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up-date: 2009, January

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UN POIAT A PREGAROLDI: NON SOLO CARBONE

 

 

 

 

Non può essere di certo il bisogno di carbonella per il barbecue dei figli che spinge un uomo alla determinazione, questo carbone, di farselo da sé.

Allora perché un uomo decide di mettersi in un’impresa difficile, impopolare, incompresa e impensabile per chiunque nella nostra società dei computer e della trasgressione?

 

Già, perché il carbone si compera in sacchetti al Centro Commerciale (chi mai lo avrà prodotto?), perché per farlo ci vuole una tecnica complessa affinata da secoli di esperienza, perché la memoria di questa tecnica è stata divorata dalla civiltà dei consumi.

 

Ed è così che Francesco (Cecco), mio padre ultraottantenne, con il pretesto non credibile della carbonella per le grigliate dei figli, ha operato la “sua” trasgressione, riportando in vita una tradizione, un rito, una memoria nascosta, e tante emozioni.

 

                            

 

Io, figlia quasi inconsapevole di quanto stava accadendo, ho vissuto con lui questa esperienza e ho scoperto insieme a lui ragioni, sentimenti ed emozioni che credevo scomparsi.

 

Pensavo in questa occasione al suono della parola POIAT: è una parola antica usata dalle nostre parti per indicare la carbonaia, arcano nome di cui nessun ragazzino dei nostri paesi saprebbe spiegare il significato; la smorfia di incomprensione che compare sul loro volto quando nomini “poiat”  ne indica chiaramente l’agonia, insieme a tante belle espressioni in  bergamasco, che non sentiremo più.

Per fare il suo POIAT, da solo, Cecco sceglie il luogo, lontano da casa, lungo i pendii del suo bosco,  pensa bene di utilizzare la legna che man mano ha accatastato in quella zona, residui della distruzione provocata dai fulmini che l’estate scorsa si erano abbattuti su alcuni alberi di sua proprietà.

 

Da solo, organizza lo spiazzo che farà da base al poiat. Come un castoro trasporta la legna e la accatasta con cura, prevedendo le geometrie e le inclinazioni e creando il camino al centro proprio come quando nel lontano 1935, appena quindicenne, faceva ”campagne” nella Savoia francese per racimolare qualche soldo da riportare a casa.

 

Ma il piccolo quindicenne ha ottantaquattro anni e dopo alcuni giorni di lavoro (tanto ci vuole per un uomo solo a predisporre il suo capolavoro) la fatica e gli acciacchi sopiti fino ad allora, prevalgono sull’orgoglio di potercela fare da solo.

 

Ecco, allora chiede timidamente aiuto: a dispetto di una scelta che tutti in famiglia hanno contestato e contrastato, la solidarietà mostra ancora una volta la sua inarrestabile capacità di contagio: dapprima chi vi scrive, la figlia, con il nipote Stefano, poi Sadya, la badante di mia mamma, e naturalmente i due figli, un poco alla volta e in fasi successive, ma contigue, tutti noi ci troviamo presi dal vortice di questa magnifica assurdità.

 

Ripulire il fondo,  zappare terra e setacciarla, predisporre il fogliame del  sottobosco e piccoli ceppi di legna, verificare che i passaggi dell’aria nella catasta consentano la giusta ossigenazione che deve produrre carbone e non cenere (!!!!), e successivamente “darle da mangiare” se il fuoco ”riuscirà” a forare la catasta di legna: tutto questo abbiamo fatto per la prima volta nella vita, sotto gli occhi attenti di papà Cecco.

 

Non vi dico l’apprensione in famiglia quando si tratta di accendere il camino al centro del poiat: un anziano da solo, lontano dal centro abitato, all’interno di un bosco, che prepara la brace da calare nel poiat, in una giornata di bel tempo ci mette tutti in agitazione: l’ansia della mamma è palpabile.

 

Decidiamo di continuare a sostenerlo in questa fase dell’avventura: io trascorro la notte, la prima notte della mia vita, nel bosco. Con il mio papà. Questo perché il poiat acceso, per alcuni giorni non può essere abbandonato, va presidiato sia di giorno che di notte per seguirne il ciclo di combustione.

 

Non avrei mai pensato che quella notte il poiat di mio padre mi avrebbe regalato emozioni sconosciute e irripetibili.

 

Ospiti di un altro spazio e di un altro tempo, all’imbrunire ci troviamo sdraiati su un giaciglio improvvisato di vecchie trapunte e coperte, con accanto due torce elettriche in caso di bisogno, e con quella presenza quasi tribale, il poiat,  che in più punti soffia sbuffi di fumo ad indicare che tutto procede bene.

 

Da questa posizione inconsueta osservo la volta che mi sovrasta: il cielo chiaro è riempito dalla grafica dei profili delle foglie e dei rami degli alberi che s'innalzano intorno a noi, l’aria è mite e ferma. Non una foglia si muove.

 

Gli uccelli finiscono di cinguettare. Unico segno di vita sono le lucciole che al buio del bosco accendono e spengono la loro lampadina.

Il silenzio è imponente e assoluto, contrariamente a me il papà è stanco ed ha sonno, ma io poco avvezza per generazione ai dialoghi intimi con i genitori, ora trovo naturale rivolgergli la parola. E in lui la memoria ha un sobbalzo e recupera con la semplicità di anima e di linguaggio di noi della Val Brembana alcuni episodi straordinari di un suo lontano vissuto: quando, per esempio, nell’estate del ‘39 scappò con altri compagni dalla Francia, abbandonando enormi poiat accesi, perché quella nazione entrava in guerra, la seconda guerra mondiale.

 

E ancora ricorda quando in guerra nel ’42, prigioniero in Egitto, scavalcò da solo una recinzione presidiata da guardie armate per accaparrarsi alcuni ceppi di legna indispensabili per cucinare per sè e per i suoi compagni di prigionia. Erano la fame, gli stenti, le sofferenze e l’istinto di sopravvivenza. Quanti di questi eroismi quotidiani e banali  generati dalla guerra sono rimasti sconosciuti!

 

Quando si gira sul fianco per dormire lo aiuto ad aggiustare la coperta: quanta tenerezza per me che ho sempre avuto un grande pudore a sfiorare i genitori, per quella mancata fisicità che ha un po’ caratterizzato la mia generazione!

 

Bambina allora, donna adulta e madre adesso, scopro per la prima volta che in alcuni momenti si può anche essere madre del proprio padre…..

 

Al contrario delle serate davanti alla televisione, non riesco a chiudere occhio. Non è paura, è l’aria, la luce della notte, o forse il grande rispetto per quella montagna che ci sta di fronte e che esala fumi  in più punti del suo corpo.

Ogni tanto accendo la lampada e la punto sul poiat: “Papà, papà il poiat ha sforato”.

In piedi, il rituale continua, scopriamo il foro, lo riempiamo di ceppi di legna, lo ricopriamo di fogliame e di terra, affinché tutto riprenda regolarmente e si formi carbone e non cenere.

 

                               

 

E di nuovo all’improvvisato giaciglio con la consapevolezza di avere corrisposto in tempo il tributo richiesto da quel totem.

 

Ogni mezzora arrivano i rintocchi della campana della chiesa di Spino che si trova ai piedi del bosco. Curioso: le 00:30 del nuovo giorno vengono battute con dodici rintocchi più due diversi per la mezzora.

 

Non sento freddo, forse anche perché il poiat ha “mangiato” spesso e sono stati necessari più interventi. Alle 4,30 il rombo di un aereo rompe il silenzio del cielo ed è l’ultima cosa che ricordo. Il levar del sole, il cinguettare degli uccelli, i rintocchi delle campane, ci svegliano infreddoliti alle sei del nuovo giorno.

 

Il poiat, che tanto ci ha fatto tribolare nella notte, sembra fare giudizio: non ci sono segnali di sforatura. Lascio mio papà tranquillo e faccio ritorno a casa.

 

Il lavoro di mio papà è continuato per altri tre giorni e due notti, in compagnia questa volta  dei miei fratelli Roberto e Raffaello, e ha prodotto poco più di due quintali di carbone.

 

Ma non solo carbone: una lezione di vita fatta di memoria, di amore per la vita, di rispetto per la sacralità del fuoco, della riscoperta di valori assopiti come il sacrificio, la solidarietà, l’abnegazione, la determinazione, il silenzio.

 

Grazie papà Cecco, classe 1920!

 

Rosellina Lazzaroni

 

Pregaroldi, 17 giugno 2004

 

VIDEO CLIP:

Il Poiat