EDIZIONI
DELLA BATTAGLIA
Gioacchino
Nania
San
Giuseppe
e la mafia
Nascita
e sviluppo del fenomeno
nell’area dello Jato
Introduzione
di
Marcelle
Padovani
Attraverso
documenti, in massima parte inediti, questo lavoro ricostruisce, in maniera
sistematica, nascita e sviluppo del fenomento mafioso nell'area dello Jato a
partire dall'abolizione dei diritti feudali,
nel 1812, sino ai tempi moderni con particolare riferimento a San
Giuseppe Jato e San Cipirello. Due comuni, in unica realtà urbana, ubicati
alle spalle di Palermo in posizione baricentrica rispetto al circolo formato
da Monreale, Piana degli Albanesi, Corleone, Alcamo, Partinico, Montelepre. Comuni
noti per i Brusca, Di Maggio, Siino, Salamone e per la base operativa
insediatavi, negli ultimi decenni, da Salvatore Riina. Comuni che, con motivazioni
diverse, si rilevano nelle biografie non solo di Calvi, Insalaco, Salvo,
Sindona ma anche di Marco Minghetti, Benito Mussolini, V.E. Orlando o dei parlamentari
Rocco Balsano, Alfredo Cucco, Lanza di Trabia, Giovanni Lo Monte, Francesco
Termini, Nicolò Zito. Sono i comuni di Portella della Ginestra e dell'
"ideologo" della banda Giuliano, Pasquale Sciortino. Comuni di luminari, professori, professionisti e di straordinari
arricchimenti attraverso mediatori, assicuratori, industrie conserviere e
portuali, mulini e pastifici. Nel 1927 l'on. Rocco Balsano dichiarava
dinanzi al giudice Triolo: "Se un comune vi era in Sicilia dove la
maffia era onnipotente era proprio quello di San Giuseppe Jato". Erano
gli anni del ducino on. Alfredo Cucco, plenipotenziario del fascismo
in Sicilia, legato alla mafia dei comuni jatini attraverso il suo compare
d'anello Santo Termini, Sindaco di San Giuseppe Jato. Erano gli anni del
prefetto Mori che, quasi certamente indagando sulla mafia dei comuni jatini,
veniva "promosso" e trasferito. L'esposizione,
sotto forma di dialogo, e lo stile, a tratti ironico, rendono la lettura
scorrevole e piacevole senza nulla togliere alla serietà dell'argomento
e al contenuto, spesso tragico, della
documentazione d'archivio riportata. |
Indice
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Pag. |
Nota della Casa Editrice a cura di F.P. Castiglione |
5 |
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Introduzione di Marcelle Padovani |
10 |
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Prologo |
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Internet da Paradiso |
14 |
I Beccadelli: Principi di Camporeale e fondatori del centro jatino |
16 |
Alla ricerca di San Giuseppe su Internet. Sorpresa! La mafia |
18 |
Riina, Di Maggio, Brusca, Siino… |
23 |
Non solo Andreotti e San Giuseppe: anche Marco Minghetti, Benito
Mussolini e Vittorio Emanuele Orlando |
27 |
Un noto anonimo degli anni '90. Vip |
29 |
Portella della Ginestra |
33 |
Anno 1999: "Non c'è nulla di male a essere mafiosi!" |
38 |
Anno 1926. On. Rocco Balsano: "Se un comune in Sicilia vi era
dove la maffia era onnipotente era proprio quello di San Giuseppe Jato." |
40 |
San Giuseppe nelle aspirazioni del Principe |
42 |
Luminari, professori, professionisti, mediatori, assicuratori,
industrie conserviere e portuali, mulini e pastifici |
43 |
Per conoscere la mafia. |
49 |
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1918-1925: gli anni dei grandi
arricchimenti |
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Alfredo Cucco, Santo Termini, Ciccino Cuccia e il Prefetto di
Ferro Cesare Mori |
55 |
Truffe, estorsioni, ruberie e ammazzatine. Le grandi retate di
Mori. Il Processo a Santo Termini e compagni. |
62 |
Elementi utili per un’analisi economica del territorio |
91 |
San Giuseppe Jato nel memoriale di una cooperativa |
94 |
1922-23: quando per eleggere l’Arciprete di San Giuseppe Jato si
mobilitava mezza Italia |
97 |
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Nascita e sviluppo della mafia sul
territorio: analisi storico-documentale |
108 |
I primi abitanti: vittime del maggiorasco e liberati dal carcere |
109 |
I gestori di violenza |
117 |
L'ordine pubblico sul territorio |
120 |
I galantuomini: l'alba dei mafiusi |
123 |
Compagni d'armi, campieri e galantuomini |
127 |
I medi proprietari ovvero la borghesia nascente all'assalto dei latifondi |
129 |
Mafiusi, rivolte e rivoluzioni: 1820, 1848, 1860,
1866 |
132 |
Dal 1866 al 1912. I Fasci Siciliani |
136 |
1912 - 1925: nascita della mafia moderna |
142 |
La mafia è… |
154 |
La mafia oggi: primo, secondo e terzo livello |
157 |
Non solo mafia. L'area dello Jato: terra di lotte e ribellioni. |
167 |
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Bibliografia |
177 |
Realtà mafiosa e burattinai
Nota
della Casa Editrice «Edizioni
della Battaglia»
a
cura di Francesco Paolo Castiglione
E’
incredibile la rapidità e la pervasività con cui un certo sistema speculativo
violento - che oggi chiamiamo mafia - finalizzato al rapido arricchimento di individui
e di gruppi familistici, sia comparso e si sia immediatamente e largamente
diffuso, come maligna metastasi, in molti piccoli centri dell’agro palermitano,
tra la fine del Settecento e gli anni dell’Unità italiana. Questo lavoro di
Gioacchino Nania ne fornisce un esempio da manuale, scoprendo, con impressionante
evidenza, lo spessore e l’incredibile ampiezza delle dinamiche mafiose che
hanno agito nel piccolo centro di San Giuseppe Jato, condizionandovi, per quasi
due secoli, la realtà socioeconomica e politica.
San
Giuseppe Jato, naturalmente, non è il solo centro interessato al fenomeno.
Molti storici, e non ultimo Salvatore Lupo, hanno indagato la realtà mafiosa della
fascia agrumicola palermitana. Chi scrive, nel corso del riordino dell’archivio
storico di una famiglia della buona borghesia palermitana, oriunda di
Misilmeri, si è trovato a constatare, naturalmente da un limitato angolo visuale
quale può essere l’archivio di una sola famiglia, lo stesso tipo di dinamiche.
E’ apparso chiaro, dai documenti notarili - molti dei quali relativi ai vari passaggi
di proprietà dei cespiti poi pervenuti ai proprietari dell’archivio - che le
leggi eversive della feudalità e della manomorta ecclesiastica e quelle
relative alla liquidazione delle “promiscuità” feudali, degli usi civici e dei
beni demaniali dei Comuni, hanno dapprima favorito il nascere di una forte
classe di proprietari, appartenenti alla piccola nobiltà e alle professioni. A
Misilmeri, centro feudale dominato dai principi della Cattolica e dai marchesi
di Spedalotto, grazie a questi meccanismi e col ricorso generalizzato allo
strumento dell’enfiteusi, vediamo emergere piccoli nobili come i Tasca, che ben
presto si fregiano dei titoli di principi di Cutò e di Trabia, già appartenuti
alle antiche famiglie dei Filangeri e dei Lanza; o come i Pilo, conti di
Capaci, già feudo della rinascimentale famiglia dei Bologna. Tra i funzionari
pubblici e i professionisti di Misilmeri, spicca l’elevazione sociale della
famiglia Paternostro, ben presto trasferitasi a Palermo dove sarà protagonista
della vita civile e politica. Tutta gente che parteciperà in diverse maniere,
assieme ai facinorosi delle “squadre” di picciotti, ai moti unitari.
Basti pensare a Rosolino Pilo, dei conti di Capaci.
Assieme
a costoro, vediamo nitidamente emergere altri personaggi, senza che la
documentazione e la logica ci aiutino a comprenderne le modalità di arricchimento.
Per esempio: un carrettiere, impossidente e analfabeta, che già nel 1863,
subito dopo l’avventura garibaldina, è in grado di dotare il figlio, per atto
notarile, di appezzamenti di terreno e case. Naturalmente, gli atti notarili
non documentano sopraffazioni, violenze e profferte di protezione. Documentano,
però, l’usura; e la documentano in una dimensione insospettabile in un piccolo
centro come la Misilmeri ottocentesca. Numerosissime sono le vendite con patto
di riscatto entro un certo tempo e per un certo importo: nient’altro che pegni
reali rilasciati ai prestatori di capitali. Quasi sempre, alla scadenza di
queste vendite fittizie segue l’atto di presa di possesso del nuovo
proprietario: l’usuraio. E il sistema è tanto generalizzato che i pochi notai attivi
sul territorio si fanno predisporre a stampa apposite cartelle-copertine per
gli atti di “Mutui privati” e relativi “Atti di quietanza”, tutti elegantemente
rifiniti con la cura calligrafica ottocentesca. E tra i concedenti di questi
mutui, che rodono le proprietà dei debitori, troviamo anche uno di questi
stessi notai attivi a Misilmeri. Quasi sempre, sulle proprietà così finite
nelle mani dei prestatori di capitali, gravano canoni enfiteutici in favore
degli antichi feudatari o del “Fondo per il culto”, prova inoppugnabile che si
tratta di cespiti assegnati ad enfiteuti in forza delle leggi eversive della
feudalità e della manomorta, finiti, come si paventava da più parti, nelle mani
degli usurai. Tra le righe non scritte degli atti, si può indovinare la notevole
capacità di imposizione del rispetto delle condizioni usurarie da parte di questi
finanziatori, in un’epoca e in un contesto dove i morti ammazzati, spesso per
molto meno e quasi sempre per conflitti di proprietà, si contano a decine. Un
doveroso riserbo professionale nei confronti dei committenti del riordino
dell’archivio ci ha distolti da un approfondimento che pur ci tentava; speriamo
che queste poche righe invoglino qualcun altro, non vincolato a riserbo alcuno,
a farlo.
Anche
a San Giuseppe Jato si è avuta una prima fase di arricchimento di una nutrita
classe di imprenditori e di professionisti di importanza regionale, sui cui
meccanismi di elevazione sociale il lavoro di Nania non indaga. E in parallelo
con l’elevazione di questo ceto, esplode, con inequivocabile nitidezza, il fenomeno
mafioso; uno dei cui primi obiettivi sarà l’occupazione dell'amministrazione comunale, con la
benedizione di settori del clero locale e di politici regionali e nazionali.
Nessun legame tra i due fenomeni è desumibile dal pregevole lavoro di Nania;
ciononostante, sembra di potersi affermare che, per una sorta di
incomprensibile meccanismo - ma forse non tanto incomprensibile se lo si collega
ai repentini arricchimenti e al successivo bisogno di protezione dei beni acquisiti
- la potenza delle cosche mafiose locali è direttamente proporzionale alla
potenza economica e sociale raggiunta da questo nuovo ceto di possidenti.
E
non possiamo, a questo punto, non accennare al problema delle cosiddette “relazioni
esterne”.
Marcelle
Padovani, nella sua bellissima introduzione, ricordando la lezione del
compianto Giovanni Falcone, esclude categoricamente l’esistenza del “terzo livello”
e del “grande burattinaio”. Siamo d’accordo con lei, ma a certe condizioni e
con alcuni distinguo. Allo stato delle indagini - culturali e giudiziarie - non
siamo in grado di affermare che esista un “terzo livello”; ma possiamo affermare,
senza tema di smentite, che esistono
“reati di terzo livello”, come dimostrano, per esempio, i «casi» Salvo,
Contrada, Mandalari, Sindona, Siino, e via elencando. “Reati di terzo livello”,
per stigmatizzare i quali, come ben ha affermato lo storico Salvatore Lupo nel
corso di un dibattito più avanti citato, la procedura giudiziaria è spesso
strumento non idoneo o inadeguato, e nei cui confronti i giudizi vengono
validamente pronunciati dalla storia, con maggiore incidenza, pregnanza e
validità di quelli pronunciati dai magistrati. E la società civile e il mondo
della cultura hanno il diritto-dovere di pronunciarli, anche in disaccordo con
la magistratura: basti pensare alle assoluzioni giudiziarie di tanti importanti
personaggi coinvolti nello scandalo della “Banca Romana”, condannati, però,
dalla storia e dalla pubblica opinione, o alle motivazioni politiche che hanno
provocato la strage di Portella della Ginestra, rimaste ignote ai magistrati.
Ed hanno il dovere di ricordare alla classe dirigente del Paese le sue
responsabilità politiche, anche quelle di carattere etico e morale. Il magistrato persegue - quando lo fa - reati
individuali; la cultura, invece, giudica fenomeni sociali e culturali che
incidono positivamente o negativamente sull’evolvere dei contesti umani. Le
stesse parole di Falcone vanno riferite alla situazione di molti anni fa; il magistrato
ignorava alcune cose che il tempo ha poi disvelato, e subiva la pressante
necessità di non prestare il fianco ad attacchi politici, possibili in quei
giorni e in quel contesto, da parte di chi non aspettava che un suo passo falso
per vanificare il suo intero operato. Di conseguenza, non ha toccato il tasto
delle “relazioni esterne”; e anche per questo, forse, è caduto; vittima non
solo di “cosa nostra”, ma anche di “complicità occulte in settori deviati e
corrotti delle istituzioni e del mondo politico-economico-finanziario” (Luca
Tescaroli, Perché fu ucciso Giovanni Falcone, Rubettino).
In
un recente, pregevole ed originale studio sociologico sulla mafia - Mafie vecchie,
mafie nuove (Donzelli Editore) - lo studioso Rocco Sciarrone dedica molte
pagine di acute analisi al cosiddetto “capitale sociale” della mafia, o delle
mafie. Cioè, a quell’assieme di risorse che permettono alla mafia di imporsi su
un territorio, di operarvi con successo e di caratterizzarsi. Componente
essenziale di questo “capitale sociale” è il controllo del territorio,
risultante dalla combinazione estorsione-protezione e dall’esistenza di una
fittissima rete di “relazioni esterne”, senza le quali la mafia non sarebbe
mafia ma delinquenza comune. Relazioni esterne, nel cui ambito Sciarrone
individua una scala di “prossimità” mafiosa, che va dall’imprenditore vittima
dell’estorsione, che subendo la protezione mafiosa senza ribellarsi,
incrementa, suo malgrado, il capitale sociale della mafia, ai “succubi”, agli
imprenditori “subordinati”, ai “collusi” e agli “integrati”. Assieme a costoro,
danno vita a “relazioni esterne” politici di ogni livello istituzionale e
infedeli funzionari dei pubblici uffici. Basti ricordare alcuni recenti - e
tuttora insoluti - casi di assassinio di funzionari della Regione Sicilia.
Il
libro di Sciarrone è stato presentato a Palermo, nel corso di un dibattito a
cui hanno partecipato il penalista Giovanni Fiandaca, il magistrato della
Procura di Palermo, Antonio Ingroia e lo storico Salvatore Lupo; dibattito
pubblicato sulla prestigiosa rivista palermitana “Segno”, diretta da Nino
Fasullo. L’analisi di Sciarrone è apparsa a tutti convincente e
scientificamente corretta. E tutti hanno lamentato l’attuale disattenzione e la
colpevole sottovalutazione, riservate dall’opinione pubblica, ma soprattutto
dalle istituzioni, siciliane e non, al problema mafia; un fenomeno tuttora vivo
e vegeto e in fase di riorganizzazione “sommersa”. Una riorganizzazione che ha
l’obiettivo primario di riacquistare un pieno controllo del territorio,
attraverso la ricostituzione capillare dei due basilari meccanismi: quello
dell’estorsione-protezione e quello delle indispensabili relazioni esterne.
Un fenomeno che, in una qualche maniera, non può non essere in itinere
anche in un tradizionale centro di mafia come San Giuseppe Jato; Nania, però,
non ce ne parla.
Allora, occorre che le istituzioni e l’opinione pubblica restino sveglie e vigili: non esiste, di sicuro, un grande burattinaio; ma esiste un vasto ceto di disponibili insospettabili, che conferisce consistenza e valore al “capitale sociale” della mafia.
a Salvatore Mineo,
capo dell'opposizione in consiglio comunale.
Assassinato, nel corso principale
alle ore 21 del 29 maggio 1920,
dalla mafia che spadroneggiava
al Comune di San Giuseppe Jato.
Privato, sino ad oggi,
del riconoscimento che spetta
agli uomini forti e generosi:
la memoria del proprio sacrificio.
Marcelle
Padovani
Sono stata colpita anch'io dal valore metaforico, dal punto di
vista della mafia, di San Giuseppe Jato.
Era il Natale del '98. Ero lì a intervistare il sindaco, Maria
Maniscalco, per il mio giornale[1].
Mi saltò agli occhi la concentrazione di tematiche mafiose (ed
antimafiose) che questa piccola città della provincia di Palermo accumulava.
C'era in giro la "carovana antimafia". C'erano Falcone e
Borsellino sulla facciata del municipio. C'era il sindaco, impegnato a fare
chiarezza nell'amministrazione comunale. C'erano le iscrizioni sui muri. E c'erano
anche i "mostri di Cosa Nostra", ben presenti, quasi palpabili, i
Brusca, i Di Maggio, i Siino, tramite le loro donne, imperterrite e a volte
arroganti. In mezzo a una popolazione che "si sentiva presa in ostaggio
sotto il tiro incrociato dei pentiti nemici" (così scrissi).
Ma mai avrei immaginato quanto questo primato
"mostruoso" avesse radici così lontane e così profonde.
L'ho capito leggendo il libro di Gioacchino Nania.
L'ho letto d'un fiato, non lo dico per retorica. Oltre alle sue
qualità espositive e alla sua costruzione convincente, "San Giuseppe e la
mafia" mi è apparso subito come un esempio di ricerca sociologica, lo
studio di una realtà locale col senso della sua rappresentatività generale.
Seguendo le ricerche di don Giuseppe, principe di Camporeale, personaggio
altamente emblematico, a metà strada fra Candide e Giufà, sempre in cerca di
ragionamenti logici, si capisce perché, quando e come si sviluppa la mafia.
"San Giuseppe e la mafia", ricostruzione metodica dei
meccanismi dell'insediamento e del radicamento mafioso sul territorio, fa
capire col massimo della concretezza la funzione decisiva svolta
dall'abolizione del feudalesimo, il ruolo contraddittorio della Chiesa, e
quello, ancora più paradossale dello Stato, nell'affermazione di Cosa Nostra in
Sicilia.
A questa lettura documentata dei processi di formazione mafiosa,
che delinea un "ideal-type" alla Max Weber, si accede con stile
ironico, e con la passione civile tipica di molti Siciliani illuministi: è
proprio vero che il racconto "voltairiano" corrisponde bene a questa
mentalità insulare alla ricerca perenne della ragione.
Sociologo e cittadino, Gioacchino Nania si dimostra così maestro
nel raccontare la mafia vera, tangibile, quella che fa soffrire al quotidiano,
e attraverso i secoli.
Ecco: uscendo,
appunto, dalla concretezza vissuta, c'è un punto, un solo punto di analisi col
quale mi permetterò di dissentire con Nania. Riguarda il "terzo livello".
Lo so che la mafia ha avuto, ed ha, degli alleati anche molto potenti. Ma non credo,
per dirla brevemente e prosaicamente, che ci sia qualcosa "al di sopra
della mafia", degli uomini, dei livelli decisionali, degli interessi
potenti e occulti che spiegherebbero la vitalità di Cosa Nostra e la difficoltà
a sradicarla. Penso invece che la mafia, "essendo un fenomeno umano, ha
avuto un inizio, e un culmine ed avrà una fine". E che bisogna
convincersi, per lottare efficacemente contro la mafia che non c'è la mano
oscura di un eventuale puparo dietro le cose di Cosa Nostra.
Trainava l'aratro, il carretto e 'a stravula.
Trasportava
covoni, frumento, paglia, fieno, uva, mosto, legna ed anche le persone. Percorrendo infinite circonferenze pisava
grano, fave, favetta, pruvènna e cìciri. Produceva il concime. Partecipava all'occupazione delle terre. Si rendeva utile anche quando riposava: nella
stalla, ricavata all'interno dell'abitazione,emanava calore.
Mai un lamento. Sembrava (o forse era?) una macchina. Solo il padrone sapeva che il mulo aveva un'anima. No! Non era istinto! Secondo lui il mulo capiva le difficoltà della
famiglia e…lavorava…lavorava. Nella solitudine e nel silenzio della campagna al mulo raccontava tutto: i suoi segreti, le aspirazioni, le angosce, le
paure. Ed anche i rancori. Era un amico vero. Solamente a una cosa teneva il mulo: la festa di Tagliavia. E lui l'accontentava. Il dì di festa, dopo averlo lavato e strigliato, montava 'a vardedda, la sella delle
occasioni, e, con una coffa di pruvenna, via! Al
santuario. Lì comprava due bandierine con l'immagine della Madonna che attaccava al testale già adorno di fiori
di campo. Certo! Non è che quel giorno sembrasse un cavallo! Era però un mulo felice. Come il suo padrone. "Avvenuta la rapina, com'era
costume in quei tempi, mi recai a trovare Santo Termini capo della delinquenza che imperava in
paese e ne ebbi assicurazione che avrebbe spiegato il suo interessamento per
il recupero degli animali, avendo io fatto atto di prontezza per il pagamento
del prezzo che egli avrebbe fissato per il riscatto degli animali…e mi diede
in cambio un mulo vecchio che io poi rivendetti, dopo circa 15 giorni, per
lire 1050. Io non volevo cambiare il mulo con quest'altro più vecchio ma
temendo le rappresaglie a malincuore dovetti cedere e me ne tornai piangendo
a San Giuseppe Jato." (Giuseppe Piediscalzi al giudice Triolo, 1926) |
Tutte le fonti relative all’Archivio di Stato di Palermo (ASP),
all’Archivio Storico Diocesano di Monreale (ASDM) e all’Archivio Comunale e
Parrocchiale di San Giuseppe Jato sono inedite. Si precisa inoltre che le
fonti riferite ai siti WEB di Internet risultano consultabili, alla data di
pubblicazione del presente lavoro, presso gli indirizzi riportati. L’autore accetta precisazioni, consigli, complimenti oltre ad
eventuali insulti. Ma non oltre. Si rammenta ai lettori che attentati, sparatorie e affini sono
severamente vietati, e talvolta puniti, dalla legge. Ringrazio
gli amici Guido Agnello, Francesco Paolo Castiglione, Giuseppe Grippi, Pino
Guarneri, Antonio Jovane, Domenico La Porta, Lino Maniscalco, Enzo Micciché,
Mario Scamardo, Enrico Simonetti, Pippo Taormina, per le lunghe discussioni,
soprattutto a tavola, nell'analisi del fenomeno. Un
ringraziamento particolare a Maria Teresa Anelli di Roma per la sua preziosa
disponibilità. |
PROLOGO
Internet da Paradiso
La mattina del
6 gennaio 2000 alle ore 7.00 don Giuseppe Beccadelli Bologna, Principe di
Camporeale, attraverso il motore di ricerca AltaVista
iniziava a navigare in Internet. Aveva appena digitato il tema della sua
ricerca - Dammusi - ed immediatamente una lunga teoria di pagine Web si
era messa a scorrere sul monitor.
Internet! Che grande invenzione! Collegava gli angoli più remoti
della terra consentendo l'accesso a miliardi e miliardi di informazioni.
Risultava, nel campo delle comunicazioni, la più grande tra le realizzazioni
della comunità internazionale. Aveva un solo difetto: la rete delle reti
era sprovvista di un collegamento con l'aldilà.
Il Padreterno, inizialmente un po' scettico, si era ben
presto reso conto della mancanza. Nella sua infinita sapienza e bontà non
poteva consentire che di un tale strumento, che tanti uomini rendeva felici
sulla terra, fosse privo proprio l’aldilà dove la felicità dei
trapassati avrebbe dovuto essere completa. In occasione del Giubileo 2000, per
la cronaca la notte di San Silvestro, il Creatore aveva risolto il problema,
com'era sua abitudine, alla grande.
Intanto, attraverso una maxi-indulgenza, aveva condonato tutti i
peccati commessi nel millennio precedente trasferendo tutti in Paradiso e
chiudendo temporaneamente sia Purgatorio che Inferno. La sospensione del
servizio di Purgatorio e Inferno si rendeva necessaria per la disinfestazione
e, soprattutto, per la manutenzione ordinaria dell'impianto di riscaldamento.
Poi, con una operazione da manuale, aveva risolto in pochi istanti il problema
del collegamento. Attraverso i normali canali col Vaticano aveva dato incarico
al suo stretto collaboratore, Gian Paolo, di occuparsi delle autorizzazioni
presso l’Authority di Internet, il NIC com'era indicato tra gli addetti.
Nella comunità dei beati si soleva ricordare, sempre con contenuta
ilarità, la risposta del Vaticano trasmessa in codice Morse attraverso l'uso
del vecchio e obsoleto telegramma (in Paradiso - per l'assenza di Internet -
mancava anche il servizio di e-mail, la posta elettronica). C’era
scritto:
COMUNICASI AUTORIZZAZIONE NIC ALLACCIAMENTO ATTRAVERSO VATICANO
punto COLLEGAMENTO PARADISO EST IMPOSSIBILE punto DITTE CONTATTATE TELECOM
virgola INFOSTRADA virgola WIND NON SUNT ATTREZZATE FARE MIRACOLI
punto STIAMO CONTATTANDO DITTA AMERICANA BELL CHE virgola SETTORE
COMUNICAZIONI virgola DICUNT FACIT MIRACOLI punto QUID DEBEMUS FACERE punto
interrogativo TUO GIAMPAOLO.
Subito dopo ne era pervenuto un altro:
RIFERIMENTO PRECEDENTE TELEGRAMMA INFORMASI CHE GRUPPO FIAT
HABET PROPOSTO COSTITUZIONE CONSORZIO CUM ISTITUTO OPERE RELIGIONE PER
ACQUISTO CINQUANTUN PER CENTO parentesi apertura CINQUANTUN PER CENTO parentesi
chiusura AZIONI AMERICANA BELL punto ATTENDONSI DISPOSIZIONI punto
SEMPRE TUO virgola GIAMPAOLO.
Alla lettura dei telegrammi al Padreterno erano girate le scatole.
Ma come! Ora si rivolgevano agli americani anche per i miracoli!? A parte
quelle locuzioni telegrafiche in latino macheronicus questa era la
seconda che Gian Paolo gli combinava! La prima volta, con un comportamento a
dir poco leggero, aveva fatto vacillare la fede di milioni di fedeli: Gian Paolo,
in occasione della nota malattia, invece di andare a Lourdes si era fatto
ricoverare in un ospedale di Roma.
«Pazienza!» Aveva detto. Si era trattato di un pronto soccorso,
Lourdes era al di là delle Alpi e… c'era passato sopra! Questa però un ci calàva.
Anche perché se gli americani si erano pure messi a fare miracoli e persino il
Vaticano gli dava corda, a Lui, all’Onnipotente, che restava da fare?! Entrare
in concorrenza?
Si calmò subito. Il perdere la pazienza non faceva parte del suo
carattere. Abbozzò un breve paternale sorriso, guardò con aria di compatimento
in direzione del Vaticano e, sottovoce, sussurrò:
«FIAT!».
Immediatamente, proveniente dalle parti di Torino, sentì una voce
chiara e inconfondibile:
«Pvego! Dica puve, Eccellenza!»
«Accidenti!» Esclamò il Creatore. «In questo mestiere non è
consentita la benché minima imperfezione!»
Rifece l'operazione. Si concentrò. Guardò con occhi a
pampinedda verso l'estremità sinistra dell'infinito e, stavolta in
minuscolo, pronunziò la biblica parola: «fiat!»
E Internet fu.
Subito dopo, a differenza del millennio precedente, pensò di
festeggiare - era la prima volta - la Befana. Fu così che ciascun inquilino del
Paradiso, oltre ad essere beato, divenne felice possessore di un computer
Pentium III, ultimo modello, con relativo modem e abbonamento a Internet per
5000 anni. Quest’ultimo automaticamente rinnovabile.
I Beccadelli, Principi di Camporeale e
fondatori del centro jatino
C’era stata un po’ di ressa durante la distribuzione dei computers.
Anche in Paradiso occasioni come queste erano motivo di confusione. Una delle
cose che nessuno riusciva a spiegare era come mai la comunità dei beati
inglesi, al solito in perfetta fila, risultava sempre l'ultima a raggiungere il
punto di distribuzione.
Don Giuseppe
Beccadelli, attraverso buone amicizie che non aveva
smesso mai di coltivare, era stato il primo a munirsi di computer e
collegamento a Internet.
Essere o arrivare primi i Beccadelli se lo portavano nel sangue.
Don Ferdinando Beccadelli, ad esempio, il 31 luglio del 1790 era
stato il primo a raggiungere con un barca il temerario e coraggioso cavalier
Vincenzo Lunardi che, sul lungomare tra Palermo e Aspra -
alla presenza del viceré, di una gran moltitudine di nobili e di popolo - aveva
effettuato la prima ascensione in Sicilia su un pallone aerostatico.
Don Gaspare Beccadelli, ambasciatore di Sua Maestà il Re di
Napoli a Vienna nel 1776 era stato nominato Primo Segretario di Stato e per
tale nomina Giovanni Evangelista Di Blasi, autore di una voluminosa quanto noiosa
"Storia del Regno di Sicilia", aveva scritto per i posteri:
…i palermitani sperimentarono una indicibile allegrezza nel
vedere innalzato a tale carica un loro concittadino.
Il primo però in assoluto, colui che nel corso dei secoli
continuava a dare lustro alla famiglia Beccadelli, era e rimaneva Antonio
Beccadelli detto il Panormita (Palermo
1394–Napoli 1471) umanista, diplomatico, autore dell’Hermaphroditus: una
raccolta di ottanta epigrammi latini elegiaci modellati sulla poesia di Catullo e Marziale.
In verità anche il senatore Pietro Paolo Beccadelli Acton, pure lui Principe di Camporeale,
era stato primo cittadino di Palermo nel 1900. Ma più che come Sindaco di
Palermo di lui si rammentava che aveva primeggiato per la sua notevole perizia
nel settore vitivinicolo: perizia che aveva concorso a porre
…i Camporeale a San Giuseppe assieme ai Di Rudinì a Pachino, i Florio a Marsala, i Tasca Lanza a Palermo tra i protagonisti della ristrutturazione viticola attraverso
l’uso razionale degli innesti e il perfezionamento dei sistemi di vinificazione[2].
Nessun ospite, nella sontuosa dimora di Dammusi, si era mai
congedato senza aver prima adempito un preciso desiderio del Principe: la
visita alla sala dove, con mal celato orgoglio, mostrava la splendida cornice
d'argento contenente il "Primo Premio" alla Mostra
Internazionale di Bruxelles assegnato al vino jatino "Signora".
Oltre
all’acquisto di quell'esteso territorio don Giuseppe Beccadelli aveva ottenuto dal Re di Napoli anche la licentia
populandi: poteva edificare nuovi centri abitati. Il primo centro iniziò a
edificarlo in contrada Macellaro e lo denominò con una parte del titolo di cui
i Beccadelli erano in possesso almeno dal XV secolo: Camporeale. Il secondo
decise di edificarlo in contrada Mortilli e, nell'assegnargli il proprio nome,
forse pensò di soddisfare le aspettative dello sposo della Madonna di cui era
devoto. Fu naturale che, per distinguere il nuovo San Giuseppe dai numerosi
centri con lo stesso nome, divenisse San Giuseppe li Mortilli. Scorrevano
dinanzi ai suoi occhi, in quel momento, le numerose rimostranze dei nuovi
abitanti. Tutti avevano contestato l’irrazionale esposizione a nord del sito
scelto e, soprattutto, l’edificazione su un terreno che, alle falde del monte
San Cosmano, minacciava da un momento all’altro di scoscendere verso valle.
Alla ricerca di San Giuseppe su Internet.
Sorpresa! La mafia.
I siti restituiti da Internet alla richiesta Dammusi erano
circa 80. In buona parte si trattava di pubblicità relativa ai dammusi,
freschissime casette ad un piano caratteristiche delle isole di Pantelleria e
Lampedusa, che non interessavano il Principe. Solo tre siti non appartenevano a
tale tipologia. Don Giuseppe scelse il primo che gli capitò e cliccò:
http://www.cyberworld.it/carabinieri/html/archivio/.
Immediatamente sul monitor apparve la risposta:
Omicidio: Scaglione Salvatore. In San Giuseppe Jato, contrada Dammusi, in data
30.11.1982
Pensò non
trattarsi del termine Dammusi da lui cercato e passò oltre: cercava
infatti contrada Dammusi di San Giuseppe li Mortilli non di San
Giuseppe Jato.
Decise allora
di cercare su Internet direttamente l’Università - oggi diciamo il Comune - di
San Giuseppe e digitò:
SAN GIUSEPPE LI MORTILLI
Ebbe subito la
risposta:
AltaVista found no document matching your query
(AltaVista non ha trovato alcun documento relativo alla vostra
richiesta)
Al Principe, che aveva subito compreso il senso della frase, si
gelò la schiena. In parole povere San Giuseppe li Mortilli non esisteva. Almeno
su Internet.
«E che era
successo all’Università di San Giuseppe li Mortilli?!» Si chiese incredulo e
stupefatto.
«Era stata
abbandonata?»
«Oppure era franata?» Pensò subito dopo.
Nel fare queste considerazioni il Principe focalizzò la sua attenzione
sul monte sovrastante San Giuseppe li Mortilli e ricordò che non erano tutti a
denominarlo San Cosmano: alcuni lo chiamavano monte Mori altri ancora monte
Jato. Attraverso il toponimo Jato il Principe intuì allora che San Giuseppe li
Mortilli e San Giuseppe Jato erano esattamente la stessa cosa. Digitando monte
Jato scoprì che l’Università di San Giuseppe li Mortilli era, come da molti
paventato, veramente franata a valle quasi per intero l’11 marzo 1838. Per
fortuna però i suoi industriosi abitanti, oltre ad edificare il limitrofo
centro di San Cipirello, avevano anche ricostruito le abitazioni crollate.
Rianimatosi don
Giuseppe Beccadelli si rese conto che il primo sito Web relativo
a Dammusi era proprio quello che cercava e, passando ad altra pagina, cliccò:
http://www.cyberworld.it
/carabinieri/html/archivio/com2.html
Alla lettura di quel che apparve sul monitor esclamò in modo quasi
spontaneo «per D.» ma non terminò la locuzione immediatamente corretta in «per
dinci!». Poi fissò il monitor leggendo senza pronunciare ed anche senza
pensare.
Inzerillo Santo, nato a Palermo 23.4.1946, strangolato in San Giuseppe Jato in contrada
Dammusi il 26.5.1981;
Di Maggio Calogero, nato Torretta (PA) 16.8.1924, strangolato in San Giuseppe
Jato in contrada Dammusi il 26.5.1981;
Scaglione Salvatore, nato a Palermo il 6.4.1940, strangolato in San Giuseppe Jato
in contrada Dammusi il 30.11.1982;
Riccobono Rosario, nato a Palermo IL 10.2.1929, strangolato in San Giuseppe Jato in
contrada Dammusi il 30.11.1982;
Micalizzi Salvatore, nato a Palermo il 23.8.1952, strangolato in San Giuseppe
Jato in contrada Dammusi il 30.11.1982;
Savoca Carlo, nato a Palermo il 28.10.1943, strangolato in San Giuseppe Jato in
contrada Dammusi il 30.11.1982;
Cannella Vincenzo, nato a Palermo il 13.8.1947, strangolato in San Giuseppe
Jato in contrada Dammusi il 30.11.1982…[3]
Quando completò la lettura ed ebbe modo di riprendersi riuscì a
chiedere ad un vecchio santo appollaiato su una nuvoletta limitrofa:
«Scusassi zio santo, nel 1982 in Sicilia guerra ci fu?»
«No.» Rispose sicuro il santo che dall’aria sembrava molto
informato. Poi continuò: «tieni però presente, Principe, che ci sono tanti tipi
di guerre: guerre alla povertà, guerre di religione, guerre di mafia…».
Il Principe, pensando che il vecchio santo avesse trovato lo
spunto per attaccar bottone, lo liquidò di colpo con un «grazie!!» e, stordito
per quanto aveva letto sulla sua Dammusi, non si preoccupò neppure di
chiedere cosa significasse mafia, termine del quale sconosceva
l’esistenza.
Ma com’era stato sbadato! Era mai possibile che nel 1982 gli
uomini si fossero ridotti a far le guerre strangolandosi! E che avevano fatto,
il disarmo totale? E poi tutti quei morti ammazzati nel mese di novembre! Che
ammazzassero la gente per festeggiare le ricorrenze!? No. Non era possibile.
Dalle notizie giunte nell'aldilà, in verità col contagocce, risultava
che novembre era e continuava ad essere il mese dei morti, non dei morti
ammazzati. Ad ogni buon conto si propose un approfondimento successivo.
La cosa che più lo sconvolgeva era il pensare che quella
carneficina fosse avvenuta nella sua Dammusi, il suo Eden, il luogo dove
lui, i suoi figli, i figli dei suoi figli avevano trascorso buona parte della
loro terrena esistenza. Certo! Non è che ai suoi tempi ci fosse penuria di
morti ammazzati! Ma, Dio mio, a questo livello! E poi tutti nella stessa
giornata!
In modo quasi automatico, utilizzando la tecnica dell'ipertesto,
portò il cursore su un certo Scaglione Salvatore, pigiò il tasto sinistro del
mouse e sul monitor spuntò:
Omicidio: Scaglione Salvatore. In San Giuseppe Jato, contrada Dammusi, in data
30.11.1982…I quatto cadaveri, a cui dopo si aggiunse quello dello Scaglione,
furono messi in 2 bidoni con acido nel vicino torrente. Si dovette inoltre procedere
all’acquisto di altro acido perché la bassa temperatura del torrente rallentava
l’opera di corrosione…
Dalla lettura integrale[4] di quanto riportato non è che il Principe
ci capì tanto. Il linea di massima riuscì ad afferrare che si trattava di
regolamento di conti tra persone appartenenti a gruppi con posizioni
strategiche (e ideologiche?) diverse. Comprese che a volte la gente, oltre ad
essere strangolata, veniva disciolta negli acidi. Ed in relazione a
quest'ultima operazione, tra gli addetti ai lavori detta squagghiatìna,
opinò che potesse trattarsi di una nuova tecnica finalizzata alla salvaguardia
dell'ambiente. Per il resto non capì un tubo. Uomini d'onore! Mandamenti! E che
erano?! Non riusciva poi ad inquadrare nel verso giusto quel rapporto tra
famiglia e mandamento. Ai suoi tempi quando si scioglieva una famiglia (non
negli acidi!) si ottenevano due persone, marito e moglie, che se ne andavano
ognuna per i cavoli propri. Ora, invece, dallo scioglimento di una famiglia
nasceva un nuovo mandamento. Vacci a capire!
Decise allora di ripiegare nuovamente sull'ausilio del santo
appollaiato il quale, in quel momento, era occupato a spalmarsi sulle spalle un
po' di crema anti-ustioni.
«Scusassi ancora, zio santo, cosa significa uomo d'onore
lei lo sa?»
«Uomo d'onore» rispose subito il santo «è un appartenente
alla mafia.»
«E la mafia che cos'è?» Chiese, senza pensarci, il
Principe.
«La mafia,» disse il santo, «in altri tempi chiamata maffia inizia
la sua opera nel secolo scorso o meglio, considerato che siamo già entrati nel
2000, nel secolo XIX…»
Ma non ebbe il tempo di completare la frase perché fu interrotto,
ancora una volta, dal Principe.
«No! No! Zio santo! Mi interessa solo una definizione concisa del
termine. Il significato e basta. Può usarmi la gentilezza di indicare dove
posso trovare una spiegazione breve, precisa ed esaustiva?»
«Ascolta Principe!» Rispose il santo ostentando velatamente la
propria autorità gerarchicamente superiore. «Prima di lanciarti a capofitto
sulla tastiera del computer hai frequentato il corso su Internet?»
«No.» Rispose il Principe.
«Io invece sì.» Disse secco il santo. E continuò:
«Stamattina mentre tu te la fissiàvi ad armeggiare col
mouse e la tastiera io ero impegnato a seguire il corso accelerato “Come
diventare luminari di Internet in tre milionesimi di secondo”: corso
che non solo era gratis ma ti avrebbe consentito, se lo avessi frequentato, di
acquisire un titolo più adeguato ai tempi moderni. Invece dovrai aspettare
altri 1000 anni per il prossimo corso! Sì. E' vero. Potresti sempre ripiegare
sui corsi per corrispondenza. Ma consentimi: non ne vale la pena! Ti rilasciano
un ridicolo e misero attestato che non porta mai molto lontano.»
«Ma allora il senatore Bossi che ha seguito il corso per
corrispondenza della Scuola Radio Elettra di Torino?!» Disse il Principe tra il
timido e la consapevolezza di aver preso il santo in castagna.
«L'eccezione, lo sanno cani e gatti, conferma la regola.» Rispose mezzo
incazzatizzo il santo. Poi continuò:
«Sì è vero. Bossi ne ha fatta di strada. Ma dove? Sulla Terra. In
Italia. Qui non avrebbe fatto neppure un centimetro della via Lattea! Qui in
Paradiso, come dovresti sapere, le correnti di pensiero dominanti ormai fanno
quasi tutte riferimento al neopositivismo del Circolo di Vienna e al
pragmatismo americano di James. E allora siamo pratici, Principe! Tu credi che
se a Bossi si guastasse il televisore o il frigorifero di casa lui sarebbe in grado
di ripararlo? Ascoltami bene. Il tipo di ricerca su cui ti vedo impegnato, in
altri tempi avrebbe presupposto la frequenza a biblioteche e archivi con code e
lunghe attese. Oggi è possibile accedervi attraverso Internet. Bisogna però
conoscere i relativi siti. Per le biblioteche uno dei migliori servizi in
Italia lo trovi all'SBN - Servizio Bibliotecario Nazionale - il cui indirizzo,
che ti invito a memorizzare, è
http://www.iccu.sbn.it/sbn.htm
Collegandoti a tale sito e digitando, che so… un autore, un
titolo, un editore, un argomento, potrai sapere in quali biblioteche italiane
trovare il volume e consultarlo.»
«E per gli archivi?»
«Per gli archivi puoi collegarti al sito
http://www.archivi.beniculturali.it/
oppure, visto che la tua Dammusi ricade in territorio di
Monreale, al sito
http://www.archiviomonreale.sicilia.it/»
«Grazie!» Rispose il Principe.
«Aspetta! Non ho ancora finito.» Continuò il santo. «Io ho bisogno
di distendermi perché la frequenza al corso mi ha molto stressato. Vado a
riposarmi su quella nuvola in fondo a circa 18.000 km da qui. Tu dirai: perché
così lontano? Per il semplice motivo che non sopporto il ticchettio della tua
tastiera! Se dovessi ancora avere bisogno chiamami al cellulare. Ah! Stavo
dimenticando! Una delle prime definizioni sulla mafia puoi reperirla in
un'opera giovanile di Giuseppe Pitrè: Vocabolario marinaresco siciliano.
Ciao!». E volò via.
Riina, Di Maggio, Brusca, Siino…
Il Principe, seguendo le istruzioni del santo, trovò subito la
definizione nel volume indicato:
Io son pago di affermare la esistenza della nostra voce - mafia
- nel primo sessantennio di questo secolo in un rione di Palermo, il Borgo, che
fino a vent’anni addietro faceva parte per se stesso, e si reputava qual era
topograficamente, diviso dalla città. E al Borgo la voce mafia coi suoi
derivati valse, e vale sempre, bellezza, grandiosità, perfezione, eccellenza
nel suo genere…Alla idea di bellezza la voce mafia unisce quella di
superiorità e di valentia nel miglior specificato della parola, e discorrendo
di uomo, sicurtà d’animo, e in eccesso di questa, baldezza, ma non mai braveria
in cattivo senso, non mai arroganza, non mai tracotanza. L’uomo di mafia
o mafioso, inteso in questo senso naturale e proprio, non dovrebbe
metter paura a nessuno perché pochi quanto lui sono creanzati e rispettosi.
Alla lettura della definizione del Pitrè il Principe di Camporeale
fu assalito da nuova confusione oltre che da sconforto: la strada era diventata
ancora più ripida.
«Ma come!?» Disse. «Se i mafiosi - belli, grandiosi, perfetti,
eccellenti - si strangolano tra loro sciogliendosi negli acidi, allora i non
mafiosi che faranno?».
«Minimo minimo,» rispose a se stesso «si sbraneranno le carni
leccandosi il sangue e riducendo le ossa in polvere con un martello!»
Si rese allora conto della necessità di ulteriori approfondimenti.
Ripristinò nuovamente il collegamento col motore di ricerca AltaVista,
digitò mafia e sul monitor spuntò:
Word MAFIA:
AltaVista found 181050 Web pages
(AltaVista ha trovato 181.050 pagine Web della parola
mafia)
Fece allora, ad alta voce, un rapidissimo calcolo ragionato: «Se
ogni pagina Web la facciamo corrispondere mediamente a 10 pagine normali, fanno
1.810.050 pagine normali. Se ad ogni pagina normale corrispondono in media 400
parole, fanno 724.020.000 parole. Se in un minuto si riescono a leggere 60 parole,
allora per leggerle tutte occorreranno 724020000/60 =12.067.000 minuti. Ovvero
circa 23 anni; notti comprese! Senza contare le frequenti interruzioni nei
collegamenti dovute al pessimo servizio dei gestori della telefonia in Italia.»
Certo, di tempo a disposizione ne aveva quanto voleva, ma non lo allettava affatto
la prospettiva di impiegare 23 anni della sua eternità nella lettura di quella
montagna di informazioni. Anche perché non era assolutamente sicuro - in questi
casi, si sa, ognuno dice o scrive la sua - che sarebbe riuscito alla fine ad avere
le idee chiare sull'argomento. Fu così che il Principe decise di navigare nell'ambito
di quelle pagine selezionando, con opportune operazioni di filtraggio, i
siti Web mafiosi - in tal modo li definì per distinguerli dagli altri -
legati alla sua San Giuseppe Jato.
Scoprì allora che la mafia aveva avuto origini in Sicilia; che si
trattava di un'organizzazione criminale; che quasi certamente la definizione
del Pitré era da riferire ad altra epoca; che la mafia si era diffusa in tutto
il mondo e che il capo dei capi era stato, o forse continuava ad essere, un
certo Totò Riina. Seppe che Riina aveva trascorso molti
anni della latitanza nella sua Dammusi dove, secondo le dichiarazioni di
Giovanni Brusca di San Giuseppe Jato, era stato custodito
una sorta di arsenale militare della mafia. Notò pure che buona parte dei siti,
nazionali ed internazionali, relativi alla mafia riconducevano a San Giuseppe
Jato e, viceversa, digitando San Giuseppe Jato si ritornava, come se si
trattasse di sinonimo, alla mafia.
«Ma guarda un po'!» Pensò «quanto è divenuto importante il centro
da me fondato!».
Continuando a navigare in Internet venne a conoscenza di un famoso
magistrato, Giovanni Falcone, fatto saltare in aria con un ordigno
esplosivo, il cui pulsante era stato cliccato da uno di San Giuseppe
Jato: Giovanni Brusca. Poi si accorse che Riina, ricercato dalle polizie di
mezzo mondo per oltre vent'anni, era stato arrestato nel 1993 e che
l'operazione era stata resa possibile da un certo Balduccio Di Maggio.
E di dov'era Balduccio Di Maggio?
Di San Giuseppe Jato.
Scoprì pure che la mafia, in Sicilia, aveva un proprio Ministro
dei Lavori Pubblici.
E di dov'era il Ministro?
«Di San Giuseppe Jato?» Tirò ad indovinare.
Non si era sbagliato. Era Angelo Siino nato e domiciliato a San Giuseppe Jato.
E giacché navigava nell'area dei Lavori Pubblici fece una capatina
sul sito delle imprese che operavano nel settore. Scoprì così che nel 1987
all'Albo Nazionale dei Costruttori del Ministero dei Lavori Pubblici - quello
statale - risultavano iscritte 84 imprese di San Giuseppe Jato. Un vero e
proprio record: per ogni cento abitanti, inclusi vecchi e bambini, c'era
un'impresa operante nel settore dei lavori pubblici.
«Meno male!» Pensò il Principe. «Per fortuna eccelliamo anche nel
mondo del lavoro!»
Nel visitare il sito relativo all'Albo Nazionale si era un po'
allontanato dai siti mafiosi. Tornò allora indietro e la sua attenzione
si centrò sull'indirizzo
http://www.itdf.pa.cnr.it/web/andreotti/atti/procura/.
Cliccò e gli
spuntò:
ESPOSIZIONE INTRODUTTIVA DEL PUBBLICO MINISTERO nel
processo penale n. 3538/94 N.R., instaurato nei confronti di Giulio
ANDREOTTI, nato a Roma
il 14.1.1919, per il reato di cui all'art. 416 C.P. (fino al 28.9.1982), e per
il reato di cui all'art. 416 bis c.p. (dal 29.9.1982 in poi).
«Possibile?!» Esclamò il Principe.
E invece sì. Era proprio lui: il Presidente, elevato alla settima,
Giulio Andreotti.
In Paradiso era già ritenuto di casa. Di lui si diceva un gran
bene e se ne elogiava particolarmente l'impegno: un vero paladino della Fede e
del Vaticano. Si diceva che da un momento all'altro sarebbe arrivato per unirsi
alla comunità dei beati in attesa di diventare santo. Così almeno avevano
assicurato quasi tutti i Papi approdati negli ultimi cinquant'anni in Paradiso,
ciascuno adducendo sempre la stessa motivazione: Giulio, giorno dopo giorno,
rischiava la pelle; continuava a fare troppe, troppe leggi che mettevano il
bastone fra le ruote alle varie criminalità, organizzate e non, ma soprattutto
alla mafia. Di Papi però ne erano arrivati ben quattro e del Presidente non si
era vista neppure una delle sue sette ombre. Anzi l'ultimo - Luciani - per evitare di fare la figuraccia dei
predecessori non solo aveva cominciato a mettere in dubbio la certezza della
morte, ma aveva pure improvvisato una sorta di bisca dove accettava puntate
sull'arrivo del quinto Papa ancor prima di Giulio. In ogni caso, sostenevano
con sicurezza i beati più anziani, prima o poi si sarebbe presentato. In
Paradiso circolava voce che per il suo arrivo sarebbe stata organizzata una
grande parata: si dava per certo infatti l'arrivo di Giulio in carrozza. Negli
ultimi tempi però l'euforia era scemata. Tutta colpa di quella frase delle zie
del Presidente:
«Giulio,» gli avevano detto «in Paradiso non si va in carrozza!».
Era quella una frase usuale per esprimere le difficoltà che si
incontrano nel guadagnarsi il Paradiso. Nel caso di Giulio, però, era apparsa
molto sibillina: si trattava di un ordine del Padreterno trasmesso attraverso
le zie? Le zie sapevano qualcosa di cui non volevano o potevano parlare?
Nessuno era stato in grado di fornire una spiegazione plausibile.
«Certo,» pensò il Principe «se dovesse rispondere a verità quanto
scritto sulle pagine delle ordinanze dei pubblici ministeri di Palermo e
Perugia, altro che carrozza! Minimo minimo rischia di arrivare in Paradiso
arrampicandosi su una fune; se non dovrà addirittura attendere la
maxi-indulgenza del prossimo millennio!». Non è che il G.U.P. (Giudice Unico
del Paradiso) si ritenesse vincolato alle sentenze dei tribunali terreni. Ci
sarebbe mancato altro! Sull'associazione mafiosa, ad esempio, si poteva pure
intavolare una trattativa. Ma sul bacio no. Al bacio il G.U.P. era
particolarmente allergico. Ogni volta che si parlava di bacio gli venivano in
mente, come in un incubo, evangelici tradimenti. In fondo come si poteva dargli
torto!? Come poteva mai dimenticare che per un bacio ci aveva appizzàto
un figlio!?
Continuando a leggere il Principe notò che il capo d'imputazione
più grave, o forse più eclatante, era legato alla testimonianza di un uomo il
quale asseriva di avere assistito al bacio tra Andreotti e Riina.
«Se è di San Giuseppe Jato,» aveva pensato, «stasera me la vendo
al Club Paradise!»
Non si era sbagliato! Era Balduccio Di Maggio.
E non era finita. Nel corso del processo del secolo, così
era stato definito, il Di Maggio denunziava un tentativo di corruzione, per svariati
miliardi, finalizzato alla ritrattazione di quanto dichiarato a proposito del
bacio di Andreotti. E chi era il sedicente corruttore?
L'ex Sindaco di San Giuseppe Jato, Baldassare Migliore.
Sempre nel corso del processo veniva organizzato un falso
complotto ai danni di Andreotti: Giovanni Brusca avrebbe dovuto dichiarare di avere
raggiunto un accordo con Luciano Violante, poi Presidente della Camera, per incastrare
Andreotti. Il Brusca, nel frattempo pentito, non aveva mai messo in atto il
progetto. Chi invece aveva sparso ai quattro venti il falso complotto,
presentandolo per vero e creando più che uno scoop un putiferio, era stato un
avvocato di San Giuseppe Jato: Vito Ganci.
Certo tali notizie erano da prendere con le pinze.
«E chi se ne frega!» Pensò il Principe. «Gli autori sempre di San
Giuseppe Jato sono!»
Non solo Andreotti e San Giuseppe: anche Marco Minghetti, Benito Mussolini e Vittorio Emanuele Orlando
«Chi l'avrebbe mai immaginato» pensò il Principe poco dopo «che il
centro da me fondato avrebbe avuto a che fare per la terza volta con un
Presidente del Consiglio! Almeno alla luce del sole.»
Oltre un secolo prima, subito dopo l'Unità d'Italia, un altro
grande Presidente del Consiglio, Marco Minghetti, a San Giuseppe Jato ci si era
addirittura sposato, impalmando la mortillara - così erano denominati
anticamente gli abitanti di San Giuseppe li Mortilli - donna Laura Beccadelli Acton di casa Camporeale. All'epoca,
grande era stato il giubilo dei mortillari - oggi jatini - per un sì grande
onore, tanto che una delle principali vie del paese era stata poi intitolata al
grande statista. E, come risulta dal carteggio presso l'Archivio Storico Diocesano
di Monreale, notevole era stato anche l'attaccamento e la riconoscenza degli
jatini a donna Laura la quale, pur tra i numerosi impegni mondani della Capitale,
aveva sempre continuato a occuparsi e preoccuparsi dei bisogni dei suoi concittadini
e, soprattutto, concittadine. In verità, in casa Camporeale, quello era stato
un matrimonio alquanto contrastato: una famiglia del passato regime borbonico
non poteva unirsi al principale rappresentante del nuovo Governo usurpatore.
Poi però erano prevalse le logiche di sopravvivenza. La famiglia Beccadelli,
dagli Aragonesi in poi, sfruttando il momento giusto si era sempre trovata al
posto giusto. Non poteva lasciarsi sfuggire la ghiotta occasione. E così quella
sofferta decisione aveva contemporaneamente determinato la celebrazione di due
sacramenti: il matrimonio di donna Laura e il battesimo del passaggio di casa
Camporeale al nuovo regime dei Savoia.
Un altro Presidente del Consiglio risultava ufficialmente legato a
San Giuseppe Jato: il Presidente dei Presidenti S.E. Benito Mussolini. Il 6 maggio 1924 si trovava a Piana
degli Albanesi alla testa di un lungo corteo. Accanto a Benito, nella macchina
presidenziale, don Ciccino Cuccia - sindaco di Piana e capo indiscusso
della locale consorteria mafiosa - sussurrava una frase poi consegnata alla
storia:
Voscenza, signor Capitano - così aveva chiamato familiarmente Benito - Lei è con mia, è sotto
la mia protezione. Che bisogno aveva di portare tanti sbirri?
Don Ciccino era strettissimo amico di don Santino Termini, Sindaco di San Giuseppe Jato. Ma quel
grande onore di cui aveva goduto don Ciccino era stato l'elemento scatenante,
malgrado l'amicizia, l'invidia del Termini. Certo! Benito sempre amico di un
amico era! Ma per don Santo non era stato sufficiente. Messi da parte i propri
trascorsi liberali, popolari e di altri partiti dei quali non ebbe il tempo di
ricordarsi, iscritto un solo punto all'ordine del giorno e riunito, in seduta
straordinaria, il Consiglio Comunale, conferiva la cittadinanza onoraria al
Duce[5].
Alla seduta 9 consiglieri su 20, in parte militanti del fascio, risultavano
assenti. Per quasi tutti gli unanimi il conferimento della cittadinanza
onoraria al Capo del Governo non era stato però sufficiente, alcuni mesi dopo,
ad evitare il soggiorno nelle patrie galere con l'accusa di mafia, assassini e
ruberie varie, assieme a circa 150 elementi di San Giuseppe Jato e San
Cipirello. In ogni caso Mussolini rimase sempre grato per tale riconoscimento
che lo poneva sullo stesso piano di un altro cittadino onorario qual era il
prof. on. Giuseppe Caronia, scienziato, e successivamente, ma questo
non poteva saperlo, dell'archeologo prof. Hans Peter Isler, Direttore della Facoltà di Archeologia
dell'Università di Zurigo e degli scavi dell'antica Jato e dell'ex Procuratore
della Repubblica di Palermo dott. Giancarlo Caselli. E la gratitudine ebbe a manifestarla, in
maniera concreta, alle ore 15.30 del 27 maggio 1927 in un famoso discorso alla
Camera, poi pubblicato su due grandi manifesti fatti affiggere in tutte le
piazze d'Italia. Nell'elencare uno per uno i comuni del palermitano dove
maggiore era la presenza della mafia - Corleone, Piana dei Greci, Santa
Cristina Gela, Parco, Termini Imerese, Belmonte, Mezzoiuso, Bisacquino, Chiusa
Sclafani, Contessa Entellina, Campofiorito, Casteldaccia, Baucina, Ventimiglia,
Bagheria, Ficarazzi, Villabate, Santa Flavia, Roccamena - tralasciava di citare
la sua città onoraria San Giuseppe Jato. E dire che per numero di arresti, di
diffidati, di delitti commessi, il comune jatino risultava il primo tra quelli
elencati. All'occasione fruivano della gratitudine del Capo del Governo anche i
limitrofi San Cipirello, Partinico e Borgetto che, in fatto di mafia,
costituivano un gruppo inscindibile con San Giuseppe Jato.
C'era un altro Presidente del Consiglio che, quasi certamente,
aveva avuto legami diretti con i due comuni jatini: S.E. l'on. prof. Vittorio
Emanuele Orlando. Il Principe si trovò nel dubbio se
annoverarlo in questa sorta di albo d'oro. Sì! C'era tanta gente che giurava di
averlo visto diverse volte a schiticchiari, mangiando castrato e
salsiccia, assieme ai componenti dell'amministrazione comunale poi tutti
arrestati. Ma si trattava di fatti non documentati anche se, sulla attendibilità
delle persone, si poteva mettere la mano sul fuoco senza il rischio di far la
fine di Muzio Scevola. In verità trovò un documento, diciamo ufficiale, che
lasciava supporre l'attendibilità delle dichiarazioni: una delibera del 5 febbraio
1921, proposta dal sindaco Santo Termini, relativa alla realizzazione della linea
ferrata. Così concludeva:
Il Consiglio Comunale delibera di chiedere a S.E. il prof.
V.E.Orlando, on. Giovanni Lo Monte, on. Nicolò Zito, S.E. Lanza di Trabia, cui a cuore stanno i bisogni di questa cittadinanza,
perché spieghino vivamente il loro autorevole interessamento presso il Governo
del Re.
Il Principe, per capirci meglio, fece allora un ragionamento alla
fimminina, semplice ed efficace:
- l'Amministrazione di Santo Termini era qualificata mafiosa.
- l'on. prof. V.E. Orlando doveva alla mafia buona parte delle sue
fortune elettorali.
- l'on. Giovanni Lo Monte era appoggiato dai mafiosi Cassini di Contessa Entellina; era legato alla
mafia di San Cipirello; risultava, negli archivi della polizia, che nel 1911
aveva organizzato una rapina sul vagone postale del treno nella tratta Vita -
Salemi assieme a Termini Santo di San Giuseppe Jato e Todaro Vito di San Cipirello.
- l'on. Nicolò Zito, un vecchio notabile proprietario di
agrumeti a Palermo Mezzomonreale, era appoggiato dal mafioso don Vito Cascio
Ferro di Bisacquino. Quest'ultimo, a sua volta,
era ritenuto responsabile dell'assassinio del tenente Joe Petrosino, avvenuto nel 1909. Era stato però scagionato
dalla dichiarazione di un deputato: all'ora del delitto il Cascio Ferro si
trovava a cenare a casa sua.
- S.E. Lanza di Trabia apparteneva alla famiglia che aveva
concesso al mafioso Giuseppe Genco Russo, responsabile di una cooperativa di
pastori, l'ex feudo Malpertugio e l'ex feudo Polizzello di circa 2000 ettari.
Trovò che tutti i personaggi citati avevano in comune la parola mafia,
e poté concludere:
«Anche i mafiosi mangiano.» Aggiungendo poi: «coi Presidenti del
Consiglio!»
Un noto anonimo degli anni '90. Vip
Continuando a navigare sui siti Web mafiosi venne pure a
conoscenza di un fatto abbastanza singolare che, all'epoca, aveva subito fatto
il giro delle redazioni dei giornali. Agli inizi degli anni novanta un anonimo,
si opinava trattarsi di un addetto ai lavori, aveva messo in giro una serie di
previsioni che, a distanza anche notevole di tempo, si sarebbero rivelate di
una esattezza sconcertante: roba da fare innervosire persino il Padreterno il
quale, nella nobile arte di prevedere il futuro, riteneva di avere l'esclusiva.
Era riportato l'imminente arresto, meglio la consegna spontanea, di Riina; si parlava minuziosamente degli attuali
(di allora) assetti del potere; ma soprattutto veniva tracciato, minuziosamente
e su vasta scala, un nuovo organigramma del potere politico e criminale per gli
anni successivi: ministri che sarebbero caduti in disgrazia, deputati che
sarebbero divenuti ministri, boss che sarebbero emersi, altri che sarebbero
stati messi a riposo, alcuni in quello eterno altri - sarebbe stata la prima
volta - in pensione. L'anonimo poi precisava che il nuovo organigramma non era
il parto delle sue logiche deduzioni; era invece il risultato di estenuanti trattative
tra le parti interessate. Fatte dove?
«Vuoi vedere…» pensò il Principe.
Sì. Proprio lì. A San Giuseppe Jato.
Tra i personaggi reperiti su Internet, degno di citazione sembrò
al Principe anche l'on. Insalaco.
Giuseppe Insalaco a San Giuseppe Jato c'era nato e ci si
era anche sposato. Negli anni '60, poco più che ventenne, era stato un enfant
prodige della politica locale. In quegli anni svolgeva le mansioni di
segretario particolare dell'on. Franco Restivo, professore universitario, grande
proprietario terriero nell'area belicina, ex presidente della Regione e
vice-presidente della Camera. L'on. Restivo, o il Presidente com'era chiamato,
aveva fatto il grande salto come Ministro degli Interni e, successivamente,
della Difesa: due ministeri chiave, specie quello degli Interni, nel proprio
collegio elettorale. A San Giuseppe Jato e San Cipirello non v'era elezione in
cui il primo degli eletti non fosse il candidato di Insalaco. E se il secondo
racimolava più della metà delle preferenze rispetto a quelle del Presidente
allora la parola più pronunciata, tra gli intristiti sostenitori restiviani,
risultava debacle: il cui significato, ai più, era sconosciuto. Tutti,
nei due comuni jatini, ricordavano le lunghe code di individui, delle più
variegate estrazioni sociali, presso la segreteria particolare di via Dante n.
55 a Palermo. Tanti erano stati gli jatini che, grazie al suo interessamento,
avevano risolto l'endemico problema del lavoro con accesso, per chiamata
diretta, presso la pubblica amministrazione. Poi Pippo, così era chiamato
indistintamente da tutti, faceva il grande salto a deputato regionale e,
successivamente, a Sindaco di Palermo. E, continuando a fare salti, ci aveva
pure rimesso la pelle. Anche allora si era a conoscenza che due potevano essere
i risultati dei grandi saltatori: o campioni mondiali o guaribili in una
trentina di giorni salvo ricovero al cimitero. Che l'avesse assassinato la
mafia non c'erano dubbi. Nessuno, però, era mai riuscito a capire su quale
fronte fosse caduto. Nel tentativo di darsi una risposta il Principe non poté
far altro che utilizzare il metodo semiprobabilistico: in genere il 99%
degli assassinati faceva parte, su avversi fronti, della stessa organizzazione
mafiosa. Poi c'era l'1%. Ma rimase sempre nel dubbio.
A proposito di sindaci trovò pure che il padre del Sindaco di
Milano, Paolo Pillitteri, a sua volta cognato di Bettino Craxi, era di San Giuseppe Jato.
Quello degli anni settanta-ottanta era stato un periodo
particolare. Sembrava che in Italia nessuno potesse accedere alle stanze del
potere politico ed economico se nel DNA non avesse un qualcosa che lo legasse
alla Sicilia.
Craxi, ad esempio, era originario del messinese.
Enrico Cuccia era siciliano. Non v'era Cuccia al mondo
le cui origini non risalissero al limitrofo Comune di Piana degli Albanesi. La
presenza dei Cuccia a Piana, documenti alla mano, risaliva alla fondazione
della città nel XV secolo. Di Cuccia a Piana ce n'era un quarto di paese e di
tutti i colori: ricchi, poveri, di sinistra, di destra, mafiosi e poliziotti.
Michele Sindona il plurititolato: banchiere di Dio,
salvatore della lira. Titoli che, in occasione del noto fallimento,
erano stati sintetizzati nell'unico di cui in carcere potesse ancora gloriarsi:
bancarottiere siculo. Michele Sindona era nato a Patti, si era girato il
mondo ma, chissà per quale motivo, una parte della convalescenza - dopo un
colpo di lupara alla gamba in un finto sequestro - aveva preferito trascorrerla
all'aria tersa e limpida del territorio jatino. Così almeno sembrava assicurare
Anciluzzo Siino di San Giuseppe Jato nelle sue dichiarazioni
come collaboratore di giustizia. Chi mai avrebbe poi immaginato che don
Michele, carico di lauree honoris causa, sarebbe morto d'ignoranza!?
«Dottore Sindona!» Gli avevano proposto in carcere, «lo gradirebbe
un caffè corretto all'asparìno?»
«Sì, grazie, con vero piacere!» Aveva risposto don Michele convinto che l'asparìno, detto in
minuscolo, fosse un concentrato di asparagi e rosmarino: roba di cui andava
matto. Si era sbagliato. Sapeva che Pisciotta nel '54 in carcere aveva gradito un caffè
corretto alla stricnina, sapeva che all'anagrafe era registrato col nome di
Gaspare, ignorava però che amici e conoscenti lo avevano sempre affettuosamente
chiamato Asparìno!
Roberto Calvi non aveva legami con la Sicilia ma gli
erano stati procurati da un gruppo di killers di Altofonte, un comune
dipendente dal mandamento (mafioso) di San Giuseppe Jato: con l'utilizzo di
robuste liàmi era stato legato e suicidato sotto il ponte dei Frati Neri
a Londra.
Uno che aveva rischiato di interrompere una brillante carriera per
mancanza di origini sicule era stato l'on. Claudio Martelli, allora delfino del poi divenuto extracomunitario
Bettino Craxi. In occasione delle elezioni nazionali
del 1987 era stata proposta la sua candidatura nel Collegio della Sicilia
Occidentale. Malgrado fossero state assoldate alcune squadre di topi d'archivio
non era stato reperito uno straccio di documento che potesse far supporre un
legame, anche lontano nel tempo, del Martelli con l'isola. Il responsabile
delle squadre di topi era stato lapidario:
«Qui,» aveva detto sicuro «continuando la ricerca indietro nel
tempo, andiamo a finire dritti dritti ad Adamo ed Eva!»
«E non è sufficiente?!» Aveva esclamato uno degli interlocutori
convinto che il sito del Paradiso Terrestre fosse stato la Sicilia.
«Non basta.» Gli avevano risposto in coro gli altri interlocutori.
«In questo modo tutti siciliani sono!»
Il Martelli allora, sceso in Sicilia, si adoperava tentando
l'impossibile. Rovistando con impegno nel proprio passato trovava la soluzione.
Riuniva gli interlocutori e, con una oratoria forte e appassionata ma anche
ragionata, riusciva ad ammorbidire i loro cuori e a illuminarne le menti. Nel
corso dell'intervento alcuni termini quali onore, amicizia, silenzio
erano stati utilizzati a tinchitè incastonati in alcune espressioni di
notevole effetto attraverso l'utilizzo sporadico di vocaboli siculi appresi
nottetempo. Concludeva con orgoglio:
«Da tempi immemorabili, nel cuore, siciliano sempre sono stato! La
sofferenza per l'impossibilità di ostentare la sicilitudine repressa mi è stata
compagna nel corso degli anni. Paragonati al mio patologico pathos i Dolori
del giovine Werther erano palìchi. Ora nel momento più importante e
delicato della mia travagliata esistenza mi rivolgo a voi, uomini che
nell'onore avete riposto il senso e lo scopo della vostra vita, perché possa
essere annoverato ed iscritto negli elenchi del nobile popolo siciliano!» Poi
precisava:
«In ogni caso, se questo non dovesse bastare, ecco la prova
certificata del mio sicilianesimo.»
Delicatamente poggiava sul tavolo un certificato dell'Ufficio Leva
attestante che il soldato Claudio Martelli aveva prestato il servizio militare a
Trapani.
«Pure all'interno del collegio elettorale!» Avevano pensato tutti.
A quel punto gli interlocutori, tutti assieme e all'unisono,
profferivano:
«Che siciliani si nasce vero è; ma, in caso di necessità, pure si
diventa!»
Era chiaro, considerate le premesse, che il Martelli avrebbe
dovuto essere il primo degli eletti. Ed infatti lo fu. Anche a San Giuseppe
Jato e San Cipirello. Peccato che poco dopo, divenuto prima Vice Presidente del
Consiglio e successivamente Ministro di Grazia e Giustizia, procedeva a
cancellarsi dall'elenco dei siculi. Colpa, si diceva, di un attentato nella sua
villa di Roma tentato dai Ganci di San Giuseppe Jato[6].
E dire che, prima della trasferta sicula, gli era stato ricordato a chiare
lettere:
«Claudio!» Gli avevano detto «ti consigliamo di non fare promesse.
Ma se dovessi farle o capisci che laggiù capiscono che tu gliele hai fatte,
mantienile! Tieni pure presente che a volte capiscono che tu hai capito ciò che
in realtà non hai capito. Stai attento che in Sicilia in fatto di impegni
politici un si cugghiunìa e ci po' puru scappari 'u mortu!»
Si racconta che Martelli, appena a conoscenza dei rudimenti del
dialetto, in occasione dell'attentato, si era espresso in siciliano perfetto:
«Minchia!!!» Aveva detto «ora puru 'u chiummu accuminciò
a circolari?»
Mai, come in quel momento, aveva tanto desiderato di sentirsi
italiano. E un vero italiano divenne. In Sicilia non solo non fu mai più
rivisto ma della parentesi sicula cercò pure di cancellarne il ricordo.[7]
Portella della Ginestra
Un toponimo che ricorreva spesso nell'ambito dei siti Web
mafiosi era Portella della Ginestra.
Il Principe conosceva bene quel luogo a un tiro di lupara dalla
sua proprietà. Situato a circa tre miglia da San Giuseppe Jato era il passaggio
obbligato per chi voleva recarsi a Piana degli Albanesi, allora denominata dei
Greci. Utilizzando il toponimo come filtro ottenne un gran numero di pagine Web
che gli consentirono di farsi un'idea sul perché della fama. A Portella era
stata consumata una strage il 1° maggio 1947. Ufficialmente, almeno dalla
lettura del verdetto dei Giudici della Corte di Viterbo, risultava che a
sparare su una folla di contadini, inermi e in festa, erano stati solo ed
esclusivamente i componenti di una banda di briganti che, guidata da Salvatore
Giuliano, scorazzava sul territorio. Giuliano era
di Montelepre ma - notò di sfuggita il Principe - aveva iniziato la sua
fulminante carriera criminale a San Giuseppe Jato assassinando, il 2 settembre
1943, il carabiniere Antonio Mancino. Dalla lettura, invece, di quanto trovò attraverso
Internet, sui media, nelle biblioteche e negli archivi, il Principe trasse la
conclusione che doveva trattarsi di un autentico manicomio. A seconda delle
correnti di pensiero i motivi e i mandanti della carneficina andavano ricercati
in:
- una risposta, di sapore vendicativo, alla vittoria delle
sinistre del Blocco del Popolo nelle prime elezioni regionali del 20 aprile
1947, organizzata da alcuni partiti (monarchico soprattutto);
- un'azione propedeutica, disposta dal Ministro degli Interni
Scelba di concerto con gli americani, tendente a
preparare il campo per le elezioni nazionali del 18 aprile 1948;
- un'azione dimostrativa dei gabelloti, quasi tutti mafiosi, del
territorio che nelle organizzazioni cooperativistiche locali trovavano delle
agguerritissime concorrenti nell'affitto (o gabella) dei feudi;
- un'azione dimostrativa degli agrari preoccupati dalle recenti
occupazioni delle terre;
- una vendetta personale di Giuliano.
- un'azione combinata di parte o di tutte le precedenti.
Quanto agli esecutori materiali della strage notò che quasi
nessuno si era bevuta la tesi risultante dagli accertamenti processuali che
individuava nei componenti la banda Giuliano i soli responsabili dell'eccidio.
A seconda delle diverse scuole di pensiero a sparare a Portella erano stati:
- solo i banditi;
- i banditi e i mafiosi;
- i banditi, i mafiosi e i servizi segreti italiani;
- i banditi, i mafiosi, i servizi segreti italiani e quelli
americani;
- i banditi, i mafiosi, i servizi segreti italiani e quelli
americani con l'ulteriore precisazione:
- i servizi segreti americani sapevano che
a sparare assieme a loro c'erano: i servizi segreti italiani, i mafiosi e i banditi;
- i servizi segreti italiani erano certi
della presenza dei mafiosi e dei banditi ma non lo erano della presenza dei
servizi segreti americani;
- i mafiosi sapevano che c'erano i
banditi, ma non sapevano che c'erano pure i servizi segreti italiani e americani;
- i banditi non sapevano che a sparare
assieme a loro c'erano i mafiosi, i servizi segreti italiani e quelli
americani. Per personale constatazione erano solo certi di esserci e
null'altro.
«Un casino!» esclamò il Principe «E chi ci va dietro?!».
Era quasi deciso a passare oltre. Poi, però, la curiosità di
verificare se i suoi concittadini avessero o meno preso parte ad una tale
impresa ebbe il sopravvento. Notò intanto che, nella strage, almeno sei jatini
ci avevano lasciato la pelle. Poi trovò che al processo di Viterbo si era molto
dibattuto sull'esistenza di una lettera consegnata a Salvatore Giuliano tre giorni prima della strage. In quella
sede era stato sostenuto che la lettera aveva dato il via ai preparativi per l'eccidio
perché Giuliano, dopo averla letta, aveva detto a Giovanni Genovese suo compagno fidato: «E' venuta l'ora
della nostra liberazione!» Poi, forse, l'aveva bruciata.
Sulla provenienza della lettera c'erano state diverse precisazioni:
Asparìno Pisciotta il 15 gennaio 1951 aveva dichiarato
testualmente
…che il Giuliano recentemente, e circa un anno addietro,
parlando di tale lettera mi disse che questa gli era stata inviata dal Ministro
Scelba a mezzo di un deputato di cui Giuliano non mi fece il
nome.
La madre di Giuliano, Maria Lombardo, il 25 maggio 1951 confermava l'esistenza
della lettera ma dichiarava che proveniva dall'America. Sia la Lombardo che il
Genovese erano però concordi nell'indicare il latore della lettera nella persona
di Pasquale Sciortino di San Cipirello marito di Mariannina, sorella di Giuliano.
«E chistu è 'u primu!» disse il Principe. Poi cercò di
conoscere il personaggio attraverso la lettura di un recente volume[8].
In carcere, nell'attesa di scontare i 26 anni della condanna definitiva,
Sciortino aveva trovato il tempo di diplomarsi
geometra e successivamente di conseguire la laurea in Agraria scrivendo, contemporaneamente,
libri di carattere autobiografico, oltre ad una Storia di Salvatore Giuliano precisando, in retro copertina, che si
trattava di suo cognato.
«Mah!» si chiese il Principe «questo Sciortino era un bandito, un mafioso o tutte e due
le cose?»
Pier Paolo Pasolini aveva asserito trattarsi di un mafioso.
Lo scrittore, nel suo Scritti corsari, aveva fatto una lucida analisi
del linguaggio di Sciortino nel volume Zagare, arance e limoni concludendo
che, per mentalità, era un mafioso. Anche i Giudici della Corte d'Appello di
Roma nella sentenza del 10 agosto 1956 lo avevano definito
essenzialmente un mafioso e che esprimeva nella banda gli
interessi della mafia e di quel ceto agrario cui apparteneva.
Il Principe alla fine rimase nel dubbio su che cosa fosse
effettivamente lo Sciortino. Un mafioso? Un bandito? Un illuso?
Contemporaneamente mafioso, bandito e illuso? Uno a cui era andato tutto
storto? Una cosa era certa: alla fine non gli era rimasto nulla del pur
notevole patrimonio del nonno.
«Mah!» Tagliò corto il Principe «sarà stato tutto e niente nello
stesso tempo! Di tipi come lui, ogni tanto, se ne incontrano. E' pure probabile
che neppure lui sapesse cosa fosse!». E chiuse l'argomento.
Sempre alla ricerca di elementi jatini che avevano partecipato
all'impresa di Portella trovò poi una relazione[9]
del Questore di Palermo Filippo Cosenza dell'8 maggio 1947 da cui si evinceva che
tre individui di San Giuseppe Jato Troia, Romano e Marinotto erano probabilmente tra i
responsabili della strage.
Leggendo negli Archivi del Fondo Polizia il Principe trovò pure
che Troia, Romano e Marinotto, che in realtà si chiamava Marino, non appartenevano alla banda Giuliano:
erano schedati come mafiosi appartenenti alla mafia di San Giuseppe Jato. Il
Troia Giuseppe e il Marino Elia, in particolare, con un curriculum che
affondava le radici nel periodo anteriore l'avvento del Fascismo. Poi notò che
tali individui non erano i soli mafiosi presenti a Portella, naturalmente a
sparare. Andrea Borruso di anni 19 da San Giuseppe Jato, ad
esempio, aveva visto e, subito dopo denunziato, "Benedetto 'Troia' il quale armato di un fucile mitra
sparava continue raffiche". C'erano altri testimoni che dichiaravano la
presenza delle persone citate: Alvaro Scaduto di 13 anni, Menna Faraci di 18 anni. I soggetti, subito
arrestati, trovavano diversi testimoni pronti a dichiarare di averli visti,
all'ora della sparatoria, a San Giuseppe Jato. Inoltre in loro ausilio scendeva
in campo la locale sezione della Democrazia Cristiana. Il 25 luglio 1947 in un
Memoriale della sezione del Partito Democratico Cristiano di San Giuseppe Jato
inviato al Procuratore della Repubblica, il segretario, Siviglia, faceva notare
…gli alibi incontrovertibili presentati dai quattro suoi
concittadini, convalidati da numerose testimonianze degne della maggior fede ed
attendibilità nonché l'impossibilità materiale della contemporanea loro
presenza in due luoghi diversi e pertanto sollecitava l'acceleramento
dell'istruttoria per il conseguente rilascio dei quattro poveri innocenti.
Gli indiziati venivano in seguito rilasciati per l'impossibilità,
da parte del Giudice Istruttore, di interrogare i principali testimoni. Il Cusimano
perché, prelevato da non precisate autorità, era stato portato a Palermo e
da allora - fa scrivere a verbale la madre Anna Guzzetta - non l'ho più visto né so dove si
trovi. Il Borruso dietro invito di un'autorità era stato anch'esso
portato a Palermo e di lui - fa verbalizzare la madre Giuseppa Bono il 3 giugno 1947 - non ho più notizie.
Il Principe scorrendo la relazione del questore Cusenza stralciò
poi alcuni passi relativi ad una informativa dei Carabinieri di San Cipirello[10].
Sul sito della Biblioteca Regionale di Palermo consultò il
Giornale di Sicilia del 02 maggio 1947, giorno successivo a quello della
strage, e rimase particolarmente colpito da un passo della cronaca:
Un po’ più a valle intanto, due ragazzetti venuti giù da
San Cipirello, bighellonavano in riva al lago; cercavan fave e volevan forse
fare un bagno. Ma c’era parecchia gente in giro, affaccendata, che non voleva
importuni tra i piedi; poi venne un grosso camion rosso con a bordo cinque o
sei figuri e si cacciò nella galleria presso il lago...dall’altro lato, s’era
ai piedi di Monte Pizzuto, d’onde s’organizzava l’agguato. I ragazzi guardavano
un poco e poi tiravan diritto, abituati ad essere poco curiosi...poi cercavan
fave...ad un tratto un sussurrò piano qualcosa all’altro; e si nascosero;
passava, carponi, un tizio con su le spalle un’arma grossa, che avevan visto di
rado in giro, pur in questi tempi larghi di esibizioni del genere...a fatica
s’è riuscito a capir poi, che si trattava di una mitragliatrice pesante, del
tipo in uso nel nostro esercito. I ragazzi rimasero un attimo senza respiro,
poi pensarono di raggiungere la comitiva; ché quel luogo era poco rassicurante
per troppi sintomi...
Il Principe, dopo brevi ricerche, notò che nessuna autorità
giudiziaria aveva mai chiamato a testimoniare i due ragazzi di San Cipirello.
Eppure la loro dichiarazione poteva risultare molto importante:
- poteva essere la prova che si sparava sulla folla anche dal lato
opposto a quello da cui sparavano i componenti della banda Giuliano;
- poteva essere spiegata la provenienza di alcuni proiettili,
trovati addosso ad alcuni feriti, che certamente non provenivano dalle armi dei
banditi posizionati sotto il Pelavet (dal giornalista impropriamente chiamato
Pizzuto);
- poteva pure scoprirsi chi era il proprietario del camion rosso:
in paese ne esisteva, a quanto pare, solamente uno ed apparteneva ad un nipote
del capo mafia di San Cipirello Salvatore Celeste.
«Boh!» Esclamò il Principe. «Ed era scritto sul giornale locale!»
Ma non si meravigliò più di tanto. Pensò che non fosse cambiato nulla rispetto
agli ultimi tempi della sua vita terrena quando le forze dell'ordine - le
Compagnie d'Armi - non leggevano i giornali per il semplice fatto che non
sapevano leggere.
Anno 1999. "Non c'è nulla di male
a essere mafiosi!"
Si era allontanato un po' troppo indietro nel tempo. Cercò allora
di navigare alla ricerca di notizie più recenti e digitò ancora una volta San
Giuseppe Jato. Lesse all'indirizzo
http://www.gds.it/archivio/searchreg.html[11]
"Chiodo svela i piani di Brusca: Voleva morti quei due sindaci.
I due sbirri e comunisti dovevano morire come coloro
che le cosche intendono punire col massimo della pena: dovevano essere
inghiottiti dalla lupara bianca. Una fine terribile era stata progettata dai
Brusca di San Giuseppe Jato per il sindaco del paese, Maria Maniscalco , e per il marito, Domenico Giannopolo, primo cittadino di Caltavuturo, anche lui, come la
moglie, esponente del Pds: gli uomini dei boss avrebbero dovuto rapirli e non
farli ritrovare mai più, probabilmente sciogliendoli nell'acido; la stessa fine
riservata al piccolo Giuseppe Di Matteo. A raccontare questo progetto di morte è stato, ieri
pomeriggio, al processo per gli attentati agli amministratori progressisti, il
collaboratore di giustizia Vincenzo Chiodo, ex fedelissimo di Brusca, uno degli assassini confessi (e liberi) del figlio del
collaborante Santino 'Mezzanasca' Di Matteo. L'episodio descritto da Chiodo, sentito in videoconferenza,
è inedito…Ieri Chiodo ha sgombrato il campo dagli equivoci. Rispondendo alle
domande del pubblico ministero Franca Imbergamo e dell'avvocato Vincenzo Gervasi, che tutela, come parte civile, il Comune di San Giuseppe
Jato, il collaborante ha detto con chiarezza che la Maniscalco era nel mirino: La strategia - ha detto l'ex mafioso - era di
isolarla, intimidendo tutte le persone che le erano vicine. Volevamo fare terra
bruciata attorno a lei, senza colpirla in modo diretto. Ma prima c'era
stato un periodo, attorno al '93-'94, in cui era stata decisa una soluzione
finale. La Maniscalco, sbirra e comunista, la definisce Chiodo riferendo le parole che avrebbe usato Giovanni Brusca, aveva vinto le elezioni, battendo il candidato che le
cosche avrebbero portato. Da quel momento il sindaco entrò nel mirino: Enzo
Brusca - prosegue Chiodo - mi disse che dovevamo ammazzare lei e il marito. Mi
disse che avrebbero voluto fare sparire tutti e due. Chiodo non sa perché
il progetto non venne portato a compimento. Il collaborante ha poi parlato
della strategia complessiva dell'organizzazione, che intendeva scoraggiare le
iniziative antimafia, attraverso una serie innumerevole di atti di
intimidazione: incendi, danneggiamenti di automobili, attentati alle abitazioni
di campagna. Cose che comportavano danni che in sè e per sè erano di modesta
entità, ma che creavano grossi problemi economici a chi li subiva ed era
costretto a ripararli a proprie spese. Una filosofia, questa, spiegata dallo
stesso Enzo Brusca durante le indagini: A un cristianu, si cì tocchi 'a sacchetta,
allura sè, ca ci fai dannu."
E in
03 settembre 1999 - San Giuseppe Jato (PA). Un sondaggio
rivela: Non c'è nulla di male a essere mafiosi…
Ad esprimere questa convinzione sono il 61 per cento degli
abitanti del paese del palermitano che ha dato i natali ai Brusca, ma anche al
sindaco antimafia Maria Maniscalco. Più della metà della popolazione, secondo un sondaggio realizzato
dalla Servizi Italia per conto dell'arcidiocesi di Monreale, retta dal
vescovo Pio Vigo, non nasconde di non avere alcuna remora contro i mafiosi.
L'indagine è stata condotta su un campione di 1.200 persone dai 15 anni in su,
con un questionario di 34 domande realizzato dalle Università Cattolica di
Milano e di Palermo.
Alla lettura di notizie del genere il Principe pensò che non c'era
nulla da pensare ed infatti non pensò nulla. Dopo un po', rimessosi a pensare,
pensò che era venuto il momento di riposarsi. Sarebbe anche servito a scollegarsi
da Internet e liberare la linea telefonica per eventuali chiamate. Certo il
Padreterno avrebbe potuto fare un ulteriore sforzo e munirli di linea ISDN!
Sistemò ben bene la nuvola, vi si distese lungo lungo, ordinò, al
Bar Paradise, un the per il pomeriggio, compì l'atto di spegnere la luce
e chiuse gli occhi.
Si era appena addormentato quando, improvvisamente, venne
svegliato da urla di disperazione, pianti, minacce, bestemmie e imprecazioni
varie. Provenivano da un'astronave russa che, in quel momento, transitava nei
paraggi. Da Mosca, qualche istante prima, avevano comunicato a quei disgraziati
la totale mancanza di fondi per le operazioni di ritorno sulla Terra nonché le
istruzioni da seguire:
"Vykrucivajtes!!!" (Arrangiatevi!!!) Lampeggiava il
monitor di bordo.
Per fortuna l'astronave,
continuando le rivoluzioni attorno al globo, si era subito allontanata.
Quella pur breve interruzione era stata però sufficiente a fargli
perdere il sonno e a riportarlo con la mente alla sua San Giuseppe Jato. Erano
tante le domande che si poneva e alle quali non riusciva a dare una risposta:
ma cos'era veramente la mafia? Pur operando tutti nel settore della violenza
perché alcuni erano chiamati mafiosi mentre altri seguitavano a mantenere la
qualifica di banditi, briganti, ladri, etc.? E poi: perché San Giuseppe Jato
era, in fatto di mafia, tanto importante? Si trattava di un fenomeno recente?
Si era reso conto che le informazioni di cui era in possesso erano
insufficienti per abbozzare una benché minima spiegazione. Era necessario
acquisire altri elementi.
Anno 1926. On. Rocco Balsano: "Se un comune in Sicilia vi era
dove la maffia era onnipotente era proprio quello di San Giuseppe Jato."
Si collegò allora all'Archivio di Stato di Palermo e trovò, in un
verbale d'interrogatorio[12],
un'affermazione che avrebbe dato il via ad ulteriori approfondimenti:
Per ragioni del mandato politico ho per molti anni avuto a
che fare con i cittadini del Comune di San Giuseppe Jato e per essere più preciso
sin dal 1909 allorché contrapposi la mia candidatura a quella dell’on. Masi potei conoscere l’ambiente. In quel comune sin da quell’epoca i capi
della maffia avevano assunto il potere amministrativo ed annidati
nell’amministrazione vi spadroneggiavano dilapidando il denaro pubblico e
commettendo ogni sorta di delitti.
Se un comune in Sicilia vi era dove la maffia era
onnipotente era proprio quello di San Giuseppe Jato.
Sulle elezioni politiche del 1919 il Mineo Salvatore sostenne la mia candidatura, come l’aveva sostenuta in
passato contro quella dell’avv. Francesco Orlando fratello del Ministro del tempo, che era appoggiata dai
componenti l’amministrazione comunale capeggiata dal famoso Ninu 'u latru
cioè Pulejo Antonino. Il gruppo dei facinorosi si manteneva al potere per la
protezione che aveva da parte del Governo, quindi dalle autorità, contro la
volontà di quasi tutta la cittadinanza composta di uomini onesti che per timore
di vendette subivano la situazione… Palermo 5 gennaio 1927. Letto, confermato e
sottoscritto. Firmato: on. Rocco Balsano il Giudice:
Triolo
«Finalmente!» Esclamò il Principe. «Questo sì che si chiama parlar
chiaro!» Poi continuò:
«Rocco Balsano! E cu è?»
Non ci volle molto a trovare la risposta:
On. Rocco Balsano fu Calcedonio nato a Porto Empedocle nel
1863. Avvocato. Sindaco di Monreale a 21 anni. Consigliere provinciale a Palermo
per circa trent'anni. Deputato al Parlamento dalla XXIII alla XXV legislatura.
«Sarà stato,» pensò il Principe, «uno di quei deputati oppositori
di governi violenti e corrotti che trovava credito e consensi elettorali presso
le masse di contadini diseredati.»
Ma quando mai! Aveva sbagliato tutto. Si rese subito conto,
attraverso le notizie che scorrevano sul monitor, di avere commesso un
macroscopico errore di valutazione. In realtà l'on. Balsano i consensi elettorali li trovava, eccome!
Era il credito presso le masse che non trovava. Si accorse infatti che il
Balsano non solo era ritenuto il più famoso procacciatore di porto d'armi per
mafiosi e malavitosi di tutta la Sicilia Occidentale ma rappresentava
soprattutto il principale riferimento, in Parlamento, della potentissima e
sanguinaria cosca di Monreale detta la mafia degli stuppagghiari[13]
contrapposta a quella degli scurmi fitusi.
«Minchia!!!» Pensò sottopensiero il Principe per eludere i
controlli ambientali del Padreterno basati sull'intercettazione delle emissioni
cerebrali. Poi continuò sottovoce:
«E se lo dice lui! Se un addetto ai lavori, come l'on. Balsano, afferma che la mafia di San Giuseppe
Jato è la più potente - anzi onnipotente - della Sicilia, chi potrà mai
contraddirlo?»
«San Giuseppe Jato» disse a quel punto con l'aria di chi stava per
affermare una grande verità, utilizzando un barbarismo d'importazione
nord-americana «è veru, veru 'mportanti!». «Very, very important!» così
si esprimevano i numerosi jatalo-americani di ritorno da Nova Orlìn o da Nova
Iocchi.
San Giuseppe nelle aspirazioni del
Principe di Camporeale
Fare di San Giuseppe li Mortilli un centro famoso ed importante
era stata, al momento della fondazione, una delle principali aspirazioni di don
Giuseppe Beccadelli. All'epoca ciò che più lo aveva affascinato era stata la
consapevolezza di passare alla storia. Ne aveva infatti tutti i motivi.
Attraverso l'edificazione di San Giuseppe don Giuseppe entrava a far parte della ristretta elite
dei fondatori di città: Romolo, Aceste, Entello, Eryx e pochissimi altri. E il
Principe aveva cercato di fare del suo meglio nell'emulazione dei colleghi.
Solo così può essere spiegata l'assegnazione del proprio nome al nuovo centro.
Non era stato, come maliziosamente qualcuno aveva opinato, un atto di pura
vanità. Era stata invece una precisa scelta determinata dal rispetto dei canoni
dell'ideale Manuale del perfetto fondatore di città. Era Roma, tra le
poche città che potevano vantare un fondatore, e soprattutto il Vaticano[14]
ad esercitare su di lui un particolare fascino. Ma l'attaccamento del Principe
al nuovo centro si era soprattutto manifestato nel 1792, all'atto della posa
della prima pietra della Madrice: al momento della benedizione aveva deposto un
diamante sotto le fondamenta. Peccato che tutto era poi franato l'11 marzo
1838! E chissà se una delle concause della frana non era da addebitare ai
soliti ignoti alla ricerca del diamante sotto le fondazioni della chiesa! Certo,
tra i campi in cui la sua creatura avrebbe dovuto eccellere non poteva,
all'epoca, prevedere la mafia! Allora pensava all'arte, alla cultura, alle
professioni e, perché no? Alla ricchezza: ottenuta, però, con metodi almeno
semi-ortodossi. Invece la ricchezza c'era! Ma ottenuta come? Rubando a più non
posso? Imponendo la tangente anche sulla retribuzione giornaliera degli operai?
Assassinando le persone? Sciogliendo negli acidi perfino i bambini?
L'argomento mafia l'aveva molto avvilito e cercò di inventarsi
qualcosa per risollevare lo spirito. Si ricordò allora che, ancor prima del
collegamento a Internet, la notorietà di alcuni jatini era giunta sin nell'aldilà.
Certamente la fama che avevano dato al proprio paese non era minimamente
paragonabile a quella della mafia; pur tuttavia il ricordarli servì a
bilanciare in parte il proprio orgoglio ritenuto offeso. E ricordò:
Luminari, professori, professionisti, mediatori, assicuratori,
industrie conserviere e portuali, mulini e pastifici
- Il prof. Salvatore Riccobono di San Giuseppe Jato: Rettore
dell'Università di Palermo che aveva insegnato a Londra e a Washington dove in
suo onore era stato fondato il Riccobono
Seminar of Roman Law. Di
lui era stato scritto che
…era un maestro insigne del Diritto, critico profondo,
pensatore, scrittore, scienziato, giurista, ammirato ed apprezzato in tutto il
mondo intellettuale sia per la sua vastissima produzione di opere
scientifico-giuridiche, come per la sua logica serrata.
Le sue opere più importanti erano state pubblicate in lingua
tedesca e, tradotte in più lingue, avevano formato testo di studio in parecchie
università del mondo, specialmente americane.
- Il prof. dott. Pietro Benigno di San Cipirello: direttore dell'Istituto
di Farmacologia dell'Università di Padova e di Palermo, Preside della Facoltà
di Medicina dell'Università di Palermo che aveva lavorato a Parigi presso
l'Institut du Radium con I. Joliot Curie.
- L'on. prof. Giuseppe Caronia[15]
di San Cipirello: medico e scienziato i cui studi del Kala-Azar avevano portato
alla cura specifica di questa malattia molto diffusa nel bacino del
Mediterraneo e nelle Indie
- Il dott. Antonino D'Alia di San Giuseppe Jato: grande diplomatico
degl'inizi del secolo XX, Ambasciatore in Iugoslavia nel periodo dello scoppio
della Prima Guerra Mondiale.
Poi volle anche ricordare alcuni che in vari settori, soprattutto
dell'economia, in pochi lustri avevano dato lustro al proprio paese.
- Se il sen. don Paolo Beccadelli Acton, suo discendente, era stato uno dei
più grossi produttori di vino in Sicilia, non meno importanti erano stati
Antonio e Vincenzo Micciché di San Giuseppe Jato nel settore
della commercializzazione del prodotto. Alla fine del secolo XIX in società con
i tedeschi Hohenzollern risultavano i principali esportatori di
vino italiano in Inghilterra.
- Don Nenè Castro di San Cipirello. Aveva scritto di lui
Giuseppe Scarpace:
"agricoltore intelligente e appassionato, assertore
convinto dello spezzettamento del latifondo, propugnatore della piccola e media
proprietà. Acquistava, verso il 1922 dalla Regina di Spagna, Maria
Cristina d'Austria, in quel di Ginosa (Taranto), assieme ad altri animosi
agricoltori, una rilevante estensione di terreno improduttivo e malsano ove la
malaria imperava incontrastata (circa 7500 ett.)" [16].
Il Principe si accorse che lo Scarpace aveva forse dimenticato a scrivere che
don Nenè Castro, più che come agricoltore, era conosciuto
come uno dei più grandi mediatori dell'epoca, specializzato nell'acquisto di
vasti latifondi e nel successivo spezzettamento e lottizzazione. Lo Scarpace forse non sapeva che molti latifondi
acquistati da don Nenè, sempre in compagnia di altri soci, si trovavano non in
lontane lande deserte e abbandonate ma all'interno della città di Palermo. Ai
tempi in cui scriveva Scarpace (1956) la locuzione speculazione edilizia
non andava di moda ma la speculazione edilizia veniva regolarmente praticata.
Uno di questi latifondi, ad esempio, era costituito dall'intero Parco d'Orleans
dove veniva edificata l'attuale Città Universitaria. Poi lo Scarpace non si era
accorto che i soci di don Nenè - gli intraprendenti e animosi agricoltori
Domenico, Santo e Giovanni Pardo - nel 1926 erano stati tutti arrestati, assieme al
fratello Vincenzo, con l'accusa di essere tra i capi della
maffia di San Cipirello[17].
Lo Scarpace - segretario comunale di San Cipirello da
trent'anni nel momento in cui scriveva - era stato il primo a passare ai
posteri una storia di San Cipirello. Da buon sancipirellese - non lo era di
origini ma si sentiva, dopo 30 anni, di esserlo diventato - aveva messo in
risalto gli aspetti positivi della vita del paese. Aveva fatto un lavoro da
certosino riportando le più minute notizie sul Comune sin dalla fondazione:
sindaci, preti, segretari comunali, caduti in guerra, feste e sagre paesane.
Aveva solo trascurato alcuni aspetti che probabilmente, a parer suo, non erano
meritevoli di citazione: la mafia, il banditismo, Portella della Ginestra, i
fasci siciliani, i morti ammazzati degli anni '20 e i contemporanei arricchimenti
di tanti personaggi.
«Chissà!» Considerò il Principe «forse pensava di scrivere un
altro libro che non ebbe mai il tempo di scrivere!». Poi passò a
- i Virga: gl'industriali pastai. Avevano iniziato i fratelli
Pietro e Giuseppe Virga,
…probi e intraprendenti cittadini di San Cipirello creando
un complesso industriale di rispettabile importanza sotto la Ditta
P&G.Virga che comprendeva Molino - Pastificio e Distilleria di alcool delle
vinacce.
Successivamente il grande salto:
…i figli
Giovan Battista e Francesco del fu Pietro e Giovan Battista e Salvatore del fu Giuseppe, allargavano l'orizzonte della attività
industriale, rilevando in proprio, or son diversi decenni, complessi
industriali di primissimo piano nella città di Palermo, quali l'ex
molino-pastificio Petix di Sant'Erasmo e l'ex Molino Pecoraino del Corso dei Mille.
Grande famiglia quella dei Virga! Quanti professionisti!
Ingegneri, medici, avvocati! Tutti affermati e tutti grandi proprietari!
- Il Prof. Pietro Virga di San Cipirello: ordinario presso
l'Università di Palermo prima di Istituzioni di Diritto Pubblico poi di Diritto
Amministrativo. Sulle sue numerose pubblicazioni si erano preparate generazioni
di studenti. Conosciuto in tutta Italia era stato un continuo e sicuro punto di
riferimento per la Regione Siciliana nella difficile preparazione di numerose
leggi e nella loro successiva interpretazione, soprattutto nel settore
urbanistico. Vice Presidente della Commissione di Controllo di Palermo sin dal
1956 aveva rivestito la carica di Assessore ai Lavori Pubblici del Comune di
Palermo dal 1953 al 1956. Un periodo quello particolarmente delicato: quando
occorreva un freno allo scatenarsi di vari interessi sul Piano Regolatore
Generale allora in itinere. E chi a Palermo meglio del prof. Virga, un luminare nelle discipline
urbanistiche, poteva rivestire quella carica?
E poi quanti generi e parenti di generi di Virga anch'essi affermati!
E a chi non era già affermato bastava affermare che non si fermava e subito si
affermava!
- l'ing. Francesco Benigno, padre del poi Preside di Medicina prof.
dott. Pietro Benigno, di San Cipirello
…che ha svolto la sua attività principale in altri rami di
industria dando vita in Palermo e Bagheria, da circa un trentennio, ad
importanti complessi industriali tuttora fiorenti.[18].
- l'agronomo dott. Antonino Benigno di San Cipirello fondatore nel 1908 de
La luce Società
Anonima Cooperativa di Assicurazione la quale operando nei rami assicurativi
contro i danni dolosi alle piante e contro i rischi dell'incendio delle
proprietà mobiliari e immobiliari…trovò presto il consenso di larghe masse di
agricoltori…[19]
- l'ing. Sebastiano D'Agostino di San Cipirello, dopo aver sposato una
Virga, costituiva a Palermo la SAILEM: una struttura con oltre 1000 addetti
specializzata in lavori portuali con commesse in tutto il bacino del
Mediterraneo.
- dei due ricchi Leone di San Cipirello uno impalmava una Virga,
l'altro la figlia del divenuto ricchissimo don Santo Termini.
- l'on. Giovanni Lo Monte non era sancipirellese di nascita ma lo
era divenuto d'adozione. Era sempre lì perché divenuto socio del locale mulino
e pastificio Virga. Anche lui sposava una Virga. Il Lo Monte era stato un
fervente nittiano ma nel 1923 era passato nel Fascio con l'amico on. Alfredo
Cucco che, nel 1927, abbandonava al suo destino
sotto i colpi inferti dal prefetto Mori. Oltre a sposare una Virga e la politica
aveva anche sposato un'altra causa molto di moda in quegli anni: il Prefetto di
Palermo Barbieri nel 1925 lo aveva definito[20]
capo politico della mafia.
E poi quanti altri figli dei comuni jatini avevano occupato
importanti cariche nel mondo delle professioni!
- il prof. Domenico Barbaro di San Giuseppe Jato, Direttore
dell'Istituto di Fisica Tecnica della Facoltà d'Ingegneria dell'Università di
Palermo, per moltissimi anni Presidente dell'Ordine degli Ingegneri della
Provincia di Palermo.
- il dottor Giuseppe Troia, chirurgo, che per molti anni aveva
rivestito la carica di Direttore di uno degli Ospedali più importanti di
Palermo: Villa Sofia.
- il dottor Sebastiano D'Agostino, medico Direttore di un altro ospedale di
Palermo: il Cervello.
A proposito del Molino Pecoraino[21]
di Palermo, poi Molini e Pastifici Virga, il Principe volle vederci un po' più
chiaro. Si era accorto che c'era di mezzo anche il sen. Paolo Beccadelli, Principe di Camporeale, suo diretto
discendente.
Nella primavera del 1906 la lotta politica per il rinnovo
del Consiglio Comunale s'imperniò esclusivamente sulla questione del mulino:
nonostante l'opposizione dei socialisti ufficiali e i denari spesi da Pecoraino
per foraggiare la lista del Principe di Camporeale, il successo elettorale
arrise ai democratici di Tasca Lanza sostenitori del progetto Bosco. Nel frattempo il moderno stabilimento del Pecoraino era andato distrutto da un incendio doloso, in città era subentrata la
concorrenza di nuove imprese, facendo venir meno i pericoli del monopolio
privato.
Subito dopo l'incendio subentravano nella proprietà del mulino i
Virga di San Cipirello. Peccato che i Mulini e Pastifici Virga di San Cipirello
il 22 novembre 1908 subivano la stessa sorte del mulino Pecoraino.
«Strana fine quella dei mulini dell'epoca e, soprattutto, strano
modo di cambiar proprietario!» Notò il Principe nel rilevare un successivo
incendio di un mulino a San Cipirello.
Nel 1923[22]
Matteo e Salvatore Accardi fu Vincenzo di San Cipirello
possedevano la metà della gabella del mulino Jato sull'omonimo fiume.
L'altra metà era stata da poco acquistata da don Santino Termini, Sindaco di San Giuseppe Jato. Il Termini
convinceva gli Accardi della necessità di assicurare l'impianto. Gli Accardi,
considerata l'insicurezza dei tempi, concordavano pagando la quota loro
spettante.
«Santo Termini vero un santo fu! Meno male ch'è stato
così previggente!» Andavano ripetendo, dopo alcuni giorni, gli Accardi.
Non era infatti passata neppure una settimana e il mulino, ch'era ad acqua,
aveva già preso fuoco. Dopo alcune settimane il Termini - riscosso l'intero
premio assicurativo di lire 12000 - si presentava agli Accardi e, in via
strettamente amichevole, faceva questo ragionamento:
«Per voi, cari amici, non è conveniente lavorare coi mulini!
Vedete che fine fanno? S'abbrùcianu! Ormai i tempi sono cambiati! In
questo genere di lavoro non basta più essere bravi a macinare frumento occorre
gente che, al momento opportuno, sappia… spegnere il fuoco! Capito? Gente…che
so!…»
«I pompieri?» Avevano detto in coro gli Accardi.
«Ma quali pompieri e pompieri! Per il bene che vi voglio,
ascoltate vostro fratello! Prendete queste 6000 lire dell'assicurazione e ìtivi
a buscàri u pani a cocchi n'atra banna. Io, per il fraterno consiglio che
ho dato, vi sarò grato se la vostra quota di gabella la cedete ad altri due
miei fraterni amici che sunnu mmenzu a strata ma chi s'afìranu a stutàri
focu: Onofrio Calò e Salvatore Terranova. Le 6000 lire che io vi consegno, quindi,
è come se ve le avessero date loro per l'acquisto della gabella! Mi sono
spiegato bene?»
«Sì, don Santino! Grazie assai!» avevano risposto un po'
turbati gli Accardi nel firmare l'atto di rinunzia alla gabella.
Alcuni giorni dopo si presentavano i nuovi gabelloti del mulino, Calò
e Terranova, i quali con aria incazzatìzza facevano notare agli Accardi
la totale assenza di serietà nelle transazioni. Loro - Calò e Terranova - avevano acquistato, per come era
scritto nell'atto, la gabella di un mulino non la gabella di un mulino
bruciato. Ragion per cui chiedevano la restituzione delle 6000 lire oltre al
risarcimento danni. Per il risarcimento si accontentavano, non volendo portare
le cose alle lunghe, della cessione gratuita della gabella. Gli Accardi
acconsentivano. Stavolta senza ringraziare. «Per paura!» Dichiaravano al
Giudice Triolo tre anni dopo.
Per conoscere la mafia
Risollevato in parte lo spirito il Principe venne ben presto
assalito dalle solite domande: che cos'è la mafia? Perché così importante
proprio a San Giuseppe Jato e San Cipirello?
Si era reso meglio conto che il tempo occorrente per leggere tutta
quella letteratura specialistica era veramente lunghissimo. Cominciò a temere
che non ce l'avrebbe fatta. Sì, l'eternità c'era!
«Ma un po' di questo Paradiso devo godermelo oppure no?» Considerò
con aria sconsolata.
Decise di ricorrere, ancora una volta, alla disponibilità del
santo che di esperienza doveva possederne certamente tanta. Se n'era accorto
dal numero di cellulare. In Paradiso i numeri erano stati assegnati seguendo
l'ordine d'ingresso.
«Ne avrà sicuramente sentito e visto di tutti i colori!» Pensò il
Principe mentre componeva il numero 3.
«Hallo!»
«Pronto! Zio santo? Giuseppe Beccadelli sono.»
«Ciao, Principe! Come va?»
«Zio santo nei guai sono! Non riesco più a dormire! Mi sono
intestardito a cercare di capire cos'è la mafia e sono in un mare di
confusione! Non riesco poi a spiegarmi perché il centro da me fondato sia
diventato, in tale specialità, tanto importante. Pensavo che si trattasse di un
fenomeno limitato agli ultimi decenni. Invece ascolti cosa ho trovato:
se un
comune in Sicilia vi era dove la maffia era onnipotente era proprio quello di
San Giuseppe Jato»
«Questo quando?»
«Tra il 1909 e il 1926.»
«E chi ha scritto quella frase?»
«Non è che l'ha scritto, l'ha dichiarato al Giudice firmando il
relativo verbale, aspetti…si chiama…ecco! Rocco Balsano.»
«Rocco Balsano chi? L'onorevole?»
«Sì. Perché lo conosce?»
«Certo che lo conosco! Come si fa a non conoscere un tipo come
Rocco Balsano?! Ricordo come ora quando arrivò in Paradiso! Si presentò con una
lettera di raccomandazione dell'Arcivescovo di Monreale. Il Padreterno, però,
non volle sentire ragioni e lo spedì dritto dritto alle fiamme: si era subito
accorto che la lettera era falsa. Poi una decina d'anni fa, fuggito non si sa
come dall'Inferno, era riuscito ad introdursi in Paradiso cercando di barattare
voti elettorali con permessi di porto d'armi. Non ti dico il tempo impiegato
per fargli capire che il nostro era un sistema monarchico! Finì con i porto
d'armi e cominciò a far propaganda politica per un sistema
monarchico-liberal-socialista-democratico-fascista con suffragio universale,
sostenendo, questa la cosa più grave, che era giunto il momento di cambiare e
prendere le armi contro il Padreterno. Armi che lui era in grado di fornirci a
metà prezzo. Per farla breve fummo costretti a telegrafare a Lucifero e, in
camicia di forza, farlo riportare al caldo. Scusa Principe, hai detto che l'on.
Balsano fu interrogato da un Giudice nel corso di
un processo. Qual era l'oggetto del processo?»
«Anno 1926. Processo a Santo Termini e compagni.»
«Santo Termini il Sindaco di San Giuseppe Jato?»
«Sì. Perché conosce pure lui?»
«Bi! Bi! Bi! Bi! Bi! Santo Termini? Ma figurati! All'epoca qui
fece epoca! Lo conoscono tutti. Anzi mi meraviglio come mai tu non ne abbia
sentito parlare!»
«E che fece di tanto importante?»
«Quando arrivò nell'aldiquà si presentò in Paradiso con una
bisaccia di lettere di raccomandazioni! Ce n'erano di tutti: del Presidente del
Consiglio Vittorio Emanuele Orlando, dell'on. Alfredo Cucco, dell'on. Francesco Termini, dell'on. Rocco Balsano, dell'on. Giovanni Lo Monte, dell'on. Nicolò Zito - tutta gente in strettissimi rapporti
con i principali malacarne di San Giuseppe Jato e San Cipirello e che
trovi citata nella quasi totalità dei trattati di mafia - oltre ad una serie di
lettere di politici e malacunnutta in senso lato di cui, in questo
momento, non ricordo i nomi.»
«Anche lui con le lettere di raccomandazioni! E che avevano
scambiato il Paradiso per un Ministero?»
«Il Termini era così convinto della funzionalità delle
raccomandazioni che portò pure una lettera di una suora dell'Opera Pia
Riccobono di San Giuseppe Jato che, successivamente, si è scoperto essere stata
estorta sotto la minaccia di un revolver. Per non parlare di due lettere
anonime, preparate per due possidenti della zona, che nella foga aveva messo
assieme alle altre! Mi ricordo che il Padreterno non volle leggere alcuna
lettera. Dato uno sguardo ai mittenti non ci pensò due volte e lo scaraventò
all'Inferno.»
«Poi che successe?»
«Non l'avesse mai fatto! Successe l'inferno! Pensa che Lucifero
ebbe a minacciare il Padreterno: qui dentro - gli intimò - o io o
lui! Giunto all'Inferno, il Santo Termini, era stato accolto a braccia aperte dai
suoi compaesani Troia, Termini, Todaro, Terrana, Zito, Balistreri, Scaglione, D'Anna, Micciché, Mustacchia, Romano, Rampudda, Pardo e da tanti altri malacunnutta
del circondario i cui nomi li troverai sicuramente agli atti del processo. Da
quel momento furti, rapine, tagli di alberi secchi dentro l'Inferno non si
contarono più. Pensa: non era neppure entrato e già aveva messo gli occhi sulla
barca di Caronte. Un solo giorno era passato! E a Caronte toccò farsela a
nuoto!»
«Poverino! Immagino la fila di anime in attesa del
traghettamento!»
«Gente non ne ammazzavano per evidenti motivi. Non rubavano muli
perché all'Inferno non ce n'erano più: l'ultimo se l'era beccato Antonino Pulejo, inteso Ninu 'u latru, Sindaco di
San Giuseppe Jato prima del Termini. La mania di fregare quadrupedi era però
tale che, introdottisi furtivamente in Paradiso, erano riusciti a rubare un
cavallo.»
«A chi apparteneva?»
«Principe ma non ti guardi attorno? Non ti sei accorto che, da
almeno quarant'anni, San Giorgio è rimasto a piedi? Poi una cosa veramente
vergognosa: fregare il pasto al conte Ugolino!»
«A quel povero disgraziato morto di fame!»
«E dire che all'Inferno aveva cominciato a riprendere colore! Si
erano carriàto sano sano l'arcivescovo Ruggieri che, poveraccio anche
lui, aveva approfittato dell'occasione per farsi medicare.»
«E Lucifero?»
«Lucifero faceva il diavolo a quattro per lo spegnimento dell'impianto
di riscaldamento: l'ultima fornitura di combustibile era sparita. Ti assicuro
che non era mai successo nulla di simile!»
«Sì. Tutto ciò è interessante ma non da una risposta alle mie
domande.»
«Hai ragione! Torniamo al nostro tema. In verità non è che io
sappia esattamente cosa sia la mafia, o maffia com'era chiamata in tempi
passati. Di essa possono darsi tante definizioni, a volte anche discordanti, ma
tutte con un comune denominatore: l'uso della violenza. Sto pensando, però, che
abbiamo una grande occasione.»
«Quale?»
«Abbiamo la possibilità di fare uno studio particolare. Ascoltami!
Noi stiamo parlando di San Giuseppe Jato e San Cipirello: due centri dove, come
sinora hai potuto verificare, di mafia ringraziannu a Dio nun s'ha
fattu mai malavita»
«Non se n'è sentita mai la mancanza!»
«Il nostro è un osservatorio, a parer mio, eccezionale. Siamo in
possesso di un insieme di strumenti che consentono di affrontarne lo studio:
Internet con possibilità di accesso ad archivi e biblioteche; tu che conosci la
realtà del territorio di San Giuseppe Jato dal 1779 ai primi decenni del 1800;
io che, modestia a parte, ne ho viste e sentite di cotte e di crude; siamo in
possesso, sebbene incompleti, degli atti relativi al processo a Santo Termini e compagni - che poi non è altro che il
processo alla mafia di San Giuseppe Jato e San Cipirello - tutti da scoprire.
Tutti da scoprire perché, come sai, i regolamenti italiani non consentono di
consultare materiale archivistico, relativo a processi penali, prima di 70
anni.»
«Siamo quindi capitati nel momento giusto!»
«Proprio così. Allora - mi hai proprio coinvolto - noi dobbiamo
cercare di capire: innanzitutto che cos'è e com'è nata la mafia a San Giuseppe
Jato e San Cipirello. Successivamente perché la mafia dei due comuni è divenuta
così importante. Naturalmente senza alcuna pretesa di generalizzare le
conclusioni.»
«Ho capito. In poche parole dobbiamo fare, finalizzata al
problema, una microstoria del territorio.»
«Non credere che sia un compito facile! Se però riusciremo a
capirci qualcosa, considerata l'importanza del sito nel settore specifico,
probabilmente avremo buoni elementi per comprendere meglio il fenomeno nel
resto dell'isola. E sarebbe tanto!»
«E come pensa di procedere. Ha qualche idea?»
«Non è che vi siano alternative! Innanzi tutto è necessario
leggere, trascrivere e catalogare i documenti di cui sei in possesso e che io
non conosco. Successivamente organizziamo una bella nuvola rotonda
sull'argomento con analisi e approfondimenti. Della prima operazione sarai tu
ad occuparti perché io non ho ancora completamente smaltito la stanchezza e poi
perché dovrò ancora leggere il breviario.»
«Il breviario? Scusi non si leggeva sulla terra per guadagnarsi il
Paradiso?»
«Così sapevamo! Forse tu non sai che noi santi, non si è mai
capito il motivo, siamo obbligati anche qui a leggere il breviario. A leggerlo,
capisci? Anche se lo conosciamo a memoria alla Pico della Mirandola: dalla
prima parola all'ultima e dall'ultima alla prima! Dicono che rientri tra gli
imprescrutabili disegni divini: qui però cani e gatti sono convinti che sia
l'espressione di una forma repressa di divino sadismo. In ogni caso è una
disposizione governativa e bisogna tassativamente rispettarla: dura lex sed
lex. Si rischia il declassamento a semplici beati! Finito il breviario
penso di perdere un po' di eternità a tampasiàre in piazza Paradise.
Non si può sapere mai! Scambia una parola con uno, poi con un altro e puoi
venire a conoscenza di fatti non sempre riportati nei documenti. Non pensare
però che sia una cosa facile!»
«Perché?»
«Perché questi jatini duri sono! Non parlano neppure a
marruggiàti! Omini di panza eranu e òmini di panza sunnu.»
«Ai miei tempi non erano così!»
«Il Padreterno ha cercato più volte di fargli capire che ormai era
tempo di pentirsi e di parlare. Gli aveva detto che in Paradiso non c'era
pericolo, che non avevano da temere ritorsioni. Invano! Pensa che il Padreterno
ha tentato pure di punzecchiarli nell'orgoglio dicendo che i loro compaesani,
nell'aldilà di qua, erano più avanzati: ormai si erano in buona parte
pentiti e parlavano che era un piacere. Tutto inutile! Alla fine aveva tentato
l'ultima carta con un baratto. Gli aveva addirittura proposto il pentimento a
fronte della promozione a santi senza sostenere esami, per chiamata diretta.»
«E che successe?»
«Ntùppati arìcchi! Sai cosa gli hanno risposto? Senza fari
musiòni gli hanno risposto: No!!!»
«In-cre-di-bi-le dictu!!!» si espresse in latino il
Principe per evitare di sottopensare l'equivalente e polivalente termine
siculo.
«E avevano pure avuto la sfacciataggine di rispondergli! Eccellenza!
- gli avevano detto - Questo che vossìa chiama baratto noi non lo sappiamo
che cosa è. Se vuole dire barattolo e dentro questo barattolo ci sono pìccioli,
moneta sonante, a sua completa disposizione siamo! Vossìa faccia conto che già
pentiti siamo! Altrimenti il baratto si lo tinìssi per vossìa!»
«Moneta che, come si sa, in Paradiso non può circolare!»
«Fu la prima volta che vidi il Padreterno nero! Pensa che gli
stava scappando pure un'autobestemmia. Mai più - disse - farò una
maxi-indulgenza! Roba da perdere la faccia! Non ho potuto convincerli!
L'On-ni-po-te-nte so-no!!! E chi ci crede più?!»
«Grazie! Zio santo! A più tardi!»
«Ma quale grazie e grazie! Non ho ancora finito! Ma quando capirai
che devo essere io a decidere se chiudere il telefono! E porca miseria! Un po'
di rispetto per le autorità!»
«Mi scusi! Non volevo…»
«Allora. Nel leggere e catalogare i documenti non devi trascurare
assolutamente nulla. Anche i particolari che potrebbero apparirti
insignificanti possono essere utili alla ricerca. In minimis, maxima, le
cose grandi si ottengono da un insieme di cose piccole. Trascrivere tutto potrà
sembrarti anche noioso. Poi, però, ti accorgerai dell'importanza dei
particolari. Un'ultima cosa. Devi inquadrare questo processo nel contesto
storico in cui avviene. E sto pensando che forse è meglio darti alcune
indicazioni per evitare di farti perdere un mare di tempo. Dunque il processo a
Santo Termini e compagni inizia dopo l'arrivo in
Sicilia del Prefetto Mori.»
«Chi era Mori?»
«Lo dicevo io! Neanche questo sai? Cesare Mori era un piemontese mandato in Sicilia da
Mussolini per debellare la mafia. I poteri di cui
disponeva erano pressoché illimitati e ne fece un uso tale che i garantisti dei
nostri giorni minimo minimo lo avrebbero disciolto negli acidi. Riuscì a
ripulire interi territori infestati da briganti e, senza guardare in faccia
nessuno, portò in carcere centinaia e centinaia di mafiosi. Questo fatto
innescò un meccanismo, sino allora ma anche ora, impensabile in Sicilia: la
gente, constatato che si faceva sul serio, dimenticando cos'era l'omertà,
cominciò a denunciare e a parlare. E che parlare! Ci lanzàru i virmicèddi!»
«Insomma raccontarono le minime cose.»
«A confronto i più loquaci pentiti dei nostri giorni potrebbero
tranquillamente essere definiti muti senza speranza di guarigione. E non solo
parlare! Leggi in nota cosa scriveva[23]
il Prefettissimo il 20 aprile 1926. Mori riesce a bloccare la cosiddetta bassa
mafia, quella più appariscente. Nel momento in cui però tenta di passare al
gradino superiore, viene nominato (meglio: promosso), il 22 dicembre 1928,
senatore del regno.»
«Immagino che, come ai miei tempi, la promozione era sinonimo di
trasferimento!»
«Proprio così. Lo scontro più violento - questo interessa in
maniera particolare la nostra ricerca – si verifica tra Mori e l'on. Alfredo
Cucco, una sorta di plenipotenziario del
Fascismo in Sicilia, soprannominato il ducino.»
«E chi ha la meglio?»
«In un primo momento Mori. Successivamente però Mussolini con sua lettera personale del 30 marzo
1928 comunica a Mori le ultime direttive:
…disinteressarsi delle vicende Cucco e accoliti, poiché l'individuo non ha importanza né bisogna dargliene
facendolo assurgere al ruolo di vittima e provvedere alla liquidazione
giudiziaria della mafia nel più breve tempo possibile e limitare l'azione di
ordine retrospettivo. Punire implacabilmente ogni nuovo delitto. Vigilare sulla
eventuale formazione di nuovi nuclei mafiosi.»
«Ma anche i bambini capiscono che Mussolini, in tal modo, stava tagliando le gambe a
Mori. No?»
«Certo! Limitare l'azione di ordine retrospettivo significava
chiaramente che non doveva indagare sul passato dei mafiosi!»
«E su che cosa avrebbe dovuto indagare?»
«Sul futuro! No? Infatti il prefetto Mori, dopo numerosi tentativi di apprendimento
dell'arte di prevedere il futuro presso alcuni maghi di Catania, riusciva solo
a prevedere che, se avesse continuato, avrebbe avuto buone possibilità di
trascorrere la pensione al cimitero. E così preferì fare il senatore.»
«E come andava al Cucco?»
«Il Cucco riusciva, già il 10 aprile 1931, ad uscire
definitivamente dai processi ottenendo l'assoluzione con formula piena perché
vittima degli intrighi del prefetto piemontese. Tieni presente che l'on.
Alfredo Cucco è compare d'anello di Santo Termini, Sindaco di San Giuseppe Jato ed in
strettissimi rapporti con lui nel settore della munìta. Un'ultima cosa.
Alcuni elementi, ma anche documenti, su questo rapporto li puoi reperire sul
volume di Arrigo Petacco - Il Prefetto di Ferro, Cesare Mori e La Mafia - Oscar Mondadori. E ora puoi anche chiudere! Buon lavoro!»
«Ossequi!» rispose il Principe. E chiuse.
1918-1925. GLI ANNI DEI GRANDI ARRICCHIMENTI
Alfredo Cucco, Santo Termini, Ciccino Cuccia e il Prefetto di ferro Cesare Mori
Prima di passare alla lettura degli atti del processo al Principe
parve opportuno dare uno sguardo al volume del Petacco stralciando alcuni passi inerenti il tema
della ricerca.
"Cucco possiede ora anche il quotidiano Sicilia Nuova, ed è appunto su
questi fogli che il giovane uomo politico inizia la sua furibonda battaglia.
Ma, per la verità, la sua è una battaglia senza vittime. I suoi articoli sono
infuocati, ma privi di sostanza; le sue inchieste denunciano il male, ma non i
malfattori. La sua campagna assomiglia al classico gioco mafioso di attaccare
la mafia per meglio difenderla, di sollevare una gran polverone solo per
nascondere il vero obiettivo. Tuttavia col suo attivismo, Alfredo Cucco si mette ancor più in buona luce. E, in seguito, il suo nome sarà per
un certo tempo strettamente legato dai cronisti a quello dell'epuratore numero
uno: Cesare Mori. In realtà, anche Alfredo Cucco ha dovuto scendere a patti
con la mafia come un qualsiasi altro uomo politico siciliano del passato. E ora
ha stretti rapporti, anche di natura economica, con Francesco Cuccia, sindaco e capo mafia di Piana dei Greci; Santo Termini, sindaco e capo mafia di San Giuseppe Jato; Antonino Lopez, sindaco e capo mafia di Mezzoiuso, e molti altri padrini
diventati nel frattempo esponenti locali del fascismo. Da questi amici, Alfredo
Cucco ha ottenuto voti, appoggi e favori di ogni genere,
comprese due automobili nuove di zecca frutto di una colletta 'spontanea',
organizzata da Santo Termini e da don Francesco Cuccia. Grazie a questi amici, il ras del fascismo siciliano, che
è anche un oculista molto noto, ha allargato la sua attività professionale e ha
potuto sistemare un buon numero di parenti e di camerati. Persino il giornale Sicilia
Nuova, diventato il vessillo dell'antimafia, è stato fondato col denaro
fornito da esponenti mafiosi. Ed è stata la mafia - evidentemente non
intimorita da Cucco - a fornire al nuovo quotidiano 7000 abbonamenti sostenitori
e a garantirgli un milione di lire l'anno di pubblicità." (pag. 68)
"Ma nelle grandi retate di Mori non restano pesci
molto grossi. Oltre un buon numero di persone che risulteranno innocenti, sono
arrestati soltanto esponenti della bassa mafia, in gran parte semplici
esecutori di ordini. I mandanti restano ancora nell'ombra. Gli unici arrestati
di un certo rilievo sono Genco Russo, il capomafia della Sicilia Occidentale Antonio Lopez da Mezzoiuso,
amico di Alfredo Cucco e membro del direttorio dei Fasci siciliani; l'avv.
Gaetano Salemi, detto Scarpazza, definito da Mori "figura rilevante della mafia di Montemaggiore, che si è resa
responsabile di vari delitti dei quali ha affidato l'esecuzione ai suoi sicari".
E ancora un buon numero di sindaci, come Santo Termini di San Giuseppe Jato,
Giuseppe Randone di Santa Cristina Gela, Francesco Badolato di San Cipirello e il
notissimo primo cittadino di Piana dei Greci, Francesco Cuccia, al quale le altolocate amicizie negli ambienti fascisti
isolani non eviteranno questa volta un lunghissimo soggiorno nelle carceri
dell'Ucciardone." (pag. 93)
"Interrogatorio di F. Cuccia. «Pochi giorni dopo ebbe
luogo una riunione al municipio di Palermo di tutti i Sindaci della provincia.
L'on. Cucco ci disse che si doveva fondare un giornale e che tutti
dovevamo contribuire. In tale occasione egli aveva al suo fianco Santo
Termini, Sindaco di San Giuseppe Jato. Il Cucco cominciò proprio da me imponendomi di versare lire 12.000. Cercai di
ridurre la somma e soltanto grazie all'intercessione di Santo Termini, Cucco ridusse la sua richiesta a lire 10.000. Qualche
tempo dopo, Cucco mi telefonò per dirmi di recarmi da lui. Nella sua casa
trovai il dottor Scarcella, amministratore del giornale Sicilia Nuova. Essi mi
dissero che il proprietario della casa nella quale si doveva impiantare la
tipografia stessa non intendeva consentire l'esercizio della tipografia stessa,
così mi affidarono l'incarico di persuaderlo [sic!] a firmare il contratto di
consenso…e così fu possibile aprire la tipografia…In seguito fui invitato a
procurare gli abbonamenti. Ne procurai molti, fra i quali quelli di Badolato Giuseppe, che mi diede lire 900 raccolte a San Cipirello." (pag. 98)
"Poi c'è la deposizione del sindaco mafioso, Santo
Termini, di cui Cucco è addirittura compare d'anello e che oltre a contribuire con soldi propri (ma presentati
come frutto di una colletta) alla nascita di Sicilia Nuova, ha
dichiarato di avere adottato la stessa scusa della colletta per giustificare il
suo regalo personale al federale di una splendida Isotta Fraschini." (pag.
131)
"Cesare Mori mette al corrente l'ispettore del partito circa i presunti legami di
Cucco con la mafia. Anche quest'ultimo rapporto è
eccezionalmente voluminoso. Vi si parla di uno strano conto, sequestrato in
casa di Santo Termini, nel quale il sindaco mafioso ha annotato le somme
sborsate ai complici usando dei numeri a copertura dei nomi. Secondo Mori,
sotto il numero 10, al quale risultano elargite somme vistose, si nasconderebbe
il nome di Cucco. Nel rapporto sono anche illustrate altre complesse
operazioni e, naturalmente, non viene dimenticata la faccenda delle
sottoscrizioni 'volontarie' inventate da Francesco Cuccia e Santo Termini ora per regalare un'automobile al 'ducino', ora per
mantenere il giornale 'cucchiano' Sicilia Nuova. Le cifre citate nel
rapporto vanno dalle 10 mila lire alle 100 mila lire. Di quei tempi, 10 mila
lire rappresentano un piccolo capitale: basti dire che il semplice regalo di
nozze di 25 mila lire, che risulta offerto da Santo Termini a Cucco, equivale allo stipendio annuo di un generale di corpo d'armata o di un
prefetto di prima classe come è appunto Cesare Mori. L'ispettore Galeazzi, che ha la carica di deputato, guadagna in quel periodo
1500 lire al mese." (pag. 142)
a) dalla deposizione di Castagnaro Francesco, resa alla polizia (folio 12, vol. IV) risulta che nel
1924, tanto a questo che al padre erano state tolte le licenze di porto d'arma;
che essi si rivolsero a Termini Calogero, famoso associato per delinquere (di San Giuseppe Jato), e che questi, per mezzo dell'on.
Cucco, riuscì a fare restituire le suddette licenze; che però quasi
contemporaneamente, il Termini fece comprendere l'opportunità di sottoscrivere
azioni per il giornale 'Sicilia Nuova', alla cui richiesta i Castagnaro
aderirono, sottoscrivendo per lire 10000." pag. 200)
"g) dalla deposizione del ragioniere Purpura
Giuseppe da San Giuseppe Jato (folio
III, Vol. I) è risultato che forti pressioni l'onorevole Cucco esercitava su chicchessia per tenere saldo al suo posto Termini
Santo, il quale solo così poté consumare le numerose
malversazioni a danno del comune. Egli si vantava di simile protezione, e non
avendo ritegno di palesare, ovunque e a chicchessia, così come lo disse al
tenente Ugo Corrado, che il Cucco gli costava lire 100.000. Né valsero a dissuadere l'onorevole Cucco dalla protezione dei Termini e dall'affidare a costoro cariche importanti, le proteste
e gli avvertimenti di persone cospicue quale Prestigiacomo Vincenzo (folio 113, Vol. I)" (pag. 201)
"Dalla deposizione di Bavastrelli Giuseppe risulta, pure, che l'on. Cucco non versò alla cassa un
vaglia di lire 25 e 30 mila dategli per il giornale da Santo Termini (foli 518, 519, vol. XII)" (pag. 215)
Il Principe ritenne verosimile la supposizione del prefetto Mori,
relativa all'elenco cifrato delle somme elargite laddove, sotto il numero 10,
pensava si nascondesse l'on. Alfredo Cucco; pur tuttavia, per un eccesso di
scrupolo, tentò di verificarne l'attendibiltà attraverso materiale
archivistico. Fu fortunato nel trovare[24]
alcuni documenti che confermavano, in maniera chiara e inconfutabile, quanto
intuito dal Mori.
Iniziò con una lettera anonima perché, pensò, in genere gli
anonimi che trattavano cose di San Giuseppe Jato risultavano sempre molto informati
e attendibili. Infatti:
(ff.
139-140-141)[25]
"Ill.mo Avv. Comm. Triolo, Giudice Istruttore della 3^ Sezione. Personale.
Ci pregiamo porre a conoscenza della S.V. che in occasione
di una perquisizione fatta in casa di Calogero Termini, ex tesoriere di questo Comune, furono trovate due note,
scritte di pugno di detto Termini, molto compromettenti per lo stesso e per
altre persone. Nella prima era specificatamente indicato il modo come furono
divise le lire duecentocinquantamila ricavate dalla compra dei tubi la quale, sequestrata
e verbalizzata, già trovasi in suo potere alligata al processo. La seconda, già
vista ed osservata dal Commissario dei Carabinieri e dal Commissario di P.S.
non fu alligata al processo ed annotata fra le carte sequestrate ma, presa dal
Commissario Prefettizio, fu consegnata al Comm. Tomaselli V. Prefetto di questa provincia. Nella stessa era detto
che alcuni dei beneficiati della prima nota, e cioè, i nominati Termini
Calogero, Termini Santo ex sindaco, Troia Vincenzo, Pulejo Antonino ed altri, rilasciavano, di accordo, una somma complessiva
di lire diecimila ad un uomo politico della nostra città.
La ricordata 2a nota prova di quali mezzi di corruzione si
servivano certi signori e, come, per alcuni la politica sia mezzo di corruzione
e affarismo.
Dette note, sottratte in precedenza per un caso fortuito
dal carteggio segreto dell'ex tesoriere Calogero Termini, furono fotografate e riposte al proprio posto. Le
fotografie furono conservate per poterle all'occorrenza presentate appena si
fosse presentato il tempo che, spazzando tutto il fango di San Giuseppe, avesse
posto luce su quanto certi manigoldi tramavano. Interessa ai sottoscritti
cittadini, che si mantengono anonimi per ragioni facili a comprendersi, perché
tutta la luce sia fatta sui fattacci di San Giuseppe e che si colpisca chiunque
abbia approfittato del denaro dei contribuenti in alto e in basso che sia.
Per fortuna di noi il processo è trattato dalla S.V.,
magistrato integro per altezza di coscienza, per dirittura di carattere, per
altissimo sentimento del proprio dovere. Pertanto facciamo vivo appello alla
S.V. perché richiami dal V. Prefetto Tomaselli la 2a nota e l'allighi al processo per tutti gli effetti.
Con sicura fede che V.S. accontenti un gruppo di cittadini desiderosi di luce
piena. La ossequiamo distintamente.
Il 21.11.1926 (f. 167) il giudice Triolo chiedeva ufficialmente la 2a nota indicata
dall'anonimo al vice prefetto Tomaselli che rispondeva:
(24.11.1926
f. 174)
"Al giudice Triolo, 3^ sezione,
negli atti sequestrati in casa del tesoriere Calogero
Termini e consegnati a questo ufficio dal Commissario Prefettizio
di San Giuseppe Jato non trovasi il documento di cui alla Sua lettera
controdistinta.
L'unico atto che certamente potrebbe avere riferimento al
documento cui accenna la S.V. è un doppio elenco di sottoscrizione per una
macchina da offrire all'on. Cucco, che rimetto unito alla presente per sua
conoscenza.
Con osservanza. Dott. Placido Tomaselli, Vice Prefetto."
E in allegato:
(f.
175)
"Comune di San Giuseppe Jato: Sottoscrizione per
una macchina da offrire all'on. Alfredo Cucco: Municipio (corretto in Sindaco) di San Giuseppe
Jato (lire 1000), Termini Emanuele (500), Sindacato Agricolo (850), Sindacato Rivenditori
(500), Sindacato Arti e Mestieri (400), Sindacato Muratori (250), Sindacato
Carrettieri (250), Cooperativa Maria SS. della Provvidenza (750), Impresa Elettrica
(500), Troia cav. Giuseppe (500), Pulejo Antonino (500), Troia Gaetano (500), Sunseri Carmelo (500), Mannino Nicolò (100), Termini Francesco (100), Sunseri Salvatore (100), Troia Benedetto (100), Traina Vincenzo (500), Traina Antonino (100), Traina Giuseppe (50), Balistreri Domenico (100), Termini Federico (100), Ganci Antonino (50)" oltre a 36 persone che sottoscrivevano lire 50
a cranio. Per un totale di lire 10.100
Il Questore di Palermo dava incarico al commissario di P.S.
Ferrara di indagare. Quest'ultimo rispondeva in
data 23.12.1926 con prot. n. 1397:
(f.
487)
"Riservata. Oggetto: Sottoscrizione in San Giuseppe
Jato per l'offerta di una automobile all'on. Cucco. Ill.mo sig. Questore
di Palermo, conformemente all'incarico affidatomi dalla S. V. Ill.ma il 21
corrente mi sono recato in San Giuseppe Jato per accertare se le sottoscrizioni
figuranti in due elenchi, già in possesso dell'autorità giudiziaria, per
l'offerta di una automobile all'on. Alfredo Cucco fossero veritiere. Detti
elenchi di sottoscrizioni, di cui unisco copia, sono due. Uno di essi è scritto
a macchina e porta l'intestazione "Comune di San Giuseppe Jato -
Sottoscrizione per una macchina da offrire all'on. Cucco". L'altro è scritto a mano. Entrambi portano
l'iscrizione degli stessi nomi in tutto circa una sessantina…Come rilevasi
dagli acclusi verbali ho interrogato circa una trentina dei presunti
sottoscrittori ma nessuno di essi ha ammesso di avere sottoscritto somma alcuna
di denaro per la offerta predetta ed anzi la totalità delle persone interrogate
ha dichiarato di non essere stata neppure interpellata, non solo, ma che in San
Giuseppe Jato tale sottoscrizione non fu assolutamente fatta perché, essendo
quello un piccolo centro, una raccolta del genere, sarebbe subito venuta a conoscenza
dell'intera cittadinanza. Non ho potuto interrogare gli altri indicati nei
predetti elenchi perché alcuni di essi sono arrestati, altri latitanti, altri
assenti da quel comune e qualcuno si è reso financo irreperibile. Nei predetti
due elenchi figurano anche sottoscrizioni da parte di Sindacati. Trattasi di
Sindacati che morirono sul nascere. Essi non avevano ancora locali per le
riunioni degli iscritti ed erano diretti quasi tutti dal Termini Santo, dai Troia, dal Calò Gaspare persone queste tutte arrestate o latitanti. Così dicasi
per la Cooperativa Maria SS. della Provvidenza di cui dirigeva le sorti, non so
sotto quale titolo, il Termini Emanuele anch'esso arrestato, e per l'Impresa
Elettrica diretta dal Termini Santo, mentre per la Cooperativa Agricola diretta da Padre Virga, tenace oppositore dell'amministrazione allora al potere,
figurante quale sottoscrittrice solo nell'elenco scritto a mano, non vi è
indicazione di cifra, ma un punto interrogativo… Il commissario di P.S.:
Ferrara."
Il Principe volle ulteriormente approfondire per comprendere
meglio i meccanismi e lesse:
(f.
704. Originale)
"Federazione Provinciale Enti Autarchici - Palermo
18.2.1926
Sig. Sindaco, per domenica 21 febbraio data del Congresso
Provinciale Fascista e degli Enti Autarchici, i Fasci della Provincia preparano
all'on. Alfredo Cucco una sorpresa: l'offerta di un'automobile che serva a tenerlo sempre più
in contatto con i centri della Provincia e gli consenta di intensificare
viemmaggiormente la sua feconda attività. Perché la nostra Federazione non sia
seconda nella gara di slancio e di entusiasmo per questa opportuna iniziativa,
esprimo l'augurio che ogni Sindaco o Commissario si interessi personalmente
della sottoscrizione promossa dai Fasci, collaborando col Segretario della
Sezione Fascista o sviluppando una sottoscrizione a parte, in modo che essa
riesca anche manifestazione popolare e cittadina. Poiché domenica tutte le
contribuzioni devono essere presentate prego voler agire con prontezza e
comunicare subito i risultati o, al più tardi, consegnare le offerte di persona
domenica stessa venendo a Palermo per il Congresso. Il Segretario Generale
della Federazione Provinciale Enti Autarchici: G. Caruso."
Don Giuseppe notò che il firmatario cav. Giuseppe Caruso oltre ad essere Segretario Generale della Federazione
Provinciale degli Enti Autarchici di Palermo era anche cognato, per un puro
caso, dell'on. Alfredo Cucco. Nello stesso tempo non ritenne di
sottolineare che il Caruso era anche ingegnere, si occupava di
appalti pubblici ed era impelagato, secondo quanto sostenuto dal prefetto Mori, nella spartizione di una tangente di
lire 37000 per un appalto nel Comune di Montemaggiore Belsito.
(f.
486. Originale)
"Partito Nazionale Fascista - Sezione di Palermo -
25.2.1926 - prot. n. 464
Signor Sindaco del Comune di San Giuseppe Jato,
nell'accusare ricevuta di lire 10000,00 per l'automobile già offerta all'on.
Cucco, prego gradire i miei più sentiti ringraziamenti, anche per la
prontezza con la quale Ella ha risposto al nostro appello. Con i sensi di
ossequio. Il Segretario Politico: Scarcella[26]."
Ambedue le lettere erano indirizzate a tutti i Sindaci della
Provincia di Palermo. Da ciò don Giuseppe trasse la conclusione che si era in presenza di due
circolari. Sapendo inoltre fare di conto e volendo valutare la somma raccolta
fece, ad alta voce, il seguente calcolo ragionato:
"Il Comune di San Giuseppe ha versato alla Federazione Fascista
di Palermo lire 10000. Gli abitanti del Comune di San Giuseppe Jato
costituivano, all'epoca, circa l'1% della popolazione dell'intera Provincia di
Palermo. Problema: se il Comune di San Giuseppe Jato ha pagato lire 10000,
utilizzando il metodo della proporzionalità lineare, quanto ha pagato l'intera
provincia?"
Semplicissimo: lire 10000 x 100 = lire 1000000.
Altro problema: "Quanto costava una macchina all'epoca?"
Purtroppo agli atti del processo non trovò il tipo di macchina regalata
all'on. Cucco. Si collegò allora con la Fondazione
Agnelli e trovò che nel 1925 era entrata in produzione la FIAT 509 il cui
costo variava tra le 16000 e le 25000 lire. Trattandosi di un onorevole non
ebbe dubbi a prendere in considerazione il tipo accessoriato da lire 25000. Fu
così che don Giuseppe venne a trovarsi dinanzi al seguente trilemma:
- o il Comune di San Giuseppe Jato, da solo, aveva affrontato il
40% della spesa.
- o all'on. Cucco erano state regalate 40 macchine.
- oppure l'acquisto di una sola macchina era servito da pretesto
per fottersi lire 975000.
Si accorse pure che nell'elenco scritto a mano vi erano alcune
correzioni dalle quali si evinceva il tentativo di far quadrare il totale. Da
questa considerazione e dal fatto che i documenti facevano parte degli atti
relativi all'appalto truccato dell'acquedotto della Chiusa, il Principe trasse
la conclusione che il prefetto Mori aveva pure inzertato
nell'affermare che si era in presenza di sottoscrizioni inventate.
Al Principe parve anche opportuno controllare se il Comune di San
Giuseppe Jato, di cui Santo Termini in quel periodo rivestiva la carica di
Sindaco, avesse contribuito direttamente al sostegno del giornale 'cucchiano e
antimafioso' Sicilia Nuova. Trovò una delibera di Giunta Comunale
del 25 febbraio 1926:
"Sono presenti: Termini cav. Santo, sindaco, Troia cav. Giuseppe, Pulejo cav. Antonino, Sunseri Carmelo, Traina Vincenzo, assessori. Oggetto: abbonamento sostenitore a Sicilia
Nuova. Il Presidente riferisce: - Poiché Sicilia Nuova è
il battagliero quotidiano che trovasi sempre all'avanguardia per le campagne più
belle e più sante che interessano questa isola benedetta; - Che per queste
benemerenze ha riscosso il plauso di questa cittadinanza che vede in quel
periodico l'espressione e la difesa di tutti i suoi interessi politici, morali
ed economici; - Pertanto al fine di stringersi sempre più alle lotte
strenuamente difese dal magico organo propone un sostegno di lire 500. La
Giunta plaudendo all'energica opera di risanamento politico, morale ed
economico spiegato da Sicilia Nuova, all'unanimità approva."
«Certo,» pensò il Principe «trattandosi di un giornale
'antimafioso' su putìanu stuccàri 'u coddu e citare, almeno una volta,
la parola "mafia"!»
Volle contemporaneamente verificare se l'assessore Troia Giuseppe avesse rapporti di parentela con
il Troia Giuseppe che alcuni testimoni, il 1° maggio 1947, avevano visto
sparare a Portella della Ginestra. Accertò che i Troia Giuseppe erano ambedue nati a San
Giuseppe il 19.1.1884, ambedue risiedevano in via Nuova n.52 e non si trattava
di gemelli con lo stesso nome.
Il Principe rimase molto incuriosito dal personaggio Cucco e così,
tra le pagine 183 e 184 del volume del Petacco, lesse:
"Il processo si svolge a Palermo il 10 aprile 1931.
Alfredo Cucco si presenta davanti ai giudici in camicia nera…A difendere Cucco
è giunto da Napoli l'onorevole De Marsico, alto esponente del PNF e futuro Ministro di Grazia e
Giustizia. Più che un processo, per Cucco è un'apoteosi. I giudici lo assolvono
con formula piena da tutte le imputazioni. Sono pure assolti il console della
milizia, Fiumara, e tutti gli altri membri del direttorio fascista rinviati
a giudizio assieme al ducino. La sentenza, raccontano i giornali, è festeggiata
dai fascisti palermitani con una grandiosa manifestazione di piazza. Tutti
gridano: Viva il Duce! Viva la giustizia fascista. Pochi mesi dopo,
Alfredo Cucco è riammesso con onore nel partito dal quale era stato
espulso per indegnità morale e politica. Gli riconoscono anche l'anzianità dal
20 novembre 1920. Per Cucco è un vero trionfo…Appoggiato da Roberto Farinacci, Cucco riguadagna alla svelta il terreno perduto. Il deriso eroe del
tracoma ridiventa un pezzo grosso del regime tanto che, il 17 aprile 1943,
viene nominato vicesegretario generale del PNF (il segretario è Carlo Scorza) e
manterrà quell'incarico fino al colpo di stato del 25 luglio. Dopo l'armistizio
dell'8 settembre 1943 sarà chiamato a far parte del governo della repubblica di
Salò con l'incarico di sottosegretario alla cultura popolare. Finita la guerra,
un tribunale popolare condanna Alfredo Cucco a trent'anni di carcere per collaborazionismo, ma la pena gli è subito
condonata. Nel 1946, infatti, figura tra i fondatori del MSI e presiede i primi
congressi nazionali del partito. Nel 1953 è eletto deputato del MSI per la
circoscrizione di Palermo-Trapani-Agrigento-Caltanissetta con 73.783
preferenze. Sarà rieletto ininterrottamente fino al 1967, anno della sua morte.
Malgrado gli impegni politici, Alfredo Cucco non ha mai abbandonato la sua attività di oculista. Fra i suoi pazienti
ha avuto anche Sofia Loren."
Truffe, estorsioni, ruberie e ammazzatine. Le grandi retate
di Mori. Il Processo a Santo Termini e compagni.
A questo punto don Giuseppe Beccadelli iniziò la lettura degli
atti relativi al processo e di altri atti inerenti il periodo in esame.
Cercò inizialmente di calcolare il numero degli arrestati. Dalle
carte disponibili, però, non poté accertarlo perché gli elenchi erano stati
stilati per carcere e le carceri non erano tutte riportate. Era solo in
possesso di un primo elenco di 66, poi di un successivo di 33 ed infine di un
altro di 17 per un totale di 116. Ma non dovevano essere tutti sia perché
c'erano verbali di interrogatorio di arrestati che non figuravano in alcun
elenco sia perché in molti si erano dati alla macchia. Se ne accorse da alcuni
verbali di vane ricerche[27]
del 24.05.1926. Poi divise i verbali di interrogatorio e di dichiarazione in
tre gruppi:
a - Verbali degli arrestati.
b - Verbali dei testimoni a difesa.
c - Verbali dei testimoni di accusa e delle parti lese.
a - Verbali degli arrestati
Ripartì i verbali in ulteriori 6 sotto-gruppi:
a.1 - Verbali immacolati:
Arrestati che non sapevano come si chiamavano, di dov'erano e
neppure quando e se erano nati.
a.2 - Verbali semi-immacolati:
Arrestati che conoscevano sì le proprie generalità ma non
conoscevano neppure gli stretti familiari. La dichiarazione era canonica:
"Sto in campagna e non vengo mai in paese!"
a.3 - Verbali semi-normali:
Quelli che riportavano quattro parole, oltre le generalità e un
punto:
"Mi dichiaro totalmente innocente."
a.4 - Verbali normali a tre quarti:
Quelli che riportavano al massimo sedici parole, oltre le
generalità e un punto esclamativo:
"Mi meraviglio che un onesto lavoratore quale sono io
debba essere accusato di associazione a delinquere!"
a.5 - Verbali immacolati con allegato successivo carteggio
epistolare:
Termini Emanuele: tentativo di intenerimento del cuore del
Giudice della 3a sezione Triolo
"Ill.mo sig. Giudice, Ella, a buona ragione, dirà:
Ancora! Mi permetto risponderle che la bugia può considerarsi siccome quel
tortuoso sentierucolo che, pur essendo incassato fra cespugli e boscaglie,
viene rintracciato e, in mille guise, intersecato dal sole. Invoco pertanto la
sua benevola attenzione. Il 26.12.1902 fui al capezzale di un agonizzante. Con
mano tremante m'indicò un gruppo piangente e volle da me un sacro giuramento,
che io solamente feci. Fu allora che il morente chiuse gli occhi per il sonno
eterno. Quel gruppo era costituito da Federico di anni 2, Provvidenza di anni 4, Francesco di anni 8: il defunto era mio padre. E mi misi all'opera
investito, come mi ritenni, dell'affetto paterno. Col Parini potevo cantare
"La mia povera madre non ha pane!" e io, puntualmente, ogni mese le
consegnavo il mio stipendio: lire 66.20." (f. 644)
L'epistola, se non riusciva ad intenerire il giudice Triolo, in compenso spezzava i cuori del
Collegio Giudicante della IV Sezione del Tribunale di Palermo il quale il 16
agosto 1928 con una sentenza ineccepibile e con una motivazione formalmente
logica assolveva il Termini, definendolo povero, anche se figurava, con
ben 500 lire italiane, tra i sottoscrittori per offrire una macchina all'on.
Alfredo Cucco:
"Per il Termini Emanuele il Collegio ritiene che si sia data soverchia importanza,
parlando nei suoi riguardi di mafioso pericoloso, dedito ai colpi di tavolino[28]
ecc. Sembra invece che egli sia un povero esaltato, dedito, se mai, a qualche
pistolotto (sic!) o a qualche discorsetto da comizio. E' quasi cieco,
obbligato al lavoro perché povero. Che male poteva fare? Quali benefici poteva
trarre (e trasse) dall'associazione?"
a.6 - Verbali normali:
Santo Termini. Considerata la caratura del personaggio
il Principe ritenne di dedicargli uno spazio personale riportandolo nel gruppo
c sottogruppo c.10
a.7 - Verbali non classificabili nelle categorie precedenti:
Rampudda Sebastiano:
"Sconosco completamente i fatti e chiedo che sulla mia
onorabilità sia chiamato a testimoniare Brusca Calogero[29]
di San Giuseppe Jato, mio compare." (f. 469)
Di Corte Calogero[30]
fu Nicolò: difesa attraverso il periodo ipotetico di terzo tipo o
dell'irrealtà:
"Sono
stato sempre uomo di ordine e ho subito furti di animali, danneggiamenti mediante
incendio di granaglie, incendio di due pagliai ed altro. Se fossi stato una
persona di maffia[31],
nessuno avrebbe osato commettere delitti in mio danno. Respingo pertanto tutte
le accuse." (f. 23)
b - Verbali dei testimoni a discolpa.
Le dichiarazioni, tranne due con un minimo di giustificazione,
risultavano di una monotonia indicibile:
(La
maggior parte)
Tizio "per me è un galantuomo. Non ho alcun fatto
specifico da dire in suo favore che valga a dimostrare la esattezza del mio
giudizio."
(Baccarella
Emanuele fu Girolamo di anni 46 da San Cipirello)
"Sono amico d'infanzia di Pardo Vincenzo di Francesco ed essendo cresciuti insieme posso attestare
che egli è un galantuomo. Non ho alcun fatto specifico a prova di ciò."
(Campochiaro
Giuseppe di Nunzio di anni 29 da Montelepre, guardia campestre)
"Conosco Balistreri Vincenzo che giornalmente vedevo lavorare in contrada Mortilli; e
poiché faceva buon viso a noi agenti della forza pubblica lo ritengo una
persona per bene e un perfetto galantuomo."
c - Verbali dei testi di
accusa e delle parti lese.
c.1 - Situazione generale
(Ferrara
Salvatore fu Federico di anni 37 di Girgenti commissario di P.S.-
23.10.1926. f. 516)
"Dal complesso delle indagini da noi svolto è risultato
in maniera lampante che nei due comuni di San Giuseppe Jato e San Cipirello un
gruppo fortissimo di malviventi uniti tra loro da vincoli di parentela, di
amicizia, di comparatico e più specialmente delittuosi, avevano formato una
associazione col fine di arricchire commettendo atti contro la proprietà. Tutti
i mezzi erano buoni per riuscire allo scopo. Dal furto alle rapine, alla
truffa, alle estorsioni, tutto era buono per far denari. I delitti venivano
commessi in circostanze pressoché uguali perché venivano preventivamente
organizzati dai dirigenti ed eseguiti or da uno or da altro dei gregari
dell’associazione. Questa a mezzo di una fitta rete di campieri, sparsi nelle
varie contrade, sorvegliava le mosse della polizia, aiutava gli esecutori materiali
dei delitti a sottrarsi alle ricerche dell’autorità, nascondeva la refurtiva,
provvedeva a portarla nei comuni vicini ad altri associati, faceva commettere intimidazioni,
danneggiamenti e furti nei feudi custoditi da campieri non aggregati
all’associazione per costringerli a cedere il posto a propri gregari, imponeva
taglie ai proprietari che non volevano subire danneggiamenti continuati,
assicurava con la prepotenza i feudi da coltivare ai propri gregari più
facoltosi, annullava l’opera dei contadini costretti a patti angarici, giacché
non si poteva avere terra da lavorare se non presso i maffiosi gabelloti dei
feudi. Nessuno poteva sottrarsi a tale giogo. Dovunque tale associazione
trovava aderenti. Con la violenza era riuscita a conquistare le amministrazioni
comunali; imponeva i candidati nelle elezioni comunali, spadroneggiava nei
consigli comunali e provinciali. Se qualcuno dei gregari era, per quanto
raramente, denunziato e veniva sottoposto a procedimento penale, violenze e
minacce alle parti lese, deposizioni di favore di testimoni, intimidazioni dei
testimoni, pressioni e corruzione di giurati, tutto si metteva in essere per
sottrarre i rei alla giustizia. Ben si comprende quali gravi danni, specie
all’agricoltura, venissero da tale stato di cose; quanto danno
all’amministrazione della giustizia. L’associazione, a mezzo dei suoi gregari,
riusciva in tutto ciò che voleva."
(Corrado
Ugo di anni 32 da Pontremoli - Tenente RR.CC. - 17.08.1926. f.
369)
"Facevano parte del gruppo dirigente della maffia di
San Giuseppe Jato i fratelli Termini Calogero, Emanuele, Federico e Francesco, Troia Giuseppe e Pulejo Antonino i quali si vantavano pubblicamente di essere lo stato
maggiore degli ideatori. Il Calogero e il Santo Termini erano quelli che si mantenevano a contatto con le autorità politiche ed
in genere con tutte le autorità per potere sfruttare la conoscenza a beneficio
proprio e degli associati. Essi si occupavano di ottenere per i loro gregari i
permessi di porto d'armi anche quando le autorità locali di polizia erano
contrarie alle concessioni. Si occupavano inoltre di ogni sorta di concessione
percependo spesso lauti compensi. Una recente inchiesta sull'andamento
dell'amministrazione comunale della quale era a capo il Termini Santo e sulla gestione della tesoreria tenuta dal Termini Calogero ha portato alla scoperta di falsi, di appropriazione
indebita, di peculati da parte di tali individui. Gregari dell'associazione ma
di secondo ordine erano il Traina Vincenzo, Zito Filippo, Micciché Nicolò, Calò Gaspare, Balistreri Domenico, Candela Antonino, D'Anna Antonino e Antonio nipoti di Pulejo soprannominato Ninu u Ladru, Rampudda Sebastiano, Terrana Tommaso ed Ignazio, Rampudda Giuseppe, Immordino Salvatore. In San Cipirello, come dissi era a capo il Todaro Vito. Facevano parte del gruppo dirigente i fratelli Pardo Domenico, Santo, Giovanni e Vincenzo, Leone Francesco, Todaro Giuseppe e Battista, Mustacchia Ignazio. Altri gregari erano Battaglia Francesco, Randazzo Filippo, Antonino, Nicolò e Giuseppe."
(dalla
dichiarazione resa da Purpura Giuseppe di Francesco di anni 29 da Monreale domiciliato in San
Giuseppe Jato. f. 426)
"Nessuno osava resistere perché ciò facendo sfidava la
morte. Gli omicidi infatti si susseguivano con un crescendo impressionante e se
qualche volta gli uccisi erano dei delinquenti ad ucciderli erano sempre i
componenti della associazione per volere dei loro capi i quali si disfacevano
di quelli tra i gregari che osavano agire per conto proprio e senza il permesso
e il consenso dei capi."
(dalla
dichiarazione di Belli dott. Nicolò fu Vincenzo di anni 47 nato a San Giuseppe
Jato, farmacista. f. 542)
Dopo aver fatto l'elenco dei maffiosi il Belli distingue i
delitti in due grandi categorie. Delitti commessi per mantenere
l'Amministrazione Comunale: L'assassinio di Mineo Salvatore, capo dell'opposizione. Calunnia organizzata contro il
sac. Virga. Predisposizione di progetti per somme ingenti ed
esecuzione parziale delle opere pubbliche progettate. L'associazione criminosa
percepiva sulle opere pubbliche una percentuale fissa nella misura del 22,5%.
Grandi lucri nell'approvvigionamento dello zucchero e di altri generi
tesserati; nei sussidi alle famiglie dei militari e negli esoneri. Delitti
nelle campagne contro la proprietà: Elenco delle tipologie: omicidi, furti
ecc. Inoltre dichiara: "Il più pericoloso è Termini Calogero, ideatore dei colpi più importanti e dei delitti più
eclatanti tra i quali l'uccisione del Mineo e la calunnia al Virga. Figura di prim'ordine l'ex sindaco, ora assessore, Pulejo Antonino soprannominato 'Ninu 'u latru' e negli ultimi
anni 'Nerone' perché sanguinario e feroce".
(prima
parte della lettera al Giudice Triolo di Termini Federico fu Giuseppe inviata "Dalle carceri giudiziarie di
Palermo lì 18.06.1926". f. 232)
"Ill.mo sig. Giudice Istruttore della 3^ Sezione
presso il Tribunale di Palermo, io sottoscritto Termini Federico fu Giuseppe nato e domiciliato in San Giuseppe Jato
espongo alla S.V.Ill.ma quanto segue: a completamento degl'interrogatori subiti
e al fine di spezzare le armi, che un cumulo di facinorosi, hanno costruito all'ombra
dell'insidia e della calunnia, per colpire l'onorabilità di un libero e onesto
cittadino, che con lo studio e col proficuo lavoro cerca di costruirsi un
avvenire, mi permetto inviare il presente memoriale da allegarsi agli atti
processuali. Per quanto riguarda l'associazione a delinquere di cui la S.V.
Ill.ma ha voluto farmi cenno, e che più direttamente viene a colpire la mia
onorabilità, desidero che oltre i testi da me indicati a deporre sulla mia
onorabilità, altre siano intese, persone incensurate e incensurabili e che per
la loro posizione civile e per le carriere pubbliche occupate possono essere
accreditati più e meglio di qualsiasi altro libero e onesto cittadino. Indico
come primo l'Ill.mo Sig. Pretore del Mandamento di Piana dei Greci, Romano
Antonio ed il Cav. Sig. Di Miceli Giuseppe, chiamo pure a deporre sulla mia onestà il Tenente dei
RR.CC. sig. D'Ercole Palminide. Cito dette persone i primi per il loro continuo contatto
col mio paesello ed il secondo per avervi risieduto per più di un anno, e tutti
insieme per aver avuto aggio di conoscere e studiare l'ambiente e le singole
persone. Gli arresti eseguiti nel Comune di San Giuseppe Jato non sono arresti
causati da questioni a delinquere, ma sono la conseguenza di lotte politiche
locali i cui principali promotori della parte avversa sono il sac. Giulio Virga ed i fratelli Nicolò e Francesco Belli. Dato che ho già fatto i nomi di tante persone prego
la S.V.Ill.ma di voler domandare ai testi succitati, oltre a deporre sulla mia
moralità, in quella anche di tutta la mia famiglia e vedrà se i fratelli
Termini sono stati mai amici e affiliati alla maffia. Pregola inoltre di voler
domandare ai detti testi di ciò che sono capaci di fare i Belli ed il Virga per l'avidità del potere."
(Fazio
Ferdinando, commissario prefettizio nel Comune di San Giuseppe Jato.
26.03.1927. f. 761)
"Allorché il Prefetto comm. Crivellari mi mandò a San Giuseppe Jato per eseguire la inchiesta sul
ricorso inviato da Giambrone Nicolò e firmata da un gran numero di cittadini, il Sindaco, gli Assessori, il
Tesoriere ed il Segretario Comunale si assentarono dall’ufficio ed il Calogero
Termini si recò a Roma per scongiurare dal Ministro Orlando la mia revoca, giacché si sapeva che io ero persona che
non avrei ceduto a lusinghe né a minacce e che avrei accertato tutti i fatti e
le malefatte sue e dei suoi amici. Sindaco era allora Pulejo Antonino che il tenente dei Carabinieri del tempo mi disse essere
soprannominato Nino il Ladro. Tesoriere era il Calogero Termini, segretario il Manno. Nei pochi giorni in cui mi occupai dell’inchiesta ricevevo durante la
notte nell’albergo il Mineo Salvatore il quale mi veniva ad informare di quanto doveva formare
oggetto della mia inchiesta. Il Mineo veniva di notte per non farsi vedere dagli avversari.
Mentre io eseguivo l’inchiesta stessa improvvisamente, chiamato in Prefettura,
ebbi dal comm. Crivellari ordine di troncare l’inchiesta e rientrare in residenza.
Seppi poi che erano pervenuti al Prefetto ordini categorici in proposito; ed
alle prime resistenze da parte del Prefetto, era pervenuto un telegramma
cifrato col quale gli si ingiungeva di farmi rientrare con minacce di trasloco
in altra sede se avesse trasgredito. La mia relazione fu trattenuta in
prefettura. Il 29 maggio il povero Mineo Salvatore alle nove di sera nella via principale del paese venne
barbaramente assassinato. La mattina successiva alle nove in piazza Bologni, a
Palermo, incontrai il Pulejo Antonino con altri due individui a me sconosciuti e compresi che si
trattava di un incontro voluto per procurarsi un alibi. E’ mia convinzione che
il Mineo sia stato assassinato per mandato del Pulejo. Avvenuto l’assassinio fu inviato a Palermo l’ispettore
generale comm. Lutrario che ebbe a interrogarmi e mi comunicò che l’inchiesta non
era stata mandata al Ministero ma trattenuta in Prefettura. Il 27 luglio 1920
mi chiamò il segretario del Prefetto cav. Serio Francesco e mi disse, a nome del Prefetto, che dovevo tornare a San
Giuseppe Jato per completare l’inchiesta. Cercai di esimermi ma il Serio mi disse che il Prefetto comm. Pesce intendeva che andassi proprio io. Ubbidii e mi recai
ancora una volta a San Giuseppe Jato. Dopo tre giorni tornai a Palermo ed
informai oralmente il Prefetto del disordine amministrativo esistente in quel
Comune. Il Prefetto mi disse di essere obiettivo ed io lo assicurai. Il giorno
successivo prima che partissi mi ingiunse di non tornare a San Giuseppe Jato
perché temeva della mia vita. Gli dissi che non avevo paura, ma egli fu
irremovibile. Però ciò malgrado dovetti tornare a San Giuseppe Jato per la
riconsegna degli atti all’Amministrazione. Giunto a San Giuseppe Jato trovai il
Pulejo baldanzoso per la seconda vittoria e nel Municipio
cominciò ad insultarmi. Io reagii ed il Pulejo allora mi afferrò per buttarmi dal balcone in presenza del
Cavallaro Simone e di Giambrone Nicolò fu Giuseppe. Furono costoro che impedirono al Pulejo di portare a termine il suo divisamento. Non denunziai il
Pulejo per l’oltraggio subìto perché compresi che in quel tempo
egli godeva la protezione del governo ed era inutile una denunzia. Subito dopo
dal Prefetto Pesce fui sostituito col consigliere aggiunto dott. Venuti, oggi defunto come il Pesce ed il Crivellari. Il Venuti
era nativo del collegio politico del Ministro Orlando. Non so quale esito abbia
avuto l’inchiesta da lui fatta. Non so dire da chi il prefetto Pesce abbia saputo che io correvo pericolo di essere ucciso se
avessi persistito nel fare l’inchiesta a San Giuseppe Jato."
(Dalla
dichiarazione del sac. don Giulio Virga fu Gioacchino e fu Domenica Balsamo nato a Monreale. ASP - Fondo Tribunale Penale - Busta
3105, f. 377. In data 12.4.1926)
"Da quando risiedo a San Giuseppe Jato e San Cipirello
e cioè dal 1903 la mia attività si è svolta principalmente per l'organizzazione
delle Cooperative Agricole nell'interesse e il benessere degli agricoltori e
contadini. Tale scopo è stato pienamente raggiunto nonostante le lotte che io e
i contadini abbiamo dovuto sostenere specialmente contro la delinquenza
organizzata che cercò in ogni modo e con ogni mezzo di sfruttare i fondi di
qualsiasi tempo. Intendo riferirmi alle violenze e prepotenze esplicate dai
componenti ed affiliati alla maffia che anche in questi comuni, come altrove,
ha cercato con imposizioni, minacce, rapine, omicidi e danneggiamenti fare allontanare
i contadini dalle terre allo scopo evidente di impossessarsi a breve scadenza
delle terre, sia prendendole in gabella sia acquistandole definitivamente. Ho
sempre combattuto apertamente la delinquenza ovvero la maffia che ho sempre
considerato la rovina di questi paesi. Infatti se si pensa che infinito è il
numero dei poveri contadini che sono stati privati di quadrupedi e sottoposti a
pagamento di una data somma per il riscatto degli animali, che infinite furono
le violenze e le prepotenze esercitate nelle campagne in danno degli onesti e
pacifici contadini, che tutti i delitti più gravi, specialmente di sangue, sono
stati consumati dalla maffia che era sicura di rimanere impunita per le
aderenze e protezioni che vantava anche da parte di personalità politiche,
ritengo di avere accennato per sommi capi alla situazione dolorosa in cui
queste laboriose popolazioni erano costrette a sottostare. Tali condizioni di
vita si sono aggravate maggiormente dopo la guerra e se da circa un anno nel
territorio di San Giuseppe Jato e San Cipirello le condizioni della pubblica
sicurezza erano sensibilmente migliorate ciò si deve al fatto principale che i
capi maffia, assicuratasi una non indifferente posizione economica e preveduto,
specialmente dopo le elezioni amministrative di Palermo, che il nuovo regime
fascista avrebbe fatto trionfare la legge, cercarono con tutti i mezzi di
limitare e quasi impedire il verificarsi di abigeati ed altri reati…"
(Dichiarazione
resa il 13.10.1926 da Cimino Giuseppe fu Calogero di anni 46, Presidente della Cooperativa Pio
X. f. 454. Quasi identiche risultano le dichiarazioni di Sciortino Vito di anni 51 e di Sansone Santi fu Filippo di anni 56 ambedue di San Cipirello componenti della
Cooperativa Pio X. f. 446 e segg.)
"Sono buon amico del sac. Virga perché sono il Presidente della Cooperativa Pio X di San Cipirello
della quale egli è il Direttore. La cooperativa sorse con un programma ben
definito, quello cioè di affrancare i contadini dal servaggio al quale dovevano
sottostare perché i maffiosi di San Giuseppe Jato e San Cipirello erano
gabelloti di tutti i feudi vicini a questi comuni ed imponevano in conseguenza
ai contadini patti angarici per la coltivazione delle terre. La cooperativa si
propose di affittare dei feudi cedendo poi parte dei terreni in affitto ai soci
allo stesso prezzo per il quale la cooperativa prendeva in affitto i feudi. Or
il ceto dei gabelloti, che si identifica con la maffia, vedeva di malocchio il
sorgere della cooperativa giacché non soltanto la cooperativa offriva ai
proprietari prezzi di affitto di gran lunga superiori a quelli praticati dai
gabelloti ma provocava la rarefazione della mano d’opera in quanto i contadini
preferivano lavorare direttamente la terra avuta in affitto invece di
sottostare ai patti imposti loro dai gabelloti. La maffia quindi si mise contro
il sac. Virga, propulsore di questo movimento e lo fece segno ad una
quantità di delitti nella speranza che egli, intimidito, dovesse finire col
ritirarsi dalla direzione della cooperativa Pio X di San Cipirello e da quella
Giosuè Borsi di San Giuseppe Jato. Nel contempo la maffia prese a bersagliare i
contadini soci di tali cooperative che diventavano le vittime sistematiche di
una serie di rapine che venivano commesse su gli animali da lavoro, agli stessi
appartenenti, e sulle strade che conducevano ai feudi tenuti in affitto dalle
cooperative e perfino sulle stesse terre dove i contadini lavoravano in maniera
tale da costringere i contadini ad abbandonare le terre da coltivare per non
subire ulteriori rappresaglie. La maffia così ricavava dall’industria delle
rapine di animali lucri rilevantissimi, in quanto che i derubati erano
costretti a venire a patti per la restituzione di animali ed a sborsare somme
non indifferenti e spesso quasi equivalenti al valore degli animali rapinati.
Colui però che più fu fatto segno alle persecuzioni della maffia fu il sac.
Virga il quale subì un danneggiamento di viti in contrada
Dammusi, lo svaligiamento di un negozio in San Giuseppe Jato con danni ingenti
e fu anche fatto segno a bastonamento dentro la chiesa di San Cipirello ad
opera di Todaro Vito ed altri. Saputosi ciò nella cooperativa si comprese che
la maffia non si sarebbe fermata a tanto ed avrebbe finito, com’era costume in
quel tempo, col sopprimere il Virga che in tutti i modi ostacolava lo svolgimento dell’attività economica
dei gabelloti. Intanto si pensò da me e da altri di comunicare all’arciprete
Migliore Natale, ora defunto, che i soci della cooperativa avrebbero
lottato ad oltranza contro la maffia e vendicato ogni ulteriore affronto che
sarebbe stato fatto al sac. Virga. Si diede incarico al Migliore di portare ciò a conoscenza dei capi maffia di San Giuseppe Jato e San
Cipirello Termini Santo e Todaro Vito i quali compresero che la sfida da parte del ceto dei contadini
avrebbe potuto esporli a seri guai ingaggiando una lotta della quale non si
sarebbero potute prevedere le conseguenze. Il sac. Virga non fu più toccato ma la maffia continuò nella sua azione di
rappresaglia facendo commettere il furto della bottega di cui dianzi ho parlato
ed organizzando infine la calunnia in danno di lui e dei suoi congiunti,
facendo collocare i biglietti falsi nella sua bottega e denunziandoli come
spacciatori di biglietti falsi. E’ stato un vero miracolo che lui sia riuscito
a dimostrare la propria innocenza. La maffia ancora per evitare che la
cooperativa concludesse un lungo affitto per 24 anni con l’on. Di Lorenzo per il feudo Desisa offerse una cifra ingente al sac.
Virga perché mandasse a monte le trattative e non essendo
riuscita a corromperlo, Troia Vincenzo, Celeste Giuseppe (ora ucciso) e Todaro Vito chiamarono me e mio cognato Sciortino Vito, componenti del consiglio direttivo della cooperativa, offrendoci delle
terre e facendoci delle minacce velate perché ci distanziassimo dal Virga e dalla cooperativa e mandassimo a monte l’affitto dell’ex feudo
Desisa. Questo feudo era indispensabile nelle mani della maffia; era tenuto
sino ad allora in affitto da persone di Vita e da Lorenzo Speciale da Partinico, noti malviventi e capi maffia, e serviva alla delinquenza
interprovinciale come luogo di ricovero di animali rapinati e di individui
ricercati dalle autorità, che trovavano in tali luoghi ricovero, assistenza e
aiuto. Per la maffia quindi era un punto strategico in quanto rappresentava la
via di transito per gli animali rubati, provenienti, od avviati, da Partinico e
comuni vicini, da Alcamo e comuni vicini, da Corleone e comuni vicina, da Piana
e comuni vicini, in quanto era situato in centro e rappresentava un prezioso
punto di appoggio. La maffia aveva sviluppato la sua azione specialmente dopo
la guerra facendo un gran numero di gregari e costituendo una vera e propria associazione
di individui uniti tra loro da vincoli di delinquenza e sottoposti a gerarchia.
Capi riconosciuti come tali, sia dagli associati sia dai cittadini di questi
paesi e dai comuni vicini erano: per San Giuseppe Jato: Termini Santo, Troia Vincenzo, Termini Calogero, Pulejo Antonino, Terrana Ignazio, Troia Giuseppe, Traina Vincenzo, Rampudda Sebastiano. Per San Cipirello: Todaro Vito, Pardo Domenico, Mustacchia Ignazio. Tra i più influenti gregari dell’associazione vi erano: D'Anna
Antonino e Antonio, Bellone Giuseppe e Calogero, Battaglia Francesco, Termini Emanuele e Federico, Balistreri Domenico, Candela Antonino, Musunserra Gaetano, Di Piazza Vincenzo, Nania Baldassare, Maniscalco Pietro, Cavallaro Giovanni, Micciché Nicolò, Pardo Vincenzo, Vivona Giuseppe, Calò Onofrio e Gaspare, Russo Francesco, Rampudda Giuseppe, Terrasi Domenico e Nicolò, Balistreri Vincenzo, Immordino Salvatore, Todaro Giuseppe, Leone Francesco, Pardo Santo e Giovanni, Mustacchia Giuseppe, Croce o meglio Crociata Francesco di Giuseppe, Zito Filippo. Per Randazzo Nicolò e Giuseppe debbo dire che mi sembra un errore averli compresi tra i
componenti dell’associazione e così pure per Bonanno Giuseppe. Non voglio dire nulla in ordine a Cimino Francesco, mio parente in sesto grado, perché la mia deposizione in
suo favore potrebbe essere sospettata data la relazione di parentela. Escludo
anche che sia un componente dell’associazione il Todaro Battista di Gaetano."
(dalla
deposizione di Monteleone Paolo di Salvatore di anni 48 da San Cipirello, ex presidente della
Cooperativa Pio X. f. 485)
"Vero è che demmo incarico all'arciprete Migliore di far sapere al capo maffia di San Giuseppe Jato Termini Santo che se fosse stato toccato ancora una volta il sac. Virga Giulio, noi avremmo usato le armi e vendicato il Virga."
(dalla
deposizione di Nania Salvatore fu Vincenzo di anni 49 da San Cipirello, componente del
Consiglio della Cooperativa Pio X. f. 483)
Pur essendo fratello dell'imputato per maffia Nania
Baldassare, rinuncia alla proposta di un "regalo due salme (4
ettari) di terra in Pietralunga fatta da Troia Vincenzo, Termini Santo e Termini Calogero" a condizione che abbandoni la Cooperativa e il sac.
don Giulio Virga. "Rinunciai per non tradire i soci" detta a verbale.
(Perugino
Umberto di ignoti ex impiegato comunale accusato di associazione
per delinquere. 26.07.1927. f. 84)
"Mi protesto innocente dell'imputazione che mi si
ascrive. Non è vero che io sia associato per commettere reati con Santo Termini o con altri. Io dimoravo a San Giuseppe Jato dove ero guardia
municipale e Santo Termini era Sindaco. Egli e i suoi compagni mi disprezzavano, come
è notorio a San Giuseppe Jato, e basta questo a dimostrare come io non fossi in
relazioni criminose con tale compagnia. Risulta già da precedenti dichiarazioni
che una volta fui costretto con minacce di morte da Termini Calogero, Tesoriere del Comune di San Giuseppe Jato a firmare per
quietanza diversi mandati per compensi nel servizio di nettezza urbana
ammontanti a complessive lire 89.000 circa (4 o 5 mandati), mentre questa somma
io non l'ho ricevuta affatto. Ciò avvenne nel 1921. Risulta ancora che sempre
con minacce di morte il Termini Santo, Termini Calogero ed altri loro compagni mi costrinsero a depositare un
pacchetto di biglietti di banca falsi da lire 50-25-10 nella bottega di certo
sacerdote Virga Giulio e ad inviare due lettere di denunzia ai carabinieri contro
il detto Virga come spacciatore di biglietti falsi e detentore di armi.
Io di fronte alle gravi minacce di morte, così dissero che se non eseguivo i
loro voleri facevo la fine di Sereno Oreste e se parlavo facevo la fine di Bosco. Non potei fare che quanto volevano.»
(continuazione
della lettera al Giudice Triolo di Termini Federico fu Giuseppe inviata "Dalle carceri giudiziarie di
Palermo lì 18.06.1926". f. 232)
"…Per quanto riguarda le singole calunnie di cui sono
accusato mi permetta di dare inoltre questi chiarimenti. Perugino Umberto era un salariato del Comune durante il tempo che prestò il suo
servizio, oltre a dimostrarsi inadatto nelle sue mansioni era insubordinato e
di modi inurbani. Per queste sue specifiche qualità ben presto venne a noia
dell'Amministrazione Comunale e mio fratello Calogero, che ne era il Tesoriere e uno dei più ferventi
sostenitori, fece in modo che il Perugino venisse dal sindaco Santo Termini licenziato dal posto che occupava. Odi e rancori nacquero nell'anima
del Perugino per l'avvenuto licenziamento, minacciando propositi di
vendetta. Di ciò se richiesti potranno farne fede Manno Gaspare e Mazzeo Fortunato. Avvenuta la circostanza delle carte false, Perugino che era a conoscenza dei forti attriti che correvano tra
l'Amministrazione Comunale e il sac. Giulio Virga e specialmente perché in quell'epoca vi era un Commissario d'inchiesta
al Comune per salvarsi da una sicura condanna credette opportuno fabbricare dei
castelli e così veniva anche a sfogare tutta la sua bile contro i facienti
parte l'A.C. e i suoi principali sostenitori. Desidero infine sapere dove,
quando e chi fummo a minacciare il Perugino di calunniare il sac. Virga, affinché in presenza della S.V. Ill. ma, e riandando la memoria ai
tempi passati, possa io dimostrare in quale altro luogo diverso da quello
indicato, e con quale altre persone mi trovavo in quel periodo di tempo.
Dall'esame minuto di tutte queste circostanze da me citate emergerà chiara,
specifica e limpida la mia innocenza per questa infame calunnia. Voglio ancora
mettere a conoscenza la S.V.Ill.ma che per una combinazione venni a conoscenza
che il Perugino per sfuggire alla Giustizia e perché non potesse tradire
in un possibile confronto da noi richiesto cerca emigrare. Pregola pertanto
perché voglia fare impedire a che il fuggitivo scappi e perché voglia informare
da chi è stato suggerito a fuggire e chi ancora gli abbia apprestato i mezzi di
fuga, non avendo il Perugino beni di fortuna, e per dirla in una parola, povero
ai sensi di legge. Per l'ultima calunnia ancora più arbitraria delle precedenti
e affidatami dalla Bonfiglio nella sua denunzia, insisto nel dire che è un vero e
proprio ricatto e di ciò potrà farne fede il sig. Sunseri Carmelo (Nota in rosso del Giudice: 'arrestato o latitante!')
domiciliato e residente in San Giuseppe Jato. Chiudo il presente, sicuro che
Giustizia sarà fatta, riconoscendo nella S.V. Ill.ma il magistrato integerrimo,
leale, giusto ed onesto. Con osservanza. Termini Federico fu Giuseppe."
c.2 - Assassinio di Salvatore Mineo: capo dell'opposizione al
Comune
(Francesco
Belli – Ricordi storici e statistici di San Giuseppe Jato e San
Cipirello – 1934 – pag. 130)
"Il 29 maggio 1920 nella pubblica piazza e di pieno
giorno veniva soppresso proditoriamente e da ignota mano assassina il signor
Mineo Salvatore, leader dell'opposizione, che godeva la stima di tutti pel
suo animo generoso e pel suo schietto civismo. Fu un orrore e un rimpianto
generale. Non entriamo nei particolari del misterioso assassinio, la voce
pubblica e la giustizia hanno dato il loro verdetto."
(Dalla
dichiarazione del sac. don Giulio Virga fu Gioacchino e fu Domenica Balsamo
nato a Monreale. ASP - Fondo Tribunale Penale - Busta 3105, f. 377. In data
12.4.1926)
"…Il delitto Mineo è stato causato dai contrasti
politici. Il Mineo era infatti un capo partito in opposizione allora al sindaco
Pulejo Antonino, Termini Santo e Troia Vincenzo. Il Mineo era molto stimato e
benvoluto da tutti tanto che lo chiamavano il padre del paese. Escludo in modo
assoluto che egli sia stato ucciso perché strozzino: questa è un'infamia creata
ad arte dagli autori e mandanti del delitto per sviare le tracce. Il Mineo che
era persona coraggiosa, che affrontava in pubblico gli oppositori non aveva
peli sulla lingua…"
(on.
Rocco Balsano fu Calcedonio di anni 63 nato a Porto Empedocle. Avvocato.
05.01.1927. f. 656)
"Per ragioni del mandato politico ho per molti anni
avuto a che fare con i cittadini del Comune di San Giuseppe Jato e per essere
più preciso sin dal 1909 allorché contrapposi la mia candidatura a quella
dell’on. Nasi potei conoscere l’ambiente. In quel comune sin da
quell’epoca i capi della maffia avevano assunto il potere amministrativo ed
annidati nell’amministrazione vi spadroneggiavano dilapidando il denaro
pubblico e commettendo ogni sorta di delitti. Se un comune in Sicilia vi era
dove la maffia era onnipotente era proprio quello di San Giuseppe Jato. Sulle
elezioni politiche del 1919 il Mineo Salvatore sostenne la mia candidatura, come l’aveva sostenuta in
passato contro quella dell’avv. Francesco Orlando fratello del Ministro del tempo, che era appoggiata dai
componenti l’amministrazione comunale capeggiata dal famoso Ninu 'u latru
cioè Pulejo Antonino. Il gruppo dei facinorosi si manteneva al potere per la
protezione che aveva da parte del Governo, quindi dalle autorità, contro la
volontà di quasi tutta la cittadinanza composta di uomini onesti che per timore
di vendette subivano la situazione. Soltanto il Mineo, apertamente, deplorava la cosa e pubblicamente commentava
le malefatte di quella gente che aveva per esponente il sindaco Pulejo. Più volte in occasione di discorsi politici io ebbi a
dire ciò in San Giuseppe Jato e lo ripetei anche dopo l’assassinio del Mineo dovuto unicamente ed esclusivamente a tale causale. Il Mineo, uomo onesto, coraggioso, che beneficava largamente chi a
lui ricorreva, si era fitto in mente di abbattere l’Amministrazione Comunale e
di inaugurare nell’amministrazione metodi di correttezza e di onestà
sconosciuti a quell’amministrazione e nel 1920 subito dopo il successo
riportato facendo convergere su me i voti dei suoi amici si era illuso che
nelle successive elezioni amministrative sarebbe riuscito nello scopo. Questi
(il Mineo) all’epoca della prima inchiesta Fazio aveva aiutato il Fazio stesso nello svolgimento del
proprio lavoro facendo così convergere su di lui l’odio del Pulejo e dei suoi seguaci. E tale odio si inasprì perché il Mineo
si ingerì in procedimenti penali svoltisi a carico dei nipoti del Pulejo certi
D'Anna, attirando su di se altri motivi di risentimento. Più
volte avvertii il Mineo di stare guardingo perché da più parti mi si diceva che
prima o poi avrebbero finito per ucciderlo ma egli, uomo coraggioso, mi diceva
che si trattava di vigliacchi, che non avrebbero mai avuto il coraggio di
andare di fronte a lui e che egli non avendo inimicizie ed anzi beneficando
quanti a lui ricorrevano, poteva tenere a posto quei malfattori, perché un
delitto in suo danno avrebbe immediatamente fatto consegnare le ricerche delle
Autorità su di loro. Purtroppo egli fu assassinato e a nulla valsero le
sollecitazioni che io a quell’epoca feci alla vedova perché resistesse alle
imposizioni e perseguitasse gli assassini del marito, perché essa si lasciò
vincere dalla paura e il delitto rimase impunito. Morto il Mineo finì l’opposizione ed io stesso nelle elezioni del 1921
dovetti ritirarmi. Tutto questo ebbi a riferirlo al Prefetto del tempo ed alle
autorità competenti. Sin dall’epoca del delitto appresi che autori materiali
dell’assassinio erano tre individui da Borgetto e Partinico ma non ne ho mai saputo
i nomi. Credo che la vedova non abbia voluto mai assumere una posizione netta
contro la maffia perché parente di Vincenzo Troia che era un assessore ed uno
dei capi maffia.»
Al Principe apparve strana la difesa del Mineo fatta dall'on. Balsano, notoriamente uomo legato alla maffia. Il
Balsano, nel 1894 sindaco di Monreale, aveva creato uno dei fasci di Monreale
ed era stato sconfessato da Garibaldi Bosco. Nel 1919 lo trovò nella lista nittiana
assieme all'on. Lo Monte. Quasi certamente le fortune mafiose del
Balsano erano venute meno con il tracollo della
giovane mafia degli stuppagghiari di Monreale nel secondo decennio del
1900 e non è improbabile che, annusata l'aria, abbia pensato di trasferirsi,
armi e bagagli, nel partito dei nuovi vincitori.
(Niotta
Ignazio fu Stefano di anni 50 Presidente della cooperativa Giosuè
Borsi di San Giuseppe Jato. f. 565. Dichiarazione simile a quella di Li Bassi
Salvatore di Francesco di anni 29, segretario della stessa
cooperativa)
"La cooperativa Giosuè Borsi ha circa 300 soci e coi
sindacati agricoli che ci fiancheggiano possiamo dire che conta 500 soci quasi
tutti contadini….a proposito di chi ha sfidato la maffia va ricordato che Mineo
Salvatore fu assassinato perché apertamente avversario della
delinquenza."
(Riela
Vincenzo di Antonino di anni 58 da San Giuseppe Jato. 14.10.1926.
f. 468)
"Confermo la dichiarazione che resi al commissario di
pubblica sicurezza nell'aprile scorso relativa sia all'omicidio di Mineo
Salvatore che per voce pubblica si dice sia stato ucciso o fatto
uccidere da Pulejo Antonino, Termini Santo, Troia Giuseppe e Vincenzo, Termini Calogero, Federico, Emanuele e Francesco e da altri del loro partito, sia ai nomi dei capi maffia
che imperavano in San Giuseppe Jato."
(Lettera
dal carcere di Santo Termini al Giudice. F. 670)
"Ill.mo sig. Giudice della 3^ Sezione, pregiomi
inviarle le sottoscritte aggiunzioni. Delitto Mineo. Tengo a far rilevare alla S.V. Ill.ma che i più cordiali
rapporti corsero tra me e Mineo Salvatore, potendo io citare altresì la convenzione stipulata
amichevole tra me e la vittima circa la cessione di un suo diritto di gabella
dell'ex feudo Pietralunga, di mia proprietà, con l'incarico di continuare la
lite a suo nome, previo compenso di Lire 18.000 con altro pretendente.
L'avvenuta morte del Mineo fu il motivo per cui mancando il suo sostegno perdetti la
lite in appello (avendola di già il Mineo vinta in Tribunale) apportandomi ciò
un danno per avere rilasciata la gabella. Aggiungo, inoltre, che pochi mesi
prima della morte del Mineo, io con lui ed altri fummo in società per
l'acquisto dell'ex feudo Argivocale."
(Ordinanza
di rinvio del 27.12.1927. n. 1036/27 R.G.)
"Il primo procedimento per l'assassinio di Mineo
Salvatore viene fatto contro ignoti. Il secondo contro Rappa Filippo ed Amato Antonino di Borgetto indicati quali esecutori materiali da certo Di
Marco Vincenzo figlio di Antonino. Successivamente il Di Marco precisa che la fonte delle sue informazioni era un certo
Petruso Santo, testimone oculare, in seguito soppresso."
c.3 - Ammazzatìne
(Da
"Belli – Ricordi storici e statistici di San Giuseppe Jato e San
Cipirello – 1934" – pag 130)
"L'11 marzo 1919 triplice omicidio dei fratelli
Giuseppe e Giacomo Maniaci e di G. Maria Brusca in ex feudo Traversa. Il 15 ottobre nella via Vittorio
Emanuele assassinio di Lazio Calogero. Il 26 dicembre nel limitare della propria casa assassinio
di Ricotta Dionisio. Il 20 luglio 1920 Bruno Mario fu Rosario in ex feudo Giambascio. Questo fatto di sangue dimostra come
l'audacia e la sicurezza degli assassini fosse enorme, perché accolsero con
delle ben nutrite fucilate la pattuglia dei Reali Carabinieri accorsa sul posto
per le constatazioni di legge. Se ne stavano tuttora appostati sul luogo.
Nell’anno seguente (1921) avvennero le elezioni politiche (ministero Giolitti)
col sistema proporzionale provinciale. Niente avvenne di notevole. Elenchiamo
intanto senza commenti gli assassini che si seguono a ripetizione. Il
19.07.1921 Bruno Salvatore. L' 1.08.1921 Giordano Giuseppe fu Girolamo in ex feudo Mortille. Il 02.11.1921 Caiola
Baldassare di Giuseppe entro l’abitato. Il 09.11.1921 Bommarito
Onorato entro l’abitato. Il 28.11.1921 Musonserra Baldassare entro l’abitato. Il 29.11.1921 Sgroi Giuseppe. Il 27.01.1922 D'Anna Stefano in ex feudo Mortille. Il 27.01.1922 Salamone Filippo in ex feudo Mortille. Il 31.05.1922 Romano Benedetto in ex feudo Mortille. Il 31.05.1922 Fratelli Romano
Girolamo. Il 10.08.1922 Scomparsa di Maniscalco Calogero presunto autore del sequestro del ragazzo Termini Emanuele. L' 08.11.1922 Rinvenimento in ex feudo Disisa di un
cadavere in putrefazione di sconosciuto. L' 08.11.1922 Rinvenimento in un gorgo
del fiume Jato del cadavere di una donna sconosciuta con una grossa pietra
legata al collo. Date imprecisate: scomparsa dei due fratelli Terrasi, di Finazzo Giuseppe e di tanti altri. L'8 settembre 1923 Di Piazza Michele. Il 18 settembre 1923 Pullarà Santo in ex feudo Giambascio. Il 14 aprile 1923 Clemenza Pasqua in casa propria (N.d.A.: era casalinga). Il 17 maggio 1923 Di
Maggio Salvatore. Il 19 giugno 1923 Polizzi Calogero. Il 31 gennaio 1925 Lo Cicero Pietro sullo stradale per San Cipirello. Il 15 dicembre 1925 Lo
Re Gaetano."
(Dal
'Memoriale dei Sindacati Agricoli Fascisti di San Giuseppe Jato e San
Cipirello' inviato al Prefetto Mori. Febbraio 1926.)
"L’azione dei componenti della maffia in queste
contrade, e in ispecie del trinomio Termini-Troia-Pulejo, che reggeva le sorti del comune, è stata
terrorizzante al non plus ultra – assassinii commessi impunemente in gran
numero (nel solo mese di febbraio del 1922 furono uccise più di trenta persone),
abigeati innumerevoli a danno dei pacifici lavoratori ed altri infiniti reati
contro la proprietà e le persone che per brevità omettiamo."
(07.06.1921
f. 64)
"Omicidio di Cannella Gaetano"
(Ordinanza
di rinvio. f. 81)
"Omicidio di Moscona Antonino"
(Ordinanza
di rinvio. f. 81)
"Rinvenutosi nel settembre 1921 il cadavere di
Giordano Giuseppe, aveva vicina una rivoltella appartenente al suo intimo
amico Caiola Baldassare, poi ucciso anch'egli"
(31.03.1924.
f. 187)
"Omicidio di Madonia Calogero nella pubblica via di San Cipirello."
(21.10.1920.
f. 435)
Viene ucciso mentre rincasava Saverio Turacciolo, socio della cooperativa Pio X. Quindici giorni prima aveva preso parte
all’occupazione del feudo Jannuzzo. All’occasione la maffia locale aveva
assoldato un certo numero di altri delinquenti e, assieme, avevano affrontato i
contadini costringendoli ad abbandonare tutto. Il Turacciolo la sera
dell’assassinio, è la madre a dichiararlo, era stato chiamato in casa del capo
maffia Vito Todaro e sul luogo del delitto poco prima era stato visto
Giuseppe Todaro, affiliato alla maffia di San Cipirello.
(20.10.1921.
f. 188)
Garrisi Francesco di Angelo (nato nel 1896) è imputato di associazione a
delinquere e di omicidio qualificato in persona di Turacciolo Saverio.
(Ordinanza
di rinvio. f. 54)
"Labbruzzo Baldassare era notoriamente un poco di buono. Egli fu ucciso in San
Cipirello il 31.10.1921 ed il processo si chiuse contro ignoti. Ora il padre
narra che prima aveva taciuto per imposizione di Sgroi Leonardo e per timore incussogli da Termini Santo."
(14.06.1921)
Giuseppe Di Maggio, implicato nel mancato assassinio di Vito Todaro, esce di casa e non vi fa più ritorno. Assieme a lui scompare anche
Giuseppe Faraone. Negli stessi giorni viene ucciso Giuseppe Celeste anch’egli implicato nel mancato omicidio di Vito Todaro.
(dichiarazione
resa dalla sorella di Finazzo Giuseppe al giudice Triolo. f. 460)
Finazzo Giuseppe nel marzo 1921 per dissidi sulla spartizione del bottino
con Terrana Ignazio, Immordino Salvatore, Candela Antonino e Rampudda Sebastiano viene preso a fucilate da questi ultimi. Dichiara ai
carabinieri un incidente di caccia. Guarito pensa di emigrare in America. Viene
avvicinato da Santo Termini il quale lo consiglia, prima di partire, di riappacificarsi con
Terrana, Immordino, Candela e Rampudda. Il Finazzo si presenta all’appuntamento
e da quel momento non si ebbero più notizie di lui.
(Lo
Cicero Giuseppe di anni 62. 29.10.1926. f. 591. Dello stesso tenore sono
le dichiarazioni di Finocchio Giovanni e Lo Cicero Antonina.)
"Subito dopo l’assassinio di mio nipote Lo Cicero
Pietro seppi da suo fratello Vincenzo che il Pietro, prima di morire gli aveva rivelato di avere
riconosciuto gli assassini e che essi erano Balistreri Domenico e Vincenzo, Candela Antonino e Cavallaro Giovanni. Pur essendo a conoscenza di ciò, quando fui interrogato
dal Pretore, essendo la istruzione svoltasi nei locali del Municipio di San Giuseppe
Jato e vedendo la intimità del Santo Termini e del Pretore considerato anche che il Santo Termini entrava e usciva dalla stanza ove il Pretore interrogava credetti
opportuno di tacere quanto era a mia conoscenza perché il rivelarlo mi avrebbe
esposto alla vendetta del Santo Termini e della maffia. Il Santo Termini era a capo della delinquenza di San Giuseppe Jato ed era lui che si
interessava della sorte del Balistreri Domenico. Infatti i testi furono reclutati nella delinquenza di San
Giuseppe Jato. Il Traina Antonino è fratello di Traina Vincenzo, uno dei capi maffia, il Bonura Giuseppe è cugino del Balistreri, il Gambino Vincenzo è un intimo amico del Balistreri, Pulejo Antonino soprannominato Ninu ‘u latru è uno dei peggiori
delinquenti, Ferrara Benedetto era guardia campestre dipendente del Santo Termini. Da ciò si comprende che si tratta di testimonianze di favore preparate
da Santo Termini per portare, come portarono all’assoluzione di Balistreri
Domenico. Il Santo Termini accompagnò il Pretore anche in casa della vedova ed in quei tempi
bastava la sua presenza perché nessuno osasse parlare."
(Ordinanza
di rinvio f. 97)
"3 agosto 1922: Clemenza Michele subì in San Cipirello una rapina di equini. Gli autori rimasero ignoti.
22 agosto 1922 Clemenza Giuseppe, fratello del rapinato, andò in cerca degli equini e
scomparve definitivamente. 26 luglio 1924: Clemenza Vito, l'altro fratello del rapinato venne ucciso a San Cipirello. 18 luglio
1925: fu ucciso tale Sciortino Giuseppe e di tale omicidio si diè carico al rapinato Michele il
quale a 13 maggio 1926 fu pure ucciso a Palermo ov'era latitante e per questo
delitto si procedeva a carico di Bono Tommaso e Celeste Salvatore."
(Dichiarazione
di Di Marco Vincenzo fu Antonino 34 anni di Borgetto. 28.02.1927. f. 643)
"Il 1° maggio 1921 fu in Borgetto assassinato mio
padre etc.". Il Di Marco chiede informazioni ad un certo Petruso. Il Petruso risponde che "tra la maffia di Borgetto e quella di
San Giuseppe Jato c’era uno scambio continuo di prestazioni di opere delittuose
specialmente per la commissione di assassini." L’assassino del padre del
Di Marco è Rappa Filippo. Rappa Filippo aveva pure assassinato, in contrada
Bommarito, un certo Finazzo, ritenuto scomparso a San Giuseppe Jato. I motivi: il
Finazzo aveva avuto mandato dal Rappa Filippo di assassinare un certo Celeste Giuseppe di San Cipirello. Mentre il Finazzo preparava
l’assassinio, il Rappa si riappacificava con il Celeste Giuseppe o, forse, veniva a conoscenza che qualcun altro si stava
occupando dello stesso. Il Rappa Filippo, temendo che il Finazzo potesse svelare il mandato assunto, lo attirava
in una imboscata, lo freddava e lo seppelliva in contrada Bommarito. Quella del
Finazzo risultava alla fine un'ammazzatina inutile. Dopo pochi giorni il
Celeste Giuseppe veniva assassinato da un'altra squadra: Todaro Vito e compagni di San Cipirello.
(f. 10)
Imputati dell'omicidio di Giuseppe Celeste: Todaro Vito fu Giuseppe; Pardo Giovanni di Francesco; Todaro Giuseppe di Vincenzo; Mustacchia Ignazio di Bartolomeo; Mustacchia Giuseppe da Camporeale; Crociata Francesco inteso Croce; Pardo Domenico di Francesco; Pardo Santo di Francesco.
(f. 8)
Todaro Giuseppe di Vincenzo (nato nel 1899) imputato di omicidio
premeditato di Celeste Giuseppe commesso la mattina del 5.6.1921 in San Cipirello con vari
colpi di arma da fuoco si difende sostenendo che il 5.6.1921 si trovava in
corso Tukory a Palermo in una clinica al capezzale di Vito Todaro ferito nel tentato omicidio ad opera del Celeste.
(Comunicazione
di RR.Carabinieri. f. 242)
D'Anna Stefano di Girolamo e fu Pulejo Nicolina, correo di una rapina, risulta ucciso
in conflitto da altri malfattori.
(Ordinanza
di rinvio. f. 103)
"Certi Terrasi G. Battista ed Agostino, datisi alla latitanza in seguito all'arresto dei fratelli
Domenico e Nicolò, ebbero modo di far sapere alla madre, Lo Coco Giuseppa, che erano al sicuro presso Santo Termini nella contrada Dammusi ov'era campiere Terrana Ignazio. Costui, in seguito, fu arrestato insieme alla Lo Coco e le disse
essere convinto che l'arresto proveniva per chiamata di correo dei Terrasi da
lui ospitati, quindi minacciava di sterminare la razza. Si è ritenuto che i due
Terrasi, di cui non si ha più notizia, siano stati soppressi anche per ordine
della mafia, ma giustamente il Pubblico Ministero rileva che non può indagarsi
sulla prova della responsabilità, quando non si ha la prova che un omicidio esista.
Provato è invece ad esuberanza che il Termini ed il Terrana furono favoreggiatori dei Terrasi."
(Verbale
dei RR.CC. f. 24)
Clemenza Michele di San Cipirello riconosce, prima di morire, i propri assassini nelle persone
di: Bono Tommaso (ora detenuto), Immordino Giuseppe (o Francesco) di Giuseppe e Celeste Salvatore fu Pietro.
(Niotta
Ignazio fu Stefano di anni 50 Presidente della Cooperativa 'Giosuè
Borsi' di San Giuseppe Jato. f. 565)
"Sono da ricordare gli assassini e le scomparse di
Maniscalco Calogero fatto sparire dalla maffia perché aveva sequestrato il
figlio di Calogero Termini, l'assassinio di Celeste Giuseppe autore di un mancato omicidio di Vito Todaro; la scomparsa di Finazzo Giuseppe, l'assassinio dei fratelli Romano, quello di Caiola Baldassare e quello di Labbruzzo Baldassare, che ora viene attribuito ai fratelli Bellone Giuseppe e Calogero a Stefano Allegro e Vicari Onofrio."
(f.
613)
Grippi Pietro assassinato dai figli di Di Corte Calogero fu Nicolò a nome Vincenzo e Nicolò.
(1924)
Trovati due scheletri in una fogna. Viene fatto riferimento
al sequestro del bambino Termini Emanuele.
(Ordinanza
di rinvio. F. 55)
"Per pubblica notorietà venne a conoscenza dei
funzionari di polizia che verso le ore 21 dell'8 agosto 1922 il bambino di
quattro anni Termini Emanuele figlio di Calogero, attratto fuori l'abitato di San
Giuseppe Jato era stato sequestrato a scopo di ricatto. Interrogato il genitore
Termini Calogero, confermando il fatto, narrò che già qualche giorno prima
si era tentato il sequestro attirando fuori il paese il bambino, visto, per
caso, da amici del Termini che lo interpellarono ed egli aveva detto che andava
in cerca di San Calogero. Si fecero febbrili ricerche essendo anche i
funzionari pressati dal Ministero, quando il Termini narrò che durante la notte
dell'11 agosto, mentre egli vegliava, aveva sentito la voce del bambino,
rilevando così che i malfattori lo avevano spontaneamente rilasciato. Questa narrazione
non apparve verosimile e si ritenne che il Termini occultasse i mezzi adoperati
per la liberazione del figlio, quando il 19 dello stesso agosto si presentò al
commissario di P.S. Bonfiglio Francesca, moglie di Maniscalco Calogero, cugino e lavorante ai servizi di Termini Calogero, e narrò che il marito, la sera in cui era avvenuto il
sequestro era stato fuori di casa dicendo che andava per cooperare alle
ricerche del bambino; la notte dal 10 all'11 agosto era stato pure fuori,
rincasò alle ore 3 e poi, verso le ore 6, venne in casa sua la zia Maniscalco
Caterina rimproverandogli di aver preso parte al sequestro del
bambino e dicendogli che certamente non sarebbe sfuggito alla vendetta dei
Termini. Narrò ancora la donna che il marito, preoccupato, le confidò che
d'accordo con Termini Calogero, il quale aveva avuto richiesta la somma di lire 10000 pel
rilascio del figlio, andò a trattare coi malfattori la riduzione della somma a
lire 6000; che il Termini Calogero, fornitolo di orologio e rivoltella, gli consegnò quella
somma che egli, sul luogo convenuto, diede ai malfattori, ricevendo il bambino.
Continuò la Bonfiglio dicendo che, la sera dello stesso 11 agosto, il marito
uscì di casa dopo aver preso un fil di ferro e da quel momento era scomparso.
Disse che aveva un'amante a Roccamena e che avrebbe in precedenza voluto emigrare;
soggiunse di aver saputo da sua zia che, quando il Maniscalco era andato a
rilevare il bambino sequestrato, era stato pedinato da quattro persone. Nel
gennaio del 1924, in una fogna pubblica si rinvennero dei resti di scheletro
umano ma, per il momento, non se ne ricavò alcun costrutto. Le indagini sui
fatti sopra esposti si ripresero nell'occasione del procedimento attuale e la
polizia formulò l'assunto seguente: 'Maniscalco fu soppresso per mandato di
Termini Calogero e Federico; i quattro che pedinarono il Maniscalco, quando si recò a
rilevare il bambino sono: Terrana Ignazio, Troia Vincenzo, Fiore Antonino e tal Pizzo (Salvatore), ora morto; contro i primi tre e contro i due
Termini si è quindi rubricato l'omicidio del Maniscalco. La narrazione della
vedova, ripetuta ora e confermata dalla zia Maniscalco Caterina, dimostra più che chiaramente la partecipazione del
Maniscalco nel sequestro e dimostra la vendetta da parte del Termini il quale ha sempre persistito nel negare la missione
assunta dal Maniscalco nella liberazione del bambino. Per altro ancora, risulta
che il detto Termini ed il fratello Federico, hanno finito per ammettere alla vedova del Maniscalco che
questi fu ucciso, pur dicendosi estranei al delitto ed asserendo che fu
commesso da loro ignoti amici, per far loro cosa grata."
(8
maggio 1926. f. 157. Verbale dei Reali Carabinieri)
"Bonfiglio Francesca di anni 26 moglie di Maniscalco Calogero (ucciso) fa verbalizzare che nel mese di aprile si sono
presentati a lei due sconosciuti, inviati da amici comuni, che cercarono qui in
San Giuseppe Jato di indurre la vedova a recarsi a Palermo allo scopo di farle
modificare di fronte a qualsiasi autorità di quella città le dichiarazioni più
volte rese ai carabinieri di San Giuseppe Jato e San Cipirello. L'invito
rivolto alla Bonfiglio era accompagnato da promesse di ricompensa varie.
Fortunatamente noi verbalizzanti ci siamo trovati di fronte ad una giovane
donna che, pur di vendicare il marito ucciso, a nessuna lusinga ha ceduto."
Il Principe rimase colpito dall'intera vicenda ma limitò le
considerazioni all'oggetto della sua ricerca monografica. Sottolineò così che
il Calogero Termini non aveva denunziato, all'autorità giudiziaria, la
scomparsa del figlio ma contemporaneamente, attraverso propri collegamenti
certamente altolocati, aveva interessato il Ministero il quale aveva pressato
i funzionari perché si facessero febbrili ricerche.
c.5 - Violenza privata
(Ordinanza
di rinvio. f. 104)
"Rampudda Sebastiano e Giuseppe possono ritenersi raggiunti da prova per violenza privata
in forma indiretta, ma non meno efficace, se si considera che, essendo tal
Giambrone campiere di Dolce Carmelo, costui subì molti furti tra cui quello di una cavalla e non cessarono
se non quando assunse Rampudda Sebastiano a posto del Giambrone. E quando il Rampudda dovette andar via pel decreto
prefettizio sui guardiani, i furti ricominciarono e cessarono quando fu assunto
l'altro fratello Giuseppe come guardiano."
c.6 - Curriculum con scambio di persona
(Catturando
Candela Antonino di Giuseppe di anni 36 inteso Ramaglia accusato di associazione
a delinquere contro le persone e la proprietà. Verbale di costituzione.
22.09.1927. f. 2 bis)
"Inoltre: per omicidio volontario in persona di Lo
Cicero Pietro in San Giuseppe Jato nel 1925; per violenza privata
aggravata commessa da più persone per avere costretto Sudano Giuseppe con minacce ad abbandonare il posto di guardia giurata nel
feudo Argivocale, conseguendo l'intento nel 1924; in data 25.10.1925 per rapina
aggravata in danno di Faraone Santo e Guarneri Giovanni; per omicidio qualificato in persona di Finazzo Giuseppe scomparso da San Giuseppe Jato sin dall'aprile 1922; per
omicidio qualificato in persona di Laudani Antonio di Antonino scomparso da San Giuseppe Jato il 2.3.1923 in c.da
Argivocale; per correità nel delitto di rapina a mano armata con restrizione
della libertà di Guarneri Giovanni e Faraone Salvatore per avere il 16.10.1924 in c.da Passo Polledro costretto
gli stessi a tollerare che si impossessassero di un mulo; correità di rapina a
mano armata in danno di Bonanno Rosario, Candela Antonino, Simonetti Michelangelo, Lombardo Francesco in c.da Jannuzzo di San Cipirello il 19.02.1921; imputato
di avere determinato uno sconosciuto a commettere una rapina aggravata in danno
di Mazzola Gaetano di una giumenta del valore di lire 9000."
(Dichiarazione
di Candela Antonino di Salvatore del 14.10.1926)
"Sono cugino in quarto grado con Candela Antonino fu Giuseppe; ma tra me e lui vi è la stessa differenza che
esiste tra un diavolo e un santo."
c.7 - Storie di muli
Vincenzo cav. Troia, Assessore del Comune di San Giuseppe
Jato durante la sindacatura di Ninu 'u Latru, sin da bambino era stato
attratto dalla carriera diplomatica e da un amore spasmodico per gli indifesi
poveri animali. Era sempre stato alla ricerca di un'associazione di animalisti
in cui iscriversi; purtroppo, all'epoca, non ne esistevano. Per queste
peculiari attitudini gli era stato affidato il compito, nell'organizzazione
mafiosa, di prendere in consegna i muli rubati sul territorio, condurli al
porto di Trapani e, per evitare che le povere bestie soffrissero la malinconia
dell'espatrio e il mal di mare, li accompagnava sino in Tunisia dove si
accertava che venissero consegnati in buone mani.
(30.5.1926.
f. 250)
Rapine di muli mai denunziate relativamente al periodo
1920-22: n. 35
Alle origini del teorema Buscetta
(dalla dichiarazione di Galati Benedetto fu Antonino di San Cipirello. 26.05.1926 f. 245)
Il Galati era stato derubato di una mula da tre individui e
aveva fatto regolare denunzia ai Reali Carabinieri. - Dichiara:
"Successivamente mi adoperai a parlare con qualcuno della maffia per avere
la restituzione dell'animale, ma poiché io ero un avverso aperto alla
delinquenza non potei ottenere la restituzione della mula malgrado avessi
disposto di pagare la somma per il riscatto che mi avessero imposto. Ricordo
che mi rivolsi anche al mio parente Vito Todaro capo maffia di San Cipirello e costui disse che non poteva provvedere
perché l'animale era troppo lontano (in Tunisia). Ricordo che i campieri erano
i pessimi arnesi Immordino Salvatore e Candela Antonino ambedue maffiosi. Su di essi cadono i miei sospetti e
pertanto io li denunzio. Non solo. Siccome senza l'autorizzazione dei capi
maffia, coi quali dividevano il bottino, nessuno dei seguaci avrebbe commesso
reati del genere allora denunzio pure i capi maffia di San Giuseppe Jato e San
Cipirello nelle persone di Santo Termini e del mio parente Vito Todaro. Denunzio solo ora quanto sopra perché mi avvedo che solo ora la
Giustizia trionfa e dà i mezzi per garentire gli onesti."
(Dalla
dichiarazione di Piediscalzi Giuseppe fu Lorenzo da San Cipirello domiciliato in San Giuseppe
Jato)
Il Piediscalzi viene derubato di due muli del valore di
Lire 6000. Dichiara: "Avvenuta la rapina, com'era costume in quei tempi,
mi recai a trovare Santo Termini capo della delinquenza che imperava in paese e ne ebbi assicurazione
che avrebbe spiegato il suo interessamento per il recupero degli animali,
avendo io fatto atto di prontezza per il pagamento del prezzo che egli avrebbe
fissato per il riscatto degli animali." Dopo qualche giorno gli si
presentano Gaspare Calò e Giovanni Piediscalzi, quest'ultimo suo lontano parente, e gli chiedono un
riscatto di Lire 1500. Contrae un mutuo di Lire 1500 con la cooperativa
agricola Pio X e lo stesso giorno consegna il denaro al Calò e Piediscalzi i
quali gli fanno sapere che 5 giorni dopo avrebbe ritrovato i muli, legati ad un
albero, in contrada Figurella. Una settimana dopo trova i muli privi del basto
e delle bisacce che avevano al momento della rapina, ma trova di nuovo il Calò
e il Piediscalzi che lo costringono ad andare a Piana con i due muli. Lo
costringono a consegnarne uno ad un campiere del feudo Rossella il quale lo
ricambia con un asino del valore di lire 300 oltre a lire 1100 mentre il valore
del suo mulo era di lire 3000. L'altro mulo è costretto a consegnarlo al
gabelloto del feudo Rossella, un certo Palazzotto, al cui servizio era
Piediscalzi Giovanni suo parente. Poi continua "…e mi diede in cambio un
mulo vecchio che io poi rivendetti, dopo circa 15 giorni, per lire 1050. Io non
volevo cambiare il mulo con quest'altro più vecchio ma temendo le rappresaglie
a malincuore dovetti cedere e me ne tornai piangendo a San Giuseppe Jato. In
complesso dopo avere sborsato le lire 1500 io non ebbi che due pessimi animali
del valore equivalente alla somma sborsata sicché i miei due muli che valevano
più di lire 6000 andarono a beneficio del Termini, del Calò, del Piediscalzi e dei due individui di Piana".
c.8 - Furto, denunzia e ritrattazione
(Cangelosi
Antonino fu Pietro da San Cipirello. 13.10.1926. f. 437)
Il Cangelosi, nel 1917, aveva subito il furto di due muli
del valore di circa lire 6000 in contrada Giammascio. Fatta la denunzia di rito
aveva tentato di riscattarli rivolgendosi ad un certo Crozza Francesco il quale gli aveva risposto che non era possibile in quanto
gli animali erano stati venduti a coloro che incettavano muli per conto
dell'amministrazione militare. Nell'aprile del 1926 denunzia Maniscalco
Francesco, Di Maggio Giuseppe e Crozza Francesco (nel frattempo tutti assassinati) quali autori del furto.
Chiamato il 13.10.1926 a riconfermare quanto in precedenza denunziato dichiara:
"Io vivo in campagna. Non conosco nessuno. Ho sentito nominare tante
persone come gente affiliata alla delinquenza ma non potrei fare il nome di
alcuno perché li ho dimenticati!"
Tra moglie e marito…
(Vinciguerra
Giuseppa fu Giovanni di anni 50 domiciliata in San Giuseppe Jato,
moglie di Consiglio Giuseppe. 15.10.1926. f. 487)
Circa 10 anni prima il marito era stato derubato di due
muli e una cavalla in contrada Muffoletto da Scaglione Luigi e Giovan Battista. Denunciava gli Scaglione e subiva minacce dagli uomini di
maffia Traina Vincenzo e Terrana Ignazio. Quest'ultimo puntava una pistola alla tempia della Vinciguerra.
Dichiara la donna: "Viste inutili le minacce alla ritrattazione ci fu
offerto il valore degli animali ed un mulo, che probabilmente era stato rubato
ad altri." S'intrometteva l'avv. Pulejo Pietro, difensore degli Scaglione e consigliere alla Provincia di Palermo,
promettendo la restituzione degli animali. Trascorreva circa un mese e gli animali
non erano stati ancora restituiti. La Vinciguerra si presentava all'avv. Pulejo
Pietro minacciando che avrebbe denunziato anche lui, perché in relazione coi
malfattori, se avesse continuato a difendere gli Scaglione. L'avv. Pulejo Pietro dichiarava alla Vinciguerra: "Io non ci posso fare nulla se i miei
paesani sono dei mascalzoni!" Dichiara la Vinciguerra: "Si celebrò il
processo e mi costituii parte civile ma per l'interessamento della maffia e le
deposizioni di falsi testimoni il processo finì con l'assoluzione come soleva
sempre accadere."
(Consiglio
Giuseppe, marito di Vinciguerra Giuseppa. 15.10.1926. f. 494)
"Non è esatto quello che ha riferito mia moglie che io
abbia riconosciuto i malfattori; ciò non soltanto non è vero, ma io non l'ho
mai dichiarato. Subito dopo la denunzia si presentarono in casa nostra Terrana
Ignazio e Traina Vincenzo promettendo di interessarsi per la restituzione degli
animali ma nello stesso tempo imponendoci di non fare i nomi dei malfattori.
Poiché mia moglie disse loro che erano ladri e soci dei ladri, essi la
minacciarono con la rivoltella."
c.9 - San Cipirello: quando, in 'era fascista', era difficile
iscriversi al partito unico del fascio .
(Ordinanza
di rinvio. f. 106)
"Molti soci della sezione del Fascio di San Cipirello
furono costretti a dimettersi, contro la loro volontà e con minacce adoperate
da Pardo Vincenzo, Leone Francesco, Badolato Giuseppe, Bilello Ignazio, Mustacchia Ignazio, Passalacqua Michele, Russo Filippo, Pardo Santo, Battaglia Leonardo; elementi indicati tutti dalla polizia come mafiosi ed
agenti al fine di ricostituire a modo loro la sezione, onde paralizzare
l'attuazione di uno dei fini principali del regime fascista: la distruzione
della mafia. Ciò costituisce, evidentemente, violenza privata ed è vano, ai
fini dell'amnistia porre avanti il movente politico, escluso da ciò che si è
esposto. La prova poi si raccoglie dalle dichiarazioni delle parti lese, del
maresciallo Trombino e di parecchi altri testi tra cui uno zio dello stesso
imputato Russo. Va disposto il rinvio a giudizio."
c.10 - Santo Giacomo Termini fu Giuseppe e Morici Vita nato a Castelvetrano nel 1877 coniugato con
Grazia Pecoraino.
Al momento dell'interrogatorio del 19 maggio 1926 sul suo
certificato penale risulta:
"28.12.1907 – Tribunale di Palermo: multa di lire 50
per lesioni personali volontarie. 06.09.1919 – Sezione accusa di Palermo: non
doversi procedere per insufficienza di prove per omicidio e porto di fucile.
01.05.1920 – Giudice Istruttore di Palermo: non doversi procedere per
insufficienza di prove per incendio doloso. 01.02.1926: Tribunale di Palermo:
assoluzione per amnistia per appropriazione indebita."
Annotò il Principe: la prima volta che si incontra il nome di
Santo Termini nei documenti d'archivio del Comune di
San Giuseppe Jato è nel 1916 durante la sindacatura di Antonino Pulejo, 'Ninu 'u latru', poi assessore
nella Giunta Termini. Era stato eletto componente nella Commissione
consiliare per i reclami contro la tassa di famiglia, assieme a Termini Emanuele fu Giuseppe, Marsala Vincenzo fu Francesco e Giambrone Vincenzo fu Vitale. Già nel 1911 risultava
qualcosa a carico del Termini, stranamente, non riportata sul certificato
penale:
(Verbale
dei Reali Carabinieri: 6 marzo 1916 f. 202)
"La sera del 2.3.1911 tra la stazione di Gibellina e
Salemi due sconosciuti svaligiavano il treno portando via i pacchi dei valori
postali. Sospettati di allora erano il capotreno Lo Bosco Giuseppe da Palermo e il conduttore Bertolino Giuseppe di Saverio da Partinico. Attraverso indagini si è scoperto
che ad opera di Santo Termini di Giuseppe di anni 39 da Castelvetrano assieme a Di Girolamo Rosario di Francesco e un sedicente Pollarà Salvatore, identificato per Riela Rosario fu Vincenzo di anni 30 da San Giuseppe Jato, erano stati messi in
circolazione effetti bancari per lire 11.000 compendio della rapina in parola.
In seguito tutti i suddetti vengono prosciolti in Camera di Consiglio. Ora
secondo la dichiarazione resa da D'Anna Stefano fu Antonino di anni 45 da San Cipirello il reato in parola sarebbe
stato organizzato dall'avv. Lo Monte Giovanni da Mezzoiuso e consumato materialmente da Todaro Vito, dal fratello Angelo, dal Termini e da un forestiero. La rapina fu organizzata dall'avv. Lo
Monte che aveva conoscenza con i sospettati di Partinico. Il
D'Anna è attendibile perché egli è un maffioso uscito fuori dalle righe in
seguito all'uccisione del fratello ad opera della maffia stessa."
Il Principe volle verificare se, come supponeva, l'organizzatore
avv. Giovanni Lo Monte fosse lo stesso on. Giovanni Lo Monte deputato al Parlamento e si rese conto di
avere inzertato. Poi riportò il verbale d'interrogatorio del Termini
subito dopo l'arresto:
(Interrogatorio
di Termini Santo. 19.05.1926. Pag. 4)
"Da cinque anni mi sono domiciliato a Palermo
destinando la mia attività in parte alla famiglia e agli affari personali ed in
gran parte anche per il miglioramento del Comune di San Giuseppe Jato del quale
sono Sindaco e dei miei amministrati. In cinque anni di sindacatura non ostante
io sia riuscito a far portare l'acqua nel mio Comune, a risolvere il problema
della illuminazione elettrica, della viabilità urbana e rurale, della
fognatura, dell'impianto di telefoni ed altro, molte animosità si sono
accumulate contro di me perché è risaputo che nei piccoli ambienti chi si
dedica all'amministrazione spesso è ripagato con la più nera ingratitudine ed
io sostengo che agli odi politici si deve, se su di me grava l'accusa di avere
costituito una associazione a delinquere al fine di commettere reati contro la
proprietà, contro le persone, contro la fede pubblica della quale S.E. mi dice
che mi si accusa di essere uno dei promotori e dei capi. Non ho mai fatto male
a nessuno né posseduto armi. Quanto sia assurda l'affermazione che io abbia formato
la mia posizione economica col provento dei delitti mi è facile dimostrare.
Ereditai da mio padre un mulino in San Giuseppe Jato, che all'epoca del mio matrimonio,
circa diciannove anni fa, valeva oltre centomila lire ed altrettanta somma ebbe
in dote mia moglie all'atto del matrimonio. Ho dedicato la mia attività al
commercio dei cereali e dei vini ricavando ingenti utili specie nel periodo
antecedente alla guerra e durante la guerra. In società con altri ho fatto
diversi affari acquistando e rivendendo i terreni dell'ex feudo Pietralunga
(proprietà Forcella) per 3 milioni, rivendendoli per circa 15 milioni,
rivendendoli a spezzoni. Altri terreni acquistammo in contrada Argivocale dal
conte Forcella per 800.000 lire, rivendendoli per un prezzo quadruplo di
quello per l'acquisto. Acquistammo ancora l'ex feudo Raitano guadagnando nella
rivendita circa 300.000 lire. Ho acquistato per mio conto un giardino in
contrada Jato che ho rivenduto con un utile di circa 100.000 lire. Nessuna
intimidazione è stata fatta ai venditori per addivenire a tali contratti. Ho
avuto ed ho in affitto quattro feudi cioè Manali, Sparacìa, Sagana e
Pietralunga per prezzi in rapporto all'attuale situazione economica generale
veramente esigui, tali cioè che mi hanno reso almeno il decuplo del prezzo da
me pagato come estaglio. Pertanto data la mia posizione economica non è
concepibile che io mi sia dedicato ai reati contro la proprietà, ed è notorio
in paese che la mia attività come Sindaco mi costava almeno lire 100.000
all'anno spese per i miei conterranei, per tutelare in Palermo e altrove gli
interessi del Comune nell'esercizio della rappresentanza del Comune
stesso."
(Di
Giovanni Pasquale di Giuseppe di anni 53 da San Giuseppe Jato. 6.8.1926. f.
345)
"Ho detto e confermo che sino a pochi anni addietro e
cioè prima del suo matrimonio Santo Termini viveva in grandi ristrettezze economiche. Egli possedeva un piccolo
cavallo e non aveva mezzi per comprare la paglia e trebbiava insieme a me alle
dipendenze di Pietro Cannella in contrada Passo Palermo. Ricordo che tale era la sua povertà che non
aveva pane per mangiare ed io ebbi a dargli da mangiare. Le sue sorelle nubili
emigrarono in America per procacciarsi da vivere col lavoro. Anche il Calogero
Termini viveva allora in grandi ristrettezze facendo un po' il
copista presso i notai, un po' l'usciere e lucrando qualche soldo da chi si
rivolgeva a lui per sbrigare qualche faccenda. In pochi anni il Santo e il Calogero
Termini, riusciti a mettersi a capo dei delinquenti di questi due comuni, divennero
milionari facendo rubare animali, estorcendo denaro, costringendo con le
prepotenze i cittadini a subire le loro sopraffazioni. Dopo che io subii la
rapina della quale ho parlato nella mia dichiarazione alla polizia, poiché io
mi ero più volte pubblicamente scagliato contro la maffia e la delinquenza, circa
3 anni addietro, in occasione delle elezioni amministrative in seguito alle
quali fu eletto Sindaco egli ebbe a dirmi: Io non ti ho fatto né ti facevo
ammazzare, non ostante che tu parli assai, perché mi ricordo dei tempi della
nostra giovinezza, e ti stimo ancora. Tu non solo sei rimasto a piedi (alludeva
alla rapina da me subita) ma vuoi rimanere sempre a piedi; finiscila di
parlare, perché puoi rimetterci anche la pelle."
(Cannella Salvatore di anni 63 da San Giuseppe Jato. 12.10.1926 f.
415)
"Sino a pochi anni addietro il Termini Calogero faceva lo scribacchino presso i notai guadagnando qualche
lira mentre il Termini Santo lavorava materialmente in campagna e viveva in assoluta povertà."
(Dichiarazioni
varie)
Ogni settimana veniva sparsa in paese la falsa notizia che
Santo Termini e compagni stavano per essere scarcerati e si sarebbero vendicati
nei confronti dei dichiaranti.
(Baccarella
Emanuele fu Girolamo. 9.8.1926. f. 337)
Ritratta tutto quanto in precedenza dichiarato e ammette
solo "di aver saputo che Santo Termini si era arricchito" poi continua "sono un galantuomo e non
voglio impicci. Però se coloro che sono stati arrestati sono dei colpevoli mi
piacerebbe che andassero alla forca!"
(dalla
dichiarazione di Pullarà Gaspare di Giovan Battista di anni 22 da San Giuseppe Jato. 14.10.1926. f. 482)
All'età di 15 anni aveva subito il furto di un mulo. - Lo
aveva recuperato attraverso la mediazione con riscatto di Lo Cicero Pietro (poi assassinato). Nell'aprile del 1926 aveva accusato
Balistreri Domenico, i fratelli D'Anna, Pulejo Antonino e Santo Termini quali organizzatori di omicidi. Interrogato il 14 ottobre 1926 dichiara:
"E' vero che la dichiarazione venne dettata dal maresciallo Trombino ad un carabiniere in mia presenza, ed è vero che io la
sottoscrissi; ma poiché io ero distratto non capii quello che dettava il
maresciallo Trombino e firmai in buona fede."
Quannu si futtìanu puru i chiova ri mura!
(Ordinanza
di rinvio. f. 105)
"Peculato. Sorge da una denunzia del Commissario
Prefettizio di San Giuseppe Jato che Termini Santo, Presidente del Circolo Unione, vi trasportò divani, mobili, quadri,
sedie appartenenti al Comune; inoltre quattro brande, dieci leggii, una
poltrona, una scrivania, un quadro, pure del Comune, trasportò a casa sua, dove
si rinvennero in una perquisizione e si trovarono pure delle munizioni non denunziate."
(Ordinanza
di rinvio. f. 110)
"Il Commissario Prefettizio di San Giuseppe Jato trovò
che mancavano dall'archivio comunale una serie di atti, pratiche e mandati che
il segretario Manno Gaspare dichiarò trovarsi presso il Sindaco e il Tesoriere Termini Santo e Calogero. Ordinata la perquisizione tutte le pratiche e tutti gli
atti di cui si faceva ricerca, tra cui progetti tecnici in lavori pubblici e
mandati, vennero rinvenuti non in unica perquisizione ma in successive nel
domicilio di Termini Calogero."
Puru pi i ligna si mittìanu!!
(Dichiarazioni
varie)
Santo Termini era anche socio di Baio Francesco, pecoraio, "nell'industria della pastorizia".
Contemporaneamente il Baio si dedicava al furto di legna che depositava nel suo
magazzino. Nel momento in cui i derubati scoprivano la refurtiva interveniva il
sindaco Santo Termini che si preoccupava di minacciarli.
(Bonura
Domenico fu Lorenzo di anni 60. 14.10.1926. f. 479)
"Il sindaco Termini Santo avvalendosi della qualità di mio superiore ebbe financo ad impormi di
non denunziare Baio Francesco pecoraio, suo socio, in possesso del quale io e altre
guardie campestri avevamo rinvenuto legna di provenienza furtiva."
Truffe
(Informativa
dei reali carabinieri. Truffe per esoneri militari e per emigrazione clandestina.
30.05.1926. f. 192)
"Abbiamo già dimostrato come le dette truffe abbiano
costituito una delle più sicure fonti di arricchimento nonché la facilità con
la quale furono perpetrate essendo perfetta e disciplinata l’associazione che
in tale ramo maggiormente espletava la sua deleteria influenza. Facevano parte
di questa combriccola: Termini Santo, Traina Vincenzo, La Puma Salvatore, Napoli Enrico, Ferruggia Giuseppe, Bondì Bartolo, Passannanti Antonino." Ciascuno degli elementi aveva un preciso compito:
La Puma Salvatore e Ferruggia Giuseppe erano procacciatori di clienti. Termini Santo e Napoli Enrico, l’uno sindaco l’altro impiegato comunale, si occupavano
della falsa documentazione al Comune. Bondì Bartolo, residente a Palermo (già per tre volte perseguito per truffa), si
occupava della falsa documentazione a Palermo. Passannanti Antonino risultava pressoché sconosciuto ai Reali Carabinieri ma,
dopo approfondite indagini, gli stessi Carabinieri scoprivano che faceva la
spola tra San Giuseppe Jato e l'America dove era pronto ad accogliere coloro
che riuscivano ad arrivare per assisterli nei loro nuovi bisogni.
(Napoli
Carmelo fu Calogero)
Nel 1924 si rivolge a Santo Termini e Passannanti Antonino che dietro pagamento di Lire 8000 gli procurano l’imbarco
per Tunisi e Marsiglia. Quivi giunto, evidentemente per irregolarità nei
documenti, viene rimpatriato. Tornato a Palermo pretende la restituzione del
denaro. Lo recupera in parte. Il solo Passannanti trattiene Lire 500 per spese.
(Marchione Giuseppe fu Salvatore)
Il
figlio Antonino per emigrare si rivolge a Ferruggia Giuseppe. Paga Lire 6500. Parte. Viene rimpatriato. Ma non vedrà
neppure una lira.
(Elenco
parziale di truffati per tentata emigrazione clandestina. f. 286)
La Milia Francesco, Di Miceli Rosalia, Micciché Gerlando, Di Lorenzo Pietro, Barbaccia Vincenzo, Scalici Lorenzo, Viviani Giuseppe, Ruffino Francesco, Alfano Antonino, Pillitteri Francesco e Antonino.
(Dichiarazioni
di Liuzza Antonino e Panepinto Francesco)
Altro elemento di introito: i disertori. Attraverso Santo
Termini e compagni pagando 1000 lire si riusciva a sfuggire ai
rigori della legge. Non sempre però. Ne sapeva qualcosa Panepinto Francesco che aveva perso sì le 1000 lire ma in compenso aveva
recuperato il carcere.
Non riusciva a distrarsi un attimo.
(Dichiarazioni
varie)
Una volta arrestato il Santo Termini anche all'interno del carcere si dava da fare per arrotondare gli
introiti. Ai detenuti che venivano scarcerati per mancanza di indizi faceva
sapere che, grazie all'interessamento dell'avv. Arturo Siracusa di Palermo, era riuscito a fargli ottenere la libertà. Era quindi
necessario sdebitarsi. Svolgeva le mansioni di esattore, all'esterno del
carcere, un certo Scimone. L'avv. Arturo Siracusa, venutone a conoscenza, denunziava
il Termini e lo Scimone.
Le donne: solo loro hanno la sensibilità di capire le cose a cui
più tengono gli uomini. La Lo Cicero, sorella di un assassinato, non augura al
Termini una morte violenta ma…
(Lo
Cicero Antonina fu Salvatore di anni 44. 29.10.1926. f. 593)
Interrogata a proposito dell'assassinio del fratello Pietro, dopo avere accusato Termini Santo, chiude la deposizione: "Spera Diu (speriamo in Dio) che
egli debba ritornare povero qual era fino a pochi anni addietro".
c.11 - Miscellanea
(informativa
dei Reali Carabinieri. Ottobre 1926)
"Ganci Giovanni: ex consigliere comunale noto in San Giuseppe Jato come
una delle persone più influenti nel campo della maffia e come tale sfacciato
favoreggiatore della delinquenza"
(Ferruggia
Salvatore, ex guardia municipale, contro Pulejo Antonino Ninu 'u latru ex assessore e Sindaco di San
Giuseppe Jato prima del Termini)
Il Ferruggia circa sei anni prima era stato licenziato per
non essersi piegato ai voleri del Pulejo, "noto maffioso ed allora sindaco
di San Giuseppe Jato". Costui avrebbe preteso che il Ferruggia
frequentasse gli uffici di Pubblica Sicurezza e dei Carabinieri, allora
esistenti in paese, al solo scopo di riferire al Sindaco o chi per esso quanto
in detti uffici avveniva. Il Ferruggia rifiutatosi veniva licenziato dal Comune.
(Dalla
dichiarazione di Sudano Giuseppe di Filippo. f. 759)
Il Prefetto aveva stabilito che l’esercizio di guardiania
doveva essere esercitato solo da guardie giurate e non da campieri. Il Sudano,
diventato guardia giurata, esercitava la guardiania nei feudi Arcivocale e
Arcivocalotto. Veniva minacciato da Cavallaro Giovanni e Candela Antonino di abbandonare il posto. Il motivo era logico: essendo
guardia giurata e non campiere, era automaticamente diventato un “infame” e
avrebbe potuto conferire con i Reali Carabinieri. Il Sudano abbandonava il
posto.
(Informativa
dei Reali Carabinieri)
Battaglia Leonardo fu Francesco di anni 34. Accusato di violenza privata in
danno di Crociata Calogero, Lazzo Salvatore, Galati Salvatore e Valido Rodolfo. Accusato inoltre di aver preteso lo scioglimento della sezione
fascista di San Cipirello.
(Attraverso
una serie di metodi alla Mori si consegnano spontaneamente alle autorità: 22.10.1927. f. 31)
"Candela Antonino di Giuseppe; Rampudda Sebastiano; Todaro Giuseppe; Bommarito Salvatore fu Bernardo; Garrisi Francesco di Angelo; Zito Filippo fu Giuseppe; Randazzo Giuseppe di Pasquale; Di Maggio Giuseppe fu Salvatore; Zito Nicolò fu Giuseppe; Celeste Salvatore fu Pietro; Battaglia Leonardo fu Francesco."
c.12 - Storie d'appalti
(Processo
verbale dei carabinieri del 5.11.1926)
Gravi vessazioni consumate a danno del Comune di San
Giuseppe Jato tra il 1920 e 1925. Arresto dell’ing. Francesco Savagnone e compagni, in numero di 15, con l'accusa di aver
defraudato il Comune nell'appalto dei lavori per la costruzione dell'Acquedotto
della Chiusa. La sezione dei tubi della condotta risultava metà di quella in
progetto.
(Lettera
al Prefetto Mori di Maria Sunseri - Archivio storico diocesano di Monreale - Fondo Governo Ordinario Sez.
9 Serie 56-1)
Carmelo Sunseri è assessore nella Giunta Termini e in stato di arresto con l'accusa di associazione a delinquere. Scrive
la Sunseri che la sua famiglia è incensurata. Che i Sunseri sono sempre stati
dei bravi appaltatori. Poi continua: "Per ragione di mestiere, avendo alle
dipendenze una certa massa di operai, rappresentando perciò una forza
elettorale, il figlio Sunseri Carmelo di Salvatore fu invitato e pressato ad entrare disgraziatamente
nell'Amministrazione Comunale di San Giuseppe Jato. L'Amministrazione Comunale
era comandata dai Termini, però aveva i pieni poteri il Tesoriere Cav. Calogero
Termini, il quale essendo più intelligente ed istruito degli
altri, si occupava lui delle pratiche amministrative; e poiché disponeva di
forti amicizie in tutti gli uffici statali, era lui che dirigeva la macchina
amministrativa. Il Sunseri Carmelo non essendo proprietario e vivendo di lavoro, non era nella possibilità
di svolgere alcuna attività amministrativa; tutta la sua attività si riduceva
al fatto che qualche domenica, quando aveva un momento libero delle sue
occupazioni si recava al Municipio dove, in assenza di qualche altro assessore,
veniva invitato dal tesoriere Termini, a firmare le pratiche e qualche mandato di pagamento, che
egli vedendolo già firmato dal Sindaco e dal Segretario, firmava per
"routine" d'Ufficio; d'altra parte anche se avesse voluto chiedere
spiegazione di qualche cosa, o di qualche spesa, era sicuro che avrebbe urtato
la suscettibilità del Termini, il quale avrebbe considerato il fatto quale
offesa, e dato l'ambiente che imperava, non rimaneva altro al Sunseri che
tacere e ubbidire. Egli in tale situazione, più volte espresse al detto cav.
Termini Calogero che era l'esponente dell'Amministrazione il desiderio di
dimettersi, ma anche questo atto veniva considerato come un'offesa, e quindi il
Sunseri era costretto a restare al suo posto…" Nel 1923-24 l'impresa
Castagnaro Matteo si aggiudica dei lavori all'interno del centro abitato. Il
Sunseri Salvatore (padre), trovandosi quasi senza lavoro, sollecitò il
Castagnaro a dargli parte di tali lavori; il Castagnaro addivenne a
cointeressarlo nel lavoro…
«Che circonlocuzione!» - pensò il Principe - «bastava scrivere
sub-appalto!»
…dicendogli che per impegni da lui assunti doveva
rilasciare (agli amministratori) il 22,50% sull'importo dei lavori; tale
percentuale doveva essere rilasciata sui prezzi di Capitolato d'appalto, già approvato
dalle autorità competenti"…"Durante l'esecuzione dei lavori, si
dovette rilevare che il Calogero Termini, faceva intestare i mandati di pagamento al Comune anziché
all'Impresa, dimodoché lui in qualità di tesoriere riscuoteva i mandati di
nascosto dall'appaltatore, li negoziava per conto suo e poi, a piccole rate e a
distanza di tempo, somministrava l'importo all'appaltatore. Essendosi questo
fatto ripetuto varie volte, l'appaltatore Castagnaro si decise a fare ricorso
al sig. Prefetto, chiedendo che i mandati fossero intestati all'Impresa e non
al Comune. Il ricorso non ebbe alcun esito; risulta però che detto ricorso
inviato regolarmente alla Prefettura, fu sequestrato in casa dello stesso
Calogero Termini."
c.13 - Attrezzature per lo svago: il primo cinematografo di San
Giuseppe Jato
(dalla
lettera al Prefetto Mori del Consiglio della Cooperativa Pio X)
"Nel 1924 il sac. Giulio Virga apriva un cinematografo nella Villa del Sacro Cuore a scopo educativo e
ricreativo per i ragazzi dell'oratorio festivo e a beneficio della Chiesa
Parrocchiale, su cui gravava un forte debito per i restauri in essa eseguiti.
L'iniziativa incominciò ad essere ostacolata dai noti fratelli Troia Vincenzo e Giuseppe, che essendo proprietari dell'impresa elettrica,
pretendevano che fossero ammessi come soci nella distribuzione degli introiti.
Per non chiudere il cinematografo con la perdita delle spese d'impianto, il
sac. Virga, suo malgrado, dovette cedere alle imposizioni dei
maffiosi. Dopo due mesi, la prepotenza di quei signori giunse a tal punto che
egli fu costretto a rinunziare definitivamente alla benefica iniziativa con gravi
perdite per la Parrocchia."
(lettera
dell'Arciprete Caronia all'Arcivescovo di Monreale. 23.5.1924. ASDM Fondo governo
ordinario Sezione 9 Serie 56-1 Busta 11)
"Si è aperto un cinematografo morale-religioso nella
villa del S. Cuore a sconto del debito delle lire 58000 gravanti sulla Madrice,
resistendo alla pretesa del presidente del Comitato maffioso della Chiesa di S.
Francesco, sig. Troia Giuseppe, che voleva entrare in parte negli utili delle
rappresentazioni cinematografiche."
Elementi utili per una analisi economica
del territorio
(San
Giuseppe Jato - Delibera di Giunta del 11.10.1925 - Mete)
Pasta 2.75 lire/kg - Pane 2.15 lire/kg - Caciocavallo 15
lire/kg Vitella 16 lire/kg - Maiale 10 lire/kg - castrato 7 lire/kg. Costo
medio di una giornata lavorativa nel 1908: lire 2. Costo medio di una giornata
lavorativa nel 1925: lire 12. Costo medio di un mulo giovane nel 1925: lire
3000
(1° Memoriale dei Sindacati
Agricoli Fascisti di San Giuseppe Jato e San Cipirello presentato a Sua
Eccellenza il Prefetto Mori. 15 giugno 1926)
"Incoraggiati dalla legge testé approvata sui
contratti e sulla protezione del lavoro, ci rivolgiamo all’Eccellenza Vostra
sicuri del suo intervento energico per segnare un basta ai sorprusi che
i contadini di San Giuseppe Jato e Sancipirrello hanno dovuto subire da parte
di quasi tutti i gabelloti dei feudi. Da molto tempo si praticano i seguenti
patti: i gabelloti concedono i terreni e le sementi, i contadini sono obbligati
a prestare tutti i lunghi e faticosi lavori occorrenti durante l’anno e la
produzione in grano viene divisa finalmente nel seguente modo: Dall’intiera
massa del grano, il gabelloto prende prima 3 salme di frumento, cioè Kg. 666 e
il rimanente viene diviso metà il gabelloto e metà il contadino per una salma
di terreno. In tal modo, se il terreno dà l’uno per otto, il gabelloto prende
Kg. 1221 e il contadino prende Kg. 333. Il gabelloto impiega i seguenti
capitali per ogni salma di terreno:
Estaglio
annuo medio |
Lire |
500 |
Ricchezza
mobile |
Lire |
50 |
Interessi |
Lire |
55 |
Custodia
e luce |
Lire |
15 |
Assicurazione |
Lire |
3 |
Calcolando kg 1221 di grano con un prezzo medio di lire
180, il gabelloto introiterebbe lire 2200 con un utile di lire 1577 a salma di
terreno. Il contadino impiega il seguente lavoro che calcoliamo in denaro:
Stroffatura |
8 operai a lire 12 |
Lire |
96 |
Aratura |
12 aratri a lire 50 |
Lire |
600 |
Zappatura
|
8 operai a lire 12 |
Lire |
96 |
Scurritura |
8 operai a lire 12 |
Lire |
96 |
Mietitura |
12 operai a lire 12 |
Lire |
144 |
Trebbiatura |
8 animali a lire 50 |
Lire |
400 |
Pulitura |
6 operai a lire 12 |
Lire |
72 |
Legami |
|
Lire |
50 |
Totale |
|
Lire |
1544 |
Introito
|
|
Lire |
1000 |
Perdita |
|
Lire |
544 |
Alcuni gabelloti non hanno ancora smesso il metodo delle
intimidazioni contro i contadini che chiedono patti agrari equi in conformità
della legge sui diritti del lavoro. I gabelloti hanno esposto al Segretario dei
datori di lavoro che essi in quegli anni in cui sono costretti a coltivare i
terreni a favate e a sullate, subiscono una perdita in denaro, perché per un
anno non producono grano. Noi invece proviamo con i dati di fatto che ciò è
falso. Il terreno seminato a sulla viene venduto per pascolo da lire 1500 a
lire 2000. Venduto per fieno s'introitano da lire 1800 a lire 2400. Venduto a
granello di sulla, siccome una salma di terreno produce circa salme 50 di
granello, il gabelloto, vendendo il granello a lire 60, ha un introito di lire
3000; togliendo lire 300 per sementi e lire 400 per mano d'opera, resta un
utile di lire 2300."
(Lettera
inviata al Prefetto Mori dalle Cooperative Pio X e Giosuè Borsi - ASDM - Fondo
governo ordinario - sez. 9 - serie 56-1)
"Si accusa il sac. Giulio Virga di avere promosso un'agitazione agraria contro alcuni proprietari di
San Giuseppe Jato e di Sancipirrello allo scopo di far cedere le terre ai
Sindacati agricoli. Ma su ciò potrebbero rispondere le autorità competenti che
in data 12 settembre 1927 dichiaravano "centri infetti" le terre dei
mafiosi; potrebbe rispondere la commissione paritetica che in data 8 novembre
1927 deliberava che le terre appartenenti ai mafiosi detenuti, fossero cedute
in gabella alla Cooperativa Pio X in conformità al contratto sulle affittanze
collettive del 16 luglio 1927; potrebbe rispondere la Federazione dei Datori di
Lavoro di Palermo che con lettera n. 1794 di prot. in data 17 novembre 1927
ordinava ai proprietari mafiosi di ottemperare alla deliberazione della
Commissione Paritetica; potrebbero rispondere i Comandanti delle Stazioni dei
Reali Carabinieri di San Giuseppe Jato, Sancipirrello e Piana dei Greci, che
per ordine della R. Questura di Palermo in data 19 novembre 1927 diffidavano i
proprietari mafiosi di cedere in gabella le terre senza ulteriore remora alla
Cooperativa Pio X."
La Cooperativa inviava al Prefetto Mori un elenco delle terre dei mafiosi detenuti.
"Feudi vicini a S. Giuseppe Jato e Sancipirrello
appartenenti a gabelloti e ricchi proprietari che trenta anni addietro erano
quasi nullatenenti.
Feudo |
Contrada |
Ett. |
Proprietario |
Pietralunga |
Giangrosso |
145 |
Novara
Giuseppe, zio di Micciché Nicolò detenuto per associazione a delinquere. |
Pietralunga |
Galera |
125 |
Termini
Santo ex Sindaco, capo maffia e detenuto, possiede tre milioni
di proprietà. |
Pietralunga |
Pietre cadute |
65 |
Novara
Ignazio, suocero di Micciché Nicolò, detenuto per associazione. Gabelloti:
Fratelli Calò Gaspare e Onofrio, accusati per associazione a delinquere e Zito Filippo, capo esecutore della maffia. Posseggono quasi un
milione. |
Pietralunga |
Pietre cadute |
85 |
Gabelloti:
Fratelli Ruffino Francesco e Salvatore, cognati di Troia Vincenzo, capo maffia latitante e cugini di Traina Vincenzo, latitante accusato per associazione a delinquere. |
Pietralunga |
Pennatelle |
175 |
Proprietari:
Lupo Leonardo e Antonino, affiliati alla maffia e parenti di latitanti e
detenuti. Posseggono circa due milioni. |
Pietralunga |
Finocchiaro |
85 |
Proprietario:
Fiore Antonino cognato di Troia Giuseppe, detenuto per associazione. Possiede circa due milioni
usuraio. E’ anche nipote di Pulejo Antonino, capo maffia latitante. |
Pietralunga |
Finocchiaro |
125 |
Proprietario:
Pulejo Antonino ex Sindaco, capo maffia latitante. Possiede circa tre
milioni. |
Lo
stesso fondo |
|
|
Gabelloto:
Salamone Antonino affiliato alla maffia, zio materno di Zito Filippo, latitante e cognato di Pardo Domenico, capo maffia di Sancipirello, detenuto. |
Pietralunga |
Giangrosso |
85 |
Gabelloti:
Fratelli Riccobono Erasmo e Pasquale, cognati di Pardo Domenico, detenuto, e cugini di Ferrugia Giuseppe, detenuto per associazione a delinquere. |
Pietralunga |
Tamburinajo |
85 |
Simonetti
Domenico fu Giuseppe, detenuto per associazione e cognato di
Todaro Vito, capo maffia di Sancipirrello, latitante. Possiede un
milione. |
Zabbìa |
|
62 |
Fiore
Antonino. Vedi n.6 |
Zabbìa |
|
130 |
Proprietario:
D'Agostino Sebastiano, zio di Ferrugia Giuseppe, detenuto per associazione e suocero della sorella di
Micciché Nicolò, detenuto per associazione. Possiede due milioni. |
Zabbìa |
|
70 |
Gabelloto:
Troia Vincenzo, capo maffia latitante. Possiede tre milioni. |
Zabbìa |
|
85 |
Pulejo
Emanuele fu Giuseppe, fratello di Pulejo Antonino latitante, suocero di Fiore Antonino. Possiede circa tre milioni. Usuraio. |
Argivocale |
|
85 |
Proprietario:
Pulejo Emanuele fu Giuseppe. Vedi n.14. |
Argivocale |
|
85 |
Vaccaro
Carlo, suocero di Pardo Vincenzo, detenuto per associazione. Possiede due milioni. |
Argivocale |
|
85 |
Proprietaria:
Mannino Rosa, vedova Mineo, cognata di Troia Gaetano, fratello di Troia Vincenzo e Giuseppe, capi maffia. Possiede due milioni. Usuraio. |
Argivocale |
|
42 |
Proprietario:
Leone Francesco, capo maffia di San Cipirello, latitante. Possiede due
milioni. |
Argivocale |
|
42 |
Proprietario:
Leone Salvatore, fratello di Leone Francesco, latitante. |
Argivocale |
|
42 |
Proprietario:
Prasca Vincenzo, cognato di Termini Santo, capo maffia detenuto. Possiede due milioni. |
Argivocale |
|
42 |
Gabelloti:
fratelli Riccobono Erasmo e Pasquale, vedi n. 9, e Terrana Ignazio, capo esecutore materiale della maffia, latitante. |
Argivocale |
|
54 |
Proprietari:
fratelli Randazzo Calogero e Santo, nipoti di Leone Francesco. Vedi n.18. |
Torre
dei Fiori |
|
22 |
Gabelloto:
Candela Antonino di Giuseppe, latitante perché accusato per associazione
a delinquere. |
Torre
dei fiori |
|
22 |
Gabelloto:
Di Giovanni Gaetano fu Domenico, affiliato alla maffia. |
Torre
dei Fiori |
|
45 |
Di
Maggio Giuseppe fu Salvatore, capo maffia in contrapposto a quella di
Troia e Termini. |
Montaperto |
|
67 |
Gabelloti:
fratelli Randazzo Calogero e Santo. Vedi n.22 |
Jannuzzo |
|
195 |
Gabelloto:
Bilello Ignazio, capo maffia di Sancipirrello, latitante. Possiede due
milioni. |
Balletto |
|
190 |
Gabelloti:
Badolato Giuseppe ex Sindaco di Sancipirrello, detenuto per associazione e
i di lui fratelli: Filippo, Domenico e Vincenzo. |
Balletto |
|
85 |
Gabelloto:
Ganci Giovanni, detenuto per associazione. Possiede un milione. |
Bommarito |
|
325 |
Gabelloti:
fratelli Troia Vincenzo e Giuseppe. Vedi n.13 |
Signora |
|
52 |
Proprietario:
Cangelosi Francesco affiliato alla maffia. Possiede due milioni. |
Fiotto |
|
63 |
Gabelloto:
Rampudda Sebastiano, capo esecutore della maffia, latitante. |
Pedistanga |
|
130 |
Gabelloti:
Leone Francesco e Salvatore, capi maffia; il primo è latitante; e il di loro cognato
Calabrese Pietro. |
Dammusi |
|
100 |
Proprietari:
fratelli Traina Vincenzo, latitante per associazione e Antonino e Giuseppe e il di loro cognato Motisi Francesco, latitante. |
Pioppo-Tagliavia |
|
65 |
Proprietari:
fratelli Termini Giuseppe e Emanuele fu Salvatore: cugini di Traina Vincenzo, latitante. |
Pioppo-Tagliavia |
|
20 |
Proprietario:
Grigoli Salvatore d’ignoti, fratello adottivo di Troia Giuseppe e Vincenzo, capi maffia. |
(Molini e pastifici Virga di San
Cipirello f. 599)
Al 7.11.1926 Troia Giuseppe, Micciché Nicolò fu Vincenzo, Calò Gaspare - arrestati per maffia - risultano soci dello stabilimento Virga rispettivamente
con i seguenti capitali: lire 98913 - 55556 - 42725. Al 18.11.1929 la
situazione generale risulta la seguente: On. Giovanni Lo Monte (lire 31250) - Benigno Francesco (31250) - Virga dott. G. Battista (31250) - Virga ing. Francesco (31250) - Virga G. Battista (31250) - Virga Salvatore (25000) - Virga Giuseppe (25000) - Lombardo Anna (25000) - Leone avv. Calogero (25000) - Micciché Nicolò e compagni (125000) - (Troia Giuseppe e compagni (125000). Troia Giuseppe risulta anche amministratore della Banca del Sud.
San Giuseppe Jato nel memoriale di una
cooperativa
(Inchiesta
parlamentare sulle condizioni dei contadini pubblicata da Bertero nel 1910
riportata nel memoriale della cooperativa Pio X indirizzato al Prefetto Mori.)
"Volendo abbreviare il nostro compito in proposito ci
piace riportare il giudizio steso dall’On. Commissione parlamentare d’inchiesta
sulle condizioni dei contadini in Sicilia, nella sua visita fatta in questo
Comune di San Giuseppe Jato or sono più di 15 anni. "San Giuseppe Jato:
comune di 7200 abitanti a pochi chilometri a occidente di Piana dei Greci, ha
territorio ristretto e ne chiederebbe l’allargamento. E’ paese vinicolo e
produce ottime qualità di vini fra cui famoso quello di Signora. Buona parte di
vigneti sono di proprietà del Principe di Camporeale, il rimanente si trova
frazionato fra tutti i ceti del paese, che lo posseggono per la più parte in
enfiteusi a piccolissimi lotti. La fillossera li aveva distrutti per intero,
ora sono ricostituiti per quasi due terzi. La ricostituzione avvenne o per
economia diretta del proprietario, o per mezzo di due tipi di contratto a miglioria,
uno a base di mezzadria, l’altro a gabella. Nel 1° il proprietario dà la terra,
le barbatelle e gl’innesti, tutto il rimanente è a carico del mezzadro che deve
coltivare a proprie spese. La durata del contratto è per solito di 18 anni,
spirati i quali il fondo ritorna al proprietario che non dà alcun indennizzo.
Nei primi cinque anni il prodotto va per intero al mezzadro, dopo si divide a
metà; ma come è noto la vite americana è in pieno sviluppo solo al quarto anno,
e perciò alcuni contadini ritengono poco conveniente questo contratto, e non
furono rari quelli che abbandonarono il fondo ed emigrarono. Nei primi cinque
anni il proprietario dà soccorsi in misura di 25 o 50 lire per ogni mille viti,
e s’occupano oltre a ciò a giornata. Nel contratto di miglioria a base di
gabella il contadino paga un tanto fisso per ogni mille viti, s’obbliga di
piantare il vigneto e di restituirli in buono stato allo spirar del contratto
che dura solitamente 18 anni. Non ha diritto né a compensi né a soccorsi.
Questo contratto è preferito al primo perché concede maggior libertà, e lo
fanno specialmente i piccoli proprietari che non hanno bisogno di sovvenzioni,
o che se li possono facilmente procurare. L’estaglio è di circa 150 lire per
ogni 10.000 viti. In tutte e due queste forme accade che il colono o il piccolo
gabelloto debbono per mancanza di locali adatti vendere il loro prodotto al
proprietario al prezzo che correrà sul mercato, il che talvolta dà luogo a
contestazioni. Una parte del vigneto di San Giuseppe Jato è posseduto in enfiteusi
originata da concessioni risalenti al 1755 e per la quale si paga un canone medio
di Lire 38 a salma. Domino diretto è il Principe di Camporeale che è il più
grosso proprietario di San Giuseppe e Camporeale, è molto benemerito e attivo
agricoltore. I canoni per successive divisioni si sono spezzati talmente che
una gran parte di essi è inferiore alla lira. Questo fatto della divisibilità
del canone rende ormai restii ad altre concessioni enfiteutiche e il detto censisti
pirdisti (hai dato in enfiteusi ed hai subito una perdita), è divenuto
proverbiale. Il latifondo è dato annualmente in affitto a grossi gabelloti che
alla loro volta lo cedono a mezzadria o in affitto ai contadini, a condizioni
simili a quelle già menzionate di Piana dei Greci. V’ha però più: a Piana
diffondendosi la sulla, sia in sostituzione della fava, che come cultura di
rotazione, in luogo del maggese usato. I salari dei contadini per i lavori
ordinari oscillano (1907-1908) sulle lire 2,50, a volte sopra a volte sotto di
questa media, secondo l’urgenza dei lavori. Nella mietitura si giunge anche
alle 4 lire. Nel passato era più basso, e dell’aumento oltre che
all’emigrazione va dato merito ad una Lega di miglioramento. I contadini
abitano tutti in paese nelle solite casette a un vano “che somigliano all’arco (sic!)
di Noè”. Non dormono quasi mai in campagna anche se questa è distante, e il
cattivo stato della viabilità rurale si ripercuote anche su di loro. Il
territorio è malarico lungo il fiume Jato. Il paese stesso però è in luogo
molto salutare. Esiste il tracoma “importato specialmente all’epoca dell’emigrazione
in Tunisia”. La sifilide è rara; qualche giovane ne risulta affetto in seguito
al servizio militare o “a qualche escursione nel capoluogo della Provincia”. Le
scuole si trovano in locali non igienici e non adatti. La loro frequenza si è
di molto accresciuta negli ultimi tempi; e “mentre prima la maggioranza degli
allievi era composta di persone civili, ora la maggioranza è di popolani”.
L’usura, malgrado il denaro degli emigranti e la recente istituzione di una
Cassa Rurale, è ancora una piaga del Comune, e si narrano dei casi veramente
impressionanti, che non sarebbero neppure rari. Pei crediti superiori alle lire
500 garentiti da ipoteca, gli interessi variano dal 12 al 15%: i cambiari
portano un interesse dal 50 al 120%. Casi tipici di strozzinaggio sanno misure
che sembrerebbero fantastiche se non fossero una delle più tristi realtà. Un
contadino sul punto di emigrare richiede 100 lire in prestito; gli si danno con
un interesse, e non sarebbe questo il nome, di 100 lire per un mese, cioè al 1200%.
Non è affatto raro il caso di 200 lire restituite dopo tre mesi per un prestito
di lire 100, al 400%. Vi è un’altra piaga ancora che non dà un’ora di pace alla
vittima. La usura a giornata. Si prestano 10,15 lire con l’interesse di un
soldo a lira per ogni 24 ore. Si faccia un po’ il conto. Un disgraziato che
avrà ricevuto 10 lire, se non si libera d’una maniera qualunque, avrà pagato
180 lire alla fine dell’anno, il che significa il 1800%. A questo vergognoso
stato di cose ha in parte rimediato la Cassa Rurale, che essendo di carattere
confessionale non è però aperta a tutti. Essa prende depositi al 4% e fa
prestiti al 6%. Quando essa si trasformi sì da essere accessibile a tutti, od
un altro istituto sorga come ente intermediario del Banco di Sicilia, giova
sperare che l’usura riceverà il colpo di grazia. L’emigrazione fu ed è
fortissima. Determinata dapprima dalla distruzione dei vigneti operata dalla
fillossera che gettò sul lastrico molte famiglie, divenne poi un’abitudine.
Nella media del triennio 1905-07 fu del 64 per mille abitanti. Essa fece
elevare notevolmente il prezzo delle case e delle terre attigue al paese e
bonificabili. Di recente sono stati venduti a piccoli lotti quattro feudi al
prezzo variabile dalle 3000 alle 4000 lire a salma. A volte si pagano prezzi
talmente esagerati che i contadini si vedono costretti a lasciare la terra di
troppo gravata e a coltivare la quale mancano del necessario capitale e tornano
così ad emigrare. Un altro effetto dell’emigrazione è stato di far estendere la
pastorizia non convenendo dopo il rincaro della mano d’opera la cultura
granaria nei terreni lontani e poco fertili. E siccome la pastorizia
attualmente è abbastanza proficua, le gabelle dei feudi non sono diminuite come
lo sarebbero state senza questo contrappeso. L’emigrazione ha migliorato le
condizioni della pubblica sicurezza; la delinquenza è tuttavia sempre forte,
con prevalenza di reati di omicidi per vendetta. Alla vendetta nessuno vuole
rinunziare e si attende per lunghi anni l’occasione propizia. Correlativo a
questo principio è l’omertà, ossia il silenzio assoluto agli offesi dinanzi
alla giustizia. Gioverebbe al miglioramento della pubblica sicurezza una più
ricca rete stradale e mezzi rapidi di comunicazione”.
1922-1923. Quando per eleggere l'Arciprete di San Giuseppe Jato si
mobilitava mezza Italia.
(Principali
enti e personaggi: Vaticano - Arcivescovado di Monreale - Procuratore del Re -
don Luigi Sturzo - on. Francesco Termini - on. Giovanni Lo Monte - on. Giuseppe Caronia - Casa Camporeale - Popolo e amministratori comunali -
Giornali a tiratura nazionale - Cooperative - Mafia di Casteltermini, di
Cinisi, Terrasini, San Giuseppe Jato, San Cipirello - Altri)
Il 2 novembre del 1922 don Natale Migliore, Arciprete di San Giuseppe Jato, passava
a miglior vita. A lui, come ad un intermediario, i soci delle cooperative
agricole locali avevano sempre affidato i messaggi di risposta alle
intimidazioni mafiose. Di lui, ventunenne suddiacono nel 1863, il precedente
arciprete don Francesco Ferruggia aveva scritto:
Il suddiacono Natale Migliore promette molto. Si avviò sin dall’età della sua giovinezza nella
carriera ecclesiastica: intanto è stato vario. Fu sotto Garibaldi nell’ultima spedizione sino a Catania; ma rimessosi nello
stato ha dato prova di fermezza e di una condotta irreprensibile.
Il profilo del Ferruggia, a sua volta, era stato tracciato il 16
maggio 1862 in una lettera, purtroppo anonima anche se non unica, indirizzata
all'Arcivescovo di Monreale:
Ed è pur vero, Eccellenza Rev. ma, che una grave sciagura
sia per piombare addosso la popolazione di San Giuseppe? Che si è appunto, la
nomina d’Arciprete della Comune in persona del sac. don Francesco Ferruggia? L’E.V. Rev.ma ignora forse che questi non si ha alcun
merito per l’importantissima carica? Ignora forse i demeriti, l’ignoranza e i
vizi di cui è adorno? Ignora che non ha guari ingravidava una certa Vita
Sciarabba che stava ai di lui servigi, e poscia ne procurava
l’aborto? Che in atto è voce da per tutto, che ha illecita tresca con una giovane
naturale di Piana dei Greci, che la fa d’ancella nella di lui casa? Chi giammai
ha fatigato nella Chiesa, passando la sua vita in campagna ed alla caccia, e
che solamente di prete ne ha il semplice collare? Ignora pure l’E.V.Rev.ma che
il Ferruggia è un avaraccio a segno che non si è veduto giammai stendere la
mano in soccorso degli indigenti? Ignora finalmente che suddetto Ferruggia è la
man destra del notissimo per usura di lui zio P. Francesco Riccobono?
Mai previsione si era rivelata più azzeccata. Il promette molto
riferito al Migliore trovava puntuale conferma sin dal 1912, anno
dell'allargamento del suffragio elettorale. Tutti a San Giuseppe Jato
rammentavano le molte promesse dell'arciprete Migliore in occasione di
defatiganti campagne elettorali[32]
a favore ora dell'on. V.E. Orlando ora dell'on.Termini ora dell'on. Lo Monte ora del consigliere provinciale il mortillaro
avv. Pietro Pulejo. Per non parlare delle elezioni comunali
allorché, sempre promettendo molto, andava a caccia di voti, sino al
1921, per il sindaco Pulejo cav. Antonino, Ninu 'u Latru per
amici e conoscenti, e successivamente battendosi, sino alla morte, per il cav.
Santino Termini. Il settore dove i compaesani avevano le
idee più chiare sulla pastorale attività del Migliore era quello degli imbrogli: alla Cassa
Rurale Leone XIII, all'Opera Pia Riccobono, in alcune congregazioni
parrocchiali, in tutti i posti insomma dove c'era ciàvuru 'i munìta.
Nessuno, tranne naturalmente gli amministratori, era a conoscenza di un
peccatuccio veniale perpetrato, nel corso del tempo, ai danni del Comune di cui
era Arciprete. Se n'era però accorto il commissario prefettizio Battioni. L'11 aprile 1914, rovistando nella
contabilità, aveva notato che l'arciprete Natale Migliore, insegnante comunale, percepiva la
pensione e contemporaneamente figurava tra i salariati del Comune. Per evitare
poi che i fedeli parrocchiani sospettassero l'imbroglio, ricorreva alla
sostituzione della propria persona: il sac. don Giuseppe Finocchio insegnava e lui ritirava lo stipendio
che, all'epoca era di moda la mezzadria, veniva ripartito in quote
perfettamente uguali: né una lira in più né una lira in meno. Il Battioni, com'era suo dovere, trasmetteva le carte
alla Procura del Re ma commetteva il madornale errore di spiattellare tutto ai
quattro venti, consentendo in tal modo agli amministratori di correre ai
ripari. Bisognava salvare l'intera amministrazione ed eventualmente anche la
faccia. E così, con opportune operazioni presso gli organi preposti, Ninu 'u
Latru e compagni riuscivano nel miglior modo a fare assolvere il Migliore. "Perché il fatto non sussiste!"
Era stato scritto.
Giunto ormai sulla soglia dell'aldilà al Migliore era apparso doveroso, per la salvezza
delle anime del suo amato e generoso popolo, dare opportune indicazioni per la
nomina del successore. Il tutto nel rispetto di una ormai consolidata
tradizione. Precisava così, quasi a testamento, che San Giuseppe Jato continuava
ad aver bisogno di un Arciprete buono, puro, santo, disponibile, non attaccato
al denaro, possibilmente apartitico ma in ogni caso colto e apolitico: qualità
reperibili, a suo autorevole parere, in un sant'uomo appartenente alla fauna e,
da un punto di vista onomastico, anche alla flora montana locale: il sac. don Giuseppe
Finocchio. Non è che a parer suo lo meritasse
tanto! Ma da alcuni fedelissimi aveva ricevuto il gentile invito ad esprimersi
in tal modo.
La cosa era apparsa semplice e fattibile perché, sul Finocchio,
convergevano unanimi gli apprezzamenti del sindaco Termini cav. Santo e dell'Amministrazione. Poi
perché c'era una petizione indirizzata all'Arcivescovo con la quale un migliaio
di cittadini sottoscriveva la preferenza per il Finocchio. Infine perché c'era
l'autorevole parere del Principe di Castelcicala di casa Camporeale il quale, attraverso
un vecchio diritto di patronato dei Beccadelli Bologna sulla nomina
dell'Arciprete, dava il proprio benestare. Sembrava a tutti che tutto sarebbe
andato liscio come l'olio. Invece…il diavolo ci aveva messo la coda!
E la coda del diavolo aveva iniziato a manifestarsi attraverso il
sac. don Giulio Virga. Direttore spirituale delle due
cooperative cattoliche - la Giosuè Borsi e la Pio X con circa 800 soci tra i
due comuni - il Virga costituiva la punta di diamante dei contadini nella
ventennale lotta contro i gabelloti o maffiosi: due termini nell'accezione
diventati ormai sinonimi. Don Giulio era deciso a candidarsi.
Se la candidatura Virga non creava eccessive preoccupazioni sul
Finocchio aveva invece cominciato a indurre un
tenue nervosismo tra i quotati e lungimiranti fautori della sua elezione.
"Camera dei Deputati - On. Francesco Termini[33] Roma 24/11/1922
Rev. Don Giulio Virga, ho letto con piacere e con sorpresa la sua gentilissima del 15
corrente, ricevuta ieri al mio ritorno qui a Palermo. Con piacere perché le sue
dichiarazioni sono perfettamente conformi al sentimento cristiano che anima
tutti gli aderenti al Partito Popolare; con sorpresa perché non ho avuto
occasione di interpretare le intenzioni che informeranno la di lei condotta
nelle prossime elezioni. Sono quindi veramente lieto che Ella con tutto fervore
lotterà a nostro fianco insieme agli amici che costì gli stanno vicino. Sarò
anche più lieto se fin da ora potrà aiutare i suoi concittadini e me a dare a
cotesto paese il parroco da tutti voluto nella persona del mio compagno di
seminario e di scuola sacerdote Giuseppe Finocchio. Con alta stima mi creda. On. Francesco Termini."
"San Giuseppe Jato 1/12/1922. Illustre onorevole
Termini, ho ricevuto la sua pregiata del 24 s.m. Non ritorno
sull'argomento delle elezioni politiche; ma duolmi dovere constatare che Ella
si occupa con tanto fervore della nomina dell'Arciprete futuro in maniera da
volere influire sull'animo di chi dovrebbe liberamente scegliere, a ciò,
naturalmente, avvalendosi della sua posizione politica e volendo far credere
che il suo protetto sia il voluto dal paese. Conosce lei esattamente i
sentimenti di questo popolo? Non credo poi affatto che a lei, quale rappresentante
del Partito Popolare Italiano, convenga ingerirsi negli affari ecclesiastici.
In tal modo lei non fa gli interessi del Partito ma mette scissure e si aliena
l'animo di una parte. Ossequi distinti. Dev.mo sac. Giulio Virga"
Il Principe ricordò di aver notato che l'on. Francesco Termini[34]
- liberale prima della Grande Guerra, popolare subito dopo - era passato nel
1943, armi e bagagli, nel Movimento Indipendentista Siciliano di Finocchiaro
Aprile come componente del Comitato Centrale per
l'Indipendenza Siciliana. Ma non ritenne di annoverarlo nell'albo d'oro dei
cosiddetti politici saltimbanchi. «In fondo,» pensò «per ogni cambio d'opinione
sempre una guerra mondiale c'era voluta! Non è che aveva cambiato opinione ad
ogni cambio d'olio!» In ogni caso ritenne utile sottolineare il fatto e
continuò a trascrivere:
"Camera dei Deputati - On. Francesco Termini - Palermo
/11/1922
Rev.mo Vicario dell'Arcivescovado di Monreale, ho appreso
con vivo dolore la morte del parroco di San Giuseppe Jato don Natale Migliore. Sento intanto che deve procedersi alla nomina del successore e io mi
affretto far conoscere a codesta Curia, nella certezza di interpretarne la
volontà, che sarebbe desiderio vivissimo dell'intera cittadinanza di quel
Comune, nonché delle locali autorità, che la scelta cada sul sacerdote don
Giuseppe Finocchio, della cui intemerata e veramente sacerdotale condotta, non
ha che a lodarsi cotesta Curia. Il sacerdote Finocchio fu mio compagno di
Seminario e di scuola, ragion per cui mi permetto anch'io di segnalarlo a
S.E.Rev.ma Mons. Intreccialagli, sicuro nella mia coscienza di fare opera buona. Come
vede, tengo in maniera la più assoluta alla nomina suddetta per tutte le
ragioni su esposte. Voglia V.S. Rev.ma esporre il mio vivo desiderio
all'Arcivescovo e gradisca i miei più distinti ossequi. Francesco Termini. N.B. Non vengo personalmente perché ancora trattenuto in
casa da una malattia assai penosa."
Il vecchio sac. Salvatore Riccobono, uomo coriaceo e definito
incorruttibile nei palazzi della Curia, avuto sentore della proposta
Finocchio, non ci aveva pensato due volte e il 14
novembre 1922, presa carta e penna, scriveva all'Arcivescovo:
"Ecc. Rev.ma, in circostanza in cui sta per trionfare
il male, sento il dovere di manifestare all'Eccellenza Vostra quanto posso in
coscienza affermare sulla condotta del sac. Giuseppe Finocchio. Debitore verso il sac. Pasquale Riccobono di lire 600 per affitto di casa e verso il sac. Giuseppe
Romano di lire 300, il sac. Giuseppe Finocchio non pagò mai ai detti creditori, ora defunti, le somme dovute.
Debitore verso di me di lire 3000 da circa 20 anni, verso il sac. Consiglio di lire 300 da circa 18 anni, verso il sac. Giuseppe Russo di lire 70, verso il sig. Di Liberto di lire 200 da circa
17 anni, invano il sac. Finocchio è stato invitato a pagare o a restituire.
Morto il padre, cassiere della Congregazione di Maria SS. Immacolata, non volle
consegnare le lire 400 che il padre teneva per conto della Congregazione.
Tenuto a cedere un vigneto all'Opera Pia Riccobono, non ha eseguito ancora la
volontà della testatrice Carrozza Francesca che gli aveva lasciato il vigneto per questo scopo con
atto simulato e lo tiene da parecchi anni per conto suo. Dovendo essere
espulso, per la sua poca correttezza, dalla Cassa Rurale Cattolica, mons.
Lancia di Brolo, per proposta del Consiglio di Amministrazione, gl'impose
di dimettersi per evitare lo scandalo dell'espulsione. Invitato dall'Arciprete
Ferruggia prima, e dall'Arciprete Migliore dopo, a dare i conti dell'amministrazione dei beni appartenenti alla
Chiesa Maria SS. della Provvidenza, non solo si rifiutò sempre, ma minacciò i
due Arcipreti che dovettero rinunciare al controllo. Si è parlato di rapporti
illeciti avuti 22 anni addietro dal sac. Finocchio con la signorina Alamia che per sfuggire all'infamia è partita per l'America ed ha
partorito sul piroscafo. Napoli Crocifissa, assidua penitente del sac. Finocchio, rimproverata un giorno da costui innanzi alle zelatrici
di Maria Concepita, reagì rivelando con gravi reticenze la condotta poco morale
di lui in rapporto a lei e ad altre. La detta signorina, che frequenta i
sacramenti, non ha ritrattato finora quanto affermò pubblicamente in quella
occasione. La signorina Di Sano Rosaria, altra assidua penitente del sac. Finocchio, per gelosia
contro le signorine Anselmo Francesca, Simonetti, Napoli e certa Bettina, troppo vicine a lui, manifestò a quasi
tutti i sacerdoti e a molte donne che il Finocchio, quasi tutti i giorni, andava a casa di lei e più volte
tentò di deflorarla. Il Sac. Finocchio fu sorpreso un giorno in sacrestia
nell'atto di baciare una signorina e fu per essere bastonato dal fratello di
lei, avvisato da chi vide quella scena. Una signorina andò in casa del sac.
Finocchio suo confessore per licenziarsi pria di partire pel postulato da fare
presso le Figlie della Carità e, trovandosi soli, egli l'abbracciò e baciò
ripetute volte; la signorina gravemente scandalizzata manifestò il fatto a
persona prudente che l'ha confidato a me. Si mormora contro di una giovane
sposa che richiamata dal marito in America non ha voluto partire per non
lasciare il Finocchio…
«Nerbo!!!» sottopensò il Principe «e si chiamava
Finocchio!!!». Poi continuò a trascrivere.
…Non aggiungo altro intorno alla morale del sac. Finocchio, ma posso dire che è capace di tutto. Ho motivi di non
dubitare che il Finocchio sia stato complice nell'assassinio di un padre di
famiglia. Nel 1898, essendo egli a capo del partito cattolico locale,
segretamente domandò ed ebbe denaro da questo e dal partito avverso che, pel
tradimento del sac. Finocchio, riuscì vincitore. Al tribunale dei secolari ha
portato sempre le questioni appartenenti al Clero ed ha tentato di
compromettere alcuni sacerdoti. E' stato sempre causa di discordie fra il
Clero. Procurò innumerevoli dispiaceri ai defunti sacerdoti Ferruggia e Migliore, e al vicario Pasquale Riccobono. Disprezzava il sac. Giuseppe Russo e molte volte fu per mettergli le mani addosso, e una
volta trovandosi vestito a messa. Assicurasi che non si confessa da 22 anni
tranne che siasi confessato nel santo ritiro fatto due volte per ordine di
Vostra Eccellenza. Forse egli fu causa della morte del suo vecchio padre, per
averlo fatto cadere a terra con uno spintone brutale, presente il sig. Leggio
Giorgio, il quale divulgò il fatto in paese. Ha cercato di
distogliere le persone dal contribuire alle spese fatte per la facciata e il
compimento della Madrice, servendosi anche di calunnie. Se dipendesse da lui
impedirebbe le ulteriori collette necessarie a farsi per l'estinzione del
debito. Ha promosso personalmente, spingendo parenti ed amici, la
sottoscrizione per la sua nomina di Arciprete, per confessione degli stessi
promotori; sottoscrizione che non è l'espressione della volontà del popolo
perché molte firme non sono autentiche e la massima parte forzatamente
ottenute. Il lavoro fatto dal sac. Finocchio per questo scopo ha destato l'indignazione generale
conoscendosi l'indegnità di lui. Anche a me si è presentato chiedendo la mia
tolleranza. Faccio notare anche che il Finocchio, nominato Arciprete, sarebbe
per diritto il Presidente dell'Opera Pia Riccobono, e in tale carica
rovinerebbe l'Opera, ove troverebbe un terreno da sfruttare a suo beneficio.
Essendo il Finocchio capace di tutto, come già detto, chiedo all'Eccellenza
Vostra che la presente resti rigorosamente riservata all'Eccellenza Vostra e a
Monsignor Evola. Prostrato al bacio del vostro anello, e chiedendo la
pastorale benedizione, mi segno dell'Eccellenza Vostra Reverendissima
devotissimo figlio in Gesù Cristo. Vicario foraneo sac. Salvatore Riccobono"
Intanto altre nubi spuntavano all'orizzonte. Anche il sac. Antonio
Caronia di San Cipirello avanzava la propria
candidatura finendo per sconvolgere totalmente i prestabiliti piani.
Il Virga, consapevole del genere di appoggi goduti
dal Finocchio ma anche delle maggiori possibilità del
Caronia, rinunziava alla corsa divenendo, nello
stesso tempo, un paladino del partito pro Caronia.
Si era a conoscenza che l'Arcivescovo di Monreale, nel nominare un
Arciprete, teneva sì conto delle istanze di cittadini, associazioni, preti e,
ogni tanto, di qualche onorevole, ma alla fine procedeva secondo il suo
convincimento e nel rispetto di un punteggio espressione del curriculum del
candidato. E così pensava di procedere. Invece…
Si presentavano presso i locali della Curia i portavoce di due
associazioni: uno della mafia di Cinisi, l'altro di quella di Terrasini i
quali, senza un minimo di garbo né rispetto, comunicavano che le rispettive
associazioni erano già venute nella determinazione di nominare il nominando
Arciprete nella persona del galantuomo don Pippino Finocchio. Poi si presentava, accompagnato dallo
staff della locale mafia, il pro-Sindaco di San Giuseppe Jato assessore Traina cav. Vincenzo il quale, evitata la forma
imperiosa nella richiesta nomina del Finocchio, si limitava a comunicare che
l'elezione eventuale del Caronia avrebbe automaticamente comportato l'ammazzatìna
del sac. Virga, oltre al fatto, ma era di secondaria
importanza, che le chiese locali non avrebbero più visto una lira da parte del
Comune che essi rappresentavano. Questi i fatti di rilievo oltre ad una serie
di lettere - non anonime - di minacce all'Ordinario, al Vicario e al
Vice-vicario, sempre con lo stesso oggetto e spedite dagli amministratori
comunali di San Giuseppe Jato. Infine le numerose visite presso la Curia di
uomini di partito, portaborse e deputati della Circoscrizione. L'Arcivescovo,
forse nell'intento di prender tempo, rinunziava alla nomina diretta e decideva
di procedere attraverso concorso.
Intanto nell'area jatina quella nomina determinava una spaccatura
verticale, tra gli apparentemente tranquilli abitanti, con conseguenze che
nessuno, inizialmente, si sarebbe neppure sognato di immaginare. La nomina di
un Arciprete risveglia sempre quello spirito represso di competizione
caratteristico dei piccoli paesi non muniti di attrezzature per lo svago.
Inizialmente c'erano stati, tra singoli tifosi, degli innocenti scambi di
opinioni. Poi gli scambi, sempre innocenti, erano diventati di gruppo. Subito dopo
si era assistito, tra singoli, a qualche scambio animato. Poi gli scambi
animati erano diventati di gruppo. E sino a quel momento la situazione era
sembrata sotto controllo. Si sa come va in questi casi: nella foga di una
discussione un po' più animata c'era scappata, forse involontaria, una parola
pesantuccia. Di rimando era stato profferito, in maniera poco ortodossa, un
apprezzamento per la sorella. L'interessato si era subito sdebitato con un
pugno ma poco dopo, informatosi presso gli esperti sul rispetto dei canoni del
caso, gli era stato chiesto:
«U sangu ci fu?»
«No!» aveva risposto
«E allura un vali!»
La stessa notte abbuccàva un tifoso accoltellato.
Intanto erano cessate le discussioni ma continuavano gli scambi
d'opinione: a mutìgna, senza parlare. Era cambiato lo strumento
d'espressione: di domenica e nelle festività comandate il coltello, negli altri
giorni o in campagna a runca ritenuta più efficace e comoda. Sin qui la
situazione, anche se presa per i capelli, sembrava recuperabile. Vero è che gli
accoltellamenti erano numerosi ma era pur vero che risultavano salomonicamente
ripartiti: uno di qua, uno di là. Ma già da tempo ognuno pi un sapiri né
leggiri né scriviri aveva cominciato a camminare armato. Lo aveva sempre
fatto. Solo che in questi casi camminare armato veniva inteso nel senso di
avere pronti i colpi in canna e il dito sul grilletto. Poi, all'improvviso, la
goccia che aveva fatto precipitare tutto: il morto sparato. Caduto, si diceva,
per la nobile causa. Forse nessuno saprà mai se quell'assassinio fosse da
elencare tra quelli per legittima difesa; ma la dinamica, almeno da quel poco
che si diceva, aveva impressionato molto la popolazione. L'impressione, a sua
volta, aveva generato la paura. E a San Giuseppe Jato la paura, a memoria
d'uomo, era sempre stata causa di lunghe file dinanzi alle armerie. Del fatto
era stata tentata una ricostruzione rivelatasi subito molto attendibile. Erano
le cinque del pomeriggio. Era l'ora di quella sorta di coprifuoco non
dichiarato che la gente, in via cautelativa, da diversi giorni ormai s'imponeva.
Non c'era anima viva; ma qualora ci fosse stata non sarebbe cambiato nulla
perché non si sarebbe saputa una virgola in più di quanto già non si sapesse.
Un tifoso saliva lungo il lato destro del marciapiede del corso principale.
L'altro scendeva lungo il marciapiede opposto. Tutto sembrava normale quando il
tifoso che saliva, improvvisamente, bum-bum! E ammazzava l'altro. Lo sparatore,
tifoso del Finocchio, appena riconosciuto nell'altro un avversario, aveva fatto
all'istante un rapidissimo ragionamento che, in fatto di logica, era apparso
pure inappuntabile:
«Lui è armato e io pure! Non facciamo che lui pensa che io penso
di sparargli e allora mi spara per primo!? Meglio giocare d'anticipo!»
Certo sarà sempre impossibile contare i caduti per quella nobile
causa sia perché molti trovarono l'occasione, o se si preferisce il pretesto pi
livàrisi a scagghìdda i l'ugnu, sia perché in tanti erano emigrati
clandestinamente in America: così si diceva allorché di qualcuno - che
l'America l'aveva trovata ad un paio di metri sottoterra - non si avevano più
notizie. Una ventina solo nel febbraio del '22.
Torniamo alle alte sfere. L'Arcivescovo, nella nomina dei
componenti la commissione esaminatrice, era ricorso ad elementi estranei
all'ambiente per evitare tentativi di condizionamento. Ma non era servito a
nulla: raccomandazioni e interventi presso i commissari, anche dalle più
lontane regioni d'Italia, non si contavano più. Ma ciò che aveva creato
turbamento nell'animo dell'Arcivescovo era stata una particolare
raccomandazione. Aveva scelto, tra gli esaminatori, il Padre Bernardino Cappuccino da Casteltermini: un Comune
fuori dalla diocesi e per altro sconosciuto. Pensava lui!
Manco a dirlo! Immediatamente si presentava un portavoce
dell'associazione mafiosa di Casteltermini il quale, con dotte argomentazioni e
frequenti riferimenti alla kantiana Critica alla ragion pura, tentava di
convincere il colto cappuccino della maggiore preparazione del Finocchio
rispetto al Caronia.
Considerata la difficile
situazione l'Arcivescovo, scritta una lettera di accompagnamento e messe in una
busta tutte le carte, il 25 aprile 1923, trasmetteva tutto alla Santa
Congregazione del Concilio a Roma[35]:
facendo intendere la propria preferenza per il Caronia con una motivazione
finale a dir poco sconcertante:
"III - Il
rispetto che si ha da tutti per Caronia, la sua tranquilla dimora a San Giuseppe
Jato nell'ufficio di Economo in quasi sei mesi fanno intendere come una volta
che lui ne fosse il parroco ne godrebbero i buoni, e cesserebbe d'agitarsi il
partito pro Finocchio, poiché non avrebbe più scopo. Vi è un'altra circostanza
che assicura la tranquilla permanenza del Caronia in San Giuseppe Jato, la
stima che vi gode il fratello dottor Giuseppe professore di Pediatria
nell'Università di Roma, decorato dal Municipio di San Giuseppe Jato col titolo
di cittadino onorario il giorno di Pasqua di quest'anno in occasione di una
visita di questo al paese nativo di Sancipirrello. In nessun caso si farebbe un
torto al sac. Caronia: sarebbe un torto al fratello, cittadino onorario; oltre
che sarebbe un affronto ai componenti il Consiglio Municipale del vicino
Sancipirrello, anch'essi persone che valgono nel mondo della mafia, che con a
capo l'onorevole Lo Monte - uomo loro - fecero
trionfali accoglienze al dottor Caronia. Quei signori di S.Giuseppe Jato
vedono che altro è scalmanarsi per la parrocatura del sac. Finocchio prima che
questa si conferisca, altro è fare un affronto diretto al sac. Caronia dato che questi ne sia il
titolare definitivo."
Intanto "Nessun dorma!" erano le parole d'ordine nei due
paesi e anche fuori.
"Istituto di Clinica Pediatrica della Regia Università
di Roma - prof. Giuseppe Caronia - Roma aprile 1923. Carissimo Nino, sono da ieri a Roma,
perché mi son dovuto fermare qualche giorno a Napoli. Le battaglie del
Mezzogiorno hanno avuto anche un richiamo da parte di Don Sturzo a proposito degli articoli pro-Finocchio. Ti scriverò tra qualche giorno il nome del corrispondente
da San Giuseppe Jato. A Palermo ha fatto parlare al Procuratore del Re.
Occorrendo potrà qui fare altri passi. Intanto è bene assicurare mons.
Arcivescovo che può agire con piena libertà. Nessuno oserà turbare l'opera sua,
indirizzata al bene delle anime. Ho gradito molto la bella manifestazione dei
compaesani; ma sono restato un po' contrariato di non essermi potuto
intrattenere tranquillamente con i nostri cari genitori. Informami delle cose
tue e della famiglia. Baci e saluti cordiali a tutti. La santa benedizione dei
genitori. A te un abbraccio."
"A Sua Eccellenza Reverendissimama l'Arcivescovo di
Monreale. Eminenza, ringrazio sentitamente V.E. per la sua cortese lettera del
21 corrente, di cui prendo atto, e come Lei sono dispiaciuto che si debba
ricorrere alla Santa Sede. Per un riguardo personale per V.E. e sapendo che
Ella era ben al corrente di tutte le eventuali conseguenze di una nomina non
gradita ai Paesani, in seguito alla proposta fattami da V.E. stessa, avevo
sospeso di presentare per iscritto la persona desiderata da casa Camporeale
rimettendomi alle decisioni della Commissione Esaminatrice del concorso indetto
da V.E. Ora invece, dovendosi trasmettere a Roma cotesta pratica, e ricordando
che nell'ultimo colloquio avuto con V.E. in presenza del Comm. Cascio[36]
Ella mi disse che nessuna improbabilità di riuscita vi era per il sac.
Finocchio Giuseppe, ciò che mi fa credere che nulla di positivo vi fosse
contro la sua nomina, desidero che trasmettendo i documenti alla Santa Sede,
V.E. faccia conoscere a chi di ragione che il Sacerdote che presenta Casa
Camporeale quale Arciprete di San Giuseppe Jato è il sac. Giuseppe Finocchio. Palermo 26 aprile 1923. Il Principe di Castelcicala"
"Istituto di Clinica Pediatrica della Regia Università
di Roma - prof. Giuseppe Caronia - Roma 3 maggio 1923. Carissimo Nino, sono stato ieri alla
tua Congregazione. Ho parlato con (cancellato) pratiche della Diocesi di
Monreale. I documenti non erano ancora arrivati, ma avevano ricevuto soltanto
un ricorso non so di chi. Ho presentato un memoriale a mia firma, in cui
tratteggiavo la posizione reale ed assumevo la responsabilità dei fatti
affermati. Giustamente il padre mi ha fatto osservare che la tua Congregazione
finirà per decidere secondo le informazioni ed il parere del Vescovo e che
terranno poco conto di ricorsi, sottoscrizioni ed altro. Domani farò tornare
alla carica Padre Gabriele per dare ed avere altre notizie. Tu intanto da costì
tienimi di tutto informato. Per una commissione di libera docenza conto venire
in questi giorni a Palermo ma la riunione è stata rimandata a tempo non
determinato. Saluti e baci a tutti di famiglia. La santa benedizione dei
genitori. A te un abbraccio. Tuo fratello Peppino."
Finalmente veniva nominato l'Arciprete di San Giuseppe Jato nella
persona del sac. Antonio Caronia.
"San Giuseppe Jato 8 ottobre 1923. Reverendissimo e
carissimo monsignore, le scrivo due parole per assicurarle che la funzione di
ieri riuscì ottimamente. La funzione fu preparata in forma privatissima; pur
nondimeno il vasto tempio era quasi al completo. Tutti i Circoli, le Società,
gl'Istituti e la parte intellettuale del paese erano presenti. Tutto si svolse
tra la commozione generale. L'omelia recitata dal Novello Arciprete strappò le
lagrime a tutti, perché trattò sulla 'carità'. Massima calma in Chiesa e fuori
Chiesa. Lo slancio entusiastico, ma silenzioso e dignitoso di quasi tutto il
popolo, fu ammirevole, anche dalla parte avversa che brillava per la sua assenza.
Le bacio le mani. Sac. Giulio Virga."
Qualche anno dopo alle cinque del pomeriggio di una fresca serata
di Venerdì Santo, durante le sacre rappresentazioni, un pesante crocifisso di
alcuni metri d'altezza abbuccàva in direzione di due officianti
inginocchiati ai piedi dello stesso. Don Giulio Virga, con salto felino, riusciva a scansarlo.
L'Arciprete Caronia tentava il salto ma, impacciato nei
movimenti, ci rimaneva parzialmente sotto sgangàndosi il femore. Poi
andava a trascorrere il resto dei suoi anni presso l'abitazione del fratello a
Roma.
NASCITA E SVILUPPO DELLA MAFIA SUL TERRITORIO: ANALISI STORICO -
DOCUMENTALE
«Hallo!»
«Pronto! Zio santo?»
«Eccomi, Principe! Tutto fatto?»
«Ritengo di aver finito.»
«Bene, allora ascoltami. Ho pensato: considerato che siamo solo in
due, invece di fare una nuvola rotonda, perché non andiamo a sederci al
ristorante Paradise davanti ad una bella bottiglia di "D'istinto"
della Casa Vinicola Calatràsi di San Cipirello?»
«Mi sembra un'ottima idea. Certo se riuscissimo a trovare una
bottiglia di vino "Signora" di San Giuseppe Jato, non sarebbe
neppure male!»
«Mi sembra difficile. E' passato oltre un secolo! E poi lo sai che
i bianchi non reggono il tempo. In ogni caso informarsi non costa niente.
Ascoltami ancora! Porta con te gli appunti. Per Internet porto il mio
portatile. Due secondi e sono da te. Ciao!»
«Che bella vista!» Esclamò il Principe nel sedersi accanto alla finestra.
«Sembra di trovarsi in capo al mondo! E poi guardi un po' che bel tocco di
cameriera!»
«Hai poco da guardare. E' un angelo!»
«Appunto. Un angelo!»
«Ma che hai capito! Quello è un angelo vero! Lo fanno vestire da
donna per creare un po' d'atmosfera. Piuttosto, non rivolgergli apprezzamenti
perché s'incazza come un diavolo!»
«E perché s’incazza?»
«Ora vuoi metterti a discutere pure di sesso degli angeli? Vediamo
piuttosto cosa dobbiamo ordinare.»
«Io inizierei con un po' di verdura. Certo se potessero servirci
una bella porzione di cavolicèddi e giri di montagna non sarebbe
male. In vita ne andavo matto! Il locale mi sembra però troppo raffinato.»
«Ma che credi di trovarti nei ristoranti di San Giuseppe Jato e
San Cipirello, dove hanno dimenticato i migliori piatti tradizionali? Qui in
Pa-ra-di-so siamo! Capito caro Principe? E ora al lavoro!”
I primi abitanti: vittime del maggiorasco e liberati dal
carcere
«Allora, il primo tema da affrontare è: come è nata e che cos'è la
mafia a San Giuseppe Jato e San Cipirello. Vediamo di dare un po' d'ordine ai
lavori che sarò io a condurre. Tu potrai fare le domande che riterrai opportune
ma sarò io a stabilire se sono pertinenti al tema. Inizierò col farti alcune
domande. Partiamo dalla fondazione di San Giuseppe Jato nel 1779. Tu hai avuto
concessa la licentia populandi. Giusto?»
«Giusto.»
«Prima domanda: come hai fatto a popolare il centro? Da dove
provenivano gli abitanti e di che estrazione erano?»
«Il territorio - se si
esclude la presenza di alcuni casali quali Dammusi, Chiusa, Ginestra,
Mortilli, Fellamonica, Gianvicario, Balletto, Picciana - era molto
spopolato. Da quando Federico II, nel 1246, aveva deportato a Lucera in Puglia
gli ultimi musulmani di Sicilia arroccati a Jato non era più sorto, tranne
Piana degli Albanesi, alcun centro abitato di una certa rilevanza…»
«Non divagare, Principe, queste cose in parte le conosco! Se
dobbiamo andare avanti nella discussione è bene seguire un filo logico. Tieni
presente che, per formazione, sono ferratissimo in logica aristotelico-tomista
e, se dovesse occorrere, sono anche in grado di analizzare un'argomentazione
attraverso l'algebra di Boole. Questo per farti capire, e vale per il resto
della conversazione, che il nostro dialogo dovrà viaggiare su binari senza
deviazioni: a una domanda precisa deve seguire una precisa risposta. Sarò io,
eventualmente, a chiederti ulteriori informazioni. Inteso? E allora! Da chi è
stato popolato il centro?»
«In parte da gente trasferitasi dai centri vicini: Piana
soprattutto, Alcamo, Partinico, Poggioreale, Corleone, ma anche lontani come
Bivona, Grotte, Santo Stefano, Agrigento. In parte, in verità non molti, da
gente che abitava nei casali vicini. Una parte invece proveniva dalle carceri.»
«Come mai dalle carceri?»
«Perché trasferirsi a San Giuseppe li Mortilli poteva costituire
un'alternativa al carcere. Era consentito da una disposizione governativa
conseguente al rilascio della licentia populandi. Però, zio santo, una
deviazione deve pur consentirmela! Lei certamente, in cuor suo, starà
sorridendo pensando che il mio paese è stato popolato da gente…»
«Ma figurati! Tu vorresti dire che all'epoca le carceri erano
quasi esclusivamente piene di poveri disgraziati che non riuscivano a pagare le
tasse? Che allora non esistevano amnistie e condoni fiscali? Questo lo so. Tu
vorresti dire che non era tutta gente di malaffare? D'accordo. Invece degli
Albanesi, poverini, cosa mi sai dire? Mi pare che Piana degli Albanesi fosse il
centro abitato più vicino: meno di sei miglia da San Giuseppe.»
«Ma quali poverini! Lei forse si riferisce ai profughi albanesi di
oggi! Vede, zio santo, Piana era un centro tutto particolare. Gli abitanti
erano chiamati greci ma di greco avevano ben poco. Erano trilingui:
parlavano l'albanese, il siciliano e l'italiano.»
«Come mai erano chiamati greci?»
«Probabilmente perché le prime colonie cacciate dall'area
bizantina, durante l'invasione ottomana, provenivano dal Peloponneso in Grecia.
Ma le prime ondate di profughi avevano colonizzato i centri di Palazzo Adriano
e Contessa Entellina. Questi, come quelli di Mezzoiuso e Santa Cristina,
provenivano proprio dall'Albania.»
«Mi sembri abbastanza informato!»
«Gnòti sautòn - conosci te stesso - dicevano gli antichi
greci. Conoscere se stessi è indubbiamente importante, ma con gli Albanesi di
Piana a confine delle proprietà era meglio conoscere gli altri.»
«Perché?»
«Le dicevo che gli Albanesi di Piana erano particolari in primo
luogo perché non avevano nulla in comune con i profughi neppure dell'epoca.
Erano arrivati numerosi in queste zone nel 1488. Profughi erano, ma pieni di
soldi! Ancora nel 1525, nei documenti, il centro da loro fondato era denominato
La Piana dei Nobili Albanesi. La loro ricchezza può ancor oggi essere
valutata attraverso i caratteristici abbigliamenti: raffinatissimi e ricamati
con dovizia d'oro. Era una nobiltà che non aveva nulla da spartire con quella
nostrana. Erano nobili che lavoravano e si davano da fare come tutte le persone
normali. Al momento dell'arrivo avevano acquistato, sottolineo acquistato,
dall'Arcivescovado di Monreale due feudi quasi improduttivi: Mercu e Dandigli,
oggi Dingoli. Ma il loro primo interesse, più che acquistare dei feudi
produttivi, era stato quello di acquistarli in posizione alquanto elevata.»
«E poi?»
«In meno di un decennio riuscivano a rendere produttivi i terreni
acquistati. Nello spazio di cinquant'anni non vi furono concessioni di terreni
- in gabella, a masseria[37],
a censo, a decima[38]
- in tutto il comprensorio del monrealese dove non vi fossero Albanesi. Nello
stesso tempo acquistavano tutto quanto c'era di vendibile: piccoli appezzamenti
di terreno, abitazioni di campagna. Nel 1508 il greco Alessandro
Galletti acquistava l'enfiteusi del feudo della Chiusa
e costruiva un mulino. Nel volgere di una sessantina d'anni quasi tutti i
mulini delle vallate del Belice e dello Jato appartenevano a loro: l'ultimo lo
costruiva nel 1567 il greco Nicolao Zuccaro a Calatràsi nei pressi di
Roccamena, ad oltre 30 km da Piana! Poi costruivano una cartiera sul fiume Jato
e successivamente un paratore[39].
Non parliamo delle attività commerciali! Vendevano di tutto e dovunque,
specialmente a Palermo e in tutto il circondario.»
«Scusa Principe, non avrai mica confuso gli Albanesi con gli
Ebrei?»
«Assolutamente no! Anzi a tal proposito faccio notare che gli
Ebrei erano stati espulsi dalla Sicilia nel 1492, quattro anni dopo l'arrivo
degli Albanesi, e ho sempre avuto la sensazione che questi ultimi, almeno nei
nostri territori, abbiano preso il loro posto. All'inizio ho avuto rapporti
quasi esclusivamente con loro. Pensi che avevano pure in gestione il fondaco di
Mortilli preesistente alla fondazione di San Giuseppe. Sono infine
convinto che noi Beccadelli dobbiamo molto alla vicinanza di questa gente se
siamo riusciti a mantenere, per lungo tempo, prestigio e averi.»
«Perché?»
«Perché abbiamo, in un certo qual modo, emulato lo spirito della
nobiltà albanese: abbiamo lavorato anche noi, siamo divenuti imprenditori
quando i nostri cugini nobili se la fissiavano.»
«Interessante!»
«Non creda che sul territorio ci fossero solo Albanesi! Nel 1584
il pisano don Pietro de Opezzinghis[40],
acquistata l'enfiteusi del feudo Fellamonica sul fiume Jato, iniziava l'esperimentu
di una coltivazione di riso.»
«Le coltivazioni di riso qui?»
«Erano stati gli Arabi attorno all'anno 1000 ad importare, dal
sud-est asiatico, la coltivazione del riso in Sicilia. Poi era scomparsa.
Attorno al 1400 gli Aragonesi l'avevano importata nel napoletano. A Palermo e
zone limitrofe era sconosciuta e il riso era un genere di lusso perché
importato.»
«E com'era andata al pisano?»
«Aveva impiegato circa 12 anni per acquisire una buona tecnica di
coltivazione e, soprattutto, di pulitura. Poi a partire dal 1588, entrato in
piena produzione, riusciva a rifarsi delle spese sostenute ottenendo raccolti
nel rapporto di 1 a 25. Utilizzava la tecnica della rotazione delle colture
quando qui era sconosciuta. Pensi che ogni due anni alternava la coltivazione
del frumento al riso ottenendo rapporti di 1 a 18, quando in quelle epoche non
si superavano rapporti di 1 a 7.»
«E come andò a finire?»
«Ogni anno, conti alla mano, pagando 56 once di canone enfiteutico
riusciva ad ottenere un utile medio di 1038 once! Poi l'Arcivescovo di Monreale
aveva messo gli occhi su quel fiume di denaro e, dopo alcuni anni di
contenzioso, si sfasciàvanu i criva.»
«C'era altra gente esterna insediata in questo territorio?»
«Non vorrei fare un elenco di singoli perché credo non sia il
caso. Per non andare molto indietro nel tempo posso solo citare una comunità di
Armeni che nel 1258, regnando lo svevo Manfredi, si insediava proprio nella mia Dammusi a
coltivare i terreni cum vineis et laboribus, con vigne e frumento. Ma di
loro si avevano pochissime notizie.»
«Riprendiamo il filo. Escludiamo i carcerati che non avevano
alternative, ma gli altri perché hanno scelto di trasferirsi a San Giuseppe li
Mortilli?»
«Perché ho concesso gratuitamente l'area su cui edificare e, per
coloro che non avevano possibilità, ho costruito anche l'abitazione
concedendola in enfiteusi. Pensi che tra lotti di case e terre comuni ho
concesso qualcosa come trenta salme di terra. Naturalmente ciò valeva
indistintamente per carcerati e non.»
«Solo per questo?»
«No. Nello stesso tempo ho dato a ciascuno la possibilità di
lavorare concedendo - in gabella, a censo o a decima - dei piccoli appezzamenti
di terreno. Sa, ne avevo di terreno!»
«Tutto qui?»
«In verità mi sto ricordando di un'altra trentina di persone
provenienti dai centri più disparati: le indicavamo come le vittime del
maggiorasco.»
«Il maggiorasco? So che si tratta di una istituzione legata
all'eredità in uso presso i casati nobiliari. Confesso però la mia ignoranza,
non me ne sono mai occupato perché non mi è mai interessato: provengo da una
famiglia che per generazioni aveva solo ereditato fame. Mi fai capire di che si
tratta?»
«Il maggiorasco o maggiorascato era una forma di fedecommesso.
Forse però è meglio chiarire con un esempio. Prendiamo il caso di una
donazione. Ai giorni nostri, se si escludono i problemi legati al fisco, un
trasferimento di proprietà viene fatto in maniera abbastanza semplice: il
donatore va dal notaio e divide ai figli, o agli aventi causa, i propri beni. I
figli, a loro volta, possono utilizzare i beni ereditati nel modo che ritengono
più opportuno.»
«Invece allora?»
«Intanto i beni, parliamo di quelli immobili, non venivano divisi.
Erano epoche in cui prestigio e potenza di una famiglia si misuravano in salme
di terra e bisognava conservare nel tempo prestigio e potenza. La soluzione
veniva reperita nell'assegnare l'intera proprietà ad una sola persona: in
genere al primogenito. Non solo. Il donatore stabiliva, all'atto della
donazione, come e a chi sarebbero andati i beni nelle generazioni successive: all'infinito
scrivevano i notai negli atti. L'inalienabilità, naturalmente, costituiva il
presupposto principale della donazione. Si rende conto, zio santo, di quali
erano le conseguenze?»
«Certo che mi rendo conto! Si era nell'impossibilità di dividere,
vendere, donare o trasformare i beni ereditati, con notevole pregiudizio per
una naturale ridistribuzione della ricchezza e diffusione della piccola e media
proprietà.»
«Di tutto ciò mi sto rendendo conto solo ora! »
«E hai impiegato quasi due secoli per capire l'importante funzione
della piccola e media proprietà in
Sicilia?»
«Sì.»
«Leggi cosa scriveva, già nei primi decenni del 1800, un nobile
francese nel visitare questi territori:
"Colui che visitasse per mare le coste della Sicilia
potrebbe facilmente crederla ricca e fiorente, eppure non esiste un paese più
misero al mondo; la giudicherebbe popolata, mentre le sue campagne sono deserte
e tali rimarranno finché il frazionamento delle proprietà e lo smercio
dei prodotti non daranno al popolo un motivo d'interesse per ritornarvi."»
«E chi era il francese?»
«Charles Alexis de Tocqueville.»
«Ma quello era un nobile rinnegato! Aveva tradito tutti i nobili
principi della nobiltà. Era liberale. E che liberale! Teorizzava che la
democrazia costituiva l'avvenire delle società avanzate. E poi, pur con alcuni
distiguo, sempre alla francese ragionava! E lei capisce, in quelle
epoche, cosa significava per noi nobili ragionare alla francese?!»
«Sì. Capisco anche se non condivido. Però Tocqueville, anche se alla francese, almeno
ragionava! Voi invece… Certo, i nobili siciliani dovevate avere il dente
particolarmente avvelenato nei suoi riguardi per quel che ha scritto[41].»
«E lei è proprio sicuro che Tocqueville sia stato in Sicilia?»
«Sì. Col fratello Edouard nel 1826-27.»
«A saperlo!»
«Interessante, per il nostro tema, è l'analisi di Tocqueville a proposito dell'agricoltura nei
territori tra Catania e Messina dove…non è che un susseguirsi di frutteti
frammischiati a capanne e graziosi villaggi; non c'è spazio sprecato: ovunque
un'aria di prosperità e di abbondanza. Egli giustifica[42]
tale situazione in parte con il fatto che la …divisione dei beni vi è quasi
senza limiti. Ognuno ha un sia pur minimo interesse nella terra. E' l'unica
parte della Sicilia dove il contadino è possidente. Penso che non sarà un
caso se quei territori della Sicilia Orientale, per oltre un secolo e mezzo,
siano rimasti immuni da fenomeni di mafia. Non possiamo certo addebitare il
fatto solo al frazionamento della proprietà; possiamo solo registrare che la
mafia è nata nel latifondo e, come vedremo in seguito, per il latifondo. Ma
riprendiamo il filo. Che fine hanno fatto le tue proprietà?»
Anch'io, il 10 luglio 1806, ho donato i miei beni seguendo la
norma del fedecommesso.»
«E com'è andata?»
«Non le dico il casino presso il notaio Domenico Cavarretta di Palermo! Era però normale. Il casino
naturalmente! La cosa difficile infatti era spiegare al notaio la volontà del
donatore: anche perché in genere il donatore si portava addosso un buon numero
d'anni. A volte trascorrevano giorni e giorni a discutere col notaio.»
«E la tua donazione?»
«Io donavo tutti i beni a mio figlio Domenico, coniugato con sua nipote donna Stefania
Beccadelli, alle seguenti condizioni: se si fosse
sciolto il matrimonio tra i due, senza figli e discendenza mascolina,
allora mio figlio Domenico avrebbe goduto l'usufrutto sino alla
morte, dopodiché l'intera proprietà sarebbe passata a don Giuseppe Beccadelli Bologna e Bonanno figlio primogenito maschio
del Colonnello don Bernardo Beccadelli da Sambuca e di donna Margherita Bonanno. Ma la proprietà sarebbe passata a
Giuseppe Beccadelli Bologna e Bonanno a condizione che avesse preso in moglie
donna Marianna Beccadelli figlia di mio figlio Domenico e di donna
Stefania; altrimenti la palla - in questo caso mia nipote donna Marianna -
sarebbe passata al secondogenito del Colonnello don Bernardo Beccadelli. Se neppure il secondogenito avesse preso
in moglie la palla, si passava al terzogenito del Colonnello, e così di seguito
"…a favore di quel figlio ultrogenito di detto
illustre Colonnello don Bernardo, che piglierà in moglie la suddetta illustre donna
Marianna."
Se nessun ultrogenito avesse avuto il fegato di sposare mia
nipote donna Marianna, allora si poteva passare a nominare un fedecommesso
primogeniale agnatizio nella linea …quando nascessero figli maschi…aspetti ogni
volta che arrivo qui mi confondo…insomma una persona disposta a carriàrisi,
portarsi via, la palla di mia nipote!»
«Fammi capire. Dai rapporti di parentela citati sembra che i
matrimoni si contraessero in famiglia. O no?»
«Proprio così! Io avevo tre figli: Salvatore, Domenico e Bernardo. Domenico l’ho fatto sposare con la
figlia di Salvatore. Dal matrimonio tra i due è nata Marianna che, attraverso l’atto citato, ho
obbligato a sposarsi con uno dei figli di Bernardo. Come vede, con questo
sistema che non ho avuto il tempo di brevettare, non si disperdeva un metro
quadro di terra della famiglia!»
«Ho capito! E i figli che non erano primogeniti?»
«In parole povere la prendevano nel disco! Quando gli andava bene
ricevevano una certa quantità di denaro assieme al titolo e andavano via.»
«E che facevano?»
«Alcuni, abituati ai fasti, facevano la fine del figliuol
prodigo. Altri più intraprendenti tentavano l'unica forma d'investimento
possibile all'epoca: l'acquisto di terreni. Cosa difficilissima data la penuria
di proprietà alienabili.»
«E allora?»
«Allora alzai l'ingegno! Io ero tra i pochi a poter vendere i beni
perché frutto di un acquisto. In una situazione del genere lei comprende come
funziona la legge del mercato: poca offerta, prezzi alle stelle. Pensi, zio
santo, che con la vendita di una minima parte di terreni, ero riuscito a
recuperare buona parte delle spese sostenute per l'acquisto dell'intero
comprensorio. Fu così che alcune delle vittime del maggiorasco si
trasferirono a San Giuseppe li Mortilli.»
«Che tipi erano?»
«Ma secondo lei che tipi potevano essere!? Era normale che
avessero il dente avvelenato contro tutti i nobili di questo mondo! Tante
volte, conoscendone le origini, erano stati invitati presso la mia dimora in
occasione di feste o banchetti. Nessuno però si fece mai vedere! Bisogna
riconoscere che lavoravano, che facevano produrre bene la terra, che mandavano
i figli a scuola e che - spogliatisi delle vesti nobiliari, anche se a volte
mantenevano il titolo - si erano trasformati in perfetti borghesi. Preferivano
stare col popolino e, nel volgere di pochi anni, avevano creato anche una sorta
di sodalizio: una rivendita, altrove chiamata vendita, di
carbonari; che non era, almeno qui, una società segreta come in genere si
sostiene: risultava infatti regolarmente denunziata alla polizia di Palermo.»
«E dopo?»
«Poi si erano messi a professare idee che apparivano
rivoluzionarie e nel luglio del 1820, assieme a una buona parte dei mortillari,
combinavano un casino bruciando gli uffici governativi con tutti i registri. Se
la prendevano col primo eletto, il Sindaco, Natale Prestigiacomo inviso, si diceva, alla popolazione: in
realtà tentavano di assassinarlo perché era uno sfegatato borbonico. I capi,
tali Virga e Micciché[43],
arrestati in precedenza con altri e rinchiusi nel carcere di Sant'Anna a
Trapani, riusciti ad evadere assieme ad una trentina di carcerati, si davano
alla macchia nelle campagne tra San Giuseppe li Mortilli e Belmonte Mezzagno…»
«Fermati, Principe, che sono arrivati i cavolicèddi e i
giri! Prima però di iniziare informami sul numero di abitanti.»
«Attorno al 1792 erano già circa 900; mentre nel 1831, questo
posso dirglielo con certezza in quanto risultava dal censimento, erano 4095.»
«Come fai a saper queste cose? Tu non sei morto nel 1813?»
«Sì! Inizialmente mi sono tenuto aggiornato attraverso i mortillari
e i miei parenti che arrivavano nell’aldiquà. Poi m'abbuttò!»
«Veramente buoni questi cavolicèddi, vero zio santo?»
«Sì, certo!»
«Ne aveva mai mangiati?»
«Devi sapere, Principe, che mio padre faceva 'u cavuliceddàru
e li vendeva nella bancarella!»
«Cosa servo per primo?» chiese con voce perfettamente femminile
l'angelo.
«A me» rispose il Principe «come primo porti un secondo: carne di crasto
arrostita, un bruciulùni cu sucu e un po' di sarde a beccafìco.»
«Anche a me.» Disse il santo.
I gestori di violenza
«Passiamo ad altro. Cerchiamo adesso di capire chi erano i gestori
di violenza nel territorio di tua pertinenza.»
«Ladri, briganti e, nel luglio del 1820, i carbonari!»
«E basta?»
«Non credo ce ne fossero altri!»
«Ascoltami, Principe! Dobbiamo essere chiari e dare alle frasi il
loro esatto significato. Io ti ho chiesto i gestori di violenza non i gestori
di violenza con una determinata finalità. Mettiti nei panni di uno che si becca
una fucilata: tu credi che se il piombo proviene dalla canna di un brigante o
di un rivoluzionario per lui cambi qualcosa? Per adesso tralasciamo le finalità
e cerchiamo di individuare solamente i gestori di violenza. Briganti e
rivoluzionari, tutti e due gestori di violenza sono: ciascuno però la utilizza
per uno scopo diverso. La distinzione sarà utile per capire, successivamente,
cosa può accadere nel momento in cui le finalità dei gestori di violenza si
avvicinano o addirittura coincidono. Mi pare chiaro che stiamo parlando di
gestione di violenza organizzata. Allora andiamo in ordine.»
«Ma in questo modo, zio santo, anche lo Stato è un gestore di
violenza!»
«Certo! Il più importante! Lo stai scoprendo ora? Principe, è mai
esistito uno Stato che, per evitare furti e assassini, ha previsto nelle
sanzioni penali i fulmini dell'Inferno? Persino la nostra Santa Madre Chiesa,
incaricata da S.E. San Pietro di gestire il potere temporale, pur avendo la
disponibilità delle fiamme eterne, è sempre ricorsa sulla terra alla loro
rappresentazione in anteprima o, attraverso una robusta corda attorno al collo,
all’innalzamento dei trasgressori verso il cielo! Non ti pare? E ora continua!»
«Dobbiamo distinguere due periodi: prima e dopo il 1812. Sino al
1812 i gestori di violenza potevano essere così elencati: bande di briganti,
bande temporanee di ladri, l'autorità costituita e i campieri. Dopo il 1812
dobbiamo aggiungere, a quelli già citati, le Compagnie d'Armi.»
«I compagni d'armi chi erano?»
«Se non ne ha mai sentito parlare devo per forza fare una
premessa.»
«Non è che non ne ho sentito parlare! Preferisco che sia tu,
testimone diretto, a parlarmene. Continua.»
«Il 1812 fu l'anno dell'abolizione dei diritti feudali. Sino ad
allora la gestione della giustizia era stata, in buona parte, in mano al
signore feudale. Attenzione non tutta la giustizia: il signore feudale aveva il
potere di giudicare le cause civili…»
«Il mero imperio, no?»
«Esatto! E alcuni tipi di cause criminali: il misto imperio. Io,
per sovrana investitura, nel 1779 avevo ottenuto la concessione del mero e
misto imperio con l'alta giurisdizione sui territori acquistati. Dovevo
anche gestire l'ordine e la sicurezza pubblica. Ma ciò non costituì mai un
grosso problema. Potevo contare sulla polizia di Stato, avevo degli ottimi
campieri e poi i territori circostanti appartenevano all'Arcivescovo di
Monreale che, nel settore, era molto ben organizzato: aveva dei validissimi
capitani d'armi, possedeva un carcere a Monreale, chiamato i dammusèddi,
dove venivano rinchiusi i condannati che non andavano in crociera, ed anche una
attrezzata sala di tortura: il locus tormentorum.»
«Come in crociera!?», .
«Sino ai primi anni del 1600 buona parte dei condannati veniva
avviata ad remigandum in triremibus papalibus, a remare nelle navi del
Papa: era un modo d'accummiràri in attesa che inventassero il motore
Diesel. Poi l'Arcivescovo si accorse che era più conveniente avviarli al lavoro
nei feudi a conduzione diretta, i feghi nobili, e così, dopo diversi
anni di contenzioso col Papa, riusciva nel suo scopo. Di notte li teneva nei dammusèddi
e di giorno li faceva svagare all'aria aperta a fare giardinaggio.»
«L'Arcivescovo utilizzava una sala di tortura? Principe, ma stai
dicendo vero?»
«Come sto dicendo vero! Guardi che è stata utilizzata per secoli!
Io non ci sono mai andato perché mi faceva senso per non dire ch'era uno schifìo.
Guardi quanti verbali, attraverso Internet, ho trovato dal 1400 sino alla
soppressione della sala! Sono centinaia e centinaia. E poi l'Arcivescovo di
Monreale rivestiva contemporaneamente la carica di vescovo e signore feudale:
non capisco il perché della sua meraviglia!»
«Vedi qui in Paradiso non se n'è saputo mai nulla. Parla
sottovoce. Dimmi, come funzionava?»
«E' opportuno innanzitutto precisare che, nel settore,
l'Arcivescovado si teneva aggiornato sui più moderni ritrovati della tecnica.
Era da secoli abbonato al mensile spagnolo, a tiratura internazionale, "Tormentum
summaque voluptas" e, nella edizione italiana, "Il tormento e
l'estasi". Bisogna pure rilevare che il torturando, chiamiamolo anche
l'atleta, godeva di precise garanzie.»
«Quali?»
«Innanzitutto le prove da superare avevano una durata ben
determinata e il tempo relativo era misurato attraverso un'ampollecta,
una clessidra. Poi l'atleta era continuamente tenuto sotto controllo dal cirurgico,
un medico che accertava se era in grado di affrontare ciascuna prova. Il tutto
veniva verbalizzato in una forma così pillicùsa da non capire se gli
estensori erano reclutati tra i pignoli oppure tra i sadici.»
«E le prove?»
«Non erano molte ma erano molto efficaci.»
«Ad esempio?»
«La prova del cavallectum. L'atleta, posizionato su un
cavalletto, era sollecitato con prove che oggi formano oggetto della scienza
delle costruzioni: trazione, flessione e torsione. La prova di taglio non
veniva praticata perché, per legge, l'atleta doveva uscire intero dalla sala:
vivo o morto importava poco, ma intero. Naturalmente la prova di flessione era
all'indietro!»
«Poi?»
«La prova a sùccaro. Il torturando, con le mani legate
dietro la schiena, veniva risucchiato verso il cielo cum funiculis,
robuste corde che ruotando attorno ad currulam, una carrucola legata al
tetto, gli consentiva di rinforzare i muscoli pettorali.»
«Ce n'erano altre?»
«Degna di nota era un'altra prova che costituiva la specialità
della sala: la prova a tocca e nun tocca. Roba da brevetto! Era identica
alla precedente ma più funzionale. Gli specialisti si erano accorti che gli
atleti, stando sollevati in alto, spesso riuscivano a raggiungere uno stato di
equilibrio che consentiva loro di far trascorrere il tempo. La soluzione
all'inconveniente consisteva nell'innalzare l'atleta ad un'altezza tale da
fargli sfiorare, con le punte dei piedi, il pavimento. L'atleta allora tentava
di poggiare i piedi e, quando credeva di essersi appoggiato, veniva dato un
colpetto alla fune che, ruotando attorno alla carrucola, lo sollevava di una
decina di centimetri dal suolo. Subito dopo veniva rimesso nella posizione
precedente per ricominciare. Ecco a tocca e nun tocca. Questa instabilità
d'equilibrio determinava continue oscillazioni che gli rinforzavano ulteriormente
i muscoli pettorali ed anche quelli addominali.»
«Accennavi anche ai verbali…»
«Legga qui, zio! In uno solo di essi[44],
al momento di questa prova, sono riportate trentasei volte le seguenti
espressioni: "Et monitus ut dicat veritatem dixit[45]:
Nenti sàcciu! Et monitus ut dicat veritatem dixit: Nostra Donna della
Mendula! Calàtimi! Calàtimi!"»
«Mainchia!!!»
«Prego?»
«Mainchia!!!»
«Scusi che significa?»
«Minchia con la prima sillaba pronunziata in americano!»
«E si può dire in Paradiso?»
«Certo che si può dire! I padri della Chiesa, sant'Agostino e san
Tommaso in testa, hanno impiegato oltre un secolo per dimostrare al Padreterno
la funzione catartica dell'esclamazione sicula ormai divenuta internazionale.
Il Padreterno, riconosciuto l'errore, non poteva di punto in bianco rimangiarsi
millenni di repressione: per cui, in alternativa al pensare sottopensiero, si
era ricorso a questo escamotage. Più comodo no?»
«Mainchia!!!»
L'ordine pubblico sul territorio
«Allora, rimettiamoci sul binario. Come andava la gestione
dell'ordine pubblico?»
«Diciamo discretamente bene. Attenzione zio! Ladri, briganti e malacunnùtta
non è che ne mancavano! C'erano sempre stati, continuavano ad esserci e, senza
volere rubare il mestiere al nostro Eccellentissimo Padreterno, sempre ci saranno!
Sarà stato perché eravamo presenti sul territorio, perché eravamo bene organizzati,
perché i processi si facevano in giornata, perché i cancelli del carcere di
Monreale erano a prova di fuga, perché non si facevano sconti di pena. Chi può
dirlo? Il fatto è che riuscivamo a tenere un minimo di ordine pubblico.»
«E dopo il 1812?»
«Aboliti i diritti feudali saltò di conseguenza l'intero apparato.
Noi avevamo perduto una serie di diritti ma anche il dovere di mantenere gli agenti
per la sicurezza. La gestione dell'ordine pubblico sul territorio veniva
trasferita direttamente allo Stato attraverso le forze di polizia.»
«E allora?»
«Si scatenò l'Inferno addumàtu zio santo! Erano periodi di
magra e lo Stato era venuto a trovarsi totalmente impreparato ad affrontare la
situazione: non aveva fondi sufficienti per mantenere le forze di polizia
necessarie. Scusi zio santo, in Paradiso stronzo si può dire?»
«Solo se riferito a re coglioni.»
«Quello stronzo dell'Invittissimo Ferdinando, scappato da Napoli per paura di
Napoleone e venuto in queste zone, sa cos'aveva fatto?»
«Dimmi!»
«Invece di utilizzare il denaro, ricavato dalla confisca dei beni
dei Gesuiti, per la costruzione di strade - così come stabilito dal Parlamento
Siciliano del 5 aprile 1778 - si era fatta costruire una sontuosa dimora di
caccia a qualche miglio da qui, a Ficuzza; oltre poi a dilapidare una montagna
di soldi nella Favorita di Palermo, nella Riserva Reale, nella Palazzina
Cinese, nel sontuoso ricevimento, il 20 agosto 1799, dell'ammiraglio Nelson di ritorno dalla vittoria navale su Napoleone
e così via. Certo, cose belle erano! Ma sarebbe stato più utile, per quanto ci
riguardava, costruire una strada carrabile da Palermo a San Giuseppe li Mortilli
e almeno una caserma.»
«Che successe allora?»
«Fu quello un periodo di sconvolgimento totale. All'improvviso ma
soprattutto senza alcun progetto veniva smantellato un sistema, quello feudale,
che era durato secoli. Pensi a quanta gente ha dovuto cambiare mestiere e,
soprattutto, quant'era la gente che non sapeva più che cosa fare. Ma ritengo
che non sia il caso di divagare. Il mantenimento dell'ordine pubblico sul
territorio di San Giuseppe li Mortilli avrebbe dovuto essere assicurato da due,
dico due, soli poliziotti che, in caso di necessità, avrebbero potuto chiedere
rinforzi a Palermo. Lei starà certamente immaginando cosa poteva succedere! Le
prime volte uno dei poliziotti era riuscito a partire. Ma quando, dopo alcuni
giorni, ritornava coi rinforzi, i delitti erano già stati consumati e
dimenticati. Poi i delinquenti trovarono più comodo impallinare il
poliziotto-messo all'andata, lungo la strada al passo della Scala della Targia,
nei pressi di Portella della Ginestra. Per farla breve non si trovarono più
poliziotti disposti a venire a San Giuseppe. Ed eravamo informati che la stessa
situazione era rilevabile in tutti i centri delle zone interne. Naturalmente
ladri e assassini, gente molto perspicace in situazioni del genere, si erano
già organizzati in associazioni di volontariato. Anch'io, in fatto di perspicacia,
non è che scherzavo! Per salvaguardare le mie proprietà, evitai di licenziare i
campieri.»
«E gli altri?»
«Tutti i proprietari di terreni che in passato avevano fatto
affidamento, per il mantenimento dell'ordine pubblico, sui miei campieri furono
costretti ad assumerne anche loro. Mi sembra opportuno, zio, sottolineare il
passaggio che segue. La mia, come quella di altri latifondisti, era una
vastissima proprietà. Economicamente potevo quindi permettermi un numero
discreto di campieri scegliendoli anche tra persone per bene: erano in molti e
costituivano un gruppo abbastanza temibile. Si metta nei panni di chi poteva
assumere solamente uno o al massimo due campieri. Se li avesse scelto tra
persone per bene, l'indomani rischiava di vederseli impallinati.»
«Capisco: al campiere in cerca di lavoro che non poteva vantare
almeno un omicidio conveniva cambiar mestiere! No?»
«Proprio così. Pensi che
anch'io, col tempo, fui costretto a sostituire dei padri di famiglia con alcuni
carni i pècura. Naturalmente, considerati gli individui, lei si rende
facilmente conto di come i campieri potevano arrotondare lo stipendio!»
«Certo. Minimo minimo rubando. Poi che succede?»
«La ciliegina. In una situazione di anarchia assoluta il Governo,
analizzate le cause, trova la soluzione. Per essere brevi immagini un bando del
genere:
Considerato che:
- abbiamo poche forze di polizia disponibili;
- nessuno dei disponibili è disponibile a risiedere nei centri
dell'interno;
- non hanno ancora inventato il telegrafo per venire a conoscenza,
in tempo reale, di fatti delittuosi;
- mancano le strade per un rapido spostamento dei contingenti di
polizia dalle città ai luoghi interessati da fenomeni di delinquenza;
Considerato inoltre che, per il mantenimento dell'ordine pubblico
sul territorio, occorrono individui:
- edotti sulla situazione e la conoscenza dei luoghi nonché ivi
residenti;
- in grado di maneggiare con destrezza le armi;
- in grado di mantenere l'ordine pubblico;
Avvertita l'esigenza di ristabilire l'autorità dello Stato sul
territorio.
E' indetto il pubblico appalto della sicurezza pubblica per
l'assunzione di personale da inquadrare nelle Compagnie d'Armi.
Non è richiesto alcun titolo né certificato penale.
Al personale è solo richiesta la conoscenza del territorio e la
capacità di sparare a vista a chiunque attenti alla sicurezza dello stesso.
N.B. - il
candidato deve essere munito, a proprie spese, di carabina e sufficienti
munizioni. Inoltre risponde personalmente di furti e danni.»
«Insomma come nel 1848 con il governo di Ruggero Settimo!»
«Questo non lo so.»
«A proposito di responsabilità per furti e danni la legge del
Parlamento Generale di Sicilia n. 132 del 7 agosto 1848 all'articolo 32
riportava che le Compagnie d'Armi
saranno responsabili dei furti, anche di abigeato e dei
guasti fatti nelle vie pubbliche e nelle campagne, comprese le case di
campagna, le masserie e simili per motivi di furto e di scrocco, come ancora
degli scrocchi col mezzo di sequestri di persone avvenute nelle vie pubbliche e
nelle campagne come sopra.
E poi gli articoli 33 e 34[46]
prevedevano il risarcimento del valore della refurtiva ai danneggiati da parte
dei compagni d'armi.»
«Esattamente la stessa cosa. Noti che la legge prevedeva solamente
furti, danni e sequestri non ammazzatìne.»
«E che successe?»
Mprìmisi-mprìmisi gli stipendi dei campieri arrivarono alle stelle! Inoltre il reclutamento
nelle Compagnie d'Armi, com'era da aspettarsi, avvenne tra ladri, banditi e
liberati dal carcere i quali, arruolandosi, acquistavano l'impunità di
precedenti misfatti e si preparavano a commetterne di nuovi: il tutto sotto copertura
legale. Campieri e compagni d'armi subito si ciaràru i mussi e, di comune
accordo, si misero al lavoro. Insomma ruberie e assassini non si contarono
più.»
«Ma i compagni d'armi non dovevano risarcire la refurtiva?»
«Certo! Eccome! E lei pensa che i compagni d'armi rinunziavano
allo stipendio per risarcire i derubati?»
«E come facevano?»
«Semplicissimo! Le Compagnie d'Armi in Sicilia erano 25 e ognuna
di loro era autonoma. Bastava andare a rubare la refurtiva da restituire nei
territori delle Compagnie d'Armi confinanti! No? Queste ultime, a loro volta,
effettuavano le eventuali operazioni di recupero nei territori limitrofi e così
a catìna e catinèdda. Ma lei crede che le catene di sant'Antonio siano
un'invenzione dei nostri giorni? Questo all'inizio. Poi si scoprì che era più
comodo risolvere il problema alla radice. Siccome per restituire la refurtiva
occorreva la denunzia allora, contemporaneamente o subito dopo il furto, si
ammazzava il derubato. Tanto, dei morti sul territorio non rispondevano i
compagni d'armi!»
«Scusa perché contemporaneamente o subito dopo?»
«Se il furto era commesso dal compagno d’armi, lo stesso procedeva
contemporaneamente all'ammazzatìna del derubato. Se invece il ladro era
qualcun altro allora subito dopo era sempre il compagno d'armi ad assassinare
il derubato per evitare che andasse a fare la denunzia.»
I galantuomini: l'alba dei mafiusi
«Consentimi una domanda: in quei periodi hai mai sentito parlare
di mafia?»
«Assolutamente no.»
«E neppure di galantuomini?»
«Di galantuomini sì.»
«Che tipi erano?»
«Vede zio, i galantuomini, chiamati anche gentiluomini,
erano individui un po' particolari. In genere erano persone del ceto medio che
ostentavano, in maniera molto appariscente, la maniera di vestire e il
portamento improntato ad una eccessiva galanteria. Erano di poche parole e si
notava, nel modo di esprimersi, la sicurezza di se mista a un pizzico di
spacconeria. Gentilissimi con chiunque, costituivano una sorta di clan che
soleva incontrarsi nella chiazza, la piazza, oppure nello zagàto,
una specie di emporio nel corso principale, dove era anche possibile giocare al
bigliardo. Far parte della loro cerchia non presupponeva l'appartenenza ad un
precisa classe sociale. Chiunque poteva entrare nel gruppo a condizione che
possedesse precise qualità: rispetto della parola data, silenzio assoluto sui
fatti interni al clan, avere uno spiccato senso dell'onore, difesa di chi non
era in grado di difendersi, essere coraggiosi e non avere paura di nessuno.»
«E non mi sai dire altro?»
«Inoltre i galantuomini erano molto interessati a quanto succedeva
in paese e non avvenivano fatti salienti dove non si sentissero coinvolti. Nei
moti del Luglio 1820 i galantuomini di San Giuseppe furono, in buona parte, in
prima linea[47].
Quest'ultimo loro interesse, in verità, destava una certa preoccupazione.
L'estrazione borghese di alcuni di loro obbligava le menti dei nobili a sintonizzarsi
su quanto accaduto in Francia un paio di decenni prima. Non so se, al loro
interno, fossero organizzati in gerarchie; so solamente che il capo
riconosciuto era una delle vittime del maggiorasco: il barone don Antonino
Perez.»
«Che tipo era?»
«Aveva il titolo di barone ma di proprietà poteva possedere, sì e
no, 10-15 salme di terra. Poi aveva alcuni terreni in gabella.»
«Era quindi un gabelloto!»
«Attenzione zio! Il termine è stato usato a volte in modo
improprio. Gabelloto era chiunque aveva qualcosa, non solamente terreno, in
gabella, in affitto. C'era ad esempio il gabelloto del mulino, il gabelloto
dello zagato. A proposito: il barone Perez, in società con alcuni galantuomini, era
gabelloto dello zagàto, quella specie di emporio di cui parlavo prima,
chiamato anche privativa perché venivano venduti generi di monopolio.»
«Non sai dirmi altro del Perez e dei suoi galantuomini?»
«Vede, non si sa cosa succedesse al loro interno proprio perché
non parlavano mai dei fatti loro. Possiamo aiutarci con il sac. Tommaso Aiello.»
«Chi era?»
«Era il Vicario Foraneo, l'Arciprete, di San Giuseppe li Mortilli.
Ho consultato alcune carte presso l'Archivio Storico Diocesano di Monreale. Tra
il 1819 e il 1854, quasi ogni giorno, scriveva una lettera all'Arcivescovo di
Monreale riportando, per filo e per segno, quanto accadeva nella gestione della
sua Parrocchia.»
«E relativamente al barone Perez?»
«L'Arciprete era stato minacciato dal Perez e dai suoi
galantuomini.»
«Per quale motivo?»
«Tenga presente che attorno alla metà degli anni '20 a San
Giuseppe c'erano 14 sacerdoti officianti. I preti don Vito e don Vincenzo Romano, fratelli nonché noti malacunnutta[48]
- don Vito nel 1825 era stato pure arrestato per rissa e tentato omicidio - si
erano appropriati dell'intera eredità del padre lasciando sul lastrico la
sorella nubile. E l'avevano pure buttata fuori di casa! La sorella aveva
trovato ricovero in casa del sac. Michele Costanza il quale, nell'ambito della sua missione
spirituale e sociale, tentava di condurre alla ragione i fratelli della
sventurata. I Romano allora, presa la palla al balzo, giustificavano la propria
azione tirando in ballo problemi di corna: la sorella, sostenevano, se la
faceva col sac. Costanza. Cosa da non escludere considerato il comportamento
generale dei preti che, all'epoca, erano come gli dei dell'Olimpo: avevano i
pregi ma anche tutti i vizi e i difetti degli uomini. Il vicario foraneo
Tommaso Aiello, la massima autorità ecclesiastica in
paese, in ottimi rapporti coi Romano, prendeva strenuamente le difese di questi
ultimi. Interveniva a questo punto in difesa della Romano il sac. don Girolamo
Licari: un prete un po' particolare che andava direttamente
a testa 'e l'acqua, dal capo, il sac. Aiello, a minacciarlo.»
«E che tipo era il sac. Licari?»
«Il sac. Costanza, in una lettera indirizzata
all'Arcivescovo di Monreale nel 1824[49],
lo aveva così descritto:
per il prete Licari posso dire essere altiero e bizzarro
nel vestire di corto portando la pantalona ogni giorno.
L'arciprete don Tommaso
Aiello aveva scritto di lui:
il prete don Girolamo Licari passa quasi sempre il tempo al bigliardo, e nelle feste
del Santo Natale questo che dice di essere povero, tenne banco di bassetta in
detto bigliardo, e poi in casa sua con lagnanze della famiglia, e finalmente
coll'unione con alcuni gentiluomini sempre manovra a minacciarmi, come fece
ieri in sagrestia, sebbene io non ho che temere per la grazia di Dio.
Tenga presente che quelle erano epoche in cui con grazia di Dio
veniva in genere indicata una buona carrubbìna stuccata - un fucile a
canne mozze! Lamentava ancora l'Aiello il 23.5.1836:
questo rev. Girolamo Licari poi vantando la protezione del barone don Antonino Perez, ch'è la rovina di questa comune, mi fece sapere oggi per
mezzo dei suoi allegati galantuomini, che mi deve fare stancare.
Insomma per risolvere il problema della derelitta Romano erano
intervenuti, ricorrendo a minacce, il Perez con i suoi galantuomini.»
«Il fatto sembrerebbe rientrare nella difesa dei deboli nel codice
dei galantuomini! No? E che ne fu del barone Perez?»
«Morì suicida[50]
nel novembre del 1836 alcuni mesi dopo aver contratto matrimonio. Credo sia
anche opportuno precisare che negli anni '30 il Perez con i suoi galantuomini
riusciva a conquistare l'Amministrazione Comunale.»
Compagni d'armi, campieri e galantuomini
«Torniamo alle Compagnie d'Armi e ai campieri.»
«La situazione nel territorio poteva così sintetizzarsi: nobili e
ricchissimi proprietari non avevamo problemi perché ben difesi dai campieri a
loro volta in combutta con i compagni d'armi. Medi, piccoli proprietari nonché
il basso popolo, quindi diciamo la quasi totalità degli abitanti, era alla
mercé di compagni d'armi e campieri oltre agli immancabili ladri e briganti.»
«Che succede a questo punto?»
«Entrano in azione i galantuomini. A chi non sapeva come
difendersi, ma soprattutto vendicarsi di torti subiti, era sufficiente
rivolgersi a loro per vedere soddisfatte le proprie aspettative. Per altro i
galantuomini, operando di nascosto, tacendo e potendo contare sul silenzio di
tutti, avevano buone possibilità di farla franca. Figurarsi cosa diventano i galantuomini
per la gente! I nuovi Robin Hood! I difensori dei diritti dei deboli contro i
forti e i violenti! I mègghiu, i migliori! Er più, come dicono a
Roma!»
«Fermati qui. Io credo che i galantuomini, o meglio il ceto che
rappresentavano, abbiano fatto questo ragionamento: “noi siamo dei medi
proprietari; dobbiamo difenderci da ladri, briganti, campieri e compagni
d'armi, insomma da tutti; non esiste uno Stato che ci difende, anzi, ci sono
piovuti addosso pure i compagni d'armi; difendersi singolarmente è un suicidio;
se uniamo le nostre forze siamo in pochi; per essere in molti, possiamo cercare
proseliti tra i nostri compagni di sventura: il popolo; perché il popolo sia
dalla nostra parte dobbiamo difenderlo dalle angherie di compagni d'armi,
campieri, ladri e briganti. Dobbiamo inoltre, considerata la totale assenza
dello Stato, garantire al popolo una parvenza di giustizia nei normali rapporti
sociali: dal matrimonio alle corna, dalla vendita del mulo ai contrasti sui
confini.” Ed ecco, Principe, come nascono i maffiusi!» [51]
«Forse vuole dire i galantuomini!»
«No! No! Voglio dire proprio i maffiusi! Scusa che
significava ai tuoi tempi maffiusu?»
«Era un aggettivo equivalente a bello, molto bello.
Si diceva, ad esempio: cavaddu maffiusu, frutta maffiusa, fimmina
maffiusa, stoviglie maffiusi ad indicare una cosa bella nel suo
genere.»
«E secondo te è così improbabile che la gente abbia qualificato il
galantuomo, così come da te descritto, con l'aggettivo maffiusu, bello?
Tieni pure presente che i galantuomini, tra loro, non hanno mai usato maffiusu
e neppure maffia. Sono stati gli altri a chiamarli maffiusi. Tra
loro hanno usato termini quali galantomu, omu d'onuri,
picciottu oppure, ad esempio, Onorata Società, Cosa Nostra ma
non mafia o maffia. Comunque più in là cercherò di spiegarti
l'etimologia del termine.»
«Scusi, zio santo, lei sta dicendo che galantuomini e mafiosi
erano la stessa cosa; ma la mafia non era una società segreta?»
«Scusami tu. I galantuomini costituivano una società segreta?»
«No!»
«Come fai a dirlo?»
«Ma perché… che so!…ad esempio: per il solo fatto che si vestivano
in un certo modo si vedeva a cento miglia che erano dei galantuomini!»
«Guarda! Leggi assieme a me. Gli arrestati sono rivoluzionari del
1848:
La mattina di buon ora[52]
– racconta molti anni dopo il Di Giorgi che era fra gli arrestati – un domestico che ci aveva accompagnato da
Mazara ci fece arrivare un gran vassoio di fichidindia che non assaggiammo
neppure: s’aveva altro per la testa!
Poco dopo ci si presentò un bell’uomo, alto e robusto,
vestito accuratamente, con un berretto rosso fiammante alla sgherra e un gran
fiocco scarlatto che gli scendeva sulla spalla. L’abito e il portamento lo
rivelavano per un mafiuso.
Si levò il berretto: Bacio le mani. Sono venuto a
prendere i loro ordini, che cosa comandano? Tutta la camerata è a loro
disposizione.
Mentre lo ringraziavamo per la sua gentilezza, venne il
carceriere per rinchiuderci in celle separate.
Il mafiuso non ci lasciò prendere i nostri mantelli:
Vadano pure giù; ora i picciotti porteranno a posto i cappotti e il piatto
di fichidindia. Lo pregammo di distribuire quel po’ di frutta ai suoi. No,
signori – ci rispose – i picciotti li ringraziano cordialmente del
gentile pensiero, ma essi non toccano la roba dei galantuomini. Curò che ci
venissero portate le nostre cose e, quando fu tutto a posto, si licenziò
dicendo: Io mi chiamo Catalanotta, se hanno bisogno di me mi facciano avvertire, e tutto
quello che desiderano sarà fatto.
Credi che se i mafiosi fossero stati organizzati in una società
segreta l'avrebbero manifestato all'urbi e all'orbu, ai quattro venti,
attraverso il modo di vestire? Nota poi la terminologia utilizzata: gli altri
indicano il Catalanotta con l'accezione mafiuso, mentre il
Catalanotta utilizza termini quali galantuomini e picciotti. Per
rafforzare quanto detto possiamo fare riferimento alla descrizione del mafiuso
fatta dal francese Gaston Vuillier attorno ai primi anni del 1890[53]»
Un giovane palermitano m'accompagnava qualche volta al
mercato. Io gli toccavo il gomito quando vedevo dei tipi che mi colpivano. Questo
non è un Napoletano - mi disse egli un giorno. Difatti non aveva nulla del
Siciliano. Questo è il vero mafioso.
Era un tipo di uomo arzillo, magro, baldanzoso, il mento
raso, i capelli arricciati sulle tempie e una berretta rossa a righe turchine
posata sulle ventitrè. Un fazzoletto a vari colori era negligentemente annotato
attorno al suo collo; una sciarpa rossa gli serrava la vita sopra il gilè. La
giacchetta, era corta e stretta; i calzoni, inverosimili; serrati ai fianchi,
aderenti fino ai ginocchi, andavano poi allargandosi e scendevano a campana sul
piede che rimaneva quasi tutto nascosto.
-Il vostro mafioso -
dissi - mi ha tutta l'aria di un sacripante; non vorrei incontrarlo in un
posto solitario.
-Ebbene, v'ingannate. Il vero mafioso - e questo ne è uno -
non è un traditore, né un assassino, tutt'altro; provocherà un avversario, ma
non si batterà con un uomo disarmato. Egli è imbevuto degli strani sentimenti
cavallereschi della sua classe; non ucciderà mai un nemico a tradimento e tanto
meno lo deruberà. È un essere assai curioso: ama vincere le difficoltà,
sormontare gli ostacoli, e cerca gli amori violenti e tragici. Allorché, stanco
di avventure, questo don Giovanni si decide a prender moglie, bisogna che la
rapisca: il matrimonio tranquillo gli sembra insipido. Una bella sera, al
rumore delle fucilate, che spaventano tutto il paese, una casta fanciulla viene
portata via entro una carrozza che parte al galoppo. Egli è insomma un
avventuriere di cappa e spada; un eroe da romanzo, che continua in pieno secolo
XIX le gesta dei moschettieri di Alessandro Dumas. Le galere lo aspettano, ma
non possono guarirlo, poiché egli ha la passione delle avventure cavalleresche,
in disaccordo con le leggi.
Ascoltando queste spiegazioni pensavo che le tradizioni
cavalleresche celebrate dalle carrette, dai teatri popolari e dai cantastorie,
mantengono e fortificano simili stati d'animo. Questa brava gente vive come nel
medio evo, si comporta alla guisa dei paladini, mestiere pericoloso in una
società che livella tutti i temperamenti e distrugge ogni individualità, ogni
iniziativa.
I medi proprietari ovvero la borghesia
nascente all'assalto dei latifondi
«Torniamo al punto precedente perché la discussione comincia a
farsi interessante. Secondo me dobbiamo cominciare col dividere i galantuomini
in due gruppi: da una parte i medi proprietari, e dall’altra quelli che
comunemente vengono indicati come i picciotti. I medi proprietari, sanno
cosa vogliono: in parte salvaguardare la proprietà e…»
«Sì ma questa esigenza ce l'hanno anche i nobili!»
«Alt! Fermiamoci un momento e facciamo una parentesi. Vediamo per
sommi capi qual è la situazione in questo territorio anteriormente al 1848;
altrimenti rischiamo di non capirci. Ci siete i grossissimi proprietari, che
poi siete quasi tutti nobili: tu i Forcella, gli Amari, i Restivo, i Duchi di Gualtieri, i Battifora, i Manzone, gli Arrighetti ecc. possessori di interi feudi di
migliaia e migliaia di salme; diciamo del territorio quasi per intero. Poi c'è
un salto spaventoso. Ci sono i medi, sarebbe più logico chiamarli piccoli,
proprietari. Dove per medi proprietari intendiamo i possessori, al massimo, di
20-25 salme di terra. Il medio proprietario con tale estensione di terra,
lavorando, vive in maniera accettabile e riesce anche a mandare i figli a
scuola a Palermo. La stragrande maggioranza della gente è costituita da
nullatenenti e proprietari di qualche tumulo di terra. Principe che faceva il
medio proprietario per incrementare il proprio capitale?»
«Non saprei!»
«Come non saprei!? Pensaci bene!»
«Ah! Sì! Ecco! Prendeva in gabella qualche estensione di terreno
nei feudi appartenenti ai nobili.»
«Bene. In tal modo incrementa il proprio capitale ma non riesce ad
incrementare la sua proprietà immobiliare, circondato com'è da latifondi per
lui inavvicinabili. Vero è che la legge sul fedecommesso era stata abolita nel
1818 ma è pur vero che in un ambiente conservatore quale quello della nobiltà
siciliana, ce ne sarebbe voluto di tempo per rendere i latifondi alienabili o
frazionabili! Non solo. Anche nei casi di vendita, a volte forzosa per accumulo
di debiti, per il medio proprietario i prezzi d'acquisto risultano proibitivi.
Pensa alle vendite di alcuni feudi attorno al 1850. Il Fegotto e la Chiusa
vengono acquistati dai Ferrara Ferrante, gente ricchissima venuta da Piana.
Oppure allo smembramento parziale, attorno al 1842, dei feudi Pietralunga e
Arcivocale di circa 3300 ettari. Chi acquista o eredita? Nobili e altra gente
ricchissima che non abita a San Giuseppe. Pensa ai Forcella. Entrare in un giro del genere presuppone
o grandi capitali oppure qualche matrimonio: i grandi capitali mancano,
figurarsi poi parlare di matrimonio con i nobili!»
«Ma dove vuole arrivare zio santo?»
«Anche se difficile, mettiti nei panni del medio proprietario. Ha
un certo grado di cultura e se non ce l'ha lui ce l'hanno i figli che vanno a
scuola; si rende conto di essere circondato da una moltitudine fondamentalmente
ignorante, o meglio analfabeta; vive in uno Stato caratterizzato da notevole
precarietà; non ha grossi problemi economici ma vuole espandersi. Che fa?»
«Non riesco a venirle dietro!»
«Cerca di seguire il ragionamento. A questo punto, con la
costituzione di un gruppo di difesa dai campieri e dai compagni d’armi, dispone
di una discreta forza contrattuale. Che fa?»
«Ho perso il filo!»
«Vediamo di riprenderlo! Ti dicevo che i galantuomini o mafiusi
bisogna distinguerli in due categorie: i medi proprietari e tutti gli altri più
medi di lui. I medi proprietari sanno cosa vogliono: ingrandirsi e, perché no?
Anche arricchirsi. E' umano, no? Gli altri non sanno cosa vogliono. Allora
bisogna spiegarglielo. Non gli si può dire, di punto in bianco "Ragazzi
mettiamoci assieme perché noi abbiamo intenzione di arricchirci!" Ne
sarebbe venuta fuori una normale banda di ladri o di briganti. Bisogna invece
inculcargli che cosa loro devono volere: tenere all'onore anche a costo del
sangue, tenere alla parola data nell'ambito dei galantuomini, rispettare la
gerarchia, non mettere mai in discussione gli ordini dei capi e così di
seguito.»
«Un’operazione di indottrinamento!»
«Sì! Una vera e propria operazione di lavaggio del cervello! La
solidarietà poi tra i mafiusi consente ai meno abbienti tra loro di
poter contare su una forma di mutua garanzia economica: cosa particolarmente
importante in una società contadina soggetta all'aleatorietà delle annate
agrarie. Infine per rendere il tutto più sacro e misterioso, ma soprattutto
indiscutibile, si ricorre all'immaginetta sacra bruciata tra le mani, alla punciuta.
Pensa alla famosa frase di rito: "le tue carni bruceranno
come questa santa se tradirai Cosa Nostra!!!" pronunziata con aria
truce e tre punti esclamativi. E cu parra cchiù?! Ed ecco che il gioco è
fatto. Non pensare che abbiano scoperto la carta vetrata liscia! Chiunque, per
crearsi o mantenere una qualsiasi forma di potere, è sempre ricorso a questi
mezzi. La riuscita o meno è sempre dipesa dal livello culturale della gente. Ma
qui, in quelle epoche e non solo, d'ignoranza ce n'era a tinchitè. Ti
rendi conto che in tal modo riescono a disporre di una discreta forza
contrattuale?»
«Ma che potevano fare?»
«No che potevano fare. Che hanno fatto! Sono accerchiati dai
latifondi. Sanno che potrebbero farli produrre in maniera egregia. Guarda che
queste terre sono particolarmente fertili! Non solo. Ma guarda che quella era
gente che ci sapeva fare!»
«Sì. Questo lo so.»
«Tu hai detto che gli abitanti nel 1792 erano circa 900 e 4095 nel
1831: un incremento di oltre il 300% nel breve volgere di 39 anni! Se tieni
conto che nel febbraio 1838, il mese antecedente la frana, a San Giuseppe li
Mortilli si contano 5 morti di cui 4 bambini, nascono 19 bambini e si celebrano
12 matrimoni ti rendi conto che quelli erano, per l'epoca, numeri da Terra
Promessa. Poi leggi cosa scrive il Giornale Officiale di Sicilia del 21 aprile
1838, in occasione della frana del marzo precedente, a proposito di una grande
città come Palermo:
Le fabbriche di due terze parti del Comune erano sepolte
nelle viscere della terra, ed eransi quindi perduti magazzini interi di olio,
di vino, di frumenti. Questa Capitale stessa dèe risentirne le conseguenze!
Tieni inoltre presente che nel volgere di pochissimo tempo, oltre
a ricostruire l'intero centro crollato, edificavano il limitrofo San Cipirello
che già nel 1848 (appena 10 anni dopo!) veniva dichiarato Comune indipendente
dal Governo di Ruggero Settimo. Ma non perdiamo il filo. I galantuomini
sanno di non potere accedere ai latifondi. Secondo te che fanno?»
«Ma secondo me si rendono conto che solo attraverso uno
sconvolgimento generale e un sconquasso del sistema possono crearsi nuove
possibilità.»
Mafiusi, rivolte e rivoluzioni: 1820, 1848, 1860,
1866
«Bravo! Ed ecco i galantuomini o mafiusi, con al seguito i
fidati picciotti, partecipare a tutte le rivolte e rivoluzioni
dell'epoca. Non dimenticare poi che dalla loro parte c'è anche il popolo per il
quale la partecipazione a rivolte e rivoluzioni ha sempre avuto due soli
presupposti: star male e trovare qualcuno in grado di indicargli contro chi
scagliarsi. Figurarsi! Il primo presupposto era endemico, del secondo se ne
stavano occupando loro. Trovi allora i galantuomini con i loro picciotti
nei moti del luglio 1820. Li ritrovi nella rivoluzione del 1848 con Ruggero
Settimo. Poi con Garibaldi nel 1860. E assieme a tutti gli altri
nella rivolta del sette e mezzo a Palermo nel 1866.»
«E con chi erano nel 1866 e chi comandava?»
«Ho detto assieme a tutti gli altri intendendo dire a tutti quelli
che parteciparono. Ma allora non comandò nessuno. Quella rivolta stranamente fu
contemporaneamente acefala e multiteste. In ogni caso in tutte e quattro le
occasioni, per le finalità proposte, non erano riusciti a raggiungere alcun
risultato tranne qualche raro arricchimento in occasione delle rivoluzioni.»
«Come mai?»
«Nel 1820 erano troppo isolati. Sì! C'erano anche i collegamenti
con i rivoluzionari di Napoli; in tutti i centri dell'isola si conosceva la
data di sollevazione ma mancava una direzione strategica unitaria.»
«E l'arcivescovo Balsamo?»
«Sì! In verità su questo territorio sembrava che, attraverso
l'Arcivescovo di Monreale, vi fosse una parvenza di organizzazione. Alla fine
però era andato tutto sottosopra. Pensa che l'arcivescovo Benedetto Balsamo, uno sfegatato borbonico, presiedeva la
giunta rivoluzionaria provvisoria a Monreale! Perché, si diceva, aveva un buon
precedente:
"…era stato eletto nel 1812 quale rappresentante del
popolo messinese nel Parlamento Siciliano che doveva chiedere l'indipendenza
della Sicilia ai Borboni. Poi, fallita la rivoluzione del 1820, lo stesso
arcivescovo Balsamo era stato messo a presiedere la giunta di scrutinio per gli
ecclesiastici, che doveva condannare e reprimere le idee rivoluzionarie
antiborboniche nell'ambito del clero"[54].
Vacci a capire!»
«E nel 1848?»
«Nel 1848 sembrava essere andata meglio.
Stavolta questo territorio poteva contare sull'organizzatissimo Turi Miceli di Monreale: una via di mezzo tra un brigante
e un galantuomo; un tipo molto narcisista con delle agguerritissime squadre di picciotti
che lo adoravano. Era un comandante sui generis ma era quanto di meglio
potesse offrire la piazza. Il 12 gennaio 1848 insorgeva Palermo contro i
Borboni. Il 13 i mafiusi dell'area del monrealese al seguito di Turi
Miceli e quelli del bagherese con Scordato raggiungevano la capitale a dare manforte
agli insorti. Il 14 gennaio il Regio Palazzo veniva assalito da 50 di San Giuseppe
li Mortilli sotto il comando di Francesco Mannino[55]
e da un altro gruppo, di cui non si conosce il numero, comandato da Niccola
Miccichè[56].
Il gruppo di Mannino si univa poi a quello di Turi Miceli. La storia dei mafiusi
di questo territorio sino al 1866 sarà strettamente legata a quella del
mafioso-brigante monrealese nominato colonnello. Ruggero Settimo, a governo
costituito, lo aveva nominato comandante dello squadrone campestre della
sezione occidentale dell'isola, alle dirette dipendenze del Ministero
dell'Interno
per gli importanti servizi prestati alla Patria per
la causa della rivoluzione, mantenendo il grado, gli onori e gli averi di
colonnello.»
«E perché nel '48 i galantuomini non riescono a far nulla?»
«I motivi sono tanti ma limitiamoci a quello che più interessa la
nostra analisi nelle sue linee generali: alla rivoluzione del '48 partecipano
gruppi di diversa estrazione e i mafiosi con i loro picciotti sono uno
di questi. Alla fine chi prende in mano le redini della situazione è il ceto
nobiliare ossia quel ceto contro cui erano indirizzati i galantuomini. Ma era
successo pure nel 1812 anche se i galantuomini, come gruppo, quasi certamente
non c'erano.»
«E nel 1860?»
«Tu credi che Garibaldi solamente con i famosi Mille sarebbe mai
riuscito ad arrivare in Sicilia? Sì e no sarebbe potuto sbarcare a Marettimo:
per far provvista d'acqua e, senza sbagliare rotta, ritornare da dove era
venuto! Anche stavolta sono tanti i gruppi che partecipano all'epopea: dai
nobili agli intellettuali al ceto meno abbiente. Quest'ultimo sempre presente
nella fase iniziale ossia quando è necessario dare ma soprattutto prendere
legnate: poi scompare. Ci sono pure i galantuomini con i loro picciotti
per i quali Garibaldi poteva costituire un buon investimento: tra i tanti
dispensatori di promesse era stato l'unico ad impegnarsi sulla quotizzazione
delle terre demaniali. E quello, per i galantuomini, poteva essere un buon
inizio. Gli jatini sono assieme a don Turi Miceli. Una nota di colore: l'unico caduto di
San Cipirello è un tizio forte e bello del quale nelle commemorazioni ufficiali
si ricorda il suo ardente amore per l'Italia, il suo altruismo nelle battaglie,
il suo desiderio di combattere per creare un futuro migliore ai propri figli e
ai compagni di gioco dei propri figli. E' stato sempre commemorato come UNO di
San Cipirello. Di lui si conoscono le idee e le aspirazioni ma nessuno ha mai
saputo il nome e neppure il cognome. Si sa solamente che è caduto per l'Italia
nell'attacco di Lenzitti alle porte di Palermo.»
«E come andò a finire?»
«Andò a finire come al solito. Vero è che ogni gruppo aveva
partecipato con motivazioni diverse; alla fine però padroni del campo erano rimasti
coloro che lo erano sempre stati: quelli le di cui terre i mafiosi galantuomini
avevano cercato di appropriarsi, a cominciare dal sindaco di Palermo il nobile
marchese Di Rudinì. Le conseguenze della rivoluzione del
1860 si videro subito dopo nel 1866.»
«Che successe nel 1866?»
«Garibaldi parlava di rivoluzione tradita. Mazzini pure. Agli ecclesiastici avevano
confiscato quasi tutto. Ad alcuni - in verità pochi - nobili borbonici era fallito
il matrimonio coi sabaudi. Il generale Giovanni Corrao dell'esercito regio, garibaldino di ferro
e forse mafioso, aveva abbandonato il servizio militare proclamando la sua fede
repubblicana e, il 3 agosto 1863, subiva il proprio assassinio ad opera, si
diceva, delle forze di polizia. Giuseppe Badia, luogotenente di Corrao e anch’egli
garibaldino di ferro, era stato rinchiuso all'Ucciardone assieme a molti altri
del Partito d'Azione di Mazzini e Garibaldi. Molte associazioni artigiane del
circondario di Palermo erano in subbuglio. Per la gente, con l'avvento dei
piemontesi, nella secolare stasi dell'isola era finalmente cambiato qualcosa:
prima si stava male ora ancora peggio, con l'aggravante della leva obbligatoria.
I mafiosi non parlavano di tradimenti ma capivano che le loro finalità erano
state totalmente disattese. Tutti assieme, ma solo nel palermitano, decidevano
a quel punto di assicutare i piemontesi prima da Palermo poi dall'intera
Sicilia ed eventualmente anche da tutta l'Italia!»
«E come andava?»
«L'unico a cui era stato affidato un preciso incarico era il
mafioso don Turi Miceli comandante di tutte le squadre dell'area
monrealese: doveva liberare il Badia - per dare un prestigioso capo alla
rivolta - e i 2500 rinchiusi nel carcere dell'Ucciardone. Tra il 16 e il 23
settembre a mezzogiorno, in sette giorni e mezzo, distruggevano la casa del
marchese Di Rudinì e di Francesco Perroni-Paladini, capo della fazione moderata del partito
d'azione nemico dichiarato di Giuseppe Badia, distruggevano caserme dei carabinieri e
della polizia, assaltavano depositi, alcuni forti e l'Ucciardone. Il sindaco
marchese Di Rudinì a capo di 150 guardie municipali armate
tentava, assieme alle truppe regolari, la difesa dell'autorità dello Stato. Era
però costretto a subire l'assedio all'interno del Palazzo Reale. Per il suo
coraggio e le sue virtù ma soprattutto per la sua dimostrata fedeltà allo Stato
sabaudo veniva poi nominato Prefetto di Palermo, poi di Napoli, poi Ministro
degli Interni e infine Presidente del Consiglio. Lo Stato, un po' spaventato,
inviava il generale Cadorna con 50000 uomini. L'Arcivescovo di
Monreale, Benedetto D'Acquisto, veniva arrestato. Il mafioso Miceli non
riusciva a liberare il Badia; i suoi picciotti, a centinaia, si facevano
massacrare davanti al carcere dell'Ucciardone. Scrive[57]
un testimone oculare di aver visto il Miceli con le gambe spezzate dalla
mitraglia e aggiungendo:
"Io lo vidi condotto allo Spedale in mezzo ai
disperati suoi compagni, spirare l'anima fra tormenti inauditi senza muovere un
lamento."
Forse non si saprà mai quel che successe in quei giorni e
immediatamente dopo perché gli atti dei tribunali militari non sono stati mai
trovati. Pensa che il Crispi, buon intenditore in fatto di
repressioni, ebbe a protestare per il comportamento dell'esercito regio. Forse
non si saprà mai quanti furono i caduti, pardon i morti. Qui, caro Principe,
per i mafiosi si chiude la prima fase e se ne apre un'altra.»
«Come ti è sembrata la carne di crasto?»
«Piccante!»
«A me non è sembrato!»
«Ma che ha capito zio? Forse non ha sentito che l'ho detto in
corsivo: piccante da picca, poco!»
«Ordiniamo il piatto successivo?»
«Sì! Come si fa a chiamare l'angelo-cameriera?»
«In linguaggio internazionale, così: psssss, psssss!»
«Prego! Desiderano il secondo?»
«Sì!» - rispose il Principe - «Come secondo mi porti un primo: un
assaggio di maccarrùna cu sucu e uno di pasta 'a milanìsa.»
«Anche a me.» - disse il santo. Poi continuò:
Dal 1866 al 1912. I Fasci Siciliani
«Ora, Principe, occorre una breve pausa per fare alcune
considerazioni su questa prima fase. Vediamo che idea ti sei fatta.»
«Allora. Al periodo iniziale, quello della reazione alle Compagnie
d'Armi e ai campieri per intenderci, corrisponde la figura del mafioso superman,
difensore dei deboli e così via: ciò sembra rispondere esattamente alla
definizione del Pitrè.»
«Ma anche a quella del Traina che nel suo Vocabolario
Siciliano-Italiano del 1868 riporta, grosso modo, la stessa definizione del
Pitrè. Interessante risulta il fatto che il Traina definisce il termine mafia
un neologismo. Sì perché il termine in precedenza non esisteva. Esistevano
coloro che venivano chiamati mafiusi ma l'organizzazione non era
chiamata mafia. Comunque ci pensava Vincenzo Mortillaro a chiarire l'apparente
anomalia. Scriveva nel suo Vocabolario Siciliano-Italiano del 1876: Mafia
= voce piemontese introdotta nel resto d’Italia ch’equivale a camorra. Ma
non perdiamoci in questi aspetti folcloristici. Continua!»
«Il medio proprietario diventa mafioso inizialmente per difendersi
e, immediatamente dopo per appropriarsi, con le buone o con le cattive,
dell'unica grande ricchezza presente sul territorio: il latifondo.»
«Bene! Potremmo anche, d'ora in poi, utilizzare il termine arricchimento.
Continua!»
«Il mafioso è uno dei vari gestori di violenza organizzata sul
territorio.»
«E il rapporto con gli altri gestori di violenza?»
«Non so!»
«Continuo io. Il mafioso ha acquisito una notevole esperienza. Ha
scoperto che, invece di andare allo scontro diretto, è meglio unirsi agli altri
gestori di violenza: ladri, campieri, briganti e così via. Tanto alla fine
prevarrà chi ha più cervello. Cioè lui. Inoltre si è reso conto che in altre
zone della Sicilia la situazione è molto simile a quella del suo territorio. E
allora perché scannarsi l'un con l'altro? Meglio accordarsi. Ognuno opera nel
suo territorio con un sorta di tacito patto di mutuo soccorso. Insomma diventa
per così dire un primus inter pares.»
«Solo questo?»
«Si rende conto di aver commesso un solo errore. Col principale
gestore di violenza sul territorio, lo Stato, invece di accordarsi è andato
sempre allo scontro diretto. Ma non poteva fare altrimenti: non aveva alcun
potere contrattuale tranne quello dei suoi picciotti che era ben poca
cosa. Dopo la debacle del 1866 si accorge che è necessario cambiare
strategia. Continua a non avere potere contrattuale ma si rende conto che è
meglio attendere tempi migliori. Lo scontro diretto non paga! Bisogna fare una
marcia di avvicinamento allo Stato.»
«E poi?»
«Naturalmente, Principe, non pensare che essere medio proprietario
significasse automaticamente essere un mafioso: c'erano tanti medi proprietari
che non lo erano. Però stai certo che il mafioso di quest'epoca è un medio
proprietario. E poi per medi proprietari non dobbiamo intendere solo i
possessori di terre: sono la maggior parte, questo è vero; ma dobbiamo
includere anche esercenti professioni, commercianti: gente insomma non
ricchissima ma neppure povera. Per una quarantina d'anni si ha una sorta di
stasi. Se evitiamo di cadere nel luogo comune di mettere assieme ladri,
briganti, campieri e mafiosi ti accorgerai che questi ultimi li trovi sempre
sul territorio ma non più in prima linea: preferiscono prepararsi per essere
pronti ad esplodere al momento opportuno. Se ci sarà un momento opportuno.»
«E cosa fanno?»
«Nell'attesa tentano altre vie per giungere all'arricchimento.
Mandano i figli a studiare fuori dall'isola: a Milano, a Roma, a Padova. Questo
è il periodo in cui a San Giuseppe e San Cipirello nascono importanti
personaggi - oltre ai noti Riccobono, i D'Alia o i Caronia - nel mondo delle
professioni. Altro fatto da sottolineare è l'organizzazione interna della
famiglia del galantuomo. Se il nobile per mantenere intatto il potere era
ricorso al maggiorascato, il medio proprietario, stavolta per crearsi il
potere, ricorre ad un altro metodo abbastanza valido. Ciascun figlio del medio
proprietario è avviato ad una precisa professione: uno bada alla campagna, uno
fa il medico, un altro il prete, un altro ancora l'avvocato. Questo tipo di
organizzazione sarà importante come vedremo nella fase successiva.»
«E che cosa avviene in questo periodo?»
«Si assiste ad un notevole incremento della produzione soprattutto
vinicola sino all'avvento della fillossera che distruggerà, come in tutta la
Sicilia, la totalità dei vigneti. E’ il periodo dei grandi produttori e
commercianti: il tuo discendente Paolo Beccadelli, i Micciché in società con gli
Hohenzollern ecc. In meno di dieci anni, con
l'introduzione del ceppo americano, i vigneti qui risulteranno per 2/3
ricostituiti. Nascono diversi mulini, non più ad acqua, all'interno del centro
abitato. Importantissimi i Molini e Pastifici Virga a San Cipirello.»
«E la politica?»
«Tu sai che si votava per censo?»
«Sì! Avevano diritto al voto alcune categorie di persone:
professionisti, impiegati e i proprietari che superavano una soglia minima di
ricchezza.»
«Diciamo che l'elettorato attivo, in maggioranza, era costituito
da medi proprietari. A San Giuseppe Jato nel 1865 avevano diritto al voto 44
persone e 79 nel 1875. Le due amministrazioni comunali erano in mano alla
classe dei medi proprietari: nobili non ce n'erano - tranne voi che però
avevate la residenza a Palermo e a Napoli - e il popolino non votava per
mancanza di censo. Guarda un po' quant'erano diventati cittadini, o meglio
amministratori, modello quelli di San Cipirello nel 1875!»
«Che avevano fatto?»
«L'Amministrazione Comunale chiedeva l'apertura di una caserma[58]
anche a San Cipirello! Capisci? Una caserma per mantenere l'ordine pubblico!
Tutto perché avevano tentato di uccidere un medio proprietario Andrea Leone dopo una richiesta in denaro di lire 8000
e per il quale veniva richiesto un riconoscimento onorifico da parte del
Governo[59].»
«E in questo periodo non c'era un uso della violenza in politica?»
«Certo! I contrasti per la gestione dell'Amministrazione Comunale
non mancavano. Come, ad esempio, quando il 20 agosto 1880 in ex feudo
Giambascio veniva assassinato proditoriamente il notaro Rosario Micciché, cognato di Mannino Giuseppe e uno dei capocci del partito avverso, al
quale facevano capo molti altri parenti[60].
Ma si trattava allora di scaramucce. Era un modo come un altro per tenersi
allenati!»
«Poi che succede?»
«Si arriva agli anni 1893-94, ai Fasci Siciliani. San Giuseppe
Jato e San Cipirello fanno parte dell'area di influenza di Nicolò Barbato e Bernardino Verro le cui campagne ideologiche fanno una
certa presa sui contadini del luogo. Al Fascio di San Giuseppe, inaugurato il 7
maggio 1893, aderiscono in appena due mesi in 1050; a quello di San Cipirello
in 500. Se consideri che San Giuseppe Jato contava nel 1891 esattamente 7000
abitanti e che 1050 famiglie corrispondono a circa 4200 abitanti, ti rendi
conto che gli iscritti erano troppi per poterne giustificare il numero con
l'assimilazione del verbo di Barbato in così poco tempo.»
«E perché allora?»
«Chiaramente la fillossera aveva fatto troppi danni e la soluzione
nell'immediato veniva cercata in un diverso rapporto coi latifondisti.
Iscriversi ai Fasci, poteva far sperare nell'assegnazione di qualche lotto di
terreno ed evitare l'imbarco per l'America. Ma parlando di latifondi ai
galantuomini si risvegliavano sempre sopiti desideri e, in parte, aderivano ai
Fasci. Essere presenti è sempre stato importante: per costruire o distruggere.
A seconda di che aria spira.
Nelle[61]
campagne di San Giuseppe, nelle notti della seconda metà di maggio e in quella
del 3 giugno erano stati recisi a diversi proprietari molti alberi da frutta e
diversi arbusti fruttiferi, oltre a 20.000 piante di viti per l'approssimativo
valore di lire 4.000. Rifacendosi ad altri danneggiamenti il questore faceva
risalire a 30.000 il numero 'delle piante vegetali del maggior prodotto di
quelle contrade'.
Come vedi, per i vigneti, non era stata
sufficiente la fillossera!»
«Mi scusi! Lei sta asserendo che c'erano anche mafiosi iscritti ai
Fasci Siciliani?»
«Certo! Tieni presente che almeno sino al 1910 mafiosi e
socialisti a San Cipirello in diverse occasioni si trovano dallo stesso lato
della barricata[62]. Sono mafiosi
e socialisti a conquistare l'Amministrazione Comunale nei primi del 1900 e trasferire[63]
la data della festa patronale dell'Immacolata dall'8 al 20 settembre: una data
particolarmente triste per la Chiesa. D'altro canto, in quell'epoca, il latifondista
continua ad essere nemico dell'uno e dell'altro. Il mafioso non è ancora
entrato in concorrenza con le associazioni di contadini. Poi tieni pure
presente che, ad esempio, i dirigenti dei Fasci di San Giuseppe Jato, Pulejo e Prestigiacomo, non sono socialisti ma monarchici. Si
dimetteranno successivamente dai Fasci con la motivazione che
il socialismo predicato dal Barbato, non corrispondeva, anzi contrastava con i loro principi monarchici.[64]
E poi, per citare il caso forse più eclatante, dirigente del
Fascio di Bisacquino non è forse il noto boss mafioso don Vito Cascio Ferro[65]
accusato, nel 1909, di avere assassinato o fatto assassinare il tenente
Petrosino?»
«E relativamente ai primi anni del 1900?»
«Quelli degli inizi del 1900 possono essere definiti, per il
nostro tema, gli anni della quiete in attesa della tempesta. Come nel resto
della Sicilia sono i cattolici a caratterizzare le più rilevanti forme
economiche associative: sono gli anni di Sturzo e Murri. Nascono la Cooperativa Pio X, la Cassa
Rurale Leone XIII, la Cooperativa Agricola Maria SS. della Provvidenza,
'La Jatina' – Società di assicurazione contro i danni dei vitigni, 'La
Luce' - Società Anonima Cooperativa di Assicurazione, che si affiancano
alla preesistente Colonia Agricola 'Boccone del Povero'. Nasce anche,
strano a dirsi in raffronto ai nostri giorni, un periodico mensile: 'Il
risveglio'. Una descrizione della situazione di San Giuseppe Jato, attorno
al 1906, è quella riportata dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulle
condizioni dei contadini in Sicilia pubblicata nel 1910[66].”
«E la mafia in questo periodo?»
«Vorrei farti notare che in tale inchiesta per San Giuseppe Jato
non è riportato il termine mafia. Al contrario, ad esempio, di Partinico
definito Comune di malaria e di mafia. Possiamo chiudere quella che possiamo
definire la seconda fase della mafia riferendoci agli anni 1912-14.»
«Principe, che prendiamo per contorno?»
«Per me una bella insalata di cardedda. Pensi lei all'ordinazione
mentre io vado in bagno. A proposito zio: dov'è il W.C.?»
«In quella nuvoletta a destra.»
1912-1925. Nascita della mafia moderna
«Vediamo di fotografare la situazione negli anni immediatamente
anteriori allo scoppio della Prima Guerra Mondiale. Su questo territorio
operano le agguerrite cooperative agricole cattoliche che, sotto la guida del
sac. don Giulio Virga, erano nate con l'esclusivo scopo di
prendere in gabella i latifondi da assegnare ai propri soci; in concorrenza
quindi con i medi proprietari. Sono presenti la Lega Socialista di Nicolò
Barbato e la Camera del Lavoro impegnate con la
stessa finalità. Operano i medi proprietari che, oltre ad avere incrementato i
propri capitali, sono in possesso di un notevole potenziale umano nel campo
delle professioni. Gli anni 1912-13 sono inoltre quelli dell'allargamento del
suffragio elettorale a tutti i cittadini maschi del Regno. San Giuseppe Jato
passa dai 79 elettori del 1875 a 2779. I medi proprietari riescono a
conquistare l'Amministrazione Comunale di San Giuseppe Jato con Antonino Pulejo, Ninu 'u latru. Da sottolineare
che in tale occasione un coriaceo oppositore eletto in Consiglio Comunale, il
farmacista dott. Nicolò Belli, viene, all'atto dell'insediamento,
minacciato e subito dopo dichiarato ineleggibile dal Consiglio Comunale. La
delibera di Consiglio a sua volta è bocciata dal Prefetto. Alla riunione
successiva il Consiglio, malgrado la determinazione del Prefetto, dichiara
nuovamente ineleggibile il Belli. E così per la terza volta[67].
Fortuna per il Belli che nel frattempo era scoppiata la Prima Guerra Mondiale!
Partito per il fronte perlomeno tornò vivo! Avrebbe avuto buone possibilità di
far la fine del capo dell'opposizione Salvatore Mineo assassinato nel 1920!»
«E poi dicono che le guerre non servono!»
«A questo punto le cooperative cattoliche, con la Cassa Rurale Leone
XIII, tentano un connubio con la Camera del Lavoro e la Lega dei
Socialisti. Entrano allora nella Cassa Rurale Leone XIII i galantuomini[68]
attraverso l'opera dell'Arciprete Natale Migliore, del sac. Giuseppe Finocchio e del sac. Patellaro: questi ultimi nemici giurati non solo
dei socialisti ma di tutti coloro che, nelle cooperative cattoliche, tentano di
prendere in gabella i latifondi del circondario facendo concorrenza ai
galantuomini. Scrive il sac. Finocchio il 27 Luglio 1914 all'Arcivescovo di
Monreale:
Con la legge del suffragio, si risvegliarono anche qui come
da per tutto le ire di parte, sorsero nuovi Circoli, il paese divenne un vero
campo di battaglia; accuse, anonimi, querele, processi, scioglimento di
Consiglio, minacce e previsioni di mali sempre maggiori per l'avvenire.
Ormai, per consolidata tradizione, rientrava nelle mansioni dei
galantuomini dirimere le questioni all'interno della collettività.»
«E lo Stato?»
«E cu era!? Ci pensano infatti due galantuomini,
l'Arciprete Natale Migliore e il sac. don Pippino Finocchio, a tentare di accurdari la
faccenda:
L'Arciprete ed io allora coadiuvati da persone degnissime,
pensammo di potere ottenere una pacificazione generale con l'accordo di tutti i
partiti. Ci mettemmo all'opera, si ottenne una tregua. Ogni Circolo, ogni
Partito nominò un rappresentante, io ebbi il mandato dalla maggioranza (N.d.A.:
Rappresentata dai galantuomini in quel periodo). Furono tenute molte
riunioni, ebbero luogo lunghissime discussioni, uniti tutti nel desiderio della
pace, discordi sempre nella conclusione e la pace cotanto desiderata non poté
stabilirsi.
Il pericolo più grave non è però costituito dalla conquista
dell'amministrazione comunale. E' l'unificazione tra le cooperative agricole
locali che preoccupa: in una tale malaugurata ipotesi chi mai, tra gli amici
galantuomini, avrebbe più potuto prendere in gabella i vicini latifondi?
Si era anco tentato ed era per concludersi un connubio
abbastanza ibrido tra i soci della Cassa Rurale Leone XIII ed il Circolo dei
Socialisti i quali a loro volta s'erano uniti alla Camera del Lavoro, di cui è
presidente il signor Nicolò Giambrone, accusatore.
E’ necessario a tutti i costi rompere questa probabile unione:
avrebbe potuto essere pericolosa per la salvezza delle anime dell'amato popolo
di San Giuseppe Jato e San Cipirello.
Poiché questi nostri Socialisti sono sempre in continua
relazione con quelli di Piana, diretti dal noto socialista intransigente Nicolò
Barbato, e hanno la figura di Marx nella loro sede e sono guidati
da alcuni dalle idee un po' spinte in Religione, mi opposi energicamente e
l'insano connubio non avvenne, perché non potea, né dovea avvenire.
Ciò riuscì ostico ai dirigenti dei circoli interessati e
particolarmente al signor Giambrone.
Il primo maggio Nicolò Barbato, invitato dal Circolo
Socialista alleato alla Camera di Lavoro, veniva in paese a scopo di propaganda
elettorale, ma realmente non fu che una propaganda di Socialismo.
Questi era il sac. Finocchio. Ma forse, caro Principe, trattandosi
di documenti inediti, vale la pena riportare la lettera[69]
dell'Arciprete don Natale Migliore all'Arcivescovo di Monreale. Si arriva
così alla fine del 1916. Importante, Principe, risulta a questo punto una
lettera inviata a Giolitti[70]
dal tuo discendente senatore Pietro Paolo Beccadelli Acton. Scrive il 30
novembre 1916:
Oltre la metà delle terre sono rimaste incolte e da noi
miseria e sommossa e rivoluzione sono sinonimi.
Aggiungi che vi è già una immensa recrudescenza di abigeato
e di delitti nelle campagne. Queste sono scorazzate da molte migliaia, da 20 a
30 mila, di disertori i quali per ora domandano pane e domani saranno
organizzate in bande armate: il brigantaggio classico dei peggiori tempi.»
«E che succede a San Giuseppe Jato e San Cipirello?»
«Attenzione Principe ai passaggi che seguono perché sono molto
importanti: siamo alla nascita della mafia moderna. Nel periodo bellico ai galantuomini
sfugge di mano la situazione: non riescono a controllare la criminalità diffusa
sul territorio in conseguenza sia delle difficoltà oggettive dovute alla guerra
sia appunto del gran numero di disertori sul territorio. Ci vanno di mezzo gli
stessi galantuomini soggetti a subire l'opera nefasta della criminalità
organizzata in bande. Poi l'evento che fa precipitare tutto.»
«Quale?»
«Alla fine della guerra si
sparge voce che i latifondi dovranno essere quotizzati ed assegnati agli ex
combattenti. A San Giuseppe Jato si costituisce la cooperativa di ex
combattenti Giosuè Borsi con oltre duecento famiglie sotto la direzione
del sac. don Giulio Virga. I latifondisti a quel punto decidono:
VENDERE I LATIFONDI!»
«Finalmente!»
«Dopo tanto tempo, finalmente! Per i galantuomini E' IL MOMENTO!!!
Ma come si fa? Dove sono i capitali necessari? Sì, c'è una certa disponibilità
finanziaria ma non a tale livello! Ed allora, con una operazione da manuale
(del crimine), nello scorrere di pochissimi anni i galantuomini riescono a
diventare proprietari di buona parte dei latifondi del territorio! Alla fine
degli anni '20 una grossa fetta dei vecchi e nobili latifondisti risulta stesa
e le loro distese di terreno vanno in mano a quella classe che da quasi un
secolo lottava per appropriarsene.»
«Anche noi risultiamo stesi?»
«Anche voi.»[71]
«Ma proprio tutti i latifondisti?»
«No. C'è qualcuno che si salva: ad esempio il cavaliere Di Lorenzo proprietario del feudo Disisa.»
«Come mai?»
«Era deputato al Parlamento.»
«Scusi ma il mio discendente Pietro Paolo Beccadelli Acton non era anche lui parlamentare?»
«Sì. Però ha avuto la sventura di cogghirisilla nell'aprile
del 1918 proprio nel momento in cui la sua opera sarebbe stata più necessaria.»
«E l'operazione da manuale?»
«Vedi Principe, per spiegarti l'operazione devi ascoltare una
vecchia storia che, all'epoca, veniva narrata attorno ai bracieri nelle sere
particolarmente fredde di San Giuseppe Jato e San Cipirello. Si cunta e
s'arriccunta che, immediatamente dopo la prima guerra mondiale, in questo
territorio c'erano diverse bande di delinquenti che facevano un mare di danno:
rubavano dalla mattina alla sera e ammazzavano senza rispetto né per Dio e
neppure per gli uomini. Attenzione! Per qualsiasi tipo di uomini: anche per
quelli che oltre ad essere uomini erano anche galantuomini. I galantuomini o
mafiosi o medi proprietari, chiamali come ti pare, un bel giorno riunitisi
avevano pensato di risolvere il problema. Ognuno, giustamente, aveva detto la
sua: c'era chi proponeva di ammazzarli tutti in una mattina, chi a uno a uno,
chi due alla volta, chi a tre a tre e così via. Naturalmente lungi da loro
l'idea di andare a denunziare ai carabinieri i danni subiti! Anche perché, si
diceva, non avrebbero concluso nulla perché lo Stato, come al solito, risultava
essere in ferie. Alla fine, dopo lunga e meditata discussione - considerato che
i delinquenti da ammazzare con qualsiasi sistema erano troppi - avevano deciso
di utilizzare un metodo già testato nei tempi passati.»
«Quale?»
«I galantuomini, vedi, erano convinti che l'Impero Romano fosse
caduto per quella antica mania di seguire sempre il noto motto divide et
impera, dividi e comanda. Guarda che i romani la testaccia dura avevano! E
cavolo! Ogni tanto bisognava cambiare! I galantuomini ritenevano invece che il
motto junge et impera ossia iunci e cumanna, od anche junciti
e cumanna, era più sicuro se non altro perché meno inflazionato! Da dentro,
insomma, si poteva controllare meglio. Fu così che loro, che erano
galantuomini, per il bene delle proprietà e delle famiglie decisero di
sacrificarsi.»
«Come?»
«Per prima cosa unendo tutte le bande di delinquenti e poi
unendosi a loro. Fu così che ciascuna famiglia di galantuomini di San Giuseppe
Jato e San Cipirello fu costretta a mettere un soldato all'interno di questo
tipo di associazione. Naturalmente poiché l'idea dell'unificazione era stata
loro, fu chiaro che all'interno dell'associazione vennero a trovarsi in
posizione preminente. Fin qui la storiella. Come tu ben sai ogni leggenda ha
sempre un suo fondo di verità: se tu infatti leggi l'elenco degli associati a
delinquere fatti arrestare dal prefetto Mori noterai che ce n'è uno per
famiglia appartenente all'altro elenco dei divenuti ricchi proprietari
maffiosi. Elenco, quest'ultimo, prodotto dai responsabili della cooperativa Pio
X e dai sindacati agricoli fascisti di San Giuseppe Jato e San Cipirello[72].»
«Insomma lei sta affermando che ciascuna di queste famiglie venne
a trovarsi all'interno del proprio nucleo - oltre al medico, al prete,
all'avvocato, all'ingegnere - anche un componente associato a delinquere?»
«Proprio così. Ti rendi conto di che tipo di pericolosa miscela si
era creata: il braccio (della lupara) e le menti! Naturalmente una volta
trovatisi all'interno di un'associazione a delinquere non è che potevano stare
lì a recitare il rosario. C'era di mezzo la professionalità a cui loro
particolarmente tenevano. Quindi se c'era da ammazzare qualcuno non è che potevano
tirarsi indietro! Loro malgrado erano costretti ad ammazzare. E anche a rubare.
D'altro canto un associato a delinquere che non ruba perché fa l’associato!?
Non è che si poteva stare sempre ad ammazzare! Ogni tanto bisognava pure
riposarsi. E, come diceva Ludovico Antonio Muratori, molto spesso riposarsi è cambiar
fatica.»
«E loro cambiavano fatica rubando!»
«E così rubando rubando, nel senso lato del termine, messo da
parte con grossi sacrifici il gruzzoletto, avevano acquistato qualche
minuscolo, ma veramente piccolo sai, latifondo. Poi sai com'è? Dal minuscolo
furono costretti a passare al maiuscolo: insomma da cosa nasce cosa.
Naturalmente non è che i galantuomini passavano la vita solo a fare mal'affizi!
Guarda che lavoravano! E lavoravano sodo!»
«Come?»
«Mentre i delinquenti comuni dell'associazione passavano il tempo
solo a rubare e ammazzare loro invece si preoccupavano anche di prendere in
gabella i feudi che non erano in vendita o che ancora non potevano acquistare.
Di ciò si era pure accorto il Commissario di Pubblica Sicurezza Salvatore
Ferrara allorché dichiarava che l'associazione
imponeva taglie ai proprietari che non volevano subire
danneggiamenti continuati, assicurava con la prepotenza i feudi da coltivare ai
propri gregari più facoltosi[73].
E i più facoltosi erano i …»
«Galantuomini!»
«Bravo!»
«Ci sono però dei punti che mi sembrano poco chiari.»
«Ad esempio?»
«Non avevano paura di essere arrestati, di subire processi, di
venire condannati?»
«Certo che avevano paura! Ti pare che erano cretini quelli? Loro
all'inizio avevano paura di avere paura e allora si erano organizzati prima!»
«E come?»
«Per intanto tieni sempre presente che non lavoravano per se
stessi ma per le rispettive famiglie di appartenenza.»
«La famiglia! Allora sì che aveva un senso!»
«Delle famiglie facevano parte validi professionisti nei più
disparati settori che, un passo oggi e uno domani, avevano cominciato ad
introdursi nel mondo politico e della finanza. Scusa Principe: chi avrebbe
dovuto condannarli?»
«Lo Stato. No?»
«Esatto! Ma vedi, vero è che lo Stato siamo noi, i cittadini;
però, volendo tentare di emulare Orwell, ci sono cittadini che sono più noi
degli altri! E anche in questo caso i galantuomini avevano capito che bisognava
seguire il motto antiromano junge et impera!»
«E chi sono questi cittadini più noi degli altri?»
«I parlamentari. No? I rappresentanti del popolo. Essi per far
parte della ristretta cerchia di coloro che gestiscono lo Stato hanno bisogno
dei voti; e sin dal 1913 ormai votavano tutti i cittadini maschi. Per i
galantuomini i voti erano diventati un'ottima merce di scambio. Non solo. Anche
i parlamentari erano uomini e, come tutti gli uomini, avevano anche delle
necessità materiali che potevano essere soddisfatte col denaro. E i
galantuomini avevano capito che non era conveniente lesinarglielo.»
«E allora?»
«Ti rendi conto di che tipo di loop, di circolo, si era
creato? Il galantuomo rubava e investiva in loco. Il familiare del galantuomo
contattava, indicava come investire o investiva pure lui fuori territorio. Il
parlamentare salvava il galantuomo dalla galera e poi, quest'ultimo,
ricominciava. A rubare naturalmente! Ed erano tutti felici! Puoi così spiegarti
il traffico di deputati sul territorio: dall'on. V.E. Orlando all'on. Lo Monte all'on. Termini all'on. Zito all'on. Balsano all'on. Cucco e così via!»
«Ma non correvano proprio alcun pericolo?»
«Certo! Ogni tanto qualcuno si scontrava con i cuccidda i
chiummu. Ma, Dio mio, qualche rischio dovevano pur correrlo e poi se non
c'è un po' di suspence nella vita che prio c'è! Insomma a questo
punto venivano a coincidere le finalità di tutti i gestori di violenza sul
territorio e le conseguenze puoi facilmente immaginarle!»
«Ma sul territorio c'era tutta questa potenzialità in termini di
denaro?»
«Ascolta! Intanto tieni presente che non c'era attività economica dove
non fossero introdotti: rubavano dal mulo alla legna. Utilizzavano tutti i
sistemi conosciuti nella nobile arte della truffa: dall'emigrazione clandestina
all'amnistia per i disertori. Ma scusa non hai letto i documenti relativi alle
retate di Mori?»
«Sì!»
«Poi l'Amministrazione Comunale: pensa al 22.5% della tangente
sugli importi a base d’asta degli appalti. Percentuale che non risulta essere
stata mai superata! Ma relativamente al volume d'affari voglio farti un
brevissimo calcolo. Prendiamo il caso dei muli rubati e poi riscattati. Il mulo
nell'economia del territorio ha sempre rivestito un'importantissima funzione: è
sempre stato il principale mezzo di lavoro ed anche di trasporto se consideri
l’assenza di strade carrabili. Pensa che sino a qualche decennio fa, quando
moriva un mulo, tutti i parenti dello sfortunato proprietario si recavano a
fargli la visita di condoglianze!»
«Anche ai miei tempi era così.»
«All'epoca, la maggior parte della gente era dedita
all'agricoltura: c'erano famiglie che possedevano più di un mulo, a volte anche
3-5 o 7»
«Le cosiddette redine di muli.»
«Esatto! Supponiamo di assegnare in media un mulo a famiglia. Tra
San Giuseppe Jato e San Cipirello nel 1921 si contavano circa 15000 abitanti,
quindi circa 3750 famiglie ossia 3750 muli. Al valore di lire 3000 a mulo
costituivano un capitale di 3000*3750 = 11.250.000 lire. Quant'era il riscatto
richiesto?»
«Come risulta dai documenti era mediamente del 25 per cento.»
«Quindi il capitale di realizzo, a furti avvenuti, era allora di
lire 11.250.000*0.25 = 2.812.500»
«Vede zio, io ero abituato alle once, tarì, grani
e piccioli; ora capisco anche qualcosa con le lire attuali; ma allora…»
«Cercherò di fartelo capire. Ma attenzione perché un calcolo del
genere non è tanto ortodosso: può dare solo una vaga idea. Tra il 1914 e il
1926 il costo di una giornata lavorativa è variato tra 2.5 e 12 lire. Se
consideriamo l'anno 1920 possiamo porre un costo medio pari a lire 7.25.
Dividendo il capitale di realizzo per la giornata lavorativa otteniamo il
numero totale in giornate ossia 2.812.500/7.25 = 387.931. A questo punto il
conto puoi farlo come meglio ti pare: in once, in dollari, in lire per
qualsiasi epoca.»
«E in lire attuali?»
«Se consideriamo il costo di una giornata lavorativa pari a lire
100.000, otteniamo un gruzzoletto di 38.793.100.000 lire: quasi 39 miliardi. Se
inoltre tieni conto del fatto che non sempre era possibile riscattare il mulo e
che il 25% di riscatto costituiva il minimo, ti renderai conto della quantità
di denaro esentasse che potevano gestire.»
«E con tutti quei soldi che facevano?»
«Semplice! Li investivano: sul territorio e fuori territorio.
Prendi il caso del cav. Santino Termini. Attenzione! E' lui stesso a dichiararlo
al Giudice[74], non si
tratta della supposizione di un accusatore. Lui dichiara:
In società con altri ho fatto diversi affari acquistando e
rivendendo i terreni dell'ex feudo Pietralunga (proprietà Forcella) per 3 milioni, rivendendoli per circa 15 milioni,
rivendendoli a spezzoni.
Acquista per 3 milioni un feudo e, in pochissimo tempo, ne
guadagna 12. Se fai l'equivalenza come in precedenza ottieni 12.000.000/7.25 =
1.655.172 giornate lavorative che a lire 100.000 cadauna fanno circa 165
miliardi.
«Certamente da reinvestire!»
«Bisogna riconoscere che in questi casi la colpa è stata vostra.
La deformazione mentale, retaggio del maggiorascato, era tale che non
riuscivate a concepire la vendita dei latifondi a spezzoni. I galantuomini
invece l'avevano capito!»
«Non è che li compravano sotto prezzo?»
«Soprattutto! Ma stai attento alla proprietà del linguaggio: loro
non compravano sotto prezzo, se li facevano vendere.»
«E come facevano?»
«Principe! Ma queste domande da farsi sono? Comunque! Come facevano?
Ad esempio: sapevano che un feudo era forse in vendita e loro avevano
racimolato, dopo tanti sacrifici (umani), solamente 3 milioni. Allora,
possibilmente in compagnia di un prete, si presentavano dal latifondista e,
vangelo alla mano, gli ricordavano: Caro barone è più facile che un camìddu
riesca ad attraversare le canne di un fucile parato a lupàra piuttosto che un
ricco entri nel regno dei cieli! Bisogna diventare poveri, caro barone, per
salvarsi l'anima! E' necessario quindi sbarazzarsi delle proprietà! La nostra
associazione, senza fini di lucro, le offre un contributo a fondo perduto di
lire 3 milioni per evitare che vossìa possa ridursi a chiedere l'elemosina.
Il barone, sentendo parlare di lupara, non è che cercava di capire in quale
contesto era stato citato il termine! Assolutamente no! Sai che faceva? Si
metteva a tremare. Probabilmente la presenza del prete, con la stola e l'acqua
benedetta, lo metteva un po’ in agitazione. Però si persuadeva subito!»
«Io rimango sempre meravigliato del fatto che questa gente non
andava in galera!»
«Principe ma ti pare che siamo al tempo dei Borboni? Quando la
gente la dimenticavano in carcere? Ora è diverso! Anche ora qualcuno rischia il
carcere. Solo che ora ci sono maniere diverse per difendersi dai Giudici.
Prendi il caso del Termini cav. Santino, compare d'anello dell'on.
Alfredo Cucco: nel lontano 1926 risultava l'inventore
della cosiddetta difesa attraverso l'inconcepibile.»
«In che consisteva?»
«Il cav. Termini arricchitosi in brevissimo tempo e
incappato nelle retate del prefetto Mori con l'accusa di essere uno dei capi della
mafia dichiarava, a propria difesa, dinanzi al giudice Triolo:
Pertanto data la mia posizione economica non è concepibile
che io mi sia dedicato ai reati[75].
Una forma di difesa così logica e razionale da costituire
successivamente, a giudizio dei Giudici, la prova provata dell'innocenza del
Termini: tant'è che usciva dal carcere.»
«Questo allora. E oggi?»
«Poi si è innescato il cosiddetto effetto pecora: tutti a
seguire il criterio difensivo di don Santino. Pensa a quante volte sono state
ascoltate, dentro e fuori le aule dei Tribunali, frasi del tenore: Ma figurarsi!
Io che ero Ministro, io che ero Presidente del Consiglio, io con tutte le mie
televisioni oltre ai frigoriferi…se potevo…se avrei mai potuto abbassarmi…E'
inconcepibile! E bisogna convenire che tale tipo di difesa, inaugurato a
San Giuseppe Jato, ha retto benissimo la prova del tempo!»
«Mi scusi, costoro in diverse forme rubavano, truffavano e
ammazzavano ma, in questo periodo, qual era la differenza tra mafiosi e
briganti?»
«Un esempio chiarissimo. Nel 1925 il Sindaco di Gangi barone
Sgadari rifiutava un contributo dello Stato per
l'illuminazione pubblica perché gli associati a delinquere del luogo
preferivano che le strade restassero al buio. A San Giuseppe Jato una
bestialità del genere non l'avrebbero mai commessa!»
«Cosa avrebbero fatto?»
«Per prima cosa non avrebbero rinunziato al finanziamento. Poi si
sarebbero accaparrato l'appalto, si sarebbero spartite le tangenti e se l'opera
avesse ostacolato le proprie attività illecite non l'avrebbero mai fatta
ultimare.»
«Mi viene in mente la Palermo-Sciacca ultimata dopo trent'anni!»
«Pensa invece alla linea ferrata Palermo-Gibellina che avrebbe
dovuto passare per San Giuseppe Jato e San Cipirello.»
«Che successe?»
«A San Giuseppe Jato si parlava della Palermo-Gibellina almeno dal
1871. Cinquant'anni dopo, esattamente il 5 febbraio 1921, con delibera
dell'amministrazione Termini, veniva sollecitata la realizzazione
dell'importante arteria. Si iniziavano subito i lavori e, per anni e anni, ci
lavorò un'intera generazioni di individui. Era chiamata l'eterna incompiuta:
non fu infatti mai ultimata. Pensa che erano stati realizzati ponti, gallerie e
tutte le opere d'arte necessarie; mancavano solo le traversine e i binari. Il
Belli, poverino, nella sua storia sui comuni
jatini, aveva scritto nel 1934:
Da parecchi anni si attende l'esercizio della linea ferrata
a scartamento ridotto Palermo-Gibellina. Ci auguriamo che il Governo Nazionale,
con stile Fascista, ne affretti l'inaugurazione[76].
Non sappiamo se il Belli morì in stile fascista; sappiamo con
certezza che lui e i suoi discendenti morirono con questo augurio.»
«E come si moriva in stile fascista?»
«Non lo so con certezza. Probabilmente per eccessivo uso di olio
di ricino. I mafiosi, caro Principe, non è che sono stati mai contrari alla
realizzazione delle opere. Assolutamente no. Non hanno mai condiviso la loro
ultimazione: si sono infatti sempre adoperati per far durare nel tempo non
l'opera ma i lavori. Come vedi siamo in presenza di una concezione filosofica
totalmente diversa: i primi sono passati alla storia come briganti i secondi
come mafiosi. Ambedue i gruppi rubavano, ammazzavano e furono tutti arrestati
dal prefetto Mori. Mentre però in carcere i primi ci trascorsero il resto dei
loro giorni i secondi appena il tempo di entrare e già erano usciti. Sempre a
proposito di luce pensa al cav. Giuseppe Troia di San Giuseppe Jato.»
«Mi pare che negli anni '20 figurava nel Consiglio di Amministrazione
della Banca del Sud»
«Sì! E aveva anche l'appalto della fornitura di energia elettrica
a San Giuseppe Jato. Nel momento in cui la Chiesa, attraverso il direttore
della Cooperativa Pio X don Virga, decide di aprire il primo cinematografo[77],
il Troia non dice Questo cinematografo non s'ha da fare; dice invece Se
non mi fate entrare in società per la spartizione degli utili, io non vi do la
corrente! Tutto, come puoi notare, nel più assoluto rispetto del motto
antiromano junciti e cumanna.»
«Bene! Mi pare di avere capito abbastanza! Al punto in cui siamo,
zio santo, mi permette di riproporle la domanda iniziale?»
«E cioè?»
«Una definizione della mafia breve, precisa ed esaustiva?»
«Prima di passare alla definizione mi sembra opportuno, Principe,
leggere un altro passo del memoriale[78]
delle cooperative inviato al prefetto Mori che, credo, non necessiti di alcun
commento:
Aggiungasi che
l’esplicazione della mafia, nei tempi odierni è diventata ancora più nociva,
perché mentre negli anni prima della guerra si limitava a vessare e ad imporre
tributi, sia ai contadini che ai proprietari, ora avendo allargata la sua attività
criminosa nella conquista dei comuni e nell’acquisto di terreni, forzando tanto
la nobiltà che la ricca ed alta borghesia, detentrice della maggior parte dei
latifondi, a cederli a vile prezzo, la speranza dei contadini per avere o in
proprietà o in altro modo un pezzo di terreno, è del tutto preclusa. E per
conseguenza lo sfruttamento che prima esercitava il gabelloto, ora è esercitato
dal maffioso trasformato in proprietario e gabelloto.
Necessario appare, nell'economia della presente analisi, riportare
la definizione di mafia formulata dai giudici nell'ordinanza di rinvio[79]
del 1927:
"L'organizzazione in esame ha un carattere tutto
proprio: fonda il suo prestigio precipuamente sulla temibilità e sull'influenza
dei capi, estende, con mire prevalentemente economiche, la sua azione sui vari
campi dell'attività sociale e di ciò sono prova sicurissima i vari reati sopra
esaminati che indicano chiaramente la propria origine od il proprio riferimento
ad una organizzazione preesistente."
Come puoi notare già nel 1927 erano state formulate alcune
peculiarità della mafia sulle quali, con opinioni contrastanti, sono stati
versati fiumi d'inchiostro sino ai nostri giorni.»
«Ad esempio? »
«Ad esempio che la mafia, tra le tante organizzazioni criminali, ha
un carattere tutto proprio. E poi…fonda il suo prestigio precipuamente
sulla temibilità…ed… estende, con mire prevalentemente
economiche, la sua azione sui vari campi dell'attività sociale. Peccato che non abbiano esplicitato i
vari campi dell'attività sociale perché allora, attraverso i numerosi
elementi in loro possesso, avrebbero dovuto per forza citare la principale tra
le peculiarità della mafia."
«E cioè?"
«Il cordone ombelicale che lega mafia e potere politico."
«E perché non l'hanno fatto?"
«Bisogna innanzitutto considerare che nel 1927 è già trascorso un
quarto di tempo della cosiddetta era fascista. Come hai potuto
constatare, buona parte dei vari potentati economici, politici e criminali sono
ormai passati al partito del fascio. Il principale rappresentante del fascismo
in Sicilia, l'on. Alfredo Cucco, assieme all'intero direttorio, è incriminato
e diversi capi d'imputazione fanno riferimento proprio all'organizzazione
mafiosa di San Giuseppe Jato e San Cipirello. Parlare di legame tra politica e
mafia in un'aula di giustizia avrebbe sicuramente determinato l'accostamento
della mafia al partito unico. Con la promozione di Mori a senatore del regno non si fece altro
che liberare il campo di un ostacolo che avrebbe potuto compromettere
seriamente l'intero regime, se non altro per la delusione conseguente alle
grandi campagne di stampa inneggianti alla sconfitta della mafia. D'altro canto
sul comportamento, finalizzato a garantire il regime, dei collegi giudicanti è
illuminante l'atteggiamento dello stesso Mori[80]
in occasione dei primi proscioglimenti di Cucco:
"Mori, che ha ingoiato il rospo con rabbia, si affanna a dimostrare che tali
decisioni della magistratura sono state estorte grazie alle complicate alleanze
e alle forti protezioni di cui ancora dispone Alfredo Cucco. Egli indica anche i nomi dei magistrati che avrebbero favorito
l'imputato, sia suddividendo ad arte, in processi diversi, i reati di cui Cucco
avrebbe dovuto rispondere globalmente, sia influenzando direttamente la corte
giudicante. Non risparmia accuse neppure per gli uomini politici che
continuerebbero a proteggere l'ex camerata, e giunge ad indicare come deus
ex machina dell'intrigo il generale Antonino Di Giorgio."
La mafia è…
«Possiamo ora affermare, credo senza tema di smentita, che la
mafia è ed è stata una macchina per fare soldi!»
«E basta?»
«Hai ragione. Ho dimenticato di aggiungere: solo ed
esclusivamente.»
«E perché l'hanno chiamata mafia?»
«Un puro e semplice caso. Avrebbero potuto denominarla in
qualsiasi modo.»
«Ma allora tutto l'alone di mistero attorno ad essa? La mafia che
è sempre esistita! Le origini medievali!»
«Mainchiate!»
«Che so! L'omertà! L'onore!»
«Vedi Principe, l'omertà o omineità, nell'accezione del termine,
dovrebbe indicare l'essere uomini. Ora essere uomini significa tante cose che
non credo sia il caso di elencare. Per i galantuomini invece l'essere uomini,
tra i tanti significati possibili, ha solo quello più conveniente per loro: non
parlare e, per essere più precisi, non denunziare. Siamo ormai conosciuti in
campo internazionale come gente omertosa nel senso di gente che non parla. Ma,
e ti invito a riflettere, tu conosci in Italia gente più chiaccherona dei
Siciliani? Tu lo sai chi era il principe dei chiaccheroni?»
«No!»
«Te lo dico io. Era il cronista radiofonico Nicolò Carosio. E lo sai di dov'era?»
«No!»
«Era di Palermo. Ma a parte la battuta ti faccio notare che dalla
lettura degli atti relativi agli interrogatori nei processi del periodo Mori, ossia nel momento in cui la gente ha
pensato che ci fosse uno Stato rispettoso dei propri compiti, ti sarai accorto
che l'omertoso siciliano si è improvvisato cronista di tutto quanto era a sua
conoscenza. Inoltre quando ti ho detto che andavo a riposare, in realtà mi sono
avvalso della facoltà, che abbiamo solamente noi santi, di ricorrere a qualche
piccola bugia quando sono a fin di bene. Io non ho riposato ma, attraverso
Internet, mi sono collegato all'Archivio Storico Diocesano di Monreale e ho
letto nel fondo Carte Processuali Sciolte una buona parte dei processi civili e
criminali dal 1400 al 1800. Ebbene ti posso assicurare che allora l'omertà,
intesa come mancata denunzia di delitti, poteva tranquillamente essere
annoverata tra le idee dell'iperuranio platonico. Certo chi rubava una capra o
uccideva un suo simile non è che sotto interrogatorio parlava! Anche se poi,
portato in loco tormentorum, spesso ci ripensava. Però gli altri, quelli
che avevano assistito al delitto, si preoccupavano di raccontare tutto, per
filo e per segno, agli organi preposti! Pensa infine ai cosiddetti pentiti.
Omertosi erano. Ma nel momento in cui hanno iniziato a parlare non si sono
fermati più. Si sono scatenati. Si dice che alcuni giudici erano costretti, ogni
tanto, ad interromperli. In molti verbali di dichiarazioni si dice che non si
rileva la solita sigla D.R., a domanda risponde, per il semplice motivo che il
dichiarante non dava al giudice il tempo di fare la domanda.»
«Ma allora perché la gente non parla?»
«E secondo te per quale motivo?»
«Per paura?»
«Bravo! Vedo che vai facendo strada! Principe mettiti nei panni di
chi, in determinati periodi, dovrebbe denunziare un delitto: ha 90 probabilità
su cento che quanto riportato arrivi alle orecchie del denunziato il quale, in
casi del genere, va a trovarlo per congratularsi e dirgli "Bravo! Mi
compiaccio per il tuo senso civico! Sei veramente un cittadino modello!"
Pensa al ricorso dell'appaltatore Castagnaro presentato al Prefetto e
sequestrato, successivamente, in casa del denunziato Calogero Termini.[81]
Vedi Principe, il siciliano omertoso può diventare, cretino però non c'è mai
stato!»
«E sulle peculiarità della mafia?»
«L'informazione ad esempio. Per la mafia è fondamentale la conoscenza
di tutto quanto avviene sul territorio. Non pensare, Principe, che la mafia
tenda a risolvere tutto con l'assassinio. L'assassinio è sempre un fatto
traumatico; anche per la mafia, in quanto deve andare incontro a denunzie,
avvocati ecc. E gli avvocati costano! E, a volte, anche qualche Giudice! Come
vedi è sempre il denaro a determinare tutto. Dopo aver tentato tutte le vie
possibili il ricorso all'assassinio è l’extrema ratio per neutralizzare
l'avversario. Per evitare l'assassinio il migliore strumento è la prevenzione.
Per potere adoperare tale strumento con efficacia è necessaria l'informazione:
conoscere in anticipo. Volendo utilizzare la documentazione in nostro possesso
puoi così spiegarti quanto segue:
…Ferruggia, ex guardia municipale, circa sei anni prima era stato
licenziato per non essersi piegato ai voleri del Pulejo, «noto maffioso ed allora sindaco di San Giuseppe Jato».
Costui avrebbe preteso che il Ferruggia frequentasse gli uffici di Pubblica Sicurezza
e dei Carabinieri, allora esistenti in paese, al solo scopo di riferire al
Sindaco o chi per esso quanto in detti uffici avveniva. Il Ferruggia rifiutatosi
veniva licenziato dal Comune.
…Pur essendo a conoscenza di ciò, quando fui interrogato
dal Pretore, essendo la istruzione svoltasi nei locali del Municipio di San
Giuseppe Jato e vedendo la intimità del Santo Termini e del Pretore considerato anche che il Santo Termini entrava e usciva dalla stanza ove il Pretore interrogava credetti
opportuno di tacere quanto era a mia conoscenza perché il rivelarlo mi avrebbe
esposto alla vendetta del Santo Termini e della maffia.
…L'associazione a mezzo di una fitta rete di campieri,
sparsi nelle varie contrade, sorvegliava le mosse della polizia.
Penso che la situazione degli anni '20 risulti abbastanza chiara
dalla lettura degli atti riportati nel capitolo precedente. Possiamo passare a
considerare un altro elemento importante.»
«Quale?»
«L'organizzazione. Ciascuno affiliato ha un compito ben preciso.
C'è chi si occupa del furto dei muli, chi dei contatti col derubato per la
restituzione dietro pagamento del riscatto, chi si occupa, in caso di mancato
riscatto, della vendita fuori territorio (Tunisia). Nella truffa degli espatri
clandestini c'è un incaricato presso il Comune e un altro a Palermo per la
documentazione di rito (di rito = falsa), c'è un incaricato per i rapporti con
l'emigrando da fregare ed infine un incaricato che si preoccupa di accoglierlo
in America, qualora riuscisse ad arrivare, per continuare a fregarlo. Se
qualcuno degli affiliati incappa nelle maglie della legge si rendono
disponibili falsi testimoni e anche giudici senza scrupoli: pensa al Pretore
che interrogava i testimoni alla presenza di Santo Termini, capo della consorteria locale.»
«Poi?»
«Talvolta la mafia ricorre ad assoldare elementi della delinquenza
comune. Ciò quando si ha necessità di essere in gran numero: ad esempio quando
bisogna scontrarsi con le masse di contadini che occupano il feudo Jannuzzo[82].
Questo comportamento è rilevabile anche successivamente: a Portella della
Ginestra, ad esempio, vengono assoldati elementi destinati ad ingrossare la
squadra di Salvatore Giuliano.»
«E la politica?»
«I rapporti tra i mafiosi locali e i politici sono tenuti da due
sole persone le quali operano in nome e per conto di tutta l'organizzazione. E'
Calogero Termini a recarsi a Roma dal Ministro Orlando per chiedere il trasferimento del Commissario
Fazio. E' il sindaco Santo Termini a tenere i rapporti con l'on. Alfredo Cucco. Dalle esperienze successive si ha
cognizione che tale comportamento sarà identico nel tempo: a nessun dei
mafiosi, tranne a pochissimi incaricati, è consentito di parlare o trattare coi
politici. Da sottolineare che ormai la mafia può contare su appoggi un po'
dovunque. Dalla lettura degli atti relativi all'elezione dell'Arciprete di San
Giuseppe Jato[83] ti
sarai accorto che le conoscenze superano già l'ambito regionale e, al momento
opportuno, la mafia è in grado di mobilitare parlamentari, altre famiglie
mafiose ed anche la stampa.»
«E i partiti?»
«Hai anticipato la mia riflessione. Appare singolare, negli anni
'20, la posizione dei principali contendenti, se così vogliamo indicare mafiosi
e cooperative. Subito dopo la guerra le cooperative cattoliche hanno
monopolizzato quasi interamente le forze contadine e passano in blocco nel
partito del fascio: i principali esponenti, Giuseppe Cimino, Presidente della Cooperativa Pio X
e Ignazio Niotta, Presidente della Cooperativa di ex
combattenti Giosuè Borsi, diventano Fiduciari dei Sindacati Agricoli
Fascisti. Ebbene le cooperative lottano contro i mafiosi di cui fanno nomi e
cognomi. I mafiosi, a loro volta, fanno anch'essi parte del Partito Nazionale
Fascista. Persino i Belli, che da sempre hanno combattuto la mafia, diventano
apostoli del fascismo.»
«E la singolarità?»
«La singolarità sta nel fatto che ciascuno pensa di risolvere
problemi ed interessi, tra loro in netto contrasto, attraverso lo stesso
partito. Il tutto nel nome dell'unità nazionale, di uno Stato che combatterà la
delinquenza e la mafia, di uno Stato che condurrà l'Italia ai più alti destini:
insomma forza San Giuseppe Jato, forza Sicilia, forza Italia! La delusione
delle cooperative sarà chiara ancor prima della fine della Seconda Guerra
Mondiale: nei Comuni di San Giuseppe Jato, San Cipirello e Piana degli
Albanesi, le forze contadine costituiranno delle fortissime aggregazioni
attorno ai partiti di sinistra tali che il territorio sarà indicato, sino ai
nostri giorni, come il triangolo rosso.»
La mafia oggi: primo, secondo e terzo
livello
«E l'organizzazione mafiosa dei nostri giorni?»
«In generale o solo a San Giuseppe Jato»
«In generale.»
«Parlare di organizzazione mafiosa dei nostri giorni in generale
potrebbe sembrare una divagazione rispetto al tema che ci siamo proposti. Ma
non è così perché quella dei nostri giorni sembra essere la discendente
diretta, sia nei metodi che nelle finalità, della mafia degli anni '20. Prima
di passare all'organizzazione attuale bisogna sottolineare che alla fine degli
anni '20 l'arricchimento di alcune famiglie risulta consistente. Dei mafiosi di
allora alcuni investono a Palermo, altri nel resto della Sicilia e dell'Italia.
Alcuni, sembrerà strano, vanno ad investire in America. Molti, chiaramente non
appartenenti al ceto dei medi proprietari ossia alle menti pensanti, si
rifugiano chi nel cimitero, chi nelle carceri, chi in America e in Tunisia nel
tentativo di provare l’habitat delle carceri straniere o per farsi
assassinare lontano dal luogo natio.»
«E oggi?»
«Possiamo provare a descrivere l'organizzazione dei nostri giorni
facendo riferimento a quanto già abbastanza noto. Ci sono gli occupatori
materiali del territorio: squadre di affiliati alla mafia con un piccolo capo
di borgata o di paese.»
«I gestori materiali della violenza sul territorio.»
«Costoro sono anche in contatto con la criminalità comune.
Naturalmente per territorio non bisogna solamente intendere l'area geografica:
province, ospedali, università, palazzi di giustizia, uffici importanti
costituiscono dei territori a se stanti con dei rappresentanti disponibili agli
ordini dei capi. Chiunque ha necessità di uscire dal proprio territorio, non
per andare a passeggio naturalmente, deve essere autorizzato dal capo
gerarchicamente superiore. Ciascuno dei rappresentanti risponde al proprio capo
mandamento. Possiamo anche includere professionisti e alcuni politici.»
«Quali politici?»
«Quei politici che non contano nulla. Ad esempio quei parlamentari
fatti eleggere solo per votare in Parlamento a seconda degli ordini che gli
piovono addosso. Per questi politici la cosa più importante é, oltre a
obbedire, ritirare lo stipendio eventualmente arrotondato con il ricavato di
piccoli favori. Possiamo definire tutti costoro come primo livello.»
«E il secondo livello?»
«Quelli che ormai universalmente sono definiti i componenti della
commissione di Cosa Nostra assieme al gran capo.»
«E i politici?»
«Ce ne sono pure! Ma pochissimi.»
«E quale funzione rivestono?»
«Questi politici, attenzione pochissimi, sono l'anello di
congiunzione tra il gran capo e altri politici di più grosso spessore i quali,
a loro volta sono in contatto con quello che possiamo definire il terzo
livello.»
«E chi sarebbero questi del terzo livello?»
«E chi lo sa? Se accettiamo di definire la mafia una macchina per
far denaro possiamo solamente supporre che si tratta di gente con molto, molto
denaro. Probabilmente ci sarà anche qualche politico ma deve pure possedere
tanto, tanto denaro. Ciò non significa che il politico con tanto denaro debba
per forza essere un mafioso. Assolutamente no! Però possiamo avanzare anche
l'ipotesi, alla luce di quanto avvenuto nel corso del tempo, che in genere chi
dispone in prima persona di molto denaro non si mette in prima fila a far
politica.»
«Torniamo un attimo alla commissione di Cosa Nostra o meglio a
quella struttura oggetto di teoremi.»
«Il teorema Buscetta? Tutto è possibile, Principe. Ma tale teorema
non sembra brillare in fatto di logica. Noi dovremmo immaginare una commissione
che, quasi in forma democratica, decide a maggioranza sul da farsi. Vediamo di
aiutarci con un esempio. Premettiamo all'interno di Cosa Nostra: l'esistenza di
un gran capo; che il gran capo si è conquistata la carica attraverso
l'eliminazione fisica di tutti gli avversari veri, potenziali o presunti; che i
componenti la commissione, chiamiamoli commissari, risultano scelti dal gran
capo; che i rapporti con il potere, attraverso pochissimi politici, sono tenuti
solo ed esclusivamente dal gran capo. Immagina a questo punto una riunione
della commissione in cui il gran capo propone che so, l'eliminazione fisica di
un avversario. Tu riesci a immaginare un commissario che si oppone?»
«No!»
«E neppure io. Il sospetto che si avrebbe a che fare con un
potenziale avversario cadrebbe immediatamente su di lui e, in quell'ambiente,
il sospetto non è l'anticamera della verità ma del cimitero o della squagghiatìna
negli acidi! Ciò non esclude che ciascun componente la commissione possa sapere
in anticipo quanto accadrà. Ma da qui a decidere ce ne corre!»
«Ma allora il teorema Buscetta fa acqua?»
«Ma quando mai! Come è formulato il teorema Buscetta?»
«Il componente la commissione non poteva non sapere.»
«Ed infatti il commissario sicuramente sapeva! Ma il teorema non
dice non poteva non decidere! E siccome il commissario, a conoscenza di
un fatto delittuoso, non ha fatto la dovuta denunzia agli organi preposti, ecco
che risulta passibile di pena!»
«Mi scusi, zio santo, mettiamoci nei panni di un commissario che
non condivideva la linea del gran capo. Non poteva ad esempio dimettersi?»
«Se la commissione di Cosa Nostra fosse stata una commissione
edilizia certamente sì!»
«E che poteva fare?»
«Proprio nulla. Un commissario oppositore poteva solo augurarsi
l'arresto di tutti, se compreso, per andarsi a tranquillizzare all'interno di
un carcere qualsiasi.»
«Torniamo indietro. Che succede poi nell'organizzazione?»
«Vedi, si innesca un meccanismo che potremmo definire delirio di
onnipotenza. Il secondo livello pensa di potere arrivare dovunque perché: ha
libertà d'azione sul territorio; è diventato ricchissimo; crede di avere in
pugno la situazione perché ha avuto ricambiato dallo Stato ciò che gli è
servito; attraverso i politici crede di avere sufficienti armi per ricattare
chiunque; crede insomma di essere un primus inter pares con lo Stato. A
quel punto ritiene di poter fare il passo più lungo di quanto il terzo livello
gli abbia concesso.»
«Come?»
«Si possono riportare tanti esempi. Prendiamo il caso degli
appalti dove i fiumi di denaro sono notevoli. Supponi che al terzo livello,
ossia a quelli che gestiscono moltissimo denaro, serva qualche migliaio di
miliardi.»
«Come procedono?»
«Fanno destinare dallo Stato qualche decina di migliaia di
miliardi per fare opere pubbliche: dighe, strade etc. Fanno redigere i relativi
progetti a professionisti compiacenti i quali si preoccupano di maggiorare i
costi rispetto ai valori di mercato. Per le approvazioni, è ovvio, non esistono
problemi. Inutile dire che, a questo punto, le opere diventano appetibili e
sono moltissime le imprese che cercano di accaparrarsele.»
«Sembra chiaro che è necessario eliminare la concorrenza. No?»
«A ciò pensa il secondo livello con i collaudati sistemi a
conoscenza anche dei bambini: cantieri fatti saltare in aria, attentati di
vario genere, sparatorie ecc.»
«Ma ciò avviene anche oggi?»
«Ciò avveniva sino a tempi recenti: ormai molte imprese hanno
capito che non è neppure il caso di interessarsi di questo genere di appalti.»
«Poi che succede?»
«Vedi Principe, in passato il secondo livello, nei lavori pubblici,
si limitava a chiedere la concessione di subappalti e le forniture di materiali
in sito. Poi cominciò, direttamente o attraverso prestanome, a costituire
proprie imprese accaparrandosi appalti di piccola entità. Successivamente fece
un ragionamento semplicissimo: che cosa abbiamo meno degli altri per non
partecipare direttamente? I capitali li abbiamo e le professionalità pure.
Siamo noi, oppure no, a rischiare in prima persona?»
«Mi sembra abbastanza logico!»
«Il secondo livello, a questo punto, fa il passo successivo: d'ora
in poi, oltre ai sub appalti e alle forniture, dobbiamo partecipare in quota
parte ai consorzi che gestiscono in Sicilia le grandi opere pubbliche.
Inizialmente le quote in percentuale di partecipazione sono basse. Poi sempre
più alte. Non credere che quello degli appalti sia l'unico settore! Ce ne sono
tanti altri e potrebbero farsi elenchi lunghissimi: c'è il primario ospedaliero
o il docente universitario o il burocrate che trova molto comodo battere la
concorrenza o accorciare i tempi di promozione attraverso la mafia del secondo
livello e così via. A questo punto il terzo livello si rende conto che il
secondo è andato troppo avanti. Tu nei panni di quelli del terzo livello che
faresti?»
«Li stenderei tutti!»
«E come?»
«Li farei arrestare!»
«E infatti è ciò che fanno. Utilizzano quello che inizialmente
abbiamo definito il principale gestore di violenza sul territorio: lo Stato.
Non credere però che siano operazioni che si risolvono dall'oggi al domani.»
«E come fanno?»
«Si inizia con uno di quelli che vengono definiti maxiprocessi.
Prendiamo il caso dell'ultimo in ordine di tempo. Falcone gestisce l'accusa e manda sul banco degli
accusati il secondo livello quasi al gran completo. La mafia di secondo livello
decide di eliminare Falcone. Dichiara Giovanni Brusca:
Prendemmo[84]
la decisione iniziale di ucciderlo [Falcone], per la prima volta nel 1982.
Il terzo livello, attraverso emissari, gli ordina di non farlo:
…E lo scoprimmo nel
1988, quando Falcone era in corsa per la poltrona di capo dell'ufficio
istruzione di Palermo. Andai a trovare Ignazio [Salvo]: motivo della visita, ancora una volta, le nostre richieste di
intervenire sul maxi processo. Lui se ne uscì con uno strano discorso: 'Sai,
qualche amico ce lo abbiamo ancora, siamo capaci di condizionare le cose.
Falcone non diventerà capo dell'ufficio istruzione…Mi disse anche di
riferire a Riina che ormai non c'era più bisogno di uccidere Falcone. E aggiunse: è inutile ucciderlo perché al suo posto ci
metterebbero un altro, lasciandomi intendere che avremmo provocato
inutilmente una reazione dello Stato che, a quel punto, sarebbe stata
incontrollabile.
A San Giuseppe Jato il giorno della sentenza di condanna al
processo di primo grado, dentro i bar e nei crocicchi, circolavano strani
commenti: si diceva che il Giudice di primo grado, in base alle carte in suo
possesso e al dibattimento processuale, non poteva fare altrimenti. Strani
discorsi se si tien conto del fatto che i Giudici, nei casi di condanna, erano
sempre stati qualificati come gli arbitri di calcio. Tale tipo di commenti, di
affiliati e amici degli affiliati, si scopriva nel momento in cui il motivo
diventava, attraverso i pentiti, di dominio pubblico: per problemi politici
bisognava dare la sensazione che lo Stato faceva sul serio. Poi si sarebbe
risolto tutto in Cassazione.»
«Invece?»
«Cerchiamo di seguire un filo logico negli eventi che seguono. Febbraio
1992: la Cassazione conferma tutte le condanne. Il secondo livello si
scatena.»
«Contro chi?»
«Ma naturalmente contro quelli che conosce: gli emissari politici
e coloro che ritiene responsabili della propria condanna.»
«Poi?»
«Marzo 92: cade Lima. Per il secondo livello l'assassinio
costituisce una vendetta e nello stesso tempo un segnale indirizzato al terzo.
Per il terzo livello è stato un gran favore: è stato eliminato un possibile
testimone.»
«Ma Lima avrebbe parlato?»
«Principe, ormai nel corso del tempo è stato sperimentato: meglio
un testimone morto che un testimone, anche di provata fede, vivo.» E continuò:
«Maggio e luglio 92: autorizzazione all'assassinio di
Falcone e Borsellino. Per il secondo livello dopo dieci anni è
la sospirata vendetta e, contemporaneamente, il segnale che punta molto in
alto! Per il terzo livello, invece, sono stati eliminati due pericolosissimi
giudici. Nello stesso tempo le stragi sono servite a scagliare l'opinione
pubblica sul secondo livello. Il terzo livello a questo punto fa sapere al
secondo che nello Stato c'è ancora gente non disponibile alla trattativa -
papelli etc.- e occorre qualche altro segnale forte.»
«Che cosa avviene?»
«Agosto '92: arrivano le bombe di Roma, Firenze e Milano.
Il gran capo della mafia di secondo livello è tanto certo di avere i contatti
giusti per trattare alla pari con lo Stato che possiamo affidare tale
valutazione alle parole di Giovanni Brusca:
l'argomento dei miei incontri con Riina non riguardò Cosa Nostra. Mi disse subito, molto
soddisfatto: Si sono fatti sotto. Gli ho presentato un papello grande così
con tutte le nostre richieste. In siciliano papello significa un
foglio protocollo, insomma un elenco molto lungo. Non mi disse a chi aveva
consegnato il papello né cosa ci fosse scritto. In quel momento aveva un
canale che non mi diceva.[85]
Posso dire di più. Riina era convinto di poter tornare da un momento all'altro a
Corleone. Puntava alla revisione del maxi processo, nel papello c'era
anche questo[86]. Ad un
certo punto Riina, infatti, mi disse 'si son fatti sotto', aggiunse anche: 'Tu
bloccati'. Alludeva al canale Bellini e non ci fu bisogno di aggiungere altro. Insistetti solo
su un punto: 'Zu' Totò, posso andare avanti solo per mio padre?'. E lui:
'Vai!'… Qualche settimana dopo Riina mi riferì che era arrivata la risposta alle
sue richieste: 'Siete pazzi. Su questa base non possiamo trattare!'
Dopo gli attentati di Roma, Firenze e Milano, l'opinione pubblica
è furibonda: gli si è fatto credere che la vera mafia è quella del secondo
livello ed è tanto potente da volere sfidare apertamente lo Stato. Intanto la
risposta dello Stato al papello di richieste non arriva e il secondo
livello decide di inviare un altro segnale.»
«Quale?»
«Settembre '92: è assassinato Ignazio Salvo. Per il terzo livello è stato eliminato
un altro potenziale e pericoloso testimone. A questo punto si può procedere
tranquillamente all'operazione repressiva e chiudere la partita.»
«Poi?»
«Gennaio '93: viene arrestato il gran capo Riina con due
operazioni, come al solito, da manuale. Quelli pensano a tutto caro Principe.»
«Quali operazioni?»
«La prima: sono passati pochissimi giorni e viene divulgato il
nome del pentito che con le sue rivelazioni, dicono, ha reso possibile
l'arresto: Balduccio Di Maggio. E sì! La gente avrebbe potuto
pensare: come mai, dopo vent'anni di latitanza, lo Stato arriva proprio ora?»
«Insomma l'arresto è presentato come un puro caso!»
«La seconda: nel covo di Riina i magistrati arrivano diciotto giorni
dopo l'arresto. E sì! Le precauzioni non sono mai troppe. Potrebbe esserci
qualcosa di compromettente per il terzo livello e allora è meglio eliminarla.
Pensano proprio a tutto. L'aspirapolvere: qualche intruso controllore potrebbe
aver perso il pelo.”
«E il vizio!»
«No. Quello non lo perdono mai!»
«Persino la pitturata alle pareti: si potrebbe individuare il DNA
di qualche intruso controllore attraverso l’aria espirata dai polmoni!
Quando[87]
i magistrati entrano nel covo di via Bernini erano trascorsi esattamente
diciotto giorni dall'arresto. Cosa Nostra aveva avuto tutto il tempo di
cancellare ogni traccia. La Barbera mi disse anche che avevano ridipinto le pareti 'Ci abbiamo dato la
pitturatina', mi disse proprio così e adoperato l'aspirapolvere in ogni angolo.
Il resto, a questo punto, è un gioco da
ragazzi.»
«Come procedono?»
«Vedi Principe, uno degli sports preferiti dai mafiosi di primo e
secondo livello è quello dell'incaprettamento: una forma di suicidio obbligato.
L'aspirante suicida viene legato con una corda, dal collo ai piedi, in maniera
tale che, perdute le forze, si strangola da solo. I metodi usati dal terzo
livello nei confronti del secondo e del primo non differiscono molto.
Attenzione! Non usano la corda! Per fregare quelli dei livelli sottostanti loro
non ci mettono mano. Prova a fare le considerazioni che seguono sui mafiosi di
primo e secondo livello: hanno ammazzato qualche migliaio di persone in buona
parte tra di loro; hanno assassinato giudici, carabinieri, poliziotti,
politici, gente comune; hanno assassinato persone scomode per il terzo livello;
hanno fatto saltare in aria monumenti; attraverso le dichiarazioni dei pentiti
si sono fregati solo ed esclusivamente tra loro. In pratica hanno fatto tutto
da se. E infine non conoscono nessuno del terzo livello.»
«E perché alcuni non si pentono?»
«Ci può sempre essere, tra loro, qualcuno che continua a sperare
non si sa in che cosa; ma in genere chi non si pente lo fa per il semplice
motivo che non sa proprio nulla: pentendosi non farebbe altro che fregare
qualcun altro del suo stesso rango. E in carcere, a volte, qualcuno riesce a
crearsi una forma di orgoglio che non ha mai posseduto. Quand'anche infine
avesse qualcosa da dire non avrebbe prove sufficienti. E come ben sai, nella
patria del diritto, per condannare occorrono le prove.»
«Potrebbe pentirsi il gran capo Riina?»
«Una risposta plausibile l'ha data Giovanni Brusca:
C'è da dire che se dovesse pentirsi e buttare fuori il
grosso dei suoi segreti, bene che vada, lo prendono e lo buttano nella
spazzatura. Se gli va male o lo dichiarano pazzo o lo ammazzano…Non parla anche
perché se avesse un pezzo di carta per dimostrare quello che dice lo
utilizzerebbe per suo figlio, cosa che, per ora, non sta facendo.[88]»
«Sembra il ripetersi di quanto successo dopo la strage di Portella
della Ginestra!»
«Sì! Allora si ebbe a che fare con una banda di briganti che
costituiva la longa manus della mafia. Anche allora furono condannati. E
non parlarono solo ed esclusivamente perché non sapevano proprio nulla.
Qualcuno che poteva sapere qualcosa era stato liquidato ancor prima del
processo di Viterbo. Bisogna però riconoscere che ai giorni nostri sono
diventati molto più attenti. Oggi non hanno avuto necessità di ricorrere ai
caffè corretti alla stricnina e neppure al segreto di stato: chiaro indice di
una maggiore professionalità. Vedi Principe, la strategia non è complessa:
basta far capire a quelli del secondo livello che sono loro stessi a comandare
e a gestire tutto. Il terzo livello non fa altro che spianargli la strada,
farli operare come a loro interessa e, quando non servono più, zacchete!
E buttarli a mare! E bisogna riconoscere che ha sempre funzionato. Pensa a Giuliano che, all'età di 25 anni e con la seconda
elementare, credeva di poter trattare con gli Stati Uniti d'America! Ma anche
ai nostri giorni: non ti dice nulla il fatto che nessuno dei commissari e dei
gran capi della mafia di secondo livello, ossia quelli che credono di
comandare, abbia un titolo di studio - quando ce l'hanno - superiore alla quinta
elementare?»
«Sì! In effetti è strano!»
«E tieni conto che la stessa strategia sembra essere stata
utilizzata anche in settori che non avevano nulla da spartire con la mafia ma
sempre nel settore della violenza.»
«Ad esempio?»
«Le Brigate Rosse. Anche loro credevano di poter trattare alla
pari con lo Stato. Gli hanno fatto trovare tutte le porte aperte dandogli la
sensazione che i risultati ottenuti erano frutto della propria bravura. Gli
hanno fatto commettere ciò che a loro interessava e anche qui, zacchete!
Tutti dentro. Anche loro, in parte, si sono pentiti fregandosi reciprocamente.
E chi non si è pentito lo ha fatto perché non sapeva nulla del terzo livello.»
«Ritornando alla mafia?»
«Eliminato il secondo livello, quelli del terzo sono rimasti
integri e pronti per continuare con un secondo livello nuovo di zecca.»
«Ma per il terzo livello è così importante che ci siano quelli del
secondo e naturalmente del primo?»
«Mi pare chiaro! Questi ultimi garantiscono al terzo livello: voti
per comandare, l’eliminazione rapida della concorrenza in qualsiasi settore,
l’eliminazione fisica di avversari particolari: Calvi, Sindona, Ambrosoli, Pecorelli ed infine fanno da parafulmine. Cosa si
può pretendere di più dalla vita?»
«Vorrei fare un'altra domanda. Lei, zio santo, ha parlato di terzo
livello riferendosi alla situazione generale. Ma, attraverso i documenti in
nostro possesso siamo in condizione di verificare, nel nostro territorio,
l'esistenza del terzo livello così come da lei definito?»
«Se facciamo riferimento al periodo degli anni '20, credo di sì»
«Dica!»
«E' necessario riportare quanto scritto da Giuseppe Scarpace[89]
a proposito della Società Anonima Cooperativa di Assicurazione 'La Luce'
fondata dall'ing. Antonino Benigno con sede in San Cipirello.»
«Mi pare che inizia la sua attività nel 1908 e va in liquidazione
nel 1934.»
«Esatto! La società assicuratrice svolge l'attività negli anni in
cui i delitti contro la proprietà raggiungono, come hai potuto constatare,
limiti da primato. Tu credi che una società assicuratrice 'normale' avrebbe mai
stipulato un contratto di assicurazione in un territorio 'anormale' e in un
periodo come quello in esame?»
«No.»
«E neppure io! Sarebbe andata in fallimento nel volgere di qualche
settimana! Invece la Società Anonima di Assicurazione 'La Luce' …iniziò la
sua attività operando nei rami assicurativi contro i danni dolosi alle piante e
contro i rischi dell'incendio delle proprietà mobiliari e immobiliari…estendeva
la sua sfera di azione a tutta la Sicilia…qualche contratto si ebbe anche dalle
Calabrie e dalla Sardegna…il capitale iniziale della Società di appena lire
4080 andò fortemente incrementandosi con continua emissione di azioni e con
l'aumento dei soci che annualmente godevano di dividendi tali da fare ritenere
ottimo l'investimento…chiuse la sua attività con circa un milione di lire di
capitale anch'esso diviso fra gli azionisti all'atto della definitiva liquidazione.
Secondo te doveva essere una Società
Anonima 'speciale' oppure no?»
«Sì. Ma il terzo livello che c'entra?»
«Calma! Principe! Bisogna consultare un altro documento: il
primo memoriale dei sindacati agricoli
inviato al prefetto Mori il
15.6.1926[90] dove
scrivono …ci rivolgiamo all’Eccellenza Vostra sicuri del suo intervento
energico per segnare un basta ai soprusi che i contadini di San Giuseppe Jato e
Sancipirrello hanno dovuto subire da parte di quasi tutti i gabelloti dei
feudi… e subito dopo elencano, nella gestione dei feudi, i capitali
impiegati dal gabelloto tra i quali, oltre all'estaglio medio annuo,
la ricchezza mobile, etc., spiccano gli interessi e soprattutto
l'assicurazione. Cerca di capire, Principe! Il mafioso-gabelloto paga
l'assicurazione!!! A chi? Ma all'unica società esistente nella zona: 'La
Luce'!»
«Ma allora che razza di mafiosi erano!?»
«Appunto! Mafiosi erano: ma di primo e secondo livello.
Evidentemente c'era qualcuno, al di sopra di loro, di cui dovevano tener conto.
Se poi approfondisci meglio ti accorgi che nella Società Anonima ci sono tutti
gli ingredienti per definire un terzo livello: gente ricchissima o divenuta
tale, con propaggini nell'intera isola e anche fuori ma, soprattutto, mai accusata di essere mafiosa,
neppure nei momenti peggiori quali furono quelli del periodo Mori. Appunto perché le loro attività erano
perfettamente legali.»
«Però era chiaro che doveva esserci qualcosa di losco! Scusi, il
mafioso che paga l'assicurazione contro danneggiamenti su terreni e case non è
un fatto di per se eclatante?»
«E secondo te i magistrati che avrebbero dovuto fare? Condannare
il mafioso per mancanza di deontologia professionale? Ma non mi fare ridere,
Principe! »
«Ma allora c'è da pensare che anche gli interessi pagati
dal mafioso-gabelloto andassero a impinguare le casse della Società Anonima?»
«Questa mi sembra una domanda più pertinente! Ma certo, Principe!
Se dobbiamo dare credito alle esaltanti affermazioni dello Scarpace laddove scrive…volse
quindi la sua attività anche nel campo dei crediti a breve scadenza concessi
agli agricoltori sia locali che dei comuni finitimi, contribuendo così,
efficacemente, ad estirpare la mala pianta dell'usura… c'è da pensarlo! Tu
starai certamente opinando che avranno estirpato la mala pianta dell'usura
'diffusa' e l'avranno 'monopolizzata'. Ma questo non possiamo dirlo. Possiamo
solamente affermare che l'usura, in genere, non viene praticata nei crediti a
lunga o media scadenza ma in quelli a breve. E loro concedevano prestiti a
breve scadenza.»
«Ma allora, secondo lei, non vi sono possibilità di eliminare la
mafia?»
«Certo che ci sono le possibilità!»
«E quali?»
«Si potrebbero ad esempio arrestare tutti quelli del terzo
livello!»
«Ma lei non ha detto che non si conoscono?»
«Hai ragione! Guarda un po' che sbadato! Sono proprio stanco!»
«E le altre possibilità?»
«Si potrebbero arrestare tutti coloro che possiedono più denaro
del necessario!»
«Ma in questo modo ci andrebbero di mezzo migliaia e migliaia di
persone che non c'entrano!»
«Sì! Però si risolverebbe il problema: tra loro ci sarebbero
sicuramente quelli del terzo livello!»
«Ma non mi sembra attuabile! E non sarebbe neppure giusto!»
«Considerato che la mafia è uno strumento per raggiungere
l'arricchimento, si potrebbe abolire l'uso del denaro e ritornare al baratto.
Oppure cambiare l'attuale struttura dello Stato e crearne uno governato dagli
anarchici. Oppure ancora rivolgere abbondanti preghiere a Sua Eccellenza il
Padreterno!»
«Zio santo mi vuol prendere per i fondelli? Ma veramente non c'è
alcuna possibilità?»
«Una possibilità forse ci sarebbe. Non parliamo dei soliti luoghi
comuni quali la scuola, il lavoro ecc. non perché non servano ma per il
semplice fatto che se ne parla sempre ma non si fa mai nulla.»
«E come allora?»
«Per prima cosa occorrerebbe stilare un elenco di tutti gli
affiliati alla mafia di primo e secondo livello da una ottantina d'anni in
qua.»
«Poi?»
«Poi calcolare quante migliaia di loro sono morti ammazzati.»
«Poi?»
«Successivamente rilevare quanti di loro sono andati a finire in
galera. A quel punto lanciare un messaggio di questo tenore:
Sintìti, sintìti!
L'80 per cento
- ad esempio - di voi che pensa di arricchire attraverso la
mafia va a finire anzitempo al cimitero: sempre che riesca ad arrivarci! Molto
spesso muore pure in malo modo: strangolato o sparato pronto per essere
arrostito o disciolto negli acidi!
Chi ha più fortuna, che so, il 10 per cento, va a riposare le stanche membra in
galera.
Vale la pena mettersi in una associazione che, nel 90 per cento
dei casi, porta alla rovina voi, i vostri familiari e tutti i vostri
discendenti?
Da un punto di vista statistico parrebbe conveniente rinunziare e
cambiar mestiere!
Se proprio non riuscite a rinunziare perché la delinquenza ce
l'avete nel DNA, allora mettetevi in proprio senza fare società con nessuno.
Ormai è dimostrato: l’associazionismo e il cooperativismo di qualsiasi genere
qui in Sicilia non funzionano! Almeno rischiate solamente il carcere e avete
più possibilità di farla franca!
Che te ne pare?»
«Mah! Una scelta del genere sarebbe più conveniente per loro e
anche per tutti quelli che non hanno nulla da spartire con la mafia! No?»
«Poi si potrebbe, ad esempio, puntare sull’orgoglio dicendogli che
coloro che si arricchiscono alle loro spalle non hanno neppure il piacere di
conoscerli!
Vuoi un digestivo Principe?»
«Sì! Gradirei un estratto di citronilla!»
Non solo mafia. L'area dello Jato: terra
di lotte e ribellioni
«Passiamo all'altro punto. Perché San Giuseppe Jato e San
Cipirello nel panorama mafioso sono così importanti?»
«Ecco, perché?»
«Si potrebbe pensare al caso. C’è però troppa convergenza di
elementi in questo territorio per poter giustificare un tale fenomeno con la
casualità. Indubbiamente i motivi sono diversi. Potremmo cominciare col citare,
ad esempio, la ricchezza del territorio.»
«Ma la mafia non si dice che prospera nelle zone povere?»
«Queste, caro mio, sono leggende! La mafia prospera e attecchisce
solo dove c’è qualcosa da rubare con qualsiasi metodo. Pensa agli anni ’20.
Buona parte degli sfollati per mafia va in America e in Tunisia: mentre in
America, territorio ricco, la mafia attecchisce in Tunisia no! Ma si potrebbero
fare tanti esempi qui in Sicilia.»
«Poi?»
«La vicinanza ad una città importante come Palermo: un centro
dalle multiformi attività molto comodo per i paesi finitimi.»
«Poi?»
«Io affronterei solamente due punti che mi sembrano
particolarmente importanti.»
«Quali?»
«Il primo: credo che uno dei punti di forza della mafia sia stata
l’opposizione ad essa. Parliamo naturalmente degli ultimi ottant’anni. Pensa
alla veemente opposizione alla mafia da parte delle cooperative cattoliche e
socialiste negli anni prima dell’avvento del Fascismo e a quella successiva nel
secondo dopoguerra sino ai nostri giorni. Ma cercheremo di dare una risposta
successivamente. Il secondo: credo che il territorio abbia avuto una notevole
influenza sulle popolazioni di queste vallate.»
«Si riferisce alle teorie del Lombroso?»
«Ma quale Lombroso!»
«Scusi il Lombroso non sosteneva che i comportamenti delle
popolazioni sono influenzati dalla temperatura del territorio?»
«Sì! Questo lo sosteneva lui. Ma, vedi Principe, la teoria del
Lombroso venne fuori in un momento in cui lo Stato
sabaudo non sapeva come affrontare i problemi della Sicilia e servì a
giustificarne gli interventi repressivi. Come dire: signori miei, con i
siciliani non c’è nulla da fare; è un problema legato alla loro natura per cui,
se vogliamo far valere l’autorità dello Stato, dobbiamo per forza ricorrere ad
interventi anche cruenti. Ma al Lombroso rispose all’epoca, in maniera egregia,
Napoleone Colajanni. Ti rimando quindi ai suoi interventi.»
«Ma il Lombroso, dicono, era un profondo studioso!»
«Vero è, Principe. Ma in questo campo u nni nzirtò una.
Probabilmente la teoria sulla temperatura sarà stata da lui studiata e
approfondita nel periodo invernale, quando il freddo del suo Piemonte
facilmente si incuneava nei complessi meccanismi cerebrali!»
«Ma allora in che senso lei sostiene che ci può essere
un’influenza del territorio sui comportamenti?»
«Penso che un territorio povero e inospitale determina sempre tra
gli abitanti fenomeni di abbandono. Il contrario avviene nei territori ricchi e
ospitali. Pensa a questo territorio nel corso del tempo. E’ fertile, quindi
ricco. E’ posto in un punto strategico nello scacchiere della Sicilia
Occidentale lungo gli assi di collegamento Palermo-Mazara, Palermo-Selinunte,
Palermo-Segesta, Palermo-Agrigento, quindi con grosse possibilità nel campo
commerciale. Si trova in un sito difendibile lontano dal mare, quindi non
soggetto agli assalti di popoli predoni. Non devi poi trascurarne la bellezza:
con uno sguardo all’orizzonte abbracci Capo San Vito col Golfo di
Castellammare, il bosco di Ficuzza con la Rocca Busambra, monte Cammarata al
centro della Sicilia e, nelle giornate particolarmente nitide, riesci a
scrutare anche la cima dell’Etna.»
«Sì! Ha ragione. Io ero residente a Napoli ma, quando potevo, scappavo
per venirmi ad immergere nel verde di Dammusi. Pensi che ero tanto sensibile al
fascino di questi luoghi che ho pure fatto un componimento.»
«Vero? E te lo ricordi ancora?»
«Certo!»
«Me lo reciti?»
«Ogni matìna
Cu donna Mariannìna
Taliàmu versu a marìna
E u cori si spampìna.
Poi arriva me cucìnu Vitu
Taliàmu versu u cannìtu
E nni nzaiàmu un bellu vistìtu.
Subitu s'arricàmpa don Bastiànu
Taliàmu versu u chiànu
E nni damu tutti a manu.
‘Ntramèntri arriva Ciccu Lasàgni
Taliàmu versu i montàgni
E ghisàmu tutti i carcàgni.
All'ultimu arriva don Pippìnu
Taliàmu ‘ntra pinnìnu
E ni vivèmu un bellu bicchieri i vinu»
«Complimenti! Continuiamo. Con tali presupposti ti rendi conto che
la gente, quando costretta, ha sempre abbandonato a malincuore queste contrade.
Qui la gente più che andarsene via c’è sempre venuta. E una volta insediatasi
si è sempre difeso il territorio con le unghia e con i denti. Voglio
dimostrarti che questa non è solo terra di mafia ma è anche terra di ribellioni
a tutte le forme di potere che hanno limitato la fruizione del territorio. Nel
momento in cui il potere è stato rappresentato dalla mafia l’opposizione ad
essa è sempre stata veemente. Ma andiamo in ordine. Vediamo innanzitutto la
situazione da un punto di vista antropo-geografico negli ultimi 800 anni. Qui
arrivano nel 1258 gli Armeni che si insediano nella tua Dammusi; nel
1488 gli Albanesi di Piana; nel 1237, sotto Federico II, una comunità
ghibellina di Lombardi che, sotto il comando di Oddone di Camerana, colonizza il sito dell’attuale
Corleone.»
«E dove ha letto questa notizia sui Lombardi a Corleone?»
«Sul Fazello – Deche di Storia di Sicilia – è riportato l'atto di concessione di
Federico II. Voglio farti notare che tutte e tre le
comunità non vengono qui deportate ma, in varie forme, contrattano la
concessione dei territori: chiaro segno che non si è in presenza di immigrati
destinati ai lavori più umili ma di gente in grado di determinare e gestire il
proprio futuro.
«E poi?»
«Nel 1182, attraverso la donazione del normanno Guglielmo II al Monastero di Santa Maria la Nuova di
Monreale, siamo certi che in questo territorio operano: Znati - gente
appartenente alla tribù berbera Znata; el-Farisi - gente proveniente dal
Faris, regione della Persia Meridionale; Sindi - gente venuta dal Sindo,
regione del basso Indo; Kuteme - una orgogliosa tribù berbera; Kinene
e Magagia - due tribù del nord Africa; el-Andalusin -
gente proveniente dall’Andalusia in Spagna; el-Magiar - magiari,
ungheresi; as-Soudan - gente originaria del Sudan; at-Tabari -
una nobile famiglia persiana; al-Barmanin - gente di Barmana nel nord
Africa; al-Arabi - gente proveniente dalla penisola arabica; ar-Rumi
- bizantini; moltissime famiglie ebraiche - Amrun, Yakub, Ben
Shalom - e a Malvello, l’antica Malbìt tra San Cipirello e Corleone,
si rileva un vallo Iudeorum, una vallata dei Giudei. E’
testimoniata la presenza di Januenses - Genovesi - nonché Venetiani
e Pisani che, in genere, gestiscono i numerosi fondachi lungo gli
assi di penetrazione verso l’interno. E’ un mercante catalano, don
Cristofaro Bassèt, che attorno alla metà del 1500 acquista
i territori in corrispondenza dell’attuale San Cipirello. Per le finalità che
ci siamo proposti credo sia il caso di includere in questo elenco Ruggero
Mastrangelo, il capo degli insorti nella Guerra del Vespro:
nel 1296 risulta proprietario del feudo Cumeta, tra San Cipirello e
Piana degli Albanesi. Pensa che, nel medioevo, troviamo anche una famiglia
indigena, as-sikilli - il Siciliano - proprietaria di una mandra nei
pressi di Pietralunga.»
«Ma come? Siciliani abitanti in Sicilia denominati i Siciliani!
Strano no?»
«Evidentemente i Siciliani DOC dovevano essere così pochi in
raffronto alle popolazioni sopravvenute che per distinguerli venivano indicati
appunto i Siciliani!»
«Che tipo di valutazioni possono farsi su questa variegata
presenza di tante popolazioni in un territorio, in fondo, molto ristretto?»
«Occorrerebbero studi approfonditi di etnologia di cui, purtroppo,
c’è grande penuria. Possiamo solamente limitarci ad elencare quanto, queste
diverse popolazioni, hanno fatto nel corso del tempo in relazione al nostro
tema. Faremo una elencazione a ritroso.»
«A partire da quando?»
«Dai primi anni del 1940 quando il Comune di Piana degli Albanesi
si dichiara Repubblica Indipendente. Degli anni tra il 1910 e 1925, periodo
dell’occupazione delle terre e contrasto alla mafia, abbiamo già parlato. Negli
anni 1893-1894, gli anni dei Fasci Siciliani, il territorio risulta in prima
linea: è a San Giuseppe Jato che, l’11 maggio 1893, si registra il primo
tumulto dei Fasci che determinerà il primo arresto di massa tra cui quello di
Nicolò Barbato.»
«Poi?»
«La gente di queste vallate partecipa, come già detto, a tutte le
rivolte e rivoluzioni che caratterizzano il 1800: la rivolta del sette e
mezzo nel 1866, la rivoluzione del 1860 con Garibaldi, quella del 1848 con Ruggero Settimo, i moti carbonari del luglio 1820. Ora
dobbiamo fare un salto indietro nel tempo per limitare la nostra analisi
esclusivamente ai fatti di notevole risonanza. Tieni presente che Corleone è la
prima città della Sicilia ad allearsi a Palermo in occasione della Guerra
del Vespro: con un accordo firmato il venerdì 3 aprile 1282, tre giorni
dopo lo scoppio della guerra, mette in campo ben tremila combattenti. Per quel
che segue dobbiamo fare riferimento all’antica città di Jato ubicata sul monte
a ridosso degli attuali comuni di San Giuseppe Jato e San Cipirello. Gli arabi
di Jato, città antichissima le cui origini si fanno risalire ad almeno mille
anni prima della venuta di Cristo, si arrendono solo nel 1079 al normanno conte
Ruggero d’Altavilla. Se consideri che la città è ubicata alle
porte di Palermo, a sua volta conquistata nel 1072, ti rendi conto di come gli
jatini avranno difeso la città nel corso di sette anni.»
«Poi?»
«Nel 1189 una rivolta musulmana a Palermo e nell’intero Val di
Mazara viene a stento domata. E’ da quel momento che si hanno pochissime
notizie di Musulmani a Palermo perché buona parte di loro si riversa in queste
contrade. E’ necessario, Principe, fare alcuni brevi riferimenti. Nel 1194
nasce a Jesi Federico II da Costanza d’Altavilla ed Enrico VI. Nasce a Jesi dove signore della Marca di
Ancona è il Gran Siniscalco di Enrico VI, Markuald de Anweiler. Nel 1197 muore Enrico VI e lascia la tutela della minorità di
Federico II, quindi la reggenza dell’Impero, al suo
gran siniscalco Markuald. Nel 1198 muore Costanza d’Altavilla la quale, invece,
lascia la tutela della minorità di Federico a chi?»
«Al papa Innocenzo III.»
«Ti rendi conto che i contrasti, i nodi quanto prima sarebbero
venuti al pettine. Ed infatti nel 1199 Markuald con un esercito alemanno scende
in Sicilia, sbarca a Trapani ed invade il Val di Mazara. Ormai la condizione
dei Musulmani di Sicilia non è più quella florida del periodo arabo e neppure
quella accettabile dovuta, in buona parte, all’accorta tolleranza normanna.
Ormai i Musulmani di Sicilia sono i paria, i servi della gleba per non dire gli
schiavi della società feudale della fine del XII secolo. Markuald alla ricerca
di aiuti trova nei Musulmani di queste contrade dei formidabili alleati. Jato
diventa il caposaldo, la roccaforte da cui continui attacchi sono sferrati
contro la capitale Palermo difesa dalle truppe pontificie sotto il comando
dell’arcivescovo Gualtieri di Palearia. Il 21 luglio del 1200, in una battaglia
campale alle porte di Palermo - tra Monreale ed Altofonte - le truppe
pontificie sconfiggono l’esercito congiunto musulmano-alemanno di Markuald ed
in quella occasione cade anche il capo musulmano Magdéd.»
«E cessano le ribellioni?»
«Ma quando mai! Anzi posso anticiparti che per quasi cinquant’anni
queste vallate saranno teatro di continui scontri tra le armate musulmane e gli
eserciti imperiali svevi. Tieni conto che nel 1208 Corleone diviene il centro
propulsore di ribellioni contro gli Svevi. Nel gennaio del 1211 Federico II con un privilegio a favore della Chiesa
di Monreale obbliga militi e baroni a mettere le loro armi a disposizione
dell’Arcivescovado contro i Musulmani di Jato, Corleone, Calatrasi e delle
rocche vicine: pena la confisca di tutti i beni. Tale privilegio viene reiterato
nel giugno dello stesso anno a Messina. E’ attorno al 1220 che la situazione
precipita. La situazione diventa insostenibile un po’ per tutti: per i Musulmani,
da un lato, che non riescono più a reggere le continue angherie dei padroni
latini e, dall’altro, per Federico II, per l’Imperatore, per la sua mentalità
di monarca assoluto: si era venuto a trovare quasi uno Stato all’interno dello
Stato.»
«Nel 1220, se non ricordo male, Federico II viene incoronato
Imperatore a Roma.»
«Esatto! In quello stesso anno Federico II invia un esercito sotto
il comando del grande ammiraglio Enrico di Malta. Ma Enrico di Malta riesce a risolvere ben poco tant’è che
l’Imperatore si vede costretto ad intervenire personalmente.»
«Mi pare che uno dei motivi per cui Federico rinvia le crociate è
legato alla permanenza dei Musulmani in questo territorio. O sbaglio?»
«Proprio così. E’ scritto nel Tarih Mansuri, una sorta di
compendio di storia universale di parte araba, relativamente all’anno 1222:
quest’anno il Re e Imperatore Federico si partì dalla
Germania ed entrò nell’Isola di Sicilia con duemila cavalli e sessantamila
pedoni, ed assediò il kaìd Ibn Abbàd per otto mesi.»
«Che significa kaìd?»
«Kaìd, nel latino medievale gaytus, in arabo
significa comandante. Siamo certi della presenza di Federico II, in quel
1222, all’assedio di Jato. Egli, infatti, dal 17 Luglio al 18 Agosto, invia
almeno sette lettere di cui alcune data in castris in obsidione Jati,
negli accampamenti durante l’assedio di Jato; altre data apud Jatum, nei
pressi di Jato; altre ancora data ante Jatum, davanti a Jato, come riportato
nella grandiosa opera di Huillard-Breholles, Historia diplomatica Friderici
Secundi.
Allora - è
sempre scritto nel Tarih Mansuri -
alcuni compagni di Ibn Abbàd, alienandosi da lui, cercano di convincerlo ad arrendersi
all’Imperatore. Ma Ibn Abbàd non cede. Successivamente, stanco e spossato per
le continue veglie nella difesa della città, decide di arrendersi. Si presenta
nella tenda di Federico II e riceve dall’Imperatore un calcio, con il piede
armato di sprone, sicché gli lacera un fianco. Poi l’Imperatore lo fece
rinchiudere in un’altra tenda. Al settimo giorno l’uccise, lo squartò, legò i
figli alle code dei cavalli, s’impossessò di tutti i loro beni e s’insignorì di
tutta la Sicilia.»
«E le ribellioni non cessano!»
«Ma quando mai!
Un congiunto di Ibn Abbàd, Marzùq, gioca un tiro mancino a Federico II. Gli fa sapere: Bada
che io e alcuni miei compagni non riusciamo più a reggere il tuo assedio. Ormai
Ibn Abbàd riposa in pace, non ci rimane altro signore che te. Mandaci tu un
certo numero di tuoi cavalieri fidati ed intimi sicché noi, nottetempo, gli
consegniamo la città. Federico II invia ben 115 suoi cavalieri fidati ed
intimi. L’indomani l’Imperatore si presenta presso le mura della città pensando
di vedere sventolare le sue bandiere e i suoi stendardi. Trova invece
penzolanti le teste dei suoi 115 cavalieri. Vadan questi per Ibn Abbad, o nemico di Dio!, esclamò
Marzùq.
L’episodio costituì argomento di storia popolare e di leggenda
tant’è che oltre un secolo dopo i fatti, attorno al 1350, in una tarda
compilazione geografica reperita recentemente in Spagna viene riportato lo
stesso episodio. E come ogni storia popolare e leggenda anche questo episodio
subì delle varianti che resero ancora più affascinante l’ostinata resistenza
dei Musulmani agli Svevi. Stavolta il congiunto di Ibn Abbàd non è Marzùq ma la
figlia di Ibn Abbàd, che Francesco Gabrieli definisce indomita eroina esperta
nelle astuzie e nell’arte della guerra e la città assediata non è Jato ma
Entella.»
«Come mai?»
«Non è improbabile uno scambio tra le due città, considerato che
furono proprio Jato ed Entella le ultime due roccaforti musulmane di Sicilia o,
cosa più attendibile, che a Jato si sia svolta la prima parte del dramma con
Ibn Abbàd e che l’ultimo atto, con Marzùq, abbia
avuto per teatro Entella. Solo un grande intelletto qual era Federico II, nel
bene e nel male, poteva intuire che per risolvere il suo problema, per
togliersi quella palla al piede dei Musulmani, doveva ricorrere all’extrema
ratio: alla separazione, all’asportazione degli uomini dal proprio
territorio. Ed è così che in quei primi anni venti del 1200 iniziano le grandi
deportazioni federiciane verso Lucera di Puglia che, da quel momento, assumerà
la denominazione di Luceria Saracinorum.»
«E sul numero dei deportati?»
«Sul numero dei deportati possiamo fare riferimento ad uno studio
dell’Egidi, fatto nei primi anni di questo secolo,
dal titolo La colonia saracena di Lucera e la sua completa distruzione:
distruzione, meglio massacro, avvenuta nell’Agosto del 1300 ad opera degli
Angioini i quali ritennero di fare un gran regalo al Papa in occasione del
Giubileo del 1300. Contemporaneamente gli Angioini mutavano il nome della città
denominandola Città di Santa Maria. L’Egidi calcola circa 20.000 deportati,
mentre l’Amari sostiene che dovevano essere almeno
50-60.000. Ma in una cronaca araba relativa all’anno 1230 è scritto che in
quell’anno un pellegrino degli Sceik, degli anziani di Gallo -
quasi certamente Pizzo di Gallo, nell’attuale feudo di Calatalì presso
Rocca d’Entella - si reca in Egitto presso al Malik al Kamil.»
«Chi era al Malik al Kamil?»
«Al Malik al Kamil era il Sultano d’Egitto che nella Crociata del
1228 era venuto a patti con Federico II cedendo, senza combattere, Gerusalemme.
Patto che, per altro, aveva molto scandalizzato sia l’occidente cristiano che
il mondo musulmano. Ebbene questo pellegrino pregava
al Malik al Kamil di intervenire presso Federico II
affinché facesse ritornare in queste contrade i Musulmani deportati a Lucera.
Perché l’Imbirur al Fardarik (l’Imperatore Federico) ingannò tutte queste
popolazioni e ne deportò nella Gran Terra (in Puglia) ben 170.000 e altrettanti
ne fece massacrare.»
«E non cessano le ribellioni!»
«Ma quando mai! Nel 1243 troviamo gli ultimi Musulmani di Sicilia,
o come li definisce il Fazello le reliquie dei Saracini di Sicilia, aggrappati,
arroccati su Monte Jato. Federico II invia il suo esercito imperiale sotto il
comando del conte Riccardo o Ruberto di Caserta. La città riesce a resistere ancora per 3
anni e nel 1246 si arrende per fame. Gli ultimi suoi abitanti vengono deportati
a Lucera e la città, onde evitare futuri pericoli, viene totalmente rasa al suolo.»
«E lei classifica questo episodio tra gli elementi caratterizzanti
la popolazione o il territorio?»
«Secondo me il territorio: appunto perché ricco ed ospitale viene
difeso strenuamente dai suoi abitanti. Vedi, Principe, i popoli possono anche
alternarsi ma il territorio sempre lo stesso è. Dopo le deportazioni
federiciane queste vallate sono rimaste per lungo tempo spopolate; ma ciò ha
cambiato ben poco perché, come dimostrano i fatti successivi, sempre terre di
ribellioni sono state. Dobbiamo anche aggiungere che queste vallate non sono
mai state totalmente deserte perché altrimenti non spiegheresti la permanenza
di tanti toponimi medievali sino ai nostri giorni. Possiamo anche affermare
che, da almeno 2500 anni, il territorio è stato popolato senza soluzione di
continuità perché il toponimo Jato è testimoniato nel corso del tempo: oggi da
noi come nel V secolo a.C., ad esempio, dallo storico siracusano Filisto. Per confermare ulteriormente quanto
asserito, almeno alla luce della documentazione storica pervenuta, possiamo
ancora andare indietro nel tempo: al 100 a.C.»
«L'anno della fine della Seconda Guerra Servile.»
«Giusto. L’ultima battaglia tra gli eserciti romani e le armate
degli schiavi sotto il comando di Atenione e Salvio viene combattuta a Makella, quasi
certamente l’attuale Camporeale - detta anche Macellaro - a pochi
chilometri da monte Jato. E a proposito di guerre servili voglio farti anche
notare come il territorio possa, a volte, determinare le scelte dei popoli.»
«Come?»
«Confronta ad esempio le rivolte degli schiavi di Spartaco nel 73-71 a.C. e quelle degli schiavi di
Sicilia: in due periodi quindi quasi coevi. Mentre le rivolte degli schiavi di
Spartaco sono caratterizzate da un continuo peregrinare per tutto il
Mezzogiorno d'Italia alla ricerca di opportune vie di fuga verso i propri paesi
di origine, qui avviene l’esatto contrario. Qui si lotta per rimanere in questi
territori: pensa agli schiavi che, sia nella Prima che nella Seconda
Guerra Servile, avevano fondato addirittura due regni!»
«Spartaco era però un trace: è normale che cercasse di tornare
nella propria terra!»
«Ma non è che qui vi fosse una situazione diversa: Euno, il capo degli schiavi nella Prima Guerra
Servile, era un siro e Atenione, nella seconda, proveniva dalla Cilicia.
Possiamo concludere quest'ultima parte con le parole di Giorgio La Corte.»
«Chi era?»
«Uno studioso di topografia storica di questo territorio della
fine del 1800 purtroppo quasi sconosciuto. Scriveva La Corte:
L’operoso colono continuerà a salire su questo monte;
continuerà a coltivare le zolle, mirando le sottostanti fertili pianure. Ma il
Monte Jato, non gli dirà mai che qui furono delle forti e popolose città, e che
queste pianure e queste contrade sono state bagnate dal sudore e dal pianto di
lunghe file di schiavi incatenati e dal sangue di migliaia di combattenti.»
«In conclusione?»
«Questo è un territorio dove i più indifesi - a prescindere dal
colore della pelle, dal credo politico o dalla fede religiosa - hanno
costituito nel tempo un'omogenea classe sociale: quella degli oppressi. E’ un
territorio dove gli oppressori hanno sempre avuto il volto del potere
costituito. Potere ora esercitato direttamente attraverso gli organi preposti
ora attraverso quelli delegati: e qui negli ultimi ottant’anni tale delega è
stata affidata alla mafia. E' un territorio dove il contrasto tra oppressi e
oppressori si è sempre risolto in maniera violenta e, molto spesso, cruenta. I
motivi probabilmente vanno ricercati tra le peculiarità del territorio stesso e
nella presenza, nel corso del tempo, di tanti popoli diversi. Ma, su questi
temi, occorrerebbero studi molto approfonditi, occorrerebbero i Lévi-Strauss e gli Hobsbwaun del caso. Possiamo allora provare a
spiegarci Portella della Ginestra che costituisce, indubbiamente, l’epilogo di
lunghe lotte passate e il riferimento per tante battaglie combattute sino ai
nostri giorni. Perché la strage proprio qui: tra San Giuseppe Jato e Piana
degli Albanesi? Proprio perché i segnali di intimidazione, caro Principe, si
danno dove più incisivo può essere l'effetto; dove più veemente si manifesta
l’opposizione all’azione di violenza che il potere, sotto lo scudo di un
qualsiasi credo politico, ha sempre utilizzato come strumento per
l’accaparramento dei beni e per l’arricchimento. Questo è sicuramente uno dei
motivi, non il solo, per cui la mafia, a San Giuseppe Jato e San Cipirello, è
diventata tanto importante rispetto ad altri luoghi della Sicilia. Per la mafia
del luogo è stato sempre come combattere in prima linea. E solo chi combatte in
prima linea, caro Principe, ha più possibilità di guadagnarsi le medaglie. D’oro
naturalmente.
E ora devo andare a riposare.»
«Un ultimo sforzo, zio santo! L'etimologia del termine mafia
o maffia. Me lo aveva
promesso, no?»
«Ah! Sì! Dì un po': cos'erano i maffi ai tuoi tempi?»
«Erano quegli elementi che servivano ad ornare i cavalli: strisce
di cuoio, specchietti, piume ecc.»
«Bene! Abbiamo una corrispondenza con la definizione fornita dal
Traina nel suo Vocabolario Siciliano-Italiano
del 1868. Scrive il Traina:
Maffi s.m.pl. Strisce di pelle che dalla groppiera
del fornimento dei cavalli, scendono pei fianchi e tengono alte le tirelle: reggitirelle.
Ebbene, nel dialetto siciliano, come diventa un cavallo bardato e
ornato con maffi?»
«Maffiusu!»
«Quindi maffiusu non è altro che l'aggettivo derivato dal
sostantivo, difettivo del singolare come scrive il Traina, maffi. Ti
accorgi allora che alcune delle qualità e delle peculiarità attribuite al
cavallo bardato e ornato quali bellezza, baldanza, accuratezza
nei finimenti sono le stesse che i vari Pitrè, Traina, Nicastro riportano per definire
quelli che, per accostamento o, se preferisci, in maniera metaforica, erano
stati chiamati maffiusi. Un'ulteriore conferma la troviamo nel
Dizionario Siciliano-Italiano di Vincenzo Nicotra del 1883, laddove tra i significati di mafiusu
ne riporta uno legato al cavallo ossia mafiusu = bàrbero (cavallo da
corsa, originario della Barberia). Diventa allora spiegabile sia la
posizione del Traina che definisce il termine mafia un neologismo
sia quella del Mortillaro che definisce lo stesso termine una voce
importata dai piemontesi: appunto perché esistevano i maffiusi o mafiusi
ma non il termine mafia o maffia. Infine, attraverso i documenti
che abbiamo consultato, ti sarai pure reso conto che mafia e maffia
sono esattamente la stessa cosa. Nostra.»
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Gioacchino
Nania è nato a San Cipirello (Pa) nel
1944. E' componente della Pro-Jato (*). E' stato consigliere comunale di San Cipirello per
15 anni sino al 1988. Ha pubblicato Toponomastica e topografia storica nelle
valli del Belice e dello Jato, Barbaro Editore, 1995. E' autore degli studi: Calcolo della popolazione
nelle città demaniali della Sicilia Occidentale alla vigilia del Vespro, Le
antiche strade in Sicilia sino alle Trazzere Regie, La valle dello Jato - terra
di lotte e di ribellioni - dalla Seconda Guerra Servile a Portella della
Ginestra e, assieme al prof. Giuseppe Schirò, della monografia Storia
della vitivinicultura nell'Area del Monrealese. Ha collaborato con la
rivista Kaleghé.
E'
anche ingegnere, esperto in informatica e calcoli in zona sismica. Ha insegnato
tecnologia meccanica, disegno tecnico e CAD. Ha realizzato i programmi per la
gestione degli archivi storici di Cefalù, Castelbuono, Partinico, San Giuseppe
Jato, Giuliana, Chiusa Sclafani, Monreale. Per quest'ultimo, primo e sinora unico
in Italia, ha realizzato un sito su
Internet con possibilità di ricerche on line e servizio di consegna
documenti scannerizzati attraverso e-mail.
E'
stato collaudatore del Sistema Acquedottistico "Ancipa", mai
collaudato, e consigliere di amministrazione del "Consorzio per il
disinquinamento dell'Area del Partinicese": consorzio che, per fortuna
di tutti, non ha mai realizzato nulla. E' stato funzionario presso la
Ripartizione Urbanistica del Comune di Palermo per un breve periodo: il tempo
strettamente necessario per capire, correva l'anno 1981, che si rischiava la pelle
o, a seconda delle personali attitudini, la galera.
Marcelle
Padovani. Scrittrice. Giornalista de Le
Nouvel Observateur. Presidente dell'Associazione Stampa Estera. Ha
pubblicato La longue marche: le Parti communiste italien, Vivre avec
le terrorisme: le modàele italien, con Leonardo Sciascia, La Sicilia
come metafora (Ed. Mondadori) e, con Giovanni Falcone, Cose di Cosa
Nostra (Ed. Rizzoli).
(*)
Pro-loco tra i comuni di San Giuseppe Jato e San Cipirello
[1] "Le Nouvel Observateur" - Gennaio 1999
[2] Giuseppe Barone, Egemonie urbane e potere locale (1882 – 1913) in “Le regioni dall’unità ad oggi: la Sicilia”, pag. 218 – Giulio Einaudi Editore – 1987.
[3] (continuazione):
Lauricella Giuseppe, nato Palermo l’11.11.1929, strangolato a
Palermo il 30.11.1982;
Gambino Francesco, nato Palermo il 10.6.1933, strangolato a Palermo il
30.11.1982;
Cosenza Salvatore, nato Palermo il 12.9.1947 strangolato a Palermo il
30.11.1982;
Lauricella Salvatore, nato a Palermo il 16.7.1956, strangolato in Palermo
il 30.11.1982;
Filiano Giovanni, nato Palermo 14.06.1927 ucciso da arma da fuoco
30.11.1982;
Cannella Domenico, nato Palermo 15.03.1966 ucciso da arma da fuoco
30.11.1982;
Misseri Salvatore, nato Palermo 16.10.36, ucciso da arma da fuoco
30.11.1982;
Neri Salvatore, nato Palermo 15.9.1946, ucciso da arma da fuoco
30.11.1982;
Bova Domenico, nato Palermo 25.1.1912, ucciso da arma da fuoco il
2.12.1982;
Minore Antonio Salvatore, 16.11.1927 strangolato in Palermo 10 giorni prima del
30.11.1982
Miceli Nicolò, nato Buseto 26.08.1928 strangolato in Palermo 10
giorni prima del 30.11.1982, unitamente a Minore Antonio
Buccellato Martino, 18.03.1958, strangolato in Palermo 10 giorni prima
del 30.11.1982
Puccio Pietro, nato a Palermo 6.7.1953, ucciso da arma da fuoco
11.5.1989
Tentati
omicidi (arma da fuoco)
Saviano Giovanni, nato Palermo 29.10.1960 – «bar TWO» - Palermo
30.11.1982;
Micalizzi Michele, nato Palermo 11.10.1949- «bar TWO» Palermo 30.11.1982
Ammannato Antonio, nato a Palermo il 19.9.1909, Palermo 28.12.1982
[4]L’eliminazione di Rosario Riccobono e Salvatore Scaglione (30.11.82) rappresenta l’ultima fase di una operazione
iniziata quasi 2 anni prima con l’eliminazione di Bontade Stefano (23.4.1981) (Riina tramite Montalto Salvatore, Angelo La Barbera e Salvatore Buscemi era venuto a conoscenza del progetto relativo alla sua
eliminazione. Furono risparmiati all’inizio in quanto avevano tentato di
avvicinarsi ai corleonesi i quali, intuendo che comunque i soggetti prima di
essere eliminati potevano servire alla causa, (furono tranquillizzati ed a loro
fu anche dato l’incarico di eliminare uomini d’onore a loro fedeli (vedi
richiesta di «scarpa» circa l’eliminazione di D'Agostino Emanuele ) o alcuni «scappati « tra i quali Giovannello Greco, Spica, Spitaleri, lo stesso Badalamenti, alcuni Gallina di Carini) inizialmente li risparmiarono anche per far
credere loro che nel progetto del Bontade loro avevano avuto un ruolo marginale
per cui non dovevano temere vendette. Scaglione venne contattato in data
30.11.80 nel cantiere Idealverde dall’ Anzelmo F.Paolo, combinato uomo d'onore. Nel luglio 1980, con la scusa
che il prof. Di Miceli, voleva incontrarsi con lui, Ganci Raffaele, dopo tale incontro, fissa un appuntamento a Scaglione
in via Lancia di Brolo (nella macelleria di Ganci) alla presenza anche di
Franco Spina (ha una macelleria poco distante) per recarsi
successivamente in c.da Dammusi, ove pretestuosamente era stata convocata una
riunione della commissione che si sarebbe conclusa con una «mangiata» (dove nel
frattempo Gambino Giacomo Giuseppe aveva condotto Riccobono Rosario, Micalizzi Salvatore,
Cannella Vincenzo e Savoca Carlo) ed ordina ai picciotti di farsi vedere, per far sì
che la situazione appaia normale. Giorni prima i vertici della famiglia di San
Lorenzo (Buffa Salvatore «nerone», Troia Mario , Buffa Giuseppe, Gambino Giacomo Giuseppe, danno ordine a Ferrante G.
Battista, Biondino Salvatore, Biondo «il lungo» e Biondino Salvatore «il corto», di rimanere a
disposizione (rimangono per 2 giorni o nel baglio presso la Sigros di proprietà
del Biondo o a casa di Buffa Salvatore nei pressi dell’ex Convitto di San
Lorenzo) in attesa dell’operazione. Analogo ordine, lo stesso giorno
dell’esecuzione, viene impartito da Ganci Raffaele a Guglielmini Giuseppe. Dopo l’eliminazione del Riccobono venne sciolta la
famiglia di Partanna e San Lorenzo e successivamente venne creato il mandamento
di San Lorenzo con a capo prima per un anno Buffa Salvatore e poi Gambino G.
Giuseppe. la famiglia di Partanna venne retta da Porcelli Antonio e Civiletti Giuseppe. Altro ordine del Ganci è quello di prendere vivo Totò
Messeri appena lui si allontana con lo Scaglione. Il Lo Piccolo Salvatore, attesa la sua vicinanza con Riccobono temeva di
essere eliminato, ma venne risparmiato perché si sapeva che non si sarebbe
ribellato. Il movente è da ricercarsi in una «cristallizzata» avversità,
nutrita dalla famiglia della Noce contro il proprio capo (Scaglione), (Ganci
Raffaele sottocapo della famiglia della Noce non gradiva il fatto che lo Scaglione
(il quale a sua volta, a ragione, non si fidava dei suoi sottoposti), non si
era schierato con i corleonesi, alimentata dallo stesso Riina che ormai contava
sulla assoluta fedeltà di uomini d’onore della medesima (i Ganci, gli Spina e
gli Anzelmo). I quatto cadaveri, a cui dopo si aggiunse quello dello Scaglione,
furono messi in 2 bidoni con acido nel vicino torrente. Si dovette inoltre
procedere all’acquisto di altro acido perché la bassa temperatura del torrente
rallentava l’opera di corrosione. Mandanti: Farinella Giuseppe; Greco Michele; Calò Giuseppe; Madonia Francesco; Bono Giuseppe; Geraci Antonino; Rotolo Antonino; Provenzano Bernardo; Riina Salvatore; Brusca Bernardo; Motisi Matteo. Esecutori: Anzelmo F. Paolo; Ganci Calogero; Ganci Domenico; Spina Giuseppe; Spina Francesco; Brusca Giovanni; Genovese Giovanni; Maniscalco Giuseppe; Brusca Mariuccio; Brusca Giuseppe; Brusca Giovanni; Brusca Vito; Genovese Salvatore; Nania Filippo; Bommarito Bernardo; Agrigento Giuseppe; Agrigento Gregorio; Madonia Antonino; Di Maggio Baldassare; Motisi Matteo; Motisi Giovanni; Ganci Raffaele; Buffa Salvatore; Buffa Giuseppe; Troia Mariano Tullio; Porcelli Antonino. Deceduti: Intile Francesco; Gambino Giacomo Giuseppe; Greco Giuseppe; Geraci Antonino; Lazio Salvatore, Civiletti Giuseppe.
[5] Archivio del Comune di San Giuseppe Jato:
"Comune di San Giuseppe Jato - Deliberazione del Consiglio Comunale n. 38 del 10 maggio 1924. Presiede la seduta il sindaco Termini cav. Santo. L'ordine del giorno reca: conferimento della cittadinanza onoraria a S.E. Benito Mussolini. Il presidente riferisce che il grande fenomeno della nostra rigenerazione, la prodigiosa trasformazione dello spirito nazionale, abbrutito dal veleno bolscevico, devesi al grande italiano Benito Mussolini, che con la forza del suo genio e con la fermezza del suo carattere, ha ridato alla Nazione la dignità di grande potenza. Questo genio d'Italia è venuto nella nostra Sicilia per constatare de visu, gl'impellenti bisogni di questo popolo, e per escogitare i mezzi necessari per renderlo prospero. Sarà Benito Mussolini che darà a questa nostra terra gloriosa, ma sempre negletta, quei benefici da tempo invano richiesti. Interprete dell'unanime sentimento di questa popolazione, affermatosi col voto nelle recenti elezioni politiche, propone di conferire la cittadinanza onoraria a Benito Mussolini. Il Consiglio, sentita l'esposizione del Presidente; riconoscendo in S.E. Benito Mussolini la ferrea volontà di realizzare il suo programma, informato ai sentimenti di giustizia, di benessere e di patriottismo, a voti unanimi, plaudendo all'opera del Capo del Governo, in segno di gratitudine gli conferisce la cittadinanza onoraria di questo Comune."
[6] Dall'intervista di Alessandra Longo a Claudio Martelli in http://www.abramo.it/ service/rassegna/ARTICOLI.HTM/
UNITA/97100603.HTM
"Più o meno un anno fa, quando Brusca fu arrestato e cominciò quell'inquietante tentativo di mettere di mezzo Violante (il braccio destro di Riina aveva viaggiato casualmente in aereo con il presidente della Camera, ndr), io raccontai a Canale 5 del primo attentato organizzato contro di me. Citai i mafiosi di Alcamo, trovati nei pressi della mia casa. Entrambi lavoravano alla Cornacchiola, la villa di Vito Ganci, allora avvocato di Brusca. Ecco, credo di essere diventato uno dei bersagli di Brusca in quel momento. Lui si era guardato bene dal rivelare il legame tra quei due e il suo avvocato. Io l'ho smascherato in televisione".
[7] Dalla biografia di Claudio Martelli in http://www.claudiomartelli.com/files/biogra.htm
"… Nel 1976 lascia l'università quando Craxi, divenuto segretario
del PSI, lo chiama all'impegno di Partito a Roma. Deputato del collegio di
Mantova e Cremona, eletto parlamentare europeo nel collegio dell'Italia
centrale, ricopre per quasi un decennio la responsabilità della cultura,
dell'informazione e dello spettacolo. Nel 1981, con il Congresso di Palermo,
divento vice segretario del PSI. Dal 1984, all'indomani del Congresso di
Verona, è Vice Segretario unico del Partito. Eletto al Parlamento per la terza
volta nel 1987 (N.d.A: manca la circoscrizione elettorale). Vice
Presidente del Consiglio dei Ministri nel Governo Andreotti dal luglio 1989. Dal febbraio 1991 è anche Ministro di
Grazia e Giustizia…"
[8] Giuseppe Casarrubea - Portella della Ginestra, microstoria di una strage - Franco Angeli Storia -1997 - pag. 49: Il più enigmatico è Pasquale Sciortino, inteso Pino, originario di San Cipirello, dove era nato il 10 ottobre 1923. E' lui il vero tramite tra la banda e il mondo esterno, a cominciare da quello politico. Del resto è un acculturato, e con una esperienza bellica alle spalle. Appartenente ad una famiglia agiata, aveva frequentato il ginnasio all'istituto San Rocco di Palermo e, scoppiata la guerra, si era arruolato volontario, combattendo contro i tedeschi, dopo l'8 settembre. Da Roma - Monte Mario, dove si trovava con i suoi compagni, era stato trasferito alla Cecchignola, dove era avvenuto uno scontro con i tedeschi. Reclutato nella divisione Ariete, fu capocarro del gruppo autoblindo, quindi inquadrato con alcuni reparti di fanteria. Lo troviamo a Tivoli, dove viene fatto prigioniero e consegnato ai tedeschi. Riuscito a fuggire, si reca ad Alatri, in provincia di Frosinone, dove si unisce a gruppi di partigiani, e avvia più fattivamente il suo rapporto con la lotta di liberazione. In Toscana entra nella divisione 'Garibaldi' del monte Amiata e, dopo la ritirata dei tedeschi, raggiunge Roma, per recarsi in Sicilia, nel 1944, dopo la liberazione di Massa Marittima e Massa Carrara. Qui, come partigiano, era stato incorporato militarmente, agli ordini del capitano Rulli. A Palermo studia per conseguire il diploma di ragioniere, e ogni settimana si reca presso le tenute del nonno materno Antonio Micciché, che aveva allevamenti di bestiame e diverse estensioni di terreno (65 ettari di vigneto, 150 bovini, 700 ovini), aiutandolo nell'amministrazione dell'azienda agricola e zootecnica. E attraverso quest'ultimo, intimo amico del barone Stefano La Motta e di Guglielmo Paternò, duca di Carcaci, entra nel movimento separatista. Frequenta la casa del La Motta e conosce l'avv. Sirio Rossi e il governatore del Governo alleato Charles Poletti. Incontra, nel settembre del 1945, per la prima volta, Salvatore Giuliano, nell'ormai nota riunione di Ponte Sagana. Diventa, quindi, un attivo propagandista dell'indipendentismo, presidente della sezione separatista di San Cipirello e segretario del La Motta, venendo a conoscenza di ogni circostanza sulla parte militare dell'EVIS. Avvenuta la scissione, tra la fine del '46 e i primi del '47, tra l'ala monarchico-liberale facente capo ad Andrea Finocchiaro Aprile e quella repubblicano-socialista di Antonino Varvaro, aderisce alla prima, sostenendola sino alle elezioni del 20 aprile 1947. Dopo gli attentati del 22 giugno di quest'anno riceve, per posta, a casa sua, dei documenti falsi con tutte le istruzioni di cosa deve fare, si imbarca per Napoli (14 agosto 1947) e, da qui, per Genova da dove con la motonave Vulcania, parte per l'America. Intanto cambia nome con quello di Antonio Venza. Lo troviamo a Saint Louis, nel Missouri, con Vito Prospero, parente di suo padre. Poi a Grand Lakes, redattore di una stazione radio. Ma la cosa non funziona. Trova lavoro presso la Bendix Company e la White Company. Si reca quindi nell'Indiana, a Saint Bey, dopo aver assunto il nome di Francesco Di Catalano e si arruola nella guardia nazionale. In ultimo è nel Texas, a Which da Port, dove viene intercettato dall'FBI e arrestato il 31 agosto 1952, quattro mesi dopo la sua condanna all'ergastolo.
[9] In G.Casarrubea – Portella… - pag. 295: Cusimano Rosario di Angelo e Anna Guzzetta di anni 12 compiuti, da San Giuseppe Jato, abitante in via Porta Palermo, il quale, come rilevasi dall'annesso verbale n.2, dichiarò che la mattina del 1° maggio 1947, si era recato alla festa insieme con la madre, alle sorelle e altri ragazzi suoi vicini di casa. Ascoltava il discorso e batteva le mani, quando sentì sparare. Credette che si trattasse di fuochi artificiali, ma quando vide che cascavano ferite le bestie e la gente scappava, egli si nascose dietro un masso. Quando il fuoco cessò e la gente si era allontanata egli andò in cerca dei propri congiunti e non avendoli trovati si avviò verso le case della Ginestra per prendere lo stradale che conduce a San Giuseppe Jato. Ad un certo punto vide tre individui armati, che passarono a poca distanza da lui, inosservato, alla stessa distanza, cioè, che intercorre tra il Municipio e la Caserma dei Carabinieri di San Giuseppe Jato (circa 50 metri). Perciò li riconobbe tutti e tre. Essi erano: Pippino Troia, Totò Romano e Marinotto Elia. Indossavano, tutti, vestiti vecchi ed erano armati: i primi due con fucili mitragliatori, dalle canne con buchi (cu i pirtusidda); ed il terzo con fucili a due canne, da caccia. Quest'ultimo, inoltre, calzava scarpe gialle, all'americana. Li seguì con lo sguardo sino al ponte grande, finché tracuddarono - sparirono. Il Cusimano soggiunse che quando fu a casa, disse alla madre quello che aveva visto ed essa gli raccomandò: Non si parla, eh! Si sente ma non si parla.
[10] - il giorno 21 aprile u.s., appena si seppe che nelle
elezioni il Blocco del Popolo aveva ottenuta la maggioranza, l'ex Tenente dei
Carabinieri sig. Di Leonardo Pasquale[10] di Carlo
da San Cipirello, incontrato il Sindaco di San Cipirello sig. Sciortino
Pasquale, lo chiamò e, in presenza del Maresciallo Comandante
la Stazione dei Carabinieri del luogo, gli disse: Se avete da fare manifestazioni
di giubilo, bisogna evitarle se no succede danno!
-
In un pubblico comizio tenuto a San Cipirello, il capo della mafia locale,
Celeste Salvatore[10] fu Pietro,
volle parlare in pubblico. Fra l'altro disse: Una vittoria del Blocco del
Popolo sarà tanti fossi che si scaveranno i comunisti e tanto sangue sarà
sparso. I figli non troveranno il padre e la madre perché conoscete chi sono io.
Il Celeste ricercato si è reso irreperibile.
-
La sera del 20 aprile 1947, a dire del Sindaco di San Cipirello, si era sparsa
la voce che in casa di Gioacchino Capra era stata preparata una mitragliatrice per il popolo
se questo fosse sceso in piazza; e che i mafiosi erano pronti ad attaccare il
popolo. Però non successe nulla.
-
Infine il Sindaco suddetto ha esibito una lettera anonima, da lui ricevuta per
posta, nella quale vengono indicati come assassini (del fatto) del primo
maggio: Scioiano Calogero, Mustacchia Salvatore, Lo Greco Damiano e Cangelosi Antonino; però Scioiano e Mustacchia si sarebbero sottratti con
una calunia, una scusa, mentre Cangelosi e Lo Greco avrebbero
partecipato all'attacco. Nell'anonimo si dice infine: …satti guardare perché
il Maresciallo del vostro paese era pure complice. Salute di un tuo amico.
- La signora Baio Maria, maritata Cuccia, nata a Piana dei Greci ma domiciliata a San Giuseppe Jato, dichiara - veggasi allegato n.10 - che la mattina del primo maggio, la vicina di casa, Partelli Antonia, vedova, ma che non disdegna i rapporti con gli uomini, diceva: Vanno a Portella, ma non sanno che lì ci stanno gli americani che devono buttare le caramelle!. La Baio di rimando: Botta di sangue in bocca, che andate dicendo?. Allora quella riprese: Io lo dico per ischerzo, ma sapete che a Palermo ci stanno i soldati americani?
[11] Giornale di Sicilia del 23.10.1998
[12] ASP - Fondo Tribunale Penale - Busta 3198 - pag. 656
[13] Gaetano Falzone – Storia della mafia – pag. 226 - Flaccovio Editore - Palermo: Questa nemesi che a stillicidio presiedeva al fatale scambio di poteri tra i mafiosi aveva, attorno al 1910, conosciuto un momento di efferatezza particolare in alcune zone, come ad esempio quella di Monreale. I custodi dei giardini di agrumi di quella parte della Conca d’Oro erano riusciti ad assicurarsi un forte grado di impunità a motivo della protezione loro accordata da troppi uomini politici (figura caratteristica, ne era l'on. Rocco Balsano compare di don Vittorio Calò); nonché sicuri e pingui redditi economici, essendo fino a quel momento riusciti a mantenere disciplina ed unità nei ranghi. L’avvento di un uomo spregiudicato e sanguinario come don Vittorio Calò, riconosciuto come capo della consorteria degli stuppagghiari, venne ad un certo momento a segnare la loro fine. Definiti sprezzantemente scurmi fitusi dalla nuova mafia, i vecchi giardinieri da allora cominciarono a cadere trucidati senza riguardo alcuno. Era sufficiente portare un certo sospetto cognome per diventare, compresi i fanciulli, candidati a morire senza appello. Caratteristica degli stuppagghiari era altresì il disprezzo e la derisione per ogni autorità di sangue, di censo e di politica cui i vecchi si erano sempre appoggiati. I nuovi mafiosi lanciati alla conquista della loro frontiera di benessere facevano assegnamento esclusivamente sulla bontà della loro carrubbina stuccata (fucile a canne mozze).
[14] ASDM - Fondo Governo Ordinario – Sezione IX , Busta , ( 22.luglio.1827, lettera dell'arciprete Tommaso Aiello all'Arcivescovo di Monreale): "Monsignore, è alla mia cognizione che S.E. Sig.re Principe di Camporeale di felice ricordanza nella fondazione di questa Comune a spese proprie fabbricò le case collaterali a questa Chiesa Madre formandole a mezzo circolo coll’idea di essere piano di detta Chiesa, quale idea la pigliò dal Vaticano di Roma, quali case poi dandole a censo, si dice averle concesse coll’espressa condizione di non aprirsi porte nel piano di detta Chiesa…","…Nel 1792, eletto alla cura delle anime il degno sac. don Ignazio Genovese da Chiusa al quale il Marchese assegnò la casa parrocchiale, ed essendo accresciuto il numero dei fedeli, animando il popolo fece fabbricare una nuova Madrice mediante l’elemosine e fatiga del popolo e onze 400 che approntò il sig. Marchese e che volle essere presente alla benedizione della prima pietra col mettervi un diamante…"
[15] G. Scarpace: Da Jato antica a San Cipirello - pag. 221:"… Notevoli le sue ricerche su una nuova terapia del tifo e della brucellosi. Professore di Clinica Pediatrica all'Università di Roma. Professore straordinario di ricerche mediche presso l'Università di California. Dal 1945 al 1948 Rettore dell'Università di Roma. Autore di un Trattato delle Malattie Infettive. Medaglia d'oro di benemerito della Cultura. Membro dell'Accademia Pontificia delle Scienze (Nuovi Lincei). Socio onorario della Società di Pediatria di Madrid. Presidente della Società Italiana di Pediatria. Uomo politico. Partigiano. Deputato alla Costituente e al Parlamento nel gruppo D.C.
[16] G. Scarpace: Da Jato antica a San Cipirello - pag. 210: "…Attuò un audace e vasto piano di lottizzazione, talché quasi tutti i contadini locali ebbero i loro poderi che, migliorati nelle colture, costituirono poi il nerbo principale della economia ginosina…Riservatasi per la conduzione diretta una parte del predetto terreno, vi creò una azienda modello a cultura intensiva dove si pratica largamente l'olivicoltura, la tabacchicultura…Per la razionalità delle culture e per l'alto rendimento della produzione, all'azienda medesima sono stati conferiti il Primo Premio Nazionale per l'Olivicultura e un Premio per la Produzione Agricola. Anche in quel di Caronia (Messina) Antonino Castro ha creato una rispettabile azienda silvo-pastorale attualmente in pieno sviluppo di trasformazione. Altri intraprendenti agricoltori, sancipirellesi di origine, che pure nelle Puglie si sono stabilmente trasferiti, hanno saputo creare complessi aziendali a conduzione diretta, sono i fratelli Domenico, Santo e Giovanni Pardo. Anch'essi, già facenti parte del gruppo Castro per la vasta tenuta della Regina di Spagna, in quel di Puglia, riservarono per loro parecchie centinaia di ettare di terreno ricadenti negli agri di Ginosa e Montescaglioso che sottoposero subito a bonifica, mediante opere di canalizzazione e conseguenti impianti irrigui."
[17] ASP - Fondo Tribunale Penale - Busta 3198 f. 149 - Dichiarazione ai Reali Carabinieri di Pardo Vincenzo al momento dell'arresto in Toscana: "Sono giunto a Siena il 23.3. c.a. (1926) per attendere mio cugino Calogero avv. Leone, il comm. Cascio Vincenzo e Castro Antonino fu Calogero per stipulare contratti di acquisto di terreno. Acquistammo la tenuta di Cozzano (Volterra) il 3 aprile c.a. per 2 milioni di lire italiane e definimmo il compromesso per la tenuta dell'ing. Partini sita a Ponte a Tressa (Siena) quasi contemporaneamente al precedente contratto per la somma di lire italiane 3 milioni e ottocentomila." I fratelli venivano successivamente arrestati a Parigi. L'avv. Calogero Leone nato a San Cipirello il 16.02.1873 giustificava la sua presenza in Toscana al f. 148: "…la mia gita a Siena aveva per scopo l'acquisto di un terreno o meglio di una tenuta di Camigliano (Montalcino) di proprietà del sig. Polliani, ma per informazioni avute dal Monte dei Paschi non ho concluso l'affare. Conosco i fratelli Pardo Domenico, Vincenzo, Santo e Giovanni e Leone Francesco fu Francesco Paolo i quali mi hanno raggiunto a Siena il 31 marzo per comprare terreno. Ai primi di aprile c.a. acquistai in società col commendatore Cascio Vincenzo domiciliato a Palermo in via Roma la tenuta Isola d'Arbia dell'ing. Partini di Siena per l'ammontare di lire italiane due milioni."
[18] G. Scarpace: Da Jato antica a San Cipirello - pag. 219 : "…Sono stabilimenti per la produzione di conserve alimentari (Palermo), per la produzione di derivati di agrumi (olii essenziali e succhi - Bagheria), fabbrica di spirito (Bagheria), oleifici (Bagheria) e che aveva occupato nel campo degli industriali palermitani una posizione di primo piano rivestendo le più importanti cariche di categoria e godendo della massima considerazione anche nel campo bancario."
[19] G. Scarpace: Da Jato antica a San Cipirello - pag. 216: "…estendeva la sua sfera d'azione a tutta la Sicilia istituendo in quasi tutti i centri dell'Isola apposite Agenzie. Qualche contratto si ebbe anche dalle Calabrie e dalla Sardegna. Volse quindi la sua attività anche nel campo dei crediti a breve scadenza concessi agli agricoltori sia locali che dei comuni finitimi, contribuendo così, efficacemente, ad estirpare la mala pianta dell'usura. Il capitale iniziale della società, di appena lire 4800 andò fortemente incrementandosi con la continua emissione di azioni e con l'aumento dei soci che annualmente godevano di dividendi tali da fare ritenere ottimo l'investimento. Ventisei anni durò l'attività del sodalizio essendo entrato in liquidazione nel 1934, dopo avere ritenuta ultimata la sua missione civilizzatrice (N.d.A: !!!)"
[20] in S. Lupo - op. cit. - pag. 392 n. 9: Relazione del prefetto Barbieri del 1° agosto 1925, in ACS, PS, AAGGRR, 1925, b. 78
[21] Giuseppe Barone, Egemonie urbane e potere locale (1882
– 1913) in “Le regioni dall’unità ad oggi: la Sicilia”, pag. 218 – Giulio
Einaudi Editore – 1987.
"Nel dicembre 1902 la giunta comunale aveva dovuto decretare d'urgenza il calmiere sui generi di prima necessità, specialmente per combattere la speculazione sul mercato delle farine monopolizzato dall'industriale Filippo Pecoraino Proprietario di grandi mulini a vapore, accusato di essersi arricchito col contrabbando dei grani e con false operazioni di sdoganamento dei cereali, Pecoraino guidò la riscossa di mugnai e panettieri impugnando per via giudiziaria il provvedimento e sospendendo la produzione di farina in città, 'per fare mancare il pane - scrisse il sindaco Tasca Lanza - e sollevare contro di noi la popolazione. Era un piano d'assedio attuato in piena regola: si voleva la nostra resa a discrezione…quasi per fame.' Per sbloccare la crisi degli approvvigionamenti, nella seduta del 3 giugno 1903 il consiglio comunale approvò in via sperimentale di gestire direttamente l'industria molitoria mediante l'affitto di un mulino privato ed avviando la panificazione municipale in due stabilimenti, uno annesso allo stesso mulino, l'altro in un vecchio fabbricato ai Cappuccini. Con una produzione giornaliera di 2000 quintali di pane e 500 di farine, si ottenne un immediato ribasso dei prezzi, che fece di Palermo la città con il pane meno caro d'Italia, mentre la magistratura infliggeva multe pesanti agli industriali. Nell'autunno 1905 Garibaldi Bosco propose la costruzione di un grande mulino con annessi panifici e pastifici per attuare la gestione pubblica dell'attività molitoria; il 3 dicembre il referendum per la municipalizzazione ottenne 8708 voti a favore e solo 1086 contrari…"
[22] Dalla dichiarazione di Matteo e Vincenzo Accardi del 6.11.1926 al Giudice Triolo – ASP - Fondo Tribunale Penale - Busta 3198, f. 605.
[23] Archivio Comunale di San Giuseppe Jato. Sezione VIII -
Corrispondenza -
"R. Prefettura di Palermo - Gabinetto - prot. N. 1380 - al signor Sindaco di San Giuseppe Jato - Oggetto: Proposta di ricompensa. Il signor Comandante di codesta Tenenza dei Reali Carabinieri nel riferire circa il mancato omicidio del sordomuto Provenzano Nicolò fu Vincenzo avvenuto il 13 corrente in codesta contrada Traversa ad opera dei fratelli Lo Monaco Francesco e Alfonso, mi segnala l'azione coraggiosa spiegata nella circostanza dal possidente Licari Salvatore di Rosario, il quale, avendo assistito al fatto delittuoso, fermò i due Lo Monaco e li costrinse a seguirlo alla caserma dei RR.CC., in vicinanza della quale li consegnò a due guardie campestri. Per la condotta esemplare tenuta dal Licari nell'interesse della Giustizia, prego la S.V. di tributargli a mio nome vive parole di elogio che servano a lui di incoraggiamento ed alle persone oneste di sprone ad imitarlo. Il Prefetto: MORI"
[24] ASP - Fondo Tribunale Penale - Busta 3105. "Processo a Calogero Termini e c.". La busta contiene gli atti del processo relativo all'appalto dell'acquedotto della Chiusa a San Giuseppe Jato dove, da dichiarazioni successive, si acclarava che la tangente sui lavori a base d'asta ammontava al 22.5%
[25] Si tratta di una lettera anonima indirizzata a Giudice Istruttore Avv. Comm. Triolo. Il timbro postale riporta: '11.11.1926 - Palermo ferrovia. La busta risulta mutila probabilmente per l'asportazione dei francobolli. Stranamente nella parte posteriore riesce ancora a leggersi: Emilio - Corso Alberto Amedeo 24 - Palermo
[26] Oltre ad essere segretario politico il comm. Andrea Scarcella era anche consigliere delegato del giornale 'Sicilia Nuova'
[27] 24.05.1926 - f. 172: Todaro Vito fu Giuseppe (di anni 50); Mustacchia Ignazio di Bartolomeo (34); Croce Francesco di Giuseppe (28); Musunserra Giuseppe di Salvatore (31); Todaro Giuseppe di Vincenzo (27) Leone Francesco fu Francesco Paolo (48); Pardo Santo di Francesco (36); Pardo Domenico di Francesco (39); Pardo Giovanni di Francesco (36); Rizzo Salvatore di Antonino.
[28] Era un modo di dire per indicare gli organizzatori di delitti nel senso di: preparare i colpi a tavolino.
[29] E' l'unico Brusca che si incontra negli atti del faldone n. 3198. Sarà interrogato come testimone a discolpa e dichiarerà che il Rampudda, la sera dell'omicidio, si trovava a festeggiare un battesimo in casa sua.
[30] Padre dei fratelli Di Corte Nicolò e Vincenzo accusati dell'omicidio di Grippi Pietro (f. 613).
[31] Appunto in rosso del Giudice: "Anche tra i maffiosi era in uso scambiarsi questo genere di cortesie!!!". Secondo il Giudice, quindi, poteva anche trattarsi di periodo ipotetico di primo tipo o della realtà.
[32] (Lettera dei soci della Cassa Rurale Leone XIII all'Arcivescovo di Monreale. ASDM Fondo Governo Ordinario S9, S56-1, B11). 18.06.1914: "Intanto ora si rinnovano le scene delle elezioni politiche. Il partito, ora caduto sostiene l'avv. Pulejo per la rielezione a consigliere provinciale. Ebbene domenica scorsa 14 giugno quell'istrione dell'Arciprete Migliore assieme al sac. Finocchio e al sac. Patellaro in mezzo ai dimostranti andava gridando e battendo le mani come un forsennato e parlò a favore del Pulejo e contro il candidato del Greco (N.d.A Nicolò Barbato) non solo nel nostro paese, ma anche in San Cipirello nei comizi pubblici."
[33] Tutti i documenti che seguono sono reperibili in Archivio Storico Diocesano di Monreale - Fondo Governo Ordinario - Serie 3 - Sez. 56-1 - Busta 1
[34] Lettera all'Arcivescovo della Cooperativa Pio X : "Il sac. Giulio Virga fu tesserato del Partito Popolare solamente nel 1919. Dopo quell'epoca fu avversario del Partito perché incominciarono ad infiltrarsi massonici e maffiosi, specialmente quando fu ammesso nel partito l'on. Francesco Termini, protettore del noto Santo Termini e compagni, tanto che nelle elezioni del 1924 il sac. Giulio Virga fu contro l'on. Termini e contro i di lui sostenitori in San Giuseppe Jato e San Cipirello. Ciò è notorio nei due paesi."
[35]"NOTE SULLE QUALITÀ MORALI DEI CONCORRENTI E
SULL'AMBIENTE DI SAN GIUSEPPE JATO. Questa Curia Arcivescovile nel rimettere
alla Santa Congregazione del Concilio l'incarto riguardante il concorso per la
provvista del titolare della Parrocchia di San Giuseppe Jato di questa
Archidiocesi, per incarico di Mons. Arcivescovo e come riferenti il suo
pensiero vi unisce alcuni rilievi circa l'idoneità morale dei due candidati
sac. Finocchio Giuseppe e sac. Antonino Caronia, quale essa risulta da documenti antecedenti e dallo
stato attuale delle cose, che nelle sue molteplici circostanze certamente
sfugge a chi deve guardarle da lontano. I - Senza dubbio il sac.
Finocchio ha abilità ed energia. Egli però a provarlo si preoccupa troppo di
affastellare documenti a documenti di valore molto discutibile. Secondo verità
non tutte le associazioni di cui è a capo sono vitali come, per esempio,
l'Unione Popolare e l'Unione Donne Cattoliche. Ha stima in paese come di
persona civilmente colta, originata da lezioni particolari ad alunni di varie
classi in cui da molti anni ha impiegato gran parte della giornata. Non gode
opinione di prete zelante ed ha fama come di uno che non paga i debiti. Ma quel
che è peggio egli si è dimostrato sempre di cattiva coscienza. A parte la
denuncia fatta dall'incorruttibile Vicario Foraneo del luogo sac. Salvatore
Riccobono, riguardante la sua moralità (che sebbene accenni a
fatti anche rimoti non può trascurarsi nell'integrare il giudizio attorno alla
sua persona) dai documenti di Curia e dalla constatazione dell'attuale fermento
suscitato attorno all'elezione del titolare della parrocchia, il sac. Finocchio
risulta non poco pregiudicato. Dai documenti della Curia che rimontano al
1907-1908-1909 egli apparisce torbido, rivoluzionario e intrigante (all. 5). Né
il carattere di lui si è mutato sino ad oggi. Non è vero che il popolo
parteggia per il suo parrocato. Il popolo buono che ha interesse per la
religione non ha simpatia per un Sacerdote di poco zelo e che per vari titoli
ispira diffidenza: l'abbiamo ricavato da conversazioni private, e dai documenti
qui annessi. I buoni preferiscono il Caronia, questo vogliono dire quando
reclamano che sull'Arcivescovo non si facciano pressioni (all. 4). Gli
indifferenti che sono molti non si interessano dell'elezione del parroco, meno
naturalmente se ne interessano gli irreligiosi. Se gli indifferenti e gli
irreligiosi si agitano - dato che sia vero tutto quello che si è riferito - ciò
è perché se ne cerca il favore: ma il favore di questa gente è la peggiore
testimonianza che possa aversi per un sacerdote che aspira al parrocato. Questa
gente poi che non entra mai in chiesa non può avere diritto alcuno di esprimere
il proprio giudizio sul sacerdote che deve avere in una parrocchia la suprema
cura degli interessi spirituali. Ma ripeto, il laicato indifferente e
irreligioso non si impiccia spontaneamente della elezione del parroco, tranne
che qualcuno non vi abbia interessi personali: e nel caso Finocchio ci sono gli
interessi di sangue di un nipote che sta al Consiglio Comunale - Sunseri - e forse gli interessi economici dell'assessore
Traina Pro-Sindaco, che essendo cassiere della pingue Opera
Riccobono, come dicono, vedrebbe volentieri a se ligio il parroco che ne è presidente.
Il fatto che al Consiglio Comunale vi sono taluni infanatichiti per Finocchio
spiega la possibilità di strappare firme per pubbliche sottoscrizioni, avere
petizioni di alcuni sodalizi e rappresentare, attraverso il Maresciallo o il
Delegato (gente solita ad essere ligia al Sindaco) dinanzi alle autorità
superiori ma lontane il finimondo, se la volontà del popolo non viene
assecondata. Un prete timorato di Dio considerando le vessazioni che tale
incomposto agitarsi - il Finocchio lo dice spontaneo - produce al proprio
superiore, dovrebbe e potrebbe farlo cessare subito, appena lo volesse;
basterebbe dire agli amici suoi "non vi agitate perché non ho aspirazioni
di questo genere". Ma l'agitazione non è cessata: il Finocchio l'ha voluta. La misura della sua ambizione può
valutarsi dal grado di attività mostrato dai suoi amici. Questi appartengono
alla mafia locale: ciò che in Sicilia è sinonimo di sopraffazione e violenza;
quindi si spiegano: 1 - la lettera minacciosa scritta dal pro-Sindaco
all'Ordinario. 2 - un'altra lettera impertinente scritta al patrono e da questo
respinta indietro, ciò che provocò una lettera di scusa. 3 - la visita al
Pro-Vicario Generale del Pro-Sindaco con altre persone per chiedere l'elezione
del Finocchio, minacciando questi in caso contrario la soppressione nel bilancio
comunale dell'assegno ai quattro cappellani della parrocchia, negando il
concorso del Municipio al pagamento delle spese di recente fatte per la
costruzione della facciata della chiesa parrocchiale, facendo intendere che
corre rischio la vita del sac. Giulio Virga, ritenuto come il fautore principale della candidatura
Caronia e dell'opposizione fatta a Finocchio. (Contro il Virga si addensano altre odiosità per
attriti di partiti locali). 4 - un'altra visita al Pro-Vicario di due
mafiosi della provincia, e precisamente di Cinisi e di Terrasini, per
patrocinare la stessa causa. 5 - l'arrivo improvviso, durante la prima seduta
degli esami del concorso, di un mafioso di Casteltermini, venuto a premere sul
paesano Padre Bernardino Cappuccino, uno degli esaminatori. 6 - la manovra
finale del sac. Finocchio per guadagnare direttamente gli esaminatori.
Evidentemente tutto questo armeggio non può riuscire a spianare la via a un
sacerdote che aspira al parrocato. II - Il sac. Caronia di anni 45 è
d'indole mite, è pio, è giudicato di sufficiente cultura ecclesiastica, ha
dedicato tutta la sua vita nel ministero, gode di ottima fama presso i
superiori e i fedeli di San Cipirello dove è vicario foraneo e curato, e di San
Giuseppe Jato dove è economo spirituale: prima vi era cappellano sacramentale.
Non è nativo di San Giuseppe Jato, ma per la contiguità dei due paesi può
considerarsi come cittadino di questo. Tale particolarità è la base apparente
del movimento pro Finocchio: se c'è un paesano perché cercare l'estraneo?
Eppure nessuno degli amici di Finocchio ha avanzato la minima accusa contro il
Caronia, questi si impone all'opinione di tutti. …Monreale 25 aprile 1923"
[36] Non risulta riportato il nome del comm. Cascio. Si può opinare trattarsi del comm. Giuseppe Cascio Denaro, cassiere del giornale 'Sicilia Nuova' di Alfredo Cucco oppure del comm. Vincenzo Cascio, domiciliato a Palermo in Via Roma, socio, nell'acquisto di terreni in Toscana, degli jatini Vincenzo Pardo, Antonino Castro e Calogero avv. Leone.
[37]Masseria era un particolare contratto di concessione. I feudi dati a masseria erano quelli concessi dalla Chiesa a particolari a modo di enfiteusi perpetua, con patti però ed oneri molto differenti dagli ordinari contratti enfiteutici. La masseria intesa come ai nostri giorni era l'edificio che costituiva il centro di aggregazione e che allora si chiamava stantie.
[38] La più antica forma di concessione: al concedente andava la decima parte dei prodotti. In Sicilia era meglio conosciuta come lex hieronica. I romani la utilizzarono e qualificarono le città soggette a questa legge come decumane. L'antica Jato era una di queste.
[39] Macchina ad acqua che batte e rassoda i panni.
[40] G. Nania - Toponomastica e topografia storica nelle valli del Belice e dello Jato - Barbaro Editore - Palermo 1995 - pag. 218: Una coltivazione di riso sul fiume Jato nel 1500.
[41] "Delle cose di Sicilia" - Sellerio - Vol. III pag. 237: "I soli grandi proprietari della Sicilia sono i nobili e soprattutto le comunità; queste due classi di uomini sono molto lontane da qualsiasi idea di miglioramento e si sono abituate da molto tempo alle rendite che devono avere. I nobili le sperperano a Palermo e Napoli senza pensare ai beni che hanno in Sicilia se non con le ricevute che vi mandano. Ce ne sono molti, ci hanno detto, che non hanno mai visitato le loro terre. Per quanto riguarda i monaci, razza prevalentemente abitudinaria per natura, si mangiano tranquillamente queste stesse rendite, senza pensare ad aumentarle. Nel frattempo, il popolo che ha poco o nessun interesse per la terra e le cui raccolte sono senza sbocchi, abbandona pian piano la campagna."
[42] "Delle cose di Sicilia" - Sellerio - Vol.
III pagg. 238-239: "Lasciamo ben presto le lave,
e ci troviamo allora in mezzo ad un paese incantato capace di sorprendervi
ovunque, e che in Sicilia vi avvince. Non è che un susseguirsi di frutteti
frammischiati a capanne e graziosi villaggi; non c'è spazio sprecato: ovunque
un'aria di prosperità e di abbondanza. Osservai nella maggior parte dei campi
di grano, la vite e gli alberi da frutta che crescevano e prosperavano assieme.
Camminando mi chiedevo da dove poteva provenire questà grande prosperità
locale. Non si può attribuirla solo alla ricchezza del suolo, poiché tutta la
Sicilia è un paese molto fertile che anzi richiede meno cura della maggior
parte degli altri paesi. La prima ragione che trovai di tale fenomeno è questa:
poiché l'Etna è situato tra due delle maggiori città della Sicilia, Catania e
Messina, trova da queste parti uno smercio di prodotti che non esiste nel
centro né sulla costa meridionale. La seconda ragione, che ammisi con più
difficoltà, finì ben presto col sembrarmi più convincente. Poiché le terre che
circondano l'Etna sono soggette a spaventose devastazioni, i signori e i monaci
se ne sono disgustati e il popolo ne è diventato proprietario. Ora la divisione
dei beni vi è quasi senza limiti. Ognuno ha un sia pur minimo interesse nella
terra. E' l'unica parte della Sicilia dove il contadino è possidente. C'è da
chiedersi ora perché questo estremo frazionamento della proprietà, che molte
persone sensate considerano in Francia un male, debba essere vissuto come un
bene e un gran bene in Sicilia. E' facile concepirlo e si potrà aggiungere
questo esempio a molti altri che provano che non vi sono principi assoluti
sotto il sole.
Infatti capisco bene che in un paese molto illuminato, dove il clima incita all'attività, dove tutte le classi hanno voglia di arricchirsi, come in Francia e soprattutto in Inghilterra, ad esempio, l'estremo frazionamento della proprietà possa nuocere all'agricoltura, e quindi alla prosperità interna, poiché toglie grandi mezzi di miglioramento e anche d'azione a persone che avrebbero la volontà e la capacità di utilizzarli; quando invece si tratta di stimolare e risvegliare un popolo infelice semiparalizzato per il quale il riposo è un piacere, in cui le classi elevate sono intorpidite nella loro pigrizia ereditaria o nei loro vizi, non conosco mezzo più efficace del frazionamento delle terre. Se dunque io fossi re d'Inghilterra, favorirei la grande proprietà, e se fossi padrone della Sicilia, incoraggerei con tutti i mezzi a mia disposizione la piccola; ma non essendo né l'uno né l'altro, torno rapidamente al mio diario.
[43] Archivio di Stato di Palermo (Catena) - Fondo Polizia
- filza 1 fasc. 1 n. 23: "Sulla comparsa nelle campagne di San Giuseppe e
Belmonte di facinorosi comandati dai famosi Micciché e Virga." 10 luglio
1820.
[44] ASDM - Fondo carte processuali sciolte - Busta. Interrogatorio "in loco tormentorum" di Bernardinus Calagna, grecus Planae del 4 settembre 1589 III Indizione.
[45] Trad. «Ed esortato a dire la verità disse»
[46] Parlamento Generale di Sicilia - Legge n.132
Art. 33 - "Nei casi in cui le Compagnie d'arme dovranno rispondere
di furti, dei sequestri e dei guasti in conseguenza della responsabilità messa
come sopra a carico delle medesime, il danneggiato, o altri in sua vece, sarà
tenuto infra il termine di tre giorni far dichiarazione del fatto innanzi il
Giudice Comunale, nel di cui territorio sia accaduto il furto, il sequestro o
il guasto. Il Giudice dovrà subito dare intelligenza al Capitano d'arme di tale
dichiarazione. Produrrà inoltre il danneggiato istanza al Tribunale Criminale
della Valle, il quale chiamerà entro il termine di otto giorni il Capitano
d'arme del Distretto, ove il danno è avvenuto, ne stabilirà lo ammontare, ed emetterà
un'ordinanza perché fosse immediatamente soddisfatto, può sospendere il
giudizio sino a che sia deciso sul reato, obbligando, se lo crede, il
responsabile a depositare l'ammontare del denaro richiesto. L'ordinanza del
Tribunale Criminale sarà eseguibile sul semplice estratto, e non sarà soggetta
ad alcun rimedio legale."
Art. 34 - "I Capitani d'arme avranno dritto a farsi risarcire delle somme pagate dagli autori o complici del reato."
[47] (Archivio di Stato di Palermo – Catena –
Segreteria di Stato – Fondo Polizia – Filza 7 Documento 50)
“Sindicato del Circondario di Piana dei Greci - 26 aprile 1822 - A
Sua Eccellenza sig. Principe di Cutò – Luogotenente Generale
Signore, mi credo nel dovere di rassegnarle qualmente in questo
Comune nel tempo delle passate vicende esistea una vendita di Carbonari e
diceasi ascendere gl’istessi al numero di 300 tra i quali quasi tutti i
Galantuomini del paese esclusi puochi. In febbraio 1821 non volendo io autorizzare
taluni eccessi che da essi si commisero ed altri che diceasi voler commettere,
né avendo forza di far argine alla torrente per salvarmi la vita, che credea in
pericolo, perciò, per non essere io del loro numero fuggii colla mia famiglia e
rassegnai l’occorso ai miei superiori. Indi accesse in questo il Ten. Col.
Tanfano colla truppa. In luglio ultimo fui obbligato a restituirmi al mio posto
ed io ubbidiente mi portai qui non senza palpiti.”
(Archivio di Stato di Palermo – Catena – Segreteria di Stato –
Fondo Polizia – Filza 12 Documento 479 – 16 settembre 1822)
“Don Nicolò Termini di San Giuseppe li Mortilli accusa Carbonari: Don Antonino Puleo Sindaco, Don Carlo Belli Cancelliere Comunale e Don Antonino Montalbano Decurione
[48] ASDM – Fondo Governo Ordinario - Sez. 9 Serie 56-1 busta 11: "San Giuseppe 25 febbraio 1825 – Il Giudice supplente Nicolò Termine all’Arcivescovo di Monreale - Ecc.Rev.ma, Gli obblighi che indosso non solamente a castigar mi costringono i delitti ma ancora di prevenire ex officio le inconvenienze che accader possano per la malcondotta di due preti di questa comune. Da più giorni mi ero determinato rapportarle le universali lagnanze a carico dei sacerdoti Romani fratelli i quali, nulla curando la veste sacerdotale che investono, operano cose tali che nemmeno il fanno i più scapestrati secolari; questi ad altro non pensano che a turbar l'onore delle famiglie; infatti dalla comune voce si sa che il rev. don Vito Romano recatosi di notte tempo in una casa per illeciti fini, scoperto da parte interessata, fu bastonato e perciò costretto a starsene alquanti giorni in letto. Poco tempo addietro il publico castellano essendosi recato a visitar le carceri, ove è una detenuta, circa un’ora di notte vi trovò il suddetto Romano maggiore appiattato dietro l’interno della porta, che attendea persona, avendola aperta con chiave adulterina, che lui trattiene, porta che anche conduce alla casa di scuola pubblica, di cui n’è esso il Lettore. Il sac. don Vincenzo Romano poi opera non da sacerdote, non da secolare, ma da un pubblico scandaloso, i di costui andamenti sono assai nefandi, sin anche, oh Dio!, a celebrar la Messa immediatamente dopo di essersi trattenuto in illecite tresche con una giovine vergine, che ha ingannato con complimenti e lusinghe; ciò le viene aggevolato dal dire la Messa alle ore 11: ora incongrua e che fa del perfetto buio, ora in cui i parenti di costei partono per andare alla fatica. Tal fatto mi fu rapportato da una donna che vidde uscir ambi dal luogo del delitto sopra il paese ove è lo stazzone; tempo addietro il suddetto Romano minore stuzzicando una moglie di un bracciale, questi venutone a cognizione, lo bastonò di notte incontrandolo in una strada occulta; ha questi operato tante altre scelleratezze che mi trattengo dal rapportargliele per non maggiormente tediare l’E.V.Rev.ma."
[49] ASDM – Fondo Governo Ordinario - Sez. 9 Serie 56-1 busta 11
[50] ASDM - Fondo Governo Ordinario Sez. 9 Serie 56-1 busta
11
"10.11.1836 - Ecc. Rev.ma - Ricevuta quest'oggi ad ore 14.00 circa la veneratissima lettera di V.E. Rev.ma con la quale mi delucidava quello che doveva esaminare prima che mi deliberassi di dare sepoltura ecclesiastica al defunto don Antonino Perez suicida, mi ho chiamato in casa questi rev. Cappellani Sagramentali don Gaetano Lo Brutto, don Nicolò Amorelli, don Michele Costanza e don Vincenzo Romano, colli quali maturamente esaminando li fatti accaduti nell'aver disposto il Perez prima gli affari di sua casa, e poi prima di verificarsi la sua mossa per Palermo si uccise. Si risolse che riflettendo quello che poteva succedergli in Palermo per li suoi consumi e perdite nelle gabelle gli si turbò la fantasia, e mosso da momentanea follia si uccise. Infatti mi sono accertato che nel mese che dimorò in questa, oppresso sempre essendo stato da malinconia, dimandato dal suo razionale don Giovan Battista Giambrone di Palermo, perché stava così oppresso, ed animato a starsene allegro, rispondendo di non farlo di sua volontà, ma di esser vuoler di Dio di starsene malinconico. Mi accertai ancora che alli 7 gennaio 1836 si sposò con l'attuale sua moglie, ed aspettò detto giorno per riceversi la benedizione nuziale, e farsi la Santa Comunione, il Precetto Pasquale: mi si disse probabilmente di averselo fatto dal parroco dell'Altarello di Bajda, e ciò si crede dalla premura ed atto religioso verificato in detto sponsalizio nell'aversi fatta la Comunione. A me si assicurò che la moglie dacché si sposò lo ridusse ad essere religioso a segno che ogni sera gli faceva dire il Santo Rosario. Il rev. Costanza disse a me alla presenza di detti sacerdoti che mesi addietro essendosi abboccato col detto Perez gli diceva che per il passato era stato un debbosciato, adesso però sono cambiato e spero in Dio alla morte mia di avere dolore dei miei peccati. E ciò posso dirlo ancor io, mentre dacché si sposò non portò più da Palermo, ne da questa in sua casa, donzelle di scandalo. Nemmeno nel parlare era come prima smodesto. Finalmente si pensò di chiamarsi il Licari, come familiare del Perez se confirmava quanto di sopra si ha detto per il cambiamento in buono del Perez. Allora al suo solito si presentò con un libro alle mani chiamato Bradimante - Modo pratico di assistere a morire - in quest'anno stampato, che dice di doversi dare sepoltura al suicida sulla ragione che non possa dar morte a se stesso se non gli si turba la fantasia e poi soggiunse che vi è ordine in Cancelleria Comunale posteriore alla Ministeriale del 22 novembre 1826 di darsi sepoltura ecclesiastica al suicida, e mi fece capire ch'era preparato perché prevenuto dai suoi gentiluomini di farmi ostacolo, con obbligarmi a dargli sepoltura; a ciò risposi io di rispondere alle mie dimande intorno al cambiamento di costumi del riferito Perez, della Comunione fatta nello sponsalizio, e mi ripeté di essere vero, e la probbabilità di aversi fatto il Precetto Pasquale. Così essendo si deliberò di unanimo parere con detti sacerdoti di dargli sepoltura ecclesiastica, e voglio sperare che V.E. Rev.ma sia per approvare tale disposizione. San Giuseppe 10 novembre 1836 Vicario Foraneo Tommaso Aiello."
[51] Una descrizione della
situazione in questo periodo è riportata, con continui riferimenti ad una
analisi di Napoleone Colajanni, da Gustavo Chiesi, alla fine del 1800, autore de 'La
Sicilia Illustrata' - Brancato
Editore - a pag. 539:
"Come Colajanni afferma, rimontando alle origini di questo stato di cose, si arriva a rinvenirle nella azione deleteria esercitata dal mal governo dei Borboni che spense in tutti la confidenza nella giustizia collettiva: circostanza gravissima che condusse alla creazione della Mafia, dei Campieri e dei Compagni d'armi. Le quali due ultime istituzioni, privata l'una, pubblica l'altra, ma in senso ristrettissimo, non di origine moderna, rappresentano organi sopravvissuti, più o meno modificati, della società feudale. La giustizia sotto i Borboni era cosa talmente confusa con gli arbitri polizieschi, che il popolo in ogni accusato finì per vedere una vittima della prepotenza baronale o governativa. La polizia e le autorità giudiziarie stavano infatti agli ordini dei feudatari, che per pecunia o per influenza si trovavano bene con gli alti poteri dello stato. Nacque da ciò, che, venuta meno ogni fede nella equità ed imparzialità di chi stava preposto alla cosa pubblica, grandi e piccoli pensarono tutti a provvedere individualmente alla sicurezza della persona e della proprietà. La giustizia individuale diventa tutto, sostituendosi alla collettiva, diventata nulla. Un balzo indietro, un regresso spaventevole in ogni ordinamento sociale. I ricchi, i nobili, i baroni assoldano bande di campieri, che non differenziano gran che dai sicari, dai bravi, di cui circondavansi i signorotti e i nobili del Cinquecento e del Seicento, e come questi, i campieri sono scelti fra i più celebri ed arditi malfattori della regione, cui terrorizzano colle loro e le vendette del signore. Indicibili i disordini e le nequizie perpetrate da costoro, nell'ambito delle loro attribuzioni. Esautorato di ogni prestigio, il governo dei Borboni, incapace di frenare gli abusi, che questo stato di cose erigeva a sistema, se ne lavò le mani appaltando la sicurezza pubblica alle Compagnie d'Armi, reclutate fra ladri, banditi e liberati dal carcere, i quali arruolandosi acquistavano la impunità dei precedenti misfatti e si preparavano allegramente a commetterne dei nuovi, sotto l'egida della legge. Campieri e Compagni d'Arme se la intesero presto, e la loro non fu se non una gara a chi più nuoceva, opprimeva i deboli, gli indifesi, le plebi diseredate. Quindi la difesa di queste coll'organizzazione della Mafia: e 'il popolo - dice il Colajanni - contò per le sue vendette sulla Mafia e nel suo codice dell'Omertà, e spesso sul brigante, che riuscì così in taluni momenti ad essere considerato come un simpatico e nobile ultore del debole oppresso dal forte! La vendetta privata più che un diritto ritornò un dovere. Così si spiega 'come la Mafia non sia mai stata una delle comuni associazioni di malfattori, aventi per iscopo esclusivo la depredazione della proprietà altrui. Alla Mafia si riattaccavano principalmente i reati di sangue, cosicché arrivarono a far parte della criminale associazione molti individui reputati generalmente onestissimi, ai quali in realtà si poteano affidare con perfetta sicurezza i più vitali interessi, con la certezza di vederli garantiti: e quella sincerità che i singoli individui non si credevano in debito di palesare di fronte alle autorità, si riteneva doverosa verso la Mafia, e tra i Mafiosi osservavasi scrupolosamente la parola data.' Era insomma tutto l'inverso del senso morale: stato di cose, che riattaccandosi al secolo precedente, è durato nella sua massima intensità tutta la metà del nostro secolo, fino al 1860, lasciando radici e polloni che non sì presto, né sì facilmente si potranno strappare e disperdere." (N.d.A.: sembra opportuno precisare che le valutazioni del Colajanni risalgono all'anno 1885 e sono riportate nel suo volume 'La delinquenza in Sicilia e sue cause')
[52] S. Nicastro - Dal Quarantotto al Sessanta in Mazzara – 1913 pagg. 80-81
[53] Gaston Vuillier – La Sicilia. Impressioni del presente e del passato – Treves – Milano 1897. Il passo completo è reperibile in http://www.accadeinsicilia.net/vuillier.htm
[54] G. Sulli - Fuochi e briganti della Conca d'Oro - Kefagrafica Lo Giudice - Palermo 1990 - pag. 51
[55] Archivio Parrocchiale di San Giuseppe Jato -
Giudicato Regio del Circondario Piana dei Greci - Provincia di Palermo -
Dipartimento Polizia n. 380. Oggetto: Riserbato. Piana 15 luglio 1855
Al signor Rev. Arciprete del Comune di San Giuseppe.
Dal sig. Prefetto di Polizia con officio del sette andante mi è stato
scritto locché siegue: Il Corpo urbano di San Giuseppe venuto a conoscenza di
essersi proposta la rielezione di Francesco Mannino ad Urbano, mi ha inoltrato un suo rapporto col quale
ha dipinto il Mannino come un uomo tristissimo caporione della rivolta di quel
Comune nel 1848.
Apprendo che pria di tal epoca gli gravitavano le seguenti imputazioni: 1. Di un omicidio in persona di Maddalena Randazzo di San Giuseppe - 2. Di altro omicidio in persona di don Paolino Lo Monaco ed attacco a fuoco colla pubblica forza, mentre il Mannino conduceva un bove rubato - 3 di un omicidio mancato in persona di Rosario Balistreri anche da San Giuseppe. Poi dichiara che nelle passate vicende il Mannino si presentò il 14 gennaio al posto di buon ordine, rovesciò pubblicamente a terra lo stemma reale, lo infranse in mille pezzi calpestandolo coi piedi. Indi insieme ad altri ed ai suoi fratelli disarmò i buoni cittadini e la guardia urbana. Il Mannino, che fu alzato a capo squadra, si pose a cavallo alla testa di cinquanta individui per far fronte alle reali truppe. Che fu il primo che assalì il Real Palazzo rubando e distruggendo ciò che gli veniva d'innanzi portando poi seco un bel cavallo della squadra reale, e poi gli altri oggetti, una sciabola con manicatura d'oro, che vendette al celebre Miloro. Che ritornato da Palermo da capo squadra si unì ad altra squadra di Monreale e si pose a perseguitare il rondiero Giuseppe Madonia che voleva uccidere in tutti i modi, e poi faceva infestar di ladri le campagne di quel Comune a segno che fu intercettato il commercio e i buoni cittadini erano vessati con componende delle quali ne riceveva una parte.»
[56]Archivio Parrocchiale di San Giuseppe Jato -
Giudicato Regio del Circondario Piana dei Greci - Provincia di Palermo -
Ripartimento secreto n. 380. Oggetto: Sui carichi dati a don Niccola Miccichè. Piana 4 giugno 1857: «Mercè un foglio anonimo si è
fatta presso il Real Governo la più triste dipintura di cotesto don Nicola
Micciché come infra:
1. che nelle passate oscillazioni fu il Caporione a dare l'assalto al Real Palazzo - 2. Fu il primo che diede mano allo spoglio delle case di Ausilia Morana e svergognatamente trasportava con le carrette olio e tanti oggetti mobili.- 3. Poneva il mercato in cotesto Comune di mule, cavalli, animali bovini derubati. - 4 - La sua condotta costì era di tal timore che uno dei suoi compagni di furto chiedendo la sua parte, il Micciché di giorno in cotesta piazza gli scaricò una fucilata e lo colpì in un braccio. - 5 - Che prima del 1848 egli era mastro Niccola Micciché calzolaio ed oggi di seguito a quell'epoca per lui felice è divenuto don Niccola."
[57] Gaetano Falzone - Storia della mafia - Flaccovio - pag. 126.
[58] Archivio del Comune di San Cipirello - Delibera di Giunta del 18.12.1875
[59] Archivio del Comune di San Cipirello - Delibera di
Giunta del 05.12.1875
"L'anno
1875 il giorno 6 dicembre nella segreteria comunale di Sancipirrello riunitasi
la Giunta Comunale nelle persone dei signori cioè: 1 - Di Maggio Giulio sindaco presidente; 2 - Vaccaro Carlo assessore; 3 - Crimaudo Giuseppe supplente.
La
Giunta venuta alla conoscenza del mancato assassinio alla persona del sig.
Andrea Leone, possidente figlio di Calogero di questa suddetta
Comune e ciò in seguito a due lettere minatorie mandate al padre di detto Leone
nelle quali era interessata tutta la famiglia e minacciata di morte una sotto
il giorno 11 e l'altra nel 24 novembre ora scorso. Ritenuto che nel giorno 27
suddetto mese ed anno una mano assassina che si fu quella di Salvatore Russo fu Giuseppe di Corleone, circa le ore quattro e mezza
di mattina posto in agguato per togliere la vita al Leone, perché non avevano
mandato le lire 8000 (ottomila) chieste con le lettere di sopra calendate
esplodeva una pistola a due colpi alle spalle del Leone che uscito era dalla
sua casa per attendere agli affari propri in campagna.
Ritenuto che il Leone senza punto scoraggiarsi perché rimasto incolume d'un colpo per l'altro forse fallito, reagiva contro l'assassino, l'insiegue, lo afferra, si abbaruffano, il Leone tutto che di piccola statura a fronte del sicario, lo trattiene, gli strappa la pistola che tuttavia teneva nelle mani, indi con un colpo alla testa lo stordisce; alla pistola s'infrange il manico, il Leone segue a dar colpi, l'assassino tenta svincolarsi per fuggire, si rabattono d'un punto di strada si riducono in un altro, il Leone non lo lascia, intanto a forti voci grida aiuto, niuno accorre per lo buio, e perché non si riconosce la voce né può accorrere in aiuto la forza perché la comune n'è sprovvista, tanto di distaccamento militare nonché di stazione di R.R. Carabinieri. Il Leone però sempre gridando «aiuto! Che l'assassino l'ho nelle mani!» nissuno si presenta ad aiutarlo, arriva però a gettare a terra l'assassino Russo e replica gridando fortemente «aiuto! Che Andrea Leone sono!»; allora la gente comecché conosce la voce, accorre in aiuto di Leone trovando quest'ultimo gettato sopra l'assassino che lo tratteneva, l'afferra e si traduce in casa del padre di Leone, indi accorse il Sindaco il quale fatto chiamare i Reali Carabinieri di San Giuseppe Jato ha consegnato l'assassino al Comandante la stazione del Comune suddetto. Da quanto si è conosciuto dalla giustizia essere il Salvatore Russo fu Giuseppe di Corleone un famigerato assassino imputato altre volte di lettere di scrocco e posto dall'autorità giudiziaria di Palermo sotto mandato di cattura per un furto commesso e perciò latitante da quel tempo. La Giunta. Avendo in considerazione che il coraggio civile mostrato dal sig. Andrea Leone nel reagire contro il suo assassino, mostra veramente d'essere un cuor di Leone. Considerato che il pubblico tuttavia decanta meraviglie di lode al sig. Leone, come poté sottomettere ed afferrare e trattenere il famigerato assassino Salvatore Russo, dopo essersi trattenuti in rissa più di un quarto d'ora. Considerato che mercé il gran coraggio civile, più però da militare, il Leone liberò se stesso ed il paese ancora del famigerato assassino Salvatore Russo che da incognito scorreva in questo Comune. Unanimamente fa voto di preghiera all'Ill.mo Sig. Prefetto affinché si compiacesse rassegnare al Real Governo l'azione tanto coraggiosa del sig. Leone Andrea onde degnarsi dare un premio onorifico allo stesso, in quello che crederà giusto in ricompensa d'aver consegnato alla giustizia il detto famigerato assassino Salvatore Russo, e ciò per animare ogni buon cittadino, ed in ricompensa dell'atto coraggioso del Leone. Il presente verbale dopo letto ed approvato è stato sottoscritto da tutti. Giulio Di Maggio - Vaccaro Carlo - Giuseppe Crimaudo - Francesco Caronia segretario."
[60] Continua a scrivere il Belli: "In quella fausta epoca la lista elettorale amministrativa comprendeva non più di un paio di centinaia di elettori; i voti favorevoli all'uno o all'altro partito, sia per vincoli di parentela o per dipendenza, si contavano a dito; e lo spoglio dei voti si faceva a priori, prima dell'effettiva elezioni; le elezioni, benché vivamente combattute erano, direi quasi in famiglia, e i pochi elettori dubbi o infidi erano accaparrati o con promesse, o con minacce e i più timidi anche con sequestro di persona. La notte precedente alle elezioni si mettevano in giro delle squadre di vigilanza, da ambo le parti, per impedire che un partito molestasse o subornasse gli elettori dell'altro. Il notaro Micciché, si diceva, veniva fatto assassinare dallo stesso Mannino Giuseppe onde scompaginare le file del partito al potere con la complicità di un tal Speciale Lorenzo - nativo di Partinico, ergastolano e famoso abigeatario ordinarono una infame congiura contro i capi partito al potere signor Vincenzo Belli fu Francesco (mio genitore) e l'avv. Vincenzo Montalbano accusandoli come mandanti dell'efferato delitto. E la giustizia di allora così alla leggiera più che indagare sulla vera causa del delitto, a parecchi ormai nota, diede ascolto alle insidiose voci messe in giro, e arrestò i gentiluomini Belli e Montalbano, che tranquilli e sereni se ne stavano in casa. Ma tosto riconosciuta la loro innocenza furono prosciolti. Ma essi raggiunsero il loro scopo, le file del partito furono scompaginate e il partito Mannino e compagni alle prossime elezioni amministrative ottennero la maggioranza per pochi voti."
[61] Giuseppe Casarrubea - I fasci contadini e le origini delle sezioni socialiste della Provincia di Palermo - Flaccovio Palermo - Vol. II, pag. 131.
[62] ASDM - Fondo Governo Ordinario sez. 9 serie 56.1 busta
4. Si può avere un'idea della composizione del gruppo dalla lettura della
lettera dei sacc. Antonio Caronia e Raffaele Belli all'Arcivescovo di Monreale. Sono citati:
- Il dottor Virga, usuraio pubblico e noto miscredente, che non ha
dubitato in questi giorni di offendere tutto il clero sul giornale l'Ora di
Palermo. Egli è quello stesso che due anni indietro tenne un irruente discorso
pubblico contro la Chiesa e contro i preti in occasione del XX settembre.
- Il maestro elementare Migliore Gaetano, ateo professo.
- Di Maggio Calogero: tanto homini nullum par eloquium!
- Viviano Giuseppe, cioè il più accanito nemico e calunniatore della
Cooperativa Cattolica, la quale gli ha impedito il monopolio dei generi di
consumo, onde si arricchiva a danno del popolo.
- Di Quarto Raffaele, uno dei capi della Lega Socialista, il quale tempo fa
appartenne ad una associazione a delinquere e subì delle condanne.
- Termini Enrico, uomo lungamente vissuto in concubinato, principale
promotore della cervellotica Festa del XX settembre.
- Termini Concetta, moglie di Belli Gaetano, donna prepotente e superba che con le sorelle Ninfa, Giacinta e Provvidenza, pinzocchere e penitenti del parroco, è stata sempre
causa di scissure tra i sacerdoti. Contro queste donne una volta voleva
scagliarsi il sac. Antonino Virga colla rivoltella in mano.
- Gli impiegati del Mulino Virga.
- Gli impiegati del Municipio
- Ragazzi e ragazze delle scuole
- Altri promotori erano certi Randazzo cognati del Viviano Giuseppe
[63] ASDM - Fondo Governo Ordinario sez. 9 serie 56.1 busta 4. Lettera di Nicolò Cumia all'Arcivescovo di Monreale: «Ad iniziativa del Circolo XX settembre i veri anticattolici e gli autori della Festa del XX settembre, dei capocci della maffia e dei socialisti arrestati, sempre per iniziativa e sotto la direttiva del Greco (Barbato), si promosse una sottoscrizione facendo firmare…»
[64] G.Casarrubea - I Fasci…- Vol. II, pag. 116
[65] Che il Cascio Ferro fosse un mafioso era già noto all'epoca dai Fasci
anche a Bernardino Verro. Nella sua visita a Bisacquino dove a circondarlo
c'era stato qualche tristo soggetto come Vito Cascio Ferro e Nunzio
Giaimo, accusati di tentata estorsione, Verro aveva
raccomandato la via del dovere, condannato le misure violente che
- diceva - avrebbero dato pretesto alle forze dell'ordine di ricorrere al C.P.»
(G. Casarrubea - I Fasci…- Vol. II, pag. 59)
Era noto ancora nel 1897: «…alla Camera lo stesso Di San Giuliano attaccò duramente Codronchi rivoltandogli contro l'accusa di avere usato metodi mafiosi, mentre l'estrema sinistra gli contestò una collusione diretta con la mafia per l'appoggio fornito sia al De Michele Ferrantelli, manutengolo di don Vito Cascio Ferro, sia a Raffaele Palizzolo sospettato di essere il mandante del delitto Notarbartolo.» (Barone - Egemonie urbane e potere locale - pag. 293.)
[66] Ved. pag.
[67] Archivio del Comune di San Giuseppe Jato - Seduta del Consiglio Comunale del 3 marzo 1915: "Questo consesso ben può ritornare a giudicare sullo stesso oggetto, perché in materia di eleggibilità l'annullamento toglie l'esistenza legale della deliberazione annullata, e quindi il Consiglio è in facoltà di sostituire ad una forma di voto riconosciuto illegale, quell'altra forma che più sicuramente risponde a legge." (N.d.A: «?»)
[68] ASDM Fondo Governo Ordinario Sez. 9 Serie 56-1 Busta
11
"San Giuseppe Jato li 18 giugno 1914. Reverendissimo Monsignore
Amministratore Apostolico, non si poteva mai immaginare che le cose della Cassa
Rurale Cattolica dovevano arrivare al punto in cui sono. In poco tempo alcuni
elementi estranei, entrati da recente, hanno preso tanto campo da imporre la
propria volontà usando anche la violenza alla maggioranza vera della Cassa
Rurale.
Questo si è avverato dopo che il padre Riccobono si è ritirato da cassiere, il padre Romano da assistente ecclesiastico e il padre Virga da segretario.
Vi sono ancora due sacerdoti cioè l'Arciprete Migliore, assistente ecclesiastico e il padre Patellaro, semplice socio. Però questi due si sono gettati
coll'attuale amministrazione per tenere nella tirannia la Cassa Rurale e invece
di tenere alto il sentimento religioso e la moralità dei soci, cedono sempre
alle pretese dei capi anzi li aiutano e li favoriscono e la Cassa Rurale non
sembra più una società cattolica, ma un inferno scatenato."
Il presidente a scopo politico incominciò a fare entrare nella società persone indegne di appartenervi ed anche nemici di essa. Accanto all'Arciprete Migliore c'è poi il padre Finocchio che è un servo del partito e che lo tira per il naso dove vuole."
Eccellenza Rev.ma, Tengo presente la sua riverita del 14 c.m. alla quale rispondo. Non per fare politica ma per il santo dovere di Religione ecco la mia colpabilità. Sappia dunque, o Eccellenza Rev.ma che qui in San Giuseppe Iato, fra gli altri circoli sorti a scopo elettorale, si è voluto anche fondare, per opera nefasta del notissimo Socialista sindacalista Nicolò Barbato di Piana dei Greci, una Lega Socialista così detta dei Lavoratori, avente a programma il Marx e la sua rosseggiante bandiera. Anima e vita di questa Lega è un fido discepolo del Barbato, tal Cataldo Pedalino, un accanito anticlericale, colui che nell’ultimo censimento, firmando la sua scheda, si dichiarò di religione “Acattolico”. Egli, come tanti altri, si arrabbatta per potere salire alla reggenza del Municipio. Uguale pretensione nutre il Nicolò Giambrone, Presidente di questa Camera di Lavoro, l’accusatore aperto, l’amico, l’affezionato mio, il quale accecato dalla stessa maniaca ambizione, pur decantandosi buon cattolico, ha unito da buon cattolico, la sua Camera di Lavoro colla Lega dei Socialisti, fondendo i due Circoli in un solo sodalizio socialistoide (che bel connubio!). Orbene per attirare a se le schiere elettorali, questo macabro sodalizio (Camera di Lavoro e Lega) invitò il Barbato a tenere, al primo maggio u.a., tanto in San Giuseppe che in Sancipirrello, un comizio, dove egli esponendo il programma Marxiano e facendo degli appunti sulla vita e divinità di Gesù Cristo, si affermò ateo apertamente in tutto il senso della parola. Quanto odio di classe! Quanta miscredenza! Quanto disprezzo alla Chiesa ed ai preti e a tutto ciò che sa di sacro e di religioso! Ed in tanta zavorra di Socialistoidume il sig. Pedalino che a squarciagola sbraitava: “Abbasso la Chiesa! Abbasso i preti! Viva il Socialismo! Viva Barbato!”. E lo stesso giorno del primo maggio, il Predicatore del Mese Mariano, can. La Bella, appositamente invitato, tirò fuori dal pulpito un sublime e smagliante discorso d’occasione, meritevolmente applaudito. E noi del Clero, contentandoci della difesa del Predicatore La Bella, serbammo in tanto attrito la massima prudenza, calma e carità! Giungeva intanto il tempo dell’elezione del Consigliere Provinciale. I Socialisti di Piana, di San Giuseppe e di San Cipirello volevano portare a loro candidato il sig. Giuseppe Camalò, socialista della detta Piana. Ed ecco di nuovo il Barbato in giro per questi due paesi, invitato dalla Lega e dalla Camera del Lavoro. Ed ecco la banda musicale!…trombe e fanfare!…gonfaloni rossi!…schiere d’uomini socialisti venuti da Piana a cavallo!…anche donne greche, vestite a rosso con rossi vessilli a mano! E grida assordanti di Viva il Socialismo! Viva Barbato!…e tra queste grida arrivato che fu il corteo vicino l’ingresso del paese, ove sorge una croce di legno il Pedalino vomita, a gran clamore, le seguenti testuali esecrande e blasfeme parole: Due sono le cancrene della società, del vero progresso e della vera civiltà: la Chiesa e lo Stato! Abbasso la Chiesa! E la stessa mattina erano apparsi alle mura del paese affissi dei grandi manifesti, in uno dei quali, che io ho ricuperato e conservo in quest’archivio parrocchiale sta scritto: Gli uomini oggi s’associano non già per pregare e soffrire, ma per prestarsi vicendevolmente aiuto, lavorando per acquistare maggior prosperità e per combattere il comune nemico; l’aspirazione del Socialismo non è quella d’ascendere al cielo, ma di godere sulla terra. La differenza del Socialismo ed il Vangelo è la stessa cosa che si riscontra tra la rigogliosa vita d’un corpo giovane e il rantolo d’un moribondo. Firmato: Carlo Pisacane.
[70] Lettera del 30 novembre 1916, in Quarant'anni di vita politica italiana. Dalle carte di Giovanni Giolitti. Milano 1961, vol.III, pp. 202-203. In Salvatore Lupo - L'utopia totalitaria del fascismo - Einaudi 1987 - Le Regioni - pag. 395
[71] Francesco Belli - Ricordi storici e statistici di San Giuseppe Jato e San Cipirello - Anno 1934 - pag. 160 - "Degli ex feudi acquistati ben poca cosa resta alla Casa Beccadelli"
[72] Ved. pag.
[73] Ved. pag
[74] Ved. pag.
[75] Ved. pag.
[76] F. Belli - op.cit. - pag. 21
[77] Ved. pag.
[78] ASDM – Fondo Governo Ordinario -
[79] ASP - Fondo Tribunale Penale - Busta 3198 - Ordinanza di rinvio, f. 113
[80] A. Petacco: op. cit. pagg. 162-163
[81] Ved. pag.
[82] Ved. pag.
[83] Ved. pag.
[84] Saverio Lodato - Ho ucciso Giovanni Falcone. La confessione di Giovanni Brusca - Mondadori - pag. 86
[85] S. Lodato - op. cit. - pag. 117
[86] S. Lodato - op. cit. - pag. 122
[87] S. Lodato - op. cit. - pag. 143
[88] S. Lodato op. cit. pagg. 122-123
[89] Ved. pag.
[90] Ved. pag.