzione della propria persona: il sac. don Giuseppe Finocchio insegnava e lui ritirava lo stipendio che, all'epoca era di moda la mezzadria, veniva ripartito in quote perfettamente uguali: né una lira in più né una lira in meno. Il Battioni, com'era suo dovere, trasmetteva le carte alla Procura del Re ma commetteva il madornale errore di spiattellare tutto ai quattro venti, consentendo in tal modo agli amministratori di correre ai ripari. Bisognava salvare l'intera amministrazione ed eventualmente anche la faccia. E così, con opportune operazioni presso gli organi preposti, Ninu 'u Latru e compagni riuscivano nel miglior modo a fare assolvere il Migliore. "Perché il fatto non sussiste!" Era stato scritto.

Giunto ormai sulla soglia dell'aldilà al Migliore era apparso doveroso, per la salvezza delle anime del suo amato e generoso popolo, dare opportune indicazioni per la nomina del successore. Il tutto nel rispetto di una ormai consolidata tradizione. Precisava così, quasi a testamento, che San Giuseppe Jato continuava ad aver bisogno di un Arciprete buono, puro, santo, disponibile, non attaccato al denaro, possibilmente apartitico ma in ogni caso colto e apolitico: qualità reperibili, a suo autorevole parere, in un sant'uomo appartenente alla fauna e, da un punto di vista onomastico, anche alla flora montana locale: il sac. don Giuseppe Finocchio. Non è che a parer suo lo meritasse tanto! Ma da alcuni fedelissimi aveva ricevuto il gentile invito ad esprimersi in tal modo.

La cosa era apparsa semplice e fattibile perché, sul Finocchio, convergevano unanimi gli apprezzamenti del sindaco Termini cav. Santo e dell'Amministrazione. Poi perché c'era una petizione indirizzata all'Arcivescovo con la quale un migliaio di cittadini sottoscriveva la preferenza per il Finocchio. Infine perché c'era l'autorevole parere del Principe di Castelcicala di casa Camporeale il quale, attraverso un vecchio diritto di patronato dei Beccadelli Bologna sulla nomina dell'Arciprete, dava il proprio benestare. Sembrava a tutti che tutto sarebbe andato liscio come l'olio. Invece…il diavolo ci aveva messo la coda!

E la coda del diavolo aveva iniziato a manifestarsi attraverso il sac. don Giulio Virga. Direttore spirituale delle due cooperative cattoliche - la Giosuè Borsi e la Pio X con circa 800 soci tra i due comuni - il Virga costituiva la punta di diamante dei contadini nella ventennale lotta contro i gabelloti o maffiosi: due termini nell'accezione diventati ormai sinonimi. Don Giulio era deciso a candidarsi.

Se la candidatura Virga non creava eccessive preoccupazioni sul Finocchio aveva invece cominciato a indurre un tenue nervosismo tra i quotati e lungimiranti fautori della sua elezione.

 

"Camera dei Deputati - On. Francesco Termini[33]             Roma 24/11/1922

Rev. Don Giulio Virga, ho letto con piacere e con sorpresa la sua gentilissima del 15 corrente, ricevuta ieri al mio ritorno qui a Palermo. Con piacere perché le sue dichiarazioni sono perfettamente conformi al sentimento cristiano che anima tutti gli aderenti al Partito Popolare; con sorpresa perché non ho avuto occasione di interpretare le intenzioni che informeranno la di lei condotta nelle prossime elezioni. Sono quindi veramente lieto che Ella con tutto fervore lotterà a nostro fianco insieme agli amici che costì gli stanno vicino. Sarò anche più lieto se fin da ora potrà aiutare i suoi concittadini e me a dare a cotesto paese il parroco da tutti voluto nella persona del mio compagno di seminario e di scuola sacerdote Giuseppe Finocchio. Con alta stima mi creda. On. Francesco Termini."

 

"San Giuseppe Jato 1/12/1922. Illustre onorevole Termini, ho ricevuto la sua pregiata del 24 s.m. Non ritorno sull'argomento delle elezioni politiche; ma duolmi dovere constatare che Ella si occupa con tanto fervore della nomina dell'Arciprete futuro in maniera da volere influire sull'animo di chi dovrebbe liberamente scegliere, a ciò, naturalmente, avvalendosi della sua posizione politica e volendo far credere che il suo protetto sia il voluto dal paese. Conosce lei esattamente i sentimenti di questo popolo? Non credo poi affatto che a lei, quale rappresentante del Partito Popolare Italiano, convenga ingerirsi negli affari ecclesiastici. In tal modo lei non fa gli interessi del Partito ma mette scissure e si aliena l'animo di una parte. Ossequi distinti. Dev.mo sac. Giulio Virga"

 

Il Principe ricordò di aver notato che l'on. Francesco Termini[34] - liberale prima della Grande Guerra, popolare subito dopo - era passato nel 1943, armi e bagagli, nel Movimento Indipendentista Siciliano di Finocchiaro Aprile come componente del Comitato Centrale per l'Indipendenza Siciliana. Ma non ritenne di annoverarlo nell'albo d'oro dei cosiddetti politici saltimbanchi. «In fondo,» pensò «per ogni cambio d'opinione sempre una guerra mondiale c'era voluta! Non è che aveva cambiato opinione ad ogni cambio d'olio!» In ogni caso ritenne utile sottolineare il fatto e continuò a trascrivere:

 

"Camera dei Deputati - On. Francesco Termini -              Palermo /11/1922

Rev.mo Vicario dell'Arcivescovado di Monreale, ho appreso con vivo dolore la morte del parroco di San Giuseppe Jato don Natale Migliore. Sento intanto che deve procedersi alla nomina del successore e io mi affretto far conoscere a codesta Curia, nella certezza di interpretarne la volontà, che sarebbe desiderio vivissimo dell'intera cittadinanza di quel Comune, nonché delle locali autorità, che la scelta cada sul sacerdote don Giuseppe Finocchio, della cui intemerata e veramente sacerdotale condotta, non ha che a lodarsi cotesta Curia. Il sacerdote Finocchio fu mio compagno di Seminario e di scuola, ragion per cui mi permetto anch'io di segnalarlo a S.E.Rev.ma Mons. Intreccialagli, sicuro nella mia coscienza di fare opera buona. Come vede, tengo in maniera la più assoluta alla nomina suddetta per tutte le ragioni su esposte. Voglia V.S. Rev.ma esporre il mio vivo desiderio all'Arcivescovo e gradisca i miei più distinti ossequi. Francesco Termini. N.B. Non vengo personalmente perché ancora trattenuto in casa da una malattia assai penosa."

 

Il vecchio sac. Salvatore Riccobono, uomo coriaceo e definito incorruttibile nei palazzi della Curia, avuto sentore della proposta Finocchio, non ci aveva pensato due volte e il 14 novembre 1922, presa carta e penna, scriveva all'Arcivescovo:

 

"Ecc. Rev.ma, in circostanza in cui sta per trionfare il male, sento il dovere di manifestare all'Eccellenza Vostra quanto posso in coscienza affermare sulla condotta del sac. Giuseppe Finocchio. Debitore verso il sac. Pasquale Riccobono di lire 600 per affitto di casa e verso il sac. Giuseppe Romano di lire 300, il sac. Giuseppe Finocchio non pagò mai ai detti creditori, ora defunti, le somme dovute. Debitore verso di me di lire 3000 da circa 20 anni, verso il sac. Consiglio di lire 300 da circa 18 anni, verso il sac. Giuseppe Russo di lire 70, verso il sig. Di Liberto di lire 200 da circa 17 anni, invano il sac. Finocchio è stato invitato a pagare o a restituire. Morto il padre, cassiere della Congregazione di Maria SS. Immacolata, non volle consegnare le lire 400 che il padre teneva per conto della Congregazione. Tenuto a cedere un vigneto all'Opera Pia Riccobono, non ha eseguito ancora la volontà della testatrice Carrozza Francesca che gli aveva lasciato il vigneto per questo scopo con atto simulato e lo tiene da parecchi anni per conto suo. Dovendo essere espulso, per la sua poca correttezza, dalla Cassa Rurale Cattolica, mons. Lancia di Brolo, per proposta del Consiglio di Amministrazione, gl'impose di dimettersi per evitare lo scandalo dell'espulsione. Invitato dall'Arciprete Ferruggia prima, e dall'Arciprete Migliore dopo, a dare i conti dell'amministrazione dei beni appartenenti alla Chiesa Maria SS. della Provvidenza, non solo si rifiutò sempre, ma minacciò i due Arcipreti che dovettero rinunciare al controllo. Si è parlato di rapporti illeciti avuti 22 anni addietro dal sac. Finocchio con la signorina Alamia che per sfuggire all'infamia è partita per l'America ed ha partorito sul piroscafo. Napoli Crocifissa, assidua penitente del sac. Finocchio, rimproverata un giorno da costui innanzi alle zelatrici di Maria Concepita, reagì rivelando con gravi reticenze la condotta poco morale di lui in rapporto a lei e ad altre. La detta signorina, che frequenta i sacramenti, non ha ritrattato finora quanto affermò pubblicamente in quella occasione. La signorina Di Sano Rosaria, altra assidua penitente del sac. Finocchio, per gelosia contro le signorine Anselmo Francesca, Simonetti, Napoli e certa Bettina, troppo vicine a lui, manifestò a quasi tutti i sacerdoti e a molte donne che il Finocchio, quasi tutti i giorni, andava a casa di lei e più volte tentò di deflorarla. Il Sac. Finocchio fu sorpreso un giorno in sacrestia nell'atto di baciare una signorina e fu per essere bastonato dal fratello di lei, avvisato da chi vide quella scena. Una signorina andò in casa del sac. Finocchio suo confessore per licenziarsi pria di partire pel postulato da fare presso le Figlie della Carità e, trovandosi soli, egli l'abbracciò e baciò ripetute volte; la signorina gravemente scandalizzata manifestò il fatto a persona prudente che l'ha confidato a me. Si mormora contro di una giovane sposa che richiamata dal marito in America non ha voluto partire per non lasciare il Finocchio…

 

«Nerbo!!!» sottopensò il Principe «e si chiamava Finocchio!!!». Poi continuò a trascrivere.

 

…Non aggiungo altro intorno alla morale del sac. Finocchio, ma posso dire che è capace di tutto. Ho motivi di non dubitare che il Finocchio sia stato complice nell'assassinio di un padre di famiglia. Nel 1898, essendo egli a capo del partito cattolico locale, segretamente domandò ed ebbe denaro da questo e dal partito avverso che, pel tradimento del sac. Finocchio, riuscì vincitore. Al tribunale dei secolari ha portato sempre le questioni appartenenti al Clero ed ha tentato di compromettere alcuni sacerdoti. E' stato sempre causa di discordie fra il Clero. Procurò innumerevoli dispiaceri ai defunti sacerdoti Ferruggia e Migliore, e al vicario Pasquale Riccobono. Disprezzava il sac. Giuseppe Russo e molte volte fu per mettergli le mani addosso, e una volta trovandosi vestito a messa. Assicurasi che non si confessa da 22 anni tranne che siasi confessato nel santo ritiro fatto due volte per ordine di Vostra Eccellenza. Forse egli fu causa della morte del suo vecchio padre, per averlo fatto cadere a terra con uno spintone brutale, presente il sig. Leggio Giorgio, il quale divulgò il fatto in paese. Ha cercato di distogliere le persone dal contribuire alle spese fatte per la facciata e il compimento della Madrice, servendosi anche di calunnie. Se dipendesse da lui impedirebbe le ulteriori collette necessarie a farsi per l'estinzione del debito. Ha promosso personalmente, spingendo parenti ed amici, la sottoscrizione per la sua nomina di Arciprete, per confessione degli stessi promotori; sottoscrizione che non è l'espressione della volontà del popolo perché molte firme non sono autentiche e la massima parte forzatamente ottenute. Il lavoro fatto dal sac. Finocchio per questo scopo ha destato l'indignazione generale conoscendosi l'indegnità di lui. Anche a me si è presentato chiedendo la mia tolleranza. Faccio notare anche che il Finocchio, nominato Arciprete, sarebbe per diritto il Presidente dell'Opera Pia Riccobono, e in tale carica rovinerebbe l'Opera, ove troverebbe un terreno da sfruttare a suo beneficio. Essendo il Finocchio capace di tutto, come già detto, chiedo all'Eccellenza Vostra che la presente resti rigorosamente riservata all'Eccellenza Vostra e a Monsignor Evola. Prostrato al bacio del vostro anello, e chiedendo la pastorale benedizione, mi segno dell'Eccellenza Vostra Reverendissima devotissimo figlio in Gesù Cristo. Vicario foraneo sac. Salvatore Riccobono"

 

Intanto altre nubi spuntavano all'orizzonte. Anche il sac. Antonio Caronia di San Cipirello avanzava la propria candidatura finendo per sconvolgere totalmente i prestabiliti piani.

Il Virga, consapevole del genere di appoggi goduti dal Finocchio ma anche delle maggiori possibilità del Caronia, rinunziava alla corsa divenendo, nello stesso tempo, un paladino del partito pro Caronia.

Si era a conoscenza che l'Arcivescovo di Monreale, nel nominare un Arciprete, teneva sì conto delle istanze di cittadini, associazioni, preti e, ogni tanto, di qualche onorevole, ma alla fine procedeva secondo il suo convincimento e nel rispetto di un punteggio espressione del curriculum del candidato. E così pensava di procedere. Invece…

Si presentavano presso i locali della Curia i portavoce di due associazioni: uno della mafia di Cinisi, l'altro di quella di Terrasini i quali, senza un minimo di garbo né rispetto, comunicavano che le rispettive associazioni erano già venute nella determinazione di nominare il nominando Arciprete nella persona del galantuomo don Pippino Finocchio. Poi si presentava, accompagnato dallo staff della locale mafia, il pro-Sindaco di San Giuseppe Jato assessore Traina cav. Vincenzo il quale, evitata la forma imperiosa nella richiesta nomina del Finocchio, si limitava a comunicare che l'elezione eventuale del Caronia avrebbe automaticamente comportato l'ammazzatìna del sac. Virga, oltre al fatto, ma era di secondaria importanza, che le chiese locali non avrebbero più visto una lira da parte del Comune che essi rappresentavano. Questi i fatti di rilievo oltre ad una serie di lettere - non anonime - di minacce all'Ordinario, al Vicario e al Vice-vicario, sempre con lo stesso oggetto e spedite dagli amministratori comunali di San Giuseppe Jato. Infine le numerose visite presso la Curia di uomini di partito, portaborse e deputati della Circoscrizione. L'Arcivescovo, forse nell'intento di prender tempo, rinunziava alla nomina diretta e decideva di procedere attraverso concorso.

Intanto nell'area jatina quella nomina determinava una spaccatura verticale, tra gli apparentemente tranquilli abitanti, con conseguenze che nessuno, inizialmente, si sarebbe neppure sognato di immaginare. La nomina di un Arciprete risveglia sempre quello spirito represso di competizione caratteristico dei piccoli paesi non muniti di attrezzature per lo svago. Inizialmente c'erano stati, tra singoli tifosi, degli innocenti scambi di opinioni. Poi gli scambi, sempre innocenti, erano diventati di gruppo. Subito dopo si era assistito, tra singoli, a qualche scambio animato. Poi gli scambi animati erano diventati di gruppo. E sino a quel momento la situazione era sembrata sotto controllo. Si sa come va in questi casi: nella foga di una discussione un po' più animata c'era scappata, forse involontaria, una parola pesantuccia. Di rimando era stato profferito, in maniera poco ortodossa, un apprezzamento per la sorella. L'interessato si era subito sdebitato con un pugno ma poco dopo, informatosi presso gli esperti sul rispetto dei canoni del caso, gli era stato chiesto:

«U sangu ci fu

«No!» aveva risposto

«E allura un vali!»

La stessa notte abbuccàva un tifoso accoltellato.

Intanto erano cessate le discussioni ma continuavano gli scambi d'opinione: a mutìgna, senza parlare. Era cambiato lo strumento d'espressione: di domenica e nelle festività comandate il coltello, negli altri giorni o in campagna a runca ritenuta più efficace e comoda. Sin qui la situazione, anche se presa per i capelli, sembrava recuperabile. Vero è che gli accoltellamenti erano numerosi ma era pur vero che risultavano salomonicamente ripartiti: uno di qua, uno di là. Ma già da tempo ognuno pi un sapiri né leggiri né scriviri aveva cominciato a camminare armato. Lo aveva sempre fatto. Solo che in questi casi camminare armato veniva inteso nel senso di avere pronti i colpi in canna e il dito sul grilletto. Poi, all'improvviso, la goccia che aveva fatto precipitare tutto: il morto sparato. Caduto, si diceva, per la nobile causa. Forse nessuno saprà mai se quell'assassinio fosse da elencare tra quelli per legittima difesa; ma la dinamica, almeno da quel poco che si diceva, aveva impressionato molto la popolazione. L'impressione, a sua volta, aveva generato la paura. E a San Giuseppe Jato la paura, a memoria d'uomo, era sempre stata causa di lunghe file dinanzi alle armerie. Del fatto era stata tentata una ricostruzione rivelatasi subito molto attendibile. Erano le cinque del pomeriggio. Era l'ora di quella sorta di coprifuoco non dichiarato che la gente, in via cautelativa, da diversi giorni ormai s'imponeva. Non c'era anima viva; ma qualora ci fosse stata non sarebbe cambiato nulla perché non si sarebbe saputa una virgola in più di quanto già non si sapesse. Un tifoso saliva lungo il lato destro del marciapiede del corso principale. L'altro scendeva lungo il marciapiede opposto. Tutto sembrava normale quando il tifoso che saliva, improvvisamente, bum-bum! E ammazzava l'altro. Lo sparatore, tifoso del Finocchio, appena riconosciuto nell'altro un avversario, aveva fatto all'istante un rapidissimo ragionamento che, in fatto di logica, era apparso pure inappuntabile:

«Lui è armato e io pure! Non facciamo che lui pensa che io penso di sparargli e allora mi spara per primo!? Meglio giocare d'anticipo!»

Certo sarà sempre impossibile contare i caduti per quella nobile causa sia perché molti trovarono l'occasione, o se si preferisce il pretesto pi livàrisi a scagghìdda i l'ugnu, sia perché in tanti erano emigrati clandestinamente in America: così si diceva allorché di qualcuno - che l'America l'aveva trovata ad un paio di metri sottoterra - non si avevano più notizie. Una ventina solo nel febbraio del '22.

Torniamo alle alte sfere. L'Arcivescovo, nella nomina dei componenti la commissione esaminatrice, era ricorso ad elementi estranei all'ambiente per evitare tentativi di condizionamento. Ma non era servito a nulla: raccomandazioni e interventi presso i commissari, anche dalle più lontane regioni d'Italia, non si contavano più. Ma ciò che aveva creato turbamento nell'animo dell'Arcivescovo era stata una particolare raccomandazione. Aveva scelto, tra gli esaminatori, il Padre Bernardino Cappuccino da Casteltermini: un Comune fuori dalla diocesi e per altro sconosciuto. Pensava lui!

Manco a dirlo! Immediatamente si presentava un portavoce dell'associazione mafiosa di Casteltermini il quale, con dotte argomentazioni e frequenti riferimenti alla kantiana Critica alla ragion pura, tentava di convincere il colto cappuccino della maggiore preparazione del Finocchio rispetto al Caronia.

 Considerata la difficile situazione l'Arcivescovo, scritta una lettera di accompagnamento e messe in una busta tutte le carte, il 25 aprile 1923, trasmetteva tutto alla Santa Congregazione del Concilio a Roma[35]: facendo intendere la propria preferenza per il Caronia con una motivazione finale a dir poco sconcertante:

 

"III - Il rispetto che si ha da tutti per Caronia, la sua tranquilla dimora a San Giuseppe Jato nell'ufficio di Economo in quasi sei mesi fanno intendere come una volta che lui ne fosse il parroco ne godrebbero i buoni, e cesserebbe d'agitarsi il partito pro Finocchio, poiché non avrebbe più scopo. Vi è un'altra circostanza che assicura la tranquilla permanenza del Caronia in San Giuseppe Jato, la stima che vi gode il fratello dottor Giuseppe professore di Pediatria nell'Università di Roma, decorato dal Municipio di San Giuseppe Jato col titolo di cittadino onorario il giorno di Pasqua di quest'anno in occasione di una visita di questo al paese nativo di Sancipirrello. In nessun caso si farebbe un torto al sac. Caronia: sarebbe un torto al fratello, cittadino onorario; oltre che sarebbe un affronto ai componenti il Consiglio Municipale del vicino Sancipirrello, anch'essi persone che valgono nel mondo della mafia, che con a capo l'onorevole Lo Monte - uomo loro - fecero trionfali accoglienze al dottor Caronia. Quei signori di S.Giuseppe Jato vedono che altro è scalmanarsi per la parrocatura del sac. Finocchio prima che questa si conferisca, altro è fare un affronto diretto al sac. Caronia dato che questi ne sia il titolare definitivo."

 

Intanto "Nessun dorma!" erano le parole d'ordine nei due paesi e anche fuori.

 

"Istituto di Clinica Pediatrica della Regia Università di Roma - prof. Giuseppe Caronia - Roma aprile 1923. Carissimo Nino, sono da ieri a Roma, perché mi son dovuto fermare qualche giorno a Napoli. Le battaglie del Mezzogiorno hanno avuto anche un richiamo da parte di Don Sturzo a proposito degli articoli pro-Finocchio. Ti scriverò tra qualche giorno il nome del corrispondente da San Giuseppe Jato. A Palermo ha fatto parlare al Procuratore del Re. Occorrendo potrà qui fare altri passi. Intanto è bene assicurare mons. Arcivescovo che può agire con piena libertà. Nessuno oserà turbare l'opera sua, indirizzata al bene delle anime. Ho gradito molto la bella manifestazione dei compaesani; ma sono restato un po' contrariato di non essermi potuto intrattenere tranquillamente con i nostri cari genitori. Informami delle cose tue e della famiglia. Baci e saluti cordiali a tutti. La santa benedizione dei genitori. A te un abbraccio."

 

"A Sua Eccellenza Reverendissimama l'Arcivescovo di Monreale. Eminenza, ringrazio sentitamente V.E. per la sua cortese lettera del 21 corrente, di cui prendo atto, e come Lei sono dispiaciuto che si debba ricorrere alla Santa Sede. Per un riguardo personale per V.E. e sapendo che Ella era ben al corrente di tutte le eventuali conseguenze di una nomina non gradita ai Paesani, in seguito alla proposta fattami da V.E. stessa, avevo sospeso di presentare per iscritto la persona desiderata da casa Camporeale rimettendomi alle decisioni della Commissione Esaminatrice del concorso indetto da V.E. Ora invece, dovendosi trasmettere a Roma cotesta pratica, e ricordando che nell'ultimo colloquio avuto con V.E. in presenza del Comm. Cascio[36] Ella mi disse che nessuna improbabilità di riuscita vi era per il sac. Finocchio Giuseppe, ciò che mi fa credere che nulla di positivo vi fosse contro la sua nomina, desidero che trasmettendo i documenti alla Santa Sede, V.E. faccia conoscere a chi di ragione che il Sacerdote che presenta Casa Camporeale quale Arciprete di San Giuseppe Jato è il sac. Giuseppe Finocchio. Palermo 26 aprile 1923. Il Principe di Castelcicala"

 

"Istituto di Clinica Pediatrica della Regia Università di Roma - prof. Giuseppe Caronia - Roma 3 maggio 1923. Carissimo Nino, sono stato ieri alla tua Congregazione. Ho parlato con (cancellato) pratiche della Diocesi di Monreale. I documenti non erano ancora arrivati, ma avevano ricevuto soltanto un ricorso non so di chi. Ho presentato un memoriale a mia firma, in cui tratteggiavo la posizione reale ed assumevo la responsabilità dei fatti affermati. Giustamente il padre mi ha fatto osservare che la tua Congregazione finirà per decidere secondo le informazioni ed il parere del Vescovo e che terranno poco conto di ricorsi, sottoscrizioni ed altro. Domani farò tornare alla carica Padre Gabriele per dare ed avere altre notizie. Tu intanto da costì tienimi di tutto informato. Per una commissione di libera docenza conto venire in questi giorni a Palermo ma la riunione è stata rimandata a tempo non determinato. Saluti e baci a tutti di famiglia. La santa benedizione dei genitori. A te un abbraccio. Tuo fratello Peppino."

 

Finalmente veniva nominato l'Arciprete di San Giuseppe Jato nella persona del sac. Antonio Caronia.

 

"San Giuseppe Jato 8 ottobre 1923. Reverendissimo e carissimo monsignore, le scrivo due parole per assicurarle che la funzione di ieri riuscì ottimamente. La funzione fu preparata in forma privatissima; pur nondimeno il vasto tempio era quasi al completo. Tutti i Circoli, le Società, gl'Istituti e la parte intellettuale del paese erano presenti. Tutto si svolse tra la commozione generale. L'omelia recitata dal Novello Arciprete strappò le lagrime a tutti, perché trattò sulla 'carità'. Massima calma in Chiesa e fuori Chiesa. Lo slancio entusiastico, ma silenzioso e dignitoso di quasi tutto il popolo, fu ammirevole, anche dalla parte avversa che brillava per la sua assenza. Le bacio le mani. Sac. Giulio Virga."

 

Qualche anno dopo alle cinque del pomeriggio di una fresca serata di Venerdì Santo, durante le sacre rappresentazioni, un pesante crocifisso di alcuni metri d'altezza abbuccàva in direzione di due officianti inginocchiati ai piedi dello stesso. Don Giulio Virga, con salto felino, riusciva a scansarlo. L'Arciprete Caronia tentava il salto ma, impacciato nei movimenti, ci rimaneva parzialmente sotto sgangàndosi il femore. Poi andava a trascorrere il resto dei suoi anni presso l'abitazione del fratello a Roma.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NASCITA E SVILUPPO DELLA MAFIA SUL TERRITORIO: ANALISI STORICO - DOCUMENTALE

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

«Hallo!»

«Pronto! Zio santo?»

«Eccomi, Principe! Tutto fatto?»

«Ritengo di aver finito.»

«Bene, allora ascoltami. Ho pensato: considerato che siamo solo in due, invece di fare una nuvola rotonda, perché non andiamo a sederci al ristorante Paradise davanti ad una bella bottiglia di "D'istinto" della Casa Vinicola Calatràsi di San Cipirello?»

«Mi sembra un'ottima idea. Certo se riuscissimo a trovare una bottiglia di vino "Signora" di San Giuseppe Jato, non sarebbe neppure male!»

«Mi sembra difficile. E' passato oltre un secolo! E poi lo sai che i bianchi non reggono il tempo. In ogni caso informarsi non costa niente. Ascoltami ancora! Porta con te gli appunti. Per Internet porto il mio portatile. Due secondi e sono da te. Ciao!»

 

«Che bella vista!» Esclamò il Principe nel sedersi accanto alla finestra. «Sembra di trovarsi in capo al mondo! E poi guardi un po' che bel tocco di cameriera!»

«Hai poco da guardare. E' un angelo!»

«Appunto. Un angelo!»

«Ma che hai capito! Quello è un angelo vero! Lo fanno vestire da donna per creare un po' d'atmosfera. Piuttosto, non rivolgergli apprezzamenti perché s'incazza come un diavolo!»

«E perché s’incazza?»

«Ora vuoi metterti a discutere pure di sesso degli angeli? Vediamo piuttosto cosa dobbiamo ordinare.»

«Io inizierei con un po' di verdura. Certo se potessero servirci una bella porzione di cavolicèddi e giri di montagna non sarebbe male. In vita ne andavo matto! Il locale mi sembra però troppo raffinato.»

«Ma che credi di trovarti nei ristoranti di San Giuseppe Jato e San Cipirello, dove hanno dimenticato i migliori piatti tradizionali? Qui in Pa-ra-di-so siamo! Capito caro Principe? E ora al lavoro!”

 

I primi abitanti: vittime del maggiorasco e liberati dal carcere

 

«Allora, il primo tema da affrontare è: come è nata e che cos'è la mafia a San Giuseppe Jato e San Cipirello. Vediamo di dare un po' d'ordine ai lavori che sarò io a condurre. Tu potrai fare le domande che riterrai opportune ma sarò io a stabilire se sono pertinenti al tema. Inizierò col farti alcune domande. Partiamo dalla fondazione di San Giuseppe Jato nel 1779. Tu hai avuto concessa la licentia populandi. Giusto?»

«Giusto.»

«Prima domanda: come hai fatto a popolare il centro? Da dove provenivano gli abitanti e di che estrazione erano?»

 «Il territorio - se si esclude la presenza di alcuni casali quali Dammusi, Chiusa, Ginestra, Mortilli, Fellamonica, Gianvicario, Balletto, Picciana - era molto spopolato. Da quando Federico II, nel 1246, aveva deportato a Lucera in Puglia gli ultimi musulmani di Sicilia arroccati a Jato non era più sorto, tranne Piana degli Albanesi, alcun centro abitato di una certa rilevanza…»

«Non divagare, Principe, queste cose in parte le conosco! Se dobbiamo andare avanti nella discussione è bene seguire un filo logico. Tieni presente che, per formazione, sono ferratissimo in logica aristotelico-tomista e, se dovesse occorrere, sono anche in grado di analizzare un'argomentazione attraverso l'algebra di Boole. Questo per farti capire, e vale per il resto della conversazione, che il nostro dialogo dovrà viaggiare su binari senza deviazioni: a una domanda precisa deve seguire una precisa risposta. Sarò io, eventualmente, a chiederti ulteriori informazioni. Inteso? E allora! Da chi è stato popolato il centro?»

«In parte da gente trasferitasi dai centri vicini: Piana soprattutto, Alcamo, Partinico, Poggioreale, Corleone, ma anche lontani come Bivona, Grotte, Santo Stefano, Agrigento. In parte, in verità non molti, da gente che abitava nei casali vicini. Una parte invece proveniva dalle carceri.»

«Come mai dalle carceri?»

«Perché trasferirsi a San Giuseppe li Mortilli poteva costituire un'alternativa al carcere. Era consentito da una disposizione governativa conseguente al rilascio della licentia populandi. Però, zio santo, una deviazione deve pur consentirmela! Lei certamente, in cuor suo, starà sorridendo pensando che il mio paese è stato popolato da gente…»

«Ma figurati! Tu vorresti dire che all'epoca le carceri erano quasi esclusivamente piene di poveri disgraziati che non riuscivano a pagare le tasse? Che allora non esistevano amnistie e condoni fiscali? Questo lo so. Tu vorresti dire che non era tutta gente di malaffare? D'accordo. Invece degli Albanesi, poverini, cosa mi sai dire? Mi pare che Piana degli Albanesi fosse il centro abitato più vicino: meno di sei miglia da San Giuseppe.»

«Ma quali poverini! Lei forse si riferisce ai profughi albanesi di oggi! Vede, zio santo, Piana era un centro tutto particolare. Gli abitanti erano chiamati greci ma di greco avevano ben poco. Erano trilingui: parlavano l'albanese, il siciliano e l'italiano.»

«Come mai erano chiamati greci

«Probabilmente perché le prime colonie cacciate dall'area bizantina, durante l'invasione ottomana, provenivano dal Peloponneso in Grecia. Ma le prime ondate di profughi avevano colonizzato i centri di Palazzo Adriano e Contessa Entellina. Questi, come quelli di Mezzoiuso e Santa Cristina, provenivano proprio dall'Albania.»

«Mi sembri abbastanza informato!»

«Gnòti sautòn - conosci te stesso - dicevano gli antichi greci. Conoscere se stessi è indubbiamente importante, ma con gli Albanesi di Piana a confine delle proprietà era meglio conoscere gli altri.»

«Perché?»

«Le dicevo che gli Albanesi di Piana erano particolari in primo luogo perché non avevano nulla in comune con i profughi neppure dell'epoca. Erano arrivati numerosi in queste zone nel 1488. Profughi erano, ma pieni di soldi! Ancora nel 1525, nei documenti, il centro da loro fondato era denominato La Piana dei Nobili Albanesi. La loro ricchezza può ancor oggi essere valutata attraverso i caratteristici abbigliamenti: raffinatissimi e ricamati con dovizia d'oro. Era una nobiltà che non aveva nulla da spartire con quella nostrana. Erano nobili che lavoravano e si davano da fare come tutte le persone normali. Al momento dell'arrivo avevano acquistato, sottolineo acquistato, dall'Arcivescovado di Monreale due feudi quasi improduttivi: Mercu e Dandigli, oggi Dingoli. Ma il loro primo interesse, più che acquistare dei feudi produttivi, era stato quello di acquistarli in posizione alquanto elevata.»

«E poi?»

«In meno di un decennio riuscivano a rendere produttivi i terreni acquistati. Nello spazio di cinquant'anni non vi furono concessioni di terreni - in gabella, a masseria[37], a censo, a decima[38] - in tutto il comprensorio del monrealese dove non vi fossero Albanesi. Nello stesso tempo acquistavano tutto quanto c'era di vendibile: piccoli appezzamenti di terreno, abitazioni di campagna. Nel 1508 il greco Alessandro Galletti acquistava l'enfiteusi del feudo della Chiusa e costruiva un mulino. Nel volgere di una sessantina d'anni quasi tutti i mulini delle vallate del Belice e dello Jato appartenevano a loro: l'ultimo lo costruiva nel 1567 il greco Nicolao Zuccaro a Calatràsi nei pressi di Roccamena, ad oltre 30 km da Piana! Poi costruivano una cartiera sul fiume Jato e successivamente un paratore[39]. Non parliamo delle attività commerciali! Vendevano di tutto e dovunque, specialmente a Palermo e in tutto il circondario.»

«Scusa Principe, non avrai mica confuso gli Albanesi con gli Ebrei?»

«Assolutamente no! Anzi a tal proposito faccio notare che gli Ebrei erano stati espulsi dalla Sicilia nel 1492, quattro anni dopo l'arrivo degli Albanesi, e ho sempre avuto la sensazione che questi ultimi, almeno nei nostri territori, abbiano preso il loro posto. All'inizio ho avuto rapporti quasi esclusivamente con loro. Pensi che avevano pure in gestione il fondaco di Mortilli preesistente alla fondazione di San Giuseppe. Sono infine convinto che noi Beccadelli dobbiamo molto alla vicinanza di questa gente se siamo riusciti a mantenere, per lungo tempo, prestigio e averi.»

«Perché?»

«Perché abbiamo, in un certo qual modo, emulato lo spirito della nobiltà albanese: abbiamo lavorato anche noi, siamo divenuti imprenditori quando i nostri cugini nobili se la fissiavano

«Interessante!»

«Non creda che sul territorio ci fossero solo Albanesi! Nel 1584 il pisano don Pietro de Opezzinghis[40], acquistata l'enfiteusi del feudo Fellamonica sul fiume Jato, iniziava l'esperimentu di una coltivazione di riso.»

«Le coltivazioni di riso qui?»

«Erano stati gli Arabi attorno all'anno 1000 ad importare, dal sud-est asiatico, la coltivazione del riso in Sicilia. Poi era scomparsa. Attorno al 1400 gli Aragonesi l'avevano importata nel napoletano. A Palermo e zone limitrofe era sconosciuta e il riso era un genere di lusso perché importato.»

«E com'era andata al pisano?»

«Aveva impiegato circa 12 anni per acquisire una buona tecnica di coltivazione e, soprattutto, di pulitura. Poi a partire dal 1588, entrato in piena produzione, riusciva a rifarsi delle spese sostenute ottenendo raccolti nel rapporto di 1 a 25. Utilizzava la tecnica della rotazione delle colture quando qui era sconosciuta. Pensi che ogni due anni alternava la coltivazione del frumento al riso ottenendo rapporti di 1 a 18, quando in quelle epoche non si superavano rapporti di 1 a 7.»

«E come andò a finire?»

«Ogni anno, conti alla mano, pagando 56 once di canone enfiteutico riusciva ad ottenere un utile medio di 1038 once! Poi l'Arcivescovo di Monreale aveva messo gli occhi su quel fiume di denaro e, dopo alcuni anni di contenzioso, si sfasciàvanu i criva

«C'era altra gente esterna insediata in questo territorio?»

«Non vorrei fare un elenco di singoli perché credo non sia il caso. Per non andare molto indietro nel tempo posso solo citare una comunità di Armeni che nel 1258, regnando lo svevo Manfredi, si insediava proprio nella mia Dammusi a coltivare i terreni cum vineis et laboribus, con vigne e frumento. Ma di loro si avevano pochissime notizie.»

«Riprendiamo il filo. Escludiamo i carcerati che non avevano alternative, ma gli altri perché hanno scelto di trasferirsi a San Giuseppe li Mortilli?»

«Perché ho concesso gratuitamente l'area su cui edificare e, per coloro che non avevano possibilità, ho costruito anche l'abitazione concedendola in enfiteusi. Pensi che tra lotti di case e terre comuni ho concesso qualcosa come trenta salme di terra. Naturalmente ciò valeva indistintamente per carcerati e non.»

«Solo per questo?»

«No. Nello stesso tempo ho dato a ciascuno la possibilità di lavorare concedendo - in gabella, a censo o a decima - dei piccoli appezzamenti di terreno. Sa, ne avevo di terreno!»

«Tutto qui?»

«In verità mi sto ricordando di un'altra trentina di persone provenienti dai centri più disparati: le indicavamo come le vittime del maggiorasco

«Il maggiorasco? So che si tratta di una istituzione legata all'eredità in uso presso i casati nobiliari. Confesso però la mia ignoranza, non me ne sono mai occupato perché non mi è mai interessato: provengo da una famiglia che per generazioni aveva solo ereditato fame. Mi fai capire di che si tratta?»

«Il maggiorasco o maggiorascato era una forma di fedecommesso. Forse però è meglio chiarire con un esempio. Prendiamo il caso di una donazione. Ai giorni nostri, se si escludono i problemi legati al fisco, un trasferimento di proprietà viene fatto in maniera abbastanza semplice: il donatore va dal notaio e divide ai figli, o agli aventi causa, i propri beni. I figli, a loro volta, possono utilizzare i beni ereditati nel modo che ritengono più opportuno.»

«Invece allora?»

«Intanto i beni, parliamo di quelli immobili, non venivano divisi. Erano epoche in cui prestigio e potenza di una famiglia si misuravano in salme di terra e bisognava conservare nel tempo prestigio e potenza. La soluzione veniva reperita nell'assegnare l'intera proprietà ad una sola persona: in genere al primogenito. Non solo. Il donatore stabiliva, all'atto della donazione, come e a chi sarebbero andati i beni nelle generazioni successive: all'infinito scrivevano i notai negli atti. L'inalienabilità, naturalmente, costituiva il presupposto principale della donazione. Si rende conto, zio santo, di quali erano le conseguenze?»

«Certo che mi rendo conto! Si era nell'impossibilità di dividere, vendere, donare o trasformare i beni ereditati, con notevole pregiudizio per una naturale ridistribuzione della ricchezza e diffusione della piccola e media proprietà.»

«Di tutto ciò mi sto rendendo conto solo ora! »

«E hai impiegato quasi due secoli per capire l'importante funzione della  piccola e media proprietà in Sicilia?»

«Sì.»

«Leggi cosa scriveva, già nei primi decenni del 1800, un nobile francese nel visitare questi territori:

 

"Colui che visitasse per mare le coste della Sicilia potrebbe facilmente crederla ricca e fiorente, eppure non esiste un paese più misero al mondo; la giudicherebbe popolata, mentre le sue campagne sono deserte e tali rimarranno finché il frazionamento delle proprietà e lo smercio dei prodotti non daranno al popolo un motivo d'interesse per ritornarvi."»

 

«E chi era il francese?»

«Charles Alexis de Tocqueville

«Ma quello era un nobile rinnegato! Aveva tradito tutti i nobili principi della nobiltà. Era liberale. E che liberale! Teorizzava che la democrazia costituiva l'avvenire delle società avanzate. E poi, pur con alcuni distiguo, sempre alla francese ragionava! E lei capisce, in quelle epoche, cosa significava per noi nobili ragionare alla francese?!»

«Sì. Capisco anche se non condivido. Però Tocqueville, anche se alla francese, almeno ragionava! Voi invece… Certo, i nobili siciliani dovevate avere il dente particolarmente avvelenato nei suoi riguardi per quel che ha scritto[41]

«E lei è proprio sicuro che Tocqueville sia stato in Sicilia?»

«Sì. Col fratello Edouard nel 1826-27.»

«A saperlo!»

«Interessante, per il nostro tema, è l'analisi di Tocqueville a proposito dell'agricoltura nei territori tra Catania e Messina dove…non è che un susseguirsi di frutteti frammischiati a capanne e graziosi villaggi; non c'è spazio sprecato: ovunque un'aria di prosperità e di abbondanza. Egli giustifica[42] tale situazione in parte con il fatto che la …divisione dei beni vi è quasi senza limiti. Ognuno ha un sia pur minimo interesse nella terra. E' l'unica parte della Sicilia dove il contadino è possidente. Penso che non sarà un caso se quei territori della Sicilia Orientale, per oltre un secolo e mezzo, siano rimasti immuni da fenomeni di mafia. Non possiamo certo addebitare il fatto solo al frazionamento della proprietà; possiamo solo registrare che la mafia è nata nel latifondo e, come vedremo in seguito, per il latifondo. Ma riprendiamo il filo. Che fine hanno fatto le tue proprietà?»

Anch'io, il 10 luglio 1806, ho donato i miei beni seguendo la norma del fedecommesso.»

«E com'è andata?»

«Non le dico il casino presso il notaio Domenico Cavarretta di Palermo! Era però normale. Il casino naturalmente! La cosa difficile infatti era spiegare al notaio la volontà del donatore: anche perché in genere il donatore si portava addosso un buon numero d'anni. A volte trascorrevano giorni e giorni a discutere col notaio.»

«E la tua donazione?»

«Io donavo tutti i beni a mio figlio Domenico, coniugato con sua nipote donna Stefania Beccadelli, alle seguenti condizioni: se si fosse sciolto il matrimonio tra i due, senza figli e discendenza mascolina, allora mio figlio Domenico avrebbe goduto l'usufrutto sino alla morte, dopodiché l'intera proprietà sarebbe passata a don Giuseppe Beccadelli Bologna e Bonanno figlio primogenito maschio del Colonnello don Bernardo Beccadelli da Sambuca e di donna Margherita Bonanno. Ma la proprietà sarebbe passata a Giuseppe Beccadelli Bologna e Bonanno a condizione che avesse preso in moglie donna Marianna Beccadelli figlia di mio figlio Domenico e di donna Stefania; altrimenti la palla - in questo caso mia nipote donna Marianna - sarebbe passata al secondogenito del Colonnello don Bernardo Beccadelli. Se neppure il secondogenito avesse preso in moglie la palla, si passava al terzogenito del Colonnello, e così di seguito

 

"…a favore di quel figlio ultrogenito di detto illustre Colonnello don Bernardo, che piglierà in moglie la suddetta illustre donna Marianna."

 

Se nessun ultrogenito avesse avuto il fegato di sposare mia nipote donna Marianna, allora si poteva passare a nominare un fedecommesso primogeniale agnatizio nella linea …quando nascessero figli maschi…aspetti ogni volta che arrivo qui mi confondo…insomma una persona disposta a carriàrisi, portarsi via, la palla di mia nipote!»

«Fammi capire. Dai rapporti di parentela citati sembra che i matrimoni si contraessero in famiglia. O no?»

«Proprio così! Io avevo tre figli: Salvatore, Domenico e Bernardo. Domenico l’ho fatto sposare con la figlia di Salvatore. Dal matrimonio tra i due è nata Marianna che, attraverso l’atto citato, ho obbligato a sposarsi con uno dei figli di Bernardo. Come vede, con questo sistema che non ho avuto il tempo di brevettare, non si disperdeva un metro quadro di terra della famiglia!»

«Ho capito! E i figli che non erano primogeniti?»

«In parole povere la prendevano nel disco! Quando gli andava bene ricevevano una certa quantità di denaro assieme al titolo e andavano via.»

«E che facevano?»

«Alcuni, abituati ai fasti, facevano la fine del figliuol prodigo. Altri più intraprendenti tentavano l'unica forma d'investimento possibile all'epoca: l'acquisto di terreni. Cosa difficilissima data la penuria di proprietà alienabili.»

«E allora?»

«Allora alzai l'ingegno! Io ero tra i pochi a poter vendere i beni perché frutto di un acquisto. In una situazione del genere lei comprende come funziona la legge del mercato: poca offerta, prezzi alle stelle. Pensi, zio santo, che con la vendita di una minima parte di terreni, ero riuscito a recuperare buona parte delle spese sostenute per l'acquisto dell'intero comprensorio. Fu così che alcune delle vittime del maggiorasco si trasferirono a San Giuseppe li Mortilli.»

«Che tipi erano?»

«Ma secondo lei che tipi potevano essere!? Era normale che avessero il dente avvelenato contro tutti i nobili di questo mondo! Tante volte, conoscendone le origini, erano stati invitati presso la mia dimora in occasione di feste o banchetti. Nessuno però si fece mai vedere! Bisogna riconoscere che lavoravano, che facevano produrre bene la terra, che mandavano i figli a scuola e che - spogliatisi delle vesti nobiliari, anche se a volte mantenevano il titolo - si erano trasformati in perfetti borghesi. Preferivano stare col popolino e, nel volgere di pochi anni, avevano creato anche una sorta di sodalizio: una rivendita, altrove chiamata vendita, di carbonari; che non era, almeno qui, una società segreta come in genere si sostiene: risultava infatti regolarmente denunziata alla polizia di Palermo.»

«E dopo?»

«Poi si erano messi a professare idee che apparivano rivoluzionarie e nel luglio del 1820, assieme a una buona parte dei mortillari, combinavano un casino bruciando gli uffici governativi con tutti i registri. Se la prendevano col primo eletto, il Sindaco, Natale Prestigiacomo inviso, si diceva, alla popolazione: in realtà tentavano di assassinarlo perché era uno sfegatato borbonico. I capi, tali Virga e Micciché[43], arrestati in precedenza con altri e rinchiusi nel carcere di Sant'Anna a Trapani, riusciti ad evadere assieme ad una trentina di carcerati, si davano alla macchia nelle campagne tra San Giuseppe li Mortilli e Belmonte Mezzagno…»

«Fermati, Principe, che sono arrivati i cavolicèddi e i giri! Prima però di iniziare informami sul numero di abitanti.»

«Attorno al 1792 erano già circa 900; mentre nel 1831, questo posso dirglielo con certezza in quanto risultava dal censimento, erano 4095.»

«Come fai a saper queste cose? Tu non sei morto nel 1813?»

«Sì! Inizialmente mi sono tenuto aggiornato attraverso i mortillari e i miei parenti che arrivavano nell’aldiquà. Poi m'abbuttò

 

«Veramente buoni questi cavolicèddi, vero zio santo?»

«Sì, certo!»

«Ne aveva mai mangiati?»

«Devi sapere, Principe, che mio padre faceva 'u cavuliceddàru e li vendeva nella bancarella!»

«Cosa servo per primo?» chiese con voce perfettamente femminile l'angelo.

«A me» rispose il Principe «come primo porti un secondo: carne di crasto arrostita, un bruciulùni cu sucu e un po' di sarde a beccafìco

«Anche a me.» Disse il santo.

 

I gestori di violenza

 

«Passiamo ad altro. Cerchiamo adesso di capire chi erano i gestori di violenza nel territorio di tua pertinenza.»

«Ladri, briganti e, nel luglio del 1820, i carbonari!»

«E basta?»

«Non credo ce ne fossero altri!»

«Ascoltami, Principe! Dobbiamo essere chiari e dare alle frasi il loro esatto significato. Io ti ho chiesto i gestori di violenza non i gestori di violenza con una determinata finalità. Mettiti nei panni di uno che si becca una fucilata: tu credi che se il piombo proviene dalla canna di un brigante o di un rivoluzionario per lui cambi qualcosa? Per adesso tralasciamo le finalità e cerchiamo di individuare solamente i gestori di violenza. Briganti e rivoluzionari, tutti e due gestori di violenza sono: ciascuno però la utilizza per uno scopo diverso. La distinzione sarà utile per capire, successivamente, cosa può accadere nel momento in cui le finalità dei gestori di violenza si avvicinano o addirittura coincidono. Mi pare chiaro che stiamo parlando di gestione di violenza organizzata. Allora andiamo in ordine.»

«Ma in questo modo, zio santo, anche lo Stato è un gestore di violenza!»

«Certo! Il più importante! Lo stai scoprendo ora? Principe, è mai esistito uno Stato che, per evitare furti e assassini, ha previsto nelle sanzioni penali i fulmini dell'Inferno? Persino la nostra Santa Madre Chiesa, incaricata da S.E. San Pietro di gestire il potere temporale, pur avendo la disponibilità delle fiamme eterne, è sempre ricorsa sulla terra alla loro rappresentazione in anteprima o, attraverso una robusta corda attorno al collo, all’innalzamento dei trasgressori verso il cielo! Non ti pare? E ora continua!»

«Dobbiamo distinguere due periodi: prima e dopo il 1812. Sino al 1812 i gestori di violenza potevano essere così elencati: bande di briganti, bande temporanee di ladri, l'autorità costituita e i campieri. Dopo il 1812 dobbiamo aggiungere, a quelli già citati, le Compagnie d'Armi.»

«I compagni d'armi chi erano?»

«Se non ne ha mai sentito parlare devo per forza fare una premessa.»

«Non è che non ne ho sentito parlare! Preferisco che sia tu, testimone diretto, a parlarmene. Continua.»

«Il 1812 fu l'anno dell'abolizione dei diritti feudali. Sino ad allora la gestione della giustizia era stata, in buona parte, in mano al signore feudale. Attenzione non tutta la giustizia: il signore feudale aveva il potere di giudicare le cause civili…»

«Il mero imperio, no?»

«Esatto! E alcuni tipi di cause criminali: il misto imperio. Io, per sovrana investitura, nel 1779 avevo ottenuto la concessione del mero e misto imperio con l'alta giurisdizione sui territori acquistati. Dovevo anche gestire l'ordine e la sicurezza pubblica. Ma ciò non costituì mai un grosso problema. Potevo contare sulla polizia di Stato, avevo degli ottimi campieri e poi i territori circostanti appartenevano all'Arcivescovo di Monreale che, nel settore, era molto ben organizzato: aveva dei validissimi capitani d'armi, possedeva un carcere a Monreale, chiamato i dammusèddi, dove venivano rinchiusi i condannati che non andavano in crociera, ed anche una attrezzata sala di tortura: il locus tormentorum

«Come in crociera!?», .

«Sino ai primi anni del 1600 buona parte dei condannati veniva avviata ad remigandum in triremibus papalibus, a remare nelle navi del Papa: era un modo d'accummiràri in attesa che inventassero il motore Diesel. Poi l'Arcivescovo si accorse che era più conveniente avviarli al lavoro nei feudi a conduzione diretta, i feghi nobili, e così, dopo diversi anni di contenzioso col Papa, riusciva nel suo scopo. Di notte li teneva nei dammusèddi e di giorno li faceva svagare all'aria aperta a fare giardinaggio.»

«L'Arcivescovo utilizzava una sala di tortura? Principe, ma stai dicendo vero?»

«Come sto dicendo vero! Guardi che è stata utilizzata per secoli! Io non ci sono mai andato perché mi faceva senso per non dire ch'era uno schifìo. Guardi quanti verbali, attraverso Internet, ho trovato dal 1400 sino alla soppressione della sala! Sono centinaia e centinaia. E poi l'Arcivescovo di Monreale rivestiva contemporaneamente la carica di vescovo e signore feudale: non capisco il perché della sua meraviglia!»

«Vedi qui in Paradiso non se n'è saputo mai nulla. Parla sottovoce. Dimmi, come funzionava?»

«E' opportuno innanzitutto precisare che, nel settore, l'Arcivescovado si teneva aggiornato sui più moderni ritrovati della tecnica. Era da secoli abbonato al mensile spagnolo, a tiratura internazionale, "Tormentum summaque voluptas" e, nella edizione italiana, "Il tormento e l'estasi". Bisogna pure rilevare che il torturando, chiamiamolo anche l'atleta, godeva di precise garanzie.»

«Quali?»

«Innanzitutto le prove da superare avevano una durata ben determinata e il tempo relativo era misurato attraverso un'ampollecta, una clessidra. Poi l'atleta era continuamente tenuto sotto controllo dal cirurgico, un medico che accertava se era in grado di affrontare ciascuna prova. Il tutto veniva verbalizzato in una forma così pillicùsa da non capire se gli estensori erano reclutati tra i pignoli oppure tra i sadici.»

«E le prove?»

«Non erano molte ma erano molto efficaci.»

«Ad esempio?»

«La prova del cavallectum. L'atleta, posizionato su un cavalletto, era sollecitato con prove che oggi formano oggetto della scienza delle costruzioni: trazione, flessione e torsione. La prova di taglio non veniva praticata perché, per legge, l'atleta doveva uscire intero dalla sala: vivo o morto importava poco, ma intero. Naturalmente la prova di flessione era all'indietro!»

«Poi?»

«La prova a sùccaro. Il torturando, con le mani legate dietro la schiena, veniva risucchiato verso il cielo cum funiculis, robuste corde che ruotando attorno ad currulam, una carrucola legata al tetto, gli consentiva di rinforzare i muscoli pettorali.»

«Ce n'erano altre?»

«Degna di nota era un'altra prova che costituiva la specialità della sala: la prova a tocca e nun tocca. Roba da brevetto! Era identica alla precedente ma più funzionale. Gli specialisti si erano accorti che gli atleti, stando sollevati in alto, spesso riuscivano a raggiungere uno stato di equilibrio che consentiva loro di far trascorrere il tempo. La soluzione all'inconveniente consisteva nell'innalzare l'atleta ad un'altezza tale da fargli sfiorare, con le punte dei piedi, il pavimento. L'atleta allora tentava di poggiare i piedi e, quando credeva di essersi appoggiato, veniva dato un colpetto alla fune che, ruotando attorno alla carrucola, lo sollevava di una decina di centimetri dal suolo. Subito dopo veniva rimesso nella posizione precedente per ricominciare. Ecco a tocca e nun tocca. Questa instabilità d'equilibrio determinava continue oscillazioni che gli rinforzavano ulteriormente i muscoli pettorali ed anche quelli addominali.»

«Accennavi anche ai verbali…»

«Legga qui, zio! In uno solo di essi[44], al momento di questa prova, sono riportate trentasei volte le seguenti espressioni: "Et monitus ut dicat veritatem dixit[45]: Nenti sàcciu! Et monitus ut dicat veritatem dixit: Nostra Donna della Mendula! Calàtimi! Calàtimi!

«Mainchia!!!»

«Prego?»

«Mainchia!!!»

«Scusi che significa?»

«Minchia con la prima sillaba pronunziata in americano!»

«E si può dire in Paradiso?»

«Certo che si può dire! I padri della Chiesa, sant'Agostino e san Tommaso in testa, hanno impiegato oltre un secolo per dimostrare al Padreterno la funzione catartica dell'esclamazione sicula ormai divenuta internazionale. Il Padreterno, riconosciuto l'errore, non poteva di punto in bianco rimangiarsi millenni di repressione: per cui, in alternativa al pensare sottopensiero, si era ricorso a questo escamotage. Più comodo no?»

«Mainchia!!!»

 

L'ordine pubblico sul territorio

 

«Allora, rimettiamoci sul binario. Come andava la gestione dell'ordine pubblico?»

«Diciamo discretamente bene. Attenzione zio! Ladri, briganti e malacunnùtta non è che ne mancavano! C'erano sempre stati, continuavano ad esserci e, senza volere rubare il mestiere al nostro Eccellentissimo Padreterno, sempre ci saranno! Sarà stato perché eravamo presenti sul territorio, perché eravamo bene organizzati, perché i processi si facevano in giornata, perché i cancelli del carcere di Monreale erano a prova di fuga, perché non si facevano sconti di pena. Chi può dirlo? Il fatto è che riuscivamo a tenere un minimo di ordine pubblico.»

«E dopo il 1812?»

«Aboliti i diritti feudali saltò di conseguenza l'intero apparato. Noi avevamo perduto una serie di diritti ma anche il dovere di mantenere gli agenti per la sicurezza. La gestione dell'ordine pubblico sul territorio veniva trasferita direttamente allo Stato attraverso le forze di polizia.»

«E allora?»

«Si scatenò l'Inferno addumàtu zio santo! Erano periodi di magra e lo Stato era venuto a trovarsi totalmente impreparato ad affrontare la situazione: non aveva fondi sufficienti per mantenere le forze di polizia necessarie. Scusi zio santo, in Paradiso stronzo si può dire?»

«Solo se riferito a re coglioni

«Quello stronzo dell'Invittissimo Ferdinando, scappato da Napoli per paura di Napoleone e venuto in queste zone, sa cos'aveva fatto?»

«Dimmi!»

«Invece di utilizzare il denaro, ricavato dalla confisca dei beni dei Gesuiti, per la costruzione di strade - così come stabilito dal Parlamento Siciliano del 5 aprile 1778 - si era fatta costruire una sontuosa dimora di caccia a qualche miglio da qui, a Ficuzza; oltre poi a dilapidare una montagna di soldi nella Favorita di Palermo, nella Riserva Reale, nella Palazzina Cinese, nel sontuoso ricevimento, il 20 agosto 1799, dell'ammiraglio Nelson di ritorno dalla vittoria navale su Napoleone e così via. Certo, cose belle erano! Ma sarebbe stato più utile, per quanto ci riguardava, costruire una strada carrabile da Palermo a San Giuseppe li Mortilli e almeno una caserma.»

«Che successe allora?»

«Fu quello un periodo di sconvolgimento totale. All'improvviso ma soprattutto senza alcun progetto veniva smantellato un sistema, quello feudale, che era durato secoli. Pensi a quanta gente ha dovuto cambiare mestiere e, soprattutto, quant'era la gente che non sapeva più che cosa fare. Ma ritengo che non sia il caso di divagare. Il mantenimento dell'ordine pubblico sul territorio di San Giuseppe li Mortilli avrebbe dovuto essere assicurato da due, dico due, soli poliziotti che, in caso di necessità, avrebbero potuto chiedere rinforzi a Palermo. Lei starà certamente immaginando cosa poteva succedere! Le prime volte uno dei poliziotti era riuscito a partire. Ma quando, dopo alcuni giorni, ritornava coi rinforzi, i delitti erano già stati consumati e dimenticati. Poi i delinquenti trovarono più comodo impallinare il poliziotto-messo all'andata, lungo la strada al passo della Scala della Targia, nei pressi di Portella della Ginestra. Per farla breve non si trovarono più poliziotti disposti a venire a San Giuseppe. Ed eravamo informati che la stessa situazione era rilevabile in tutti i centri delle zone interne. Naturalmente ladri e assassini, gente molto perspicace in situazioni del genere, si erano già organizzati in associazioni di volontariato. Anch'io, in fatto di perspicacia, non è che scherzavo! Per salvaguardare le mie proprietà, evitai di licenziare i campieri.»

«E gli altri?»

«Tutti i proprietari di terreni che in passato avevano fatto affidamento, per il mantenimento dell'ordine pubblico, sui miei campieri furono costretti ad assumerne anche loro. Mi sembra opportuno, zio, sottolineare il passaggio che segue. La mia, come quella di altri latifondisti, era una vastissima proprietà. Economicamente potevo quindi permettermi un numero discreto di campieri scegliendoli anche tra persone per bene: erano in molti e costituivano un gruppo abbastanza temibile. Si metta nei panni di chi poteva assumere solamente uno o al massimo due campieri. Se li avesse scelto tra persone per bene, l'indomani rischiava di vederseli impallinati.»

«Capisco: al campiere in cerca di lavoro che non poteva vantare almeno un omicidio conveniva cambiar mestiere! No?»

 «Proprio così. Pensi che anch'io, col tempo, fui costretto a sostituire dei padri di famiglia con alcuni carni i pècura. Naturalmente, considerati gli individui, lei si rende facilmente conto di come i campieri potevano arrotondare lo stipendio!»

«Certo. Minimo minimo rubando. Poi che succede?»

«La ciliegina. In una situazione di anarchia assoluta il Governo, analizzate le cause, trova la soluzione. Per essere brevi immagini un bando del genere:

Considerato che:

- abbiamo poche forze di polizia disponibili;

- nessuno dei disponibili è disponibile a risiedere nei centri dell'interno;

- non hanno ancora inventato il telegrafo per venire a conoscenza, in tempo reale, di fatti delittuosi;

- mancano le strade per un rapido spostamento dei contingenti di polizia dalle città ai luoghi interessati da fenomeni di delinquenza;

Considerato inoltre che, per il mantenimento dell'ordine pubblico sul territorio, occorrono individui:

- edotti sulla situazione e la conoscenza dei luoghi nonché ivi residenti;

- in grado di maneggiare con destrezza le armi;

- in grado di mantenere l'ordine pubblico;

Avvertita l'esigenza di ristabilire l'autorità dello Stato sul territorio.

E' indetto il pubblico appalto della sicurezza pubblica per l'assunzione di personale da inquadrare nelle Compagnie d'Armi.

Non è richiesto alcun titolo né certificato penale.

Al personale è solo richiesta la conoscenza del territorio e la capacità di sparare a vista a chiunque attenti alla sicurezza dello stesso.

N.B. - il candidato deve essere munito, a proprie spese, di carabina e sufficienti munizioni. Inoltre risponde personalmente di furti e danni

«Insomma come nel 1848 con il governo di Ruggero Settimo

«Questo non lo so.»

«A proposito di responsabilità per furti e danni la legge del Parlamento Generale di Sicilia n. 132 del 7 agosto 1848 all'articolo 32 riportava che le Compagnie d'Armi

 

saranno responsabili dei furti, anche di abigeato e dei guasti fatti nelle vie pubbliche e nelle campagne, comprese le case di campagna, le masserie e simili per motivi di furto e di scrocco, come ancora degli scrocchi col mezzo di sequestri di persone avvenute nelle vie pubbliche e nelle campagne come sopra.

 

E poi gli articoli 33 e 34[46] prevedevano il risarcimento del valore della refurtiva ai danneggiati da parte dei compagni d'armi.»

«Esattamente la stessa cosa. Noti che la legge prevedeva solamente furti, danni e sequestri non ammazzatìne

 «E che successe?»

Mprìmisi-mprìmisi gli stipendi dei campieri arrivarono alle stelle! Inoltre il reclutamento nelle Compagnie d'Armi, com'era da aspettarsi, avvenne tra ladri, banditi e liberati dal carcere i quali, arruolandosi, acquistavano l'impunità di precedenti misfatti e si preparavano a commetterne di nuovi: il tutto sotto copertura legale. Campieri e compagni d'armi subito si ciaràru i mussi e, di comune accordo, si misero al lavoro. Insomma ruberie e assassini non si contarono più.»

«Ma i compagni d'armi non dovevano risarcire la refurtiva?»

«Certo! Eccome! E lei pensa che i compagni d'armi rinunziavano allo stipendio per risarcire i derubati?»

«E come facevano?»

«Semplicissimo! Le Compagnie d'Armi in Sicilia erano 25 e ognuna di loro era autonoma. Bastava andare a rubare la refurtiva da restituire nei territori delle Compagnie d'Armi confinanti! No? Queste ultime, a loro volta, effettuavano le eventuali operazioni di recupero nei territori limitrofi e così a catìna e catinèdda. Ma lei crede che le catene di sant'Antonio siano un'invenzione dei nostri giorni? Questo all'inizio. Poi si scoprì che era più comodo risolvere il problema alla radice. Siccome per restituire la refurtiva occorreva la denunzia allora, contemporaneamente o subito dopo il furto, si ammazzava il derubato. Tanto, dei morti sul territorio non rispondevano i compagni d'armi!»

«Scusa perché contemporaneamente o subito dopo?»

«Se il furto era commesso dal compagno d’armi, lo stesso procedeva contemporaneamente all'ammazzatìna del derubato. Se invece il ladro era qualcun altro allora subito dopo era sempre il compagno d'armi ad assassinare il derubato per evitare che andasse a fare la denunzia.»

 

I galantuomini: l'alba dei mafiusi

 

«Consentimi una domanda: in quei periodi hai mai sentito parlare di mafia?»

«Assolutamente no.»

«E neppure di galantuomini?»

«Di galantuomini sì.»

«Che tipi erano?»

«Vede zio, i galantuomini, chiamati anche gentiluomini, erano individui un po' particolari. In genere erano persone del ceto medio che ostentavano, in maniera molto appariscente, la maniera di vestire e il portamento improntato ad una eccessiva galanteria. Erano di poche parole e si notava, nel modo di esprimersi, la sicurezza di se mista a un pizzico di spacconeria. Gentilissimi con chiunque, costituivano una sorta di clan che soleva incontrarsi nella chiazza, la piazza, oppure nello zagàto, una specie di emporio nel corso principale, dove era anche possibile giocare al bigliardo. Far parte della loro cerchia non presupponeva l'appartenenza ad un precisa classe sociale. Chiunque poteva entrare nel gruppo a condizione che possedesse precise qualità: rispetto della parola data, silenzio assoluto sui fatti interni al clan, avere uno spiccato senso dell'onore, difesa di chi non era in grado di difendersi, essere coraggiosi e non avere paura di nessuno.»

«E non mi sai dire altro?»

«Inoltre i galantuomini erano molto interessati a quanto succedeva in paese e non avvenivano fatti salienti dove non si sentissero coinvolti. Nei moti del Luglio 1820 i galantuomini di San Giuseppe furono, in buona parte, in prima linea[47]. Quest'ultimo loro interesse, in verità, destava una certa preoccupazione. L'estrazione borghese di alcuni di loro obbligava le menti dei nobili a sintonizzarsi su quanto accaduto in Francia un paio di decenni prima. Non so se, al loro interno, fossero organizzati in gerarchie; so solamente che il capo riconosciuto era una delle vittime del maggiorasco: il barone don Antonino Perez

«Che tipo era?»

«Aveva il titolo di barone ma di proprietà poteva possedere, sì e no, 10-15 salme di terra. Poi aveva alcuni terreni in gabella.»

«Era quindi un gabelloto!»

«Attenzione zio! Il termine è stato usato a volte in modo improprio. Gabelloto era chiunque aveva qualcosa, non solamente terreno, in gabella, in affitto. C'era ad esempio il gabelloto del mulino, il gabelloto dello zagato. A proposito: il barone Perez, in società con alcuni galantuomini, era gabelloto dello zagàto, quella specie di emporio di cui parlavo prima, chiamato anche privativa perché venivano venduti generi di monopolio.»

«Non sai dirmi altro del Perez e dei suoi galantuomini?»

«Vede, non si sa cosa succedesse al loro interno proprio perché non parlavano mai dei fatti loro. Possiamo aiutarci con il sac. Tommaso Aiello

«Chi era?»

«Era il Vicario Foraneo, l'Arciprete, di San Giuseppe li Mortilli. Ho consultato alcune carte presso l'Archivio Storico Diocesano di Monreale. Tra il 1819 e il 1854, quasi ogni giorno, scriveva una lettera all'Arcivescovo di Monreale riportando, per filo e per segno, quanto accadeva nella gestione della sua Parrocchia.»

«E relativamente al barone Perez

«L'Arciprete era stato minacciato dal Perez e dai suoi galantuomini.»

«Per quale motivo?»

«Tenga presente che attorno alla metà degli anni '20 a San Giuseppe c'erano 14 sacerdoti officianti. I preti don Vito e don Vincenzo Romano, fratelli nonché noti malacunnutta[48] - don Vito nel 1825 era stato pure arrestato per rissa e tentato omicidio - si erano appropriati dell'intera eredità del padre lasciando sul lastrico la sorella nubile. E l'avevano pure buttata fuori di casa! La sorella aveva trovato ricovero in casa del sac. Michele Costanza il quale, nell'ambito della sua missione spirituale e sociale, tentava di condurre alla ragione i fratelli della sventurata. I Romano allora, presa la palla al balzo, giustificavano la propria azione tirando in ballo problemi di corna: la sorella, sostenevano, se la faceva col sac. Costanza. Cosa da non escludere considerato il comportamento generale dei preti che, all'epoca, erano come gli dei dell'Olimpo: avevano i pregi ma anche tutti i vizi e i difetti degli uomini. Il vicario foraneo Tommaso Aiello, la massima autorità ecclesiastica in paese, in ottimi rapporti coi Romano, prendeva strenuamente le difese di questi ultimi. Interveniva a questo punto in difesa della Romano il sac. don Girolamo Licari: un prete un po' particolare che andava direttamente a testa 'e l'acqua, dal capo, il sac. Aiello, a minacciarlo.»

«E che tipo era il sac. Licari

«Il sac. Costanza, in una lettera indirizzata all'Arcivescovo di Monreale nel 1824[49], lo aveva così descritto:

 

per il prete Licari posso dire essere altiero e bizzarro nel vestire di corto portando la pantalona ogni giorno.

 

 L'arciprete don Tommaso Aiello aveva scritto di lui:

 

il prete don Girolamo Licari passa quasi sempre il tempo al bigliardo, e nelle feste del Santo Natale questo che dice di essere povero, tenne banco di bassetta in detto bigliardo, e poi in casa sua con lagnanze della famiglia, e finalmente coll'unione con alcuni gentiluomini sempre manovra a minacciarmi, come fece ieri in sagrestia, sebbene io non ho che temere per la grazia di Dio.

 

Tenga presente che quelle erano epoche in cui con grazia di Dio veniva in genere indicata una buona carrubbìna stuccata - un fucile a canne mozze! Lamentava ancora l'Aiello il 23.5.1836:

 

questo rev. Girolamo Licari poi vantando la protezione del barone don Antonino Perez, ch'è la rovina di questa comune, mi fece sapere oggi per mezzo dei suoi allegati galantuomini, che mi deve fare stancare.

 

Insomma per risolvere il problema della derelitta Romano erano intervenuti, ricorrendo a minacce, il Perez con i suoi galantuomini.»

«Il fatto sembrerebbe rientrare nella difesa dei deboli nel codice dei galantuomini! No? E che ne fu del barone Perez?»

«Morì suicida[50] nel novembre del 1836 alcuni mesi dopo aver contratto matrimonio. Credo sia anche opportuno precisare che negli anni '30 il Perez con i suoi galantuomini riusciva a conquistare l'Amministrazione Comunale.»

Compagni d'armi, campieri e galantuomini

 

«Torniamo alle Compagnie d'Armi e ai campieri.»

«La situazione nel territorio poteva così sintetizzarsi: nobili e ricchissimi proprietari non avevamo problemi perché ben difesi dai campieri a loro volta in combutta con i compagni d'armi. Medi, piccoli proprietari nonché il basso popolo, quindi diciamo la quasi totalità degli abitanti, era alla mercé di compagni d'armi e campieri oltre agli immancabili ladri e briganti.»

«Che succede a questo punto?»

«Entrano in azione i galantuomini. A chi non sapeva come difendersi, ma soprattutto vendicarsi di torti subiti, era sufficiente rivolgersi a loro per vedere soddisfatte le proprie aspettative. Per altro i galantuomini, operando di nascosto, tacendo e potendo contare sul silenzio di tutti, avevano buone possibilità di farla franca. Figurarsi cosa diventano i galantuomini per la gente! I nuovi Robin Hood! I difensori dei diritti dei deboli contro i forti e i violenti! I mègghiu, i migliori! Er più, come dicono a Roma!»

«Fermati qui. Io credo che i galantuomini, o meglio il ceto che rappresentavano, abbiano fatto questo ragionamento: “noi siamo dei medi proprietari; dobbiamo difenderci da ladri, briganti, campieri e compagni d'armi, insomma da tutti; non esiste uno Stato che ci difende, anzi, ci sono piovuti addosso pure i compagni d'armi; difendersi singolarmente è un suicidio; se uniamo le nostre forze siamo in pochi; per essere in molti, possiamo cercare proseliti tra i nostri compagni di sventura: il popolo; perché il popolo sia dalla nostra parte dobbiamo difenderlo dalle angherie di compagni d'armi, campieri, ladri e briganti. Dobbiamo inoltre, considerata la totale assenza dello Stato, garantire al popolo una parvenza di giustizia nei normali rapporti sociali: dal matrimonio alle corna, dalla vendita del mulo ai contrasti sui confini.” Ed ecco, Principe, come nascono i maffiusi [51]

«Forse vuole dire i galantuomini!»

«No! No! Voglio dire proprio i maffiusi! Scusa che significava ai tuoi tempi maffiusu

«Era un aggettivo equivalente a bello, molto bello. Si diceva, ad esempio: cavaddu maffiusu, frutta maffiusa, fimmina maffiusa, stoviglie maffiusi ad indicare una cosa bella nel suo genere.»

«E secondo te è così improbabile che la gente abbia qualificato il galantuomo, così come da te descritto, con l'aggettivo maffiusu, bello? Tieni pure presente che i galantuomini, tra loro, non hanno mai usato maffiusu e neppure maffia. Sono stati gli altri a chiamarli maffiusi. Tra loro hanno usato termini quali galantomu, omu d'onuri, picciottu oppure, ad esempio, Onorata Società, Cosa Nostra ma non mafia o maffia. Comunque più in là cercherò di spiegarti l'etimologia del termine.»

«Scusi, zio santo, lei sta dicendo che galantuomini e mafiosi erano la stessa cosa; ma la mafia non era una società segreta?»

«Scusami tu. I galantuomini costituivano una società segreta?»

«No!»

«Come fai a dirlo?»

«Ma perché… che so!…ad esempio: per il solo fatto che si vestivano in un certo modo si vedeva a cento miglia che erano dei galantuomini!»

«Guarda! Leggi assieme a me. Gli arrestati sono rivoluzionari del 1848:

 

La mattina di buon ora[52] – racconta molti anni dopo il Di Giorgi che era fra gli arrestati – un domestico che ci aveva accompagnato da Mazara ci fece arrivare un gran vassoio di fichidindia che non assaggiammo neppure: s’aveva altro per la testa!

Poco dopo ci si presentò un bell’uomo, alto e robusto, vestito accuratamente, con un berretto rosso fiammante alla sgherra e un gran fiocco scarlatto che gli scendeva sulla spalla. L’abito e il portamento lo rivelavano per un mafiuso.

Si levò il berretto: Bacio le mani. Sono venuto a prendere i loro ordini, che cosa comandano? Tutta la camerata è a loro disposizione.

Mentre lo ringraziavamo per la sua gentilezza, venne il carceriere per rinchiuderci in celle separate.

Il mafiuso non ci lasciò prendere i nostri mantelli: Vadano pure giù; ora i picciotti porteranno a posto i cappotti e il piatto di fichidindia. Lo pregammo di distribuire quel po’ di frutta ai suoi. No, signori – ci rispose – i picciotti li ringraziano cordialmente del gentile pensiero, ma essi non toccano la roba dei galantuomini. Curò che ci venissero portate le nostre cose e, quando fu tutto a posto, si licenziò dicendo: Io mi chiamo Catalanotta, se hanno bisogno di me mi facciano avvertire, e tutto quello che desiderano sarà fatto.

 

Credi che se i mafiosi fossero stati organizzati in una società segreta l'avrebbero manifestato all'urbi e all'orbu, ai quattro venti, attraverso il modo di vestire? Nota poi la terminologia utilizzata: gli altri indicano il Catalanotta con l'accezione mafiuso, mentre il Catalanotta utilizza termini quali galantuomini e picciotti. Per rafforzare quanto detto possiamo fare riferimento alla descrizione del mafiuso fatta dal francese Gaston Vuillier attorno ai primi anni del  1890[53]»

 

Un giovane palermitano m'accompagnava qualche volta al mercato. Io gli toccavo il gomito quando vedevo dei tipi che mi colpivano. Questo non è un Napoletano - mi disse egli un giorno. Difatti non aveva nulla del Siciliano. Questo è il vero mafioso.

Era un tipo di uomo arzillo, magro, baldanzoso, il mento raso, i capelli arricciati sulle tempie e una berretta rossa a righe turchine posata sulle ventitrè. Un fazzoletto a vari colori era negligentemente annotato attorno al suo collo; una sciarpa rossa gli serrava la vita sopra il gilè. La giacchetta, era corta e stretta; i calzoni, inverosimili; serrati ai fianchi, aderenti fino ai ginocchi, andavano poi allargandosi e scendevano a campana sul piede che rimaneva quasi tutto nascosto.

-Il vostro mafioso - dissi - mi ha tutta l'aria di un sacripante; non vorrei incontrarlo in un posto solitario.

-Ebbene, v'ingannate. Il vero mafioso - e questo ne è uno - non è un traditore, né un assassino, tutt'altro; provocherà un avversario, ma non si batterà con un uomo disarmato. Egli è imbevuto degli strani sentimenti cavallereschi della sua classe; non ucciderà mai un nemico a tradimento e tanto meno lo deruberà. È un essere assai curioso: ama vincere le difficoltà, sormontare gli ostacoli, e cerca gli amori violenti e tragici. Allorché, stanco di avventure, questo don Giovanni si decide a prender moglie, bisogna che la rapisca: il matrimonio tranquillo gli sembra insipido. Una bella sera, al rumore delle fucilate, che spaventano tutto il paese, una casta fanciulla viene portata via entro una carrozza che parte al galoppo. Egli è insomma un avventuriere di cappa e spada; un eroe da romanzo, che continua in pieno secolo XIX le gesta dei moschettieri di Alessandro Dumas. Le galere lo aspettano, ma non possono guarirlo, poiché egli ha la passione delle avventure cavalleresche, in disaccordo con le leggi.

Ascoltando queste spiegazioni pensavo che le tradizioni cavalleresche celebrate dalle carrette, dai teatri popolari e dai cantastorie, mantengono e fortificano simili stati d'animo. Questa brava gente vive come nel medio evo, si comporta alla guisa dei paladini, mestiere pericoloso in una società che livella tutti i temperamenti e distrugge ogni individualità, ogni iniziativa.

 

I medi proprietari ovvero la borghesia nascente all'assalto dei latifondi

 

«Torniamo al punto precedente perché la discussione comincia a farsi interessante. Secondo me dobbiamo cominciare col dividere i galantuomini in due gruppi: da una parte i medi proprietari, e dall’altra quelli che comunemente vengono indicati come i picciotti. I medi proprietari, sanno cosa vogliono: in parte salvaguardare la proprietà e…»

«Sì ma questa esigenza ce l'hanno anche i nobili!»

«Alt! Fermiamoci un momento e facciamo una parentesi. Vediamo per sommi capi qual è la situazione in questo territorio anteriormente al 1848; altrimenti rischiamo di non capirci. Ci siete i grossissimi proprietari, che poi siete quasi tutti nobili: tu i Forcella, gli Amari, i Restivo, i Duchi di Gualtieri, i Battifora, i Manzone, gli Arrighetti ecc. possessori di interi feudi di migliaia e migliaia di salme; diciamo del territorio quasi per intero. Poi c'è un salto spaventoso. Ci sono i medi, sarebbe più logico chiamarli piccoli, proprietari. Dove per medi proprietari intendiamo i possessori, al massimo, di 20-25 salme di terra. Il medio proprietario con tale estensione di terra, lavorando, vive in maniera accettabile e riesce anche a mandare i figli a scuola a Palermo. La stragrande maggioranza della gente è costituita da nullatenenti e proprietari di qualche tumulo di terra. Principe che faceva il medio proprietario per incrementare il proprio capitale?»

«Non saprei!»

«Come non saprei!? Pensaci bene!»

«Ah! Sì! Ecco! Prendeva in gabella qualche estensione di terreno nei feudi appartenenti ai nobili.»

«Bene. In tal modo incrementa il proprio capitale ma non riesce ad incrementare la sua proprietà immobiliare, circondato com'è da latifondi per lui inavvicinabili. Vero è che la legge sul fedecommesso era stata abolita nel 1818 ma è pur vero che in un ambiente conservatore quale quello della nobiltà siciliana, ce ne sarebbe voluto di tempo per rendere i latifondi alienabili o frazionabili! Non solo. Anche nei casi di vendita, a volte forzosa per accumulo di debiti, per il medio proprietario i prezzi d'acquisto risultano proibitivi. Pensa alle vendite di alcuni feudi attorno al 1850. Il Fegotto e la Chiusa vengono acquistati dai Ferrara Ferrante, gente ricchissima venuta da Piana. Oppure allo smembramento parziale, attorno al 1842, dei feudi Pietralunga e Arcivocale di circa 3300 ettari. Chi acquista o eredita? Nobili e altra gente ricchissima che non abita a San Giuseppe. Pensa ai Forcella. Entrare in un giro del genere presuppone o grandi capitali oppure qualche matrimonio: i grandi capitali mancano, figurarsi poi parlare di matrimonio con i nobili!»

«Ma dove vuole arrivare zio santo?»

«Anche se difficile, mettiti nei panni del medio proprietario. Ha un certo grado di cultura e se non ce l'ha lui ce l'hanno i figli che vanno a scuola; si rende conto di essere circondato da una moltitudine fondamentalmente ignorante, o meglio analfabeta; vive in uno Stato caratterizzato da notevole precarietà; non ha grossi problemi economici ma vuole espandersi. Che fa?»

«Non riesco a venirle dietro!»

«Cerca di seguire il ragionamento. A questo punto, con la costituzione di un gruppo di difesa dai campieri e dai compagni d’armi, dispone di una discreta forza contrattuale. Che fa?»

«Ho perso il filo!»

«Vediamo di riprenderlo! Ti dicevo che i galantuomini o mafiusi bisogna distinguerli in due categorie: i medi proprietari e tutti gli altri più medi di lui. I medi proprietari sanno cosa vogliono: ingrandirsi e, perché no? Anche arricchirsi. E' umano, no? Gli altri non sanno cosa vogliono. Allora bisogna spiegarglielo. Non gli si può dire, di punto in bianco "Ragazzi mettiamoci assieme perché noi abbiamo intenzione di arricchirci!" Ne sarebbe venuta fuori una normale banda di ladri o di briganti. Bisogna invece inculcargli che cosa loro devono volere: tenere all'onore anche a costo del sangue, tenere alla parola data nell'ambito dei galantuomini, rispettare la gerarchia, non mettere mai in discussione gli ordini dei capi e così di seguito.»

«Un’operazione di indottrinamento!»

«Sì! Una vera e propria operazione di lavaggio del cervello! La solidarietà poi tra i mafiusi consente ai meno abbienti tra loro di poter contare su una forma di mutua garanzia economica: cosa particolarmente importante in una società contadina soggetta all'aleatorietà delle annate agrarie. Infine per rendere il tutto più sacro e misterioso, ma soprattutto indiscutibile, si ricorre all'immaginetta sacra bruciata tra le mani, alla punciuta. Pensa alla famosa frase di rito: "le tue carni bruceranno come questa santa se tradirai Cosa Nostra!!!" pronunziata con aria truce e tre punti esclamativi. E cu parra cchiù?! Ed ecco che il gioco è fatto. Non pensare che abbiano scoperto la carta vetrata liscia! Chiunque, per crearsi o mantenere una qualsiasi forma di potere, è sempre ricorso a questi mezzi. La riuscita o meno è sempre dipesa dal livello culturale della gente. Ma qui, in quelle epoche e non solo, d'ignoranza ce n'era a tinchitè. Ti rendi conto che in tal modo riescono a disporre di una discreta forza contrattuale?»

«Ma che potevano fare?»

«No che potevano fare. Che hanno fatto! Sono accerchiati dai latifondi. Sanno che potrebbero farli produrre in maniera egregia. Guarda che queste terre sono particolarmente fertili! Non solo. Ma guarda che quella era gente che ci sapeva fare!»

«Sì. Questo lo so.»

«Tu hai detto che gli abitanti nel 1792 erano circa 900 e 4095 nel 1831: un incremento di oltre il 300% nel breve volgere di 39 anni! Se tieni conto che nel febbraio 1838, il mese antecedente la frana, a San Giuseppe li Mortilli si contano 5 morti di cui 4 bambini, nascono 19 bambini e si celebrano 12 matrimoni ti rendi conto che quelli erano, per l'epoca, numeri da Terra Promessa. Poi leggi cosa scrive il Giornale Officiale di Sicilia del 21 aprile 1838, in occasione della frana del marzo precedente, a proposito di una grande città come Palermo:

 

Le fabbriche di due terze parti del Comune erano sepolte nelle viscere della terra, ed eransi quindi perduti magazzini interi di olio, di vino, di frumenti. Questa Capitale stessa dèe risentirne le conseguenze!

 

Tieni inoltre presente che nel volgere di pochissimo tempo, oltre a ricostruire l'intero centro crollato, edificavano il limitrofo San Cipirello che già nel 1848 (appena 10 anni dopo!) veniva dichiarato Comune indipendente dal Governo di Ruggero Settimo. Ma non perdiamo il filo. I galantuomini sanno di non potere accedere ai latifondi. Secondo te che fanno?»

«Ma secondo me si rendono conto che solo attraverso uno sconvolgimento generale e un sconquasso del sistema possono crearsi nuove possibilità.»

 

 

 

Mafiusi, rivolte e rivoluzioni: 1820, 1848, 1860, 1866

 

«Bravo! Ed ecco i galantuomini o mafiusi, con al seguito i fidati picciotti, partecipare a tutte le rivolte e rivoluzioni dell'epoca. Non dimenticare poi che dalla loro parte c'è anche il popolo per il quale la partecipazione a rivolte e rivoluzioni ha sempre avuto due soli presupposti: star male e trovare qualcuno in grado di indicargli contro chi scagliarsi. Figurarsi! Il primo presupposto era endemico, del secondo se ne stavano occupando loro. Trovi allora i galantuomini con i loro picciotti nei moti del luglio 1820. Li ritrovi nella rivoluzione del 1848 con Ruggero Settimo. Poi con Garibaldi nel 1860. E assieme a tutti gli altri nella rivolta del sette e mezzo a Palermo nel 1866.»

«E con chi erano nel 1866 e chi comandava?»

«Ho detto assieme a tutti gli altri intendendo dire a tutti quelli che parteciparono. Ma allora non comandò nessuno. Quella rivolta stranamente fu contemporaneamente acefala e multiteste. In ogni caso in tutte e quattro le occasioni, per le finalità proposte, non erano riusciti a raggiungere alcun risultato tranne qualche raro arricchimento in occasione delle rivoluzioni.»

«Come mai?»

«Nel 1820 erano troppo isolati. Sì! C'erano anche i collegamenti con i rivoluzionari di Napoli; in tutti i centri dell'isola si conosceva la data di sollevazione ma mancava una direzione strategica unitaria.»

«E l'arcivescovo Balsamo?»

«Sì! In verità su questo territorio sembrava che, attraverso l'Arcivescovo di Monreale, vi fosse una parvenza di organizzazione. Alla fine però era andato tutto sottosopra. Pensa che l'arcivescovo Benedetto Balsamo, uno sfegatato borbonico, presiedeva la giunta rivoluzionaria provvisoria a Monreale! Perché, si diceva, aveva un buon precedente:

 

"…era stato eletto nel 1812 quale rappresentante del popolo messinese nel Parlamento Siciliano che doveva chiedere l'indipendenza della Sicilia ai Borboni. Poi, fallita la rivoluzione del 1820, lo stesso arcivescovo Balsamo era stato messo a presiedere la giunta di scrutinio per gli ecclesiastici, che doveva condannare e reprimere le idee rivoluzionarie antiborboniche nell'ambito del clero"[54].

 

Vacci a capire!»

«E nel 1848?»

«Nel 1848 sembrava essere andata meglio. Stavolta questo territorio poteva contare sull'organizzatissimo Turi Miceli di Monreale: una via di mezzo tra un brigante e un galantuomo; un tipo molto narcisista con delle agguerritissime squadre di picciotti che lo adoravano. Era un comandante sui generis ma era quanto di meglio potesse offrire la piazza. Il 12 gennaio 1848 insorgeva Palermo contro i Borboni. Il 13 i mafiusi dell'area del monrealese al seguito di Turi Miceli e quelli del bagherese con Scordato raggiungevano la capitale a dare manforte agli insorti. Il 14 gennaio il Regio Palazzo veniva assalito da 50 di San Giuseppe li Mortilli sotto il comando di Francesco Mannino[55] e da un altro gruppo, di cui non si conosce il numero, comandato da Niccola Miccichè[56]. Il gruppo di Mannino si univa poi a quello di Turi Miceli. La storia dei mafiusi di questo territorio sino al 1866 sarà strettamente legata a quella del mafioso-brigante monrealese nominato colonnello. Ruggero Settimo, a governo costituito, lo aveva nominato comandante dello squadrone campestre della sezione occidentale dell'isola, alle dirette dipendenze del Ministero dell'Interno

 

per gli importanti servizi prestati alla Patria per la causa della rivoluzione, mantenendo il grado, gli onori e gli averi di colonnello

 

«E perché nel '48 i galantuomini non riescono a far nulla?»

«I motivi sono tanti ma limitiamoci a quello che più interessa la nostra analisi nelle sue linee generali: alla rivoluzione del '48 partecipano gruppi di diversa estrazione e i mafiosi con i loro picciotti sono uno di questi. Alla fine chi prende in mano le redini della situazione è il ceto nobiliare ossia quel ceto contro cui erano indirizzati i galantuomini. Ma era successo pure nel 1812 anche se i galantuomini, come gruppo, quasi certamente non c'erano.»

«E nel 1860?»

«Tu credi che Garibaldi solamente con i famosi Mille sarebbe mai riuscito ad arrivare in Sicilia? Sì e no sarebbe potuto sbarcare a Marettimo: per far provvista d'acqua e, senza sbagliare rotta, ritornare da dove era venuto! Anche stavolta sono tanti i gruppi che partecipano all'epopea: dai nobili agli intellettuali al ceto meno abbiente. Quest'ultimo sempre presente nella fase iniziale ossia quando è necessario dare ma soprattutto prendere legnate: poi scompare. Ci sono pure i galantuomini con i loro picciotti per i quali Garibaldi poteva costituire un buon investimento: tra i tanti dispensatori di promesse era stato l'unico ad impegnarsi sulla quotizzazione delle terre demaniali. E quello, per i galantuomini, poteva essere un buon inizio. Gli jatini sono assieme a don Turi Miceli. Una nota di colore: l'unico caduto di San Cipirello è un tizio forte e bello del quale nelle commemorazioni ufficiali si ricorda il suo ardente amore per l'Italia, il suo altruismo nelle battaglie, il suo desiderio di combattere per creare un futuro migliore ai propri figli e ai compagni di gioco dei propri figli. E' stato sempre commemorato come UNO di San Cipirello. Di lui si conoscono le idee e le aspirazioni ma nessuno ha mai saputo il nome e neppure il cognome. Si sa solamente che è caduto per l'Italia nell'attacco di Lenzitti alle porte di Palermo.»

«E come andò a finire?»

«Andò a finire come al solito. Vero è che ogni gruppo aveva partecipato con motivazioni diverse; alla fine però padroni del campo erano rimasti coloro che lo erano sempre stati: quelli le di cui terre i mafiosi galantuomini avevano cercato di appropriarsi, a cominciare dal sindaco di Palermo il nobile marchese Di Rudinì. Le conseguenze della rivoluzione del 1860 si videro subito dopo nel 1866.»

«Che successe nel 1866?»

«Garibaldi parlava di rivoluzione tradita. Mazzini pure. Agli ecclesiastici avevano confiscato quasi tutto. Ad alcuni - in verità pochi - nobili borbonici era fallito il matrimonio coi sabaudi. Il generale Giovanni Corrao dell'esercito regio, garibaldino di ferro e forse mafioso, aveva abbandonato il servizio militare proclamando la sua fede repubblicana e, il 3 agosto 1863, subiva il proprio assassinio ad opera, si diceva, delle forze di polizia. Giuseppe Badia, luogotenente di Corrao e anch’egli garibaldino di ferro, era stato rinchiuso all'Ucciardone assieme a molti altri del Partito d'Azione di Mazzini e Garibaldi. Molte associazioni artigiane del circondario di Palermo erano in subbuglio. Per la gente, con l'avvento dei piemontesi, nella secolare stasi dell'isola era finalmente cambiato qualcosa: prima si stava male ora ancora peggio, con l'aggravante della leva obbligatoria. I mafiosi non parlavano di tradimenti ma capivano che le loro finalità erano state totalmente disattese. Tutti assieme, ma solo nel palermitano, decidevano a quel punto di assicutare i piemontesi prima da Palermo poi dall'intera Sicilia ed eventualmente anche da tutta l'Italia!»

«E come andava?»

«L'unico a cui era stato affidato un preciso incarico era il mafioso don Turi Miceli comandante di tutte le squadre dell'area monrealese: doveva liberare il Badia - per dare un prestigioso capo alla rivolta - e i 2500 rinchiusi nel carcere dell'Ucciardone. Tra il 16 e il 23 settembre a mezzogiorno, in sette giorni e mezzo, distruggevano la casa del marchese Di Rudinì e di Francesco Perroni-Paladini, capo della fazione moderata del partito d'azione nemico dichiarato di Giuseppe Badia, distruggevano caserme dei carabinieri e della polizia, assaltavano depositi, alcuni forti e l'Ucciardone. Il sindaco marchese Di Rudinì a capo di 150 guardie municipali armate tentava, assieme alle truppe regolari, la difesa dell'autorità dello Stato. Era però costretto a subire l'assedio all'interno del Palazzo Reale. Per il suo coraggio e le sue virtù ma soprattutto per la sua dimostrata fedeltà allo Stato sabaudo veniva poi nominato Prefetto di Palermo, poi di Napoli, poi Ministro degli Interni e infine Presidente del Consiglio. Lo Stato, un po' spaventato, inviava il generale Cadorna con 50000 uomini. L'Arcivescovo di Monreale, Benedetto D'Acquisto, veniva arrestato. Il mafioso Miceli non riusciva a liberare il Badia; i suoi picciotti, a centinaia, si facevano massacrare davanti al carcere dell'Ucciardone. Scrive[57] un testimone oculare di aver visto il Miceli con le gambe spezzate dalla mitraglia e aggiungendo:

 

"Io lo vidi condotto allo Spedale in mezzo ai disperati suoi compagni, spirare l'anima fra tormenti inauditi senza muovere un lamento."

 

Forse non si saprà mai quel che successe in quei giorni e immediatamente dopo perché gli atti dei tribunali militari non sono stati mai trovati. Pensa che il Crispi, buon intenditore in fatto di repressioni, ebbe a protestare per il comportamento dell'esercito regio. Forse non si saprà mai quanti furono i caduti, pardon i morti. Qui, caro Principe, per i mafiosi si chiude la prima fase e se ne apre un'altra.»

 

«Come ti è sembrata la carne di crasto

«Piccante!»

«A me non è sembrato!»

«Ma che ha capito zio? Forse non ha sentito che l'ho detto in corsivo: piccante da picca, poco!»

«Ordiniamo il piatto successivo?»

«Sì! Come si fa a chiamare l'angelo-cameriera?»

«In linguaggio internazionale, così: psssss, psssss!»

«Prego! Desiderano il secondo?»

«Sì!» - rispose il Principe - «Come secondo mi porti un primo: un assaggio di maccarrùna cu sucu e uno di pasta 'a milanìsa

«Anche a me.» - disse il santo. Poi continuò:

 

Dal 1866 al 1912. I Fasci Siciliani

 

«Ora, Principe, occorre una breve pausa per fare alcune considerazioni su questa prima fase. Vediamo che idea ti sei fatta.»

«Allora. Al periodo iniziale, quello della reazione alle Compagnie d'Armi e ai campieri per intenderci, corrisponde la figura del mafioso superman, difensore dei deboli e così via: ciò sembra rispondere esattamente alla definizione del Pitrè.»

«Ma anche a quella del Traina che nel suo Vocabolario Siciliano-Italiano del 1868 riporta, grosso modo, la stessa definizione del Pitrè. Interessante risulta il fatto che il Traina definisce il termine mafia un neologismo. Sì perché il termine in precedenza non esisteva. Esistevano coloro che venivano chiamati mafiusi ma l'organizzazione non era chiamata mafia. Comunque ci pensava Vincenzo Mortillaro a chiarire l'apparente anomalia. Scriveva nel suo Vocabolario Siciliano-Italiano del 1876: Mafia = voce piemontese introdotta nel resto d’Italia ch’equivale a camorra. Ma non perdiamoci in questi aspetti folcloristici. Continua!»

«Il medio proprietario diventa mafioso inizialmente per difendersi e, immediatamente dopo per appropriarsi, con le buone o con le cattive, dell'unica grande ricchezza presente sul territorio: il latifondo.»

«Bene! Potremmo anche, d'ora in poi, utilizzare il termine arricchimento. Continua!»

«Il mafioso è uno dei vari gestori di violenza organizzata sul territorio.»

«E il rapporto con gli altri gestori di violenza?»

«Non so!»

«Continuo io. Il mafioso ha acquisito una notevole esperienza. Ha scoperto che, invece di andare allo scontro diretto, è meglio unirsi agli altri gestori di violenza: ladri, campieri, briganti e così via. Tanto alla fine prevarrà chi ha più cervello. Cioè lui. Inoltre si è reso conto che in altre zone della Sicilia la situazione è molto simile a quella del suo territorio. E allora perché scannarsi l'un con l'altro? Meglio accordarsi. Ognuno opera nel suo territorio con un sorta di tacito patto di mutuo soccorso. Insomma diventa per così dire un primus inter pares.»

«Solo questo?»

«Si rende conto di aver commesso un solo errore. Col principale gestore di violenza sul territorio, lo Stato, invece di accordarsi è andato sempre allo scontro diretto. Ma non poteva fare altrimenti: non aveva alcun potere contrattuale tranne quello dei suoi picciotti che era ben poca cosa. Dopo la debacle del 1866 si accorge che è necessario cambiare strategia. Continua a non avere potere contrattuale ma si rende conto che è meglio attendere tempi migliori. Lo scontro diretto non paga! Bisogna fare una marcia di avvicinamento allo Stato.»

«E poi?»

«Naturalmente, Principe, non pensare che essere medio proprietario significasse automaticamente essere un mafioso: c'erano tanti medi proprietari che non lo erano. Però stai certo che il mafioso di quest'epoca è un medio proprietario. E poi per medi proprietari non dobbiamo intendere solo i possessori di terre: sono la maggior parte, questo è vero; ma dobbiamo includere anche esercenti professioni, commercianti: gente insomma non ricchissima ma neppure povera. Per una quarantina d'anni si ha una sorta di stasi. Se evitiamo di cadere nel luogo comune di mettere assieme ladri, briganti, campieri e mafiosi ti accorgerai che questi ultimi li trovi sempre sul territorio ma non più in prima linea: preferiscono prepararsi per essere pronti ad esplodere al momento opportuno. Se ci sarà un momento opportuno.»

«E cosa fanno?»

«Nell'attesa tentano altre vie per giungere all'arricchimento. Mandano i figli a studiare fuori dall'isola: a Milano, a Roma, a Padova. Questo è il periodo in cui a San Giuseppe e San Cipirello nascono importanti personaggi - oltre ai noti Riccobono, i D'Alia o i Caronia - nel mondo delle professioni. Altro fatto da sottolineare è l'organizzazione interna della famiglia del galantuomo. Se il nobile per mantenere intatto il potere era ricorso al maggiorascato, il medio proprietario, stavolta per crearsi il potere, ricorre ad un altro metodo abbastanza valido. Ciascun figlio del medio proprietario è avviato ad una precisa professione: uno bada alla campagna, uno fa il medico, un altro il prete, un altro ancora l'avvocato. Questo tipo di organizzazione sarà importante come vedremo nella fase successiva.»

«E che cosa avviene in questo periodo?»

«Si assiste ad un notevole incremento della produzione soprattutto vinicola sino all'avvento della fillossera che distruggerà, come in tutta la Sicilia, la totalità dei vigneti. E’ il periodo dei grandi produttori e commercianti: il tuo discendente Paolo Beccadelli, i Micciché in società con gli Hohenzollern ecc. In meno di dieci anni, con l'introduzione del ceppo americano, i vigneti qui risulteranno per 2/3 ricostituiti. Nascono diversi mulini, non più ad acqua, all'interno del centro abitato. Importantissimi i Molini e Pastifici Virga a San Cipirello.»

«E la politica?»

«Tu sai che si votava per censo?»

«Sì! Avevano diritto al voto alcune categorie di persone: professionisti, impiegati e i proprietari che superavano una soglia minima di ricchezza.»

«Diciamo che l'elettorato attivo, in maggioranza, era costituito da medi proprietari. A San Giuseppe Jato nel 1865 avevano diritto al voto 44 persone e 79 nel 1875. Le due amministrazioni comunali erano in mano alla classe dei medi proprietari: nobili non ce n'erano - tranne voi che però avevate la residenza a Palermo e a Napoli - e il popolino non votava per mancanza di censo. Guarda un po' quant'erano diventati cittadini, o meglio amministratori, modello quelli di San Cipirello nel 1875!»

«Che avevano fatto?»

«L'Amministrazione Comunale chiedeva l'apertura di una caserma[58] anche a San Cipirello! Capisci? Una caserma per mantenere l'ordine pubblico! Tutto perché avevano tentato di uccidere un medio proprietario Andrea Leone dopo una richiesta in denaro di lire 8000 e per il quale veniva richiesto un riconoscimento onorifico da parte del Governo[59]

«E in questo periodo non c'era un uso della violenza in politica?»

«Certo! I contrasti per la gestione dell'Amministrazione Comunale non mancavano. Come, ad esempio, quando il 20 agosto 1880 in ex feudo Giambascio veniva assassinato proditoriamente il notaro Rosario Micciché, cognato di Mannino Giuseppe e uno dei capocci del partito avverso, al quale facevano capo molti altri parenti[60]. Ma si trattava allora di scaramucce. Era un modo come un altro per tenersi allenati!»

«Poi che succede?»

«Si arriva agli anni 1893-94, ai Fasci Siciliani. San Giuseppe Jato e San Cipirello fanno parte dell'area di influenza di Nicolò Barbato e Bernardino Verro le cui campagne ideologiche fanno una certa presa sui contadini del luogo. Al Fascio di San Giuseppe, inaugurato il 7 maggio 1893, aderiscono in appena due mesi in 1050; a quello di San Cipirello in 500. Se consideri che San Giuseppe Jato contava nel 1891 esattamente 7000 abitanti e che 1050 famiglie corrispondono a circa 4200 abitanti, ti rendi conto che gli iscritti erano troppi per poterne giustificare il numero con l'assimilazione del verbo di Barbato in così poco tempo.»

«E perché allora?»

«Chiaramente la fillossera aveva fatto troppi danni e la soluzione nell'immediato veniva cercata in un diverso rapporto coi latifondisti. Iscriversi ai Fasci, poteva far sperare nell'assegnazione di qualche lotto di terreno ed evitare l'imbarco per l'America. Ma parlando di latifondi ai galantuomini si risvegliavano sempre sopiti desideri e, in parte, aderivano ai Fasci. Essere presenti è sempre stato importante: per costruire o distruggere. A seconda di che aria spira.

 

Nelle[61] campagne di San Giuseppe, nelle notti della seconda metà di maggio e in quella del 3 giugno erano stati recisi a diversi proprietari molti alberi da frutta e diversi arbusti fruttiferi, oltre a 20.000 piante di viti per l'approssimativo valore di lire 4.000. Rifacendosi ad altri danneggiamenti il questore faceva risalire a 30.000 il numero 'delle piante vegetali del maggior prodotto di quelle contrade'.

 

Come vedi, per i vigneti, non era stata sufficiente la fillossera!»

«Mi scusi! Lei sta asserendo che c'erano anche mafiosi iscritti ai Fasci Siciliani?»

«Certo! Tieni presente che almeno sino al 1910 mafiosi e socialisti a San Cipirello in diverse occasioni si trovano dallo stesso lato della barricata[62]. Sono mafiosi e socialisti a conquistare l'Amministrazione Comunale nei primi del 1900 e trasferire[63] la data della festa patronale dell'Immacolata dall'8 al 20 settembre: una data particolarmente triste per la Chiesa. D'altro canto, in quell'epoca, il latifondista continua ad essere nemico dell'uno e dell'altro. Il mafioso non è ancora entrato in concorrenza con le associazioni di contadini. Poi tieni pure presente che, ad esempio, i dirigenti dei Fasci di San Giuseppe Jato, Pulejo e Prestigiacomo, non sono socialisti ma monarchici. Si dimetteranno successivamente dai Fasci con la motivazione che

 

 il socialismo predicato dal Barbato, non corrispondeva, anzi contrastava con i loro principi monarchici.[64]

 

E poi, per citare il caso forse più eclatante, dirigente del Fascio di Bisacquino non è forse il noto boss mafioso don Vito Cascio Ferro[65] accusato, nel 1909, di avere assassinato o fatto assassinare il tenente Petrosino

«E relativamente ai primi anni del 1900?»

«Quelli degli inizi del 1900 possono essere definiti, per il nostro tema, gli anni della quiete in attesa della tempesta. Come nel resto della Sicilia sono i cattolici a caratterizzare le più rilevanti forme economiche associative: sono gli anni di Sturzo e Murri. Nascono la Cooperativa Pio X, la Cassa Rurale Leone XIII, la Cooperativa Agricola Maria SS. della Provvidenza, 'La Jatina' – Società di assicurazione contro i danni dei vitigni, 'La Luce' - Società Anonima Cooperativa di Assicurazione, che si affiancano alla preesistente Colonia Agricola 'Boccone del Povero'. Nasce anche, strano a dirsi in raffronto ai nostri giorni, un periodico mensile: 'Il risveglio'. Una descrizione della situazione di San Giuseppe Jato, attorno al 1906, è quella riportata dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulle condizioni dei contadini in Sicilia pubblicata nel 1910[66].”

«E la mafia in questo periodo?»

«Vorrei farti notare che in tale inchiesta per San Giuseppe Jato non è riportato il termine mafia. Al contrario, ad esempio, di Partinico definito Comune di malaria e di mafia. Possiamo chiudere quella che possiamo definire la seconda fase della mafia riferendoci agli anni 1912-14.»

 

«Principe, che prendiamo per contorno?»

«Per me una bella insalata di cardedda. Pensi lei all'ordinazione mentre io vado in bagno. A proposito zio: dov'è il W.C.?»

«In quella nuvoletta a destra.»

 

 

 

1912-1925. Nascita della mafia moderna

 

«Vediamo di fotografare la situazione negli anni immediatamente anteriori allo scoppio della Prima Guerra Mondiale. Su questo territorio operano le agguerrite cooperative agricole cattoliche che, sotto la guida del sac. don Giulio Virga, erano nate con l'esclusivo scopo di prendere in gabella i latifondi da assegnare ai propri soci; in concorrenza quindi con i medi proprietari. Sono presenti la Lega Socialista di Nicolò Barbato e la Camera del Lavoro impegnate con la stessa finalità. Operano i medi proprietari che, oltre ad avere incrementato i propri capitali, sono in possesso di un notevole potenziale umano nel campo delle professioni. Gli anni 1912-13 sono inoltre quelli dell'allargamento del suffragio elettorale a tutti i cittadini maschi del Regno. San Giuseppe Jato passa dai 79 elettori del 1875 a 2779. I medi proprietari riescono a conquistare l'Amministrazione Comunale di San Giuseppe Jato con Antonino Pulejo, Ninu 'u latru. Da sottolineare che in tale occasione un coriaceo oppositore eletto in Consiglio Comunale, il farmacista dott. Nicolò Belli, viene, all'atto dell'insediamento, minacciato e subito dopo dichiarato ineleggibile dal Consiglio Comunale. La delibera di Consiglio a sua volta è bocciata dal Prefetto. Alla riunione successiva il Consiglio, malgrado la determinazione del Prefetto, dichiara nuovamente ineleggibile il Belli. E così per la terza volta[67]. Fortuna per il Belli che nel frattempo era scoppiata la Prima Guerra Mondiale! Partito per il fronte perlomeno tornò vivo! Avrebbe avuto buone possibilità di far la fine del capo dell'opposizione Salvatore Mineo assassinato nel 1920!»

«E poi dicono che le guerre non servono!»

«A questo punto le cooperative cattoliche, con la Cassa Rurale Leone XIII, tentano un connubio con la Camera del Lavoro e la Lega dei Socialisti. Entrano allora nella Cassa Rurale Leone XIII i galantuomini[68] attraverso l'opera dell'Arciprete Natale Migliore, del sac. Giuseppe Finocchio e del sac. Patellaro: questi ultimi nemici giurati non solo dei socialisti ma di tutti coloro che, nelle cooperative cattoliche, tentano di prendere in gabella i latifondi del circondario facendo concorrenza ai galantuomini. Scrive il sac. Finocchio il 27 Luglio 1914 all'Arcivescovo di Monreale:

 

Con la legge del suffragio, si risvegliarono anche qui come da per tutto le ire di parte, sorsero nuovi Circoli, il paese divenne un vero campo di battaglia; accuse, anonimi, querele, processi, scioglimento di Consiglio, minacce e previsioni di mali sempre maggiori per l'avvenire.

 

Ormai, per consolidata tradizione, rientrava nelle mansioni dei galantuomini dirimere le questioni all'interno della collettività.»

«E lo Stato?»

«E cu era!? Ci pensano infatti due galantuomini, l'Arciprete Natale Migliore e il sac. don Pippino Finocchio, a tentare di accurdari la faccenda:

 

L'Arciprete ed io allora coadiuvati da persone degnissime, pensammo di potere ottenere una pacificazione generale con l'accordo di tutti i partiti. Ci mettemmo all'opera, si ottenne una tregua. Ogni Circolo, ogni Partito nominò un rappresentante, io ebbi il mandato dalla maggioranza (N.d.A.: Rappresentata dai galantuomini in quel periodo). Furono tenute molte riunioni, ebbero luogo lunghissime discussioni, uniti tutti nel desiderio della pace, discordi sempre nella conclusione e la pace cotanto desiderata non poté stabilirsi.

 

Il pericolo più grave non è però costituito dalla conquista dell'amministrazione comunale. E' l'unificazione tra le cooperative agricole locali che preoccupa: in una tale malaugurata ipotesi chi mai, tra gli amici galantuomini, avrebbe più potuto prendere in gabella i vicini latifondi?

 

Si era anco tentato ed era per concludersi un connubio abbastanza ibrido tra i soci della Cassa Rurale Leone XIII ed il Circolo dei Socialisti i quali a loro volta s'erano uniti alla Camera del Lavoro, di cui è presidente il signor Nicolò Giambrone, accusatore.

 

E’ necessario a tutti i costi rompere questa probabile unione: avrebbe potuto essere pericolosa per la salvezza delle anime dell'amato popolo di San Giuseppe Jato e San Cipirello.

 

Poiché questi nostri Socialisti sono sempre in continua relazione con quelli di Piana, diretti dal noto socialista intransigente Nicolò Barbato, e hanno la figura di Marx nella loro sede e sono guidati da alcuni dalle idee un po' spinte in Religione, mi opposi energicamente e l'insano connubio non avvenne, perché non potea, né dovea avvenire.

Ciò riuscì ostico ai dirigenti dei circoli interessati e particolarmente al signor Giambrone.

Il primo maggio Nicolò Barbato, invitato dal Circolo Socialista alleato alla Camera di Lavoro, veniva in paese a scopo di propaganda elettorale, ma realmente non fu che una propaganda di Socialismo.

 

Questi era il sac. Finocchio. Ma forse, caro Principe, trattandosi di documenti inediti, vale la pena riportare la lettera[69] dell'Arciprete don Natale Migliore all'Arcivescovo di Monreale. Si arriva così alla fine del 1916. Importante, Principe, risulta a questo punto una lettera inviata a Giolitti[70] dal tuo discendente senatore Pietro Paolo Beccadelli Acton. Scrive il 30 novembre 1916:

 

Oltre la metà delle terre sono rimaste incolte e da noi miseria e sommossa e rivoluzione sono sinonimi.

Aggiungi che vi è già una immensa recrudescenza di abigeato e di delitti nelle campagne. Queste sono scorazzate da molte migliaia, da 20 a 30 mila, di disertori i quali per ora domandano pane e domani saranno organizzate in bande armate: il brigantaggio classico dei peggiori tempi.»

 

«E che succede a San Giuseppe Jato e San Cipirello?»

«Attenzione Principe ai passaggi che seguono perché sono molto importanti: siamo alla nascita della mafia moderna. Nel periodo bellico ai galantuomini sfugge di mano la situazione: non riescono a controllare la criminalità diffusa sul territorio in conseguenza sia delle difficoltà oggettive dovute alla guerra sia appunto del gran numero di disertori sul territorio. Ci vanno di mezzo gli stessi galantuomini soggetti a subire l'opera nefasta della criminalità organizzata in bande. Poi l'evento che fa precipitare tutto.»

«Quale?»

 «Alla fine della guerra si sparge voce che i latifondi dovranno essere quotizzati ed assegnati agli ex combattenti. A San Giuseppe Jato si costituisce la cooperativa di ex combattenti Giosuè Borsi con oltre duecento famiglie sotto la direzione del sac. don Giulio Virga. I latifondisti a quel punto decidono: VENDERE I LATIFONDI!»

«Finalmente!»

«Dopo tanto tempo, finalmente! Per i galantuomini E' IL MOMENTO!!! Ma come si fa? Dove sono i capitali necessari? Sì, c'è una certa disponibilità finanziaria ma non a tale livello! Ed allora, con una operazione da manuale (del crimine), nello scorrere di pochissimi anni i galantuomini riescono a diventare proprietari di buona parte dei latifondi del territorio! Alla fine degli anni '20 una grossa fetta dei vecchi e nobili latifondisti risulta stesa e le loro distese di terreno vanno in mano a quella classe che da quasi un secolo lottava per appropriarsene.»

«Anche noi risultiamo stesi?»

«Anche voi.»[71]

«Ma proprio tutti i latifondisti?»

«No. C'è qualcuno che si salva: ad esempio il cavaliere Di Lorenzo proprietario del feudo Disisa.»

«Come mai?»

«Era deputato al Parlamento.»

«Scusi ma il mio discendente Pietro Paolo Beccadelli Acton non era anche lui parlamentare?»

«Sì. Però ha avuto la sventura di cogghirisilla nell'aprile del 1918 proprio nel momento in cui la sua opera sarebbe stata più necessaria.»

«E l'operazione da manuale?»

«Vedi Principe, per spiegarti l'operazione devi ascoltare una vecchia storia che, all'epoca, veniva narrata attorno ai bracieri nelle sere particolarmente fredde di San Giuseppe Jato e San Cipirello. Si cunta e s'arriccunta che, immediatamente dopo la prima guerra mondiale, in questo territorio c'erano diverse bande di delinquenti che facevano un mare di danno: rubavano dalla mattina alla sera e ammazzavano senza rispetto né per Dio e neppure per gli uomini. Attenzione! Per qualsiasi tipo di uomini: anche per quelli che oltre ad essere uomini erano anche galantuomini. I galantuomini o mafiosi o medi proprietari, chiamali come ti pare, un bel giorno riunitisi avevano pensato di risolvere il problema. Ognuno, giustamente, aveva detto la sua: c'era chi proponeva di ammazzarli tutti in una mattina, chi a uno a uno, chi due alla volta, chi a tre a tre e così via. Naturalmente lungi da loro l'idea di andare a denunziare ai carabinieri i danni subiti! Anche perché, si diceva, non avrebbero concluso nulla perché lo Stato, come al solito, risultava essere in ferie. Alla fine, dopo lunga e meditata discussione - considerato che i delinquenti da ammazzare con qualsiasi sistema erano troppi - avevano deciso di utilizzare un metodo già testato nei tempi passati.»

«Quale?»

«I galantuomini, vedi, erano convinti che l'Impero Romano fosse caduto per quella antica mania di seguire sempre il noto motto divide et impera, dividi e comanda. Guarda che i romani la testaccia dura avevano! E cavolo! Ogni tanto bisognava cambiare! I galantuomini ritenevano invece che il motto junge et impera ossia iunci e cumanna, od anche junciti e cumanna, era più sicuro se non altro perché meno inflazionato! Da dentro, insomma, si poteva controllare meglio. Fu così che loro, che erano galantuomini, per il bene delle proprietà e delle famiglie decisero di sacrificarsi.»

«Come?»

«Per prima cosa unendo tutte le bande di delinquenti e poi unendosi a loro. Fu così che ciascuna famiglia di galantuomini di San Giuseppe Jato e San Cipirello fu costretta a mettere un soldato all'interno di questo tipo di associazione. Naturalmente poiché l'idea dell'unificazione era stata loro, fu chiaro che all'interno dell'associazione vennero a trovarsi in posizione preminente. Fin qui la storiella. Come tu ben sai ogni leggenda ha sempre un suo fondo di verità: se tu infatti leggi l'elenco degli associati a delinquere fatti arrestare dal prefetto Mori noterai che ce n'è uno per famiglia appartenente all'altro elenco dei divenuti ricchi proprietari maffiosi. Elenco, quest'ultimo, prodotto dai responsabili della cooperativa Pio X e dai sindacati agricoli fascisti di San Giuseppe Jato e San Cipirello[72]

«Insomma lei sta affermando che ciascuna di queste famiglie venne a trovarsi all'interno del proprio nucleo - oltre al medico, al prete, all'avvocato, all'ingegnere - anche un componente associato a delinquere?»

«Proprio così. Ti rendi conto di che tipo di pericolosa miscela si era creata: il braccio (della lupara) e le menti! Naturalmente una volta trovatisi all'interno di un'associazione a delinquere non è che potevano stare lì a recitare il rosario. C'era di mezzo la professionalità a cui loro particolarmente tenevano. Quindi se c'era da ammazzare qualcuno non è che potevano tirarsi indietro! Loro malgrado erano costretti ad ammazzare. E anche a rubare. D'altro canto un associato a delinquere che non ruba perché fa l’associato!? Non è che si poteva stare sempre ad ammazzare! Ogni tanto bisognava pure riposarsi. E, come diceva Ludovico Antonio Muratori, molto spesso riposarsi è cambiar fatica

«E loro cambiavano fatica rubando!»

«E così rubando rubando, nel senso lato del termine, messo da parte con grossi sacrifici il gruzzoletto, avevano acquistato qualche minuscolo, ma veramente piccolo sai, latifondo. Poi sai com'è? Dal minuscolo furono costretti a passare al maiuscolo: insomma da cosa nasce cosa. Naturalmente non è che i galantuomini passavano la vita solo a fare mal'affizi! Guarda che lavoravano! E lavoravano sodo!»

«Come?»

«Mentre i delinquenti comuni dell'associazione passavano il tempo solo a rubare e ammazzare loro invece si preoccupavano anche di prendere in gabella i feudi che non erano in vendita o che ancora non potevano acquistare. Di ciò si era pure accorto il Commissario di Pubblica Sicurezza Salvatore Ferrara allorché dichiarava che l'associazione

 

imponeva taglie ai proprietari che non volevano subire danneggiamenti continuati, assicurava con la prepotenza i feudi da coltivare ai propri gregari più facoltosi[73].

 

E i più facoltosi erano i …»

«Galantuomini!»

«Bravo!»

«Ci sono però dei punti che mi sembrano poco chiari.»

«Ad esempio?»

«Non avevano paura di essere arrestati, di subire processi, di venire condannati?»

«Certo che avevano paura! Ti pare che erano cretini quelli? Loro all'inizio avevano paura di avere paura e allora si erano organizzati prima!»

«E come?»

«Per intanto tieni sempre presente che non lavoravano per se stessi ma per le rispettive famiglie di appartenenza.»

«La famiglia! Allora sì che aveva un senso!»

«Delle famiglie facevano parte validi professionisti nei più disparati settori che, un passo oggi e uno domani, avevano cominciato ad introdursi nel mondo politico e della finanza. Scusa Principe: chi avrebbe dovuto condannarli?»

«Lo Stato. No?»

«Esatto! Ma vedi, vero è che lo Stato siamo noi, i cittadini; però, volendo tentare di emulare Orwell, ci sono cittadini che sono più noi degli altri! E anche in questo caso i galantuomini avevano capito che bisognava seguire il motto antiromano junge et impera!»

«E chi sono questi cittadini più noi degli altri?»

«I parlamentari. No? I rappresentanti del popolo. Essi per far parte della ristretta cerchia di coloro che gestiscono lo Stato hanno bisogno dei voti; e sin dal 1913 ormai votavano tutti i cittadini maschi. Per i galantuomini i voti erano diventati un'ottima merce di scambio. Non solo. Anche i parlamentari erano uomini e, come tutti gli uomini, avevano anche delle necessità materiali che potevano essere soddisfatte col denaro. E i galantuomini avevano capito che non era conveniente lesinarglielo.»

«E allora?»

«Ti rendi conto di che tipo di loop, di circolo, si era creato? Il galantuomo rubava e investiva in loco. Il familiare del galantuomo contattava, indicava come investire o investiva pure lui fuori territorio. Il parlamentare salvava il galantuomo dalla galera e poi, quest'ultimo, ricominciava. A rubare naturalmente! Ed erano tutti felici! Puoi così spiegarti il traffico di deputati sul territorio: dall'on. V.E. Orlando all'on. Lo Monte all'on. Termini all'on. Zito all'on. Balsano all'on. Cucco e così via!»

«Ma non correvano proprio alcun pericolo?»

«Certo! Ogni tanto qualcuno si scontrava con i cuccidda i chiummu. Ma, Dio mio, qualche rischio dovevano pur correrlo e poi se non c'è un po' di suspence nella vita che prio c'è! Insomma a questo punto venivano a coincidere le finalità di tutti i gestori di violenza sul territorio e le conseguenze puoi facilmente immaginarle!»

«Ma sul territorio c'era tutta questa potenzialità in termini di denaro?»

«Ascolta! Intanto tieni presente che non c'era attività economica dove non fossero introdotti: rubavano dal mulo alla legna. Utilizzavano tutti i sistemi conosciuti nella nobile arte della truffa: dall'emigrazione clandestina all'amnistia per i disertori. Ma scusa non hai letto i documenti relativi alle retate di Mori

«Sì!»

«Poi l'Amministrazione Comunale: pensa al 22.5% della tangente sugli importi a base d’asta degli appalti. Percentuale che non risulta essere stata mai superata! Ma relativamente al volume d'affari voglio farti un brevissimo calcolo. Prendiamo il caso dei muli rubati e poi riscattati. Il mulo nell'economia del territorio ha sempre rivestito un'importantissima funzione: è sempre stato il principale mezzo di lavoro ed anche di trasporto se consideri l’assenza di strade carrabili. Pensa che sino a qualche decennio fa, quando moriva un mulo, tutti i parenti dello sfortunato proprietario si recavano a fargli la visita di condoglianze!»

«Anche ai miei tempi era così.»

«All'epoca, la maggior parte della gente era dedita all'agricoltura: c'erano famiglie che possedevano più di un mulo, a volte anche 3-5 o 7»

«Le cosiddette redine di muli.»

«Esatto! Supponiamo di assegnare in media un mulo a famiglia. Tra San Giuseppe Jato e San Cipirello nel 1921 si contavano circa 15000 abitanti, quindi circa 3750 famiglie ossia 3750 muli. Al valore di lire 3000 a mulo costituivano un capitale di 3000*3750 = 11.250.000 lire. Quant'era il riscatto richiesto?»

«Come risulta dai documenti era mediamente del 25 per cento.»

«Quindi il capitale di realizzo, a furti avvenuti, era allora di lire 11.250.000*0.25 = 2.812.500»

«Vede zio, io ero abituato alle once, tarì, grani e piccioli; ora capisco anche qualcosa con le lire attuali; ma allora…»

«Cercherò di fartelo capire. Ma attenzione perché un calcolo del genere non è tanto ortodosso: può dare solo una vaga idea. Tra il 1914 e il 1926 il costo di una giornata lavorativa è variato tra 2.5 e 12 lire. Se consideriamo l'anno 1920 possiamo porre un costo medio pari a lire 7.25. Dividendo il capitale di realizzo per la giornata lavorativa otteniamo il numero totale in giornate ossia 2.812.500/7.25 = 387.931. A questo punto il conto puoi farlo come meglio ti pare: in once, in dollari, in lire per qualsiasi epoca.»

«E in lire attuali?»

«Se consideriamo il costo di una giornata lavorativa pari a lire 100.000, otteniamo un gruzzoletto di 38.793.100.000 lire: quasi 39 miliardi. Se inoltre tieni conto del fatto che non sempre era possibile riscattare il mulo e che il 25% di riscatto costituiva il minimo, ti renderai conto della quantità di denaro esentasse che potevano gestire.»

«E con tutti quei soldi che facevano?»

«Semplice! Li investivano: sul territorio e fuori territorio. Prendi il caso del cav. Santino Termini. Attenzione! E' lui stesso a dichiararlo al Giudice[74], non si tratta della supposizione di un accusatore. Lui dichiara:

 

In società con altri ho fatto diversi affari acquistando e rivendendo i terreni dell'ex feudo Pietralunga (proprietà Forcella) per 3 milioni, rivendendoli per circa 15 milioni, rivendendoli a spezzoni.

 

Acquista per 3 milioni un feudo e, in pochissimo tempo, ne guadagna 12. Se fai l'equivalenza come in precedenza ottieni 12.000.000/7.25 = 1.655.172 giornate lavorative che a lire 100.000 cadauna fanno circa 165 miliardi.

«Certamente da reinvestire!»

«Bisogna riconoscere che in questi casi la colpa è stata vostra. La deformazione mentale, retaggio del maggiorascato, era tale che non riuscivate a concepire la vendita dei latifondi a spezzoni. I galantuomini invece l'avevano capito!»

«Non è che li compravano sotto prezzo?»

«Soprattutto! Ma stai attento alla proprietà del linguaggio: loro non compravano sotto prezzo, se li facevano vendere.»

«E come facevano?»

«Principe! Ma queste domande da farsi sono? Comunque! Come facevano? Ad esempio: sapevano che un feudo era forse in vendita e loro avevano racimolato, dopo tanti sacrifici (umani), solamente 3 milioni. Allora, possibilmente in compagnia di un prete, si presentavano dal latifondista e, vangelo alla mano, gli ricordavano: Caro barone è più facile che un camìddu riesca ad attraversare le canne di un fucile parato a lupàra piuttosto che un ricco entri nel regno dei cieli! Bisogna diventare poveri, caro barone, per salvarsi l'anima! E' necessario quindi sbarazzarsi delle proprietà! La nostra associazione, senza fini di lucro, le offre un contributo a fondo perduto di lire 3 milioni per evitare che vossìa possa ridursi a chiedere l'elemosina. Il barone, sentendo parlare di lupara, non è che cercava di capire in quale contesto era stato citato il termine! Assolutamente no! Sai che faceva? Si metteva a tremare. Probabilmente la presenza del prete, con la stola e l'acqua benedetta, lo metteva un po’ in agitazione. Però si persuadeva subito!»

«Io rimango sempre meravigliato del fatto che questa gente non andava in galera!»

«Principe ma ti pare che siamo al tempo dei Borboni? Quando la gente la dimenticavano in carcere? Ora è diverso! Anche ora qualcuno rischia il carcere. Solo che ora ci sono maniere diverse per difendersi dai Giudici. Prendi il caso del Termini cav. Santino, compare d'anello dell'on. Alfredo Cucco: nel lontano 1926 risultava l'inventore della cosiddetta difesa attraverso l'inconcepibile

«In che consisteva?»

«Il cav. Termini arricchitosi in brevissimo tempo e incappato nelle retate del prefetto Mori con l'accusa di essere uno dei capi della mafia dichiarava, a propria difesa, dinanzi al giudice Triolo:

 

Pertanto data la mia posizione economica non è concepibile che io mi sia dedicato ai reati[75].

 

Una forma di difesa così logica e razionale da costituire successivamente, a giudizio dei Giudici, la prova provata dell'innocenza del Termini: tant'è che usciva dal carcere.»

«Questo allora. E oggi?»

«Poi si è innescato il cosiddetto effetto pecora: tutti a seguire il criterio difensivo di don Santino. Pensa a quante volte sono state ascoltate, dentro e fuori le aule dei Tribunali, frasi del tenore: Ma figurarsi! Io che ero Ministro, io che ero Presidente del Consiglio, io con tutte le mie televisioni oltre ai frigoriferi…se potevo…se avrei mai potuto abbassarmi…E' inconcepibile! E bisogna convenire che tale tipo di difesa, inaugurato a San Giuseppe Jato, ha retto benissimo la prova del tempo!»

«Mi scusi, costoro in diverse forme rubavano, truffavano e ammazzavano ma, in questo periodo, qual era la differenza tra mafiosi e briganti?»

«Un esempio chiarissimo. Nel 1925 il Sindaco di Gangi barone Sgadari rifiutava un contributo dello Stato per l'illuminazione pubblica perché gli associati a delinquere del luogo preferivano che le strade restassero al buio. A San Giuseppe Jato una bestialità del genere non l'avrebbero mai commessa!»

«Cosa avrebbero fatto?»

«Per prima cosa non avrebbero rinunziato al finanziamento. Poi si sarebbero accaparrato l'appalto, si sarebbero spartite le tangenti e se l'opera avesse ostacolato le proprie attività illecite non l'avrebbero mai fatta ultimare.»

«Mi viene in mente la Palermo-Sciacca ultimata dopo trent'anni!»

«Pensa invece alla linea ferrata Palermo-Gibellina che avrebbe dovuto passare per San Giuseppe Jato e San Cipirello.»

«Che successe?»

«A San Giuseppe Jato si parlava della Palermo-Gibellina almeno dal 1871. Cinquant'anni dopo, esattamente il 5 febbraio 1921, con delibera dell'amministrazione Termini, veniva sollecitata la realizzazione dell'importante arteria. Si iniziavano subito i lavori e, per anni e anni, ci lavorò un'intera generazioni di individui. Era chiamata l'eterna incompiuta: non fu infatti mai ultimata. Pensa che erano stati realizzati ponti, gallerie e tutte le opere d'arte necessarie; mancavano solo le traversine e i binari. Il Belli, poverino, nella sua storia sui comuni jatini, aveva scritto nel 1934:

 

Da parecchi anni si attende l'esercizio della linea ferrata a scartamento ridotto Palermo-Gibellina. Ci auguriamo che il Governo Nazionale, con stile Fascista, ne affretti l'inaugurazione[76].

 

Non sappiamo se il Belli morì in stile fascista; sappiamo con certezza che lui e i suoi discendenti morirono con questo augurio.»

«E come si moriva in stile fascista?»

«Non lo so con certezza. Probabilmente per eccessivo uso di olio di ricino. I mafiosi, caro Principe, non è che sono stati mai contrari alla realizzazione delle opere. Assolutamente no. Non hanno mai condiviso la loro ultimazione: si sono infatti sempre adoperati per far durare nel tempo non l'opera ma i lavori. Come vedi siamo in presenza di una concezione filosofica totalmente diversa: i primi sono passati alla storia come briganti i secondi come mafiosi. Ambedue i gruppi rubavano, ammazzavano e furono tutti arrestati dal prefetto Mori. Mentre però in carcere i primi ci trascorsero il resto dei loro giorni i secondi appena il tempo di entrare e già erano usciti. Sempre a proposito di luce pensa al cav. Giuseppe Troia di San Giuseppe Jato.»

«Mi pare che negli anni '20 figurava nel Consiglio di Amministrazione della Banca del Sud»

«Sì! E aveva anche l'appalto della fornitura di energia elettrica a San Giuseppe Jato. Nel momento in cui la Chiesa, attraverso il direttore della Cooperativa Pio X don Virga, decide di aprire il primo cinematografo[77], il Troia non dice Questo cinematografo non s'ha da fare; dice invece Se non mi fate entrare in società per la spartizione degli utili, io non vi do la corrente! Tutto, come puoi notare, nel più assoluto rispetto del motto antiromano junciti e cumanna

«Bene! Mi pare di avere capito abbastanza! Al punto in cui siamo, zio santo, mi permette di riproporle la domanda iniziale?»

«E cioè?»

«Una definizione della mafia breve, precisa ed esaustiva?»

«Prima di passare alla definizione mi sembra opportuno, Principe, leggere un altro passo del memoriale[78] delle cooperative inviato al prefetto Mori che, credo, non necessiti di alcun commento:

 

 Aggiungasi che l’esplicazione della mafia, nei tempi odierni è diventata ancora più nociva, perché mentre negli anni prima della guerra si limitava a vessare e ad imporre tributi, sia ai contadini che ai proprietari, ora avendo allargata la sua attività criminosa nella conquista dei comuni e nell’acquisto di terreni, forzando tanto la nobiltà che la ricca ed alta borghesia, detentrice della maggior parte dei latifondi, a cederli a vile prezzo, la speranza dei contadini per avere o in proprietà o in altro modo un pezzo di terreno, è del tutto preclusa. E per conseguenza lo sfruttamento che prima esercitava il gabelloto, ora è esercitato dal maffioso trasformato in proprietario e gabelloto.

 

Necessario appare, nell'economia della presente analisi, riportare la definizione di mafia formulata dai giudici nell'ordinanza di rinvio[79] del 1927:

 

"L'organizzazione in esame ha un carattere tutto proprio: fonda il suo prestigio precipuamente sulla temibilità e sull'influenza dei capi, estende, con mire prevalentemente economiche, la sua azione sui vari campi dell'attività sociale e di ciò sono prova sicurissima i vari reati sopra esaminati che indicano chiaramente la propria origine od il proprio riferimento ad una organizzazione preesistente."

 

Come puoi notare già nel 1927 erano state formulate alcune peculiarità della mafia sulle quali, con opinioni contrastanti, sono stati versati fiumi d'inchiostro sino ai nostri giorni.»

«Ad esempio? »

«Ad esempio che la mafia, tra le tante organizzazioni criminali, ha un carattere tutto proprio. E poi…fonda il suo prestigio precipuamente sulla temibilità…ed… estende, con mire prevalentemente economiche, la sua azione sui vari campi dell'attività sociale. Peccato che non abbiano esplicitato i vari campi dell'attività sociale perché allora, attraverso i numerosi elementi in loro possesso, avrebbero dovuto per forza citare la principale tra le peculiarità della mafia."

«E cioè?"

«Il cordone ombelicale che lega mafia e potere politico."

«E perché non l'hanno fatto?"

«Bisogna innanzitutto considerare che nel 1927 è già trascorso un quarto di tempo della cosiddetta era fascista. Come hai potuto constatare, buona parte dei vari potentati economici, politici e criminali sono ormai passati al partito del fascio. Il principale rappresentante del fascismo in Sicilia, l'on. Alfredo Cucco, assieme all'intero direttorio, è incriminato e diversi capi d'imputazione fanno riferimento proprio all'organizzazione mafiosa di San Giuseppe Jato e San Cipirello. Parlare di legame tra politica e mafia in un'aula di giustizia avrebbe sicuramente determinato l'accostamento della mafia al partito unico. Con la promozione di Mori a senatore del regno non si fece altro che liberare il campo di un ostacolo che avrebbe potuto compromettere seriamente l'intero regime, se non altro per la delusione conseguente alle grandi campagne di stampa inneggianti alla sconfitta della mafia. D'altro canto sul comportamento, finalizzato a garantire il regime, dei collegi giudicanti è illuminante l'atteggiamento dello stesso Mori[80] in occasione dei primi proscioglimenti di Cucco:

 

"Mori, che ha ingoiato il rospo con rabbia, si affanna a dimostrare che tali decisioni della magistratura sono state estorte grazie alle complicate alleanze e alle forti protezioni di cui ancora dispone Alfredo Cucco. Egli indica anche i nomi dei magistrati che avrebbero favorito l'imputato, sia suddividendo ad arte, in processi diversi, i reati di cui Cucco avrebbe dovuto rispondere globalmente, sia influenzando direttamente la corte giudicante. Non risparmia accuse neppure per gli uomini politici che continuerebbero a proteggere l'ex camerata, e giunge ad indicare come deus ex machina dell'intrigo il generale Antonino Di Giorgio."

 

La mafia è…

 

«Possiamo ora affermare, credo senza tema di smentita, che la mafia è ed è stata una macchina per fare soldi!»

«E basta?»

«Hai ragione. Ho dimenticato di aggiungere: solo ed esclusivamente.»

«E perché l'hanno chiamata mafia?»

«Un puro e semplice caso. Avrebbero potuto denominarla in qualsiasi modo.»

«Ma allora tutto l'alone di mistero attorno ad essa? La mafia che è sempre esistita! Le origini medievali!»

«Mainchiate

«Che so! L'omertà! L'onore!»

«Vedi Principe, l'omertà o omineità, nell'accezione del termine, dovrebbe indicare l'essere uomini. Ora essere uomini significa tante cose che non credo sia il caso di elencare. Per i galantuomini invece l'essere uomini, tra i tanti significati possibili, ha solo quello più conveniente per loro: non parlare e, per essere più precisi, non denunziare. Siamo ormai conosciuti in campo internazionale come gente omertosa nel senso di gente che non parla. Ma, e ti invito a riflettere, tu conosci in Italia gente più chiaccherona dei Siciliani? Tu lo sai chi era il principe dei chiaccheroni?»

«No!»

«Te lo dico io. Era il cronista radiofonico Nicolò Carosio. E lo sai di dov'era?»

«No!»

«Era di Palermo. Ma a parte la battuta ti faccio notare che dalla lettura degli atti relativi agli interrogatori nei processi del periodo Mori, ossia nel momento in cui la gente ha pensato che ci fosse uno Stato rispettoso dei propri compiti, ti sarai accorto che l'omertoso siciliano si è improvvisato cronista di tutto quanto era a sua conoscenza. Inoltre quando ti ho detto che andavo a riposare, in realtà mi sono avvalso della facoltà, che abbiamo solamente noi santi, di ricorrere a qualche piccola bugia quando sono a fin di bene. Io non ho riposato ma, attraverso Internet, mi sono collegato all'Archivio Storico Diocesano di Monreale e ho letto nel fondo Carte Processuali Sciolte una buona parte dei processi civili e criminali dal 1400 al 1800. Ebbene ti posso assicurare che allora l'omertà, intesa come mancata denunzia di delitti, poteva tranquillamente essere annoverata tra le idee dell'iperuranio platonico. Certo chi rubava una capra o uccideva un suo simile non è che sotto interrogatorio parlava! Anche se poi, portato in loco tormentorum, spesso ci ripensava. Però gli altri, quelli che avevano assistito al delitto, si preoccupavano di raccontare tutto, per filo e per segno, agli organi preposti! Pensa infine ai cosiddetti pentiti. Omertosi erano. Ma nel momento in cui hanno iniziato a parlare non si sono fermati più. Si sono scatenati. Si dice che alcuni giudici erano costretti, ogni tanto, ad interromperli. In molti verbali di dichiarazioni si dice che non si rileva la solita sigla D.R., a domanda risponde, per il semplice motivo che il dichiarante non dava al giudice il tempo di fare la domanda.»

«Ma allora perché la gente non parla?»

«E secondo te per quale motivo?»

«Per paura?»

«Bravo! Vedo che vai facendo strada! Principe mettiti nei panni di chi, in determinati periodi, dovrebbe denunziare un delitto: ha 90 probabilità su cento che quanto riportato arrivi alle orecchie del denunziato il quale, in casi del genere, va a trovarlo per congratularsi e dirgli "Bravo! Mi compiaccio per il tuo senso civico! Sei veramente un cittadino modello!" Pensa al ricorso dell'appaltatore Castagnaro presentato al Prefetto e sequestrato, successivamente, in casa del denunziato Calogero Termini.[81] Vedi Principe, il siciliano omertoso può diventare, cretino però non c'è mai stato!»

«E sulle peculiarità della mafia?»

«L'informazione ad esempio. Per la mafia è fondamentale la conoscenza di tutto quanto avviene sul territorio. Non pensare, Principe, che la mafia tenda a risolvere tutto con l'assassinio. L'assassinio è sempre un fatto traumatico; anche per la mafia, in quanto deve andare incontro a denunzie, avvocati ecc. E gli avvocati costano! E, a volte, anche qualche Giudice! Come vedi è sempre il denaro a determinare tutto. Dopo aver tentato tutte le vie possibili il ricorso all'assassinio è l’extrema ratio per neutralizzare l'avversario. Per evitare l'assassinio il migliore strumento è la prevenzione. Per potere adoperare tale strumento con efficacia è necessaria l'informazione: conoscere in anticipo. Volendo utilizzare la documentazione in nostro possesso puoi così spiegarti quanto segue:

 

…Ferruggia, ex guardia municipale, circa sei anni prima era stato licenziato per non essersi piegato ai voleri del Pulejo, «noto maffioso ed allora sindaco di San Giuseppe Jato». Costui avrebbe preteso che il Ferruggia frequentasse gli uffici di Pubblica Sicurezza e dei Carabinieri, allora esistenti in paese, al solo scopo di riferire al Sindaco o chi per esso quanto in detti uffici avveniva. Il Ferruggia rifiutatosi veniva licenziato dal Comune.

 

…Pur essendo a conoscenza di ciò, quando fui interrogato dal Pretore, essendo la istruzione svoltasi nei locali del Municipio di San Giuseppe Jato e vedendo la intimità del Santo Termini e del Pretore considerato anche che il Santo Termini entrava e usciva dalla stanza ove il Pretore interrogava credetti opportuno di tacere quanto era a mia conoscenza perché il rivelarlo mi avrebbe esposto alla vendetta del Santo Termini e della maffia.

 

…L'associazione a mezzo di una fitta rete di campieri, sparsi nelle varie contrade, sorvegliava le mosse della polizia.

 

Penso che la situazione degli anni '20 risulti abbastanza chiara dalla lettura degli atti riportati nel capitolo precedente. Possiamo passare a considerare un altro elemento importante.»

«Quale?»

«L'organizzazione. Ciascuno affiliato ha un compito ben preciso. C'è chi si occupa del furto dei muli, chi dei contatti col derubato per la restituzione dietro pagamento del riscatto, chi si occupa, in caso di mancato riscatto, della vendita fuori territorio (Tunisia). Nella truffa degli espatri clandestini c'è un incaricato presso il Comune e un altro a Palermo per la documentazione di rito (di rito = falsa), c'è un incaricato per i rapporti con l'emigrando da fregare ed infine un incaricato che si preoccupa di accoglierlo in America, qualora riuscisse ad arrivare, per continuare a fregarlo. Se qualcuno degli affiliati incappa nelle maglie della legge si rendono disponibili falsi testimoni e anche giudici senza scrupoli: pensa al Pretore che interrogava i testimoni alla presenza di Santo Termini, capo della consorteria locale.»

«Poi?»

«Talvolta la mafia ricorre ad assoldare elementi della delinquenza comune. Ciò quando si ha necessità di essere in gran numero: ad esempio quando bisogna scontrarsi con le masse di contadini che occupano il feudo Jannuzzo[82]. Questo comportamento è rilevabile anche successivamente: a Portella della Ginestra, ad esempio, vengono assoldati elementi destinati ad ingrossare la squadra di Salvatore Giuliano

«E la politica?»

«I rapporti tra i mafiosi locali e i politici sono tenuti da due sole persone le quali operano in nome e per conto di tutta l'organizzazione. E' Calogero Termini a recarsi a Roma dal Ministro Orlando per chiedere il trasferimento del Commissario Fazio. E' il sindaco Santo Termini a tenere i rapporti con l'on. Alfredo Cucco. Dalle esperienze successive si ha cognizione che tale comportamento sarà identico nel tempo: a nessun dei mafiosi, tranne a pochissimi incaricati, è consentito di parlare o trattare coi politici. Da sottolineare che ormai la mafia può contare su appoggi un po' dovunque. Dalla lettura degli atti relativi all'elezione dell'Arciprete di San Giuseppe Jato[83] ti sarai accorto che le conoscenze superano già l'ambito regionale e, al momento opportuno, la mafia è in grado di mobilitare parlamentari, altre famiglie mafiose ed anche la stampa.»

«E i partiti?»

«Hai anticipato la mia riflessione. Appare singolare, negli anni '20, la posizione dei principali contendenti, se così vogliamo indicare mafiosi e cooperative. Subito dopo la guerra le cooperative cattoliche hanno monopolizzato quasi interamente le forze contadine e passano in blocco nel partito del fascio: i principali esponenti, Giuseppe Cimino, Presidente della Cooperativa Pio X e Ignazio Niotta, Presidente della Cooperativa di ex combattenti Giosuè Borsi, diventano Fiduciari dei Sindacati Agricoli Fascisti. Ebbene le cooperative lottano contro i mafiosi di cui fanno nomi e cognomi. I mafiosi, a loro volta, fanno anch'essi parte del Partito Nazionale Fascista. Persino i Belli, che da sempre hanno combattuto la mafia, diventano apostoli del fascismo.»

«E la singolarità?»

«La singolarità sta nel fatto che ciascuno pensa di risolvere problemi ed interessi, tra loro in netto contrasto, attraverso lo stesso partito. Il tutto nel nome dell'unità nazionale, di uno Stato che combatterà la delinquenza e la mafia, di uno Stato che condurrà l'Italia ai più alti destini: insomma forza San Giuseppe Jato, forza Sicilia, forza Italia! La delusione delle cooperative sarà chiara ancor prima della fine della Seconda Guerra Mondiale: nei Comuni di San Giuseppe Jato, San Cipirello e Piana degli Albanesi, le forze contadine costituiranno delle fortissime aggregazioni attorno ai partiti di sinistra tali che il territorio sarà indicato, sino ai nostri giorni, come il triangolo rosso.»

 

La mafia oggi: primo, secondo e terzo livello

 

«E l'organizzazione mafiosa dei nostri giorni?»

«In generale o solo a San Giuseppe Jato»

«In generale.»

«Parlare di organizzazione mafiosa dei nostri giorni in generale potrebbe sembrare una divagazione rispetto al tema che ci siamo proposti. Ma non è così perché quella dei nostri giorni sembra essere la discendente diretta, sia nei metodi che nelle finalità, della mafia degli anni '20. Prima di passare all'organizzazione attuale bisogna sottolineare che alla fine degli anni '20 l'arricchimento di alcune famiglie risulta consistente. Dei mafiosi di allora alcuni investono a Palermo, altri nel resto della Sicilia e dell'Italia. Alcuni, sembrerà strano, vanno ad investire in America. Molti, chiaramente non appartenenti al ceto dei medi proprietari ossia alle menti pensanti, si rifugiano chi nel cimitero, chi nelle carceri, chi in America e in Tunisia nel tentativo di provare l’habitat delle carceri straniere o per farsi assassinare lontano dal luogo natio.»

«E oggi?»

«Possiamo provare a descrivere l'organizzazione dei nostri giorni facendo riferimento a quanto già abbastanza noto. Ci sono gli occupatori materiali del territorio: squadre di affiliati alla mafia con un piccolo capo di borgata o di paese.»

«I gestori materiali della violenza sul territorio.»

«Costoro sono anche in contatto con la criminalità comune. Naturalmente per territorio non bisogna solamente intendere l'area geografica: province, ospedali, università, palazzi di giustizia, uffici importanti costituiscono dei territori a se stanti con dei rappresentanti disponibili agli ordini dei capi. Chiunque ha necessità di uscire dal proprio territorio, non per andare a passeggio naturalmente, deve essere autorizzato dal capo gerarchicamente superiore. Ciascuno dei rappresentanti risponde al proprio capo mandamento. Possiamo anche includere professionisti e alcuni politici.»

«Quali politici?»

«Quei politici che non contano nulla. Ad esempio quei parlamentari fatti eleggere solo per votare in Parlamento a seconda degli ordini che gli piovono addosso. Per questi politici la cosa più importante é, oltre a obbedire, ritirare lo stipendio eventualmente arrotondato con il ricavato di piccoli favori. Possiamo definire tutti costoro come primo livello.»

«E il secondo livello?»

«Quelli che ormai universalmente sono definiti i componenti della commissione di Cosa Nostra assieme al gran capo.»

«E i politici?»

«Ce ne sono pure! Ma pochissimi.»

«E quale funzione rivestono?»

«Questi politici, attenzione pochissimi, sono l'anello di congiunzione tra il gran capo e altri politici di più grosso spessore i quali, a loro volta sono in contatto con quello che possiamo definire il terzo livello.»

«E chi sarebbero questi del terzo livello?»

«E chi lo sa? Se accettiamo di definire la mafia una macchina per far denaro possiamo solamente supporre che si tratta di gente con molto, molto denaro. Probabilmente ci sarà anche qualche politico ma deve pure possedere tanto, tanto denaro. Ciò non significa che il politico con tanto denaro debba per forza essere un mafioso. Assolutamente no! Però possiamo avanzare anche l'ipotesi, alla luce di quanto avvenuto nel corso del tempo, che in genere chi dispone in prima persona di molto denaro non si mette in prima fila a far politica.»

«Torniamo un attimo alla commissione di Cosa Nostra o meglio a quella struttura oggetto di teoremi.»

«Il teorema Buscetta? Tutto è possibile, Principe. Ma tale teorema non sembra brillare in fatto di logica. Noi dovremmo immaginare una commissione che, quasi in forma democratica, decide a maggioranza sul da farsi. Vediamo di aiutarci con un esempio. Premettiamo all'interno di Cosa Nostra: l'esistenza di un gran capo; che il gran capo si è conquistata la carica attraverso l'eliminazione fisica di tutti gli avversari veri, potenziali o presunti; che i componenti la commissione, chiamiamoli commissari, risultano scelti dal gran capo; che i rapporti con il potere, attraverso pochissimi politici, sono tenuti solo ed esclusivamente dal gran capo. Immagina a questo punto una riunione della commissione in cui il gran capo propone che so, l'eliminazione fisica di un avversario. Tu riesci a immaginare un commissario che si oppone?»

«No!»

«E neppure io. Il sospetto che si avrebbe a che fare con un potenziale avversario cadrebbe immediatamente su di lui e, in quell'ambiente, il sospetto non è l'anticamera della verità ma del cimitero o della squagghiatìna negli acidi! Ciò non esclude che ciascun componente la commissione possa sapere in anticipo quanto accadrà. Ma da qui a decidere ce ne corre!»

«Ma allora il teorema Buscetta fa acqua?»

«Ma quando mai! Come è formulato il teorema Buscetta?»

«Il componente la commissione non poteva non sapere

«Ed infatti il commissario sicuramente sapeva! Ma il teorema non dice non poteva non decidere! E siccome il commissario, a conoscenza di un fatto delittuoso, non ha fatto la dovuta denunzia agli organi preposti, ecco che risulta passibile di pena!»

«Mi scusi, zio santo, mettiamoci nei panni di un commissario che non condivideva la linea del gran capo. Non poteva ad esempio dimettersi?»

«Se la commissione di Cosa Nostra fosse stata una commissione edilizia certamente sì!»

«E che poteva fare?»

«Proprio nulla. Un commissario oppositore poteva solo augurarsi l'arresto di tutti, se compreso, per andarsi a tranquillizzare all'interno di un carcere qualsiasi.»

«Torniamo indietro. Che succede poi nell'organizzazione?»

«Vedi, si innesca un meccanismo che potremmo definire delirio di onnipotenza. Il secondo livello pensa di potere arrivare dovunque perché: ha libertà d'azione sul territorio; è diventato ricchissimo; crede di avere in pugno la situazione perché ha avuto ricambiato dallo Stato ciò che gli è servito; attraverso i politici crede di avere sufficienti armi per ricattare chiunque; crede insomma di essere un primus inter pares con lo Stato. A quel punto ritiene di poter fare il passo più lungo di quanto il terzo livello gli abbia concesso.»

«Come?»

«Si possono riportare tanti esempi. Prendiamo il caso degli appalti dove i fiumi di denaro sono notevoli. Supponi che al terzo livello, ossia a quelli che gestiscono moltissimo denaro, serva qualche migliaio di miliardi.»

«Come procedono?»

«Fanno destinare dallo Stato qualche decina di migliaia di miliardi per fare opere pubbliche: dighe, strade etc. Fanno redigere i relativi progetti a professionisti compiacenti i quali si preoccupano di maggiorare i costi rispetto ai valori di mercato. Per le approvazioni, è ovvio, non esistono problemi. Inutile dire che, a questo punto, le opere diventano appetibili e sono moltissime le imprese che cercano di accaparrarsele.»

«Sembra chiaro che è necessario eliminare la concorrenza. No?»

«A ciò pensa il secondo livello con i collaudati sistemi a conoscenza anche dei bambini: cantieri fatti saltare in aria, attentati di vario genere, sparatorie ecc.»

«Ma ciò avviene anche oggi?»

«Ciò avveniva sino a tempi recenti: ormai molte imprese hanno capito che non è neppure il caso di interessarsi di questo genere di appalti.»

«Poi che succede?»

«Vedi Principe, in passato il secondo livello, nei lavori pubblici, si limitava a chiedere la concessione di subappalti e le forniture di materiali in sito. Poi cominciò, direttamente o attraverso prestanome, a costituire proprie imprese accaparrandosi appalti di piccola entità. Successivamente fece un ragionamento semplicissimo: che cosa abbiamo meno degli altri per non partecipare direttamente? I capitali li abbiamo e le professionalità pure. Siamo noi, oppure no, a rischiare in prima persona?»

«Mi sembra abbastanza logico!»

«Il secondo livello, a questo punto, fa il passo successivo: d'ora in poi, oltre ai sub appalti e alle forniture, dobbiamo partecipare in quota parte ai consorzi che gestiscono in Sicilia le grandi opere pubbliche. Inizialmente le quote in percentuale di partecipazione sono basse. Poi sempre più alte. Non credere che quello degli appalti sia l'unico settore! Ce ne sono tanti altri e potrebbero farsi elenchi lunghissimi: c'è il primario ospedaliero o il docente universitario o il burocrate che trova molto comodo battere la concorrenza o accorciare i tempi di promozione attraverso la mafia del secondo livello e così via. A questo punto il terzo livello si rende conto che il secondo è andato troppo avanti. Tu nei panni di quelli del terzo livello che faresti?»

«Li stenderei tutti!»

«E come?»

«Li farei arrestare!»

«E infatti è ciò che fanno. Utilizzano quello che inizialmente abbiamo definito il principale gestore di violenza sul territorio: lo Stato. Non credere però che siano operazioni che si risolvono dall'oggi al domani.»

«E come fanno?»

«Si inizia con uno di quelli che vengono definiti maxiprocessi. Prendiamo il caso dell'ultimo in ordine di tempo. Falcone gestisce l'accusa e manda sul banco degli accusati il secondo livello quasi al gran completo. La mafia di secondo livello decide di eliminare Falcone. Dichiara Giovanni Brusca:

 

Prendemmo[84] la decisione iniziale di ucciderlo [Falcone], per la prima volta nel 1982.

 

Il terzo livello, attraverso emissari, gli ordina di non farlo:

 

 …E lo scoprimmo nel 1988, quando Falcone era in corsa per la poltrona di capo dell'ufficio istruzione di Palermo. Andai a trovare Ignazio [Salvo]: motivo della visita, ancora una volta, le nostre richieste di intervenire sul maxi processo. Lui se ne uscì con uno strano discorso: 'Sai, qualche amico ce lo abbiamo ancora, siamo capaci di condizionare le cose. Falcone non diventerà capo dell'ufficio istruzione…Mi disse anche di riferire a Riina che ormai non c'era più bisogno di uccidere Falcone. E aggiunse: è inutile ucciderlo perché al suo posto ci metterebbero un altro, lasciandomi intendere che avremmo provocato inutilmente una reazione dello Stato che, a quel punto, sarebbe stata incontrollabile.

 

A San Giuseppe Jato il giorno della sentenza di condanna al processo di primo grado, dentro i bar e nei crocicchi, circolavano strani commenti: si diceva che il Giudice di primo grado, in base alle carte in suo possesso e al dibattimento processuale, non poteva fare altrimenti. Strani discorsi se si tien conto del fatto che i Giudici, nei casi di condanna, erano sempre stati qualificati come gli arbitri di calcio. Tale tipo di commenti, di affiliati e amici degli affiliati, si scopriva nel momento in cui il motivo diventava, attraverso i pentiti, di dominio pubblico: per problemi politici bisognava dare la sensazione che lo Stato faceva sul serio. Poi si sarebbe risolto tutto in Cassazione.»

«Invece?»

«Cerchiamo di seguire un filo logico negli eventi che seguono. Febbraio 1992: la Cassazione conferma tutte le condanne. Il secondo livello si scatena.»

«Contro chi?»

«Ma naturalmente contro quelli che conosce: gli emissari politici e coloro che ritiene responsabili della propria condanna.»

«Poi?»

«Marzo 92: cade Lima. Per il secondo livello l'assassinio costituisce una vendetta e nello stesso tempo un segnale indirizzato al terzo. Per il terzo livello è stato un gran favore: è stato eliminato un possibile testimone.»

«Ma Lima avrebbe parlato?»

«Principe, ormai nel corso del tempo è stato sperimentato: meglio un testimone morto che un testimone, anche di provata fede, vivo.» E continuò:

«Maggio e luglio 92: autorizzazione all'assassinio di Falcone e Borsellino. Per il secondo livello dopo dieci anni è la sospirata vendetta e, contemporaneamente, il segnale che punta molto in alto! Per il terzo livello, invece, sono stati eliminati due pericolosissimi giudici. Nello stesso tempo le stragi sono servite a scagliare l'opinione pubblica sul secondo livello. Il terzo livello a questo punto fa sapere al secondo che nello Stato c'è ancora gente non disponibile alla trattativa - papelli etc.- e occorre qualche altro segnale forte.»

«Che cosa avviene?»

«Agosto '92: arrivano le bombe di Roma, Firenze e Milano. Il gran capo della mafia di secondo livello è tanto certo di avere i contatti giusti per trattare alla pari con lo Stato che possiamo affidare tale valutazione alle parole di Giovanni Brusca:

 

l'argomento dei miei incontri con Riina non riguardò Cosa Nostra. Mi disse subito, molto soddisfatto: Si sono fatti sotto. Gli ho presentato un papello grande così con tutte le nostre richieste. In siciliano papello significa un foglio protocollo, insomma un elenco molto lungo. Non mi disse a chi aveva consegnato il papello né cosa ci fosse scritto. In quel momento aveva un canale che non mi diceva.[85] Posso dire di più. Riina era convinto di poter tornare da un momento all'altro a Corleone. Puntava alla revisione del maxi processo, nel papello c'era anche questo[86]. Ad un certo punto Riina, infatti, mi disse 'si son fatti sotto', aggiunse anche: 'Tu bloccati'. Alludeva al canale Bellini e non ci fu bisogno di aggiungere altro. Insistetti solo su un punto: 'Zu' Totò, posso andare avanti solo per mio padre?'. E lui: 'Vai!'… Qualche settimana dopo Riina mi riferì che era arrivata la risposta alle sue richieste: 'Siete pazzi. Su questa base non possiamo trattare!'

 

Dopo gli attentati di Roma, Firenze e Milano, l'opinione pubblica è furibonda: gli si è fatto credere che la vera mafia è quella del secondo livello ed è tanto potente da volere sfidare apertamente lo Stato. Intanto la risposta dello Stato al papello di richieste non arriva e il secondo livello decide di inviare un altro segnale.»

«Quale?»

«Settembre '92: è assassinato Ignazio Salvo. Per il terzo livello è stato eliminato un altro potenziale e pericoloso testimone. A questo punto si può procedere tranquillamente all'operazione repressiva e chiudere la partita.»

«Poi?»

«Gennaio '93: viene arrestato il gran capo Riina con due operazioni, come al solito, da manuale. Quelli pensano a tutto caro Principe.»

«Quali operazioni?»

«La prima: sono passati pochissimi giorni e viene divulgato il nome del pentito che con le sue rivelazioni, dicono, ha reso possibile l'arresto: Balduccio Di Maggio. E sì! La gente avrebbe potuto pensare: come mai, dopo vent'anni di latitanza, lo Stato arriva proprio ora?»

«Insomma l'arresto è presentato come un puro caso!»

«La seconda: nel covo di Riina i magistrati arrivano diciotto giorni dopo l'arresto. E sì! Le precauzioni non sono mai troppe. Potrebbe esserci qualcosa di compromettente per il terzo livello e allora è meglio eliminarla. Pensano proprio a tutto. L'aspirapolvere: qualche intruso controllore potrebbe aver perso il pelo.”

«E il vizio!»

«No. Quello non lo perdono mai!»

«Persino la pitturata alle pareti: si potrebbe individuare il DNA di qualche intruso controllore attraverso l’aria espirata dai polmoni!

 

Quando[87] i magistrati entrano nel covo di via Bernini erano trascorsi esattamente diciotto giorni dall'arresto. Cosa Nostra aveva avuto tutto il tempo di cancellare ogni traccia. La Barbera mi disse anche che avevano ridipinto le pareti 'Ci abbiamo dato la pitturatina', mi disse proprio così e adoperato l'aspirapolvere in ogni angolo.

 

Il resto, a questo punto, è un gioco da ragazzi.»

«Come procedono?»

«Vedi Principe, uno degli sports preferiti dai mafiosi di primo e secondo livello è quello dell'incaprettamento: una forma di suicidio obbligato. L'aspirante suicida viene legato con una corda, dal collo ai piedi, in maniera tale che, perdute le forze, si strangola da solo. I metodi usati dal terzo livello nei confronti del secondo e del primo non differiscono molto. Attenzione! Non usano la corda! Per fregare quelli dei livelli sottostanti loro non ci mettono mano. Prova a fare le considerazioni che seguono sui mafiosi di primo e secondo livello: hanno ammazzato qualche migliaio di persone in buona parte tra di loro; hanno assassinato giudici, carabinieri, poliziotti, politici, gente comune; hanno assassinato persone scomode per il terzo livello; hanno fatto saltare in aria monumenti; attraverso le dichiarazioni dei pentiti si sono fregati solo ed esclusivamente tra loro. In pratica hanno fatto tutto da se. E infine non conoscono nessuno del terzo livello.»

«E perché alcuni non si pentono?»

«Ci può sempre essere, tra loro, qualcuno che continua a sperare non si sa in che cosa; ma in genere chi non si pente lo fa per il semplice motivo che non sa proprio nulla: pentendosi non farebbe altro che fregare qualcun altro del suo stesso rango. E in carcere, a volte, qualcuno riesce a crearsi una forma di orgoglio che non ha mai posseduto. Quand'anche infine avesse qualcosa da dire non avrebbe prove sufficienti. E come ben sai, nella patria del diritto, per condannare occorrono le prove.»

«Potrebbe pentirsi il gran capo Riina

«Una risposta plausibile l'ha data Giovanni Brusca:

 

C'è da dire che se dovesse pentirsi e buttare fuori il grosso dei suoi segreti, bene che vada, lo prendono e lo buttano nella spazzatura. Se gli va male o lo dichiarano pazzo o lo ammazzano…Non parla anche perché se avesse un pezzo di carta per dimostrare quello che dice lo utilizzerebbe per suo figlio, cosa che, per ora, non sta facendo.[88]»

 

«Sembra il ripetersi di quanto successo dopo la strage di Portella della Ginestra!»

«Sì! Allora si ebbe a che fare con una banda di briganti che costituiva la longa manus della mafia. Anche allora furono condannati. E non parlarono solo ed esclusivamente perché non sapevano proprio nulla. Qualcuno che poteva sapere qualcosa era stato liquidato ancor prima del processo di Viterbo. Bisogna però riconoscere che ai giorni nostri sono diventati molto più attenti. Oggi non hanno avuto necessità di ricorrere ai caffè corretti alla stricnina e neppure al segreto di stato: chiaro indice di una maggiore professionalità. Vedi Principe, la strategia non è complessa: basta far capire a quelli del secondo livello che sono loro stessi a comandare e a gestire tutto. Il terzo livello non fa altro che spianargli la strada, farli operare come a loro interessa e, quando non servono più, zacchete! E buttarli a mare! E bisogna riconoscere che ha sempre funzionato. Pensa a Giuliano che, all'età di 25 anni e con la seconda elementare, credeva di poter trattare con gli Stati Uniti d'America! Ma anche ai nostri giorni: non ti dice nulla il fatto che nessuno dei commissari e dei gran capi della mafia di secondo livello, ossia quelli che credono di comandare, abbia un titolo di studio - quando ce l'hanno - superiore alla quinta elementare?»

«Sì! In effetti è strano!»

«E tieni conto che la stessa strategia sembra essere stata utilizzata anche in settori che non avevano nulla da spartire con la mafia ma sempre nel settore della violenza.»

«Ad esempio?»

«Le Brigate Rosse. Anche loro credevano di poter trattare alla pari con lo Stato. Gli hanno fatto trovare tutte le porte aperte dandogli la sensazione che i risultati ottenuti erano frutto della propria bravura. Gli hanno fatto commettere ciò che a loro interessava e anche qui, zacchete! Tutti dentro. Anche loro, in parte, si sono pentiti fregandosi reciprocamente. E chi non si è pentito lo ha fatto perché non sapeva nulla del terzo livello.»

«Ritornando alla mafia?»

«Eliminato il secondo livello, quelli del terzo sono rimasti integri e pronti per continuare con un secondo livello nuovo di zecca.»

«Ma per il terzo livello è così importante che ci siano quelli del secondo e naturalmente del primo?»

«Mi pare chiaro! Questi ultimi garantiscono al terzo livello: voti per comandare, l’eliminazione rapida della concorrenza in qualsiasi settore, l’eliminazione fisica di avversari particolari: Calvi, Sindona, Ambrosoli, Pecorelli ed infine fanno da parafulmine. Cosa si può pretendere di più dalla vita?»

 

«Vorrei fare un'altra domanda. Lei, zio santo, ha parlato di terzo livello riferendosi alla situazione generale. Ma, attraverso i documenti in nostro possesso siamo in condizione di verificare, nel nostro territorio, l'esistenza del terzo livello così come da lei definito?»

«Se facciamo riferimento al periodo degli anni '20, credo di sì»

«Dica!»

«E' necessario riportare quanto scritto da Giuseppe Scarpace[89] a proposito della Società Anonima Cooperativa di Assicurazione 'La Luce' fondata dall'ing. Antonino Benigno con sede in San Cipirello.»

«Mi pare che inizia la sua attività nel 1908 e va in liquidazione nel 1934.»

«Esatto! La società assicuratrice svolge l'attività negli anni in cui i delitti contro la proprietà raggiungono, come hai potuto constatare, limiti da primato. Tu credi che una società assicuratrice 'normale' avrebbe mai stipulato un contratto di assicurazione in un territorio 'anormale' e in un periodo come quello in esame?»

«No.»

«E neppure io! Sarebbe andata in fallimento nel volgere di qualche settimana! Invece la Società Anonima di Assicurazione 'La Luce' …iniziò la sua attività operando nei rami assicurativi contro i danni dolosi alle piante e contro i rischi dell'incendio delle proprietà mobiliari e immobiliari…estendeva la sua sfera di azione a tutta la Sicilia…qualche contratto si ebbe anche dalle Calabrie e dalla Sardegna…il capitale iniziale della Società di appena lire 4080 andò fortemente incrementandosi con continua emissione di azioni e con l'aumento dei soci che annualmente godevano di dividendi tali da fare ritenere ottimo l'investimento…chiuse la sua attività con circa un milione di lire di capitale anch'esso diviso fra gli azionisti all'atto della definitiva liquidazione. Secondo te doveva  essere una Società Anonima 'speciale' oppure no?»

«Sì. Ma il terzo livello che c'entra?»

«Calma! Principe! Bisogna consultare un altro documento: il primo  memoriale dei sindacati agricoli inviato al prefetto Mori il  15.6.1926[90] dove scrivono …ci rivolgiamo all’Eccellenza Vostra sicuri del suo intervento energico per segnare un basta ai soprusi che i contadini di San Giuseppe Jato e Sancipirrello hanno dovuto subire da parte di quasi tutti i gabelloti dei feudi… e subito dopo elencano, nella gestione dei feudi, i capitali impiegati dal gabelloto tra i quali, oltre all'estaglio medio annuo, la ricchezza mobile, etc., spiccano gli interessi e soprattutto l'assicurazione. Cerca di capire, Principe! Il mafioso-gabelloto paga l'assicurazione!!! A chi? Ma all'unica società esistente nella zona: 'La Luce'!»

«Ma allora che razza di mafiosi erano!?»

«Appunto! Mafiosi erano: ma di primo e secondo livello. Evidentemente c'era qualcuno, al di sopra di loro, di cui dovevano tener conto. Se poi approfondisci meglio ti accorgi che nella Società Anonima ci sono tutti gli ingredienti per definire un terzo livello: gente ricchissima o divenuta tale, con propaggini nell'intera isola e anche fuori ma,  soprattutto, mai accusata di essere mafiosa, neppure nei momenti peggiori quali furono quelli del periodo Mori. Appunto perché le loro attività erano perfettamente legali.»

«Però era chiaro che doveva esserci qualcosa di losco! Scusi, il mafioso che paga l'assicurazione contro danneggiamenti su terreni e case non è un fatto di per se eclatante?»

«E secondo te i magistrati che avrebbero dovuto fare? Condannare il mafioso per mancanza di deontologia professionale? Ma non mi fare ridere, Principe! »

«Ma allora c'è da pensare che anche gli interessi pagati dal mafioso-gabelloto andassero a impinguare le casse della Società Anonima?»

«Questa mi sembra una domanda più pertinente! Ma certo, Principe! Se dobbiamo dare credito alle esaltanti affermazioni dello Scarpace laddove scrive…volse quindi la sua attività anche nel campo dei crediti a breve scadenza concessi agli agricoltori sia locali che dei comuni finitimi, contribuendo così, efficacemente, ad estirpare la mala pianta dell'usura… c'è da pensarlo! Tu starai certamente opinando che avranno estirpato la mala pianta dell'usura 'diffusa' e l'avranno 'monopolizzata'. Ma questo non possiamo dirlo. Possiamo solamente affermare che l'usura, in genere, non viene praticata nei crediti a lunga o media scadenza ma in quelli a breve. E loro concedevano prestiti a breve scadenza.»

«Ma allora, secondo lei, non vi sono possibilità di eliminare la mafia?»

«Certo che ci sono le possibilità!»

«E quali?»

«Si potrebbero ad esempio arrestare tutti quelli del terzo livello!»

«Ma lei non ha detto che non si conoscono?»

«Hai ragione! Guarda un po' che sbadato! Sono proprio stanco!»

«E le altre possibilità?»

«Si potrebbero arrestare tutti coloro che possiedono più denaro del necessario!»

«Ma in questo modo ci andrebbero di mezzo migliaia e migliaia di persone che non c'entrano!»

«Sì! Però si risolverebbe il problema: tra loro ci sarebbero sicuramente quelli del terzo livello!»

«Ma non mi sembra attuabile! E non sarebbe neppure giusto!»

«Considerato che la mafia è uno strumento per raggiungere l'arricchimento, si potrebbe abolire l'uso del denaro e ritornare al baratto. Oppure cambiare l'attuale struttura dello Stato e crearne uno governato dagli anarchici. Oppure ancora rivolgere abbondanti preghiere a Sua Eccellenza il Padreterno!»

«Zio santo mi vuol prendere per i fondelli? Ma veramente non c'è alcuna possibilità?»

«Una possibilità forse ci sarebbe. Non parliamo dei soliti luoghi comuni quali la scuola, il lavoro ecc. non perché non servano ma per il semplice fatto che se ne parla sempre ma non si fa mai nulla.»

«E come allora?»

«Per prima cosa occorrerebbe stilare un elenco di tutti gli affiliati alla mafia di primo e secondo livello da una ottantina d'anni in qua.»

«Poi?»

«Poi calcolare quante migliaia di loro sono morti ammazzati.»

«Poi?»

«Successivamente rilevare quanti di loro sono andati a finire in galera. A quel punto lanciare un messaggio di questo tenore:

Sintìti, sintìti!

L'80 per cento - ad esempio - di voi che pensa di arricchire attraverso la mafia va a finire anzitempo al cimitero: sempre che riesca ad arrivarci! Molto spesso muore pure in malo modo: strangolato o sparato pronto per essere arrostito o disciolto negli acidi!

Chi ha più fortuna, che so, il 10 per cento, va a riposare le stanche membra in galera.

Vale la pena mettersi in una associazione che, nel 90 per cento dei casi, porta alla rovina voi, i vostri familiari e tutti i vostri discendenti?

Da un punto di vista statistico parrebbe conveniente rinunziare e cambiar mestiere!

Se proprio non riuscite a rinunziare perché la delinquenza ce l'avete nel DNA, allora mettetevi in proprio senza fare società con nessuno. Ormai è dimostrato: l’associazionismo e il cooperativismo di qualsiasi genere qui in Sicilia non funzionano! Almeno rischiate solamente il carcere e avete più possibilità di farla franca!

Che te ne pare?»

«Mah! Una scelta del genere sarebbe più conveniente per loro e anche per tutti quelli che non hanno nulla da spartire con la mafia! No?»

«Poi si potrebbe, ad esempio, puntare sull’orgoglio dicendogli che coloro che si arricchiscono alle loro spalle non hanno neppure il piacere di conoscerli!

 

Vuoi un digestivo Principe?»

«Sì! Gradirei un estratto di citronilla

 

Non solo mafia. L'area dello Jato: terra di lotte e ribellioni

 

«Passiamo all'altro punto. Perché San Giuseppe Jato e San Cipirello nel panorama mafioso sono così importanti?»

«Ecco, perché?»

«Si potrebbe pensare al caso. C’è però troppa convergenza di elementi in questo territorio per poter giustificare un tale fenomeno con la casualità. Indubbiamente i motivi sono diversi. Potremmo cominciare col citare, ad esempio, la ricchezza del territorio.»

«Ma la mafia non si dice che prospera nelle zone povere?»

«Queste, caro mio, sono leggende! La mafia prospera e attecchisce solo dove c’è qualcosa da rubare con qualsiasi metodo. Pensa agli anni ’20. Buona parte degli sfollati per mafia va in America e in Tunisia: mentre in America, territorio ricco, la mafia attecchisce in Tunisia no! Ma si potrebbero fare tanti esempi qui in Sicilia.»

«Poi?»

«La vicinanza ad una città importante come Palermo: un centro dalle multiformi attività molto comodo per i paesi finitimi.»

«Poi?»

«Io affronterei solamente due punti che mi sembrano particolarmente importanti.»

«Quali?»

«Il primo: credo che uno dei punti di forza della mafia sia stata l’opposizione ad essa. Parliamo naturalmente degli ultimi ottant’anni. Pensa alla veemente opposizione alla mafia da parte delle cooperative cattoliche e socialiste negli anni prima dell’avvento del Fascismo e a quella successiva nel secondo dopoguerra sino ai nostri giorni. Ma cercheremo di dare una risposta successivamente. Il secondo: credo che il territorio abbia avuto una notevole influenza sulle popolazioni di queste vallate.»

«Si riferisce alle teorie del Lombroso

«Ma quale Lombroso!»

«Scusi il Lombroso non sosteneva che i comportamenti delle popolazioni sono influenzati dalla temperatura del territorio?»

«Sì! Questo lo sosteneva lui. Ma, vedi Principe, la teoria del Lombroso venne fuori in un momento in cui lo Stato sabaudo non sapeva come affrontare i problemi della Sicilia e servì a giustificarne gli interventi repressivi. Come dire: signori miei, con i siciliani non c’è nulla da fare; è un problema legato alla loro natura per cui, se vogliamo far valere l’autorità dello Stato, dobbiamo per forza ricorrere ad interventi anche cruenti. Ma al Lombroso rispose all’epoca, in maniera egregia, Napoleone Colajanni. Ti rimando quindi ai suoi interventi.»

«Ma il Lombroso, dicono, era un profondo studioso!»

«Vero è, Principe. Ma in questo campo u nni nzirtò una. Probabilmente la teoria sulla temperatura sarà stata da lui studiata e approfondita nel periodo invernale, quando il freddo del suo Piemonte facilmente si incuneava nei complessi meccanismi cerebrali!»

«Ma allora in che senso lei sostiene che ci può essere un’influenza del territorio sui comportamenti?»

«Penso che un territorio povero e inospitale determina sempre tra gli abitanti fenomeni di abbandono. Il contrario avviene nei territori ricchi e ospitali. Pensa a questo territorio nel corso del tempo. E’ fertile, quindi ricco. E’ posto in un punto strategico nello scacchiere della Sicilia Occidentale lungo gli assi di collegamento Palermo-Mazara, Palermo-Selinunte, Palermo-Segesta, Palermo-Agrigento, quindi con grosse possibilità nel campo commerciale. Si trova in un sito difendibile lontano dal mare, quindi non soggetto agli assalti di popoli predoni. Non devi poi trascurarne la bellezza: con uno sguardo all’orizzonte abbracci Capo San Vito col Golfo di Castellammare, il bosco di Ficuzza con la Rocca Busambra, monte Cammarata al centro della Sicilia e, nelle giornate particolarmente nitide, riesci a scrutare anche la cima dell’Etna.»

«Sì! Ha ragione. Io ero residente a Napoli ma, quando potevo, scappavo per venirmi ad immergere nel verde di Dammusi. Pensi che ero tanto sensibile al fascino di questi luoghi che ho pure fatto un componimento.»

«Vero? E te lo ricordi ancora?»

«Certo!»

«Me lo reciti?»

«Ogni matìna

Cu donna Mariannìna

Taliàmu versu a marìna

E u cori si spampìna.

Poi arriva me cucìnu Vitu

Taliàmu versu u cannìtu

E nni nzaiàmu un bellu vistìtu.

Subitu s'arricàmpa don Bastiànu

Taliàmu versu u chiànu

E nni damu tutti a manu.

‘Ntramèntri arriva Ciccu Lasàgni

Taliàmu versu i montàgni

E ghisàmu tutti i carcàgni.

All'ultimu arriva don Pippìnu

Taliàmu ‘ntra pinnìnu

E ni vivèmu un bellu bicchieri i vinu»

 

«Complimenti! Continuiamo. Con tali presupposti ti rendi conto che la gente, quando costretta, ha sempre abbandonato a malincuore queste contrade. Qui la gente più che andarsene via c’è sempre venuta. E una volta insediatasi si è sempre difeso il territorio con le unghia e con i denti. Voglio dimostrarti che questa non è solo terra di mafia ma è anche terra di ribellioni a tutte le forme di potere che hanno limitato la fruizione del territorio. Nel momento in cui il potere è stato rappresentato dalla mafia l’opposizione ad essa è sempre stata veemente. Ma andiamo in ordine. Vediamo innanzitutto la situazione da un punto di vista antropo-geografico negli ultimi 800 anni. Qui arrivano nel 1258 gli Armeni che si insediano nella tua Dammusi; nel 1488 gli Albanesi di Piana; nel 1237, sotto Federico II, una comunità ghibellina di Lombardi che, sotto il comando di Oddone di Camerana, colonizza il sito dell’attuale Corleone.»

«E dove ha letto questa notizia sui Lombardi a Corleone?»

«Sul Fazello – Deche di Storia di Sicilia – è riportato l'atto di concessione di Federico II. Voglio farti notare che tutte e tre le comunità non vengono qui deportate ma, in varie forme, contrattano la concessione dei territori: chiaro segno che non si è in presenza di immigrati destinati ai lavori più umili ma di gente in grado di determinare e gestire il proprio futuro.

«E poi?»

«Nel 1182, attraverso la donazione del normanno Guglielmo II al Monastero di Santa Maria la Nuova di Monreale, siamo certi che in questo territorio operano: Znati - gente appartenente alla tribù berbera Znata; el-Farisi - gente proveniente dal Faris, regione della Persia Meridionale; Sindi - gente venuta dal Sindo, regione del basso Indo; Kuteme - una orgogliosa tribù berbera; Kinene e Magagia - due tribù del nord Africa; el-Andalusin - gente proveniente dall’Andalusia in Spagna; el-Magiar - magiari, ungheresi; as-Soudan - gente originaria del Sudan; at-Tabari - una nobile famiglia persiana; al-Barmanin - gente di Barmana nel nord Africa; al-Arabi - gente proveniente dalla penisola arabica; ar-Rumi - bizantini; moltissime famiglie ebraiche - Amrun, Yakub, Ben Shalom - e a Malvello, l’antica Malbìt tra San Cipirello e Corleone, si rileva un vallo Iudeorum, una vallata dei Giudei. E’ testimoniata la presenza di Januenses - Genovesi - nonché Venetiani e Pisani che, in genere, gestiscono i numerosi fondachi lungo gli assi di penetrazione verso l’interno. E’ un mercante catalano, don Cristofaro Bassèt, che attorno alla metà del 1500 acquista i territori in corrispondenza dell’attuale San Cipirello. Per le finalità che ci siamo proposti credo sia il caso di includere in questo elenco Ruggero Mastrangelo, il capo degli insorti nella Guerra del Vespro: nel 1296 risulta proprietario del feudo Cumeta, tra San Cipirello e Piana degli Albanesi. Pensa che, nel medioevo, troviamo anche una famiglia indigena, as-sikilli - il Siciliano - proprietaria di una mandra nei pressi di Pietralunga.»

«Ma come? Siciliani abitanti in Sicilia denominati i Siciliani! Strano no?»

«Evidentemente i Siciliani DOC dovevano essere così pochi in raffronto alle popolazioni sopravvenute che per distinguerli venivano indicati appunto i Siciliani

«Che tipo di valutazioni possono farsi su questa variegata presenza di tante popolazioni in un territorio, in fondo, molto ristretto?»

«Occorrerebbero studi approfonditi di etnologia di cui, purtroppo, c’è grande penuria. Possiamo solamente limitarci ad elencare quanto, queste diverse popolazioni, hanno fatto nel corso del tempo in relazione al nostro tema. Faremo una elencazione a ritroso.»

«A partire da quando?»

«Dai primi anni del 1940 quando il Comune di Piana degli Albanesi si dichiara Repubblica Indipendente. Degli anni tra il 1910 e 1925, periodo dell’occupazione delle terre e contrasto alla mafia, abbiamo già parlato. Negli anni 1893-1894, gli anni dei Fasci Siciliani, il territorio risulta in prima linea: è a San Giuseppe Jato che, l’11 maggio 1893, si registra il primo tumulto dei Fasci che determinerà il primo arresto di massa tra cui quello di Nicolò Barbato

«Poi?»

«La gente di queste vallate partecipa, come già detto, a tutte le rivolte e rivoluzioni che caratterizzano il 1800: la rivolta del sette e mezzo nel 1866, la rivoluzione del 1860 con Garibaldi, quella del 1848 con Ruggero Settimo, i moti carbonari del luglio 1820. Ora dobbiamo fare un salto indietro nel tempo per limitare la nostra analisi esclusivamente ai fatti di notevole risonanza. Tieni presente che Corleone è la prima città della Sicilia ad allearsi a Palermo in occasione della Guerra del Vespro: con un accordo firmato il venerdì 3 aprile 1282, tre giorni dopo lo scoppio della guerra, mette in campo ben tremila combattenti. Per quel che segue dobbiamo fare riferimento all’antica città di Jato ubicata sul monte a ridosso degli attuali comuni di San Giuseppe Jato e San Cipirello. Gli arabi di Jato, città antichissima le cui origini si fanno risalire ad almeno mille anni prima della venuta di Cristo, si arrendono solo nel 1079 al normanno conte Ruggero d’Altavilla. Se consideri che la città è ubicata alle porte di Palermo, a sua volta conquistata nel 1072, ti rendi conto di come gli jatini avranno difeso la città nel corso di sette anni.»

«Poi?»

«Nel 1189 una rivolta musulmana a Palermo e nell’intero Val di Mazara viene a stento domata. E’ da quel momento che si hanno pochissime notizie di Musulmani a Palermo perché buona parte di loro si riversa in queste contrade. E’ necessario, Principe, fare alcuni brevi riferimenti. Nel 1194 nasce a Jesi Federico II da Costanza d’Altavilla ed Enrico VI. Nasce a Jesi dove signore della Marca di Ancona è il Gran Siniscalco di Enrico VI, Markuald de Anweiler. Nel 1197 muore Enrico VI e lascia la tutela della minorità di Federico II, quindi la reggenza dell’Impero, al suo gran siniscalco Markuald. Nel 1198 muore Costanza d’Altavilla la quale, invece, lascia la tutela della minorità di Federico a chi?»

«Al papa Innocenzo III

«Ti rendi conto che i contrasti, i nodi quanto prima sarebbero venuti al pettine. Ed infatti nel 1199 Markuald con un esercito alemanno scende in Sicilia, sbarca a Trapani ed invade il Val di Mazara. Ormai la condizione dei Musulmani di Sicilia non è più quella florida del periodo arabo e neppure quella accettabile dovuta, in buona parte, all’accorta tolleranza normanna. Ormai i Musulmani di Sicilia sono i paria, i servi della gleba per non dire gli schiavi della società feudale della fine del XII secolo. Markuald alla ricerca di aiuti trova nei Musulmani di queste contrade dei formidabili alleati. Jato diventa il caposaldo, la roccaforte da cui continui attacchi sono sferrati contro la capitale Palermo difesa dalle truppe pontificie sotto il comando dell’arcivescovo Gualtieri di Palearia. Il 21 luglio del 1200, in una battaglia campale alle porte di Palermo - tra Monreale ed Altofonte - le truppe pontificie sconfiggono l’esercito congiunto musulmano-alemanno di Markuald ed in quella occasione cade anche il capo musulmano Magdéd

«E cessano le ribellioni?»

«Ma quando mai! Anzi posso anticiparti che per quasi cinquant’anni queste vallate saranno teatro di continui scontri tra le armate musulmane e gli eserciti imperiali svevi. Tieni conto che nel 1208 Corleone diviene il centro propulsore di ribellioni contro gli Svevi. Nel gennaio del 1211 Federico II con un privilegio a favore della Chiesa di Monreale obbliga militi e baroni a mettere le loro armi a disposizione dell’Arcivescovado contro i Musulmani di Jato, Corleone, Calatrasi e delle rocche vicine: pena la confisca di tutti i beni. Tale privilegio viene reiterato nel giugno dello stesso anno a Messina. E’ attorno al 1220 che la situazione precipita. La situazione diventa insostenibile un po’ per tutti: per i Musulmani, da un lato, che non riescono più a reggere le continue angherie dei padroni latini e, dall’altro, per Federico II, per l’Imperatore, per la sua mentalità di monarca assoluto: si era venuto a trovare quasi uno Stato all’interno dello Stato.»

«Nel 1220, se non ricordo male, Federico II viene incoronato Imperatore a Roma.»

«Esatto! In quello stesso anno Federico II invia un esercito sotto il comando del grande ammiraglio Enrico di Malta. Ma Enrico di Malta riesce a risolvere ben poco tant’è che l’Imperatore si vede costretto ad intervenire personalmente.»

«Mi pare che uno dei motivi per cui Federico rinvia le crociate è legato alla permanenza dei Musulmani in questo territorio. O sbaglio?»

«Proprio così. E’ scritto nel Tarih Mansuri, una sorta di compendio di storia universale di parte araba, relativamente all’anno 1222:

 

quest’anno il Re e Imperatore Federico si partì dalla Germania ed entrò nell’Isola di Sicilia con duemila cavalli e sessantamila pedoni, ed assediò il kaìd Ibn Abbàd per otto mesi.»

 

«Che significa kaìd?»

«Kaìd, nel latino medievale gaytus, in arabo significa comandante. Siamo certi della presenza di Federico II, in quel 1222, all’assedio di Jato. Egli, infatti, dal 17 Luglio al 18 Agosto, invia almeno sette lettere di cui alcune data in castris in obsidione Jati, negli accampamenti durante l’assedio di Jato; altre data apud Jatum, nei pressi di Jato; altre ancora data ante Jatum, davanti a Jato, come riportato nella grandiosa opera di Huillard-Breholles, Historia diplomatica Friderici Secundi.

 

Allora - è sempre scritto nel Tarih Mansuri - alcuni compagni di Ibn Abbàd, alienandosi da lui, cercano di convincerlo ad arrendersi all’Imperatore. Ma Ibn Abbàd non cede. Successivamente, stanco e spossato per le continue veglie nella difesa della città, decide di arrendersi. Si presenta nella tenda di Federico II e riceve dall’Imperatore un calcio, con il piede armato di sprone, sicché gli lacera un fianco. Poi l’Imperatore lo fece rinchiudere in un’altra tenda. Al settimo giorno l’uccise, lo squartò, legò i figli alle code dei cavalli, s’impossessò di tutti i loro beni e s’insignorì di tutta la Sicilia.»

 

«E le ribellioni non cessano!»

«Ma quando mai!

 

Un congiunto di Ibn Abbàd, Marzùq, gioca un tiro mancino a Federico II. Gli fa sapere: Bada che io e alcuni miei compagni non riusciamo più a reggere il tuo assedio. Ormai Ibn Abbàd riposa in pace, non ci rimane altro signore che te. Mandaci tu un certo numero di tuoi cavalieri fidati ed intimi sicché noi, nottetempo, gli consegniamo la città. Federico II invia ben 115 suoi cavalieri fidati ed intimi. L’indomani l’Imperatore si presenta presso le mura della città pensando di vedere sventolare le sue bandiere e i suoi stendardi. Trova invece penzolanti le teste dei suoi 115 cavalieri. Vadan questi per Ibn Abbad, o nemico di Dio!, esclamò Marzùq.

 

L’episodio costituì argomento di storia popolare e di leggenda tant’è che oltre un secolo dopo i fatti, attorno al 1350, in una tarda compilazione geografica reperita recentemente in Spagna viene riportato lo stesso episodio. E come ogni storia popolare e leggenda anche questo episodio subì delle varianti che resero ancora più affascinante l’ostinata resistenza dei Musulmani agli Svevi. Stavolta il congiunto di Ibn Abbàd non è Marzùq ma la figlia di Ibn Abbàd, che Francesco Gabrieli definisce indomita eroina esperta nelle astuzie e nell’arte della guerra e la città assediata non è Jato ma Entella.»

«Come mai?»

«Non è improbabile uno scambio tra le due città, considerato che furono proprio Jato ed Entella le ultime due roccaforti musulmane di Sicilia o, cosa più attendibile, che a Jato si sia svolta la prima parte del dramma con Ibn Abbàd e che l’ultimo atto, con Marzùq, abbia avuto per teatro Entella. Solo un grande intelletto qual era Federico II, nel bene e nel male, poteva intuire che per risolvere il suo problema, per togliersi quella palla al piede dei Musulmani, doveva ricorrere all’extrema ratio: alla separazione, all’asportazione degli uomini dal proprio territorio. Ed è così che in quei primi anni venti del 1200 iniziano le grandi deportazioni federiciane verso Lucera di Puglia che, da quel momento, assumerà la denominazione di Luceria Saracinorum

«E sul numero dei deportati?»

«Sul numero dei deportati possiamo fare riferimento ad uno studio dell’Egidi, fatto nei primi anni di questo secolo, dal titolo La colonia saracena di Lucera e la sua completa distruzione: distruzione, meglio massacro, avvenuta nell’Agosto del 1300 ad opera degli Angioini i quali ritennero di fare un gran regalo al Papa in occasione del Giubileo del 1300. Contemporaneamente gli Angioini mutavano il nome della città denominandola Città di Santa Maria. L’Egidi calcola circa 20.000 deportati, mentre l’Amari sostiene che dovevano essere almeno 50-60.000. Ma in una cronaca araba relativa all’anno 1230 è scritto che in quell’anno un pellegrino degli Sceik, degli anziani di Gallo - quasi certamente Pizzo di Gallo, nell’attuale feudo di Calatalì presso Rocca d’Entella - si reca in Egitto presso al Malik al Kamil

«Chi era al Malik al Kamil?»

«Al Malik al Kamil era il Sultano d’Egitto che nella Crociata del 1228 era venuto a patti con Federico II cedendo, senza combattere, Gerusalemme. Patto che, per altro, aveva molto scandalizzato sia l’occidente cristiano che il mondo musulmano. Ebbene questo pellegrino pregava

 

al Malik al Kamil di intervenire presso Federico II affinché facesse ritornare in queste contrade i Musulmani deportati a Lucera. Perché l’Imbirur al Fardarik (l’Imperatore Federico) ingannò tutte queste popolazioni e ne deportò nella Gran Terra (in Puglia) ben 170.000 e altrettanti ne fece massacrare.»

 

«E non cessano le ribellioni!»

«Ma quando mai! Nel 1243 troviamo gli ultimi Musulmani di Sicilia, o come li definisce il Fazello le reliquie dei Saracini di Sicilia, aggrappati, arroccati su Monte Jato. Federico II invia il suo esercito imperiale sotto il comando del conte Riccardo o Ruberto di Caserta. La città riesce a resistere ancora per 3 anni e nel 1246 si arrende per fame. Gli ultimi suoi abitanti vengono deportati a Lucera e la città, onde evitare futuri pericoli, viene totalmente rasa al suolo.»

«E lei classifica questo episodio tra gli elementi caratterizzanti la popolazione o il territorio?»

«Secondo me il territorio: appunto perché ricco ed ospitale viene difeso strenuamente dai suoi abitanti. Vedi, Principe, i popoli possono anche alternarsi ma il territorio sempre lo stesso è. Dopo le deportazioni federiciane queste vallate sono rimaste per lungo tempo spopolate; ma ciò ha cambiato ben poco perché, come dimostrano i fatti successivi, sempre terre di ribellioni sono state. Dobbiamo anche aggiungere che queste vallate non sono mai state totalmente deserte perché altrimenti non spiegheresti la permanenza di tanti toponimi medievali sino ai nostri giorni. Possiamo anche affermare che, da almeno 2500 anni, il territorio è stato popolato senza soluzione di continuità perché il toponimo Jato è testimoniato nel corso del tempo: oggi da noi come nel V secolo a.C., ad esempio, dallo storico siracusano Filisto. Per confermare ulteriormente quanto asserito, almeno alla luce della documentazione storica pervenuta, possiamo ancora andare indietro nel tempo: al 100 a.C.»

«L'anno della fine della Seconda Guerra Servile.»

«Giusto. L’ultima battaglia tra gli eserciti romani e le armate degli schiavi sotto il comando di Atenione e Salvio viene combattuta a Makella, quasi certamente l’attuale Camporeale - detta anche Macellaro - a pochi chilometri da monte Jato. E a proposito di guerre servili voglio farti anche notare come il territorio possa, a volte, determinare le scelte dei popoli.»

«Come?»

«Confronta ad esempio le rivolte degli schiavi di Spartaco nel 73-71 a.C. e quelle degli schiavi di Sicilia: in due periodi quindi quasi coevi. Mentre le rivolte degli schiavi di Spartaco sono caratterizzate da un continuo peregrinare per tutto il Mezzogiorno d'Italia alla ricerca di opportune vie di fuga verso i propri paesi di origine, qui avviene l’esatto contrario. Qui si lotta per rimanere in questi territori: pensa agli schiavi che, sia nella Prima che nella Seconda Guerra Servile, avevano fondato addirittura due regni!»

«Spartaco era però un trace: è normale che cercasse di tornare nella propria terra!»

«Ma non è che qui vi fosse una situazione diversa: Euno, il capo degli schiavi nella Prima Guerra Servile, era un siro e Atenione, nella seconda, proveniva dalla Cilicia. Possiamo concludere quest'ultima parte con le parole di Giorgio La Corte

«Chi era?»

«Uno studioso di topografia storica di questo territorio della fine del 1800 purtroppo quasi sconosciuto. Scriveva La Corte:

 

L’operoso colono continuerà a salire su questo monte; continuerà a coltivare le zolle, mirando le sottostanti fertili pianure. Ma il Monte Jato, non gli dirà mai che qui furono delle forti e popolose città, e che queste pianure e queste contrade sono state bagnate dal sudore e dal pianto di lunghe file di schiavi incatenati e dal sangue di migliaia di combattenti.»

 

«In conclusione?»

«Questo è un territorio dove i più indifesi - a prescindere dal colore della pelle, dal credo politico o dalla fede religiosa - hanno costituito nel tempo un'omogenea classe sociale: quella degli oppressi. E’ un territorio dove gli oppressori hanno sempre avuto il volto del potere costituito. Potere ora esercitato direttamente attraverso gli organi preposti ora attraverso quelli delegati: e qui negli ultimi ottant’anni tale delega è stata affidata alla mafia. E' un territorio dove il contrasto tra oppressi e oppressori si è sempre risolto in maniera violenta e, molto spesso, cruenta. I motivi probabilmente vanno ricercati tra le peculiarità del territorio stesso e nella presenza, nel corso del tempo, di tanti popoli diversi. Ma, su questi temi, occorrerebbero studi molto approfonditi, occorrerebbero i Lévi-Strauss e gli Hobsbwaun del caso. Possiamo allora provare a spiegarci Portella della Ginestra che costituisce, indubbiamente, l’epilogo di lunghe lotte passate e il riferimento per tante battaglie combattute sino ai nostri giorni. Perché la strage proprio qui: tra San Giuseppe Jato e Piana degli Albanesi? Proprio perché i segnali di intimidazione, caro Principe, si danno dove più incisivo può essere l'effetto; dove più veemente si manifesta l’opposizione all’azione di violenza che il potere, sotto lo scudo di un qualsiasi credo politico, ha sempre utilizzato come strumento per l’accaparramento dei beni e per l’arricchimento. Questo è sicuramente uno dei motivi, non il solo, per cui la mafia, a San Giuseppe Jato e San Cipirello, è diventata tanto importante rispetto ad altri luoghi della Sicilia. Per la mafia del luogo è stato sempre come combattere in prima linea. E solo chi combatte in prima linea, caro Principe, ha più possibilità di guadagnarsi le medaglie. D’oro naturalmente.

E ora devo andare a riposare.»

«Un ultimo sforzo, zio santo! L'etimologia del termine mafia o maffia. Me lo aveva promesso, no?»

«Ah! Sì! Dì un po': cos'erano i maffi ai tuoi tempi?»

«Erano quegli elementi che servivano ad ornare i cavalli: strisce di cuoio, specchietti, piume ecc.»

«Bene! Abbiamo una corrispondenza con la definizione fornita dal Traina nel suo Vocabolario Siciliano-Italiano del 1868. Scrive il Traina:

 

Maffi s.m.pl. Strisce di pelle che dalla groppiera del fornimento dei cavalli, scendono pei fianchi e tengono alte le tirelle: reggitirelle.

 

Ebbene, nel dialetto siciliano, come diventa un cavallo bardato e ornato con maffi

«Maffiusu

«Quindi maffiusu non è altro che l'aggettivo derivato dal sostantivo, difettivo del singolare come scrive il Traina, maffi. Ti accorgi allora che alcune delle qualità e delle peculiarità attribuite al cavallo bardato e ornato quali bellezza, baldanza, accuratezza nei finimenti sono le stesse che i vari Pitrè, Traina, Nicastro riportano per definire quelli che, per accostamento o, se preferisci, in maniera metaforica, erano stati chiamati maffiusi. Un'ulteriore conferma la troviamo nel Dizionario Siciliano-Italiano di Vincenzo Nicotra del 1883, laddove tra i significati di mafiusu ne riporta uno legato al cavallo ossia mafiusu = bàrbero (cavallo da corsa, originario della Barberia). Diventa allora spiegabile sia la posizione del Traina che definisce il termine mafia un neologismo sia quella del Mortillaro che definisce lo stesso termine una voce importata dai piemontesi: appunto perché esistevano i maffiusi o mafiusi ma non il termine mafia o maffia. Infine, attraverso i documenti che abbiamo consultato, ti sarai pure reso conto che mafia e maffia sono esattamente la stessa cosa. Nostra.»

 

 

 

 

 

 

 


 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Gioacchino Nania è nato a San Cipirello (Pa) nel 1944. E' componente della Pro-Jato (*). E' stato consigliere comunale di San Cipirello per 15 anni sino al 1988. Ha pubblicato Toponomastica e topografia storica nelle valli del Belice e dello Jato, Barbaro Editore, 1995.  E' autore degli studi: Calcolo della popolazione nelle città demaniali della Sicilia Occidentale alla vigilia del Vespro, Le antiche strade in Sicilia sino alle Trazzere Regie, La valle dello Jato - terra di lotte e di ribellioni - dalla Seconda Guerra Servile a Portella della Ginestra e, assieme al prof. Giuseppe Schirò, della monografia Storia della vitivinicultura nell'Area del Monrealese. Ha collaborato con la rivista Kaleghé.

E' anche ingegnere, esperto in informatica e calcoli in zona sismica. Ha insegnato tecnologia meccanica, disegno tecnico e CAD. Ha realizzato i programmi per la gestione degli archivi storici di Cefalù, Castelbuono, Partinico, San Giuseppe Jato, Giuliana, Chiusa Sclafani, Monreale. Per quest'ultimo, primo e sinora unico in Italia, ha  realizzato un sito su Internet con possibilità di ricerche on line e servizio di consegna documenti scannerizzati attraverso e-mail.

E' stato collaudatore del Sistema Acquedottistico "Ancipa", mai collaudato, e consigliere di amministrazione del "Consorzio per il disinquinamento dell'Area del Partinicese": consorzio che, per fortuna di tutti, non ha mai realizzato nulla. E' stato funzionario presso la Ripartizione Urbanistica del Comune di Palermo per un breve periodo: il tempo strettamente necessario per capire, correva l'anno 1981, che si rischiava la pelle o, a seconda delle personali attitudini, la galera.

 

 

Marcelle Padovani. Scrittrice. Giornalista de Le Nouvel Observateur. Presidente dell'Associazione Stampa Estera. Ha pubblicato La longue marche: le Parti communiste italien, Vivre avec le terrorisme: le modàele italien, con Leonardo Sciascia, La Sicilia come metafora (Ed. Mondadori) e, con Giovanni Falcone, Cose di Cosa Nostra (Ed. Rizzoli).

 

(*) Pro-loco tra i comuni di San Giuseppe Jato e San Cipirello



[1] "Le Nouvel Observateur" - Gennaio 1999

[2] Giuseppe Barone, Egemonie urbane e potere locale (1882 – 1913) in “Le regioni dall’unità ad oggi: la Sicilia”, pag. 218 – Giulio Einaudi Editore – 1987.

[3] (continuazione):

Lauricella Giuseppe, nato Palermo l’11.11.1929, strangolato a Palermo il 30.11.1982;

Gambino Francesco, nato Palermo il 10.6.1933, strangolato a Palermo il 30.11.1982;

Cosenza Salvatore, nato Palermo il 12.9.1947 strangolato a Palermo il 30.11.1982;

Lauricella Salvatore, nato a Palermo il 16.7.1956, strangolato in Palermo il 30.11.1982;

Filiano Giovanni, nato Palermo 14.06.1927 ucciso da arma da fuoco 30.11.1982;

Cannella Domenico, nato Palermo 15.03.1966 ucciso da arma da fuoco 30.11.1982;

Misseri Salvatore, nato Palermo 16.10.36, ucciso da arma da fuoco 30.11.1982;

Neri Salvatore, nato Palermo 15.9.1946, ucciso da arma da fuoco 30.11.1982;

Bova Domenico, nato Palermo 25.1.1912, ucciso da arma da fuoco il 2.12.1982;

Minore Antonio Salvatore, 16.11.1927 strangolato in Palermo 10 giorni prima del 30.11.1982

Miceli Nicolò, nato Buseto 26.08.1928 strangolato in Palermo 10 giorni prima del 30.11.1982, unitamente a Minore Antonio

Buccellato Martino, 18.03.1958, strangolato in Palermo 10 giorni prima del 30.11.1982

Puccio Pietro, nato a Palermo 6.7.1953, ucciso da arma da fuoco 11.5.1989

Tentati omicidi (arma da fuoco)

Saviano Giovanni, nato Palermo 29.10.1960 – «bar TWO» - Palermo 30.11.1982;

Micalizzi Michele, nato Palermo 11.10.1949- «bar TWO» Palermo 30.11.1982

Ammannato Antonio, nato a Palermo il 19.9.1909, Palermo 28.12.1982

[4]L’eliminazione di Rosario Riccobono e Salvatore Scaglione (30.11.82) rappresenta l’ultima fase di una operazione iniziata quasi 2 anni prima con l’eliminazione di Bontade Stefano (23.4.1981) (Riina tramite Montalto Salvatore, Angelo La Barbera e Salvatore Buscemi era venuto a conoscenza del progetto relativo alla sua eliminazione. Furono risparmiati all’inizio in quanto avevano tentato di avvicinarsi ai corleonesi i quali, intuendo che comunque i soggetti prima di essere eliminati potevano servire alla causa, (furono tranquillizzati ed a loro fu anche dato l’incarico di eliminare uomini d’onore a loro fedeli (vedi richiesta di «scarpa» circa l’eliminazione di D'Agostino Emanuele ) o alcuni «scappati « tra i quali Giovannello Greco, Spica, Spitaleri, lo stesso Badalamenti, alcuni Gallina di Carini) inizialmente li risparmiarono anche per far credere loro che nel progetto del Bontade loro avevano avuto un ruolo marginale per cui non dovevano temere vendette. Scaglione venne contattato in data 30.11.80 nel cantiere Idealverde dall’ Anzelmo F.Paolo, combinato uomo d'onore. Nel luglio 1980, con la scusa che il prof. Di Miceli, voleva incontrarsi con lui, Ganci Raffaele, dopo tale incontro, fissa un appuntamento a Scaglione in via Lancia di Brolo (nella macelleria di Ganci) alla presenza anche di Franco Spina (ha una macelleria poco distante) per recarsi successivamente in c.da Dammusi, ove pretestuosamente era stata convocata una riunione della commissione che si sarebbe conclusa con una «mangiata» (dove nel frattempo Gambino Giacomo Giuseppe aveva condotto Riccobono Rosario, Micalizzi Salvatore, Cannella Vincenzo e Savoca Carlo) ed ordina ai picciotti di farsi vedere, per far sì che la situazione appaia normale. Giorni prima i vertici della famiglia di San Lorenzo (Buffa Salvatore «nerone», Troia Mario , Buffa Giuseppe, Gambino Giacomo Giuseppe, danno ordine a Ferrante G. Battista, Biondino Salvatore, Biondo «il lungo» e Biondino Salvatore «il corto», di rimanere a disposizione (rimangono per 2 giorni o nel baglio presso la Sigros di proprietà del Biondo o a casa di Buffa Salvatore nei pressi dell’ex Convitto di San Lorenzo) in attesa dell’operazione. Analogo ordine, lo stesso giorno dell’esecuzione, viene impartito da Ganci Raffaele a Guglielmini Giuseppe. Dopo l’eliminazione del Riccobono venne sciolta la famiglia di Partanna e San Lorenzo e successivamente venne creato il mandamento di San Lorenzo con a capo prima per un anno Buffa Salvatore e poi Gambino G. Giuseppe. la famiglia di Partanna venne retta da Porcelli Antonio e Civiletti Giuseppe. Altro ordine del Ganci è quello di prendere vivo Totò Messeri appena lui si allontana con lo Scaglione. Il Lo Piccolo Salvatore, attesa la sua vicinanza con Riccobono temeva di essere eliminato, ma venne risparmiato perché si sapeva che non si sarebbe ribellato. Il movente è da ricercarsi in una «cristallizzata» avversità, nutrita dalla famiglia della Noce contro il proprio capo (Scaglione), (Ganci Raffaele sottocapo della famiglia della Noce non gradiva il fatto che lo Scaglione (il quale a sua volta, a ragione, non si fidava dei suoi sottoposti), non si era schierato con i corleonesi, alimentata dallo stesso Riina che ormai contava sulla assoluta fedeltà di uomini d’onore della medesima (i Ganci, gli Spina e gli Anzelmo). I quatto cadaveri, a cui dopo si aggiunse quello dello Scaglione, furono messi in 2 bidoni con acido nel vicino torrente. Si dovette inoltre procedere all’acquisto di altro acido perché la bassa temperatura del torrente rallentava l’opera di corrosione. Mandanti: Farinella Giuseppe; Greco Michele; Calò Giuseppe; Madonia Francesco; Bono Giuseppe; Geraci Antonino; Rotolo Antonino; Provenzano Bernardo; Riina Salvatore; Brusca Bernardo; Motisi Matteo. Esecutori: Anzelmo F. Paolo; Ganci Calogero; Ganci Domenico; Spina Giuseppe; Spina Francesco; Brusca Giovanni; Genovese Giovanni; Maniscalco Giuseppe; Brusca Mariuccio; Brusca Giuseppe; Brusca Giovanni; Brusca Vito; Genovese Salvatore; Nania Filippo; Bommarito Bernardo; Agrigento Giuseppe; Agrigento Gregorio; Madonia Antonino; Di Maggio Baldassare; Motisi Matteo; Motisi Giovanni; Ganci Raffaele; Buffa Salvatore; Buffa Giuseppe; Troia Mariano Tullio; Porcelli Antonino. Deceduti: Intile Francesco; Gambino Giacomo Giuseppe; Greco Giuseppe; Geraci Antonino; Lazio Salvatore, Civiletti Giuseppe.

 

 

[5] Archivio del Comune di San Giuseppe Jato:

"Comune di San Giuseppe Jato - Deliberazione del Consiglio Comunale n. 38 del 10 maggio 1924. Presiede la seduta il sindaco Termini cav. Santo. L'ordine del giorno reca: conferimento della cittadinanza onoraria a S.E. Benito Mussolini. Il presidente riferisce che il grande fenomeno della nostra rigenerazione, la prodigiosa trasformazione dello spirito nazionale, abbrutito dal veleno bolscevico, devesi al grande italiano Benito Mussolini, che con la forza del suo genio e con la fermezza del suo carattere, ha ridato alla Nazione la dignità di grande potenza. Questo genio d'Italia è venuto nella nostra Sicilia per constatare de visu, gl'impellenti bisogni di questo popolo, e per escogitare i mezzi necessari per renderlo prospero. Sarà Benito Mussolini che darà a questa nostra terra gloriosa, ma sempre negletta, quei benefici da tempo invano richiesti. Interprete dell'unanime sentimento di questa popolazione, affermatosi col voto nelle recenti elezioni politiche, propone di conferire la cittadinanza onoraria a Benito Mussolini. Il Consiglio, sentita l'esposizione del Presidente; riconoscendo in S.E. Benito Mussolini la ferrea volontà di realizzare il suo programma, informato ai sentimenti di giustizia, di benessere e di patriottismo, a voti unanimi, plaudendo all'opera del Capo del Governo, in segno di gratitudine gli conferisce la cittadinanza onoraria di questo Comune."

[6] Dall'intervista di Alessandra Longo a Claudio Martelli in http://www.abramo.it/ service/rassegna/ARTICOLI.HTM/ UNITA/97100603.HTM

"Più o meno un anno fa, quando Brusca fu arrestato e cominciò quell'inquietante tentativo di mettere di mezzo Violante (il braccio destro di Riina aveva viaggiato casualmente in aereo con il presidente della Camera, ndr), io raccontai a Canale 5 del primo attentato organizzato contro di me. Citai i mafiosi di Alcamo, trovati nei pressi della mia casa. Entrambi lavoravano alla Cornacchiola, la villa di Vito Ganci, allora avvocato di Brusca. Ecco, credo di essere diventato uno dei bersagli di Brusca in quel momento. Lui si era guardato bene dal rivelare il legame tra quei due e il suo avvocato. Io l'ho smascherato in televisione".

[7] Dalla biografia di Claudio Martelli in http://www.claudiomartelli.com/files/biogra.htm "… Nel 1976 lascia l'università quando Craxi, divenuto segretario del PSI, lo chiama all'impegno di Partito a Roma. Deputato del collegio di Mantova e Cremona, eletto parlamentare europeo nel collegio dell'Italia centrale, ricopre per quasi un decennio la responsabilità della cultura, dell'informazione e dello spettacolo. Nel 1981, con il Congresso di Palermo, divento vice segretario del PSI. Dal 1984, all'indomani del Congresso di Verona, è Vice Segretario unico del Partito. Eletto al Parlamento per la terza volta nel 1987 (N.d.A: manca la circoscrizione elettorale). Vice Presidente del Consiglio dei Ministri nel Governo Andreotti dal luglio 1989. Dal febbraio 1991 è anche Ministro di Grazia e Giustizia…"

 

[8] Giuseppe Casarrubea - Portella della Ginestra, microstoria di una strage - Franco Angeli Storia -1997 - pag. 49: Il più enigmatico è Pasquale Sciortino, inteso Pino, originario di San Cipirello, dove era nato il 10 ottobre 1923. E' lui il vero tramite tra la banda e il mondo esterno, a cominciare da quello politico. Del resto è un acculturato, e con una esperienza bellica alle spalle. Appartenente ad una famiglia agiata, aveva frequentato il ginnasio all'istituto San Rocco di Palermo e, scoppiata la guerra, si era arruolato volontario, combattendo contro i tedeschi, dopo l'8 settembre. Da Roma - Monte Mario, dove si trovava con i suoi compagni, era stato trasferito alla Cecchignola, dove era avvenuto uno scontro con i tedeschi. Reclutato nella divisione Ariete, fu capocarro del gruppo autoblindo, quindi inquadrato con alcuni reparti di fanteria. Lo troviamo a Tivoli, dove viene fatto prigioniero e consegnato ai tedeschi. Riuscito a fuggire, si reca ad Alatri, in provincia di Frosinone, dove si unisce a gruppi di partigiani, e avvia più fattivamente il suo rapporto con la lotta di liberazione. In Toscana entra nella divisione 'Garibaldi' del monte Amiata e, dopo la ritirata dei tedeschi, raggiunge Roma, per recarsi in Sicilia, nel 1944, dopo la liberazione di Massa Marittima e Massa Carrara. Qui, come partigiano, era stato incorporato militarmente, agli ordini del capitano Rulli. A Palermo studia per conseguire il diploma di ragioniere, e ogni settimana si reca presso le tenute del nonno materno Antonio Micciché, che aveva allevamenti di bestiame e diverse estensioni di terreno (65 ettari di vigneto, 150 bovini, 700 ovini), aiutandolo nell'amministrazione dell'azienda agricola e zootecnica. E attraverso quest'ultimo, intimo amico del barone Stefano La Motta e di Guglielmo Paternò, duca di Carcaci, entra nel movimento separatista. Frequenta la casa del La Motta e conosce l'avv. Sirio Rossi e il governatore del Governo alleato Charles Poletti. Incontra, nel settembre del 1945, per la prima volta, Salvatore Giuliano, nell'ormai nota riunione di Ponte Sagana. Diventa, quindi, un attivo propagandista dell'indipendentismo, presidente della sezione separatista di San Cipirello e segretario del La Motta, venendo a conoscenza di ogni circostanza sulla parte militare dell'EVIS. Avvenuta la scissione, tra la fine del '46 e i primi del '47, tra l'ala monarchico-liberale facente capo ad Andrea Finocchiaro Aprile e quella repubblicano-socialista di Antonino Varvaro, aderisce alla prima, sostenendola sino alle elezioni del 20 aprile 1947. Dopo gli attentati del 22 giugno di quest'anno riceve, per posta, a casa sua, dei documenti falsi con tutte le istruzioni di cosa deve fare, si imbarca per Napoli (14 agosto 1947) e, da qui, per Genova da dove con la motonave Vulcania, parte per l'America. Intanto cambia nome con quello di Antonio Venza. Lo troviamo a Saint Louis, nel Missouri, con Vito Prospero, parente di suo padre. Poi a Grand Lakes, redattore di una stazione radio. Ma la cosa non funziona. Trova lavoro presso la Bendix Company e la White Company. Si reca quindi nell'Indiana, a Saint Bey, dopo aver assunto il nome di Francesco Di Catalano e si arruola nella guardia nazionale. In ultimo è nel Texas, a Which da Port, dove viene intercettato dall'FBI e arrestato il 31 agosto 1952, quattro mesi dopo la sua condanna all'ergastolo.

[9] In G.Casarrubea – Portella… - pag. 295: Cusimano Rosario di Angelo e Anna Guzzetta di anni 12 compiuti, da San Giuseppe Jato, abitante in via Porta Palermo, il quale, come rilevasi dall'annesso verbale n.2, dichiarò che la mattina del 1° maggio 1947, si era recato alla festa insieme con la madre, alle sorelle e altri ragazzi suoi vicini di casa. Ascoltava il discorso e batteva le mani, quando sentì sparare. Credette che si trattasse di fuochi artificiali, ma quando vide che cascavano ferite le bestie e la gente scappava, egli si nascose dietro un masso. Quando il fuoco cessò e la gente si era allontanata egli andò in cerca dei propri congiunti e non avendoli trovati si avviò verso le case della Ginestra per prendere lo stradale che conduce a San Giuseppe Jato. Ad un certo punto vide tre individui armati, che passarono a poca distanza da lui, inosservato, alla stessa distanza, cioè, che intercorre tra il Municipio e la Caserma dei Carabinieri di San Giuseppe Jato (circa 50 metri). Perciò li riconobbe tutti e tre. Essi erano: Pippino Troia, Totò Romano e Marinotto Elia. Indossavano, tutti, vestiti vecchi ed erano armati: i primi due con fucili mitragliatori, dalle canne con buchi (cu i pirtusidda); ed il terzo con fucili a due canne, da caccia. Quest'ultimo, inoltre, calzava scarpe gialle, all'americana. Li seguì con lo sguardo sino al ponte grande, finché tracuddarono - sparirono. Il Cusimano soggiunse che quando fu a casa, disse alla madre quello che aveva visto ed essa gli raccomandò: Non si parla, eh! Si sente ma non si parla.

[10] - il giorno 21 aprile u.s., appena si seppe che nelle elezioni il Blocco del Popolo aveva ottenuta la maggioranza, l'ex Tenente dei Carabinieri sig. Di Leonardo Pasquale[10] di Carlo da San Cipirello, incontrato il Sindaco di San Cipirello sig. Sciortino Pasquale, lo chiamò e, in presenza del Maresciallo Comandante la Stazione dei Carabinieri del luogo, gli disse: Se avete da fare manifestazioni di giubilo, bisogna evitarle se no succede danno!

- In un pubblico comizio tenuto a San Cipirello, il capo della mafia locale, Celeste Salvatore[10] fu Pietro, volle parlare in pubblico. Fra l'altro disse: Una vittoria del Blocco del Popolo sarà tanti fossi che si scaveranno i comunisti e tanto sangue sarà sparso. I figli non troveranno il padre e la madre perché conoscete chi sono io. Il Celeste ricercato si è reso irreperibile.

- La sera del 20 aprile 1947, a dire del Sindaco di San Cipirello, si era sparsa la voce che in casa di Gioacchino Capra era stata preparata una mitragliatrice per il popolo se questo fosse sceso in piazza; e che i mafiosi erano pronti ad attaccare il popolo. Però non successe nulla.

- Infine il Sindaco suddetto ha esibito una lettera anonima, da lui ricevuta per posta, nella quale vengono indicati come assassini (del fatto) del primo maggio: Scioiano Calogero, Mustacchia Salvatore, Lo Greco Damiano e Cangelosi Antonino; però Scioiano e Mustacchia si sarebbero sottratti con una calunia, una scusa, mentre Cangelosi e Lo Greco avrebbero partecipato all'attacco. Nell'anonimo si dice infine: …satti guardare perché il Maresciallo del vostro paese era pure complice. Salute di un tuo amico.

- La signora Baio Maria, maritata Cuccia, nata a Piana dei Greci ma domiciliata a San Giuseppe Jato, dichiara - veggasi allegato n.10 - che la mattina del primo maggio, la vicina di casa, Partelli Antonia, vedova, ma che non disdegna i rapporti con gli uomini, diceva: Vanno a Portella, ma non sanno che lì ci stanno gli americani che devono buttare le caramelle!. La Baio di rimando: Botta di sangue in bocca, che andate dicendo?. Allora quella riprese: Io lo dico per ischerzo, ma sapete che a Palermo ci stanno i soldati americani?

[11] Giornale di Sicilia del 23.10.1998

[12] ASP - Fondo Tribunale Penale - Busta 3198 - pag. 656

[13] Gaetano Falzone – Storia della mafia – pag. 226 - Flaccovio Editore - Palermo: Questa nemesi che a stillicidio presiedeva al fatale scambio di poteri tra i mafiosi aveva, attorno al 1910, conosciuto un momento di efferatezza particolare in alcune zone, come ad esempio quella di Monreale. I custodi dei giardini di agrumi di quella parte della Conca d’Oro erano riusciti ad assicurarsi un forte grado di impunità a motivo della protezione loro accordata da troppi uomini politici (figura caratteristica, ne era l'on. Rocco Balsano compare di don Vittorio Calò); nonché sicuri e pingui redditi economici, essendo fino a quel momento riusciti a mantenere disciplina ed unità nei ranghi. L’avvento di un uomo spregiudicato e sanguinario come don Vittorio Calò, riconosciuto come capo della consorteria degli stuppagghiari, venne ad un certo momento a segnare la loro fine. Definiti sprezzantemente scurmi fitusi dalla nuova mafia, i vecchi giardinieri da allora cominciarono a cadere trucidati senza riguardo alcuno. Era sufficiente portare un certo sospetto cognome per diventare, compresi i fanciulli, candidati a morire senza appello. Caratteristica degli stuppagghiari era altresì il disprezzo e la derisione per ogni autorità di sangue, di censo e di politica cui i vecchi si erano sempre appoggiati. I nuovi mafiosi lanciati alla conquista della loro frontiera di benessere facevano assegnamento esclusivamente sulla bontà della loro carrubbina stuccata (fucile a canne mozze).

[14] ASDM - Fondo Governo Ordinario – Sezione IX , Busta , ( 22.luglio.1827, lettera dell'arciprete Tommaso Aiello all'Arcivescovo di Monreale): "Monsignore, è alla mia cognizione che S.E. Sig.re Principe di Camporeale di felice ricordanza nella fondazione di questa Comune a spese proprie fabbricò le case collaterali a questa Chiesa Madre formandole a mezzo circolo coll’idea di essere piano di detta Chiesa, quale idea la pigliò dal Vaticano di Roma, quali case poi dandole a censo, si dice averle concesse coll’espressa condizione di non aprirsi porte nel piano di detta Chiesa…","…Nel 1792, eletto alla cura delle anime il degno sac. don Ignazio Genovese da Chiusa al quale il Marchese assegnò la casa parrocchiale, ed essendo accresciuto il numero dei fedeli, animando il popolo fece fabbricare una nuova Madrice mediante l’elemosine e fatiga del popolo e onze 400 che approntò il sig. Marchese e che volle essere presente alla benedizione della prima pietra col mettervi un diamante…"

[15] G. Scarpace: Da Jato antica a San Cipirello - pag. 221:"… Notevoli le sue ricerche su una nuova terapia del tifo e della brucellosi. Professore di Clinica Pediatrica all'Università di Roma. Professore straordinario di ricerche mediche presso l'Università di California. Dal 1945 al 1948 Rettore dell'Università di Roma. Autore di un Trattato delle Malattie Infettive. Medaglia d'oro di benemerito della Cultura. Membro dell'Accademia Pontificia delle Scienze (Nuovi Lincei). Socio onorario della Società di Pediatria di Madrid. Presidente della Società Italiana di Pediatria. Uomo politico. Partigiano. Deputato alla Costituente e al Parlamento nel gruppo D.C.

[16] G. Scarpace: Da Jato antica a San Cipirello - pag. 210: "…Attuò un audace e vasto piano di lottizzazione, talché quasi tutti i contadini locali ebbero i loro poderi che, migliorati nelle colture, costituirono poi il nerbo principale della economia ginosina…Riservatasi per la conduzione diretta una parte del predetto terreno, vi creò una azienda modello a cultura intensiva dove si pratica largamente l'olivicoltura, la tabacchicultura…Per la razionalità delle culture e per l'alto rendimento della produzione, all'azienda medesima sono stati conferiti il Primo Premio Nazionale per l'Olivicultura e un Premio per la Produzione Agricola. Anche in quel di Caronia (Messina) Antonino Castro ha creato una rispettabile azienda silvo-pastorale attualmente in pieno sviluppo di trasformazione. Altri intraprendenti agricoltori, sancipirellesi di origine, che pure nelle Puglie si sono stabilmente trasferiti, hanno saputo creare complessi aziendali a conduzione diretta, sono i fratelli Domenico, Santo e Giovanni Pardo. Anch'essi, già facenti parte del gruppo Castro per la vasta tenuta della Regina di Spagna, in quel di Puglia, riservarono per loro parecchie centinaia di ettare di terreno ricadenti negli agri di Ginosa e Montescaglioso che sottoposero subito a bonifica, mediante opere di canalizzazione e conseguenti impianti irrigui."

[17] ASP - Fondo Tribunale Penale - Busta 3198 f. 149 - Dichiarazione ai Reali Carabinieri di Pardo Vincenzo al momento dell'arresto in Toscana: "Sono giunto a Siena il 23.3. c.a. (1926) per attendere mio cugino Calogero avv. Leone, il comm. Cascio Vincenzo e Castro Antonino fu Calogero per stipulare contratti di acquisto di terreno. Acquistammo la tenuta di Cozzano (Volterra) il 3 aprile c.a. per 2 milioni di lire italiane e definimmo il compromesso per la tenuta dell'ing. Partini sita a Ponte a Tressa (Siena) quasi contemporaneamente al precedente contratto per la somma di lire italiane 3 milioni e ottocentomila." I fratelli venivano successivamente arrestati a Parigi. L'avv. Calogero Leone nato a San Cipirello il 16.02.1873 giustificava la sua presenza in Toscana al f. 148: "…la mia gita a Siena aveva per scopo l'acquisto di un terreno o meglio di una tenuta di Camigliano (Montalcino) di proprietà del sig. Polliani, ma per informazioni avute dal Monte dei Paschi non ho concluso l'affare. Conosco i fratelli Pardo Domenico, Vincenzo, Santo e Giovanni e Leone Francesco fu Francesco Paolo i quali mi hanno raggiunto a Siena il 31 marzo per comprare terreno. Ai primi di aprile c.a. acquistai in società col commendatore Cascio Vincenzo domiciliato a Palermo in via Roma la tenuta Isola d'Arbia dell'ing. Partini di Siena per l'ammontare di lire italiane due milioni."

[18] G. Scarpace: Da Jato antica a San Cipirello - pag. 219 : "…Sono stabilimenti per la produzione di conserve alimentari (Palermo), per la produzione di derivati di agrumi (olii essenziali e succhi - Bagheria), fabbrica di spirito (Bagheria), oleifici (Bagheria) e che aveva occupato nel campo degli industriali palermitani una posizione di primo piano rivestendo le più importanti cariche di categoria e godendo della massima considerazione anche nel campo bancario."

[19] G. Scarpace: Da Jato antica a San Cipirello - pag. 216: "…estendeva la sua sfera d'azione a tutta la Sicilia istituendo in quasi tutti i centri dell'Isola apposite Agenzie. Qualche contratto si ebbe anche dalle Calabrie e dalla Sardegna. Volse quindi la sua attività anche nel campo dei crediti a breve scadenza concessi agli agricoltori sia locali che dei comuni finitimi, contribuendo così, efficacemente, ad estirpare la mala pianta dell'usura. Il capitale iniziale della società, di appena lire 4800 andò fortemente incrementandosi con la continua emissione di azioni e con l'aumento dei soci che annualmente godevano di dividendi tali da fare ritenere ottimo l'investimento. Ventisei anni durò l'attività del sodalizio essendo entrato in liquidazione nel 1934, dopo avere ritenuta ultimata la sua missione civilizzatrice (N.d.A: !!!)"

[20] in S. Lupo - op. cit. - pag. 392 n. 9: Relazione del prefetto Barbieri del 1° agosto 1925, in ACS, PS, AAGGRR, 1925, b. 78

[21] Giuseppe Barone, Egemonie urbane e potere locale (1882 – 1913) in “Le regioni dall’unità ad oggi: la Sicilia”, pag. 218 – Giulio Einaudi Editore – 1987.

"Nel dicembre 1902 la giunta comunale aveva dovuto decretare d'urgenza il calmiere sui generi di prima necessità, specialmente per combattere la speculazione sul mercato delle farine monopolizzato dall'industriale Filippo Pecoraino Proprietario di grandi mulini a vapore, accusato di essersi arricchito col contrabbando dei grani e con false operazioni di sdoganamento dei cereali, Pecoraino guidò la riscossa di mugnai e panettieri impugnando per via giudiziaria il provvedimento e sospendendo la produzione di farina in città, 'per fare mancare il pane - scrisse il sindaco Tasca Lanza - e sollevare contro di noi la popolazione. Era un piano d'assedio attuato in piena regola: si voleva la nostra resa a discrezione…quasi per fame.' Per sbloccare la crisi degli approvvigionamenti, nella seduta del 3 giugno 1903 il consiglio comunale approvò in via sperimentale di gestire direttamente l'industria molitoria mediante l'affitto di un mulino privato ed avviando la panificazione municipale in due stabilimenti, uno annesso allo stesso mulino, l'altro in un vecchio fabbricato ai Cappuccini. Con una produzione giornaliera di 2000 quintali di pane e 500 di farine, si ottenne un immediato ribasso dei prezzi, che fece di Palermo la città con il pane meno caro d'Italia, mentre la magistratura infliggeva multe pesanti agli industriali. Nell'autunno 1905 Garibaldi Bosco propose la costruzione di un grande mulino con annessi panifici e pastifici per attuare la gestione pubblica dell'attività molitoria; il 3 dicembre il referendum per la municipalizzazione ottenne 8708 voti a favore e solo 1086 contrari…"

[22] Dalla dichiarazione di Matteo e Vincenzo Accardi del 6.11.1926 al Giudice Triolo – ASP - Fondo Tribunale Penale - Busta 3198, f. 605.

[23] Archivio Comunale di San Giuseppe Jato. Sezione VIII - Corrispondenza -

"R. Prefettura di Palermo - Gabinetto - prot. N. 1380 - al signor Sindaco di San Giuseppe Jato - Oggetto: Proposta di ricompensa. Il signor Comandante di codesta Tenenza dei Reali Carabinieri nel riferire circa il mancato omicidio del sordomuto Provenzano Nicolò fu Vincenzo avvenuto il 13 corrente in codesta contrada Traversa ad opera dei fratelli Lo Monaco Francesco e Alfonso, mi segnala l'azione coraggiosa spiegata nella circostanza dal possidente Licari Salvatore di Rosario, il quale, avendo assistito al fatto delittuoso, fermò i due Lo Monaco e li costrinse a seguirlo alla caserma dei RR.CC., in vicinanza della quale li consegnò a due guardie campestri. Per la condotta esemplare tenuta dal Licari nell'interesse della Giustizia, prego la S.V. di tributargli a mio nome vive parole di elogio che servano a lui di incoraggiamento ed alle persone oneste di sprone ad imitarlo. Il Prefetto: MORI"

[24] ASP - Fondo Tribunale Penale - Busta 3105. "Processo a Calogero Termini e c.". La busta contiene gli atti del processo relativo all'appalto dell'acquedotto della Chiusa a San Giuseppe Jato dove, da dichiarazioni successive, si acclarava che la tangente sui lavori a base d'asta ammontava al 22.5%

[25] Si tratta di una lettera anonima indirizzata a Giudice Istruttore Avv. Comm. Triolo. Il timbro postale riporta: '11.11.1926 - Palermo ferrovia. La busta risulta mutila probabilmente per l'asportazione dei francobolli. Stranamente nella parte posteriore riesce ancora a leggersi: Emilio - Corso Alberto Amedeo 24 - Palermo

[26] Oltre ad essere segretario politico il comm. Andrea Scarcella era anche consigliere delegato del giornale 'Sicilia Nuova'

[27] 24.05.1926 - f. 172: Todaro Vito fu Giuseppe (di anni 50); Mustacchia Ignazio di Bartolomeo (34); Croce Francesco di Giuseppe (28); Musunserra Giuseppe di Salvatore (31); Todaro Giuseppe di Vincenzo (27) Leone Francesco fu Francesco Paolo (48); Pardo Santo di Francesco (36); Pardo Domenico di Francesco (39); Pardo Giovanni di Francesco (36); Rizzo Salvatore di Antonino.

[28] Era un modo di dire per indicare gli organizzatori di delitti nel senso di: preparare i colpi a tavolino.

[29] E' l'unico Brusca che si incontra negli atti del faldone n. 3198. Sarà interrogato come testimone a discolpa e dichiarerà che il Rampudda, la sera dell'omicidio, si trovava a festeggiare un battesimo in casa sua.

[30] Padre dei fratelli Di Corte Nicolò e Vincenzo accusati dell'omicidio di Grippi Pietro (f. 613).

[31] Appunto in rosso del Giudice: "Anche tra i maffiosi era in uso scambiarsi questo genere di cortesie!!!". Secondo il Giudice, quindi, poteva anche trattarsi di periodo ipotetico di primo tipo o della realtà.

[32] (Lettera dei soci della Cassa Rurale Leone XIII all'Arcivescovo di Monreale. ASDM Fondo Governo Ordinario S9, S56-1, B11). 18.06.1914: "Intanto ora si rinnovano le scene delle elezioni politiche. Il partito, ora caduto sostiene l'avv. Pulejo per la rielezione a consigliere provinciale. Ebbene domenica scorsa 14 giugno quell'istrione dell'Arciprete Migliore assieme al sac. Finocchio e al sac. Patellaro in mezzo ai dimostranti andava gridando e battendo le mani come un forsennato e parlò a favore del Pulejo e contro il candidato del Greco (N.d.A Nicolò Barbato) non solo nel nostro paese, ma anche in San Cipirello nei comizi pubblici."

[33] Tutti i documenti che seguono sono reperibili in Archivio Storico Diocesano di Monreale - Fondo Governo Ordinario - Serie 3 - Sez. 56-1 - Busta 1

[34] Lettera all'Arcivescovo della Cooperativa Pio X : "Il sac. Giulio Virga fu tesserato del Partito Popolare solamente nel 1919. Dopo quell'epoca fu avversario del Partito perché incominciarono ad infiltrarsi massonici e maffiosi, specialmente quando fu ammesso nel partito l'on. Francesco Termini, protettore del noto Santo Termini e compagni, tanto che nelle elezioni del 1924 il sac. Giulio Virga fu contro l'on. Termini e contro i di lui sostenitori in San Giuseppe Jato e San Cipirello. Ciò è notorio nei due paesi."

[35]"NOTE SULLE QUALITÀ MORALI DEI CONCORRENTI E SULL'AMBIENTE DI SAN GIUSEPPE JATO. Questa Curia Arcivescovile nel rimettere alla Santa Congregazione del Concilio l'incarto riguardante il concorso per la provvista del titolare della Parrocchia di San Giuseppe Jato di questa Archidiocesi, per incarico di Mons. Arcivescovo e come riferenti il suo pensiero vi unisce alcuni rilievi circa l'idoneità morale dei due candidati sac. Finocchio Giuseppe e sac. Antonino Caronia, quale essa risulta da documenti antecedenti e dallo stato attuale delle cose, che nelle sue molteplici circostanze certamente sfugge a chi deve guardarle da lontano. I - Senza dubbio il sac. Finocchio ha abilità ed energia. Egli però a provarlo si preoccupa troppo di affastellare documenti a documenti di valore molto discutibile. Secondo verità non tutte le associazioni di cui è a capo sono vitali come, per esempio, l'Unione Popolare e l'Unione Donne Cattoliche. Ha stima in paese come di persona civilmente colta, originata da lezioni particolari ad alunni di varie classi in cui da molti anni ha impiegato gran parte della giornata. Non gode opinione di prete zelante ed ha fama come di uno che non paga i debiti. Ma quel che è peggio egli si è dimostrato sempre di cattiva coscienza. A parte la denuncia fatta dall'incorruttibile Vicario Foraneo del luogo sac. Salvatore Riccobono, riguardante la sua moralità (che sebbene accenni a fatti anche rimoti non può trascurarsi nell'integrare il giudizio attorno alla sua persona) dai documenti di Curia e dalla constatazione dell'attuale fermento suscitato attorno all'elezione del titolare della parrocchia, il sac. Finocchio risulta non poco pregiudicato. Dai documenti della Curia che rimontano al 1907-1908-1909 egli apparisce torbido, rivoluzionario e intrigante (all. 5). Né il carattere di lui si è mutato sino ad oggi. Non è vero che il popolo parteggia per il suo parrocato. Il popolo buono che ha interesse per la religione non ha simpatia per un Sacerdote di poco zelo e che per vari titoli ispira diffidenza: l'abbiamo ricavato da conversazioni private, e dai documenti qui annessi. I buoni preferiscono il Caronia, questo vogliono dire quando reclamano che sull'Arcivescovo non si facciano pressioni (all. 4). Gli indifferenti che sono molti non si interessano dell'elezione del parroco, meno naturalmente se ne interessano gli irreligiosi. Se gli indifferenti e gli irreligiosi si agitano - dato che sia vero tutto quello che si è riferito - ciò è perché se ne cerca il favore: ma il favore di questa gente è la peggiore testimonianza che possa aversi per un sacerdote che aspira al parrocato. Questa gente poi che non entra mai in chiesa non può avere diritto alcuno di esprimere il proprio giudizio sul sacerdote che deve avere in una parrocchia la suprema cura degli interessi spirituali. Ma ripeto, il laicato indifferente e irreligioso non si impiccia spontaneamente della elezione del parroco, tranne che qualcuno non vi abbia interessi personali: e nel caso Finocchio ci sono gli interessi di sangue di un nipote che sta al Consiglio Comunale - Sunseri - e forse gli interessi economici dell'assessore Traina Pro-Sindaco, che essendo cassiere della pingue Opera Riccobono, come dicono, vedrebbe volentieri a se ligio il parroco che ne è presidente. Il fatto che al Consiglio Comunale vi sono taluni infanatichiti per Finocchio spiega la possibilità di strappare firme per pubbliche sottoscrizioni, avere petizioni di alcuni sodalizi e rappresentare, attraverso il Maresciallo o il Delegato (gente solita ad essere ligia al Sindaco) dinanzi alle autorità superiori ma lontane il finimondo, se la volontà del popolo non viene assecondata. Un prete timorato di Dio considerando le vessazioni che tale incomposto agitarsi - il Finocchio lo dice spontaneo - produce al proprio superiore, dovrebbe e potrebbe farlo cessare subito, appena lo volesse; basterebbe dire agli amici suoi "non vi agitate perché non ho aspirazioni di questo genere". Ma l'agitazione non è cessata: il Finocchio l'ha voluta. La misura della sua ambizione può valutarsi dal grado di attività mostrato dai suoi amici. Questi appartengono alla mafia locale: ciò che in Sicilia è sinonimo di sopraffazione e violenza; quindi si spiegano: 1 - la lettera minacciosa scritta dal pro-Sindaco all'Ordinario. 2 - un'altra lettera impertinente scritta al patrono e da questo respinta indietro, ciò che provocò una lettera di scusa. 3 - la visita al Pro-Vicario Generale del Pro-Sindaco con altre persone per chiedere l'elezione del Finocchio, minacciando questi in caso contrario la soppressione nel bilancio comunale dell'assegno ai quattro cappellani della parrocchia, negando il concorso del Municipio al pagamento delle spese di recente fatte per la costruzione della facciata della chiesa parrocchiale, facendo intendere che corre rischio la vita del sac. Giulio Virga, ritenuto come il fautore principale della candidatura Caronia e dell'opposizione fatta a Finocchio. (Contro il Virga si addensano altre odiosità per attriti di partiti locali). 4 - un'altra visita al Pro-Vicario di due mafiosi della provincia, e precisamente di Cinisi e di Terrasini, per patrocinare la stessa causa. 5 - l'arrivo improvviso, durante la prima seduta degli esami del concorso, di un mafioso di Casteltermini, venuto a premere sul paesano Padre Bernardino Cappuccino, uno degli esaminatori. 6 - la manovra finale del sac. Finocchio per guadagnare direttamente gli esaminatori. Evidentemente tutto questo armeggio non può riuscire a spianare la via a un sacerdote che aspira al parrocato. II - Il sac. Caronia di anni 45 è d'indole mite, è pio, è giudicato di sufficiente cultura ecclesiastica, ha dedicato tutta la sua vita nel ministero, gode di ottima fama presso i superiori e i fedeli di San Cipirello dove è vicario foraneo e curato, e di San Giuseppe Jato dove è economo spirituale: prima vi era cappellano sacramentale. Non è nativo di San Giuseppe Jato, ma per la contiguità dei due paesi può considerarsi come cittadino di questo. Tale particolarità è la base apparente del movimento pro Finocchio: se c'è un paesano perché cercare l'estraneo? Eppure nessuno degli amici di Finocchio ha avanzato la minima accusa contro il Caronia, questi si impone all'opinione di tutti. …Monreale 25 aprile 1923"

 

 

[36] Non risulta riportato il nome del comm. Cascio. Si può opinare trattarsi del comm. Giuseppe Cascio Denaro, cassiere del giornale 'Sicilia Nuova' di Alfredo Cucco oppure del comm. Vincenzo Cascio, domiciliato a Palermo in Via Roma, socio, nell'acquisto di terreni in Toscana, degli jatini Vincenzo Pardo, Antonino Castro e Calogero avv. Leone.

[37]Masseria era un particolare contratto di concessione. I feudi dati a masseria erano quelli concessi dalla Chiesa a particolari a modo di enfiteusi perpetua, con patti però ed oneri molto differenti dagli ordinari contratti enfiteutici. La masseria intesa come ai nostri giorni era l'edificio che costituiva il centro di aggregazione e che allora si chiamava stantie.

[38] La più antica forma di concessione: al concedente andava la decima parte dei prodotti. In Sicilia era meglio conosciuta come lex hieronica. I romani la utilizzarono e qualificarono le città soggette a questa legge come decumane. L'antica Jato era una di queste.

[39] Macchina ad acqua che batte e rassoda i panni.

[40] G. Nania - Toponomastica e topografia storica nelle valli del Belice e dello Jato - Barbaro Editore - Palermo 1995 - pag. 218: Una coltivazione di riso sul fiume Jato nel 1500.

[41] "Delle cose di Sicilia" - Sellerio - Vol. III pag. 237: "I soli grandi proprietari della Sicilia sono i nobili e soprattutto le comunità; queste due classi di uomini sono molto lontane da qualsiasi idea di miglioramento e si sono abituate da molto tempo alle rendite che devono avere. I nobili le sperperano a Palermo e Napoli senza pensare ai beni che hanno in Sicilia se non con le ricevute che vi mandano. Ce ne sono molti, ci hanno detto, che non hanno mai visitato le loro terre. Per quanto riguarda i monaci, razza prevalentemente abitudinaria per natura, si mangiano tranquillamente queste stesse rendite, senza pensare ad aumentarle. Nel frattempo, il popolo che ha poco o nessun interesse per la terra e le cui raccolte sono senza sbocchi, abbandona pian piano la campagna."

[42] "Delle cose di Sicilia" - Sellerio - Vol. III pagg. 238-239: "Lasciamo ben presto le lave, e ci troviamo allora in mezzo ad un paese incantato capace di sorprendervi ovunque, e che in Sicilia vi avvince. Non è che un susseguirsi di frutteti frammischiati a capanne e graziosi villaggi; non c'è spazio sprecato: ovunque un'aria di prosperità e di abbondanza. Osservai nella maggior parte dei campi di grano, la vite e gli alberi da frutta che crescevano e prosperavano assieme. Camminando mi chiedevo da dove poteva provenire questà grande prosperità locale. Non si può attribuirla solo alla ricchezza del suolo, poiché tutta la Sicilia è un paese molto fertile che anzi richiede meno cura della maggior parte degli altri paesi. La prima ragione che trovai di tale fenomeno è questa: poiché l'Etna è situato tra due delle maggiori città della Sicilia, Catania e Messina, trova da queste parti uno smercio di prodotti che non esiste nel centro né sulla costa meridionale. La seconda ragione, che ammisi con più difficoltà, finì ben presto col sembrarmi più convincente. Poiché le terre che circondano l'Etna sono soggette a spaventose devastazioni, i signori e i monaci se ne sono disgustati e il popolo ne è diventato proprietario. Ora la divisione dei beni vi è quasi senza limiti. Ognuno ha un sia pur minimo interesse nella terra. E' l'unica parte della Sicilia dove il contadino è possidente. C'è da chiedersi ora perché questo estremo frazionamento della proprietà, che molte persone sensate considerano in Francia un male, debba essere vissuto come un bene e un gran bene in Sicilia. E' facile concepirlo e si potrà aggiungere questo esempio a molti altri che provano che non vi sono principi assoluti sotto il sole.

Infatti capisco bene che in un paese molto illuminato, dove il clima incita all'attività, dove tutte le classi hanno voglia di arricchirsi, come in Francia e soprattutto in Inghilterra, ad esempio, l'estremo frazionamento della proprietà possa nuocere all'agricoltura, e quindi alla prosperità interna, poiché toglie grandi mezzi di miglioramento e anche d'azione a persone che avrebbero la volontà e la capacità di utilizzarli; quando invece si tratta di stimolare e risvegliare un popolo infelice semiparalizzato per il quale il riposo è un piacere, in cui le classi elevate sono intorpidite nella loro pigrizia ereditaria o nei loro vizi, non conosco mezzo più efficace del frazionamento delle terre. Se dunque io fossi re d'Inghilterra, favorirei la grande proprietà, e se fossi padrone della Sicilia, incoraggerei con tutti i mezzi a mia disposizione la piccola; ma non essendo né l'uno né l'altro, torno rapidamente al mio diario.

[43] Archivio di Stato di Palermo (Catena) - Fondo Polizia - filza 1 fasc. 1 n. 23: "Sulla comparsa nelle campagne di San Giuseppe e Belmonte di facinorosi comandati dai famosi Micciché e Virga." 10 luglio 1820.

 

 

 

[44] ASDM - Fondo carte processuali sciolte - Busta. Interrogatorio "in loco tormentorum" di Bernardinus Calagna, grecus Planae del 4 settembre 1589 III Indizione.

[45] Trad. «Ed esortato a dire la verità disse»

[46] Parlamento Generale di Sicilia - Legge n.132

Art. 33 - "Nei casi in cui le Compagnie d'arme dovranno rispondere di furti, dei sequestri e dei guasti in conseguenza della responsabilità messa come sopra a carico delle medesime, il danneggiato, o altri in sua vece, sarà tenuto infra il termine di tre giorni far dichiarazione del fatto innanzi il Giudice Comunale, nel di cui territorio sia accaduto il furto, il sequestro o il guasto. Il Giudice dovrà subito dare intelligenza al Capitano d'arme di tale dichiarazione. Produrrà inoltre il danneggiato istanza al Tribunale Criminale della Valle, il quale chiamerà entro il termine di otto giorni il Capitano d'arme del Distretto, ove il danno è avvenuto, ne stabilirà lo ammontare, ed emetterà un'ordinanza perché fosse immediatamente soddisfatto, può sospendere il giudizio sino a che sia deciso sul reato, obbligando, se lo crede, il responsabile a depositare l'ammontare del denaro richiesto. L'ordinanza del Tribunale Criminale sarà eseguibile sul semplice estratto, e non sarà soggetta ad alcun rimedio legale."

Art. 34 - "I Capitani d'arme avranno dritto a farsi risarcire delle somme pagate dagli autori o complici del reato."

[47] (Archivio di Stato di Palermo – Catena – Segreteria di Stato – Fondo Polizia – Filza 7 Documento 50)

“Sindicato del Circondario di Piana dei Greci - 26 aprile 1822 - A Sua Eccellenza sig. Principe di Cutò – Luogotenente Generale

Signore, mi credo nel dovere di rassegnarle qualmente in questo Comune nel tempo delle passate vicende esistea una vendita di Carbonari e diceasi ascendere gl’istessi al numero di 300 tra i quali quasi tutti i Galantuomini del paese esclusi puochi. In febbraio 1821 non volendo io autorizzare taluni eccessi che da essi si commisero ed altri che diceasi voler commettere, né avendo forza di far argine alla torrente per salvarmi la vita, che credea in pericolo, perciò, per non essere io del loro numero fuggii colla mia famiglia e rassegnai l’occorso ai miei superiori. Indi accesse in questo il Ten. Col. Tanfano colla truppa. In luglio ultimo fui obbligato a restituirmi al mio posto ed io ubbidiente mi portai qui non senza palpiti.”

(Archivio di Stato di Palermo – Catena – Segreteria di Stato – Fondo Polizia – Filza 12 Documento 479 – 16 settembre 1822)

“Don Nicolò Termini di San Giuseppe li Mortilli accusa Carbonari: Don Antonino Puleo Sindaco, Don Carlo Belli Cancelliere Comunale e Don Antonino Montalbano Decurione

[48] ASDM – Fondo Governo Ordinario - Sez. 9 Serie 56-1 busta 11: "San Giuseppe 25 febbraio 1825 – Il Giudice supplente Nicolò Termine all’Arcivescovo di Monreale - Ecc.Rev.ma, Gli obblighi che indosso non solamente a castigar mi costringono i delitti ma ancora di prevenire ex officio le inconvenienze che accader possano per la malcondotta di due preti di questa comune. Da più giorni mi ero determinato rapportarle le universali lagnanze a carico dei sacerdoti Romani fratelli i quali, nulla curando la veste sacerdotale che investono, operano cose tali che nemmeno il fanno i più scapestrati secolari; questi ad altro non pensano che a turbar l'onore delle famiglie; infatti dalla comune voce si sa che il rev. don Vito Romano recatosi di notte tempo in una casa per illeciti fini, scoperto da parte interessata, fu bastonato e perciò costretto a starsene alquanti giorni in letto. Poco tempo addietro il publico castellano essendosi recato a visitar le carceri, ove è una detenuta, circa un’ora di notte vi trovò il suddetto Romano maggiore appiattato dietro l’interno della porta, che attendea persona, avendola aperta con chiave adulterina, che lui trattiene, porta che anche conduce alla casa di scuola pubblica, di cui n’è esso il Lettore. Il sac. don Vincenzo Romano poi  opera non da sacerdote, non da secolare, ma da un pubblico scandaloso, i di costui andamenti sono assai nefandi, sin anche, oh Dio!, a celebrar la Messa immediatamente dopo di essersi trattenuto in illecite tresche con una giovine vergine, che ha ingannato con complimenti e lusinghe; ciò le viene aggevolato dal dire la Messa alle ore 11: ora incongrua e che fa del perfetto buio, ora in cui i parenti di costei partono per andare alla fatica. Tal fatto mi fu rapportato da una donna che vidde uscir ambi dal luogo del delitto sopra il paese ove è lo stazzone; tempo addietro il suddetto Romano minore stuzzicando una moglie di un bracciale, questi venutone a cognizione, lo bastonò di notte incontrandolo in una strada occulta; ha questi operato tante altre scelleratezze che mi trattengo dal rapportargliele per non maggiormente tediare l’E.V.Rev.ma."

[49] ASDM – Fondo Governo Ordinario - Sez. 9 Serie 56-1 busta 11

[50] ASDM - Fondo Governo Ordinario Sez. 9 Serie 56-1 busta 11

"10.11.1836 - Ecc. Rev.ma - Ricevuta quest'oggi ad ore 14.00 circa la veneratissima lettera di V.E. Rev.ma con la quale mi delucidava quello che doveva esaminare prima che mi deliberassi di dare sepoltura ecclesiastica al defunto don Antonino Perez suicida, mi ho chiamato in casa questi rev. Cappellani Sagramentali don Gaetano Lo Brutto, don Nicolò Amorelli, don Michele Costanza e don Vincenzo Romano, colli quali maturamente esaminando li fatti accaduti nell'aver disposto il Perez prima gli affari di sua casa, e poi prima di verificarsi la sua mossa per Palermo si uccise. Si risolse che riflettendo quello che poteva succedergli in Palermo per li suoi consumi e perdite nelle gabelle gli si turbò la fantasia, e mosso da momentanea follia si uccise. Infatti mi sono accertato che nel mese che dimorò in questa, oppresso sempre essendo stato da malinconia, dimandato dal suo razionale don Giovan Battista Giambrone di Palermo, perché stava così oppresso, ed animato a starsene allegro, rispondendo di non farlo di sua volontà, ma di esser vuoler di Dio di starsene malinconico. Mi accertai ancora che alli 7 gennaio 1836 si sposò con l'attuale sua moglie, ed aspettò detto giorno per riceversi la benedizione nuziale, e farsi la Santa Comunione, il Precetto Pasquale: mi si disse probabilmente di averselo fatto dal parroco dell'Altarello di Bajda, e ciò si crede dalla premura ed atto religioso verificato in detto sponsalizio nell'aversi fatta la Comunione. A me si assicurò che la moglie dacché si sposò lo ridusse ad essere religioso a segno che ogni sera gli faceva dire il Santo Rosario. Il rev. Costanza disse a me alla presenza di detti sacerdoti che mesi addietro essendosi abboccato col detto Perez gli diceva che per il passato era stato un debbosciato, adesso però sono cambiato e spero in Dio alla morte mia di avere dolore dei miei peccati. E ciò posso dirlo ancor io, mentre dacché si sposò non portò più da Palermo, ne da questa in sua casa, donzelle di scandalo. Nemmeno nel parlare era come prima smodesto. Finalmente si pensò di chiamarsi il Licari, come familiare del Perez se confirmava quanto di sopra si ha detto per il cambiamento in buono del Perez. Allora al suo solito si presentò con un libro alle mani chiamato Bradimante - Modo pratico di assistere a morire - in quest'anno stampato, che dice di doversi dare sepoltura al suicida sulla ragione che non possa dar morte a se stesso se non gli si turba la fantasia e poi soggiunse che vi è ordine in Cancelleria Comunale posteriore alla Ministeriale del 22 novembre 1826 di darsi sepoltura ecclesiastica al suicida, e mi fece capire ch'era preparato perché prevenuto dai suoi gentiluomini di farmi ostacolo, con obbligarmi a dargli sepoltura; a ciò risposi io di rispondere alle mie dimande intorno al cambiamento di costumi del riferito Perez, della Comunione fatta nello sponsalizio, e mi ripeté di essere vero, e la probbabilità di aversi fatto il Precetto Pasquale. Così essendo si deliberò di unanimo parere con detti sacerdoti di dargli sepoltura ecclesiastica, e voglio sperare che V.E. Rev.ma sia per approvare tale disposizione. San Giuseppe 10 novembre 1836 Vicario Foraneo Tommaso Aiello."

[51] Una descrizione della situazione in questo periodo è riportata, con continui riferimenti ad una analisi di Napoleone Colajanni, da Gustavo Chiesi, alla fine del 1800, autore de 'La Sicilia Illustrata'  - Brancato Editore - a pag. 539:

"Come Colajanni afferma, rimontando alle origini di questo stato di cose, si arriva a rinvenirle nella azione deleteria esercitata dal mal governo dei Borboni che spense in tutti la confidenza nella giustizia collettiva: circostanza gravissima che condusse alla creazione della Mafia, dei Campieri e dei Compagni d'armi. Le quali due ultime istituzioni, privata l'una, pubblica l'altra, ma in senso ristrettissimo, non di origine moderna, rappresentano organi sopravvissuti, più o meno modificati, della società feudale. La giustizia sotto i Borboni era cosa talmente confusa con gli arbitri polizieschi, che il popolo in ogni accusato finì per vedere una vittima della prepotenza baronale o governativa. La polizia e le autorità giudiziarie stavano infatti agli ordini dei feudatari, che per pecunia o per influenza si trovavano bene con gli alti poteri dello stato. Nacque da ciò, che, venuta meno ogni fede nella equità ed imparzialità di chi stava preposto alla cosa pubblica, grandi e piccoli pensarono tutti a provvedere individualmente alla sicurezza della persona e della proprietà. La giustizia individuale diventa tutto, sostituendosi alla collettiva, diventata nulla. Un balzo indietro, un regresso spaventevole in ogni ordinamento sociale. I ricchi, i nobili, i baroni assoldano bande di campieri, che non differenziano gran che dai sicari, dai bravi, di cui circondavansi i signorotti e i nobili del Cinquecento e del Seicento, e come questi, i campieri sono scelti fra i più celebri ed arditi malfattori della regione, cui terrorizzano colle loro e le vendette del signore. Indicibili i disordini e le nequizie perpetrate da costoro, nell'ambito delle loro attribuzioni. Esautorato di ogni prestigio, il governo dei Borboni, incapace di frenare gli abusi, che questo stato di cose erigeva a sistema, se ne lavò le mani appaltando la sicurezza pubblica alle Compagnie d'Armi, reclutate fra ladri, banditi e liberati dal carcere, i quali arruolandosi acquistavano la impunità dei precedenti misfatti e si preparavano allegramente a commetterne dei nuovi, sotto l'egida della legge. Campieri e Compagni d'Arme se la intesero presto, e la loro non fu se non una gara a chi più nuoceva, opprimeva i deboli, gli indifesi, le plebi diseredate. Quindi la difesa di queste coll'organizzazione della Mafia: e 'il popolo - dice il Colajanni - contò per le sue vendette sulla Mafia e nel suo codice dell'Omertà, e spesso sul brigante, che riuscì così in taluni momenti ad essere considerato come un simpatico e nobile ultore del debole oppresso dal forte! La vendetta privata più che un diritto ritornò un dovere. Così si spiega 'come la Mafia non sia mai stata una delle comuni associazioni di malfattori, aventi per iscopo esclusivo la depredazione della proprietà altrui. Alla Mafia si riattaccavano principalmente i reati di sangue, cosicché arrivarono a far parte della criminale associazione molti individui reputati generalmente onestissimi, ai quali in realtà si poteano affidare con perfetta sicurezza i più vitali interessi, con la certezza di vederli garantiti: e quella sincerità che i singoli individui non si credevano in debito di palesare di fronte alle autorità, si riteneva doverosa verso la Mafia, e tra i Mafiosi osservavasi scrupolosamente la parola data.' Era  insomma tutto l'inverso del senso morale: stato di cose, che riattaccandosi al secolo precedente, è durato nella sua massima intensità tutta la metà del nostro secolo, fino al 1860, lasciando radici e polloni che non sì presto, né sì facilmente si potranno strappare e disperdere."  (N.d.A.: sembra opportuno precisare che le valutazioni del Colajanni risalgono all'anno 1885 e sono riportate nel suo volume 'La delinquenza in Sicilia e sue cause')   

[52] S. Nicastro - Dal Quarantotto al Sessanta in Mazzara – 1913 pagg. 80-81

[53] Gaston Vuillier – La Sicilia. Impressioni del presente e del passato – Treves – Milano 1897. Il passo completo è reperibile in http://www.accadeinsicilia.net/vuillier.htm

[54] G. Sulli - Fuochi e briganti della Conca d'Oro - Kefagrafica Lo Giudice - Palermo 1990 - pag. 51

[55] Archivio Parrocchiale di San Giuseppe Jato -

Giudicato Regio del Circondario Piana dei Greci - Provincia di Palermo - Dipartimento Polizia n. 380. Oggetto: Riserbato. Piana 15 luglio 1855

Al signor Rev. Arciprete del Comune di San Giuseppe.

Dal sig. Prefetto di Polizia con officio del sette andante mi è stato scritto locché siegue: Il Corpo urbano di San Giuseppe venuto a conoscenza di essersi proposta la rielezione di Francesco Mannino ad Urbano, mi ha inoltrato un suo rapporto col quale ha dipinto il Mannino come un uomo tristissimo caporione della rivolta di quel Comune nel 1848.

Apprendo che pria di tal epoca gli gravitavano le seguenti imputazioni: 1. Di un omicidio in persona di Maddalena Randazzo di San Giuseppe - 2. Di altro omicidio in persona di don Paolino Lo Monaco ed attacco a fuoco colla pubblica forza, mentre il Mannino conduceva un bove rubato - 3 di un omicidio mancato in persona di Rosario Balistreri anche da San Giuseppe. Poi dichiara che nelle passate vicende il Mannino si presentò il 14 gennaio al posto di buon ordine, rovesciò pubblicamente a terra lo stemma reale, lo infranse in mille pezzi calpestandolo coi piedi. Indi insieme ad altri ed ai suoi fratelli disarmò i buoni cittadini e la guardia urbana. Il Mannino, che fu alzato a capo squadra, si pose a cavallo alla testa di cinquanta individui per far fronte alle reali truppe. Che fu il primo che assalì il Real Palazzo rubando e distruggendo ciò che gli veniva d'innanzi portando poi seco un bel cavallo della squadra reale, e poi gli altri oggetti, una sciabola con manicatura d'oro, che vendette al celebre Miloro. Che ritornato da Palermo da capo squadra si unì ad altra squadra di Monreale e si pose a perseguitare il rondiero Giuseppe Madonia che voleva uccidere in tutti i modi, e poi faceva infestar di ladri le campagne di quel Comune a segno che fu intercettato il commercio e i buoni cittadini erano vessati con componende delle quali ne riceveva una parte.»

[56]Archivio Parrocchiale di San Giuseppe Jato -

Giudicato Regio del Circondario Piana dei Greci - Provincia di Palermo - Ripartimento secreto n. 380. Oggetto: Sui carichi dati a don Niccola Miccichè. Piana 4 giugno 1857: «Mercè un foglio anonimo si è fatta presso il Real Governo la più triste dipintura di cotesto don Nicola Micciché come infra:

1. che nelle passate oscillazioni fu il Caporione a dare l'assalto al Real Palazzo - 2. Fu il primo che diede mano allo spoglio delle case di Ausilia Morana e svergognatamente trasportava con le carrette olio e tanti oggetti mobili.- 3. Poneva il mercato in cotesto Comune di mule, cavalli, animali bovini derubati. - 4 - La sua condotta costì era di tal timore che uno dei suoi compagni di furto chiedendo la sua parte, il Micciché di giorno in cotesta piazza gli scaricò una fucilata e lo colpì in un braccio. - 5 - Che prima del 1848 egli era mastro Niccola Micciché calzolaio ed oggi di seguito a quell'epoca per lui felice è divenuto don Niccola."

[57] Gaetano Falzone - Storia della mafia - Flaccovio - pag. 126.

[58] Archivio del Comune di San Cipirello - Delibera di Giunta del 18.12.1875

[59] Archivio del Comune di San Cipirello - Delibera di Giunta del 05.12.1875

"L'anno 1875 il giorno 6 dicembre nella segreteria comunale di Sancipirrello riunitasi la Giunta Comunale nelle persone dei signori cioè: 1 - Di Maggio Giulio sindaco presidente; 2 - Vaccaro Carlo assessore; 3 - Crimaudo Giuseppe supplente.

La Giunta venuta alla conoscenza del mancato assassinio alla persona del sig. Andrea Leone, possidente figlio di Calogero di questa suddetta Comune e ciò in seguito a due lettere minatorie mandate al padre di detto Leone nelle quali era interessata tutta la famiglia e minacciata di morte una sotto il giorno 11 e l'altra nel 24 novembre ora scorso. Ritenuto che nel giorno 27 suddetto mese ed anno una mano assassina che si fu quella di Salvatore Russo fu Giuseppe di Corleone, circa le ore quattro e mezza di mattina posto in agguato per togliere la vita al Leone, perché non avevano mandato le lire 8000 (ottomila) chieste con le lettere di sopra calendate esplodeva una pistola a due colpi alle spalle del Leone che uscito era dalla sua casa per attendere agli affari propri in campagna.

Ritenuto che il Leone senza punto scoraggiarsi perché rimasto incolume d'un colpo per l'altro forse fallito, reagiva contro l'assassino, l'insiegue, lo afferra, si abbaruffano, il Leone tutto che di piccola statura a fronte del sicario, lo trattiene, gli strappa la pistola che tuttavia teneva nelle mani, indi con un colpo alla testa lo stordisce; alla pistola s'infrange il manico, il Leone segue a dar colpi, l'assassino tenta svincolarsi per fuggire, si rabattono d'un punto di strada si riducono in un altro, il Leone non lo lascia, intanto a forti voci grida aiuto, niuno accorre per lo buio, e perché non si riconosce la voce né può accorrere in aiuto la forza perché la comune n'è sprovvista, tanto di distaccamento militare nonché di stazione di R.R. Carabinieri. Il Leone però sempre gridando «aiuto! Che l'assassino l'ho nelle mani!» nissuno si presenta ad aiutarlo, arriva però a gettare a terra l'assassino Russo e replica gridando fortemente «aiuto! Che Andrea Leone sono!»; allora la gente comecché conosce la voce, accorre in aiuto di Leone trovando quest'ultimo gettato sopra l'assassino che lo tratteneva, l'afferra e si traduce in casa del padre di Leone, indi accorse il Sindaco il quale fatto chiamare i Reali Carabinieri di San Giuseppe Jato ha consegnato l'assassino al Comandante la stazione del Comune suddetto. Da quanto si è conosciuto dalla giustizia essere il Salvatore Russo fu Giuseppe di Corleone un famigerato assassino imputato altre volte di lettere di scrocco e posto dall'autorità giudiziaria di Palermo sotto mandato di cattura per un furto commesso e perciò latitante da quel tempo. La Giunta. Avendo in considerazione che il coraggio civile mostrato dal sig. Andrea Leone nel reagire contro il suo assassino, mostra veramente d'essere un cuor di Leone. Considerato che il pubblico tuttavia decanta meraviglie di lode al sig. Leone, come poté sottomettere ed afferrare e trattenere il famigerato assassino Salvatore Russo, dopo essersi trattenuti in rissa più di un quarto d'ora. Considerato che mercé il gran coraggio civile, più però da militare, il Leone liberò se stesso ed il paese ancora del famigerato assassino Salvatore Russo che da incognito scorreva in questo Comune. Unanimamente fa voto di preghiera all'Ill.mo Sig. Prefetto affinché si compiacesse rassegnare al Real Governo l'azione tanto coraggiosa del sig. Leone Andrea onde degnarsi dare un premio onorifico allo stesso, in quello che crederà giusto in ricompensa d'aver consegnato alla giustizia il detto famigerato assassino Salvatore Russo, e ciò per animare ogni buon cittadino, ed in ricompensa dell'atto coraggioso del Leone. Il presente verbale dopo letto ed approvato è stato sottoscritto da tutti. Giulio Di Maggio - Vaccaro Carlo - Giuseppe Crimaudo - Francesco Caronia segretario."

[60] Continua a scrivere il Belli: "In quella fausta epoca la lista elettorale amministrativa comprendeva non più di un paio di centinaia di elettori; i voti favorevoli all'uno o all'altro partito, sia per vincoli di parentela o per dipendenza, si contavano a dito; e lo spoglio dei voti si faceva a priori, prima dell'effettiva elezioni; le elezioni, benché vivamente combattute erano, direi quasi in famiglia, e i pochi elettori dubbi o infidi erano accaparrati o con promesse, o con minacce e i più timidi anche con sequestro di persona. La notte precedente alle elezioni si mettevano in giro delle squadre di vigilanza, da ambo le parti, per impedire che un partito molestasse o subornasse gli elettori dell'altro. Il notaro Micciché, si diceva, veniva fatto assassinare dallo stesso Mannino Giuseppe onde scompaginare le file del partito al potere con la complicità di un tal Speciale Lorenzo - nativo di Partinico, ergastolano e famoso abigeatario ordinarono una infame congiura contro i capi partito al potere signor Vincenzo Belli fu Francesco (mio genitore) e l'avv. Vincenzo Montalbano accusandoli come mandanti dell'efferato delitto. E la giustizia di allora così alla leggiera più che indagare sulla vera causa del delitto, a parecchi ormai nota, diede ascolto alle insidiose voci messe in giro, e arrestò i gentiluomini Belli e Montalbano, che tranquilli e sereni se ne stavano in casa. Ma tosto riconosciuta la loro innocenza furono prosciolti. Ma essi raggiunsero il loro scopo, le file del partito furono scompaginate e il partito Mannino e compagni alle prossime elezioni amministrative ottennero la maggioranza per pochi voti."

[61] Giuseppe Casarrubea - I fasci contadini e le origini delle sezioni socialiste della Provincia di Palermo - Flaccovio Palermo - Vol. II, pag. 131.

[62] ASDM - Fondo Governo Ordinario sez. 9 serie 56.1 busta 4. Si può avere un'idea della composizione del gruppo dalla lettura della lettera dei sacc. Antonio Caronia e Raffaele Belli all'Arcivescovo di Monreale. Sono citati:

- Il dottor Virga, usuraio pubblico e noto miscredente, che non ha dubitato in questi giorni di offendere tutto il clero sul giornale l'Ora di Palermo. Egli è quello stesso che due anni indietro tenne un irruente discorso pubblico contro la Chiesa e contro i preti in occasione del XX settembre.

- Il maestro elementare Migliore Gaetano, ateo professo.

- Di Maggio Calogero: tanto homini nullum par eloquium!

- Viviano Giuseppe, cioè il più accanito nemico e calunniatore della Cooperativa Cattolica, la quale gli ha impedito il monopolio dei generi di consumo, onde si arricchiva a danno del popolo.

- Di Quarto Raffaele, uno dei capi della Lega Socialista, il quale tempo fa appartenne ad una associazione a delinquere e subì delle condanne.

- Termini Enrico, uomo lungamente vissuto in concubinato, principale promotore della cervellotica Festa del XX settembre.

- Termini Concetta, moglie di Belli Gaetano, donna prepotente e superba che con le sorelle Ninfa, Giacinta e Provvidenza, pinzocchere e penitenti del parroco, è stata sempre causa di scissure tra i sacerdoti. Contro queste donne una volta voleva scagliarsi il sac. Antonino Virga colla rivoltella in mano.

- Gli impiegati del Mulino Virga.

- Gli impiegati del Municipio

- Ragazzi e ragazze delle scuole

- Altri promotori erano certi Randazzo cognati del Viviano Giuseppe

[63] ASDM - Fondo Governo Ordinario sez. 9 serie 56.1 busta 4. Lettera di Nicolò Cumia all'Arcivescovo di Monreale: «Ad iniziativa del Circolo XX settembre i veri anticattolici e gli autori della Festa del XX settembre, dei capocci della maffia e dei socialisti arrestati, sempre per iniziativa e sotto la direttiva del Greco (Barbato), si promosse una sottoscrizione facendo firmare…»

[64] G.Casarrubea - I Fasci…- Vol. II, pag. 116

[65] Che il Cascio Ferro fosse un mafioso era già noto all'epoca dai Fasci anche a Bernardino Verro. Nella sua visita a Bisacquino dove a circondarlo c'era stato qualche tristo soggetto come Vito Cascio Ferro e Nunzio Giaimo, accusati di tentata estorsione, Verro aveva raccomandato la via del dovere, condannato le misure violente che - diceva - avrebbero dato pretesto alle forze dell'ordine di ricorrere al C.P.» (G. Casarrubea - I Fasci…- Vol. II, pag. 59)

Era noto ancora nel 1897: «…alla Camera lo stesso Di San Giuliano attaccò duramente Codronchi rivoltandogli contro l'accusa di avere usato metodi mafiosi, mentre l'estrema sinistra gli contestò una collusione diretta con la mafia per l'appoggio fornito sia al De Michele Ferrantelli, manutengolo di don Vito Cascio Ferro, sia a Raffaele Palizzolo sospettato di essere il mandante del delitto Notarbartolo.» (Barone - Egemonie urbane e potere locale - pag. 293.)

[66] Ved. pag.

[67] Archivio del Comune di San Giuseppe Jato - Seduta del Consiglio Comunale del 3 marzo 1915: "Questo consesso ben può ritornare a giudicare sullo stesso oggetto, perché in materia di eleggibilità l'annullamento toglie l'esistenza legale della deliberazione annullata, e quindi il Consiglio è in facoltà di sostituire ad una forma di voto riconosciuto illegale, quell'altra forma che più sicuramente risponde a legge." (N.d.A: «?»)

[68] ASDM Fondo Governo Ordinario Sez. 9 Serie 56-1 Busta 11

"San Giuseppe Jato li 18 giugno 1914. Reverendissimo Monsignore Amministratore Apostolico, non si poteva mai immaginare che le cose della Cassa Rurale Cattolica dovevano arrivare al punto in cui sono. In poco tempo alcuni elementi estranei, entrati da recente, hanno preso tanto campo da imporre la propria volontà usando anche la violenza alla maggioranza vera della Cassa Rurale.

Questo si è avverato dopo che il padre Riccobono si è ritirato da cassiere, il padre Romano da assistente ecclesiastico e il padre Virga da segretario. Vi sono ancora due sacerdoti cioè l'Arciprete Migliore, assistente ecclesiastico e il padre Patellaro, semplice socio. Però questi due si sono gettati coll'attuale amministrazione per tenere nella tirannia la Cassa Rurale e invece di tenere alto il sentimento religioso e la moralità dei soci, cedono sempre alle pretese dei capi anzi li aiutano e li favoriscono e la Cassa Rurale non sembra più una società cattolica, ma un inferno scatenato."

Il presidente a scopo politico incominciò a fare entrare nella società persone indegne di appartenervi ed anche nemici di essa. Accanto all'Arciprete Migliore c'è poi il padre Finocchio che è un servo del partito e che lo tira per il naso dove vuole."

[69] ASDM – Fondo Governo Ordinario - Parrocchia di San Giuseppe Iato, addì 18 luglio 1914

Eccellenza Rev.ma, Tengo presente la sua riverita del 14 c.m. alla quale rispondo. Non per fare politica ma per il santo dovere di Religione ecco la mia colpabilità. Sappia dunque, o Eccellenza Rev.ma che qui in San Giuseppe Iato, fra gli altri circoli sorti a scopo elettorale, si è voluto anche fondare, per opera nefasta del notissimo Socialista sindacalista Nicolò Barbato di Piana dei Greci, una Lega Socialista così detta dei Lavoratori, avente a programma il Marx e la sua rosseggiante bandiera. Anima e vita di questa Lega è un fido discepolo del Barbato, tal Cataldo Pedalino, un accanito anticlericale, colui che nell’ultimo censimento, firmando la sua scheda, si dichiarò di religione “Acattolico”. Egli, come tanti altri, si arrabbatta per potere salire alla reggenza del Municipio. Uguale pretensione nutre il Nicolò Giambrone, Presidente di questa Camera di Lavoro, l’accusatore aperto, l’amico, l’affezionato mio, il quale accecato dalla stessa maniaca ambizione, pur decantandosi buon cattolico, ha unito da buon cattolico, la sua Camera di Lavoro colla Lega dei Socialisti, fondendo i due Circoli in un solo sodalizio socialistoide (che bel connubio!). Orbene per attirare a se le schiere elettorali, questo macabro sodalizio (Camera di Lavoro e Lega) invitò il Barbato a tenere, al primo maggio u.a., tanto in San Giuseppe che in Sancipirrello, un comizio, dove egli esponendo il programma Marxiano e facendo degli appunti sulla vita e divinità di Gesù Cristo, si affermò ateo apertamente in tutto il senso della parola. Quanto odio di classe! Quanta miscredenza! Quanto disprezzo alla Chiesa ed ai preti e a tutto ciò che sa di sacro e di religioso! Ed in tanta zavorra di Socialistoidume il sig. Pedalino che a squarciagola sbraitava: “Abbasso la Chiesa! Abbasso i preti! Viva il Socialismo! Viva Barbato!”. E lo stesso giorno del primo maggio, il Predicatore del Mese Mariano, can. La Bella, appositamente invitato, tirò fuori dal pulpito un sublime e smagliante discorso d’occasione, meritevolmente applaudito. E noi del Clero, contentandoci della difesa del Predicatore La Bella, serbammo in tanto attrito la massima prudenza, calma e carità! Giungeva intanto il tempo dell’elezione del Consigliere Provinciale. I Socialisti di Piana, di San Giuseppe e di San Cipirello volevano portare a loro candidato il sig. Giuseppe Camalò, socialista della detta Piana. Ed ecco di nuovo il Barbato in giro per questi due paesi, invitato dalla Lega e dalla Camera del Lavoro. Ed ecco la banda musicale!…trombe e fanfare!…gonfaloni rossi!…schiere d’uomini socialisti venuti da Piana a cavallo!…anche donne greche, vestite a rosso con rossi vessilli a mano! E grida assordanti di Viva il Socialismo! Viva Barbato!…e tra queste grida arrivato che fu il corteo vicino l’ingresso del paese, ove sorge una croce di legno il Pedalino vomita, a gran clamore, le seguenti testuali esecrande e blasfeme parole: Due sono le cancrene della società, del vero progresso e della vera civiltà: la Chiesa e lo Stato! Abbasso la Chiesa! E la stessa mattina erano apparsi alle mura del paese affissi dei grandi manifesti, in uno dei quali, che io ho ricuperato e conservo in quest’archivio parrocchiale sta scritto: Gli uomini oggi s’associano non già per pregare e soffrire, ma per prestarsi vicendevolmente aiuto, lavorando per acquistare maggior prosperità e per combattere il comune nemico; l’aspirazione del Socialismo non è quella d’ascendere al cielo, ma di godere sulla terra. La differenza del Socialismo ed il Vangelo è la stessa cosa che si riscontra tra la rigogliosa vita d’un corpo giovane e il rantolo d’un moribondo. Firmato: Carlo Pisacane.

[70] Lettera del 30 novembre 1916, in Quarant'anni di vita politica italiana. Dalle carte di Giovanni Giolitti. Milano 1961, vol.III, pp. 202-203. In Salvatore Lupo - L'utopia totalitaria del fascismo - Einaudi 1987 - Le Regioni - pag. 395

[71] Francesco Belli - Ricordi storici e statistici di San Giuseppe Jato e San Cipirello - Anno 1934 - pag. 160 - "Degli ex feudi acquistati ben poca cosa resta alla Casa Beccadelli"

[72] Ved. pag.

[73] Ved. pag

[74] Ved. pag.

[75] Ved. pag.

[76] F. Belli - op.cit. - pag. 21

[77] Ved. pag.

[78] ASDM – Fondo Governo Ordinario -

[79] ASP - Fondo Tribunale Penale - Busta 3198 - Ordinanza di rinvio, f. 113

[80] A. Petacco: op. cit. pagg. 162-163

[81] Ved. pag.

[82] Ved. pag.

[83] Ved. pag.

[84] Saverio Lodato - Ho ucciso Giovanni Falcone. La confessione di Giovanni Brusca - Mondadori - pag. 86

[85] S. Lodato - op. cit. - pag. 117

[86] S. Lodato - op. cit. - pag. 122

[87] S. Lodato - op. cit. - pag. 143

[88] S. Lodato op. cit. pagg. 122-123

[89] Ved. pag.

[90] Ved. pag.