CONSULENZA
EDUCATIVA
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Facoltà di Teologia dell’Italia Settentrionale
Istituto Superiore di Scienze Religiose - Udine
LA COSCIENZA
e le prospettive della ricerca
nel campo della Neurofilosofia
Tesi
per il Magistero in Scienze Religiose
di:
Enrico M. Vaglieri
Relatore:
prof. Claudio Freschi
Anno Accademico 1999/2000
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INDICE
Presentazione - Abstract
Introduzione
Per un nuovo paradigma di indagine della coscienza
parte prima
Definizioni e storia del concetto di coscienza
I Etimologia di "coscienza" e ambiti di significato
Nel senso comune, *
- Nella filosofia, *
- Nella riflessione morale, *
- Nella psicologia e psicoanalisi, * - Nella riflessione
sociale, * - Nelle
scienze mediche, * -
Nella letteratura, *
- Come disagio esistenziale, * - Nei
linguaggi tecnici, *
- Nelle altre lingue, * -
Termini e significati correlati, *
II La coscienza nella riflessione filosofica
III La coscienza nella psicologia, nella psichiatria e
nella neurologia
La coscienza nella psichiatria, *
IV La coscienza nell'etica, nel pensiero biblico, nella
teologia morale e nella mistica
La coscienza nel pensiero biblico, * - La coscienza
nell'evoluzione della teologia morale: dalla "sinderesi" alla
"conscientia", * - La coscienza nella
mistica, *
V La coscienza nell'occultismo, nell'esoterismo, nella New
Age e nell'indagine sul paranormale
L'ipnosi regressiva e la metempsicosi, *
parte seconda
Neuroscienze e neurofilosofia: le prospettive della ricerca
VI La dimensione della coscienza nelle neuroscienze
Rodolfo Llinas e il funzionamento della coscienza, * - Herber Simon: la mente, la
ricerca e il computer, *
- Pierre Changeaux:
infanzia e maturità del cervello, * - La
psiconeuroimmunologia, * - È possibile
definire l'intelligenza?, *
- Coscienza, sonno e sogno, *
VII La neurofilosofia tra esplorazione e critica
epsitemologica: limiti e potenzialità del dialogo tra neuroscienze e filosofia
Le teorie della coscienza tra concezioni naturalistiche, riduzionismo e
metafisica, *
- I "qualia", *
VIII Appunti su
alcune teorie contemporanee della coscienza
Ignacio Matte Blanco e la mente asimmetrica, * - Daniel C. Dennett e la
visione cognitivista della coscienza, * -
Karl R. Popper e
il mondo delle idee, * -
Fabrizio Desideri e lo sviluppo della coscienza tra l'io e l'altro, *
IX Due tentativi discutibili di teorizzazioni psicologiche
della coscienza e altri assai pregevoli di matrice cristiana
La "psicologia cristiana" di Giovanni Petrocchi, * - La "psicologia
coscienziale" di Ermelindo Maimone e Fernando Ficoneri, * - Una plausibile
correlazione tra psicanalisi e verità di fede: alcuni esempi. Françoise Dolto e
"La psicanalisi del Vangelo", * - Giacomo Daquino, * - Victor Frankl, *
parte terza
Per una teoria spirituale della coscienza
X La genesi della coscienza umana
XI Dalla sundevresi§ al coscienzialismo: alcune
questioni ancora aperte sulla coscienza
XII Una riflessione personale: la coscienza come "origine"
e "unità" dell'essere umano
Conclusione
Coscienza, salvezza e benessere
Bibliografia
Presentazione - Abstract
Nell'introduzione dirò che il concetto
di coscienza è presente in tutta la storia della filosofia e della scienza,
molto attuale e vastissimo; ma stanno cambiando e devono cambiare i paradigmi
della ricerca. Più che la conscience (per dirla con gli inglesi) ora si
indaga la consciousness . Quello su cui metterò l'accento è la necessità
di recuperare la dimensione spirituale della coscienza, senza per questo cadere
in anacronistiche nostalgie metafisiche.
Nella parte prima, quella più generale,
esamino l'etimo di coscienza, l'uso del concetto nelle espressioni comuni, che
tuttavia contengono molti paradigmi del concetto filosofico, i termini
corrispondenti nelle altre lingue, le espressioni idiomatiche e la presenza del
concetto nella letteratura; poi le definizioni di coscienza in varie
discipline, dalla filosofia (con brevi cenni storici), alla psicologia (e
psicoanalisi), alla psichiatria (medicina, patologie ecc.), fino all'etica,
alla teologia morale, alla mistica e all'esoterismo. Ne uscirà un inventario
di significati del concetto.
Nella parte seconda parlo delle
neuroscienze. La ricerca ferve ed è affascinante. Il materiale più recente l'ho
trovato grazie a Internet.
Illustro le prospettive della neurofilosofia che da cinque
o dieci anni al massimo è la nuova frontiera della "scienza della
mente". Esse in realtà sono limitate perché, volendo coniugare la
rilfessione filosofica con i risultati delle ricerche nueroscientifiche, sono
ancorate a queste ultime, che in questo momento non possono ancora dire nulla
di definitivo, completo, organico e soddisfacente sulla coscienza. Nessuno può
azzardare una teoria completa; quindi la neurofilosofia si limita a riflessioni
metodologiche ed epistemologiche.
Esamino alcune teorie sulla coscienza - tra tutte quelle
esistenti - che mi hanno colpito: gli studi di Matte Blanco, Dennett, Popper e
Desideri. Commento inoltre due libri anomali, che sono esempi di tentativi di
teorizzazione molto discutibili: poca bibliografa, buone intuizioni di fondo,
ma sviluppate in modo discutibile, percorsi metodologici inefficaci che mi
servono per capire cosa evitare nel cercare una mia strada di indagine e
riflessione.
Cito però anche altri studi molto acuti, di matrice
cristiana (F. Dolto, V. Frankl).
lla parte terza, quella più personale, metto
a confronto tutti gli stimoli precedenti.
Cito le ricerche neuropsicologiche sull'origine della
coscienza nel bambino (che unitamente alle indagini dei primi capitoli potebbe
formare una sorta di "storia della coscienza"), perché
l'aspetto che indico come "cifra" della coscienza è proprio il suo
essere "origine" dell'uomo, inteso come totalità, di essere l'unità
radicale, profonda e originante dell'uomo.
Ciò nel tentativo - se non di fondare una teoria della
coscienza, cosa oggi impossibile - di ridare vigore, nell'ambito della
neurofilosofia, a una teoria spirituale della coscienza.
Recupero le riflessioni della filosofia antica (la sunevide§is) e di quella scolastica (la sinderesi, parte
perfetta dell'anima), concetti che appoggiano la mia tesi della coscienza come
"luogo di incontro con l'assoluto". E accenno al movimento del
coscienzialismo.
Nella conclusione dirò quanto la riflessione
sulla coscienza possa servire per migliorare la vita, essere più consapevoli,
apprezzare le potenzialità non solo intellettive e morali, ma anche di
esseri-che-si-sanno.
Procederò nell'indagine con andamento concentrico, a
partire dalla parola "coscienza" indagando tutto attorno verso
l'universo di significati e di significato che le appartiene.
Ma, se si osserva da un altro punto di vista, sembrerà
l'opposto: da una quantità ampia di discipline, ambiti di significato e usi del
termine, mi muoverò verso un'unità teorica, un tentativo di visione personale
della coscienza, la coscienza come "origine" totale dell'uomo.
Introduzione
Per un nuovo paradigma di indagine
della coscienza
Che cos’è la coscienza?
Nel 1866 Thomas Huxley ha scritto: "Come avvenga che
qualcosa di così notevole come uno stato di coscienza sia il risultato della
stimolazione del tessuto nervoso è tanto inspiegabile quanto la comparsa del
Genio nella favola, quando Aladino strofina la lampada" . Tale
considerazione a distanza di oltre un secolo rimane ancora valida e lo rimarrà,
con ogni probabilità, ancora per molto tempo.
Che cosa è la coscienza?
Di fronte a questa domanda attualmente – e questo è l’assunto
di base della mia dissertazione – nessuno è in grado di fornire una teoria
della coscienza che spieghi esaurientemente e definitivamente la sua natura e
il suo funzionamento.
L’unica cosa che si può fare oggi è esaminare i diversi
tentativi di teorie che sono stati elaborati, analizzarne i limiti, elaborare
riflessioni metodologiche ed epistemologiche – ed è tutto quello che finora
riesce a fare la neurofilosofia.
Ecco spiegata la scelta del titolo della presente ricerca:
"La coscienza e le prospettive della ricerca nel campo della
neurofilosofia".
Tuttavia numerosi scienziati sostengono che arriverà il
giorno in cui si potrà descrivere in modo esauriente la natura e il
funzionamento della coscienza.
Decisamente quel giorno decreterà il più grande e straordinario
passo in avanti per l’umanità, perché tale scoperta rivoluzionaria – conoscere,
interpretare, utilizzare la mente umana – permetterà interventi, miglioramenti,
progressi attualmente inimmaginabili (se non nella letteratura
fantascientifica). Tali saranno i progressi per l’umanità e le potenzialità di
intervento e innovamento rese possibili, che una parte dell’umanità risulta già
spaventata da questa prospettiva.
Le nuove tecnologie di indagine
Perché si può affermare che si arriverà a conoscere il
funzionamento della mente e della coscienza? "Nel corso degli anni '80,
sono diventate disponibili nella pratica clinica tecniche prive di rischio che
permettono di ottenere immagini del cervello umano in vivo. Questa rivoluzione
nella diagnostica per immagini cominciò con lo sviluppo della tomografia
computerizzata (TAC) all'inizio degli anni '70 seguita dalla tomografia ad
emissione di positroni (PET) e dalla risonanza magnetica nucleare (RMN). Ognuna
di queste tecniche ha dato i suoi contributi specifici: la Tac e la RMN per la
produzione di immagini sofisticate, in vivo, e la PET per le immagini della
funzione cerebrale misurate in termini di attività chimica locale, del
metabolismo (cioè l'utilizzazione dell'ossigeno e del glucosio) e del flusso sanguigno"
[Gregory, EOM, 1991, p. 399] .
Attraverso le nuovissime tecnologie di indagine, in
primis la Tomografia ad Emissione di Positroni (PET), nei laboratori si
stanno svolgendo studi molto importanti e si sta raccogliendo una mole
ingentissima di osservazioni sul funzionamento del cervello, alla ricerca della
definizione dell’intelligenza e della mente. È per questo che si intravedono
già ora possibilità di teorizzazioni , e si giustifica la speranza di poter
arrivare, prima o poi, a delle teorie efficaci ed esaurienti.
Ciò non significa necessariamente tornare a una mentalità
scientistica e positivistica. Esistono ormai decine di posizioni teoriche
diverse, con molteplici sfumature, dal dualismo alla negazione della coscienza,
dallo spiritualismo al materialismo puro con una gamma ampia di sfumature -
come si vedrà nei capitoli dedicati al concetto di coscienza nella
neurobiologia, nella medicina e nella storia delle teorie che hanno cercato di
spiegarla.
I molti campi d'indagine sulla coscienza
Della coscienza si occupano molte discipline, scientifiche
e umanistiche:
- la filosofia (in particolare la gnoseologia, la
filosofia della scienza, la filosofia morale)
- il senso comune (coscienza come consapevolezza di sé e
di ciò che sta intorno),
- l'etica (coscienza come capacità di valutazione delle
azioni),
- la teologia morale (coscienza come immaginaria sede del
senso morale dell'uomo, voce della coscienza, le coscienze illuminate
non accettano di piegarsi), e la mistica
- la psicologia nella sue varie branche di applicazione e
di studio,
- la neurobiologia, la medicina (perdere coscienza),
- la giurisprudenza (caso di coscienza,
obiezione di coscienza),
- la politica (coscienza civile),
- la sociologia (coscienza di classe),
- la letteratura (flusso di coscienza) ,
senza parlare del campo in continua crescita e così tanto
ambiguo qual è quello dell'esoterismo, la psicologia transpersonale, la New age
e i "neoorientalismi" di vario genere.
Per alcuni di questi campi d'indagine - non certo tutti -
vorrei esporre in estrema sintesi i risultati attuali delle ricerche , per poi
dedicarmi a un approfondimento secondo il punto di vista della filosofia e con
un'attenzione particolare per la neurobiologia.
È evidente dunque come il tema della coscienza metta in
gioco una costellazione di altri temi e termini (tra gli altri mente, anima,
intelligenza, cuore, io, eccetera) che non si possono trascurare, ma che
complicano l’indagine .
Un inventario di significati e definizioni
È interessante la possibilità di fare un inventario –
senza pretesa di esaustività - delle definizioni di
"coscienza", confrontarle e ottenere nuove indicazioni, almeno di
tipo epistemologico o filosofico. E quello filosofico – o meglio
neurofilosofico – sarà il taglio principale della dissertazione.
Non c'è filosofo che non abbia detto la sua sulla
coscienza (di veda il capitolo specifico in cui ne parlo), uniche eccezioni i
primi filosofi greci .
I pensatori e gli studiosi, quando si sono avvicinanti al
tema della coscienza, per prima cosa hanno chiarito e rigettato gli errori
(atteggiamento basilare della riflessione filosofica) appartenenti alle epoche
precedenti [si veda Dennett, 1993, Desideri, 1998, ecc.] e poi hanno formulato
nuovi tentativi di teorizzazione della coscienza.
Possiamo però a ragione affermare che niente di ciò che è
stato mai detto sulla coscienza basti a descriverla e spiegarla.
Ma proprio l’aver assunto questo punto di vista
costituisce un ulteriore problema. Perché oggi non è più possibile analizzare
la mente prescindendo dalle neuroscienze.
Gerald Edelman ha dichiarato: "Sono convinto che non
sia possibile comprendere la mente, se non attraverso l’elaborazione di un
modello neuroscientifico fondato su una teoria a base evoluzionistica"
[Carli, 1997, p. 8].
La presente dissertazione indaga e appoggia l’approccio
multidisciplinare al problema della coscienza. Tale approccio appare ormai
largamente condiviso ed è l’unica strada che possa portare a solidi risultati
in questa indagine.
Ritengo che sia necessario oggi reinterpretare tutto ciò
che è stato detto sulla coscienza in base anche a questo importante criterio:
verrà confermato dalle prossime indagini encefalografiche e neurobiologiche?
Buona parte delle antiche e moderne teorie sulla coscienza
rimarranno utili solo per la storia della filosofia, così che - come avviene
per la scienza - anche le teorie filosofiche possano risultare una buona volta
false e falsificabili, secondo l'insegnamento di K. Popper.
Si sta imponendo dunque una nuova disciplina al posto della
filosofia della coscienza: la neurofilosofia. Ad essa, ai suoi limiti, alle sue
prospettive, dedicherò ampio spazio.
La scelta del tema di questa dissertazione risiede anche
nell’importanza che il concetto di coscienza ha nella riflessione spirituale,
religiosa e morale. Come a dire che ha contribuito a sviluppare nei secoli la
riflessione sulla dignità dell’essere umano.
La coscienza è un concetto presente in tutta la storia
dell'uomo, se non altro inteso come consapevolezza di sé, dalla riflessione
veterotestamentaria alla religiosità dell'antico Egitto, dal greco "Conosci
te stesso" al pensiero cristiano, dalle religioni orientali alla
riflessione umanistica, su su, attraverso filosofi e pensatori e teologi fino a
un emblematico personaggio dei nostri giorni, discusso ma affascinante, padre
Antony De Mello, il cui libro più famoso (ma non l'ha scritto lui, è solo la
redazione di appunti delle sue conferenze) si intitola originariamente "Awareness"
ed è tutto dedicato al risveglio cioè al "divenire consapevoli di
sé".
La coscienza nello sviluppo dell'umanità
Il concetto di coscienza - ovvero la percezione di sé,
l'autorappresentazione, la riflessione su di sé o tutte le altre definizioni
con le quali la si è descritta - è stato sempre al centro della riflessione
umana. L'indagine su di esso ha attraversato epoche, teorie, con risultati tra
i più diversi (dalla negazione della coscienza alla sua esaltazione metafisica
o ideologica), ma non c'è dubbio che si siano registrati alcuni grandissimi
salti di qualità.
La sua importanza affonda le radici nel concetto di
"persona" creato e sviluppato dal cristianesimo. Si è ingigantita
soprattutto dalla fine del medioevo, con la Riforma e durante i secoli delle
guerre di religione. Ha ricevuto dalla psicanalisi la conferma che prima di
ricorrere alla teoria medioevale (e già platonica) e secentesca della mente che
riflette il pensiero di Dio, vale la pena di indagare nel "profondo",
dove si scopre una "vita" totalmente diversa da quella cosciente (da
alcuni definita asimmetrica a differenza dell'altra che è simmetrica ) e di una
natura che tende a riportarci alle origini e quindi tendenzialmente oltre la
storia, oltre l'ambiente, verso l'istinto, verso il "gene", verso il
"divino". Ha una grande rilevanza oggi quando dobbiamo affrontare
scelte etiche e bioetiche complesse: dalla clonazione alla procreazione
artificiale, dalle biotecnologie alle relazioni internazionali.
Il più grande salto di qualità nell'indagine sulla
coscienza si registra proprio oggi, negli ultimi venti anni del secolo XX (gli
anni del crollo delle ideologie...), quando si è potuto iniziare a utilizzare
apparecchiature sofisticatissime per esaminare l'attività cerebrale. Le
neuroscienze hanno assunto in ogni direzione un peso enorme. Decine di
laboratori nel mondo stanno utilizzando queste tecniche di indagine con le
quali stanno raccogliendo informazioni abbondantissime ed estremamente
specifiche.
Ecco come si potrà in un tempo futuro (non occorreranno
secoli, ma forse solo qualche decina d'anni, data l'accelerazione della ricerca
scientifica dovuta ai calcolatori) perfezionare altissimamente la conoscenza,
la teorizzazione e la definizione di coscienza.
Tuttavia la coscienza rimane un problema e quasi
certamente sarà sempre un problema: non riusciremo mai a capire completamente
quel quid in più che caratterizza la mente.
Si pensi al fatto che si calcola che nel cervello
risiedano 100 miliardi di neuroni e ogni neurone è capace di 10.000 contatti
con altre cellule nervose.
Per quanto riguarda la densità, i contatti vengono stimati
nell'ordine di 500 milioni per millimetro cubo di sostanza grigia. E si è
calcolato che tutte le fibre di un solo cervello unite insieme, danno la
lunghezza di 500.000 chilometri .
La corteccia cerebrale ricopre i due emisferi e ha uno
spessore di tre millimetri; se fosse distesa avrebbe la superficie di quattro
fogli di carta da lettera.
Una finestra sull'anima
Lo studioso francese Jean-Pierre Changeux, in una recente
libro scritto a quattro mani con Paul Ricoeur , afferma che i nuovi strumenti
quali la tomografia a emissione di positroni, la risonanza magnetica e gli
sviluppi dell’encefalografia hanno aperto una "finestra sull'anima"
tale che "se si fosse messa la testa di santa Teresa d'Avila
nell’apparecchio per la tomografia durante le sue estasi mistiche, si sarebbe
capito se aveva, sì o no, delle allucinazioni o se era, più o meno, in preda a
crisi epilettiche" [cfr Avvenire, 6 maggio 1999, p. 21].
L’obiettivo delle ricerche di Changeaux potrebbe essere
"andare alle radici del pensiero al di fuori di ogni metafisica".
Infatti, per esempio, per Changeux, il premio Nobel John Eccles è "uno
degli ultimi neurobiologi a credere nella separazione tra mente e cervello (per
Eccles mente era sinonimo di anima), mentre è necessario il
massimo rigore critico verso qualsiasi segno dello Spirito, sia pure anche
hegelianamente inteso.
Ricoeur obietta a Changeux che, utilizzando in modo così
discriminato la nozione di allucinazione, si ha un discorso neuronale ricco e
un discorso psicologico povero.
Invece bisogna trovare le intersezioni tra il neuronale e
lo psichico.
Ma è possibile? Sì se le rispondenze sono semplici, se
entra in campo la coscienza, quella che Ricoeur chiama "esperienza
integrale", una esperienza psicologica talmente globale da risultare
neurobiologicamente indecifrabile. Infatti la complessità entro cui ci si muove
è "strabiliante".
Changeux ammette che il contributo delle neuroscienze è
modesto se riferito all'elaborazione di una morale.
"Qualcuno potrebbe sostenere che, nonostante gli
sviluppi [...] della nostra capacità di ricostruire una mappa funzionale del
cervello umano, è virtualmente impossibile che la PET riveli gli elementi
neuronali coinvolti in questi cambiamenti e quindi essi contribuiscono poco
alla nostra comprensione di come il cervello funziona. Sembra giusto presumere,
tuttavia, che una volta che la PET ha identificato sicuramente una specifica
area del cervello umano responsabile di un ben definito tipo di funzione, [...]
si può ricorrere ad altre tecniche neurobiologiche per studiare l'esatta natura
del processo. Sia i ricercatori clinici che gli studiosi del cervello si
avvantaggeranno di un'interazione complementare di questo genere"
[Gregory, EOM, 1991, pp. 403-404].
In questi anni sta avvenendo qualcosa di importante, sta
iniziando l'indagine neurologica che influenzerà e trasformerà completamente le
ricerche dando enormi contributi per risolvere il mind-body problem .
In particolare gli ultimi dieci/venti anni del XX secolo
hanno visto una produzione enorme di (tentativi di) teorie unitarie della
coscienza e del problema del rapporto mente-cervello.
Si è scoperto, per esempio, che l'ascolto di un racconto
in una lingua sconosciuta mostra attive solo le cortecce auditive mentre lo
stesso racconto, ripetuto nella lingua nota, accende un gran numero di aree
cerebrali.
Esiste nella nostra corteccia una "geografia della
comprensione" vera e propria.
La coscienza tra ricerca scientifica e riflessione
teologica
Il tema della coscienza è il più attuale per le
neuroscienze e la filosofia e tante altre discipline correlate o conseguenti.
Ian Barbour, docente di fisica e teologia del Carleton
College, Minnesota, erede forse del pensiero di Teillhard de Chardin, ha detto
recentemente: "La scienza solleva questioni etiche alle quali da sola non
è in grado di rispondere. Questo è vero sia per la fisica che per la biologia.
Si pensi alle sfide della genetica o dell'intelligenza artificiale. Oggi le
maggiori minacce alla dignità umana vengono da questi ambiti di ricerca, perché
la clonazione, la manipolazione genetica e la robotica sfidano la nostra
comprensione della natura umana. Ma l'essere umano è più del suo codice
genetico. Siamo potentemente influenzati dai nostri geni, ma siamo anche
persone responsabili. Il Dna non spiega ogni cosa, e il nostro cervello non è
un computer" [cfr Avvenire, 6 maggio 1999, p. 21].
Alla ricerca di creare una relazione e una collaborazione
tra scienze e teologia, Ian Barbour, impegnato in ciò da moltissimi anni,
propone che il dialogo tra le due comunità, quella scientifica e quella
religiosa, si basi su uno dei tanti modelli teologici che la cristianità ha
offerto per pensare Dio e il mondo: la process theology, la teologia del
processo. "Questa teologia parla di Dio come un partecipante attivo nella
comunità cosmica. Creazione e redenzione sono due aspetti di una sola azione
divina che non è ancora finita. Dunque possiamo parlare di una storia che, come
un arco, include da una parte il pilastro della creazione del cosmo, dalle
particelle elementari all'evoluzione degli esseri viventi, e dall'altra il
pilastro dell'alleanza biblica e di Cristo, con un posto in esso per le storie
delle altre tradizioni religiose" [cfr Avvenire, 6 maggio 1999, p.
21].
E continua "La "teologia del processo"
offre una comprensione ecologica ed evolutiva della natura come sistema
dinamico e aperto, caratterizzato da diversi livelli di organizzazione,
attività ed esperienza. Evita ogni dualismo tra mente e corpo, tra umanità e
natura, tra mascolinità e femminilità. E offre la più ampia base per una
responsabilità verso il creato" [cfr ibidem].
Queste idee Barbour le ha elaborate soprattutto in due
libri: La religione nell'età della scienza (1990) e L'etica nell'età
della tecnologia (1993).
Il progresso medico ha permesso una rinnovata speranza
nella ricerca sulla natura della coscienza ma anche altri interessanti
sviluppi, per esempio la definizione del problema spinoso di cosa sia e di
quando avvenga precisamente la morte. Tale ricerca ha una rilevanza clinica
urgentissima in tema di espianti di organi vitali.
Sarà anche molto importante conoscere i risultati del
Progetto genoma, che a detta dei più ottimisti, saranno forse disponibili già
tra una decina d'anni e potranno essere utilizzati in ogni campo della medicina
e delle scienze del corpo umano, compresa la neurologia. E proprio
l’intescambio tra le acquisizioni dell’indagine sulla corteccia cerebrale e le
conoscenza genetiche permetterà straordinari progressi alla cosiddetta scienza
della mente.
L'argomento stesso di questa dissertazione costringe a non
poter dire nulla di nuovo, fintanto che le nuove apparecchiature e le ricerche
già così numerose non forniranno dati e interpretazioni efficaci. Ma credo che
i risultati non si faranno attendere molto. Bisognerà metterli insieme e
interpretarli.
Secondo i ricercatori si potrebbe localizzare con
precisione la sede dell’intelligenza umana, senza ricadere nella pretesa di
trovare un luogo nel cervello per ogni dimensione dell’intelligenza, dell’anima
o della mente. E senza trascurare l’assunto universalmente accettato, secondo
cui la mente è il risultato di un’attività integrata e associativa di
moltissime parti della corteccia cerebrale .
È da auspicare dunque che la filosofia incontri di nuovo
la scienza e sposi un metodo empirico, senza tradire quanto appreso nei
millenni sulla trascendenza dell’uomo. Era già successo molte volte, con
Aristotele, alla fine del medioevo (R. Bacone), nell'illuminismo e ora, dopo la
pausa dell'idealismo (Hegel), nel XX secolo.
Ma è necessario un nuovo paradigma di indagine. Proprio a
illustrare questa necessità è dedicata la presente ricerca.
La difficoltà dell’indagine sulla coscienza
Secondo R. L. Gregory [Gregory, 1991, pp. 181-186] la
coscienza "è la proprietà allo stesso tempo più ovvia e più misteriosa
della nostra mente. Da un lato, che cosa potrebbe essere più certo o evidente
per ciascuno di noi del fatto di essere un soggetto di esperienze, di godere di
percezioni e sensazioni, di provare dolore, di avere idee e di decidere in
maniera consapevole? D'altra parte, che cosa mai può essere la coscienza? Come
possono i corpi fisici nel mondo fisico contenere un simile fenomeno? La
scienza ha rivelato i segreti di molti fenomeni naturali inizialmente
misteriosi - il magnetismo, la fotosintesi, la digestione, anche la
riproduzione - ma la coscienza sembra profondamente differente da tutti questi
… Qualsiasi caso particolare di coscienza sembra avere un osservatore favorito
o privilegiato, il cui accesso al fenomeno è del tutto diverso, e migliore,
rispetto a quello di qualsiasi altro, indipendentemente dagli strumenti che
egli possiede.
Per questo e altri motivi, non solo fino a ora non abbiamo
una valida teoria della coscienza, ma anche manchiamo di una descrizione di
base chiara e non controversa del fenomeno presunto" [Gregory, 1991, p.
181].
Alcuni sono arrivati al punto di negare che ci sia
qualcosa defínibile con questo termine. Evidentemente la concezione che noi
abbiamo di essa è lacunosa e si devono riconsiderare le assunzioni che ci
inducono a supporre che esista un fenomeno unico e familiare.
Il problema principale dunque è quello epistemologico:
qual è il modo giusto di indagare la coscienza?
Una teoria generale accettabile sulla posizione della
mente nella gerarchia naturale deve necessariamente e sistematicamente
correlare tre fattori apparentementre disparati: l'organizzazione funzionale,
la costituzione fisica e l'apparenza soggettiva. Al momento sappiamo qualcosa
di come quersti tre fattori siano correlati nella percezione sensoriale
dlel'uomo e, piuù in generale, nella percezione del dolore dei mammiferi.
Abbiamo inoltre una visione parziale di altri aspetti dell'attività mentale,
tanto nell'uomo che ina ltri animali. "Eppure non abbiamo ancora neanche
un embrione di teoria generale che spieghi perché una determinata operazione
fisica del sistema nervoso centrale umano produca un determinato tipo di vita
cosciente. Fino a quando la teoria della mente non includerà una teoria della
coscienza, saremo sprovvisti di basi per disquisire sulla possibilità o
impossibilità di creare sostrati fisici della mente alternativi, diversi dai
familiari esempi biologici. E attualmente non abbiamo idea di cosa sia in
generale alla base del prodursi di processi coscienti" .
Un ambito molto interessante da indagare - lo farò nel
primo capitolo - è quello delle descrizioni implicite nel significato
quotidiano del termine.
Quando si prende in considerazione il problema della
coscienza vengono sollevate domande sconcertanti: gli altri animali sono dotati
di coscienza? Essi sono coscienti nel nostro stesso modo? Un computer o un
robot può essere cosciente? Una persona può avere pensieri inconsci, o dolori o
sensazioni o percezioni inconsce? Un bambino è cosciente al momento della
nascita o prima? Quando sogniamo siamo coscienti? Un essere umano può contenere
in un solo cervello più di un soggetto o ego o agente cosciente?
Certamente, risposte valide a queste domande dipenderanno
soprattutto dalle scoperte sperimentali sulle abilità comportamentali e sulle
circostanze interne delle varie entità che si propongono come ipotetici
candidati per la coscienza, ma per ognuno di questi reperti sperimentali
possiamo chiedere: qual è la sua importanza per il problema della coscienza e
perché? Queste domande non sono direttamente empiriche, ma concettuali, e la
risposta ad esse non si presenta in alternativa o in contrapposizione alla
risposta a domande empiriche, ma come un loro presupposto essenziale, o almeno
un loro accompagnamento.
Punto di vista "interno" ed "esterno"
sulla coscienza
"Il nostro comune concetto di coscienza sembra legato
a due serie distinte di considerazioni che possono essere grossolanamente
indicate con le espressioni "dall'interno" e
"dall'esterno".
Dall'interno la nostra stessa coscienza sembra ovvia e consistente:
sappiamo che attorno a noi e anche all'interno del nostro corpo avvengono molti
eventi di cui siamo del tutto inconsapevoli o incoscienti, ma nulla potrebbe
essere conosciuto più intimamente da noi di quelle cose di cui siamo
individualmente coscienti. Quelle cose di cui sono cosciente e il modo in cui
ne sono cosciente determinano in che cosa consiste essere me stesso. Io so in
un modo che nessun altro può provare che cosa significa essere me stesso.
Dall'interno, la coscienza sembra essere un fenomeno tutto o nulla, una luce
interna che è accesa o spenta. È vero che talvolta siamo assonnati o distratti
o addormentati, e occasionalmente possiamo anche godere di una coscienza
abnormemente aumentata, ma quando siamo coscienti, il fatto di essere coscienti
non ammette gradazioni" [Gregory, 1991, p. 182].
Secondo una certa prospettiva la coscienza sembra essere
una proprietà che separa l'universo in due tipi di "cose"
profondamente diverse: quelle che la possiedono e quelle che non la possiedono.
Quelle che la possiedono sono soggetti, esseri per i quali le cose possono essere
in un modo o in un altro, esseri che hanno un significato. Non ha nessun
significato essere un mattone o un calcolatore tascabile o una mela; queste
cose hanno un interno, ma non il tipo giusto di interno, nessuna vita
interiore, nessun punto di vista.
"Quando si considerano questi altri (altre persone o
altre creature), le si considerano necessariamente dall'esterno, e
allora varie loro proprietà osservabili e definibili ci colpiscono in quanto
rilevanti per la questione della loro coscienza. Gli esseri reagiscono con
discernimento agli eventi che cadono sotto i loro sensi: riconoscono oggetti,
evitano circostanze dolorose, imparano, progettano, e risolvono problemi.
Manifestano intelligenza". Ma mettere la questione in questo modo potrebbe
essere considerato un modo di pregiudicare il problema. Parlare dei loro
"sensi" o di circostanze "dolorose", ad esempio, suggerisce
che abbiamo già risolto il problema della coscienza.
"L'ovvia supposizione è che i vari indici
"esterni" siano segni o sintomi più o meno affidabili della presenza
di quel qualcosa che ogni soggetto cosciente conosce dal- l'interno. Ma come si
potrebbe confermare questo? Si tratta del famoso "problema delle altre
menti". Sembra che nel proprio caso personale si possa osservare
direttamente la coincidenza della vita interna con i propri talenti,
osservabili all'esterno, di discriminazione percettiva, di analisi
introspettiva, di azione intelligente e così via. Ma se ognuno di noi vuole
progredire rigorosamente oltre il solipsismo, dobbiamo riuscire a fare qualcosa
che è apparentemente impossibile: confermare la coincidenza tra l'interno e
l'esterno negli altri. Il fatto che essi ci dicano che anche nei loro casi
personali questi aspetti coincidono, non serve, formalmente, poiché non ci dà altro
che un'ulteriore prova della coincidenza dell'esterno con l'interno: le
capacità percettive e così via vanno normalmente di pari passo con le capacità
di analisi "introspettiva". Se un robot abilmente progettato potesse
(apparentemente) parlarci della sua vita interiore (potesse cioè produrre tutti
i suoni appropriati nei contesti appropriati), sarebbe corretto ammetterlo nel
gruppo di privilegiati? Forse sì, ma come potremmo dire di non essere
ingannati? In questo caso la domanda da porsi sembra: quella speciale luce
interna è davvero accesa o all'interno non c'è altro che buio? E questa domanda
sembra senza risposta. Quindi, forse abbiamo già fatto un passo falso"
[Gregory, 1991, pp. 181-182].
L’uso dei pronomi "noi" e "nostro" e
la tranquilla accettazione di essi, rivela che noi non prendiamo sul serio il
problema delle altre menti, per lo meno per noi stessi e per gli esseri umani a
cui normalmente ci associamo.
Unica possibilità: l'indagine empirica
Un recente tentativo di definire la coscienza in termini
oggettivi è quello di E.R. John (1997), secondo il quale la coscienza è
"un processo in cui informazioni su singole modalità multiple di
sensazione e percezione vengono combinate in una rappresentazione
multidimensionale unificata dello stato del sistema e del suo ambiente, e
integrate con informazioni sulle memorie e le necessità dell'organismo,
generando reazioni emotive e programmi di comportamento per adattare
l'organismo al suo ambiente".
Stabilire che questo processo interno ha luogo in un
particolare organismo è presumibilmente un compito difficile, ma chiaramente
empirico. Supponiamo che sia completato con successo per qualche essere: tale
essere è, secondo questa descrizione, cosciente. Qualsiasi appropriata
spiegazione scientifica del fenomeno della coscienza deve inevitabilmente
prendere questa decisione dottrinaria di pretendere che il fenomeno sia
considerato come obiettivamente osservabile, ma ci si può ancora chiedere se,
una volta fatto questo passo, il fenomeno veramente misterioso non sfugga.
Per John Locke, e per molti filosofi dopo di lui niente
era più essenziale per la mente della coscienza, e più in particolare
dell'autocoscienza. La mente con tutte le sue attività e i suoi processi era
considerata trasparente a se stessa; nulla era nascosto alla sua visione
interna. Per vedere che cosa succedeva nella mente di una persona, bastava
soltanto "guardare" - "guardare introspettivamente" - e i
limiti di quello che si scopriva in questo modo erano rappresentati dai confini
stessi della mente. La nozione di pensiero o percezione inconscia non
era nemmeno presa in considerazione, oppure, se lo era, era scartata come una
sciocchezza incoerente e contraddittoria.
John Locke, l'incomprensibilità dell'inconscio…
Per Locke, in realtà, restava un serio problema, quello di
come descrivere tutte le memorie di un individuo come presenti con continuità
nella sua mente, anche quando non erano "presentate alla coscienza"
con continuità.
L'influenza di questo punto di vista è stata così grande
che quando Sigmund Freud inizialmente ipotizzò l'esistenza di processi mentali
inconsci, la sua proposta si scontrò generalmente con un atteggiamento di aspro
rifiuto e incomprensione: non era soltanto un oltraggio al buon senso, ma anche
una contraddizione, affermare che ci potessero essere idee e desideri inconsci,
sentimenti inconsci di odio, schemi inconsci di autodifesa e vendetta. Ma Freud
si guadagnò dei seguaci. Infatti, quando si vide che questo modo di pensare
avrebbe permesso di spiegare psicopatologie altrimenti inesplicabili, questa
"impossibilità concettuale diventò un punto di vista perfettamente
accettabile per i teorici [Gregory, 1991, p. 183].
Il nuovo modo di pensare era anche rafforzato da un
elemento a suo sostegno: ci si potrebbe appellare a una variazione per lo meno
blanda del credo di Locke immaginando che questi pensieri, desideri e schemi
"inconsci" appartengano all'altro se stesso presente nella
psiche. Proprio come io posso tenere segreti a te i miei schemi, così il mio es
può avere dei segreti rispetto al mio io.
"Siamo arrivati ad accettare senza la minima traccia
di incertezza una serie di affermazioni riguardo al fatto che l'analisi delle
informazioni avviene dentro di noi anche se è assolutamente inaccessibile
all'introspezione. Non si tratta dell'attività inconscia repressa del tipo di
quella scoperta da Freud, attività svolta al di fuori della "vista"
della coscienza, ma semplicemente attività mentale che è in qualche modo sotto
o al di là dell'ambito della coscienza.
Freud sostenne che le sue teorie e le sue osservazioni
cliniche gli davano il diritto di passare sopra alle sincere negazioni dei suoi
pazienti riguardo a quello che stava succedendo nelle loro menti. Analogamente,
lo psicologo cognitivo sfoggia prove sperimentali, modelli e teorie, per
dimostrare che le persone sono coinvolte in processi sorprendentemente
sofisticati di ragionamento, di cui non riescono a dare nessuna descrizione
introspettiva. Non solo le menti sono inaccessibili a chi è all'esterno; certe
attività mentali sono più accessibili a chi è all'esterno che non ai veri
"proprietari" di quelle menti!" [Gregory, 1991, p. 184].
Nelle nuove teorizzazioni, tuttavia, gli elementi di
sostegno sono stati scartati. Benché le nuove teorie abbondino di metafore
deliberatamente fantasiose - con sottosistemi che inviano messaggi avanti e
indietro, chiedendo aiuto, obbedendo e offrendo informazioni - i veri
sottosistemi sono considerati in modo non problematico come pezzi non consci
del macchinario organico, assolutamente privi di un punto di vista o di una
vita interna, come un rene o una rotula. Certamente l'avvento di computer
"privi di mente" ma "intelligenti" ha svolto un ruolo
fondamentale in questa ulteriore dissoluzione della visione di Locke.
… e l'incomprensibilità della coscienza
Ma ora l'estremismo di Locke è stato rovesciato; se,
prima, l'idea vera e propria di un'attività mentale inconscia sembrava
incomprensibile, ora stiamo perdendo le nostre certezze sull'idea vera e
propria di attività mentale conscia. A che cosa serve la coscienza, se
un’analisi delle informazioni assolutamente inconscia, in realtà priva di
soggetto, è in linea di principio capace di raggiungere tutti gli obiettivi per
i quali si suppone che esistano le menti coscienti?
Se le teorie della psicologia cognitiva possono essere
vere per noi, esse possono essere vere anche per degli zombie o per dei
robot, e sembra che le teorie non riescano a distinguerci da essi. Come è
possibile che una semplice analisi di informazioni priva di soggetto (del tipo
di quella che, come si è recentemente scoperto, ha luogo in noi) si sommi o
crei quella particolare proprietà a cui viene così vividamente contrapposta? Il
contrasto, infatti, non è stato superato.
Karl Lashley ha provocatoriamente suggerito che
"nessuna attività della mente è mai conscia", affermazione con cui
intendeva richiamare l’attenzione sull'impossibilità di accedere all'analisi
che sappiamo deve necessariamente aver luogo quando pensiamo. Può sembrare a
prima vista che l'osservazione di Lashley annunci l'abbandono della coscienza
come fenomeno di interesse psicologico, ma il suo vero effetto è esattamente
l'opposto. Richiama inevitabilmente la nostra attenzione sulla differenza tra tutta
l'analisi inconscia delle informazioni - senza la quale indubbiamente non ci
potrebbe essere esperienza cosciente - e il pensiero conscio in sé, che è in
qualche modo direttamente accessibile.
Accessibile da parte di che cosa o da parte di chi? Dire
che è accessibile da parte di qualche sottosistema del cervello non equivale
ancora a distinguerlo da attività ed eventi inconsci, che sono pure accessibili
da parte di vari sottosistemi del cervello. Se qualche sottosistema particolare
e speciale meriti di essere chiamato se stesso, è tutt'altro che ovvio. Qualche
caratteristica dei suoi particolari scambi con il resto del sistema nervoso lo
renderebbe degno di tale nome?
Questo problema è ancora il problema delle menti degli
altri, riproposto come problema serio ora che la psicologia ha cominciato ad
analizzare la mente umana nelle sue componenti funzionali. Questo appare in
modo eclatante nei famosi casi di cervello diviso (cfr per esempio Gazzaniga,
1998; Glickstein, 1992, Vallortigara, 1997).
"Le nostre uniche capacità mentali potrebbero essere
ben prodotte da minute e circoscritte reti neuronali; e tuttavia il nostro
cervello altamente modularizzato genera in ognuno di noi la sensazione di
integrazione e unità. Come può accadere, dal momento che siamo una collezione
di moduli specializzati?
La risposta può essere questa: l'emisfero sinistro cerca
spiegazioni del perché gli eventi si verifichino. Il vantaggio di un tale
sistema è ovvio. Andando oltre la semplice osservazione dei fatti e domandando
perché si siano verificati, un cervello può affrontare meglio quegli stessi
eventi, qualora dovessero riproporsi.
Riconoscere i punti di forza e di debolezza di ogni
emisfero ci ha indotti a riflettere sulle basi della mente. Dopo anni di
affascinante ricerca sul cervello diviso, è evidente come l'inventivo cervello
sinistro, incline all'interpretazione, abbai un'esperienza cosciente assai
diversa dal veridico e "letterale" emisfero destra. Per questo
entrambi gli emisferi possono essere visti come coscienti, la coscienza del
cervello sinistro sorpassa di gran lunga quella del cervello destro. E ciò
solleva un'altra serie di questioni che basterà a tenerci occupati per altri
trent'anni" [Gazzaniga, 1998, p. 47].
Coscienza e cervelli divisi
"Non c'è niente di veramente problematico
nell'accettare il fatto che le persone che hanno subito una sezione completa
del corpo calloso abbiano due menti in un certo senso indipendenti. Non è
problematico perché ci siamo abituati a pensare alla mente di una persona come
un'organizzazione di sotto-menti comunicanti tra di loro. In questo caso, le
linee di comunicazione sono state semplicemente interrotte, rendendo
particolarmente saliente l'apparente ruolo di mente delle singole parti.
Ma ciò che resta del tutto problematico è se ambedue le
sotto-menti "hanno una vita interna". Secondo un punto di vista, non
c'è motivo di accordare una coscienza (una "vita interna" piena)
all'emisfero non dominante, poiché tutto ciò che è stato dimostrato si limita
al fatto che quell'emisfero, come molti altri sottosistemi cognitivi inconsci,
può analizzare un gran numero di informazioni e controllare in modo
intelligente certi comportamenti.
Se accordiamo una coscienza di "vita interna"
piena all'emisfero non dominante (o, più propriamente, alla persona il cui
cervello è l'emisfero non dominante), che cosa si potrà dire di tutti gli altri
sottosistemi di analisi delle informazioni ipotizzati dalla teoria attuale?
Deve essere di nuovo raccolto il suggerimento di Locke, a costo di popolare, in
senso quasi letterale, le nostre teste di innumerevoli soggetti di
esperienze?" [Gregory, 1991, p. 185].
Gregory cita gli esperimenti di J. R. Lackner e M. Garrett
su "ciò che si potrebbe chiamare un canale inconscio di comprensione delle
frasi" per mezzo di test di ascolto dicotico (i soggetti prestano ascolto,
per mezzo di cuffie, a due canali diversi).
L'influenza del canale trascurato sull'interpretazione del
segnale a cui si era prestato attenzione può essere spiegata soltanto in base
all'ipotesi che il canale trascurato sia analizzato direttamente a un livello
semantico - cioè che il segnale trascurato venga comunque compreso - ma questa
è apparentemente una comprensione inconscia di frasi!
O si dovrebbe dire che è una prova della presenza nei
soggetti di almeno due coscienze diverse e solo parzialmente comunicanti? Se
chiediamo ai soggetti in che cosa consisteva comprendere il canale trascurato,
essi risponderanno, sinceramente, che per loro non significava niente, erano
praticamente inconsapevoli di quella frase. Ma forse, come viene spesso
suggerito dai pazienti con cervello diviso, c'è in effetti qualcun altro a cui
dovrebbe essere rivolta la nostra domanda: il soggetto che ha compreso
coscientemente la frase e ha trasmesso un segno del suo significato al soggetto
che risponde alle nostre domande".
Sembra proprio che siamo tornati alla domanda senza
risposta, il che suggerisce che dovremmo trovare un modo diverso di considerare
la situazione.
Gegory prende in esame l'ipotesi "per cui ciò che
abbiamo ritenuto un unico fenomeno consista in realtà di due fenomeni piuttosto
diversi: il tipo di coscienza che è intrinsecamente legata alla capacità di
esprimere nella propria lingua naturale che cosa sta succedendo; e il tipo di
coscienza che consiste semplicemente in un'analisi intelligente delle
informazioni.
In base a questa proposta, l'aggiunta della capacità di
dare "deserizioni introspettive" cambia il fenomeno, per cui quando
ci chiediamo che cosa può dirci un delfino o un cane, o che cosa può dirci un
emisfero non dominante, se solo potessero parlare, ci interroghiamo su un
fenomeno radicalmente diverso dal fenomeno che esiste in assenza di tale
capacità linguistica.
"La differenza tra mente e materia e le modalità di
interpretazione tra le due hanno sfidato e frustrato la comprensione umana fin
da quando per la prima volta l'uomo ha incominciato a riflettere sulla propria
natura e sul significato dell'esistenza.
La comune, ingenua impressione che noi usiamo la mente per
dare inizio alle nostre azioni fisiche e per controllarle, è stata da lungo
tempo rifiutata pressoché universalmente dalla scienza, in base alla dottrina
del materialismo scientifico, che afferma che è possibile spiegare
esaurientemente il cervello, il comportamento e la realtà in termini
esclusivamente fisici, senza alcun riferimento ad agenti mentali o soggettivi.
Quanto più le neuroscienze sono progredite nello spiegare
l'elettrofisiologia, la chimica e l'anatomia dell'attività cerebrale, tanto
maggiore è diventata l'apparente dicotomia tra mente e cervello, e tanto più
inconcepibile il fatto che lo svolgimento delle funzioni cerebrali possa essere
influenzato in qualsiasi modo dalle qualità soggettive dell'esperienza
interiore" [Gregory, 1991, p. 186].
Le principali posizioni teoriche negli ultimi 50 anni
Negli anni '50 la filosofia materialistica fu
portata a un nuovo estremo con la cosiddetta "teoria di identità
psicofisica (o tra mente e cervello)". Nella semantica corrispondente, si
affermava che non esiste alcuna differenza tra mente e cervello, che essi sono
un tutt'uno, e il fatto che sembrino due cose diverse è soltanto un'apparenza,
perché abbiamo usato linguaggi e prospettive diverse nelle nostre descrizioni
obiettive e soggettive. Secondo questa teoria dell'identità, non c'è nessun
rapporto mente-cervello; esso si riduce semplicemente a uno psuedoproblema, che
presumibilmente si può risolvere con un corretto approccio linguistico.
La posizione materialista, come si è sviluppata alla fine
degli anni '60, fu esposta da D.M. Armstrong, uno dei suoi principali
sostenitori, come "l'idea che noi possiamo dare una spiegazione completa
dell'uomo in termini puramente fisico-chimici", con una "descrizione
puramente elettrochimica del funzionamento del cervello". "La mente
non è altro che il cervello"; "La vita è un fenomeno puramente
fisicochimico"; "Sembra che l'uomo non sia altro che un oggetto
fisico, dotato di proprietà soltanto fisiche".
Il riconoscimento che per le neuroscienze la coscienza è
superflua fu espresso nel 1964 dal premio Nobel Sir John Eceles: "possiamo
in linea di principio spiegare tutte le nostre attività di ricezione e di
azione in termini di attività di circuiti neuronali; e di conseguenza la
coscienza sembra assolutamente inutile! Come neurofisiologi, nei nostri
tentativi di spiegare come funziona il sistema nervoso, semplicemente non
sappiamo che fare della coscienza".
Come diretta reazione contro il punto di vista
materialista, verso la metà degli anni '60 emerse una versione modificata, mentalistica,
del concetto di coscienza e del rapporto mente-cervello. Nei tentativi di
spiegare l'unità e (oppure) la dualità dell'esperienza cosciente osservata dopo
disconnessione chirurgica degli emisferi cerebrali, si favorisce
un'interpretazione della mente cosciente secondo cui l'unità soggettiva e il
significato soggettivo erano concepiti generalmente come derivati prima di
tutto operativi o funzionali.
Si postulava che un processo cerebrale acquisisse un
significato soggettivo grazie alle modalità secondo cui agiva nel contesto
della dinamica cerebrale, e non perché fosse una copia neurale, una
trasformazione, o una rappresentazione isomorfica o topologica dell'oggetto
immaginato. Questo concetto operativo del significato soggettivo necessariamente
comportava un impatto funzionale, e perciò causale, dei fenomeni soggettivi
nella dinamica del controllo cerebrale. I fenomeni coscienti erano interpretati
come proprietà dinamiche emergenti dell'attività cerebrale stessa. Rispetto ai
meccanismi neurali da cui erano costituiti, i fenomeni soggettivi erano per
definizione "diversi, più numerosi, non equivalenti" ad essi.
L'infrastruttura neurale di qualsiasi processo cerebrale
mediatore della consapevolezza cosciente, consta di elementi all'interno di
elementi e di forze all'interno di forze, che vanno da particelle subnucleari e
subatomiche, ai livelli più bassi, sempre più in alto attraverso sistemi
molecolari e cellulari fino ai sistemi neurali, dai più semplici ai più
complessi. A ogni livello di questa gerarchia, gli elementi sono dipendenti e
controllati dalle proprietà pervasive di organizzazione dei sistemi più ampi in
cui sono incorporati.
L'interpretazione olistica
Le proprietà olistiche del sistema a ogni livello di
organizzazione hanno i loro propri ruoli causali di regolazione, che
interagiscono al loro rispettivo livello, ma esercitano anche un controllo sui
loro componenti a valle, e nello stesso tempo determinano le proprietà del
sistema di cui fanno parte. Viene postulato che ai livelli cerebrali superiori
queste proprietà emergenti del sistema comprendono i fenomeni dell'esperienza
interiore, come emergenti di ordine superiore nella gerarchia cerebrale degli
elementi di controllo.
Interpretati come proprietà olistiche dinamiche di livello
superiore, si ritiene che i fenomeni mentali controllino i loro componenti
biofisici, molecolari, atomici e altri sottoelementi nello stesso modo in cui
l'intero organismo nel suo complesso controlla il corso e il destino dei suoi
singoli organi e cellule, o esattamente come la molecola, in quanto entità,
guida tutti gli atomi e gli elettroni che la compongono e altre parti
subatomiche e subnucleari attraverso un preciso ordine spazio-temporale in una
reazione chimica.
Come avviene di regola per i rapporti tra le parti e il
tutto, si riconosce una reciproca interazione tra gli elementi neurali e
mentali: la fisiologia del cervello determina gli effetti mentali, come
generalmente si conviene; ma anche la neurofisiologia, nello stesso tempo, è a
sua volta governata dalle proprietà soggettive superiori degli eventi mentali
che la pervadono. Questi interagiscono al loro proprio livello, e in
conseguenza di ciò attivano i loro costituenti secondari nell'attività
cerebrale. Benché in parte determinate dalle proprietà dei loro componenti
neurali, le proprietà soggettive sono determinate anche dalla disposizione
spaziale e temporale dei componenti stessi. Perciò, anche le proprietà
spazio-temporali essenziali, nidificate l'una dentro l'altra,
dell'infrastruttura neuronale, così come gli elementi di massa-energia, devono
essere inclusi nella spiegazione causale.
Il risultante modello di mente-cervello, in cui la mente
agisce sul cervello e il cervello sulla mente, viene classificato come "interazionista",
in contrasto con il "parallelismo" mente-cervello o l'identità
mente-cervello. Il termine "interazione", tuttavia, non è ottimale
per indicare il tipo di rapporto proposto, in cui i fenomeni mentali sono
descritti principalmente come se sopravvivessero, anziché intervenissero, nel
processo fisiologico. Si pensa che la mente muova la materia del cervello e
governi, controlli e guidi gli eventi neurali e chimici senza interagire con i
componenti a livello dei componenti stessi, proprio come un organismo può
guidare e controllare il decorso temporo-spaziale dei suoi atomi e tessuti
senza interagire direttamente con essi.
In questo modello modificato del rapporto mente-cervello,
la coscienza diventa una componente operativa integrante della funzione
cerebrale, un fenomeno autonomo a pieno diritto, non riducibile a meccanismi
elettrochimici. Esercitando un'influenza causale di livello elevato sulla
direzione e il controllo del comportamento, la mente cosciente non è più
qualcosa che possa essere ignorato dalle neuroscienze ogniqualvolta si richieda
una spiegazione dell'attività cosciente. Si concede all'esperienza soggettiva
un'utilità e un motivo d'essere per il fatto di avere un ruolo causale
centrale, imprescindibile, nella funzione cerebrale. Si fornisce così un motivo
razionale per l'evoluzione della mente in un mondo fisico.
Un nuovo paradigma di indagine sulla coscienza
La nuova visione mentalistica della
coscienza come elemento causale si colloca in diretta contrapposizione ai
principi fondamentali della filosofia comportamentistica-materialistica.
Le due impostazioni esplicative sono diametralmente opposte e si escludono
reciprocamente.
Negli anni '70, durante la cosiddetta rivoluzione della
"coscienza" o "mentalista" (indicata anche come la
rivoluzione "cognitiva", "umanista" o la "terza"
rivoluzione), la nuova interpretazione mentalista prevalse sul comportamentismo
come paradigma dominante della psicologia.
Il passaggio dal comportamentismo al mentalismo, o
cognitivismo, consiste in un passaggio a una forma fondamentale diversa di
determinismo causale. Il tradizionale microdeterminismo dell'era
materialista-comportamentista che enfatizza il controllo causale dal basso
verso l'alto, cedette il passo a un paradigma in cui si dà priorità a un
controllo emergente dall'alto verso il basso, esercitato dalle forze superiori,
più evolute, della natura sopra le meno evolute. Nel cervello, questo significa
un controllo verso il basso dell'elemento mentale sul neuronale. Tuttavia, il
principio del controllo emergente verso il basso (indicato anche come
"interazione emergente" o "determinismo emergente") vale
per tutti i sistemi gerarchici in ogni scienza.
Il nuovo mentalismo, combinando principi di due teorie
precedentemente contrastanti, tende a conciliare poli che in passato erano
opposti, come mente e materia, fisico e metafìsico, determinismo e libera
scelta, così come "è" e "dovrebbe", fatto e valore, in una
visione unificata della mente, del cervello e dell'uomo nella natura. La nuova
posizione sembra metafisica nel suo riconoscimento degli eventi neurali,
nell'attribuire ai fenomeni soggettivi un'influenza causale e nel collocare la
mente in una posizione di controllo al di sopra della materia del cervello.
Nello stesso tempo, l'interpretazione appare materialistica
in quanto definisce i fenomeni mentali come costituiti da elementi fisici e
come inseparabili dai substrati neurali. Poiché non è né tradizionalmente
dualistico né fisicalistico, il nuovo paradigma rnentalista viene considerato
rappresentativo di una terza posizione filosofica distinta: è emergentista,
funzionalista, interazionista e monista.
Nei nuovi termini mentalisti, la scienza non postula più
che tutte le operazioni del cervello e il comportamento siano determinate in
modo meccanicistico o fisico-chimico, come nella tradizionale filosofia
materialista. Benché i meccanismi neuro-elettro-chimici sostengano e aiutino a
determinare un dato corso d'azione, la scelta dell'azione viene largamente
determinata a livelli superiori, dagli eventi mentali coscienti. La scelta
volontaria comporta l'influenza causale delle priorità dei valori soggettivi,
mentre i desideri, i sentimenti e altri fattori mentali personali sopravanzano
le forze supplementari della sottostruttura neurale. In altre parole, noi facciamo
quello che soggettivamente desideriamo fare. In questo nuovo sistema, le
decisioni liberamente prese sono tuttora causate o determinate, ma raggiungono
gradi di libertà e di autocontrollo di gran lunga superiori a quelli del
classico determiniamo meccanicistico.
Il cambiamento degli anni '70 nella condizione scientifica
e nel trattamento dell'esperienza cosciente ha implicazioni filosofiche e
umanistiche, oltre che scientifiche, di vasta portata. Al cervello delle
scienze sperimentali è stata restituita la mente. Il mondo qualitativo,
colorito e ricco di valori, dell'esperienza interiore, escluso per lungo tempo
dall'ambito della scienza dalla dottrina comportamentista-materialistica, è
stato restaurato. Il soggettivo non è più al di fuori dell'attenzione della
scienza obiettiva, né è più qualcosa tutto sommato irrducibile, in linea di
principio, alla neurofisiologia. Viene proposta un'impostazione logico
deterministica per quelle discipline che trattano direttamente l'esperienza
soggettiva, come la psicologia cognitiva, clinica e umanistica.
La teoria scientifica si è finalmente adeguata alle
impressioni dell'esperienza comune: di fatto noi usiamo la mente per iniziare a
controllare le nostre azioni fisiche.
Ricerche sull’uomo e sugli animali
È in un certo senso paradossale che gli studi più
produttivi sulle funzioni cerebrali derivino probabilmente da ricerche sugli
animali, il cui comportamento può essere studiato con una raffinatezza sempre
maggiore, ma che non sono in grado di comunicare con noi in modo molto fluente.
Al contrario, gli studi sulle funzioni cerebrali derivati dalla clinica
dipendono spesso proprio da quei metodi di comunicazione che ci è impossibile
usare con gli animali. Infatti, la maggior parte della valutazione clinica
delle capacità psicologiche di pazienti umani implica un notevole scambio
verbale tra il paziente e l'esaminatore, che si esprime spesso in una forma
ideata appositamente per rilevare le alterazioni del paziente.
"Si possono citare vari esempi, nei quali le differenze
tra i risultati delle ricerche sull'uomo e sugli animali sono apparse così
grandi da suggerire che i cervelli degli animali debbano essere organizzati in
un modo qualitativamente diverso rispetto ai cervelli umani, nonostante la loro
strettissima somiglianza anatomica" [Gregory, 1991, p. 187].
Studiando la visione e la memoria degli animali, si
presume spesso che le domande che vengono rivolte ai pazienti umani vengano
semplicemente trasformate in una forma equivalente, per quanto un po' più complicata
da trasmettere. Vista più da vicino, tuttavia, la somiglianza è tutt'altro che
stretta. L'animale rivela le sue capacità dimostrando di saper fare delle
discriminazioni tra stimoli o eventi, come di solito è stato addestrato a
dimostrare seguendo qualche regola particolare, e per cui viene ricompensato.
Anche il soggetto umano, naturalmente, discrimina tra stimoli o eventi; ma
spesso il clinico non studia la discriminazione in quanto tale, ma piuttosto
ciò che il soggetto dice a proposito di essa, come ad esempio: "Sì, ora
vedo la luce" oppure: "Posso vedere la lettera A nell'ultima
riga".
Anche quando la risposta verbale sembra essere soltanto
qualcosa di superfluo, o una facile soluzione per comunicare la risposta
discriminativa, possono sorgere seri problemi se il paziente, pur non essendo
in grado di fornire un suo commento, è tuttavia capace di fare la
discriminazione rilevante. Se si trova insomma nelle stesse condizioni di
limitazione in cui si trova un animale quando vogliamo studiare le sue capacità
visive. Ci riferiamo qui non tanto alla difficoltà relativamente banale di un
soggetto che ha, ad esempio, un'alterazione della meccanica o
dell'organizzazione del linguaggio parlato. Anche se un soggetto umano è in
grado di comunicare liberamente ed efficacemente, tuttavia egli può essere
inconsapevole della sua stessa capacità di discriminazione e perciò può non
aver nulla da comunicare come commento.
parte prima
Definizioni e storia del concetto
di coscienza
I
Etimologia di
"coscienza" e ambiti di significato
"Prima quaestio fit de terminis" dicevano
i medioevali. Dedico qualche spazio al termine "coscienza", alla sua
origine, definizione, al suo uso, ai suoi significati nei vari ambiti della
cultura, della scienza, della vita. Come fonti ho utilizzato un'ampia serie di
vocabolari, lessici specialistici ed enciclopedie di cui in bibliografia si
trova un elenco completo .
Riporto anche alcuni aforismi celebri o meno celebri, ma
comunque stimolanti, sulla coscienza .
Etimologia del termine
Coscienza deriva dal latino conscientiam, astratto
di conscire "essere consapevole" [Devoto, 1968, p. 106]
derivato di consciens coscientis, participio presente di conscire,
"essere consapevole", composto da cum- rafforzativo e scire
"sapere".
In italiano la parola ricorre dal XIII secolo [DISC,
1997]. È sostantivo singolare femminile, ha le varianti antiche o letterarie
"conscienza" e "conscienzia".
Per inventariare i molteplici significati e usi del
termine coscienza , nel linguaggio comune e in quelli specialistici, ho
utilizzato alcuni, tra i moltissimi vocabolari dizionari e lessici esistenti,
sia di tipo generale o enciclopedico, sia quelli dedicati a discipline
specifiche. Senza nominarli tutti (ma solo dove sia il caso) rimando alla
sezione della bibliografia di questa dissertazione dedicata appunto a
"Vocabolari, Enciclopedie, Lessici, Dizionari, Manuali".
Ho distinto almeno nove ambiti di significato: uno del
senso comune, uno filosofico, uno morale, uno psicologico, uno sociale, uno
neuroscientifico, uno letterario, uno esistenziale, infine i significati
tecnici specifici.
PRIMO AMBITO DI SIGNIFICATO: NEL SENSO COMUNE
Per iniziare, secondo il vocabolario di G. Devoto e G. C.
Oli [Devoto-Oli, 1992, p. 762] coscienza è "la facoltà immediata di
avvertire, comprendere, valutare i fatti che si verificano nella sfera
dell'esperienza individuale o si prospettano in un futuro più o
meno vicino: aver piena coscienza della gravità del momento".
Un'altra definizione appartenente al senso comune:
"Coscienza, termine che indica la consapevolezza riflessiva che l'uomo ha
di tutti i propri stati e attività mentali: sensazioni, idee, sentimenti,
volizioni, ecc.; spesso, però, il termine designa semplicemente il complesso
degli stati e delle attività mentali di cui l'uomo è consapevole. In
quest'ultima accezione è stata di volta in volta assimilata al
"pensiero", allo "spirito", all'"interiorità", e
così via" [EE, p. 809]. Qui si fa risaltare il "sapere di sé" e
la complessità della struttura identitaria dell'uomo.
Più generalmente è la consapevolezza che
l'uomo ha di se stesso, delle proprie azioni: "il primo svegliarsi d'una
coscienza dentro il torpore della natura " (E. Cecchi)
È sinonimo di conoscenza: perder la coscienza;
fatto che è nella coscienza di tutti; aver la vaga coscienza di qualcosa, averne
qualche sentore o sospetto.
Significa anche consapevolezza valutativa,
capacità di rendersi conto: prendere coscienza delle difficoltà, aver
l’esatta c. dei propri limiti, delle proprie possibilità, dei propri limiti;
e averne una vaga coscienza, un'impressione, una sensazione confusa
SECONDO AMBITO DI SIGNIFICATO: NELLA FILOSOFIA
Il vocabolario on-line della Garzanti ricorda che
coscienza ha un significato generale legato alla riflessione filosofica e
psicologica secondo il quale sta per "consapevolezza di sé
e del mondo esterno; è la funzione psichica in cui si riassume ogni esperienza
conoscitiva del soggetto"; in senso più generico, l'insieme delle facoltà
e delle attività psicofisiche;
Sulla definizione di coscienza nella filosofia rimando al
prossimo capitolo della presente tesi, dove sintetizzo l'evoluzione del
concetto nella storia della filosofia, dalle origini alle teorie contemporanee.
In breve, però, si potrebbe dire che coscienza nel
linguaggio filosofico in generale indica il rapporto dell'io interno con se
stesso (autocoscienza) e per il quale egli può conoscersi e dare di sé un
giudizio immediato e sicuro, scoprendovi nello stesso tempo il fondamento di
ogni altra certezza.
Coscienza come nome e sostanza dell'originaria identità
personale, fucina della biografia di ciascuno, sede di rientro, ricreativa
della consistenza personale.
Autocoscienza
È interessante considerare anche il termine
"autocoscienza" dal momento che è considerato alla stregua di
coscienza [cfr EFG2, 1997, p. 75]
Autocoscienza è "la consapevolezza, sul piano
teoretico e su quello pratico, che il soggetto ha di se stesso" [cfr
Devoto-Oli, 1992, p. 262]
Autocoscienza è coscienza di sé; consapevolezza dei propri
atti, dei propri stati interiori da [http://www.garzanti.it].
Nella riflessione filosofia di Immanuel Kant
"autocoscienza" assume un significato particolare: è la coscienza
logica che l'io ha di sé come soggetto di pensiero.
E nella filosofia idealistica viene intesa come un ente
sostanziale che è a fondamento sia del pensiero sia della realtà
Nella psicologia autocoscienza è l'esperienza analitica o
genericamente psicologica del proprio io.
Aforismi filosofici sulla coscienza
La coscienza è fondamentalmente una successione di
riconoscimenti di forme (R. Thom).
Coscienza: espressione tautologica di sensazione (J.S. Miti).
La coscienza: il sentimento che l'io ha di se stesso (T. Jouffroy).
Il campo delle nostre sensazioni e percezioni sensoriali,
di cui non siamo consci, anche se indubbiamente possiamo dedurre di possederle,
vale a dire il campo delle idee oscure dell'uomo è immenso. Le idee chiare, al
contrario, coprono un numero infinitamente limitato di punti aperti alla coscienza;
di modo che in effetti sulla grande mappa del nostro spirito solo pochi punti
sono illuminati
(I. Kant).
La coscienza è l'ultimo e il più recente sviluppo
dell'organico e, di conseguenza, il meno finito e il meno potente di questi
sviluppi. Ogni estensione del sapere nasce dalla trasformazione dell'inconscio
in conscio. La grande attività fondamentale è inconscia. Perché è stretto lo
spazio della coscienza umana (L.L. Whyte).
Identica è la coscienza con l'autocoscienza, cioè distinta
e una insieme, come la vita e il pensiero (B. Croce).
L'autocoscienza e la coscienza degli altri sono
inseparabili a priori
(E. Husserl).
Se io rifletto su di me, nella mia autocoscienza mi
ritrovo vivente nel mondo (E. Husserl).
Coscienza di sé: quella operazione delle spirito con cui
distinguiamo il nostro essere dalle idee che ci occupano, così sapendo con
chiarezza quali cose stiamo facendo e che cosa ha luogo in noi (J.G. Sulzer).
Coscienza: intuizione per mezzo della quale l'uomo sente in
una certa maniera ed in modo immediato i propri stati e le proprie azioni via
via che li vive
(M. Leenhardt).
La coscienza è quella facoltà dell'uomo di contemplare ciò
che passa in lui, di assistere alla sua propria esistenza, di essere, per così
dire, spettatore di se medesimo (F.P. Guizot).
Il tempo è il nome che date voi ai moti della coscienza.
Ogni avvenimento che potrebbe accadere nello spazio e nel tempo accade ora,
subito, immediatamente. Non c’è passato, non c’è futuro. Solo il presente,
anche se noi dobbiamo usare un linguaggio basato sul tempo quando parliamo (R. Bach, Uno).
TERZO AMBITO DI SIGNIFICATO: NELLA RIFLESSIONE MORALE
Nel Dizionario di scienze dell'educazione [DSE,
1997, p. 246] la coscienza morale "comprende: i processi cognitivi, cioè
il momento di valutazione delle proprie intenzioni e azioni (conoscenza dei
principi e delle norme); l'aspetto comportamentale (agire moralmente o evitare
i comportamenti proibiti); la risonanza emotiva che il soggetto sperimenta
prima, durante e a seguito del proprio comportamento. Lo sviluppo della
coscienza segue il processo di maturazione della persona".
Coscienza è la valutazione morale del
proprio agire, spesso intesa come criterio supremo della moralità nelle
espressioni: agire con coscienza (o secondo coscienza); essere di c.
elastica, venire a compromessi con la propria c.; avere, non avere c.; esame di
c., in coscienza.
Si tratta dell'esame delle proprie azioni
sotto il profilo morale e religioso (specialmente come preparazione al
sacramento della penitenza);
Sentirsi, avere la c. tranquilla, pulita: non sentirsi colpevole di nulla; per
scarico, per sgravio di c., per evitare il benché minimo rimorso futuro; togliersi
un peso dalla coscienza, mettersi la coscienza a posto, in pace,
eliminare il senso di colpa, riparando a un errore o a un'omissione, liberarsi
da un rimorso.
Avere qualcosa sulla c., sentirsi colpevole;
Mettersi qualcosa sulla c., commettere un fallo più o meno
grave (ma mettersi qualcuno sulla c., addirittura ammazzarlo);
Aver la c. sporca, essere colpevole; una cattiva coscienza, un peso
sulla coscienza, sentire la responsabilità di una qualche colpa;
Si metta una mano sulla c., esortazione rispettosa a
considerare le proprie responsabilità o a riconoscere eventuali torti;
Caso di c., quesito di ordine morale che un soggetto ponga a se
stesso.
Essere senza coscienza, privo di scrupoli
Agire contro coscienza, contro le proprie convinzioni morali; venire a
patti con la (propria) coscienza, scendere a compromessi con i propri principi
morali, un caso di coscienza, da giudicarsi in base al proprio senso
morale.
Sentimento, consapevolezza del bene e del male, conoscenza
dei valori morali
che ciascun individuo (in quanto capace di ripiegarsi su sé stesso e farsi consapevole
di sé nei propri rapporti con gli altri) ha dei valori morali: coscienza
limpida, retta; scrupolo, rimorso di coscienza; esame,
obiezione di coscienza, agire secondo coscienza, fare come la
coscienza detta, ascoltare la voce della coscienza, seguire un
preciso dettato etico
Ancora il Devoto Oli ricorda che coscienza è la zona
o contenuto spirituale rispetto a cui fanno capo e sono valutate le
opere individuali: la tranquillità della c. era l'elemento più importante
per la felicità (Svevo); custodire qualcosa nell’intimo della propria c.
Coscienza è ogni individuo come entità morale:
un'epoca di travaglio per le coscienze più sensibili.
E ancora probità, rettitudine,
umanità: gente senza c.; oggi non c'è più la c. di una volta.
Coscienza si riferisce alla personalità morale,
spirito, mente: educò la coscienza di molti; un
maestro, una guida delle coscienze.
In tutta coscienza, sta per sinceramente, onestamente.
Nella teologia morale
In teologia morale, coscienza è il giudizio pratico
e immediato che l'intelletto, alla luce di principi morali
generali, pronuncia sui singoli atti concreti.
Coscienza naturale è quella che si basa su norme di etica naturale; soprannaturale
quella che poggia sulla legge rivelata da Dio agli uomini.
Il termine coscienza è comunemente usato per designare lo strato
più profondo della personalità dell'uomo da cui trae origine la
moralità. Esso è poco presente nella Bibbia che privilegia altri termini come
"cuore" e "spirito" [Piana, EC, 1997, p. 191].
San Paolo fa ripetutamente ricorso alla coscienza per
sottolineare l'esigenza di un principio interiore come criterio di
discernimento dell'agire umano. Questa esigenza è peraltro al centro del
messaggio della Rivelazione ed è fortemente ribadita da Gesù nella sua predicazione.
I profeti richiamano spesso l'uomo all'importanza dell'atteggiamento interiore,
mentre Gesù insiste sul fatto che a contaminare l'uomo non è ciò che entra in
lui, ma ciò che esce dal profondo del suo essere (Mt 15,11).
Rispetto ai principi morali cui s'ispira, si parla di coscienza
vera, quando il suo giudizio coincide con i principi; coscienza falsa,
se nel giudizio ne differisce e in questo caso sarà incolpevole o colpevole
se il soggetto nel giudicare avrà messo o meno la necessaria diligenza.
Nei confronti dell'assenso ci può essere coscienza
certa o coscienza dubbia: solo la c. certa può costituire regola
vera di moralità per gli atti umani [GE, 1973 p. 493].
Matrimonio di coscienza (detto anche matrimonio occulto), il
matrimonio canonico celebrato senza pubblicazioni e alla sola presenza del
parroco (o sacerdote delegato dal vescovo) .
Aforismi sulla coscienza morale
Si lavano, si grattano: tentano di raggiungere la propria
coscienza. J.
Joyce
La coscienza: è la sostanza più elastica del mondo: oggi
non copre la tana di una talpa, domani copre una montagna. E. Bulwer-Lytton
Taluni mandano la propria coscienza al bordello e
conservano il proprio contegno in regola. M. de Montaigne
Coscienza morale: l'ideale misura del valore di ogni
realtà empirica
(W. Windelband).
Coscienza morale: ciò che si sa senza che si sia mai
appreso o pensato
(Wang Yang-Ming).
Il principio dell'autocoscienza: la scienza più profonda
si apprende vivendo
(Sant'Agostino)
Coscienza significa esitazione o scelta (H. Bergson).
La coscienza può essere considerata come una specie di
manifestazione interna, di rivelazione divina; e la rivelazione o la parola di
Dio può esprimersi nella voce stessa della coscienza (M.F.P. Maine de Biran).
Tutti i mortali fuggono dalla loro volontà e dal loro io
verso gli inconsci, si addossano la volgarità del vino e della buffoneria pur
di liberarsi, per un poco almeno, dell'autocoscienza (Scelalledin Rumi).
La coscienza è la custode, nell'individuo, delle norme che
la comunità ha messo a punto per la propria conservazione (W.S. Maugham).
QUARTO AMBITO DI SIGNIFICATO: NELLA PSICOLOGIA E
PSICOANALISI
Coscienza nella psicologia è l'insieme dei processi
psichici attraverso cui l'individuo riesce a organizzare il
proprio comportamento intenzionale, mantenendo il controllo dei propri
processi di pensiero e delle attività conoscitive sull'ambiente
(attenzione, vigilanza, attività percettive ed esplorative).
Da un punto di vista neurofisiologico, lo stato di c.
viene sostenuto da certe strutture a livello del sistema nervoso centrale,
quali soprattutto la sostanza reticolare e il sistema talamico di proiezione.
All'attivazione derivata da tali strutture corrispondono precisi indici
neurofisiologici (elettroencefalografici, riflesso psicogalvanico, ecc.), che
consentono di determinare lo stato di c., nello stato di vigilanza, nel sonno,
nel coma (in cui si ha abolizione della c.).
Anche per questi significati, relativi ai linguaggi della
psicologia e psicoanalisi si rimanda ad uno dei successivi capitoli dove si
approfondirà il tema.
"Nell'ottica psicologica, con il termine coscienza si
fa riferimento tanto al fatto di essere consapevoli (aspetto
psicologico) quanto al fatto di essere responsabili" [DSE, 1997, p.
246].
Il con-sapere o con-scire esprimono un sapere di sé molto
profondo o certo o riflettuto, d'altra parte la coscienza è legata anche a un
rispondere, a un rimandare la consapevolezza di sé, capace di azione, di
reazione. La coscienza dunque descrive la capacità umana di giudicare le
azioni, di scavare dentro di sé e nei fatti. "In quest'ottica, la
coscienza rappresenta il centro decisionale e dell'imputabilità delle azioni
umane" [DSE, 1997, p. 247].
"La coscienza Psicologica ("rendersi
conto") è una struttura organizzativa che comprende, contemporaneamente,
l'essere oggetto e l'essere soggetto del proprio vissuto" [DSE, 1997, p.
246]. Dove il riferimento per comprendere la coscienza è il vissuto personale.
Nella psicanalisi, il termine viene usato sia per
designare il livello conscio della vita psichica, in
contrapposizione a preconscio e inconscio, sia soprattutto per
designare l'insieme delle norme comportamentali acquisite dal bambino nella
strutturazione della sua personalità.
Si usa anche l'espressione coscienza di donna, coscienza
di uomo moderno.
Aforismi sulla coscienza in psicologia
Coscienza: è la vita psichica di un dato momento (K. Jaspers).
Coscienza: l'organizzatore coerente dei processi psichici (S. Freud).
QUINTO AMBITO DI SIGNIFICATO: NELLA RIFLESSIONE SOCIALE
Nel linguaggio istituzionale, dell’amministrazione
pubblica si usano le espressioni obiezione di coscienza e obiettore
di coscienza, legate a libertà di coscienza, che è il diritto
di sentire e professare opinioni o fedi religiose senza restrizione,
impedimento o reazione da parte dell'autorità politica, ovvero la facoltà del
pensare, dello scegliere, contro cui capita di opprimere le c.,
soffocarne la libertà di scelta.
Signfica anche impegno, senso
di responsabilità, serietà, impegno nel
compiere il proprio dovere o nell'eseguire un lavoro: un lavoro condotto con
c., un uomo di coscienza; lavorare, studiare con coscienza; coscienza
professionale;
Coscienza significa sensibilità di fronte a un determinato
problema: coscienza civile, politica e coscienziosità sta
scrupolosità nell'adempimento del dovere: un medico di coscienza, metter
coscienza nel proprio lavoro.
Coscienza sta anche per competenza, capacità,
consapevolezza fondata su fattori educativi, tradizionali,
storici e congiunta a un solido impegno: c.
linguistica; manca ancora una vera e propria c. civile; c. operaia, c.
politica, c. sportiva.
Si usa anche coscienza storica come memoria, responsabilità
del passato e del futuro.
Sensibilità a certi fatti e certi problemi, alla nazionalità, identità
culturale: avere una c, nazionale, europea; c. di classe; c. collettiva; c.
patriottica; c. linguistica.
Infiammare le coscienze, trasmettere entusiasmo, spingere all'azione.
La coscienza di classe è la consapevolezza
dell'appartenenza a una determinata classe sociale.
È anche la conoscenza delle condizioni politiche,
economiche e sociali in cui versa la classe alla quale si appartiene, e dei diritti
e delle rivendicazioni che essa per conseguenza può o deve avanzare nei
confronti dell'intera società.
È la determinazione a tutelare gli interessi
della propria classe, anche in contrasto o in lotta con gli interessi delle
altre. Il concetto di coscienza di classe appartiene soprattutto alla
tradizione socialista e al pensiero di ispirazione marxista, e in tale ambito
ha trovato diverse elaborazioni successive; esso viene di preferenza riferito
al prolet.ariato e alla sua necessità di organizzarsi coscientemente per il
raggiungimento dei suoi obiettivi, ma viene anche usato in riferimento alle
classi dominanti.
Aforismi sulla "coscienza di classe"
Non è la coscienza degli uomini che determina il loro
essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro
coscienza (K.
Marx).
La riforma della coscienza: consiste solo nel far sì che
il mondo si renda conto della sua stessa coscienza, nel risvegliarlo dal sogno
che sogna su se stesso, nello spiegargli le sue proprie azioni (K. Marx).
Quasi tutto ciò che si trova nelle coscienze individuali
viene dalla società
(E. Durkheim).
La coscienza parla unicamente e costantemente nel modo del
silenzio (M.
Heidegger).
E non vuoi capire che la tua coscienza significa appunto
gli altri dentro di te? (L. Pirandello).
La coscienza consiste nella "co-scienza", ma
proprio nel senso che la coscienza individuale può esistere soltanto in
presenza della coscienza sociale e del linguaggio, che ne costituisce il reale
sostrato (K.N.
Leont'ev).
Sono più che mai dell'opinione che oggi ci si possa
permettere un'esistenza degna di un essere umano soltanto al margini della
società (H.
Arendt).
SESTO AMBITO DI SIGNIFICATO: NELLE SCIENZE MEDICHE
La neurologia clinica definisce la coscienza come il complesso
delle funzioni cerebrali superiori consistenti, in ultima analisi,
nella presa di significato dei messaggi afferenti al sistema nervoso centrale e
nella concezione mentale di quelli efferenti da trasmettere alla perifieria
[Mathe - Richet, 1983, p. 870].
Nel linguaggio medico coscienza significa senso, sensi,
conoscenza: perdere coscienza, svenire; riprendere, riacquistare
coscienza, rinvenire, ritornare in sé.
Va notata però l'ambiguità dell'uso: in realtà quando si è
svenuti, così come quando si dorme la mente non è annullata ma continua a
lavorare. Dovremmo parlare di un diverso "stato di coscienza".
Del concetto di coscienza nelle scienze mediche tratterò
più ampiamente nel capitolo III.
SETTIMO AMBITO DI SIGNIFICATO: NELLA LETTERATURA
Il "flusso di coscienza"
Il flusso di coscienza (stream of
consciousness) è un modo di scrivere moderno, basato sugli influssi che ha
avuto in letteratura la teoria della psicanalisi di Sigmund Freud.
Caratteristica del flusso di coscienza è la sintassi
libera, senza (o quasi) punteggiatura, poiché tende a ricostruire fedelmente i
processi logici che avvengono nella mente umana durante la formazione del
pensiero .
Anche se i primi tentativi (prima di Freud) risalgono al Viaggio
Sentimentale di Lawrence Sterne, è solo con l'opera di James Joyce che
questa tecnica conosce la propria maturità. Lo stile dello stream of
conscousness è stato utilizzato anche da Wirginia Woolf, Henry James e
William Faulkner. In Italia ha utilizzato questa tecnica Italo Svevo.
James Joyce
Joyce è uno dei grandi inventori del romanzo moderno,
tutto costruito sul flusso di coscienza. Le sue opere segnano lo sviluppo del
flusso di coscienza a partire da Gente di Dublino (The Dubliners),
dove Joyce adotta uno pseudo-narratore in terza persona che serve solo per
segnalare azioni e riferire fedelmente i pensieri del protagonista.
Nell’Ulisse (1922) che è l'Odissea del XX secolo, epos
d'una giornata qualunque delll'ebreo irlandese Leopold Bloom, agente di
commercio, si realizza la "distruzione" del narratore: esistono solo
i pensieri (in prima persona) dei protagonisti .
Altrettanto rivoluzionario la Veglia di Finnegan
(1939), nella sovrapposizione di lessici diversi e nella tecnica del monologo
interiore, tesa a dimostrare la ciclicità della storia.
Italo Svevo
Il romanzo più famoso di Svevo è del 1923, La coscienza
di Zeno e con esso Svevo raggiunge la notorietà. La storia di Zeno si
identifica con la presa di coscienza che tutti gli uomini sono egoisti e
meschini, che la vita è un assurdo e inutile gioco e che il mondo stesso è
malato: forse solo un'esplosione enorme potrà rinnovarlo, liberandolo dagli
esseri inutili e dalla malattia.
Zeno, il protagonista, nega di essere mai stato malato e
anzi, generalizza la malattia a tutto il mondo sostenendo che chi si sentiva
sano era malato e viceversa: la salute è la condizione di chi possiede
certezza, princìpi, quindi, constatata la vanità di questi, Zeno conclude che
sarebbe stato meglio "guarire dalla salute". La sua quindi, non era
una malattia, ma solo uno stato che gli ha permesso una visione più lucida
della realtà. Il finale è apocalittico, infatti l’unico modo per guarire il
mondo può essere soltanto una violenta esplosione che trasformi la terra in
nebulosa.
La critica letteraria ha messo in risalto il valore del
capolavoro di Svevo . "Com'era stata più bella la mia vita che non quella
dei cosiddetti sani", si sorprende a pensare il vecchio Zeno Cosini. Ed è
proprio l'aggettivo "cosiddetti" che sbalordisce il lettore di oggi,
è un'anticipazione convinta di certe tematiche antipsichiatriche e liberatorie
che si sarebbero affermate, tra successi e contraddizioni, solo trent'anni
dopo. La coscienza di Zeno è anche la coscienza della precarietà della
lingua in cui lo scrittore si esprime, la consapevolezza di trovarsi fuori dai
canoni della letteratura posteriore.
Ciò che unifica la meccanica sociale mercantile-borghese
ed l'ambiguità della psiche è l'ironia, la disincantata "scienza della
vita", la coscienza. La coscienza di Zeno Cosini è, appunto, la sola
scienza che egli possieda, ed il solo suo disperato ed inalienabile bene.
Il buonsenso laico e borghese di Svevo, come la sua
matrice culturale, non possono essere confusi col decadentismo analitico che
circola nelle pagine di Proust. Piuttosto, comune ad entrambi gli scrittori è
l'esigenza di apprestarsi nuovi moduli di lavoro fondati sull'autobiografia
come momento di sintesi rispetto alla frantumazione dell'esperienza; per cui
tutt'e due i grandi romanzieri della crisi della coscienza borghese corrodono
qualcosa di più che una tecnica letteraria, agiscono in un certo senso al di là
della letteratura.
Assai più letterato di loro risultava invece Joyce.
Virginia Woolf
Scrittrice inglese (Londra 1882- Ouse River 1941). Crebbe
in mezzo alla élite intellettuale dei Gruppo di Bloomsbury ed ebbe
un'educazione raffinata e liberale. Con il marito, il saggista L. Woolf, fondò
e diresse la Hogarth Press. Contro i canoni narrativi vittoriani,
elaborò la teoria secondo cui tutto è materia adatta al racconto, compresi i
sentimenti più complessi o i pensieri più reconditi.
Esordì con La crociera (1915) e con Notte e
giorno (1919), concepiti ancora secondo la tradizione realistica
ottocentesca; ma con La camera di Giacobbe (1922) il suo lirismo
introspettivo assume già le forti caratteristiche personali degli scritti
posteriori.
In La signora Dalloway (1925) e in Gita al faro (1927)
il suo metodo di analisi sottile delle coscienze appare pienamente realizzato
grazie alla conquistata armonia fra struttura narrativa e simbolismo poetico;
in Orlando (1928), il suo libro di maggior successo, la narrazione
risulta invece meno densa.
Le onde (1931) sviluppa all'estremo il monologo introspettivo
della Woolf e chiude anche la sua felice stagione narrativa aprendo un periodo
di crisi e d'incertezza che la condurrà al suicidio nelle acque dei fiume Ouse.
Le migliori pagine critiche della Woolf sono state
raccolte in Per le vie di Londra (1963).
Importante è anche il suo diario, pubblicato postumo nel
1953.
Henry James
James, scrittore
statunitense (New York 1843 - Londra 1916), fratello di William James. La sua opera narrativa, imperniata
sul contrasto che scaturisce dall'incontro della mentalità americana con quella
europea, è caratterizzata da una acutissima analisi psicologica, con una
tecnica che, privilegiando gli avvenimenti interiori rispetto a quelli esterni,
ha influenzato notevolmente la letteratura contemporanea.
Le sue opere: Rodrigo Hudson (1876), L'Americano
(1877), Daisy Willer (1879), Ritratto di signora (1871), Le
Bostoniane (1886), La principessa Casamassima (1886), Il
carteggio Aspern (1888), La musa tragica (1890), Le spoglie di
Poynton (1897), Le ali della colomba (1 902), Gli ambasciatori (1903),
La coppa dorata (1904).
William Faulkner
I romanzi di Faulkner, anch'egli statunitense (New Albany,
Mississippi, 1897 - Oxford, Mississippi, 1962), sono ambientati nel profondo
Sud degli Stati Uniti, chiuso nel suo orgoglio e nella sua miseria, aggrappato allo
schiavismo e ai ricordi d'un grande passato.
Premio Nobel nel 1949. Le sue opere principali sono: La
paga del soldato (1926), Sartoris (1929), L'urlo e il furore (1929),
Santuario (1931), Luce d'agosto (1932), Assalonne, Assalonne!
(1936), Il borgo (1940), Non si fruga nella polvere (1948), Requiem
per una monaca (195 1), Una favola (1954), La città (1957), Il
palazzo (1959), I saccheggiatori (1962).
Nel 1942 ha scritto la raccolta di racconti Scendi Mosé.
OTTAVO AMBITO DI SIGNIFICATO: LA COSCIENZA COME DISAGIO
ESISTENZIALE
Esiste un ambito del significato di coscienza che potremmo
definire del disagio esistenziale.
Per esso ho reperito solo riflessioni e aforismi di autori
celebri. C'è dunque lo spazio per una riflessione, che però non voglio sviluppare
in questa sede.
Coscienza: è una parola che fa paura (H. Ey).
Evita la troppa coscienza (M.L. Spaziani).
Nella condizione d'essere coscienti c'è un continuo
disagio (M.
Merleau-Ponty).
La malafede è l'essenza stessa della coscienza (M. Merleau-Ponty).
L'uomo per il semplice fatto di essere uomo, di avere cioè
coscienza di sé è, in confronto all'asino o al granchio, un animale malato. La
coscienza è malattia
(M. de Unamuno).
Così la coscienza ci rende tutti vili (W. Shakespeare)
Sono già vent'anni che ho messo in dubbio l'esistenza di
quel qualcosa chiamata "co- scienza" [ …]. Mi sembra sia giunto per
tutti il tempo di prescindere apertamente da essa (W. James).
Ciò che chiamiamo coscienza non è altro che vanità
interiore (G. Flaubert).
Mi sembra che ciò che chiamate "piena coscienza"
è un caso limite che non si raggiunge mai (A. Einstein).
Interrogarsi - non è proprio conoscere
e non è proprio non conoscere –
È una condizione magnifica ma cupa
Chi non l'ha esperimentata non ha vissuto
(E. Dickinson).
NONO AMBITO DI SIGNIFICATO: NEI LINGUAGGI TECNICI
Esiste un significato di coscienza che appartiene al
linguaggio tipografico: uomo di coscienza è l'operaio della
tipografia al quale è affidata la cura del materiale di composizione.
NELLE ALTRE LINGUE
Specifico alcuni significati che i termini corrispondenti
a "coscienza" hanno nelle altre lingue europee. Si tratta di
significati specifici, particolari e interessanti. Trascuro tutti significati
uguali a quelli del concetto italiano. Inizio dalle lingue antiche.
"Coscienza" nel greco antico e nel latino, e il
petto come sede della coscienza
Analizzerò il concetto di coscienza nella cultura greca
più estesamente nel capitolo II, riprendendo il tema negli ultimi capitoli
(l'XI in particolare i termini sunevide§is e sunthvrh§is).
Qui cito solo uno studio molto interessante di R. B.
Onians il cui titolo originale era "The Origins of European Thought
about the Body, The mind, The Soul, The World, Time, and Fate".
Dall'analisi di moltissime opere classiche, liriche, tragiche, epiche, Onians
ricava informazioni interessantissime sull'origine del concetto di coscienza in
rapporto con il corpo, e precisamente con i polmoni, sede della respirazione.
Anche in latino è interessante il raffronto tra sapere "aver linfa,
succo innato", il petto a l'avere coscienza. La sede della coscienza
dunque era, per gli antichi, il petto .
In latino conscientia ha diversi significati; ma in
generale significa coscienza, conoscenza, cognizione che si ha d'una
cosa in comune con altri (cum-scire) [Castiglioni-Mariotti, 1979, p.
257].
Una piccola antologia di frasi: "riunioni tenute
lontano dalla conoscenza di troppi" (Livio); in Tacito: "hai
la connivenza di Augusto", "la complicità della
congiura"; "adsumptis in conscientiam", presi a
confidenti; "il disegno e la conoscenza di delitti"
(Cicerone).
Nel significato di coscienza, piena coscienza, convinzione,
intimo senso; coscienza (morale), consapevolezza: "dalla consapevolezza
che hanno delle forze nostre e loro" e "per la coscienza della loro
inferiorità" (Livio); "salva conscientia", salva la mia
convinzione e "salva bona conscientia" (Seneca);
"coscienza d'esser vissuto rettamente" e "conscientia
scelerum, delictorum", coscienza dei propri delitti (Cicerone); "ex
nulla conscientia de culpa" nella coscienza della mia innocenza
(Sallustio).
Nel significato di coscienza, l'intimo giudizio del
bene o del male compiuto, onde conscientia = buona o cattiva coscienza:
in Cicerone (e altri) "magna vis est consciientiae", grande è
la forza della coscienza, "conscientiae fretus", fìdando nella
buona coscienza e "conscientia morderi", sentire il rimorso
della coscienza e anche "coscientia animi", la propria
coscienza, il grido della coscienza, "animi conscientia excruciari"
essere tormentato dal rimorso, "conscientiae melficiorum" i
rimorsi dei delitti; "ne quis modestiam in coscienziata duceret"
perché nessuno prendesse per colpa il mio riserbo, Sallustio; con agg. "bona,
mala conscientia", buona, cattiva coscienza, Quintiliano e altri.
Infine, Cicerone ci ha lasciato un bellissimo aforisma
sulla coscienza: "Sublata conscientia, iacent omnia" (De
natura deorum, 3, 85).
I siginficati di coscienza nelle lingue Inglese, Tedesco e
Francese
È da notare che in inglese esistono due termini per
"coscienza", solo che uno indica quella morale, conscience, un
senso interno che conosce la differenza tra il bene e il male, l'altro quella
cognitiva, consciousness (sinonimo di awareness), essere
consapevole, lucidità di mente conoscenza, la condizione di essere abile a
pensare, sentire, capire quel che sta accadendo
Aware significa per informato, conscio, consapevole, anche prevenuto.
Altro sinonimo di consciousness è knowledge.
Significati specifici: conscience clause, nel
linguaggio legale è una clausola di riserva morale in un atto,
per esempio per motivi religiosi; deroga prevista.
Conscience money, restituzione anonima o oblazione di una
somma dovuta al fisco, per scaricare la coscienza, e anche for conscience'
sake, per sgravio di coscienza.
Dello stream of consciousness (nel rapporto tra
letteratura e psicologia) ho già detto.
Anche in tedesco esistono due termini: gewissen che
sta per coscienza morale e bewustsein che sta per consapevolezza, conoscenza.
Il francese conscience oltre a significati simili a
quelli dlel'italiano ha interessanti usi del lessico tecnologico: conscience
è la piastra di protezione del tornitore.
Inoltre - forse parallelamente al significato tecnico in italiano
che ho citato (uomo di coscienza) - ha un uso nel linguaggio della
tipografia: mettre en conscience, far eseguire un lavoro alla
giornata.
TERMINI E CONCETTI CORRELATI
È interessante - come ho anticipato nell'introduzione
della presente dissertazione - analizzare alcuni altri termini che sono
strettamente correlati con quello di "coscienza". Essi sono molto
numerosi.
Un possibile elenco potrebbe essere il seguente:
autocoscienza , mente, anima, spirito , cuore , pensiero, intelligenza,
conoscenza, consapevolezza, io , idea, rappresentazione, identità, interiorità,
personalità, vissuto, sensazione, emozione, sentimento, sonno, profondo, e
anche morte, differenza tra uomo e animale, intelligenza artificiale,
immaginario collettivo, e molti altri.
Non potendo sviluppare in questa sede un'indagine completa
di tutti i termini (nei vari capitoli ne tratto alcuni) mi limito a indagarne
alcuni. Da ciò si vedrà quanto sia rivelatore il confronto e quanto si possa
ricavare dalla sovrapposizione dei concetti, che è sempre avvenuta e di cui ora
si può dare conto (lo farò negli ultimi capitoli).
Mente
Deriva dal lat. mente(m), da una radice *men-
indicante in generale l'attività del pensiero.
È l'insieme delle facoltà intellettive che permettono
all'uomo di conoscere la realtà, di pensare e di giudicare (spesso in
contrapposizione a corpo o a cuore): affaticare, riposare
la mente; mente sana in corpo sano; ragionare con la mente e non
col cuore da [http://www.garzanti.it e Devoto-Oli, 1992, p. 1818]
A mente fresca, riposata, quando è pienamente efficiente, ricca
di energie dopo il riposo; a mente lucida, quando non è stanca ed è
sgombra di pensieri e preoccupazioni; malato di mente, chi presenta
alterazioni delle facoltà mentali.
Presunta sede o direzione dei principi e processi
intellettivi e pratici in cui l'attività del pensiero ha luogo; testa, capo: che
cosa ti salta in mente?; non mi passa neppure per la mente, non ci
penso affatto; far mente locale, concentrare il pensiero su un
determinato argomento; applicare la mente a un problema;. Amor che ne
la mente mi ragiona (Dante); Apri la mente a quel ch'io ti paleso (Dante).
È una particolare attitudine, inclinazione mentale: avere
una mente riflessiva, speculativa, calcolatrice.
Sta per intelligenza, capacità intellettiva: mente
acuta, ottusa; ristrettezza di mente; uscire di mente perdere
la ragione, uscire di senno.
Il complesso delle possibilità e dei contenuti
intellettuali e spirituali dell'individuo: educazione della mente; mens
sana in corpore sano; avere una mente fervida, illuminata, angusta,
ottusa. "Le nate a vaneggiar menti mortali" (Foscolo).
Per metonimia, la persona in possesso della particolare
capacità mentale indicata dall'aggettivo: è una bella mente, una mente
aperta, una mente bislacca.
Sta per pensiero, attenzione: essere altrove con la
mente; applicare la mente a qualcosa, rivolgerle l'attenzione; fare
mente locale, accentrare il proprio pensiero intorno a un dato argomento, a
una data cosa.
E anche per volontà, proposito, intenzione: avere in
mente una cosa, avere intenzione di farla; mettersi, ficcarsi in
mente di fare qualcosa, ostinarsi nel volerla fare; levarsi qualcosa
dalla mente, dissuadersi da un proposito.
Indica la capacità o l'ambito della memoria: imparare,
sapere, dire a mente; tenere a mente, ricordare; tornare
alla mente, a mente, in mente, di cosa che si era
dimenticata; mi è uscito, passato, scappato, di mente,
non mi viene in mente (o alla m.), non ricordo, me ne sono
dimenticato.
È il complesso delle idee, delle cognizioni di una
persona; anche, la persona stessa fornita di determinate qualità: educare la
mente; le più belle menti del secolo; è una mente geniale, bislacca.
Infine si dice il braccio e la mente per indicare
chi esegue materialmente un'impresa e chi la organizza e dirige.
Dunque anche in questo caso siamo di fronte a un termine
che ha vasti confini di signifcato e ampia possibilità sinonimica.
Anima
Etimologia: dal latino anima(m), affine al greco avnemo§, "soffio",
"alito".
Principio immateriale della vita nell'uomo, contrapposta
al corpo e tradizionalmente ritenuta immortale o addirittura partecipe del
divino [Devoto-Oli, 1992, p. 139].
Ha molti significarti diversi: descrive il modo di dedicarsi
a qualcosa (intensamente), il morire o il tenersi in vita, sinonimo di vita
stessa quindi; essenza o impulso fondamentale; sinonimo dei sentimenti e
propositi più intimi di una persona (gli occhi sono lo specchio dell'anima,
leggere in fondo all'anima, arrivare all'anima)
Anima sta per "persona" (non c'era anima viva),
è il principio vitale che sorregge in unità e armonia i corpi (e anche il
mondo: anima del mondo).
È la sede intima della sostanza vitale del corpo o
semplicemente dell'"intimo" o "interiore".
Interessante il significato tecnico nella liuteria del
legnetto cilindrico all'interno della cassa dei violini che, nel punto su cui
fa forza il ponticello, unisce il fondo al coperchio assicurando una efficace
trasmissione delle vibrazioni a tutto lo strumento..
Spirito
Termine con cui si traduce il greco pnéuma, che
nella più antica accezione significava "respiro", "aria",
"soffio animatore" (in lat. spiritus).
Gli stoici intesero lo pnéuma come energia che dà
la vita a tutta la realtà, principio vitale, "anima del mondo"; la
medicina antica e medievale lo concepì come sostanza materiale mobile e
sottilissima (lo spiritus corporeus o animalis), e ancora Cartesio, nel Trattato
sulle passioni dell'anima, considerava gli "spiriti animali", prodotti
dal sangue e inviati al cervello dalle arterie, il fondamento fisiologico
dell'attività psichica.
Sin dalle origini, tuttavia, il pensiero cristiano intende
lo pnéuma anche in senso immateriale, come soffio divino animatore
dell'universo (in questa accezione verrà ripreso da Bruno nel rinascimento) e
infine come anima di Dio e poi dell'uomo (già in Filone l'Ebreo, quindi in
Origene e in san Paolo, che contrappone lo "spirito" alla
"carne").
La teologia e la filosofia cristiane parlano pertanto,
oltre che dello Spirito Santo, di "spiriti puri" (Dio e gli angeli) e
di "spiriti infiniti", dai quali si distinguono gli "spiriti
finiti", cioè le anime umane.
Quest'ultima contrapposizione si trova ancora teorizzata
nella filosofia moderna da Leibniz (Monadologia) e da Berkeley (Trattato
sui principi della conoscenza umana), mentre Cartesio usa il termine
"spirito" come sinonimo di sostanza pensante.
Nel pensiero illuministico, invece, lo spirito si
distingue dall'anima: quest'ultima, nella sua realtà psichica, deriva dalla
natura, mentre il primo è inteso come prodotto dell'educazione e dei costumi
sociali (Helvétius, Sullo spirito; ma si pensi anche allo "spirito
delle leggi" indagato da Montesquieu) [EGF2, 1997, pp. 1098-1099].
Nel contempo il termine, come oggetto di scienze occulte e
cioè nel senso del moderne "spiritismo", trova elaborazione in
Swedenborg e in altri, suscitando la reazione critica di Kant nel saggio I
sogni di un visionario (ovvero "di uno che vede spiriti") del
1766.
Per parte sua, Kant usa il termine "spirito"
nella Critica del giudizio e nella Antropologia per designare il
potere produttivo e l'originalità creativa della ragione, e in questa accezione
il termine ispirò la filosofia romantica (in particolare Schelling), che ne
fece tuttavia un uso metafisico ben oltre i limiti formali dei criticismo
kantiano.
Da qui (ma anche dalla tradizione illuministica di
Montesquieu) deriva la prima accezione hegeliana dei concetto di spirito (Geist)
elaborata da Hegel nella Fenomenologia dello spirito del 1807 e poi
allargata a sistema complessivo nell'Enciclopedia, con le distinzioni
tra spirito soggettivo, oggettivo e assoluto.
La straordinaria ampiezza e profondità speculativa che si
accompagna alla utilizzazione hegeliana del concetto si trasmise alle
successive riprese dello hegelismo (in particolare alla "filosofia dello
spirito" di B. Croce, con la quadripartizione dello spirito nelle
categorie dei "distinti", e alla Teoria generale dello spirito
come atto puro di G. Cyentile); ma tale influenza si esercitò, sebbene in
forma più indiretta, anche sulla distinzione tra "scienze dello
spirito" e "scienze della natura" proposta alla fine
dell'Ottocento da W. Windelband, che riprendeva la problematico sviluppata da
W. Dilthey nella Introduzione alle scienze dello spirito. Entro tale
clima posthegeliano è da porsi anche lo spiritualismo di H. Lotze.
Altra natura e origine speculativa presentano invece sia
la corrente dello spiritualismo, che si rifà alla tradizione
cristiano-medievale, a Cartesio, Pascal e Maine de Biran, sia la filosofia dei
valori di M. Scheler e ll problema dell'essere spirituale di N.
Hartmann, che si ispirano alla fenomenologia husserliana.
Lo spiritualismo
Lo spiritualismo ha intenti polemici verso il positivismo,
lo scientismo e il materialismo, ai quali oppone un ritorno alla metafisica di
ispirazione cristiano-agostiniana.
Nell'800 furono Rosmini e Gioberti a recuperare
l'interiorità coscienziale agostiniana e la trascendenza dell'essere divino e a
rivendicare la verità del pensiero e del carattere complessivamente spirituale
della realtà.
Nel nostro secolo la tradizione spiritualistica si è
precisata in due correnti, che ne hanno espressamente rivendicato il nome e la
tematica essenziale.
La prima è sorta in Francia nel 1934 con la collane
"Filosofia dello spirito" fondata da L Levelle e R. Le Senne, nei
quali il tradizionale intimismo spiritualistico si intreccia con le istanze del
contemporaneo esistenzialismo, inteso però in accordo con i valori cristiani.
La seconda corrente è sorta, negli stessi anni, in Italia,
sia come opposizione all'idealismo neohegeliano e al suo immanentismo (ma anche
come sviluppo originale di taluni aspetti dell'attualismo di Gentile), sia come
differenziazione dalla neoscolastica. Con quest'ultima lo spiritualismo
italiano (principalmente rappresentato da A. Carlini, il suo iniziatore, A.
Guzzo, L. Stefanini, F. Battaglia, M. F. Sciacca e R. Lazzarini) ha in comune
l'ispirazione cristiana e cattolica e la tesi della trascendenza di Dio, ma se
ne distingue per il ricorso all'atto dello spirito soggettivo anziché alla
nozione oggettiva dell'essere come punto di partenza del filosofare, e per il
metodo dell'analisi dell'interiorità, preferito all'inferenza razionale (di
tradizione tomistica) dei neoscolastici.
II
La coscienza nella riflessione
filosofica
Propongo una rapida carrellata - non potrebbe essere
altrimenti - come in tutti questi primi capitoli della dissertazione, dello
sviluppo del concetto di coscienza nella storia della filosofia.
Mi propongo di soffermarmi solo sugli autori che mi hanno
colpito di più, dal momento che non è lo scopo di questa dissertazione
analizzare in modo approfondito ed esaustivo la presenza e l'evoluzione del
concetto di coscienza nel pensiero filosofico. Al massimo posso inventariare
una serie di posizioni teoriche, di riflessioni e proposizioni analitiche sulla
coscienza.
Il concetto di coscienza nella filosofia antica: gli
stoici e Plotino
L'origine del concetto di coscienza, nell'ambito della
storia della filosofia si può far risalire alle correnti tardo-antiche dello
stoicismo e del neoplatonismo, per le quali la coscienza coincide con
l'interiorità, il colloquio dell'anima con se stessa, e quando questo avviene
si ha l'uomo saggio, libero dalle passioni e dagli interessi mondani [EGF2,
1997, pp. 219-220].
Il concetto era invece pressoché assente in Platone a
Aristotele [EE, p. 809].
Nell'antichità la parola coscienza (gr. sunevidesi§), era usata per designare il
contrasto tra interiorità ed esteriorità; apparve la prima volta con lo
stoicismo, che stabilì il privilegio della sfera dell'anima nei confronti del
mondo delle cose.
In una fondazione ontologica, il tema è al centro della
speculazione neo-platonica. Il rapporto privato dell'uomo con se stesso, il
ritorno a se stesso, vale per Plotino a rappresentare il volgersi a quella
unità da cui emerge il molteplice del mondo sensibile. Il raccogliersi in sé
non è un ritiro dall'oggettività nella soggettività, ma anzi l'uscita
dall'individualità frammentaria e il congiungimento dell'anima con la sua
origine in Dio.
Il concetto di coscienza nel cristianesimo: Agostino
d'Ippona e Tommaso d'Aquino
Nel cristianesimo l'opposizione tra lo spirito e la carne,
nella misura in cui la riduzione impersonale al centro del tutto propria del
neo-platonismo è sostituita dall'affermazione del valore irriducibile
dell'anima individuale, vale ancor più a indicare l'interiorità dell'uomo come
luogo della Verità e della Vita. Dio è presente nell'uomo spirituale e a esso
si rivela.
Il primato dello spirituale viene ripreso da Agostino e
sviluppato potentemente in molte opere, tanto che tutto il cristianesimo ne ha
risentito e ne risente fino a oggi, basti pensare a espressioni tutt'ora dense
di pregnanza come "voce della coscienza" (ogni buon vocabolario o
lessico italiano contiene decine di espressioni comuni legate a
"coscienza").
Per Agostino la verità esiste solo "in interiore".
Ma il significato morale di coscienza aveva prima di Agostino ben altri padri,
come san Paolo, per il quale la coscienza è la fonte immediata di una
conoscenza certa dei principi che definiscono la rettitudine del volere . Se
poi il comportamento sarà diverso da quanto dettato dalla coscienza ciò dipenderà
dalla debolezza dalla viziosità o da tentazioni del Maligno. S. Agostino è
l'interprete del principio cristiano dell'"inabitare" della Verità
nell'anima (immagine di essa).
Il cristianesimo ha pure elaborato il concetto generale di
coscienza con S. Tommaso.
Egli intende per coscienza (con-scire)
l'applicazione del sapere a un atto, per giudicare se c'è o non c'è, ma
soprattutto se è retto o non lo è.
In tal modo la coscienza è ciò mediante cui, sapendo della
rettitudine delle azioni, si è spinti, anzi, obbligati, a compiere o non
compiere un atto; oppure, esaminando un atto compiuto, si è scusati o accusati.
IL CONCETTO DI COSCIENZA NELLA FILOSOFIA RINASCIMENTALE E
MODERNA
Il passaggio al concetto speculativo moderno vero e
proprio di coscienza è mediato dalla filosofia di Tommaso Campanella. Per
quest'ultimo esiste una conoscenza innata di sé che tutte le persone hanno e
che condiziona la conoscenza che acquisiscono delle altre cose.
R. Cartesio e il problema anima-corpo
Ma è con Cartesio che la nozione di coscienza viene
chiarita nei caratteri coi quali sarà definitivamente accolta nella filosofia
occidentale. Il "cogito ergo sum" è l'auto-evidenza
esistenziale del pensiero; circa i fatti del corpo non si ha certezza, ma circa
gli stati interni (intendere, volere, immaginare, sentire) espressi dal termine
cogito si ha certezza assoluta.
Di vedere o camminare non si è sicuri di per sé (può
trattarsi di qualcosa di simile al sogno), ma perché la sicurezza è nella mente
stessa che sente.
La nozione di coscienza è qui definitivamente giunta a
raccogliere tutta la sfera dell'io e ne è l'auto-evidenza. L'io è ormai
un'entità cui si contrappone il mondo esterno ed è un'entità assolutamente vera
perché immediatamente presente a se stessa, a differenza del mondo che compare
sempre nella sua mediazione.
"A ben guardare, sotto il cosiddetto problema
anima-corpo si celano tre diversi problemi, che riguardano: 1) il rapporto
metafisico fra materia inorganica e vita; 2) il rapporto psicofisico fra
processi fisiologici ed esperienze psichiche; 3) il rapporto psicologico fra
comportamento istintivo e razionale.
I moderni tentativi di risolvere il problema anima-corpo
fanno capo a Cartesio (1596-1650) e alla sua teoria delle due
"sostanze". Essi però riguardano quasi esclusivamente il rapporto
psicofisico (punto 2), senza peraltro puntualizzarne a fondo la problematica e
definirla nei confronti di quella relativa ai rapporto metafisico e psicologico
(punti 1 e 2).
In Cartesio c'è una contrapposizione netta tra il mondo
della coscienza (res cogitans) ed il mondo del corpo (res
extensa), soggetto come un automa a funzionare secondo leggi fisiche […]. Secondo
questa concezione, nell'uomo l'anima e il corpo esercitano l'uno sull'altro un'influenza
reciproca e la sede del loro incontro è rappresentata dall'unico organo
impari dell'encefalo, ossia la ghiandola pineale (o epifisi,
"conarium")" [Hofstätter, 1966, p. 187].
Scriveva infatti Cartesio: "Io accetto che esista
un'influenza reciproca tra coscienza e corpo, ma non di uguale qualità, nel
senso che la coscienza essendo originante dell'uomo intero, compreso il corpo,
imprime su di esso un'influenza ab origine non paragonabile a quella che
il copro e le altre dimensioni dell'uomo possono esercitare sulla coscienza,
che continua a esistere anche dopo la nascita dell'uomo e perciò può ricevere
condizionamenti, ma similmente a come una madre che educa un figlio fino a
portarlo alla maturità può da quello essere condizionata. Eppure lo ha generato
e nutrito e allevato fino a renderlo autonomo da sé".
R. Cartesio e l'"io"
È a partire da Cartesio che assume una rilevanza
fondamentale in filosofia un altro concetto, quello di "io" . La
prima conoscenza sicura che si presenta a chi guidi ordinatamente i propri
pensieri non concerne gli oggetti esterni, ma l'esistenza di un soggetto
pensante, cioè di un "io" (è il noto cogito ergo sum).
Tutto il concetto di Io andrebbe sviluppato e analizzata,
da Cartesio in poi, parallelamente a questo della coscienza, su su fino a
Nietzsche che lo ritiene una finzione e che come nozione non ha alcuna validità
teorica o pratica.
Nella filosofia moderna, dal XVII secolo in poi, coscienza
ha il significato di "consapevolezza soggettiva", di sé e dei propri
contenuti mentali. Per Cartesio di noi stessi, in quanto coscienza, siamo certi
direttamente e indubitabilmente (cfr le Meditazioni metafisiche, I e
II); similmente in tutto l'empirismo inglese fino a Hume che riteneva il
solipsismo inconfutabile teoreticamente: anche se col mio pensiero mi spingo
fino ai limiti dell'universo, non perciò esco dalla mia coscienza, avendo
sempre a che fare o con "impressioni" sensibili o con
"idee" della ragione (cfr Trattato sulla natura umana).
M. de
Montaigne, J. Locke, D. Hume e G. W. Leibniz
Per Montaigne la cosiddetta voce della coscienza non è
nient'altro che l'insieme dei principi o opinioni che nei diversi ambienti
sociali vengono inculcati nelle menti ancora tenere dei fanciulli, come regola
e norme di ciò che è retto e giusto. Ma dimenticando come li hanno appresi, gli
uomini considerano tali principi come "naturali", non derivati
dall'esterno quando li ritrovano dentro di sé.
Tale posizione viene ribadita con forza anche da Locke
nella polemica contro i platonici della scuola di Cambridge, che sostenevano il
carattere innato e intuitivo dei principi morali [EGF2, 1997, p. 220].
Secondo Locke il rapporto del soggetto con l'oggetto
esterno cade interamente nella sfera della coscienza, la quale non attinge
altro che idee; noi non conosciamo le cose, ma le loro idee, e la filosofia non
fa un passo al di là della coscienza.
È "coscienza" l'espressione adoperata da Hume
per negare ogni esistenza esterna e ridurre la realtà a percezione.
Parallelamente a tale dottrina empiristica della coscienza
la filosofia di Leibniz assume il concetto di coscienza (appercezione) in senso
spiritualistico. L'intera vita della monade, che è sostanza spirituale, è
interna a essa. È pensando a noi che pensiamo all'essere, alla sostanza, al
semplice e al composto, all'immaterialità, a Dio stesso.
L'"idea"
in François-Marie A. Voltaire
Nel Dizionario filosofico di Voltarie alla voce Idée,
troviamo spunti interessanti.
"Che cos'è un'idea? È un'immagine che si proietta nel
mio cervello.
Tutti i vostri pensieri sono dunque immagini? Certamente.
Perché le idee più astratte non sono altro che conseguenze di tutti gli oggetti
che ho veduto. Pronuncio il nome di essere in generale, solo perché ho
conosciuto esseri particolari. Pronuncio il nome di infinito solo perché,
avendo visto i limiti degli oggetti finiti, allontano il più possibile questi
limiti con la mia immaginazione. Insomma, ho idee, solo perché ho in testa immagini.
Qual è il pittore che ce le dipinge? Non sono io stesso,
perché non sono un buon pittore: colui che mi ha creato, è anche quello che fa
le mie idee.
Sareste dunque del parere di Malebranche, il quale diceva
che noi vediamo tutto in Dio?
Son ben sicuro che, se non vediamo le cose propriamente
nella Divinità, le vediamo certo nella sua azione onnipotente.
Ma come si manifesta questa azione? Vi ho già detto cento
volte nelle nostre conversazioni che non ne sapevo nulla, e che Dio non ha
detto il suo segreto a nessuno. Ignoro quale forza fa battere il mio cuore e
correre il mio sangue nelle vene; ignoro il principio di tutti i miei
movimenti; e vorreste che vi dicessi in qual modo posso sentire e pensare? Non
è giusto.
Ma sapete almeno se la vostra facoltà di avere idee va
unita all'estensione?
Non so. È vero che Taziano, nel suo discorso ai Greci,
dice che l'anima è manifestamente corporea; e Ireneo (libro 11, 25) dice che il
Signore ha insegnato che le anime conservano l'aspetto del corpo, per conservarne
la memoria.
Tertulliano assicura, nel suo libro II sull'Anima, che è
corpo; Arnobio, Lattanzio, Ilario, Gregorio di Nissa, Ambrogio, non hanno
diversa opinione. Oggi si afferma che altri Padri della chiesa pensano che
l'anima non ha estensione e seguono in ciò la dottrina di Platone; ma è cosa
assai dubbia . Quanto a me, non oso dare nessun parere: vedo difficoltà
insuperabili nell'uno e nell’altro sistema; dopo averci pensato tutta la vita,
mi trovo esattamente al punto di partenza.
Era meglio dunque non pensarci su tanto.
È vero: colui che gode la vita è più saggio di quello che
passa il tempo riflettere, o almeno è più felice. Ma che volete? Non dipendeva
da me ricevere né respingere tutte le idee che sono venute nel mio cervello per
combattersi e contrastarsi e hanno scelto le mie cellule midollari come campo
di battaglia. Quando si furono ben combattute, non ho raccolto dalle loro
spoglie che incertezza.
È triste avere tante idee, e non conoscere con precisione
la natura delle idee.
È triste. Assai più triste, e molto più stupido, è credere
di sapere ciò che non si sa" .
Immanuel Kant
Kant, avvalendosi della sua distinzione fra trascendentale
ed empirico, ha cercato di superare il carattere puramente
"interioristico" della coscienza, intendendo la coscienza di qualcosa
come la presenza di un contenuto empirico. Avere coscienza di una
rappresentazione è sempre aver coscienza empirica della propria esistenza, cioè
essere determinati da qualcosa che non si identifica con noi.
Kant distingue la "coscienza empirica", diversa,
nei diversi uomini, dalla "coscienza in generale" o appercezioni
pura, cioè l'"Io penso", pura funzione di conoscenza, universale.
"L'appercezione pura o trascendentale è la
possibilità del rapporto fra coscienza empirica (o l'io empirico) e l'oggetto.
Tuttavia nella prima edizione della Critica della ragion pura (1781)
l'io di cui si ha coscienza nell'appercezione pura viene qualificato come
"io stabile e permanente che costituisce il correlato di tutte le nostre
rappresentazioni" ed è solo nella seconda edizione (1787) che a tale io
spetterà una pura funzione formale, priva di realtà propria, rimanendo tuttavia
la condizione di ogni conoscenza. In ogni caso in Kant risulta definitivamente
invertito il rapporto di derivazione e fondazione tra coscienza riflessiva e
autocoscienza, ma solo nella seconda definizione kantiana l'io autocosciente è
un io infinito e privo di potere creativo, un io che ordina e organizza un
materiale fenomenico dato. Nell'accettare o meno questa restrizione si dividono
nettamente le strade della filosofia trascendentale e dell'idealismo, che,
incentrandosi sulla immanenza totale della coscienza, tematizza l'autocoscienza
propria di un principio infinito, condizione di ogni realtà.
Kant nella Critica della ragion pratica, pone al
centro della sua etica la coscienza intesa come voce interiore, in contrasto
con le inclinazioni sensibili da cui siamo affetti. In accordo con Rousseau,
Kant ritiene assoluto il valore della legge morale e accessibile a tutti gli
uomini.
Tale concezione, così duratura nel tempo, è stata
contestata da tutte le forme di relativismo morale susseguitesi dal
rinascimento ad oggi.
Dalla concezione kantiana prende avvio il successivo
idealismo tedesco, con l'Io assoluto di Fichte e del primo Schelling; ma con
differenze radicali rispetto a Kant: infatti per l'idealismo la coscienza è
l'Io empirico che si ritrova limitato dal Non-Io, mentre l'Io assoluto,
principio originario che "pone" il Non-Io al fine di potersi determinare
per contrasto, è del tutto al di qua della coscienza e viene attinto solo dalla
riflessione filosofica.
Così, Fichte si applica al tema dell'autocoscienza come
coscienza immediata (non riflessiva) dell'avere coscienza, in quanto atto di un
io assoluto, e assume il concetto kantiano puramente funzionale come un
concetto quasi sostanziale: l'io infinito, principio non solo della conoscenza
ma anche della realtà, e principio non nel senso di condizione, ma di forza o
attività produttiva che producendosi produce il non-io.
Georg W. F.
Hegel
Muovendo da tale elaborazione, Hegel nella Fenomenologia
(1807) afferma come compito ulteriore della filosofia l'elaborazione
concettuale del contenuto della coscienza reale affinché acquisti verità e
realtà portandosi all'altezza del soggetto assoluto: ogni coscienza, anche come
autoconsapevolezza e autocertezza (riflessiva o immediata), implica infatti per
Hegel il rapporto della coscienza con qualcosa che è sempre altro dalla
coscienza stessa, mentre l'autocoscienza intesa come concetto o come spirito
elimina tale relazione alienata.
La prima delle sei sezioni della Fenomenologia dello
spirito è proprio dedicata alla Coscienza. Hegel elenca varie forme di
realismo più o meno ingenuo, rivendicando al funzione costitutiva del pensiero
nei confronti dell'oggettività e quindi la funzione di mediazione di contro
all'opinione che la verità sia data invece dall'immediatezza.
L'autocoscienza (ossia la coscienza si sé propria
dell'uomo) si presenta quale identità di opposti: l'Io-soggetto e l'Io-oggetto
sono il medesimo Io che da se stesso si duplica; si ha quindi una differenza
che insieme è identità
La risoluzione del rapporto fra coscienza e autocoscienza
si pone come un generale rimprovero mosso a tutta la filosofia precedente per
avere elaborato mere filosofie della coscienza. Tuttavia in Hegel
l'assolutizzazione dello spirito in quanto autofondato e libero da rapporti di
alienazione propri della coscienza va di pari passo con una peculiare
considerazione genetica di tale autofondazione: su ciò potranno lavorare le
dottrine a vario titolo antimetafisiche che, operando dall'interno la
dissoluzione del sistema hegeliano, riporteranno rapidamente la concezione del
rapporto coscienza-autocoscienza al suo stadio preidealistico" [EGF2,
1981, p. 178].
Per Hegel il filosofare, come elaborazione concettuale di
quel contenuto iniziale che è la coscienza soggettiva - la quale in tale
attività si fa verità assoluta, Spirito - è lo stesso processo della realtà che
si fa realtà assoluta. E' questo il concetto dell'autocoscienza, cioè di un
principio che autocreandosi crea tutta la realtà.
La "coscienza infelice" in Hegel
La "coscienza infelice" è la figura che nella Fenomenologia
dello spirito ha per referente la religione ebraica e cristiana.
L'infelicità di questa forma di coscienza deriva dal suo sentirsi come
inessenziale di fronte all'Assoluto, cioè al Dio trascendente, senza tuttavia
riuscire a negarsi in esso, come pur vorrebbe. Hegel presenta i tentativi tutti
destinati al fallimento, che la coscienza infelice metterebbe in atto a questo
scopo:la devozione sentimentale, una sorta di misticismo; l'operare nel mondo,
inteso come dolore verso Dio; e infine la mortificazione di sé, nell'ascetismo
inattivo. Non riuscendo però ad annullarsi, la coscienza continua a soffrire
l'alterità che permane fra lei e il divino. Questa infelicità verrà superata
solo allorché la coscienza ritroverà il divino nel mondo e in se stessa, ossia
si scoprirà come ragione, realizzando quell'unità con l'Assoluto che fin allora
le era mancata.
Questa interpretazione è dunque una interpretazione della
fede in un Dio personale e trascendente come una forma di
"alienazione" dell'uomo da se stesso. Tale idea verrà poi sviluppata
dalla cosiddetta sinistra hegeliana.
Se per gli empiristi la conoscenza non poteva uscire dalla
sfera della coscienza (le cose stesse perdono ogni realtà indipendente dalla
percezione, il loro esse si riduce al loro percipi, Berkeley),
tale concezione è criticata da Kant per il quale la conoscenza degli stati di
coscienza si avvale delle stesse modalità della conoscenza degli oggetti
sensibili, perciò vanno usati gli stessi metodi di indagine. È così che cade
l'esito idealistico degli empiristi e non fornendo più conoscenze privilegiate,
la coscienza, che s'è vista sottrarre il proprio carattere di sfera autonoma,
si riduce a semplice consapevolezza e perde gran parte del suo interesse
filosofico, a parte la parentesi idealistica tedesca (in Fichte la realtà
esterna è interamente risolta in coscienza [EE, p. 809].
Il solipsismo tra il XVII e il XX secolo
Il solipsismo, che sostiene l'evidenza assoluta, ma anche
invalicabile, dell'io singolo (solus ipse) o dei contenuti di coscienza,
dando luogo a un idealismo soggettivo che nega la realtà (o la possibilità di
dimostrare e attingere la realtà) del mondo esterno e degli altri soggetti, fu
sostenuto da Malebranche e Berkeley, i quali consideravano indispensabile il
ricorso a Dio come unico garante dell'oggettività del conoscere. Per Cartesio
invece il solipsismo ha una funzione più propriamente metodologica: l'evidenza
interiore è la base per la dimostrazione razionale dell'esistenza di Dio e del
mondo.
In seguito il solipsismo fu giudicato teoreticamente
inconfutabile ma insostenibile in sede morale da Fichte e Schopenhauer. Ma
ripreso da Husserl per il quale l'io, proprio tornando in sé, si scopre
costituito dagli altri io, sicché intersoggettività sarebbe più originaria e
fondante rispetto alla soggettività singola (cfr Meditazioni cartesiane,
5).
Il solipsismo ha continuato ad affascinare i filosofi fino
al nostro secolo. Per Wittgenstein (solipsismo linguistico) "i limiti del
mio linguaggio sono i limiti del mondo", tesi fondamentale del Tractatus
logico-philosophicus.
Per R. Carnap (in La struttura logica del mondo) il
fondamento del conoscere è il "flusso d'esperienza", anonima presenza
che precede la distinzione dell'io e della cosa. Questo "puro c'è" dell'esperienza
è pertanto un dato coscienziale originario, valicabile solo per analogia e
somiglianza.
Il tema è stato ripreso e ridiscusso dai neopositivisti e
da B. Russell [EGF2, 1997, pp. 1085-1086].
IL CONCETTO DI COSCIENZA NELLA FILOSOFIA DEL '900
Friedrich W. Nietzsche
Nel primo aforisma di Umano troppo umano Nietzsche
sviluppo il suo programma di critica della razionalità socratica della società
occidentale: occorre una "chimica delle idee e dei sentimenti morali,
religiosi ed estetici" che mostri come "i colori più magnifici"
derivino da materiali bassi e spregiati, cioè impulsi ed interessi egoistici.
In questo Nietzsche assomiglia a Marx e Freud con i quali
condivide la volontà di mettere in luce le basi materiali (economiche o
istintuali) di ogni produzione spirituale, ma "è erroneo ritenere che il
suo discorso miri a indicare una verità elementare a cui debbano essere
riportate (per demistificarle) le "menzogne" dell'ideologia e i
prodotti della sublimazione. La "chimica" di Nietzsche scopre invece
che non c'è alcuna verità base, giacché anche la credenza nel valore della
verità è, appunto, una credenza storicamente condizionata; l'evidenza che ci fa
ritenere vera una proposizione, del resto, non è segno di una sua verità, ma è
solo segno che quella proposizione corrisponde meglio di altre ai
condizionamenti psicologici e sociali che ci dominano.
La coscienza a cui l'evidenza si impone non è nulla di
immediato, ma già il risultato di un gioco di influenze e di un equilibrio
gerarchico di forze contrastanti. Tutto ciò che di volta in volta si presenta
come verità è solo il configurarsi, provvisoriamente stabile, di rapporti di
forze, sia nella società, dove prevale un certo criterio del vero imposto da
questo o quel gruppo, sia nel singolo, dove prevale l'uno o l'altro impulso,
secondo una gerarchia che dipende anche dalle gerarchie sociali […]
I sensi (significati e direzioni) che vengono attribuiti
alla storia sono anch'essi prospettive interne al gioco di forze della
"volontà di potenza". Questa però non si muove secondo un senso
unitario.
Su questa base l'idea dell'eterno ritorno sembra avere,
per Nietzsche, non tanto la funzione di affermare la circolarità del tempo,
quanto piuttosto quella di negarne la linearità; di negare, cioè, che il corso
storico vada verso un fine che trascende i singoli momenti di esso, come ha
sempre voluto la metafisica platonico-cristiana.
Ogni momento del tempo, quindi ogni esistenza singola in
ogni suo attimo, ha tutto il suo senso in sé. […] Occorre liberare il gioco
delle forze, costruendo un'esistenza dove ogni momento possieda tutto intero il
suo senso" [EGF2, 1997, pp. 795-796]. "Nel nostro secolo, la nozione
di coscienza, nel senso di consapevolezza di sé e degli oggetti ai quali essa
si rivolga, è importante soprattutto in Husserl e poi in alcune varianti
dell'esistenzialismo, per esempio in K. Jaspers e J. P. Sartre.
L'aspetto per cui la coscienza è sempre coscienza di
qualcosa, ossia ha necessariamente un oggetto quale termine di riferimento, è
definito da Husserl come la sua "intenzionalità" (termine di lontana
derivazione scolastica), nelle Idee per una fenomenologia pura. Questa
concezione con la relativa terminologia è penetrata largamente nel pensiero
tedesco del nostro secolo.
Per Sartre (L'essere e il nulla) la coscienza è
"essere per sé" o presenza a sé (distinzione di sé da sé; è
negatività e libertà, in quanto essenzialmente progettualità rivolta al futuro,
di contro all'"essere in sé" delle cose. Tra l'essere e la coscienza
c'è un'opposizione irresolubile. La coscienza si definisce come
"non-essere"; ed è quindi "l'essere per cui il nulla viene al
mondo", nel senso che ogni negazione che s'incontri nell'esperienza
dipende dall'attività negatrice originaria della coscienza.
Alla certezza interiore come pretesa via d'accesso diretto
alla verità vengono oggi contrapposti i metodi propri delle scienze, teoriche o
empiriche.
La complessa problematica logica che ne deriva occupa una
posizione centrale nelle filosofie che, come l'empirismo logico, muovono
appunto dal riconoscimento che nelle scienze esistenti e nei loro progressi è
data l'unica possibilità di conoscenza affidabile.
Il punto estremo di questa critica è rappresentato dal
comportamentismo, il quale, proprio sul terreno dei fenomeni psichici, rifiuta
le pretese conoscitive del ricorso all'interiorità e propone in alternativa una
metodologia fondata sui dati oggettivamente osservabili, nella convinzione che
l'introspezione sia una fonte di autoinganno.
L'introspezione quale modo di conoscenza dei fenomeni
psichici è contestata, su un altro versante, dalla psicanalisi, secondo la
quale la genesi profonda di tali fenomeni sfugge alla normale consapevolezza
del soggetto" [EGF2, 1997, p. 221].
La concezione della coscienza come rapporto con l'esterno
è stata ripresa su altre basi, in questo secolo, dalla fenomenologia.
La fenomenologia ed Edmund Husserl
Per Husserl la coscienza è intenzionalità, cioè
trascendimento nei confronti dell'oggetto. Essa è costituita di esperienze
vissute, che sono la sua sostanza e posizione assoluta. Invece la filosofia
romantica aveva concepito la totale immanenza della realtà nella coscienza.
Nelle Idee per una fenomenologia pura e una filosofia
fenomenologica (1913 1 1952) Husserl propone il metodo della "riduzione
fenomenologica" ("sospensione del giudizio" o epoché) per
attingere la dimensione in cui i fenomeni si manifestano in piena
"evidenza" ("in carne ed ossa") e come "datità
originarie". L'epoché pone tra parentesi sia i giudizi del senso comune
(pregiudizi) sia le teorie scientifiche. Operata tale riduzione ciò che emerge
come "residuo fenomenologico" è il campo trascendentale della
coscienza pura (par. 49).
Le realtà psichiche (il terzo degli strati fondamentali
della realtà, dopo le cose materiali e le nature animali) non sono una
molteplicità irrisolta di soggetti singoli, ma una intersoggettività
originaria.
La sfera della coscienza trascendentale non è né il cogito
solipsistico cartesiano, né, dice Husserl, l'Io puro di Fichte; è piuttosto un Noi
intersoggettivo che si dispiega in un operare comune di cui il linguaggio, la
società e la storia sono le più dirette manifestazioni (Meditazioni
cartesiane, parr. 55-60) [EGF2, 1997, p. 512].
Husserl nega la coscienza come cosa e la ribadisce come
atto, un originario fuori-di-sé o, come dice Merleau-Ponty, una trascendenza.
Martin
Heidegger e Karl Jaspers
Lo spiritualismo del sec. XIX persegue dal canto suo
l'ideale della coscienza come manifestazione dell'infinito, sottolineando però
il rapporto non necessario fra i due termini.
L'esistenzialismo rappresenta invece una svolta radicale.
Esso fa l'esperienza drammatica dell'impossibilità e pure della necessità del
trascendimento della coscienza.
Questo modo di vedere è condiviso da Jaspers, Sartre,
Heidegger.
La filosofia, a differenza delle scienza, si rivolge
all'esistenza in quanto unità di soggetto e oggetto; ogni esistenza infatti è
la sua stessa situazione nel mondo: "Il mio io è identico con il luogo
della realtà in cui mi trovo".
Ciò conduce ai temi di colpa (ogni esistenza sconta
fatalmente la parzialità ineliminabile che la caratterizza), libertà (ma di
fatto io devo scegliere e sono già scelto dalla situazione storica, la libertà
si riduce all'accettazione del proprio destino, secondo il motto nietzschiano
"divieni ciò che sei") e comunicazione (che risulta in ultima analisi
impossibile)
[EGF2, 1997, pp.575-6].
Sulla stessa linea si muovono Heidegger ("L'Esserci,
in virtù del suo modo fondamentale di essere, è già sempre "fuori",
presso l'ente che incontra in un mondo già sempre scoperto") e Sartre
("L'essere della coscienza, in quanto coscienza, è di esistere a distanza
da sé, come presenza a sé, e questo niente di distanza che l'essere porta nel
suo essere è il nulla").
Per Heidegger la trascendenza verso il mondo è l'essenza
della soggettività stessa; trascendere è progettare un atteggiamento nel mondo.
Ma il mondo ricomprende in sé il soggetto che si trova gettato così in esso e
sottoposto alle sue condizioni. Di conseguenza la coscienza s'identificherà con
il tentativo di mettersi in rapporto con qualcosa che è destinata allo scacco.
Il teorema dell'intenzionalità della coscienza che Husserl
aveva preso da Brentano è infine ripercorso da Jaspers per il quale
"l'essere della coscienza non è come quello delle cose, ma la sua essenza
è nell'essere diretto intenzionalmente agli oggetti", ma la coscienza
riflette anche su di sé ponendosi come autocoscienza: "l'"io
penso" e l'"io penso che penso" coincidono in modo da non poter
esistere l'uno senza l'altro" [DPL, 1992, pp. 236-237].
Dunque questa ipotesi fenomenologico-esistenzialista
rifiuta la riduzione dell'uomo a coscienza e concepisce l'individuo come un
essere-nel-mondo, dove il mondo è pensato come costitutivo dell'essenza umana.
Nella visione marxista la persona (e dunque la coscienza)
è la risultante dei rapporti che l'uomo ha con la natura e con i propri simili.
Jean-Paul Sartre
A partire dal concetto husserliano di intenzionalità della
coscienza, Sartre credeva in una trascendenza ineliminabile della coscienza
verso il mondo e le cose. Al centro della psicologia fenomenologica egli voleva
la funzione immaginativa (L'immaginario, 1940) perché ciò permette di
evidenziare la proprietà della coscienza di distanziarsi dalle cose e dai
fatti, annullando la totalità dell'esistente in vista di significati che la
coscienza liberamente pone.
Con questi studi Sartre cominciò a fissare i capisaldi
della sua ontologia fenomenologica, fondata sulla complementarità
contraddittoria dell'essere della coscienza (il "per-sé"), come
libertà assoluta che dà significato globale ai dati della situazione, e
dell'essere del mondo (l'"in-sé" o Essere per antonomasia), come
realtà fattuale massiccia e opaca, che è il supporto e il residuo irriducibile
dell'attività intenzionale della coscienza
In L'essere e il nulla il rapporto con l'altro si
configura negativamente come reciproca riduzione a oggetto (a
"in-sé") fin dall'esperienza primaria dello sguardo, per cui
"l'essenza del rapporto tra le coscienze è il conflitto".
La sintesi di in-sé e per-sé, che corrisponde all'idea di
Dio, assoluta libertà e insieme assoluta necessità, è impossibile. Esiste una
equivalenza negativa delle scelte, ovvero uno scacco ontologico dell'esistenza
[EGF2, 1997, p.1011].
Henri Bergson
Di Bergson mi occupo più estesamente dato l'interesse
della sua riflessione filosofica. Egli è autore di una teoria dell'evoluzione
fondata sulla dimensione spirituale della vita umana che esercitò una profonda
influenza su molte discipline.
Oltre che alla filosofia si interessò alla matematica e
alla fisica, che coniugò con la filosofia della scienza e la riflessione sul
problema del tempo. Insegnò nei licei, all'École Normale Supérieure e al
Collège de France.
Nella sua tesi di dottorato Saggio sui dati immediati
della coscienza (1889), criticava l'applicazione alla coscienza di una
concezione del tempo deterministica e positivistica. Solo la "durata"
intesa come sequenza di momenti qualitativamente connessi tra loro e non
quantificabili, è in grado di cogliere l'io nella sua interezza.
Nelle opere successive analizzò il rapporto tra mente e
corpo (Materia e memoria, 1896) e il problema dell'esistenza umana
all'interno dell'evoluzione intesa come energia pura, élan vital, forza
vitale libera da implicazioni finalistiche o deterministe (L'evoluzione
creatrice, 1907).
Membro dell'Accademia di Francia si occupò di affari
esteri, politica e problemi morali e religiosi; si convertì al cattolicesimo ma
rifiutò il battesimo per non tradire la sua origine ebraica al tempo della
persecuzione.
Negli ultimi vent'anni della propria vita pubblicò
unicamente Le due fonti della morale e della religione (1932), in cui
estese le sue concezioni alla morale, alla religione e alla società. Premio
Nobel per la letteratura, morì a Parigi nel 1941.
Bergson contrappose alla concezione razionalistica del
positivismo una visione della conoscenza e della vita fondata su diversi
livelli dello spirito e su diversi piani conoscitivi. All'apice di questi
livelli non è l'intelligenza, che ci offre soltanto rappresentazioni
superficiali, convenzionali, utili ma non corrispondenti alla realtà delle
cose; la vera attività conoscitiva è l'intuizione, che ci permette di cogliere
l'essenza del reale, della natura come del nostro Io. La vera realtà della
natura e dello spirito non può essere colta attraverso le artificiose
schematizzazioni delle scienze ma deve essere appresa intuitivamente nel suo
divenire, nel suo flusso ininterrotto.
Al concetto di tempo "spazializzato" della
scienza, artificialmente diviso in momenti distinti, egli contrappose il tempo
come durata, come flusso ininterrotto, come processo che non può essere
quantificato ma soltanto vissuto dalla spirito. Così tutta la vita viene
interpretata come evoluzione continua, come proiezione della realtà e dello
spirito verso forme sempre nuove, in una perenne attività creativa.
E' la coscienza, attraverso la sua capacità di conservare
nella memoria gli oggetti e poi di giustapporli in una successione ordinata, che
crea il tempo omogeneo. Ogni termine assume per la nostra coscienza un duplice
aspetto: uno sempre identico a se stesso, poiché pensiamo all'identità
dell'oggetto esterno, l'altro specifico, perché l'addizione di questo termine
dà luogo a una nuova organizzazione dell'insieme. Distinguiamo due forme di
molteplicità, due valutazioni molto diverse della durata, due aspetti della
vita cosciente l'uno netto, preciso, ma impersonale; l'altro confuso,
infinitamente mobile e inesprimibile, poiché il linguaggio non potrebbe
coglierlo senza fissarne la mobilità, e nemmeno adattarlo alla sua forma banale
senza farlo cadere nel dominio comune.
Bergson in Saggio sui dati immediati della coscienza
(1889) si propone una descrizione degli stati di coscienza in presa diretta,
cioè mediante l'introspezione e in polemica con la psicologia sperimentale
positivistica, che pretende di rapportare i dati interni della coscienza ai
fatti fisici esterni. Ma i fatti psichici vivono in una dimensione qualitativa
che non è rapportabile a quella quantitativa dei fatti fisici (si può misurare
uno stimolo, ma non una sensazione).
Il tempo concretamente vissuto dalla coscienza, per
esempio, è una "durata" reale in cui lo stato psichico presente
conserva il processo dal quale proviene ed è insieme qualcosa di nuovo.
Intuizione e stati della coscienza in Bergson
Non c'è soluzione di continuità tra gli stati della
coscienza: essi si compenetrano dando vita a un amalgama in continua
evoluzione. "Al di sotto […] vi è un flusso continuo, non comparabile a
nulla di ciò che ho visto fluire. È una successione di stati, ciascuno dei
quali preannunzia quello che lo segue e contiene quello che lo precede. In
verità essi non costituiscono stati molteplici se non quando son già passato
oltre ad essi, e mi rivolgo indietro per osservarne la traccia […]. In realtà,
nessuno di essi comincia o finisce, tutti si prolungano gli uni negli altri. È,
se si vuole, lo svolgersi di un rotolo, perché non c'è essere vivente che non
si senta arrivare, a poco a poco, al termine della parte che deve recitare […].
Ma è anche, altrettanto, un arrotolarsi continuo, come quello d'un filo su un
gomitolo, poiché il nostro passato ci segue, e s'ingrossa senza sosta del
presente che raccoglie sul suo cammino: coscienza significa memoria"
[Bergson, 1971, p. 48].
Ed è questo movimento reale e vissuto che la scienza non
può spiegare con i suoi concetti astratti e rigidi. Lo scopo del filosofo è
quello di aiutare l'uomo a scavare nella propria coscienza.
A causa poi di un analogo intellettualismo concettuale, la
scienza (e anche il senso comune) da sempre si imbatte in dualismi
irresolubili: materia-spirito, estensione-pensiero, necessità-libertà. Bergson
affronta tale problema in Materia e Memoria (1896). È la memoria pura e
spirituale a caratterizzare la vita profonda della coscienza: essa raccoglie
tutto il nostro passato e lo conserva nel fondo della psiche. Il corpo però, e
in particolare il cervello, si incarica di limitare la memoria totale,
imponendo la dimenticanza di taluni contenuti e l'oblio. Il cervello è dunque
un organo di traduzione e di collegamento: da un lato esso traduce l'attività
della coscienza in movimento (nel cervello non c'è il pensiero ma solo il
"movimento esteriorizzato" del pensiero), dall'altro collega la
coscienza con la realtà esterna, e anzitutto con quella prima cosa che per l'io
è il corpo.
Spirito e corpo possono essere espressi dunque come
memoria e percezione. La prima raccoglie la totalità della vita vissuta nella
sua spontaneità e creatività; la seconda si concentra sul presente, sulle
necessità pratiche dell'azione.
Per quanto riguarda l'evoluzione, tema caro a Bergson,
egli respinge sia il modello evoluzionistico spenceriano (cioè il
determinismo), sia l'evoluzionismo finalistico, perché entrambi negano la
spontaneità e la novità del processo reale. Dopo la pianta viene l'animale che
ha l'istinto, ma l'uomo lo sopravanza con l'intelligenza, che è la strada che
avvia l'uomo verso la coscienza e il concetto. La scienza è il traguardo estremo
di questo progressivo raffinamento.
Ma l'intelligenza può sempre tornare all'istinto,
accompagnato dalla coscienza. In Introduzione alla metafisica Bergson
definisce così l'intuizione: "quella simpatia mediante la quale ci si
inserisce nell'interiorità di un oggetto per coincidere con ciò che c'è in esso
di unico".
L'intuizione diviene così l'organo di una reale conoscenza
partecipativa, che si esprime nell'arte se diretta all'individuale, e nella
metafisica se rivolta alla totalità della vita presa nel suo slancio vitale, La
metafisica è pertanto la "scienza che si propone di superare la barriera
dei simboli" costruiti dal linguaggio comune e dall'intelletto
scientifico.
Al rischio che il progresso tecnologico spinga l'uomo
"verso la soddisfazione dei desideri più grossolani" Bergson oppone
la speranza in un nuovo salto evolutivo della specie, consistente in un nuovo
misticismo, che facendo leva sulla forza dell'intuizione e della tecnica si
traduca in un moderno "amore universale e attivo" [EGF2, 1997, pp. 105-106].
"Senza dubbio, nessuna immagine rende perfettamente
il senso originale che ho dello scorrere di me stesso. Ma neppure è necessario
che cerchi di renderlo. A chi non sia capace di darsi da sé l'intuizione della
durata che costituisce il suo essere, nulla la darà mai, non i concetti più che
le immagini. L'unica mira del filosofo deve essere, qui, provocare un certo
lavoro che, nella maggior parte degli uomini, le abitudini mentali più utili
alla vita tendono a bloccare (Le esigenze vitali tendono a portare l'attenzione
verso i livelli superficiali, spaziali, della coscienza, impedendole di
concentrarsi in un una sensibilità profonda e simpatetica verso l'oggetto, nota
del traduttore)" [Bergson, 1971, p. 50].
Fondamentale, e chiave di ogni altro, fu l'interesse per
il problema della coscienza, e per il ruolo dell'inconscio. Era il problema
implicito nel titolo stesso del primo libro di Bergson, l'Essai sur les
données immédiates de la conscience, in cui si tentava di distinguere tra
una "vita psichica superficiale", a cui poteva essere applicata la
logica scientifica dello spazio e del numero, e una vita della coscienza più
profonda, in cui il vero io seguiva una sua propria logica" [Stuart
Hughes, 1967, p. 68-9].
Bergson nel movimento intellettuale della fine del secolo
scorso si collocava all'ala estrema "intuizionista", aggressivamente
antipositivista.
Maurice Merleau-Ponty
Anche per Merleau-Ponty l'essere-nel-mondo, costitutivo
dell'esistenza, è rapporto tra coscienza e mondo; ma a differenza di Sartre
egli pensa che quel rapporto non è interpretato adeguatamente attraverso la
contrapposizione tra per-sé e in-sé, che sembra riproporre il tradizionale
dualismo cartesiano tra res cogitans e res extensa e
sopravvalutare soggettivisticamente la libertà di coscienza.
Soggetto e oggetto, io e mondo, libertà e necessità, non
vanno visti nei termini antitetici della filosofia classica e delle sue
soluzioni unilaterali (materialismo e idealismo).
"L’anima pensa secondo il corpo, non secondo se
stessa" (in L’Occhio e lo Spirito).
Seguendo le indicazioni dell'ultimo Husserl, Merleau-Ponty
identifica il luogo fondamentale dell'esistenza nell'esperienza vissuta della percezione
dove soggetto e oggetto, coscienza e mondo si costituiscono in un rapporto di
implicazione reciproca, di scambio e interazione che la fenomenologia deve
restituire nella sua ambiguità originaria (La struttura del comportamento,
1942) [EGF2, 1997, pp.575-6].
Pierre
Teilhard de Chardin e F. Tipler
Teilhard de Chardin definiva la comparsa della vita
cosciente sul pianeta come il processo tramite il quale il mondo estroflette un
occhio per guardarsi, immagine che ricorda le visioni del cabalista rinascimentale
ebreo Jizchad Lurja (1532-1575).
Formenti ricorda che secondo Lurja la creazione del mondo
consiste nel ritiro di Dio; ciò lascia un vuoto in cui si dispiega liberamente
la storia del mondo; solo la comparsa dell'uomo consente di ristabilire una
presenza divina [Formenti, 1999, pp. 186-187].
Con la comparsa della specie umana la Terra si risveglia,
si fabbrica un cervello rispetto al quale i singoli esseri umani svolgono la
funzione di cellule nervose. La genesi di questa Mente collettiva (che anticipa
il concetto di Mente che verrà elaborato anni dopo da Gregory Bateson) richiede
tuttavia un passaggio ulteriore, vale a dire, che l'evoluzione culturale e lo
sviluppo tecnologico diano vita alla "noosfera". Con questo termine,
Teilhard de Chardin definisce quel complesso di energie biologiche
spiritualizzate (potenziali intellettuali individuali e collettivi, sistemi e
codici di comunicazione, conoscenze, linguaggi, tecnologie ecc.) che
costituiscono una sorta di "superidentità" della specie, un sistema
pensante composto da elementi sia biologici sia artificiali. Non appena tale
"massa pensante" avrà raggiunto un punto critico, che Teilhard de
Chardin chiamava punto Omega, la Creatura Planetaria avrà completato il suo
processo di formazione, la Teogenesi sarà compiuta. A partire da quel momento,
la Terrà non sarà più solo coperta da una miriade di granuli di pensiero: si
sarà trasformata in un'unica sfera pensante.
La materia originaria, secondo Teilhard, contiene già in
sé la "coscienza" come elemento organizzativo, per cui l'evoluzione
si configura come un processo non puramente deterministico, ma anche teologico.
L'uomo non è ancora tuttavia il punto finale: l'universo,
e in esso l'uomo e la sua storia, tendono a un "punto omega": il
Cristo cosmico, punto di aggregazione di tutta l'umanità
("cristosfera").
Stato il fisico Frank Tipler ha riprendere recentemente il
concetto di Punto Omega, sostenendo che tutta la vita coscienze finirà per
convergere in una supermente che assumerà il controllo del cosmo e annullerà la
morte termica. Dio, con inversione temporale tipicamente gnostica, non sta
all'inizio ma alla fine dei tempi. Si veda anche la concezione di
Lurja"[Formenti, 1999, p. 187 n.].
ALCUNE VOCI DEL DIBATTITO ATTUALE IN ITALIA
Gianni Vattimo e il pensiero debole
Nietzsche, l'autore che insieme a Heidegger ha posto le
basi dell'ermeneutica filosofica contemporanea, vedeva nella dissoluzione dei
fondamenti il principio di una duplice emancipazione: sia come liberazione dal
simbolico, dalle credenze metafisiche, sia come liberazione del
simbolico, cioè come possibilità di sperimentazione di nuove forme di vita e di
pensiero.
Di qui la necessità per la filosofia di rinunciare a
qualsiasi ruolo fondativo e di configurarsi piuttosto come un "pensiero
debole" e come una "ontologia dell'attualità", capace di
accompagnare e di edificare l'umanità in un mondo che non ha ormai bisogno di
assoluti.
La storia non porta verso il meglio, come nel perfettismo
illuminista e idealista, ma si allontana dal peggio; l'anamnesi storica di
questo allontanamento ha il valore di una teodicea indebolita e di una terapia
[EGF2, 1997, pp. 1189 ss.].
A mio parere la posizione di Vattimo è importante per la
ricerca del nuovo paradigma di teorizzazione; è una posizione da cui non si può
prescindere.
Romano Guardini
Un intero saggio ha dedicato alla coscienza Romano
Guardini, ma intendendola quasi esclusivamente nell'ambito della religione, del
rapporto dell'uomo con Dio.
Secondo Guardini "coscienza è, anzitutto, quell'organo,
per mezzo del quale io rispondo al bene e divento consapevole di questo:
"Il bene esiste; ha un'importanza assoluta; il fine ultimo della mia
esistenza è legato a esso […]. La coscienza è anche la porta, per la
quale l'eterno entra nel tempo [la sottolineatura è mia, n.d.r.]. È la
culla della storia. Solo dalla coscienza sgorga "storia", la quale
significa ben altro che non un processo naturale. Storia significa che, in
seguito a libera opera umana, qualche cosa di eterno si compie entro il
tempo" [Guardini, 1997, p. 25-6].
Coscienza significa quindi "qualche cosa di grande;
una realtà creativa, capace di vedere e di attuare qualche cosa che prima non
esisteva ancora; di dar forma al bene eterno nel corso del tempo; di generare
in certo modo qualcosa di infinito e semplice insieme nella forma limitata
dell'azione. E a ciò tutto si presta come materia: tutto il contenuto della
vita, ogni cosa, ogni avvenimento […]. Questa coscienza è ciò che abbiamo di
più nostro" [Guardini, 1997, p. 33].
E ancora la coscienza è "un atto vitale, in cui opera
e influisce tutto quello che io sono, anche il mio stesso desiderio"
[Guardini, 1997, p. 36].
"Quello che alla superficie significa coscienza
morale, nelle sue ultime radici è il "fondo dell'anima", la
"scintilla dell'anima". […] La coscienza è dunque l'organo per la
realtà vivente e per il contatto con Dio; per ciò che Dio ci chiede"
[Guardini, 1997, p. 38-9].
"Dio non è un concetto, un'idea, un sentimento,
un'esigenza sociologica. Dio è reale; è la realtà assoluta. […] Questo
significa: Dio ci circonda, ci avvolge, ci penetra. Egli è presente nel più
profondo del nostro intimo. Là, dove il nostro essere confina interiormente,
quasi a dire, col nulla, sta la mano di Dio e ci regge. Là egli ci parla. […]
Non come un alcunché di impersonale, ma con un "io", al quale è
possibile rispondere con un "tu". Dio parla dunque dentro di
noi" [Guardini, 1997, p. 40-1].
""Coscienza" non significa affatto soltanto
un organo etico; a ciò l'ha ridotta appena l'età moderna e più che altrove, a
quanto sembra, stranamente nei paesi di lingua tedesca. In sé e per sé
"coscienza" significa l'organo che coglie il dover essere in genere,
ciò che è degno di essere, con manifesta tendenza all'aspetto religioso. Si può
dimostrare storicamente che parola e significato di "coscienza" sono
in rapporto con gli ultimi strati della coscienza religiosa: col "fondo
dell'anima" e con l'acies animae." [Guardini, 1997, p. 52].
"Ecco qui un compito da assolvere. Bisogna creare,
ampliare, munire di volta lo spazio interiore. Il mondo interiore deve venir
dischiuso" [Guardini, 1997, p. 58].
Angelo Crescini
Su che cosa sia la coscienza si è interrogato Angelo
Crescini in una conferenza del 1992.
"In che cosa di distingue il riconoscimento che è
proprio degli animali dal riconoscimento che è tipico dell'uomo? Rispondere a
questa domanda significa arrivare al concetto di soggetto alla seconda
potenza, ossia al concetto di coscienza. Nell'uomo il soggetto alla
prima persona, ossia la struttura da cui scaturisce il riconoscimento delle
cose presenti viene a sua volta riconosciuto: si raggiunge allora il
riconoscimento del fondamento dei riconoscimenti" [Crescini, 1992, p. 5].
"La spiegazione di che cosa è la coscienza è anche la
spiegazione della sua dinamicità.
Riconoscere una cosa, infatti, come abbiamo visto,
significa saperla distinguere da tutte le altre cose: in questa diversa
distinzione dalle altre cose sta la sua essenza, la sua sostanza. Ma allora
significa che ogni cosa per essere se stessa deve uscire fuori di se stessa per
trovare nella sua differenza dalle altre cose la sua identità, per diventare se
stessa. […] Questa dinamicità dunque della coscienza costituisce la coscienza
stessa" [Crescini, 1992, p. 7-8].
"La ricerca scientifica, che è parte importante della
coscienza umana in generale, è nella sua struttura di carattere evolutivo.
Essa consiste infatti nel progressivo avvicinamento delle strutture immaginate
alle strutture della realtà dalle quali quelle ricevono la loro ispirazione e
la loro energia. Si tratta di un dinamismo che non è costitutivo della
coscienza, ma soltanto del suo progresso, della sua evoluzione. […] Ogni essere
vivente infatti si trova sempre in una fase di adattamento all'ambiente, un
adattamento che non è mai completo" [Crescini, 1992, p. 12].
Vittorio Hoesle
La filosofia non si è ancora svincolata dalla metafisica,
mentre questo passaggio è necessario per poter arrivare a un incontro tra le
discipline delle scienze umane e quelle matematico-scientifiche.
Un esempio troviamo nelle tesi di Vittorio Hoesle [Hoesle,
1992],
"Riuscire a comunicare con esseri dotati di ragione
ma che magari hanno una base biologica diversa dalla nostra sarebbe la più
grande vittoria dello spirito sulla natura.
Esseri pensanti che vivono in qualche luogo lontano
dell'universo, avrebbero una ragione uguale alla nostra?
"Sono convinto che esiste un'unica ragione - sostiene
Hoesle - Credo che esistano forti argomenti trascendentali per dimostrare che
non possono esistere più ragioni e sono perfino convinto che questi esseri,
magari dopo un certo tempo - anche noi abbiamo impiegato molto tempo -
arriverebbero a una filosofia molto simile a quella dell'idealismo oggettivo.
Esiste un unico logos nell'universo al quale noi
partecipiamo e se esistono altri esseri razionali anche loro devono partecipare
allo stesso logos e devono essere in grado di arrivare a delle conclusioni
simili alle nostre nell'ambito della scienza e credo anche nell'ambito
dell'etica e della filosofia.
Kant era convinto che l'imperativo categorico sia valido
per ogni essere razionale e dunque anche per possibili altri esseri razionali
al di là dell'uomo, mentre credeva, e anche qui credo che abbia ragione, che
l'estetica sia valida in verità solo per esseri appartenenti alla stessa specie
… a causa della base biologica. … L'arte è basata non solo sulla ragione, ma
anche sull'apparato sensitivo e perciò su qualcosa di più contingente, mentre
credo che l'etica, la scienza e anche la filosofia siano basate sulla ragione
pura [Hoesle, 1992].
Ma possiamo chiederci: cosa è la ragione pura kantiana
agli occhi della neurofilosofia?
La difesa di tale concetto idealistico non è un ostacolo a
una teorizzazione multidisciplinare della mente in rapporto al cervello?
Non esistono argomenti forti contro la possibilità che
possano esistere macchine autocoscienti create artificialmente dall'uomo, anche
se ritengo siamo ancora lontanissimi dal poterlo fare.
Come i bambini si rendono indipendenti dagli adulti a una
certa età - e se non avviene è grave - così gli automi se avessero davvero
un'autocoscienza dovrebbero lottare per ottenere il riconoscimento della loro
autocoscienza. La grandezza del film di Stanley Kubrik, 2001 Odissea nello
spazio, è stata proprio nel rappresentare il processo del computer Hal che
vuole sia riconosciuta la sua autocoscienza.
Nel mondo inanimato incomincia a esserci un pensiero
interiore (Hoesle)
In principio dovrebbe essere possibile arrivare a un
rapporto di uguaglianza di diritto con questi esseri [Hoesle, 1992]. Delle tre
grandi cesure che ci sono nell'essere, quella tra inorganico e organico, quella
tra animale e uomo e quella tra inanimato e animato, la più misteriosa allo
stato d'oggi è quella tra animato e inanimato. Noi siamo convinti che nel regno
animale, non sappiamo bene dove, succede qualcosa di assolutamente
strabiliante: si sviluppa una dimensione interiore [Hoesle, 1992].
Hoesle ammette dunque che è impossibile spiegare la natura
e l'origine della dimensione interiore umana. È qualcosa che attualmente ancora
dobbiamo definire "miracolo".
Nella storia della filosofia ci sono state posizioni
estreme, specifica Hoesle, rispetto a questa posizione media, che cioè nel
mondo inanimato comincia a esserci un pensiero interiore.
Leibniz è convinto che tutto abbia un'anima, anche gli
atomi hanno un momento di interiorità, nell'uomo si raggiunge il massimo
livello con l'autocoscienza.
Dall'altra parte Cartesio è convinto che solo gli uomini
abbiano l'autocoscienza.
Gli animali non hanno neanche dimensione interiore. Sono
solo macchine che funzionano.
Né la posizione di Leibniz né quella di Cartesio sono
idealmente inconsistenti né possono essere falsificate perché il problema della
dimensione interiore non è un problema empirico come gli altri dove io posso
misurare. La dimensione interna di un'altra persona per definizione non mi è
accessibile in maniera immediata, io posso solo per analogia dedurre che lui
abbia una dimensione interiore. Ma io non sento il dolore dell'altro [Hoesle,
1992].
Cartesio aveva una posizione che ormai quasi più nessuno
sostiene.Per non cadere nel dualismo, negava la dimensione interiore agli
animali.
Ci sono invece ancora pensatori Leibniziani, convinti che
tutto abbia un'anima, con argomenti non stupidi a favore.
Noi non sappiamo esattamente cosa sente un'altra persona e
perciò il solipsismo che nega che esistano altre persone con soggettività, è
una posizione che sembra in primo grado assurda - e lo è anche in ultimo grado
- ma non è immediatamente inconsistente. Similmente come facciamo a sapere che
i computer non sentono niente? Non c'è finora una risposta veramente assoluta a
questa domanda [Hoesle, 1992].
Hoesle dice che Popper e Eccles nel libro che hanno
scritto insieme sostengono la tesi che la dimensione interiore, ciò che noi
chiamiamo anima, non potrà mai essere spiegata in maniera naturalista, ma è
ontologicamente irriducibile alle entità fisiche.
"Io non sono convinto che abbiano ragione. La cosa
che mi irrita in questa concezione è che in questa maniera la cesura essenziale
dell'essere non è più quella tra uomo e animale, ma cade dentro al mondo
animale; la cesura si troverebbe lì dove sono esistiti i primi esseri con una
dimensione interiore. Konrad Lorenz ha scritto: "Gli animali hanno una
dimensione interiore'", lui che ha vissuto tutta la vita con gli animali,
inizia il libro scrivendo: "Non lo so, perché se lo sapessi avrei risolto
il problema dell'anima e del corpo"" [Hoesle, 1992].
Nella tradizione spesso la parola coscienza è stata usata
come sinonimo di sensazione.
L'io esiste solo se uno sa dire "io". All'io
appartiene essenzialmente l'autocoscienza dell'io. Se l'io non dice a se stesso
"io" allora è un lui. Questa è la maggiore cesura tra uomini e
animali. Perfino il bambino piccolo solo a tre anni riesce a dire
"io". Questa capacità di tematizzare se stesso è il distintivo
dell'uomo. Ciò è tipico della nostra cultura occidentale, l'io è la prima
persona.
L'autocoscienza è una struttura riflessiva.
Nell'autocoscienza c'è la capacità di tematizzare ciò che sta succedendo. È una
relazione autocritica su quello che si sta percependo; essere in grado di
mettere in dubbio le proprie sensazioni. Essa ha un significato anche a livello
sociale: autoconsapevolezza di me e del mio valore, del mio rapporto con gli
altri uomini, i miei doveri, la dimensione etica: infatti l'uomo, a differenza
degli animali può frenare i propri istinti.
SCHEMA DELLE TEORIE CONTEMPORANEE SULLA COSCIENZA
Possiamo delineare in modo schematico le principali idee
formulate nell'ultimo decennio del secolo scorso, prima che esse fossero
ulteriormente elaborate nei primi anni del Novecento.
E così come la letteratura (H. Hesse, A. Gide, M. Proust,
T. Mann) e il mondo della cultura di inizio secolo risentirono delle idee di
"vedere attraverso", del "sondaggio in profondità" che
venivano da Bergson e da Freud e Jung, ma anche dell'intuizione come unica
possibilità di avvicinamento alla verità che altrimenti è contraddittoria,
misteriosa e inspiegabile, sarebbe altrettanto bello poter fare ora e vedere
quali idee stanno influenzando la cultura mondiale odierna nella riflessione
sulla coscienza.
Nella filosofia contemporanea il rapporto tra il soggetto
e i suoi stati di coscienza, anziché costituire il presupposto della
conoscenza, diventa un oggetto di indagine tra gli altri. In questa
prospettiva, le "teorie della coscienza" che sono state proposte sono
numerose; si ricordano qui le principali [EE, p. 810].
a) La teoria dell'intenzionalità Secondo
questa teoria, formulata da Brentano e successivamente ripresa e sviluppata da
Husserl, i fenomeni mentali sono caratterizzati dalla loro "esistenza
intenzionale", cioè dal loro riferirsi a un contenuto, dalla loro
"direzione verso un oggetto". È però necessario definire i tratti
distintivi dell'intenzionalità; la contemporanea analisi logica del linguaggio
ha messo in luce la possibilità di reperire questi tratti tra le proprietà
logiche degli enunciati che descrivono fenomeni mentali (enunciati del tipo
"X crede che…", "X pensa che…" ecc.).
b) La teoria strumentalistica di Dewey
concepisce la coscienza come "quella fase di un sistema di significati
che, in un dato momento, subisce un raddrizzamento di direzione"; se
chiamiamo "spirito" il sistema di significati in questione, la
coscienza ci rivela come la fase in cui il sistema dato, incontrando un
ostacolo di qualsiasi natura, si ristruttura e si riorganizza, tramite
l'insorgere di idee e direttive funzionali, in vista dell'adattamento
dell'organismo cosciente all'ambiente cicostante.
c) La teoria comportamentista Si tratta
della teoria più radicalmente riduzionistica nei confronti della coscienza, che
viene concepita come serie di disposizioni comportamentali, dove i
comportamenti in questione vengono ridotti a risposte interamente determinate
dalle caratteristiche fisiche dell'ambiente circostante. La coscienza come
mondo dei "significati" e dei "valori" viene quindi
globalmente negata: significati e valori vanno spiegati in termini
meccanicistici.
d) La teoria neurofisiologica La coscienza è
una successione di processi cerebrali. Questa teoria, se da un lato pone
numerose questioni di natura filosofica (soprattutto in relazione al problema
dei rapporti mente-corpo), dall'altro va annoverata tra le risposte più
specificamente psicologiche al problema della coscienza" [EE, p. 810].
La scienza può prescindere dalla metafisica?
Si intende generalmente per metafisica la speculazione
filosofica al di là dei limiti attuali o anche solo apparentemente possibili
della scienza, e l'elaborazione di sistemi più o meno astratti al fine di
spiegare origini e scopi, fenomeni della mente e della materia e il posto
dell'uomo nell'universo. Il termine "metafisica" ha la sua origine
semplicemente da quei libri di Aristotele che venivano collocati in sequenza
dopo la sua Fisica.
Il significato peggiorativo di "oscuro" e
"esageratamente speculativo" è recente, specialmente dopo i tentativi
di A.J. Ayer e altri di dimostrare che la metafisica è assolutamente priva di
senso.
Un punto controverso è in che misura la scienza è, o può
essere, libera dalla metafisica. Ci potrebbero sempre essere assunzioni
teoriche non verificate, o addirittura mai verificabili, che sono necessarie
per interpretare gli esperimenti. Queste assunzioni sono (per definizione)
metafisiche, in quanto esse non sono verificabili attraverso l'osservazione o
l'esperimento, e quindi sono essenzialmente speculative.
Kant sostenne, soprattutto nella sua opera Prolegomeni
ad ogni futura metafisica (1783), che il tempo e lo spazio sono categorie
della mente, e che è impossibile concepire il mondo fisico senza tali categorie
a priori. Si pensa spesso, d'altra parte, che l'empirismo sia esente da
assunzioni metafisiche, per lo meno per i filosofi operazionisti, che ritengono
che tutta la conoscenza derivi dall'osservazione, e in particolare dall'accordo
e il disaccordo osservato tra procedimenti sperimentali definiti formalmente e
misure. Questo è essenzialmente l'obiettivo e l'asserzione di Karl Popper per
una conoscenza obiettiva. Un punto di vista attuale molto diverso, sviluppato
soprattutto dai filosofi americani Norwood Russell Hanson e Thomas Kuhn, è che
non esiste nulla di simile a un linguaggio d'osservazione neutro, privo di
teoria, che semplicemente registri "i fatti"; anche le osservazioni e
gli esperimenti più semplici devono essere fatti nel contesto di assunzioni
teoriche complesse.
Poiché queste assunzioni non possono essere obiettivamente
verificate o dimostrate operativamente, si potrebbe dire che sono metafisiche e
questo porta a un relativismo più o meno estremo, che rifiuta la nozione di
"fatti bruti" e dati di osservazione "obiettivi" [Gregory,
EOM, 1991, p. 557].
III
La coscienza nella psicologia,
nella psichiatria e nella neurologia
Anche in questo capitolo, dove analizzo la presenza del
concetto di coscienza nella psicologia e nelle scienze mediche (neurologia
clinica), non ho la pretesa di svolgere un'analisi esaustiva e approfondita. Mi
basta inquadrare l'importanza della "coscienza" in queste scienze,
per poi spostare l'attenzione sulla neurofilosofia.
Ogni riconoscimento è sempre "presa di
coscienza".
Il problema di fondo è quello della coscienza,
quest'oggetto dimenticato dalla scienza, che a stento di osa definire, se non
alludendo ad essa come proprietà stessa della vita e che quindi necessariamente
si articola in vari livelli, dalla coscienza primaria o
"coscienza-corpo" fino alla coscienza riflessiva o coscienza della
coscienza.
Né tanto meno è definibile la coscienza di sé: "L'immagine
di sé, l'immagine nello specchio, io non so ancora esattamente cosa sia: è una
manifestazione, è un esercizio? Per me la questione resta aperta" [Farneti
- Carlini, 1981, pp. 85-86].
Definizione di coscienza nella psicologia
G. Benedetti ha riassunto in cinque punti fondamentali la
struttura della coscienza:
a) la coscienza è il risultato di attività neuroniche complesse che
debbono svolgersi selettivamente per l'azione inibitrice contemporanea su altri
sistemi neuronici che, funzionando, impedirebbero la selettività delle prime.
La selettività si manifesta nell'elettroencefalogramma con i fatti di
desincronizzazione;
b) gli impulsi che sfociano nel fatto percettivo cosciente si svolgono
attraverso circuiti centro-periferici che, attivando la periferia sensoriale,
realizzano un feed-back centro-perifero-centrale;
c) per il riconoscimento, nel fatto percettivo entrano in attività zone
corticali che conservano la traccia degli avvenimenti passati;
d) per giungere alla consapevolezza che quello che sta avvenendo si
svolge nella "propria" mente è necessaria l'acquisizione dell'Io, per
la quale occorre che entrino in attività le zone encefaliche che assicurano il
cosiddetto "schema corporeo";
e) l'attività dell'analisi percettiva di queste afferenze a livello
corticale presuppone la loro integrazione in schemi ideo-verbali che approdano
al linguaggio.
A questa descrizione neurofisiologica, G. Benedetti
aggiunge una definizione fenomenologica della coscienza centrata su tre componenti
fondamentali:
a) la consapevolezza della sensibilità;
b) la consapevolezza di sé con percezione interna
organizzata in un complesso stabile che è l'Io;
c) la capacità di questo io di estendersi mediante i
processi mnemonici nel passato, e mediante quelli di anticipazione nel futuro
[DPL, 1992, p. 234].
Sigmund Freud
La teoria psicanalitica si è costituita rifiutando di
definire la psiche in termini di coscienza, e a questo proposito S. Freud
scrive: "Che parte rimane nella nostra esposizione alla coscienza?
Nient'altro che quella di organo di senso per la percezione di qualità
psichiche".
Ma anche se marginalizzata, la coscienza ha costituito
anche per Freud il punto di partenza per la giustificazione di un inconscio che
è il risultato di un'inferenza a partire dalla lacunosità degli atti di
coscienza "non danno luogo a serie in sé conchiuse e ininterrotte"
[DPL, 1992, p. 237].
Per Freud la coscienza è lo strumento del dominio
parentale poiché è fornita dall'autorità ambientale e rappresenta un insieme di
direttive mediante il quale il bambino viene "ammaestrato". Non è
innata, ma conseguenza della formazione del Super-io dal quale ha origine anche
la morale conscia. La morale, proprio perché corrisponde alla interiorizzazione
dei principi e delle restrizioni ambientali, è quindi d'origine
"esterna" e imposta all'individuo, almeno all'inizio della vita.
Nell'ottica freudiana, la maggior parte degli uomini non
avrebbe una capacità di autentica vita morale, poiché sarebbe patrimonio di
pochi avere un Io forte, capace di sottrarsi al dominio delle pulsioni
istintuali .
Carl Gustav Jung
Per C. G. Jung lo psichico non coincide con la coscienza,
che invece è legata all'Io: "La coscienza è la funzione o attività che
mantiene il rapporto di contenuti psichici con l'Io. La coscienza non è
identica con la psiche". "Per "Io" intendo un complesso di
rappresentazioni che per me costituisce il centro del campo della mia coscienza
e che mi sembra possedere un alto grado di continuità e di identità con se
stesso" [DPL, 1992, pp. 237-238].
Il pensiero di Jung appartiene a quel grande filone
trasversale alla storia del pensiero filosofico e psicologico, in base al quale
la coscienza è uno strumento della persona, dell'uomo, dell'individuo, e
non già un' "origine" .
La corrente fenomenologica qualitativa e quella
dell'entità fisiologica
Il concetto di coscienza si è evoluto parallelamente allo
sviluppo della filosofia, della psicologia e della neurofisiologia. Ciascuna di
queste discipline ha di volta in volta messo l'accento sugli aspetti
soggettivi, su quelli comportamentali, o su quelli fisiologici della coscienza.
In senso moderno, il termine è stato introdotto da G. W
Leibniz che distinse da un lato le petites perceptions, cioè la somma
degli stimoli subliminali, e dall'altro l'apperception attraverso cui le
percezioni arrivano a livello cosciente. Questa distinzione contiene l'ipotesi
di una soglia sensitiva suscettibile di sperimentazione psicofisica, e la
separazione tra contenuti psichici avvertiti coscientemente e contenuti
preconsci" [DPL, 1992, p. 234].
"Due posizioni" specificatesi nella seconda metà
dell''800 sono esemplari per le direzioni assunte dallo studio della coscienza:
come fenomeno qualitativo della psiche, o come entità fisiologica
neurofisiologicamente localizzabile.
E infatti i successivi studi precisano la descrizione
neurofisiologica della coscienza ma anche una descrizione fenomenologica.
"Lo studio empirico della coscienza è centrato
principalmente su due ordini di problemi; gli uni attinenti alle
caratteristiche dello stato in cui noi possediamo coscienza di noi stessi e del
nostro ambiente, gli altri riguardanti il genere dei processi interni al nostro
organismo dei quali possiamo acquistare coscienza. L'opposto di
"coscienza" e "incoscienza" nel primo caso,
"inconscio" nel secondo. Un terzo ordine di problemi si riferisce
alla nozione che ognuno di noi ha del proprio essere ("autocoscienza"
o coscienza di sé) a differenza di quella che se ne fanno le altre persone
osservandolo dall'esterno" [Hofstätter, 1966, p. 49].
Sono dunque tre le prospettive pricipali da cui viene
esaminato il problema della coscienza dalla moderna ricerca neuropsicologica:
a.
la
coscienza intesa come vigilanza (ecco perché l'opposto è incoscienza);
b.
la
coscienza degli eventi che si svolgono all'interno dell'organismo (l'opposto è
l'inconscio);
c.
l'autocoscienza
o coscienza di sé.
Non si discute più sulla "sede" della coscienza,
che ormai appare un falso problema, piuttosto, in campo neurofisiologico, ci si
chiede qual è la sede dei meccanismi regolatori dei livelli di coscienza.
Sperimentalmente si è potuto conoscere le sedi delle varie
funzioni mentali però si è sempre dovuto concludere che l'attività cosciente è
una funzione complessiva, basata su associzioni.
Infatti la corteccia associativa costituisce una parte
preponderante (lo si osserva più evidentemente nell'uomo).
Le aree associative sono estesissime nell'uomo, più degli
altri animali. Così alcuni studiosi sostengono che la quantità è tale
che costituisce da sé una qualità differente; altri invece sostengono è
una qualità intrinsecamente diversa che produce uno stato di coscienza diverso.
Infatti per abolire le facoltà coscienti devono esserci
lesioni estese o generali (come quelle metaboliche o tossiche) mentre una
lesione parziale o locale non abolisce le funzioni associative. Base
dell'attività e della "qualità associativa" è la grande presenza di
materia bianca (fasci nervosi di collegamento) nel cervello.
Stimolo e reazione
Da un punto di vista biologico l'intero fenomeno
"coscienza" si svolge completamente tra gli apparati recettori
e quelli effettori dell'organismo. La conseguenza dell'attivazione di un
effettore si chiama reazione, per quanto sarebbe più appropriato indicarla come
azione, giacché il termine "reagire" presuppone che l'attività
effettrice sia coordinata a quella recettrice da un rapporto sempre fisso e
perfettamente conoscibile.
Gli schemi interpretativi con i quali si cerca di
esprimere la relazione esistente tra i processi a livello corporeo e quelli
psichici costituiscono l'oggetto del cosiddetto problema anima-corpo, il
quale, a dire il vero, rientra più nell'ambito della filosofia che in quello
della psicologia empirica o della biologia. Queste ultime discipline,
rinunciando alla pretesa di chiarire la vera essenza del fatto coscienza,
si rivolgono semplicemente alle condizioni che ne permettono la comparsa
[Hofstätter, 1966, p. 341-2].
Lo schema corporeo
Lo schema corporeo, ritenuto necessario per un adeguata
attività motoria nello spazio, per la definizione e l'organizzazione, oltre che
per la interpretazione del mondo, fonda anche la distinzione di sé dall'altro,
è il primo nucleo del processo di costituzione dell'identità personale.
In particolare, quando lo psicologo genetico si riferisce
alle tappe fondamentali di questa costruzione, poiché di costruzione si tratta
e non certo di un semplice e gratuito dato originario, intende soprattutto
sottolineare l'evoluzione che si verifica fra la nascita del bambino e il
raggiungimento della coscienza di sé, ossia della capacità simbolica e
dell'individuazione dell'altro quali si manifestano nel riconoscimento
dell'immagine del proprio corpo nello specchio. Per quanto quest'ultimo
processo non risulti di più facile definizione, tanto che alcuni (Zazzo) lo
ritengono una semplice prova dell'esistenza della coscienza, mentre altri
(Lacan) vi intravedono la condizione stessa attraverso cui la coscienza si
costituisce, si è potuto tuttavia tentare una delineazione della genesi dello
schema corporeo [Farneti - Carlini, 1981, pp. 83-84].
La specchio e la nascita della psicologia
Sull'importanza dello specchio e su quanto incida
profondamente nella psiche ha scritto una bellissima pagina lo psichiatra
Vittorino Andreoli: "Lo specchio è il confidente più segreto di ciascun
giovane, maschio o femmina. Si tratta di una delle invenzioni che hanno
cambiato la storia dell'umanità e dovrebbe essere ricordata tra le grandi tappe
quali l'introduzione della ruota o del cannocchiale. Forse è allo specchio che
si può far risalire la nascita della psicologia e naturalmente della
psicopatologia. Alla mitologia non poteva sfuggire questo fenomeno e in Narciso
ha disegnato uno dei primi drammi dell'umanità: il sentirsi bello. In Narciso
questa presa di coscienza è stata fonte di morte. Altrettanto drammatica è la
percezione opposta, mostruosa. Con lo specchio sono nati i complessi, i
desideri e persino la chirurgia estetica. I giovani del tempo presente hanno
specchi dappertutto e di dimensioni tali da riflettere tutto il corpo" [Giovani,
pp. 106-107].
Cultura e cervello plastico
"Insomma la biologia nella sua evoluzione segue una
strada, descritta a grandi linee da Darwin, che non ha nulla a che fare con
l'evoluzione culturale. Ogni aspetto dell'attività umana si lega al cervello,
ma mentre i comportamenti fissati sono regolati da un encefalo deterministico,
la cultura è correlata all'encefalo plastico, che ha la capacità di
strutturarsi e modificarsi sulla base di stimoli esterni e dunque
sull'esperienza.
C'è quindi un'evoluzione che si lega alle mutazioni
genetiche (evoluzione biologica) e una che invece si lega alla plasticità
cerebrale e all'esperienza (evoluzione culturale). I termini, biologia e
cultura, sono antinomici, ma dentro al cervello rappresentano due modalità di
organizzazione delle reti neuronali e non, come si ammette, essenze distinte:
anima e copro, cervello e mente [qui cita V. Andreoli, La terza via della
psichiatria, 1980, Mondadori, Milano. N.d.r.]. Le grandi trasformazioni culturali
sono dovute ai processi di apprendimento che altro non sono se non
strutturazioni del cervello plastico mosse da esperienze nuove. La cultura è
precaria e si può persino perderla. I cambiamenti di ambiente comportano sempre
un cambiamento culturale e comportamentale" [Andreoli, 1995, p. 216].
L'analisi transazionale di Berne (Stati dell’io)
A mio parere esiste un interessantissimo spazio di ricerca
a partire dalla tripartizione degli stati dell'io che sta alla base del
pensiero di E. Berne: Bambino Adulto e Genitore .
Dei tre stati quello meno riempito di contenuti,
analizzato è quello dell'Adulto, a cui si attribuisce un "potere"
particolare, equilibrio, maturità, eccetera.
Non sarebbe difficile credo scoprire in tale visione
agganci con una visione metafisica dell'interiorità o anche la possibilità di
un collegamento forte tra Adulto e "potere della coscienza". È una
ricerca tutta da sviluppare.
Psicologia analitica e mitologia
Il rapporto tra mitologia e analisi della coscienza è
sempre stato importante nella psicanalisi. Un lavoro importante legato proprio
alla coscienza - e specificamente alla sua nascita, tema che mi è caro - è
quello di Erich Neumann, filosofo, medico e allievo di C. G. Jung, Storia
delle origini della coscienza . In esso l'autore offre uno studio
sistematico della mitologia, con la finalità non secondaria di appoggio allo
psicoterapeuta per una teoria evolutiva della coscienza in cui la storia dello
sviluppo psichico individuale coincide con la storia dello sviluppo psichico
collettivo dell'umanità, in quanto entrambi percorrono i medesimi stadi
archetipici che Neumann descrive: dall'Uroboros, il grande rotondo, e la Grande
Madre, alla separazione dai genitori, dall'eroe che combatte contro il drago
all'uccisione di padre e madre, alla trasformazione (Osiride).
LA COSCIENZA NELLA PSICHIATRIA
Il Dizionario di psichiatria della Oxford
Univeristy Press precisa che coscienza è un termine impiegato in modi vari e
controversi in filosofia, psicologia e psichiatria.
"È la presenza della mente a se stessa nell'atto di
apprendere e di giudicare, e la conseguente "conosciuta unità" di ciò
che è "consaputo", ossia di ciò che è attualmente presente alla
mente" (Centro di Studi Filosofici di Gallarate) [DPI, 1970, pp. 164-165].
La definizione riportata sottolinea soprattutto due
aspetti del concetto di coscienza: l'aspetto riflessivo ("presenza della
mente a se stessa") e l'aspetto integrativo ("conosciuta unità di ciò
che è consaputo": tutti i fatti psichici di cui il soggetto è consapevole
in un certo momento - percezioni, affetti, pensieri, volizioni - sono vissuti
come un insieme unitario, che è l'unità del soggetto stesso).
È difficile concepire la coscienza come una
"funzione" distinta, secondo il modello della psicologia atomistica;
essa appare piuttosto come una caratteristica di base, modale, di tutti i
processi psichici.
In psichiatria si parla soprattutto di stato di
coscienza; è un concetto descrittivo che si riferisce al complesso dei
contenuti psichici presenti alla mente in un certo momento e al modo in cui
vengono vissuti. Nella valutazione dello stato di coscienza si distinguono,
classicamente, il "grado di lucidità" (chiarezza con cui i contenuti
vengono esperiti) e la "estensione del campo di coscienza" (quantità
complessiva dei contenuti coscienti).
Stati di coscienza
I due stati di coscienza più nettamente differenziati nei
soggetti normali sono la veglia e il sonno.
Lo studio delle alterazioni dello stato di coscienza si è
rivelato prezioso per comprendere la natura della coscienza normale.
Quel che segue è detto da un punto di vista clinico.
Lo stato di coscienza normale vien detto vigile,
quando il soggetto è lucido, presente a sé e all'ambiente e consapevole della
distinzione di tre livelli di interazione: l'interazione fra l'Io (inteso come
soggettività riflessiva) e il corpo; quella fra il corpo e il mondo esterno; e
quella fra il mondo esterno (in particolare le persone, intese come soggetti
altri) e il soggetto interessato.
Si ha assenza di stato di coscienza nel sonno
(permanendo però un certo grado di scambi con l'ambiente) nel coma anche
nella forma più leggera (1° grado) in cui c'è risposta riflessa a stimoli
dolorosi. Nel coma, anche la forma leggera, c'è abolizione della coscienza.
Nella psicosi i tre livelli di interazione non sono
chiaramente distinti dalla coscienza.
Si parla di "alterazione lucida" della coscienza
quando (come in alcune psicosi o intossicazioni acute da allucinogeni) non c'è
una diminuzione della vigilanza e il soggetto, pur essendo normalmente presente
all'ambiente, non interpreta correttamente il rapporto fra Io, corpo, mondo
esterno.
Si parla invece di torpore o letargia (come nella
sonnolenza), confusione (errori grossolani nella valutazione dei dati
percettivi con disorientamento e falsi riconoscimenti) e crepuscolo
(diminuzione selettiva, come nel sonnanbulismo) quando c'è una riduzione della
vigilanza, che si traduce in una riduzione della quantità di scambi che
avvengono fra il soggetto e l'ambiente.
Nello stupore vi è immobilità e apatia e il
soggetto reagisce solo a stimoli dolorosi.
Si parla infine di onirismo o oniroidismo
quando lo stato confusionale si arricchisce di automatismi e fenomeni
allucinatori (simili a quelli del sonno) e dello stato ipnoide [EE, p.
810].
Alterazioni patologiche degli stati di coscienza
Più precisamente si descrivono quattro alterazioni
patologiche principali dello stato di coscienza:
stato ipnoide o torpore, indicato anche come ottundimento, offuscamento,
obnubilamento, ecc., condizione in cui la coscienza è alterata in modo tale che
solo stimoli molto forti possono provocare una reazione; si manifesta
clinicamente nello stato di torpore e in condizioni normali nel dormiveglia; vi
è un'alterazione puramente quantitativa con ideazione e reazioni torpide ma la
distinzione tra realtà e fantasia è mantenuta;
stato crepuscolare: si manifesta clinicamente nello stato crepuscolare
orientato e, in condizioni paranormali, nel sonnabulismo; vi è un
restringimento del campo di azione della coscienza che si esplica solo su un
limitato ambito ideoaffettivo; il soggetto agisce come un automa, capace di
eseguire solo funzioni in relazione a un determinato scopo; alcuni autori di
lingua tedesca usano l'espressione "stato di coscienza ristretta";
stato oniroide: si manifesta, clinicamente, nello stato oniroide; vi è
un'alterazione della coscienza "qualitativa" più che
"quantitativa"; lo stato di coscienza non è frammentato, come
nell'amenza , né ristretto a pochi temi di esperienze come nel crpuscolo, ma
mutato per la pressnza di una vivace produzione delirante fantastica e di
alterazioni psicosensoriali, che si mescolano all'esperienza della realtà
obiettiva esterna e interna; il malato ha buona o discreta possibilità di
orientamento nel tempo, nello spazio e nelle persone, a eccezione degli
elementi elaborati e strutturati dalle sue credenze fantastiche, rinforzate da
allucinazioni, illusioni e interpretazioni morbose della realtà e dei ricordi;
stato onirico: si manifesta clinicamente nello stato crepuscolare
onirico (o stato crepuscolare disorientato) e nello stato amenziale, disturbo
analogo al precedente ma assai più accentuato; il paziente è disorientato, l'ideazione
parcellare, e non c'è nessuna distinzione fra realtà e fantasia.
Per alcuni autori l'espressione stato confusionale
si riferisce solo a questi ultimi casi (i più gravi); invece per altri autori
indica, in generale, ogni stato di alterazione della coscienza.
Assenze epilettiche, sincopi, lipotimie, si configurano
come sospensioni perdite totali, ittali della coscienza, in genere fugaci. Una
perdita completa e durevole della coscienza dalla quale il paziente non può
essere risvegliato mediante stimoli, anche energici, si osserva nel coma.
Il termine stupore, indica un disturbo psicomotorio
e non della coscienza. Il concetto di coscienza non va confuso con quello di vigilanza
che ha un significato più limitato, prevalentemente quantitativo, e si riferisce
alle basi neurofisiologiche della coscienza stessa.
Coscienza dell'Io
Concetto di K. Jaspers usato soprattutto nella psichiatria
tedesca (ted.: Ichbewusstsein). Indica "il modo" nel quale
l'lo è consapevole di se stesso; Jaspers vi riconosce quattro caratteristiche
formali:
a)
attività dell'Io, in senso lato (ogni attività psichica cosciente ha un
"contenuto in Io", un "carattere personale", è riferita
all'Io: Io percepisco, Io sento);
b)
coscienza dell'unità: Io sono uno;
c)
coscienza dell'identità: Io sono sempre Io;
d)
sentimento dell'Io contrapposto al mondo esterno.
Rientrano fra i disturbi della coscienza dell'Io, così
intesa, i fenomeni di deperso- nalizzazione.
Coscienza morale (conscience)
Quelle strutturazioni psichiche che si oppongono alla
libera espressione delle azioni istintuali. È collegata agli atteggiamenti
morali, estetici ed etici dell'individuo. Secondo Freud quando gli
atteggiamenti, i divieti e i comandi dei genitori prendono posto nell'inconscio
per formare il Super-Io, quest'ultimo diventa la coscienza morale.
Più avanti nello sviluppo, quando il bambino comincia a
emulare altre persone, fuori della cerchia familiare e si forma un ideale
dell'Io, acquista un'altra coscienza.
Tra le due, tuttavia, esiste continuità.
La funzione della coscienza è di ammonire l'Io al fine di
evitare le sofferenze provocate da profondi sentimenti di colpa.
"La coscienza diventa patologica quando (a) funziona
in modo troppo rigido o troppo automatico, sicché il giudizio realistico sul
l'esito reale di azioni intese viene disturbato ("Super-Io arcaico'",
oppure (b) quando avviene la disintegrazione verso il "panico" e si
sperimenta un senso maggiore o minore di annichilimento totale invece di un segnale
di avvertimento, cosa questa che accade nelle depressioni gravi" .
Coscienza e malattie mentali
"La grande maggioranza delle malattie mentali, nella
misura in cui queste non sono di natura organica ben determinata, è dovuta a
una disintegrazione della coscienza causata da un'invasione
irresistibile di contenuti inconsci" (Jung).
Ciò significa che il materiale proveniente dall'inconscio
causa più o meno gradualmente la rottura e la disintegrazione dei contenuti
della coscienza.
Coscienza doppia [double, dual consciousness]: molti considerano
questa espressione sinonimo di "scissione della personalità": la
scissione della coscienza implica che l'individuo viva, alternativamente, ora
come una persona e ora come un'altra, ma mai come due persone simultaneamente
[DPI, 1970, p. 541].
Obnubilamento della coscienza: Quando una persona appare
perfettamente coscia di sé e di iò che la circonda, oritentata nel tempo e
nello spazio si dice che ha il suo "sensorio" è integro.
Al contrario c'è Obnubilamento della coscienza
quando appare disorientata e confusa; si dice che ha sensorio alterato. Sensorium
(dal lat.), indica la sede centrale delle sensazioni localizzata nella
circonvoluzione parietale ascendente, ma occasionalmente l'intero apparato
sensariale.
Coscienza di malattia è la consapevolezza del paziente di essere malato.
Sempre presente nelle nevrosi, manca spesso, invece, nelle psicosi.
Coscienza primitiva: tipo di Super-Io derivato dal passato arcaico
dell'uomo.
Scissione della coscienza: Quando un insieme di
esperienze, una rappresentazione mentale, esistono, come per esempio
nell'isteria, essenzialmente isolate nella coscienza, senza associazioni con
altri contenuti della coscienza stessa, si dice che vi è una scissione della
coscienza. È una delle (tante) forme di "difesa" dell'"Io".
NEUROLOGIA, COSCIENZA, MALATTIA MENTALE, E FARMACOLOGIA
Sarebbe molto interessante esaminare la dimensione della
coscienza in rapporto alla malattia mentale: coscienza e pazzia. Come anche gli
effetti dei farmaci sulla coscienza.
Com'è la coscienza del pazzo? Perché arriviamo a pensare
di essere tutti un po' pazzi? E a dire che forse i pazzi vedono meglio dei
sani?
Infine per l'aspetto neurologico della coscienza, che
strettamente inteso esulerebbe dagli obiettivi della presente ricerca, rimando
a un ottimo recentissimo e completo trattato di neurobiologia, quello di W.
Nolte .
IV
La coscienza nell'etica, nel
pensiero biblico
nella teologia morale e nella mistica
"Per coscienza morale si intende quell'insieme
di processi cognitivi ed emozionali che sono alla base della formazione di una
guida interiore che regola la condotta individuale, in armonia con i valori
riconosciuti dal gruppo sociale di appartenenza.
I processi cognitivi sono indispensabili per la conoscenza
delle norme e per la valutazione della conformità delle proprie azioni alle
medesime; i processi emozionali, come la paura, la colpa e la vergogna,
sembrano necessari, in una prima fase detta "eteronoma", alla
promozione di comportamenti conformi" [DPL, 1992, p. 238].
Montaigne faceva osservare che "le leggi della
coscienza, che noi pensiamo traggano origine dalla natura, nascono, in effetti,
dalla consuetudine: ogni uomo, onorando nel suo intimo le opinioni e i costumi
sanzionati e recepiti nel proprio ambiente, non riesce a disfarsene senza
rimorsi, né adeguarvisi senza compiacimento" (Essais, I, 23).
Della rilevanza che ha l'ambito di significato morale per
il concetto di coscienza ho già detto anche nel capitolo primo. Ne ho esaminato
la pregnanza semantica nell'ambito morale.
Qui ora specificherò soprattutto l'importanza del concetto
nella storia del pensiero teologico morale cristiano.
De esso emerge una fondamentale chiarificazione culturale:
la distinzione nel concetto di coscienza di due dimensioni: coscienza
fondamentale e coscienza attuale - come le chiama A. Valsecchi
[DETM, 1985, pp. 166-182] - l'una come nucleo originario della totalità della
persona umana, l'altra come funzione derivata di discernimento morale.
Tale distinzione è di grande attualità e permette, a mio
parere, la possibilità di rifondare una riflessione spirituale della coscienza.
Ma osserviamo da dove deriva tale distinzione.
La coscienza nella Gaudium et spes
È molto interessante un passo di un fondamentale documento
del Concilio Vaticano II, Gaudium et spes dove leggiamo: "La
coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell'uomo, dove egli si trova
solo con Dio, la cui voce risuona nell'intimità propria. [...] Nella fedeltà
alla coscienza i cristiani si uniscono agli altri uomini per cercare la verità
e per risolvere secondo verità tanti problemi morali. Quanto più prevale la
coscienza retta, tanto più le persone e i gruppi sociali si allontanano dal
cieco arbitrio e si sforzano di conformarsi alle norme oggettive della moralità
"Nell'intimo della coscienza l'uomo scopre una legge
che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire. [...] La coscienza è
il nucleo più segreto e il sacrario dell'uomo, dove egli si trova solo con Dio,
la cui voce risuona nell'intimità propria. [...] Nella fedeltà alla coscienza i
cristiani si uniscono agli altri uomini per cercare la verità e per risolvere
secondo verità tanti problemi morali. Quanto più prevale la coscienza retta,
tanto più le persone e i gruppi sociali si allontanano dal cieco arbitrio e si
sforzano di conformarsi alle norme oggettive della moralità".
Il problema della coscienza è diventato dunque un fenomeno
centrale dei nostro tempo; e anche nella riflessione morale cristiana sta
riscuotendo una singolarissima attenzione. Alla lunga, doveva essere questo lo
sbocco di un processo di "coscientizzazione" che è rilevabile anche
nell'ambito della nostra cultura occidentale.
Essa è passata da una esaltazione unilaterale della legge
oggettiva (la legge della polis o lo jus dello Stato romano, ma
anche il logos universale della filosofia stoica, di cui la coscienza
dovrebbe semplicemente essere un'eco e un riflesso, se non addirittura una
"serva"), a fasi successive di sempre più netta responsabilizzazione
della persona e di valorizzazione dei carattere originario della sua coscienza
[DETM, 1985, p. 166].
Alcuni fattori sono intervenuti oggi ad acuire e
accelerate i dibattiti sulla coscienza, ad esempio, il diffondersi del
pluralismo ideologico e la sensibilità sempre più vasta e profonda ai metodi
democratici; il relativizzarsi delle norme oggettive e assolute, a vantaggio
del contesto culturale in cui l'uomo vive (è questo il frutto della riflessione
funzionalista e strutturalista) e della storia dinamica di questo contesto
(apporto, tra i più cospicui, della riflessione marxista).
Un'analoga svalutazione dell'oggettività morale è venuta
dallo studio (è soprattutto la psicanalisi che l'ha condotto) dei processi e
dinamismi psicologici che sorreggono e spiegano il formarsi delle nostre
idealità morali, all'interno della storia concreta di ogni persona e dei
rapporti affettivi più profondi e primari nei quali si è svolta.
Senza dire della rapidità di trasformazioni che
caratterizza la vita del nostro secolo, e fatalmente emargina i dettati
giuridici e canonici, incapaci di adeguarsi altrettanto rapidamente alle
mutazioni: non senza causa lo stesso Magistero della Chiesa ha cominciato ad
affidare esplicitamente alla coscienza dei singoli fedeli la decisione del
comportamento da assumere su problemi non piccoli, come quelli riguardanti
l'impegno politico-sociale o certi aspetti della vita familiare.
L'attualità e il fervore di tutti questi sviluppi
impongono ai teologi moralisti un accresciuto impegno di analisi e di costruzione
teologica attorno al tema della coscienza; e in pari tempo indicano la
difficoltà e spiegano il carattere provvisorio dei risultati a cui potrebbe
giungere.
LA COSCIENZA NEL PENSIERO BIBLICO
Il tema della coscienza costituisce un punto nodale dell'esperienza
umana quale si rileva nella parola biblica, anche se il termine
"coscienza" si trova solo rarissime volte nell'AT (Ecl 10,20; Sp
17,10); e neppure una volta ricorre nei Vangeli.
Al contrario, 31 volte lo si ritrova negli scritti
apostolici; più precisamente, 21 volte in S. Paolo, e le altre 10 volte in
bocca a S. Paolo (come in At 23,1; 24,16), ovvero in scritti strettamente
imparentati sotto il profilo dottrinale o lessicale con le lettere paoline
(come nell'epistola agli Ebrei e nella prima di Pietro).
Si è dunque tentati di pensare che la dottrina della
coscienza sia una novità dell'Apostolo delle genti: una tra le non poche
originalità del suo pensiero morale. Ciò è, per molti aspetti, vero. Fu S.
Paolo a elaborare perfettamente la nozione di coscienza come regola di vita:
utilizzando senz'altro certi concetti della filosofia ellenistica del suo tempo
(quella "popolare" e moraleggiante soprattutto, ove confluiva in
pratica l'insegnamento delle varie scuole); e arricchendoli dei numerosi apporti
che gli provenivano dalla sua formazione giudaica (in particolare, la
ricchissima nozione biblica di "cuore") e della sua teologia
cristiana: qui, infatti, la dottrina della coscienza veniva a contatto con
quelle del primato della carità, dell'inabitazione dello Spirito Santo,
dell'attesa escatologica [DETM, 1985, p. 168].
Ma sarebbe sbagliato esasperare l'originalità paolina
perché il messaggio di Cristo appare, contro il conformismo tradizionale, come
un perentorio appello alla coscienza.
Dunque, pur non trovando nella Bibbia prima di S. Paolo,
il termine di "coscienza", se ne trovano i contenuti, come del resto
avviene anche per il pensiero ellenistico - ove il termine è rarissimo - ma vi
si incontra, espressa in altri modi, una ricca tematica sulla coscienza.
La coscienza nell'Antico Testamento
L'assenza del concetto di coscienza in senso preciso
nell'Antico Terstamento "non è una lacuna in un contesto tanto
esistenziale e concreto, dove l'uomo è visto sempre nella totalità del suo
rapporto con Dio" . Chiamato all'alleanza con Dio, anzi costituito
esistenzialmente da essa, l'uomo dell'AT è in continuo ascolto della divina
Parola: Parola che gli si rivolge, lo penetra e lo investe, lo rende
consapevole del significato di ogni sua attività; ascolto, nel quale l'uomo
trova la sua sapienza e il discernimento tra il bene e il male:
"custodisco nel cuore la tua Parola, per non peccare contro di te"
(Sal 119,11). L'esigenza morale scaturisce essenzialmente da un tale incontro
fra Parola di Dio e ascolto obbediente dell'uomo, e ogni giudizio etico appare
il frutto della vitale percezione di valori che quell'incontro mette in
movimento [DETM, 1985, p. 167].
Il "cuore" all'origine dell'uomo
Il "cuore" è appunto questa costitutiva
interiorità dell'uomo, ove la Parola di Dio giunge come un giudizio (Gn 3,8ss;
Gs 14,7; 1 Sm 24,6; 2 Sm 24,10; Ecl 7,22; Gb 27,6): cuore contrito, cuore
"nuovo", cuore convertito, se accoglie quella Parola, divenendo la
fonte intima di ogni risoluzione religiosa e d'ogni valutazione morale (cfr Dt
4,39; 30, 6-8; 1Re 3,9; 8,38; Is 51,7; 57,15), cuore indurito, sordo,
ottenebrato, se la Parola non vi risuona più e i valori morali, di conseguenza,
non vi sono più riconosciuti (Ez 2,3-4; Zc 7,12; Sal 95,8-10). Così, tutta la
condotta dipende dalla decisione del cuore: Dio si ama con il cuore (Dt 6,5) e
lo si tradisce con il cuore (Ez 6,9); e "il cuore vigile alla voce di Dio
o convertito dal suo perdono è testimone del valore morale della condotta
dell'uomo alla presenza di Dio".
È allora esatto concludere che, pur non trovando nell'AT
un termine specifico per indicare la coscienza, vi sono tuttavia riscontrabili
e notevoli i fenomeni descrittivi di questo fatto originario. V'è poi da
ricordare un dato rilevantissimo, anche se implicito, soprattutto in quei testi
nei quali il "cuore nuovo" è un dono che appare fatto all'intero
popolo d'Israele. Il singolo, cioè, non è in primo piano: sono in primo piano
la comunità e gli eventi salutari che ne costituiscono la storia. E perciò,
quel che il cuore suggerisce al pio israelita, non è un mistico dettame divino
che vi risuoni; è invece una parola ascoltata dalla tradizione comunitaria a
cui quell'uomo appartiene: e non come semplice richiamo di un precetto dato una
volta per tutte (sarà questa l'interpretazione letteralistica e riduttiva dei
farisei), ma come proposta raccolta dal vivo della storia salvifica di cui egli
fa parte.
La coscienza nei Vangeli
Ciò vale anche per i Vangeli. Basta pensare al profondo
processo di interiorizzazione cui è sottoposta la vita morale nell'insegnamento
di Gesù, e al ruolo che vi assume il cuore, come testimone del valore etico e
luogo ove si intrinseca la volontà di Dio.
Il discorso della montagna richiede come fondamento
dell'agire morale un'interiore decisione che va ben oltre la semplice fedeltà a
determinati precetti: povertà secondo lo spirito; purezza di cuore, poiché
appunto da esso nasce il peccato e ogni attaccamento alle cose terrene; occhio
semplice e luminoso che rischiari intimamente tutta la condotta (Mt 5,3.8.28;
6,19-23).
Questa insistenza a porre nel cuore il centro della vita
morale, è cosa caratteristica nelle parole del Maestro, egli stesso "dolce
e umile di cuore" (Mt 11,28-30). Non devono essere in ordine le azioni,
come era la preoccupazione dei Farisei, ma la sede più profonda della nuova
giustizia, il cuore: lì vien seminata e deve fruttificare la Parola di Dio (Mt
13,19), e solo da un cuore puro si possono trarre le buone azioni, le parole
buone, il perdono misericordioso e quanto più conta nella legge, la giustizia,
la misericordia, la fedeltà (Mt 12,34, 18,35; 23,23-26); mentre a nulla
varrebbe osservare la legge con la precisione più minuziosa, se poi il cuore è
accecato e maligno: poiché da una simile fonte impura rigurgita ogni cattivo
pensiero e ogni azione immonda che imbratta l'uomo e, buona solo all'apparenza,
è abominevole a Dio (Mt 9,4; 15,18-20; Mr 7,18-23; Lc 16,15).
Da un tale messaggio balza chiaramente che il giudizio
sulla bontà o meno della nostra condotta è interiore, viene elaborato in quella
profondità personale da cui essa procede, il cuore: ed è un giudizio a cui non
si può sfuggire.
Ma risulta altresì chiaro che questa fonte interiore può
inquinarsi, questo intimo foro giudicante può lasciarsi corrompere, quest'occhio
scrutatore può essere accecato (Mt 6,23ss; Lc 11,35: "Bada che la luce che
è in te non si spenga: quanto sarebbe grande la tua tenebra!"). Tragica
ambivalenza del cuore: dà il valore etico all'azione, e insieme può farsi
complice dell'iniquità. È qui che comincia chiaramente a delinearsi l'esigenza
di una continua conversione del cuore: di una educazione della coscienza
(usiamo pure questo termine ignoto ai Vangeli) che avvenga sotto lo sguardo di
Dio, e quindi nella verità.
E anche in Gesù il criterio per la purità del cuore non è
un richiamarsi astratto e quasi individuale all'originaria Parola di Dio: anche
i farisei potevano richiamarsi a questa Parola e osservarla con scrupolosa
sincerità, come senz'altro facevano per la legge del sabato. Ma è la fedeltà al
rivelarsi di Dio nella storia viva della comunità che Egli chiama alla
salvezza. Si onora Dio non semplicemente, in modo quasi ripetitivo,
osservandone un precetto; ma secondo il senso che esso assume nella continua
novità della storia (la novità, ora, è Cristo, signore anche del sabato: Mt
12,1-8 e par.). Il "giudizio su ciò che è giusto" non si elabora in
un confronto estrinseco con la legge: bensì "da se stessi", e
cercando di discernere l'"ora presente" (Lc 12, 54-57) attraverso i
suoi "segni" (Mt 16,1-3). La coscienza, proprio perché si modella su
un evento prima che su un precetto, non è una semplice memoria: è memoria e
creatività. È un aspetto già in parte rilevato nell'AT, e che sarà ancora più
preciso nell'insegnamento di S. Paolo [DETM, 1985, p. 173].
La coscienza nel pensiero paolino
È con Paolo che il termine "coscienza" entra nel
vocabolario cristiano: una novità di grande rilevanza. Ma non era nuova
l'antropologia soprannaturale nel cui ampio contesto la dottrina sulla sunevidesi§ riceveva tutta la sua originalità e ricchezza.
L'uomo "nuovo", di cui parla continuamente
l'Apostolo, è l'uomo "in Cristo" (formula carissima a S. Paolo): in
un senso ben più alto di quello puramente psicologico, secondo una condizione
che qualifica la nuova creatura all'incirca nel modo in cui ogni cosa non
esiste che in dipendenza dal suo creatore. Ma ovviamente questa situazione
esistenziale implica pure una percezione fondamentale di sé, che è anche
intuizione di una nuova realtà morale: vale a dire, del vitale riferirsi di
ogni nostra azione, proprio perché nuova, a Cristo, come a principio ontologico
e a fine morale, al suo "pensiero" proprio, al suo più intimo
"spirito", al suo "sentimento di carità". Termini tutti
che, pur con una propria sfumatura, sono concretamente coincidenti e
interscambiabíli: vivere "in Cristo", "secondo il suo
Spirito", compresi del suo pensiero, chiamati alla sua carità, sono
formule analoghe per esprimere l'accadimento fondamentale (la propria "reazione"
in Cristo) in quanto comporta un'istanza morale radicalmente nuova.
È la fede che rivela quell'accadimento e questa istanza:
o, che è lo stesso, è la coscienza: una "buona coscienza" (2Co 1,12;
1Tm 1, 5,19; 1Pt 3,16; Eb 13,18), una "coscienza pura" (1Tm 3,9; 2Tm
1,3), una coscienza "emendata col sangue di Cristo" (Eb 9,12).
"Fede", "coscienza" e
"cuore"
La "fede" si identifica con una tale
"coscienza":
al punto che il ripudio della buona coscienza è un naufragio nella fede (1Tm
1,5).
Vediamo dunque che per Paolo (che per primo usa questo
termine) la "coscienza" ricopre il ruolo che era assegnato al
"cuore" nella precedente riflessione biblica (anche se
meno chiaramente): è l'intimo soggettivo esprimersi, al centro dell'io, della
trasformazione salvifica operatasi in noi; è la profonda e sintetica presa di
coscienza, possibile nella fede, del proprio esistere in Cristo e dell'istanza
morale costitutivamente nuova che ne scaturisce.[DETM, 1985, p. 174].
È un concetto globale di coscienza che la successiva
riflessione cristiana ha spesso lasciato cadere, come ha lasciato cadere la
nozione biblica di "cuore": esso va premesso alla comune nozione di
coscienza come funzione delle singole valutazioni etiche e come insieme di
giudizi morali conseguenti.
Anche la nozione "popolare" di coscienza, come
testimone o giudice interiore delle proprie azioni personali, è esposta
dall'Apostolo. In Romani 2,15 egli scrive che i pagani "mostrano scritta
nei loro cuori la realtà della legge, poiché ad essa rendono concorde
testimonianza la loro coscienza e quei pensieri che, succedendosi a vicenda,
ora li accusano ora li difendono": l'immagine di un dibattimento
nell'intimo tribunale della coscienza è molto eloquente.
La testimonianza interiore della coscienza si compie,
secondo Rm 9,1, "nello Spirito Santo": componente nuova dei giudizio
di coscienza, che esprime a livello concreto e operativo l'originalità propria
della coscienza cristiana come fondamentale percezione e assunzione della
salvezza compiuta in ciascuno da Cristo.
È la stessa "testimonianza della nostra
coscienza" che S. Paolo oppone ai Corinti (2Co 1,12) per difendersi dalla
loro accusa di incostanza: come opporrà la sua coscienza "perfetta"
ed "intemerata" alle imputazioni processuali di Gerusalemme e di
Cesarea (At 23,1; 24,16).
Le qualificazioni date alla coscienza in queste ultime
citazioni, richiamano quelle già note delle lettere pastorali di coscienza
"buona" e "pura". E incontestabilmente, oltre al
significato fondamentale già indicato, esse segnalano pure quella nota di
rettitudine e verità che la coscienza, come funzione di discernimento morale,
deve senz'altro possedere. È per questo che una "cattiva coscienza"
(Eb 10,22), una "coscienza macchiata" e "segnata dal marchio (di
Satana)" - sono espressioni anch'esse presenti nelle lettere pastorali (Tt
1,15; 2Tm 1,3) -, una coscienza cioè connivente col male, non potrebbe fungere
da giudice e testimone veritiero: sarebbe semplicemente il segno e il frutto
dell'incredulità o dell'apostasia dalla fede. La buona coscienza si costruisce
nella fedeltà alla comunità e alla storia della salvezza, la quale è entrata
oramai con la risurrezione di Cristo nel suo momento decisivo.
Ma che dire della coscienza che è fuori dalla verità, per
debolezza o errore? È un'ipotesi, per noi molto ovvia, ma che nel pensiero
biblico appare solo con S. Paolo: e proprio qui, nell'affermare il diritto -
come noi lo chiamiamo - della coscienza erronea, l'Apostolo ha lasciato
l'impronta della sua forte personalità.
La prima occasione di affrontare il problema S. Paolo
l'ebbe nella cosiddetta questione degli "idolotiti" (1Co 8). Potevano
mangiare carne sacrificata agli idoli, o non era partecipare a un culto
idolatrico?
La risposta di Paolo è perentoria: se ne può mangiare,
perché gli idoli non sono niente. Tuttavia, si deve badare a due cose: se
qualcuno ritiene che quel mangiare sia un atto idolatrico, non lo deve fare; e
anche i "forti" devono astenersene, se il loro esempio fosse di
inciampo ai fratelli più "deboli" nel seguire la loro personale
convinzione di coscienza.
Occorre perciò rispettare la coscienza altrui, quand'anche
non sia nella verità: la libertà che nasce da una coscienza convinta non è una
libertà completa che non ammetta ingerenze. Se mai - ed è l'elemento che
l'apostolo aggiunge nel risolvere la seconda questione: quella degli alimenti
impuri (Rm 14) - occorre adoperarsi per avere una "convinzione
sicura". Dalla "scienza" sappiamo che non vi sono cose impure; e
tuttavia vi sono fedeli titubanti e incerti, ai quali anche la cosa più onesta
può sembrare compromettente: sono bensì nel vero, ma senza convinzione
interiore e maturata, avendo invece il dubbio di fare cosa disonesta: ebbene,
"se colui che è nel dubbio, mangia, è condannato, non avendo agito con
convinzione; tutto ciò che non è fatto con sicurezza di coscienza, è
peccato".
La coscienza come primato, soggetto solo alla carità
È quindi determinante la convinzione intima che si ha
davanti a Dio: è un diritto inviolabile, che assegna alla coscienza convinta
un primato assoluto. Tale, almeno, se considerato come primato della
persona.
Se Newman pone la coscienza al di sopra dell'autorità, non
proclama nulla di nuovo rispetto al permanente magistero della Chiesa. La
coscienza, come insegna il Concilio, "è il nucleo più segreto e il
sacrario dell'uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona
nell'intimità propria" [Piana, EC, 1997, p. 191].
Ma essa ha un'istanza superiore e universale, alla quale
deve coordinarsi e subordinarsi: la carità fraterna. In termini a noi più
familiari, "l'affermazione può essere così espressa: l'istanza personale
diviene assoluta nel momento in cui ha assunto l'istanza interpersonale":
la libertà che la coscienza sommamente possiede in base alla sua "scienza",
non può attuarsi "se non nel rispetto della coscienza altrui, sia pure
debole, e nell'edificazione per mezzo della carità" [Molinaro, 1971, pp.
25-26].
"Il giudizio di coscienza si estende su tutto, guida
la vita intera: non ci sono scelte che sfuggono alla sua responsabilità. Però
la buona coscienza non è quella uniforme, ugualmente puntigliosa su tutto,
bensì quella che nasce da un centro da un criterio di fondo (i biblisti
direbbero "il canone del canone") a cui sente il bisogno di continuamente
riferirsi nelle sue valutazioni: la carità" (B. Maggioni).
Resta comunque la forte affermazione di Paolo, che cioè la
coscienza è obbligante anche se oggettivamente erronea: affermazione che ha
anche il merito di togliere al discorso sulla coscienza ogni carattere mitico.
"Se è vero che essa rivela la voce di Dio, è anche vero che potrebbe
oggettivamente sbagliare: la voce di Dio non si affaccia alla coscienza in modo
miracolistico; si affaccia nell'autenticità dell'uomo, nella normalità, e ne
accetta il limite" (B. Maggioni).
La prima dimensione della coscienza morale: struttura
"originaria" dell'uomo
Dal quadro biblico tracciato il dato più rilevante che
emerge è la considerazione della coscienza a un duplice livello di profondità.
Anzitutto la coscienza appare come l'evento centrale
dell'interiorità cristiana, attraverso il quale l'intera persona si coglie
come esistente in un nuovo rapporto ontologico (con Dio in Gesù Cristo) e di
conseguenza intuisce e decide il nuovo ordine di valori etici che ne deriva. È
il momento globale e fondamentale della coscienza come "struttura
morale originaria": cuore pulsante da cui poi scaturisce ogni
particolare esercizio di interiore valutazione etica.
La seconda dimensione della coscienza morale:
"funzione" di discernimento e giudizio
L'altro piano, meno profondo, della coscienza è similmente
presente in tutti quei testi biblici nei quali è descritta come funzione
specifica del discernimento e giudizio morale sulla propria condotta e
vengono indicate le qualità per cui è autenticamente normativa (veridicità e
fermo convincimento).
Questa duplice considerazione della coscienza (come
elemento originario dell'uomo o come funzione derivata di discernimento) è
presente nella storia del pensiero cristiano, ma il secondo aspetto ha finito
per prevalere fino a diventare l'unico nella teologia postridentina e nelle
discussioni che hanno portato all'organizzazione dell'attuale trattato De
conscientia.
Distinguere, nell'esposizione storica, i due aspetti della
dottrina sulla coscienza, equivale perciò grosso modo a dividere quella storia
in due fasi: una più antica e una più recente.
LA COSCIENZA NELL'EVOLUZIONE DELLA TEOLOGIA MORALE:
DALLA SINDERESI ALLA CONSCIENTIA
Una storia dell'insegnamento tradizionale cristiano sulla
coscienza è ancora da scrivere. Esistono però numerosi studi monografici che illuminano
l'uno o l'altro momento di quella storia [DETM, 1985, p. 181, n. 13].
Nella riflessione più antica la coscienza è ritenuta
l'evento centrale della soggettività cristiana. Ed è proprio questo aspetto che,
secondo me, andrebbe recuperato oggi ed è ancora di grandissima attualità. Ma
bisogna saper superare la visione funzionalistica della coscienza nella
riflessione morale.
Origene
Per Origene la coscienza emerge come interiorità da cui
fiorisce tutta l'attività religiosa e morale: "sede della coscienza
funzionale, base degli affetti dell'anima, intimo testimonio dei fenomeni
religiosi, centro della vita morale e quindi anche dei peccati, camera segreta
delle più ascose emozioni". Si evidenzia in tal modo il carattere
essenzialmente pneumatico della coscienza: la sunevidesi§, addirittura, si identifica con il
pneuma: con la realtà che costituisce più autenticamente l'uomo salvato,
nella quale egli si coglie come "vivente nello spirito" e ove si
compie quell'interiorizzarsi del comprendere e dell'agire che costituisce la
peculiare novità dell'esistenza cristiana.
In Girolamo (commento a Ez 1,1), ove la sunthvrh§is (termine da cui verrà quell'altro di sinderesi) o
"scintilla conscientiae" è presentata come la parte suprema
dell'uomo, "spirito" che corregge e guida la ragione e l'appetito,
interiorità specifica che conseguentemente è fonte di inestinguibili giudizi
sul bene e sul male.
Agostino: l'uomo è la sua coscienza
E soprattutto in Agostino: "se l'essenza dell'uomo è
l'interiorità, la coscienza come interiorità dell'uomo lo definisce nella sua
qualità centrale: l'uomo è la sua coscienza, ritrova se stesso nella sua
coscienza, che contiene e gli detta la norma del valore morale".
Nell'insegnamento agostiniano un testo fondamentale è
quello dell'Enarratio in Ps. CXLV (PL 37,1887): qui la coscienza appare
la parte più riposta e più spirituale dell'anima, quella che si identifica con
l'uomo interiore; la "mens superior" già sin d'ora "inhaerens
Domino et suspirans in illum", aperta perciò a vedere quel che si deve
temere, desiderare, cercare, lodare ed amare. Per questo, se molte volte
coscienza e cuore si identificano, altre volte la coscienza appare il centro
del cuore, "ventre dell'uomo interiore" (In Johan. 7,37-59.-
PL 35,1643). Abisso "in cui abita Dio, di essa unico teste ("forte
tu non invenis aliquid in conscientia tua, et invenit ille qui melius videt,
cuius acies divina penetrat altiora", Sermo 93: PL 38,578),
essa ha l'unica "sedes Dei": "qui nullo capitur loco,
cui sedes est conscientia piorum" (Enar. in Ps. XLV: PL
36,520); e Dio vi irrompe come "testis, iudex, approbator, adiutor,
coronator" (Enar. in Ps. CXXXIV: PL 37,1476) [DETM, 1985, p.
171].
In conclusione, una concezione globale e unitaria della
coscienza, che identifica la coscienza con l'"io" più delicato e più
unificante, più consapevole e più essenziale, dell'uomo nuovo e non si sofferma
sul frammentarismo delle distinzioni, che invece pulluleranno nei trattati
degli ultimi secoli (tra i vari tipi di coscienza e le varie "doti"
che la connotano).
In questa visione globale va posta la concezione che ne
deriva della coscienza come funzione di valutazione etica, educata a
discernere e decidere il bene dal male. Si cercherebbero invano, negli scritti
patristici, le nostre precise definizioni; ma è tuttavia presente in essi una
chiara dottrina sull'educazione della coscienza.
Per Agostino, ad esempio, non una coscienza qualsiasi può
guidarci; ma solo quella illuminata dalla Scrittura, dalla fede, da Dio: solo
la "bona conscientia": da cui proviene la "tranquillitas
cordis" (Sermo 270: PL 31,1242), e che è "magnum
gaudium piorum" (Enar. in Ps. LIII: PL 36,625) e rifugio
rassicurante di ogni oppresso ("ubi est requies? saltem in cubiculo
cordis ut tollas te ad interiora conscientiae tuae", Enar. in Ps.
XXXV: PL 36,344).
Al contrario, l'oscurità amata rende gradatamente più
languido l'occhio dell'anima: e così illanguidito, l'uomo si trova non solo
impigliato ma sepolto in quella coscienza cui ha rifiutato il compito di guida.
Ambrogio
È, però, S. Ambrogio l'autore che si è più lungamente
soffermato sugli aspetti derivati della coscienza: almeno nella sua opera
morale più rilevante, e cioè il De officiis ministrorum. Qui, compito
della coscienza è discernere il merito del giusto e del peccatore (1,44); è un
atto interno di ogni singolo uomo, così da potersi dire suo giudizio (1,45;
11,2), sua testimonianza (1,18) percepita dai sensi interni (11,2), per cui
l'uomo è consapevole degli atti compiuti (1,18,21); ad essa soltanto è
riservato il giudizio sul valore morale delle azioni eseguite, sicché l'uomo,
indipendentemente dal giudizio altrui, è innocente o colpevole di fronte a se
stesso (1,18,21,45-46,233,236). La tranquillità della coscienza è cibo che
sazia veramente (1,163), è il vero bene (1,236), a confronto del quale la
voluttà dei corpo e tutto ciò che è giudicato bene dal secolo scompare allo
stesso modo della luce della luna e delle stesse stelle al sorger del sole
(11,1); è una soavità interiore che vince ogni sofferenza (11,10,12, 19). Per
il peccatore, invece, la ferita della coscienza è tormento (111,24), è tomba
che esala cattivi odori (1, 45-46). Nel compiere il suo incarico di giudice,
comunque, la coscienza non può essere né ingannata né corrotta (1, 44,233): a
questa condizione, essa è vera legge e norma per il giusto, al quale non
occorre più la promulgazione di una legge e la comminazione di una sanzione
(III,31).
LA SCOLASTICA E LE DUE CONCEZIONI DELLA COSCIENZA
La riflessione della Scolastica, e particolarmente quella
della scuola domenicana, cercherà di riunire le due concezioni (originaria e
derivata) di coscienza nella dottrina, che distingue tra sinderesi e coscienza.
La sinderesi è la coscienza originaria, innata e sintetica
percezione dei valori
morali dell'esistenza cristiana.
Invece la conscientia è un atto che applica quella
unitaria e dinamica intuizione ai casi e alle azioni concrete. Ma già in questa
teologia, come poi soprattutto nella riflessione posteriore, l'accento viene
posto sempre più distintamente sulla conscientia: e cioè, sulla
coscienza come funzione o come atto applicativo, ai singoli comportamenti, di
quel dinamisrno vitale che si pone come radicale "presa di coscienza"
del senso e dell'orientamento del proprio esistere cristiano.
A provocare questo spostamento di interesse era stata la
controversia tra Bernardo e Abelardo: testimone, il primo, della concezione
più antica, globale e pneumatica, della coscienza; artefice, il
secondo, di una considerazione innovata di essa, che ne metteva in luce il
valore specifico di funzione etica mediatrice.
I punti da cui partono i due illustri avversari sono molto
distanti; come, del resto, è immensamente diverso l'ambiente culturale e
spirituale al quale appartengono.
Bernardo di Chiaravalle
Bernardo è monaco. La teologia monastica profondamente
alimentata dalla Scrittura, in stretta dipendenza dalla letteratura patristica,
diffida di un impiego troppo esteso della dialettica, mentre vuole per
l'approfondimento del messaggio rivelato disposizioni di umiltà e semplicità,
di orante rispetto per il mistero: ed è con tale metodo che si accosta
preferibilmente, tra i molti oggetti teologici, alla inesauribile problematica
dell'unione dell'anima con Dio.
Proprio la coscienza - la coscienza umile e purificata, la
coscienza devota e sottomessa - è il luogo ove si svolge questo intimo
dialogo dell'uomo con Dio, questo farsi presente di Dio e questo elevarsi
dell'uomo all'unione con lui.
Così il tema della coscienza diventa tra i più cari a
questi uomini, attentissimi ai fatti interiori: è sintomatico che esistano due
trattati pseudobernardini sulla coscienza, e un De conscientia di Pietro
di Celle. Sono le prime opere nella letteratura cristiana che portino questo
titolo. Una coscienza che sia specchio terso della luce di Dio, l'eco fedele
della sua voce, il testi- mone veridico della sua presenza - ecco la coscienza
cristiana. Una coscienza "vera", che sia la perfetta corrispondenza
soggettiva dell'oggettiva volontà di Dio.
E questi uomini moltiplicano le immagini: S. Bruno, Pietro
di Celle, Guiberto, Tornmaso cistercense, Ruperto di Deutz, non si fermano
neppure dinanzi a rappresentazioni ardite e peregrine, per
"dipingere" questo segreto e puro recesso della coscienza, ove si
consuma l'unione con Dio. E c'è un campo in particolare dal quale attingono le
loro allegorie - quasi trasfigurando (o sublimando) in altri termini spirituali
quel che la vocazione aveva loro imposto di lasciare: la vita nuziale.
E questo pure è sintomatico, per chi conosca con quanta
profondità e frequenza l'amore nuziale sia diventato, per i mistici,
l'immagine, insieme più semplice e più alta, dell'unione nostra con Dio.
I mistici medievali e la coscienza come "sposa"
Questa "buona coscienza" è dunque la più bella
delle donne, la regina preparata a ricevere il re; è sicura e irreprensibile
come una sposa forte e fedele; "bona coniux in cubili": è
l'inseparabile sposa che ti accoglie nel suo abbraccio pieno di pace (mentre
"mala uxor" è la cattiva coscienza: donna insopportabile e
iniqua): è la moglie gloriosa nel cui bacio lo sposo si allieta. La buona
coscienza è la camera nuziale; o anche, è il talamo nuziale (invero, nella
fantasia descrittiva di questi monaci austeri anche nel sonno, un giaciglio
abbastanza povero e spoglio): il "talamus Dei", il "tectus
Celestis sponsi" che ha per materasso la purità, per guanciale la
tranquillità e per coperta (ecco tutto!) la sicurezza.
La coscienza retta è come la fanciulla ancora acerba
("quia ubera nondum habet per- lectionis"), eppure già amata e
in attesa di pervenire, in cielo, "ad contubernium Dei".
Si capisce, in questa concezione della coscienza, quanto
appaia necessario che essa sia in tutto monda e fedele a Dio, goda cioè di una
verità completa: come vi si potrebbero compiere gli sponsali con Dio, se essa
fosse difettosa e sordida? Ma non potrebbe accadere - dice Bernardo - che la
coscienza, senza sua colpa si inganni? Che ritenga un bene ciò che in realtà
non è bene? Sarebbe, essa, in tal caso, ugualmente retta, e quello ugualmente
un bene?
La questione a Bernardo era stata posta da alcuni monaci
di Chartres: poiché - essi avevano scritto - quando si crede di far male, pur
agendo bene, ci si dice che la nostra azione è cattiva, alla stessa maniera si
dovrà dire che un'azione è buona quando è compiuta in buona fede, anche se
fosse in se stessa cattiva.
Non è così, risponde Bernardo: non basta la buona fede; occorre
la verità: come potrebbe passare per vera agli occhi del Dio della verità, una
coscienza falsa, sia pure in buona fede? È perciò ugualmente peccato, benché
meno grave, anche il male compiuto in buona fede.
Tutta la tradizione monastica, con la suddetta concezione
mistica della coscienza, era lì a suggerire questa risposta per noi non più
comprensibile - se è viziata da qualche male, lo sappia o non lo sappia, la
coscienza non può più essere il trarnite d'una mistica unione con Dio. E
possiamo anche capirlo. Ma non potremo mai capire l'oggettivismo di S. Bemardo,
non appena il problema si ponga nei suoi termini più strettamente morali.
Abelardo
Non lo comprese neppure Abelardo. In realtà, questo
teologo spregiudicato, che concluderà la sua tumultuosa giornata a Cluny,
raddolcito dall'ineffabile bontà di Pietro il Venerabile, era vissuto
spiritualmente sempre al di fuori dell'ambiente monastico, a contatto invece
con le nuove correnti di pensiero che facevano il loro ingresso nelle scuole
urbane. Ed era stato essenzialmente un "moralista", nel senso più
moderno della parola: estraneo alle dottrine (come alle esperienze) mistiche,
attento invece ai problemi etici nella loro accezione più precisa.
Uno di questi, molto antico, riguardava appunto il peccato
di ignoranza: se cioè l'ignoranza sia un peccato, e ancora, se essa scusi dal
peccato. Già Gregorio Magno aveva parlato, molti secoli prima, di un peccato
"quod ignorantia perpetratur", accanto a quelli che si
commettono "aut infirmitate aut studio": peccato meno grave
degli altri, ma pur esso peccato e bisognoso del perdono divino; e citava S.
Paolo (1Tm 1,13): "prima bestemmiatore e persecutore e violento, ho
ottenuto da Dio misericordia per aver agito per ignoranza, non avendo ancora la
fede".
La questione si era poi complicata negli scrittori
successivi, spostandoci su altri tre casi a cui la Scrittura accennava: il
peccato di Eva "sedotta dal serpente" (Gn 3,13); il peccato dei
crocefissori di Cristo che, secondo le parole di Gesù in croce, non sapevano
quel che facevano; e il peccato di tutti i persecutori dei cristiani, convinti,
come aveva indicato il Maestro, "di fare con ciò cosa gradita a Dio"
(Gv 16,2).
Che pensare di questi, e in genere di tutti i peccati
commessi ignorandone la malizia? Uno spirito critico come Abelardo non poteva
non reagire ad ogni concezione puramente materiale del peccato: ciò che si
commette per ignoranza non è peccato, essendo essenziale al peccato
l'intenzione di peccare; e sono perciò irresponsabili gli uccisori di Cristo, e
i lapidatori di Stefano e ogni altro persecutore dei cristiani che agisca in
buona fede.
Furono certamente queste estensioni, senza delicatezza e
sfumature (ma la souplesse non era nello stile di Abelardo) a provocare
l'accusa presso Bernardo, il riconosciuto custode dell'ortodossia dell'epoca.
Tommaso D'Aquino
Ma, a parte le esagerazioni polemiche, Abelardo aveva
visto giusto: e di lì a un secolo Tornmaso d'Aquino gli darà sostanzialmente
ragione, pur introducendo nella questione tutte le distinzioni richieste, tra
buona fede e buona fede, più o meno colpevole e perciò più o meno scusante dal
peccato.
Nella visione antropologica di S. Tommaso l'uomo, creato a
immagine di Dio di cui imita la libera creatività, si costruisce attivamente
attraverso il suo potere di autodecisione: e così, la coscienza non si risolve
ad essere una semplice applicazione meccanica di principi alle contingenze
della vita, ma è un inventare di volta in volta il modo con cui l'uomo risponde
alla sua qualità di immagine di Dio, realizzando se stesso nella verità.
Nel frattempo, tuttavia, quasi tutta la dottrina monastica
sulla coscienza era andata perdendosi: e ciò non fu totalmente positivo.
La controversia tra Bernardo e Abelardo è senza dubbio tra
i fatti culturali più rilevanti, che abbiano provocato il passaggio da una
considerazione fondamentale della coscienza a un'altra più articolata e
specifica. Ed è quest'ultima che troviamo presente, non solo nella teologia
scolastica in maniera sempre più significativa (come già si è accennato), ma
soprattutto nelle elaborazioni successive e in particolare nella teologia
post-tridentina.
LA TEOLOGIA POST-TRIDENTINA: LA COSCIENZA RIDOTTA A
"FUNZIONE DI DISCERNIMENTO"
Nella teologia post-tridentina, la coscienza diviene un
semplice organo di risonanza di una legge morale concepita più come un dato che
come un compito, organo chiamato a fungere da giudice nella controversia tra
libertà e legge.
Acquistano in tal modo importanza fondamentale le leggi
procedurali che la coscienza deve seguire per varare una sentenza giusta, e in
particolare una sentenza certa.
È un dibattito che è opportuno sintetizzare: non solo per
l'importanza che assunse nel tempo coinvolgendo in una grave crisi per tutto il
secolo XVII e la prima metà del XVIII, la teologia morale, e che non cessò di
farsi sentire anche in seguito; ma soprattutto perché esso ha fissato a lungo
l'attenzione dei moralisti sul solo senso derivato della coscienza, come
insieme di singoli e distinti giudizi etici.
Il probabilismo
Il punto di partenza era stato fornito dal domenicano
Bartolomeo di Medina, il quale nel 1577 aveva stabilito il principio del probabilismo:
"si est opinio probabilis (quam scil. asserunt viri sapientes et
confirmant optima argumenta), licitum est eam sequi, licet opposita probabilior
sit". Il principio ebbe successo e fu accolto da altri grandi teologi
che lo perfezionarono, precisarono e applicarono a molti casi discussi. Esso
del resto era di grande utilità. Si trattava di offrire una regola che
permettesse dì uscire dal dubbio e di agire in tutti quei casi nei quali
esistevano delle soluzioni molto contrastanti.
In simili casi, si diceva, era lecito seguire
quell'opinione che apparisse veramente probabile, anche se la contraria era
ugualmente probabile o addirittura più probabile. Non si trattava, in fondo,
che di applicare un principio più generale e indiscusso: "lex dubia non
obligat".
Fin qui non v'era motivo di allarmarsi e nessuno osò
contraddire il probabilismo, se non altro per il grande prestigio di cui
godevano i teologi che lo avevano sostenuto.
Il lassismo
Se non che col tempo, quel principio, già maneggiato con
minore circospezione da qualcuno dei noti autori di Institutiones della
prima metà del secolo XVII, venne da altri tamente allargato e.finì per
degenerare in un nuovo principio, che fu poi detto del lassismo: che
cioè, come norma morale nelle questioni discusse poteva prendersi qualunque
opinione la quale avesse anche una minima probabilità di essere nel vero, fosse
pure questa probabilità soltanto estrinseca, fondata sul pensiero anche di un
solo autore.
Responsabili principali di questo grave fraintendimento
furono parecchi di quei "casuisti" che, fin dalla metà del secolo
XVII, compilarono numerosi manuali di resolutiones, in cui venivano
allineate interminabili liste di "casi" (ingegnosi, talora, e persino
bizzarri) e indicando per ciascuno di essi, senza molto discernimento, le
sentenze proposte dagli autori, comprese le più spinte.
Non era rilassatezza morale a condurre questi uomini alle
loro posizioni (erano tutti personalmente molto austeri e pii), ma piuttosto,
oltre al gusto della casistica, che trovava facile alimento nel confronto delle
varie probabilità, una preoccupazione di indulgenza e di raddolcimento che
servissero alla fine alla salvezza delle anime.
Il giansenismo
La reazione, si sa, venne in gran parte dall'arnbiente
giansenista. E fu reazione per molti aspetti provvidenziale; ma anche poco
onesta, perché sotto il pretesto di combattere il lassismo iniziò a colpire la
compagnia di Gesù; e comunque eccessiva, sicché finì per sostituire al le-
galismo dell'opinione il legalismo della legge.
Intervenne anche Pascal (con le sue Provinciali)
che mise a nudo con la sua satira tagliente il falso legalismo casuista, ove lo
spirito era soffocato dalla lettera.
Si diede però avvio a una morale eccessivamente rigida, la
cui regola fissa è che il più sicuro (tutior) sia sempre obbligatorio, e
quindi alla fine ugualmente esteriore e legalista. Ed è difficile dire se
abbiano provocato maggiori danni, nella elaborazione successiva della nostra
disciplina teologica, lo spirito casuista o quello tuziorista.
Intervennero le condanne. Ma la condanna degli errori non
poteva bastare. Occorreva sostituire ai principi del lassismo e del rigorismo
un sistema che permettesse di risolvere il dubbio nei molti casi discussi.
Probabilioristi e probabilisti
Il problema era sentito come urgente, lontani come si era
da un ricupero della dottrina tomista sulla virtù della prudenza; e del resto,
la ricerca di un buon "sistema" poteva passare per una operazione di
prudenza. Non fu così. La polemica, infatti, non ancora sedatasi tra lassisti e
rigoristi, si riaccese più spregiudicatamente violenta (e raggiunse persino i
toni dell'ingiuria, nel primo mezzo secolo XVIII, tra domenicani probabilioristi,
accusati di rigorismo, e gesuiti probabilisti, accusati di lassismo
Fu in Italia che divampò più acre il dibattito. La
teologia morale non guadagnò nulla da simili polemiche; al contrario, esse
incoraggiavano il pericolo della decadenza morale già favorita dal clima del
secolo e del rigorismo giansenista.
S. Alfonso
Fu S. Alfonso a ricondurre il problema della certezza
della coscienza alla sua sede vera, quella della interiore prudenzialità dei
giudizio. Non fu infatti l'elaborazione di un nuovo sistema, l'equiprobabilismo,
per quanta verità teoretica esso contenesse, a placare gli animi, ma fu la
riflessione morale dell'intelligenza cristiana attenta al complesso dei valori
in gioco, a definire la crisi. Infatti, i casi di coscienza risolti da S.
Alfonso, col ricorso ai principi indiretti della probabilità vennero
successivamente diminuendo nelle varie edizioni della sua Theologia Moralis
e alla fine risultarono pochissimi.
Al contrario, per la grande parte di essi egli avanzò una
sentenza personale, impegnandosi in una ricerca interiore e persuasiva della
verità e mettendo a profitto la sua eccezionale acutezza, erudizione e
prudenza, ben più che applicando il "sistema" da lui escogitato.
ALCUNE RIFLESSIONI TEOLOGICHE
Dalla carrellata storica sullo sviluppo del concetto di
coscienza nella storia del pensiero cristiano, si può ricavare l'importanza che
assumono nell'elaborazione di un corretto giudizio di coscienza le vie dell'interiorità
e della prudenzialità.
Il risultato più cospicuo delle riflessioni di Abelardo è
che la soggettività del giudizio acquista valore determinante, poi il problema
va risolto attraverso un prudente confronto dei valori in causa, che nessuna applicazione
indiretta di "sistemi" può surrogare. È il dato che emerge
nitidamente anche ripensando l'insegnamento biblico sulla coscienza come
funzione del discernimento etico.
La complessità di una visione globale della coscienza
Il concetto di "coscienza attuale e cioè funzione
tipica di interiori giudizi morali, anche ricuperato nella genuinità e
ricchezza che l'estrinsecismo dei "sistemi" ha compromesso, non
traduce ancora interamente la complessità dell'insegnamento biblico e di molta
parte della riflessione patristica: qui infatti, sulla coscienza attuale, che
ne deriva, prende rilievo una coscienza "fondamentale", la quale si
presenta come il momento sintetico e risolutivo dell'esprimersi della storia
della salvezza, per ciascuno, in esperienza soggettiva" [DETM, 1985, p.
180].
È una visione globale, come più volte si è detto, che va
ricuperata; né basta a esprimerla integralmente la dottrina pure importante (e
anch'essa quasi dimenticata) della sinderesi, elaborata dalla teologia
scolastica.
Forse un complemento verrebbe se si accostasse questo tema
a quello dell'opzione fondamentale.
Coscienza e opzione fondamentale
La coscienza fondamentale appare come la radicale presa di
coscienza, semplicissima e ricchissima, dell'orientamento e del contenuto
dell'opzione fondamentale.
In questo senso si può dire che essa è il luogo essenziale
ove si fa conscia, come giudizio e come valore, la storia salvifica in cui
dobbiamo dar prova di noi stessi; come giudizio, che fonda ogni altra
conseguente valutazione etica; e come valore, che si pone come sorgente di ogni
altra specifica obbligazione.
Ha ragione allora A. Molinaro che scrive che essa "si
deve porre nel fondo dell'anima, al centro dell'uomo, là dove l'uomo trova la
sua natura autentica - essa lo abbraccia tutto intero, tendenza e realizzazione
conscia del bene che in ultima analisi è il Bene assoluto".
Per un altro verso si può affermare che il giudizio
"fondamentale" di coscienza è compiuto in vista dell'opzione
fondamentale: "l'ideale intuito diventa progetto di azione". In ogni
caso, la coscienza fondamentale "è la luce nella quale noi elaboriamo i
giudizi particolari di coscienza, ossia i dettami destinati a dirigere i
singoli atti concreti in modo che questi rispondano e si conformino alle
esigenze di ciò che abbiamo giudicato essere il senso o il fine totale della
nostra vita", così come l'opzione fondamentale "è il criterio di
valore che determina l'apprezzamento dei motivi che presiedono alla scelta
degli atti particolari" [Molinaro, 1971, pp. 54-55].
Coscienza del singolo e coscienza comunitaria
Su questo sfondo si collocano i problemi più particolari
della coscienza "attuale", primo tra tutti il problema del raffronto
tra la coscienza individuale e la "coscienza della comunità", che
serve a riconoscere e illuminare ogni altro.
La riflessione della teologia morale insegna che la presa
di coscienza, la decisione di coscienza, la testimonianza di coscienza sono
momenti di una maturazione della responsabilità individuale, che emerge dal
discorso cristiano sulla coscienza nel suo complesso: è un apporto che si reca
dal singolo alla comunità; ma è anche un affrancamento e una maturazione del
singolo, quando la comunità (che non sarebbe più tale) tendesse a inglobarlo in
comportamenti stereotipi e convenzionali.
Il cristiano sta di fronte alle molteplici proposte che
provengono dalla comunità, ciascuna delle quali, sebbene in misura diversa, è
tramite di valori. "Parole" trasmesse, gesti sacramentali,
suggerimenti dell'amicizia, interventi dell'autorità, convenzioni sociali,
rapporti di lavoro, leggi e direttive, e così via: la fitta rete, cioè, di
segni, istituzioni, parole, da cui il cristiano è portato a discernere le
pressioni del suo egoismo (la "carne", in gergo paolino) dagli
impulsi dello Spirito ("la legge dello Spirito di vita in Cristo
Gesù", Rm 8,2).
La "capacità di rispondere" (responsabilità)
alla multiformità dell'appello morale non si improvvisa; e d'altra parte può e
deve strutturarsi in disposizione permanente (è allora che nel vocabolario
scolastico, si parla di prudenza), a condizione che il cristiano non rinunci
mai a interpellarsi da capo nei momenti in cui nuove e più pressanti proposte
morali si presentano alla sua coscienza. La riflessione personale è dunque
costantemente necessaria per la formazione di prudenti giudizi di coscienza.
Tale riflessione include anche il dovere di prestare attenzione all'autorità
(secondo la misura e qualità del suo intervento); e include la possibilità di
riferirsi, per raggiungere una provvisoria ma sufficiente sicurezza,
all'"opinione probabile", quando il problema che si pone non abbia
ancora raggiunto nella dottrina una luce definitiva.
La coscienza ispirata
La coscienza personale dev'essere confrontata con la
comunità, essa consegue il suo pieno valore di norma quando il suo giudizio è
accolto, ratificato, difeso, promosso dalla comunità gerarchicamente
strutturata.
Ma il pensiero tradizionale cristiano non ha temuto di
avanzare l'ipotesi della "ispirazione profetica" per spiegare taluni
comportamenti diversamente condannabili. Esistono casi così singolari o
situazioni di coscienza talora così drammatiche, che la loro soluzione non
possa trovarsi se non nell'immediata (e immancabile) illuminazione dello
Spirito Santo.
Sempre tenendo conto che lo Spirito è superiore a
qualunque lettera; che non si può sistematicamente rifiutare il
"profetismo" nella vita morale, che si deve dar spazio alla
"coscienza ispirata".
È un discorso delicato, evidentemente; eppure ogni cristiano
sa che nella vita morale talvolta "è in gioco un agire insolito della
coscienza che in tono imperioso reclama obbedienza a un appello divino": è
quanto scrive Walter Nigg circa la decisione che portò S. Nicola di Flüe ad
abbandonare la moglie e i dieci figli (l'ultimo era ancora atteso), il 16
ottobre 1467, per farsi randagio e pellegrino.
Decidere se in questi casi si tratti di "coscienza
erronea" o di "coscienza ispirata", non è possibile per noi al
momento. S. Agostino, ad esempio, a proposito delle vergini cristiane che si
diedero la morte, sembra partire dall'ipotesi che siano incorse in un abbaglio,
del resto comprensibile e scusabile; ma subito si chiede se non vi fosse,
invece, un'ispirazione divina: "Che dire se hanno compiuto quel gesto non
per umano errore, ma per un comando divino; non già per essersi ingannate, ma
per aver obbedito?" 24.
L'interrogativo non riceve risposta ed è il medesimo
dinanzi al quale ci si deve arrestare anche per altri casi, nei quali l'ipotesi
di una ispirazione profetica è senza dubbio legittima, ma appartiene al segreto
di Dio se si sia verificata di fatto.
La coscienza personale di fronte al diritto e alle
ideologie
Esigenze di confronto e ínterazione tra coscienza e
comunità si rilevano anche sul piano dell'azione e dei diritto. L'urgenza, ad
esempio, dell'incontro sul piano operativo e della carità, nonostante la
divergenza delle ideologie a cui ci si ispira, mette in luce quella altrettanto
grave di una matura fedeltà alla propria coscienza, senza la quale non
verrebbero evitati i rischi di quell'incontro. Ancor più complessa è la
questione di come conciliare i "diritti della coscienza erronea" con
il rispetto delle esigenze del bene comune.
Talune istituzioni infatti hanno una rilevanza sociale
troppo grande per poter essere affidate alle sole valutazioni soggettive della
coscienza (ed è un limite doloroso per ogni legge quello di dover ridurre la
libertà del singolo per un più alto interesse comune).
Sembra tuttavia che non si possa dare a priori una
risposta assoluta per l'uno o per l'altro dei due termini in conflitto
(coscienza e bene comune). Essi in realtà sono tra loro complementari e in
continua tensione. Si dovrà, volta per volta, ricercare quella soluzione che
meglio assicuri il rispetto della coscienza e la prosecuzione del bene della
comunità: e non stupisce il fatto che le soluzioni possano essere parzialmente
diverse secondo le diversità dei problemi in causa, dei momenti storici e degli
ambienti culturali nei quali essi si pongono.
L'attenzione del singolo alla coscienza comunitaria non
può prescindere dal fatto che questa è sottoposta a un divenire storico che va
via via configurando l'ideale morale (in questo caso si parla dell'ideale
cristiano) in senso sempre più esplicito e completo.
La coscienza personale tra norme eterne e tempo storico
La morale cristiana ha delle norme eterne, principi
immutabili e sempre uguali, validi in ogni caso, regole intemporali e in certo
modo esteriori all'odierna economia di salvezza.
Ma nello stesso tempo, la morale cristiana ha pure, nelle
sue stesse norme, un aspetto profondamente temporale: essa infatti "si
riferisce ad una storia già avvenuta, a quella ancora presente e a quella che
avverrà nel futuro, dei rapporti tra Dio e l'uomo, e alla partecipazione attiva
dell'uomo a questa storia".
Ed è dalla indagine sulla morale evangelica che si possono
distinguere due categorie di insegnamenti morali: nella predicazione di Gesù si
incontrano norme intemporali che non sono essenzialmente legate alla presente
economia e conserverebbero il loro significato fondamentale anche al di fuori
di essa: tali sono le esortazioni a imitare la santità di Dio, ad obbedire alla
sua volontà, a praticare le opere buone, e altre ancora.
Si incontrano però anche norme strettamente legate
all'economia attuale ed esse sono totalmente penetrate dalla coscienza che
questo mondo "è invecchiato" e che gli ultimi fini sono ormai
imminenti. Tali sono, ad esempio, le esortazioni alla rinuncia (le cui forme
sono diverse, ma sempre radicali, ai beni terrestri, alla famiglia, ai propri
diritti), e altre ancora. Tali norme, essendo dominate - quale più quale meno,
ma tutte profondamente - dalla prospettiva escatologica, sono meno valide in
vista di una morale concreta e specifica per la fase terrena del Regno di Dio,
ma piuttosto rappresentano l'ideale morale di una umanità ormai prossima agli
ultimi eventi.
Si direbbe che, nel dare queste norme, Gesù, per effetto
di un raccorciamento simile a quello di ogni profezia in genere, abbia provvisoriamente
lasciato nell'ombra il periodo intermedio tra l'inaugurazione e la consumazione
del Regno, per sottolinearne fortemente l'urgenza in vista e nell'imminenza
dell'ultimo ritorno di Cristo giudice.
LA COSCIENZA NELLA MISTICA
Secondo Stercal "Non vi è operazione mistica al di
fuori di una trasformazione vitale della coscienza". Così Ch. A. Bernard
sintetizza lo stretto rapporto tra esperienza mistica e coscienza testimoniato
dai mistici" [Stercal, DIM, 1998, p. 362].
Dio nella sua realtà sostanziale è presente nel fondo
dell'anima non meno di quanto essa sia presente a se stessa [A. Gardeil, citato
in Stercal, DIM, 1998, p. 362].
La teologia manualistica parla di "dilatazione della
coscienza", o, con linguaggio più tecnico, "iperestesia dello spirito
e del cuore" per definire gli effetti che l'esperienza mistica produce.
Essi consistono in una consapevolezza "delle operazioni straordinarie,
nuove, elevate" che accompagnano l'esperienza mistica, e dei "loro
oggetti", cioè della "realtà soprannaturale percettibile in modo
nuovo", anche nella forma della "sua privazione o carenza".
Le nuove acquisizioni della psicologia e della teologia
richiedono, oggi, un approfondimento e una riformulazione del complesso
rapporto tra esperienza mistica e coscienza.
In questa prospettiva appare indispensabile un'attenta
rilettura dei testi mistici. Essi offrono alcuni punti di riferimento
fondamentali [Stercal, DIM, 1998, p. 362-363]:
- L'inizio dell'esperienza mistica è comunemente
caratterizzato da un cammino di purificazione che sembra condurre a una perdita
della coscienza di sé, ma che, in realtà - come afferma un testo anonimo del
secolo XIV - sfocia nell'"essere rivestito della consapevolezza di
Dio";
- Ciò non comporta il rifiuto di sé, ma il rifiuto o il
superamento di ciò che allontana da Dio. Ne La nube della non-conoscenza
leggiamo: "cerca di sopprimere ogni conoscenza o coscienza di qualsiasi
cosa che sta al di sotto di Dio";
- I mistici utilizzano spesso un linguaggio che sembra
alludere a una perdita o a un annullamento di sé di fronte alla trascendenza di
Dio, ma, in realtà, quella esperienza conduce a una più profonda relazione con
Dio;
- Questa nuova e più profonda relazione con Dio consente
al mistico di acquisire una più profonda coscienza, allo stesso tempo, di sé e
di Dio. Come afferma sinteticamente anche l'Imitazione di Cristo:
"Cercando soltanto te e con amore puro, ho trovato allo stesso tempo e me
stesso e te";
- Per quanto riguarda la coscienza morale Tommaso d'Aquino
chiarisce come l'esperienza morale predisponga alla vita contemplativa, ma non
ne costituisca l'elemento essenziale: "il fine della vita contemplativa è
la considerazione della verità. [...] Le virtù morali, però, impediscono la
violenza delle passioni e calmano il tumulto delle occupazioni esterne, perciò
appartengono come predisposizioni alla vita contemplativa" (Summa
Theologiae II-II, q. 180, a. 2).
L'uomo è la coscienza del Dio alienato
Gianni Baget Bozzo ha condotto una riflessione radicale
sulla coscienza mistica.
"La coscienza dell'uomo vive la tensione tra l'essere
eterno e l'essere mortale, vive cioè i contrari che costituiscono l'alienazione
divina. L'uomo è la coscienza del Dio alienato. Per questo la coscienza
dell'uomo è essenzialmente una coscienza mistica, una coscienza protesa tra due
termini assoluti: l'Eternità e il Nulla" [Baget Bozzo, 1984, pp. 27 ss.].
La mistica rende possibile l'esperienza di ciò che è
l'uomo, nella sua dimensione infinita, quella che emerge nella coscienza della
solitudine, della finitezza incompiuta e aperta.
La coscienza mistica, in quanto coscienza della
Risurrezione come possibilità, è appunto esperienza di fede poiché essa vive il
tempo quotidiano sotto la presenza contestuale dei due termini di riferimento
ma senza poter mai possedere la necessità della loro fusione. La radice della
coscienza mistica è il dolore di esistere: aver posto come proprio oggetto i
due termini contrari la conduce alla lacerazione dolorosa tra di essi.
V
La coscienza nell'occultismo,
nell'esoterismo,
nella New Age e nell'indagine sul
paranormale
Il presupposto dell'occultismo è che esista una natura
nascosta, "al di là della comune coscienza conoscitiva", un qualcosa
di "essenziale-vitale che si vorrebbe vivo e invece sembra perduto" .
Ecco come si arriva a teorizzare la coscienza occulta.
Guglielmo Marino nell'opera omonima raccoglie
numerosissime riflessioni sulla coscienza (di alterno valore e interesse),
soprattutto nel "Quinto convegno: psicosintesi e coscienza", nel
quale cita lo Zen e le teorie di Roberto Assagioli e molto altro, con uno stile
a tratti oracolare, ermetico ed esotico. È impossibile dar conto compiutamente
delle teorie di Marino. Cito solo alcuni spunti: "Quando la psichiatria
sarà diventata psicologia applicata scopriremo con stupore un mondo che ora non
possiamo neppure supporre o immaginare. Riusciremo a diventare talmente padroni
di tutte le parti del nostro cervello che, praticamente, il novanta per cento
delle invenzioni del progresso odierno resteranno (sic) inutilizzate,
perché il pensiero telepatico è più rapido del telegramma. Il giorno in cui
l'uomo potrà disintegrare il suo corpo, non avrà più bisogno di aerei a
reazione" (p. 205-206).
Passa in rassegna alcuni autori (Freud non va bene, Jung
sì, Adler poteva fare meglio, Marx è una stortura mentale, eccetera) per
arrivare - molte pagine dopo - a un "Colloquio con la propria
coscienza" (Ottavo convegno, Commedia in un atto; personaggi: Ognuno;
Personalità; e Coscienza, sorella di Personalità) nel complesso divertente per
il suo valore scenico più che filosofico (pp. 259-271).
Nel libro può capitare di incontrare affermazioni
interessanti come "Amore è la più alta coscienza interiore cui l'uomo
possa adire" (p. 207) sui cui in seguito però l'autore si sofferma a
elucubrare.
In questo breve viaggio tra testi esoterici ho incontrato
un altro testo che dimostra l'importanza del concetto di coscienza
nell'esoterismo: La coscienza parla di Ramesh S. Balsekar , già
direttore generale della Bank of India, in seguito discepolo di un guru
(Nisargadatta Maharaj) che lo ha portato "a sperimentare dopo pochi mesi
la Grazie della comprensione intuitiva".
Il messaggio di base dell'opera (stesa sotto forma di
dialogo, come nella tradizione sapienziale), è che "Tutto ciò che c'è, è
coscienza" con la postilla che "la comprensione intuitiva di queste
poche parole è quel che segna la differenza tra il cercatore e il jnani
, tra chi desidera raggiungere l'illuminazione e chi può arrendersi totalmente
a Cio che È, al gioco (lila) dell'universo, avendo compreso che non
esiste un 'io' che possa illuminarsi".
Un passo tra gli altri, dà l'idea del tono apodittico, del
retroterra e della direzione teorica: "Dio e la Coscienza sono la stessa
cosa? Se non lo sono qual è la differenza?" domanda l'interlocutore di
Balsekar. Risposta "Nessuna. Non c'è differenza. Sono solo nomi. Assoluto,
Nirvana, Dio, Soggetto eterno, Consapevolezza… comunque tu voglia
chiamarlo. Tutto ciò che c'è, è Quello. Il nome che gli dai è irrilevante
" (p. 249).
Sul problema della natura della coscienza, del suo
rapporto con Dio, tornerò più avanti tentando ragionamenti con ben altri
strumenti analitici e prudenza metodologica. Balsekar è uno dei tanti autori
che più scrive (270 pagine) e meno convince.
È importante considerare le critiche che gli scienziati
muovono agli "indagatori del paranormale". Una bella sintesi di tali
obiezioni, oltre al libro ben noto di Piero Angela, Viaggio nel paranormale,
, è un sito del Comitato italiano per il Controllo delle Affermazioni nel
Paranormale (CICAP) che mette a confronto i risultati della moderna scienza del
cervello con le affermazioni del paranormale, tra cui le percezioni
extra-sensoriali e la coscienza pre-natale e post-mortem. Mette in guardia cioè
dal credere facilmente in "menti universali", reincarnazioni, al
famoso "90 per cento inutilizzato della mente" che definisce
"ruota di scorta cerebrale, che fa la fortuna di psicologi poco seri e dei
loro corsi di auto-miglioramento; che va bene come metafora del fatto che pochi
di noi sfruttano pienamente i propri talenti, ma non deve servire come rifugio
per gli occultisti che cercano una base neurale per il miracoloso".
Contro il fraintendimento dell'occultismo si schiera V.
Frankl. All'idea che esista un sapere inconscio di Dio, che porterebbe a un
inconscio onnisciente o perlomeno capace di conoscere più dell'Io stesso, egli
oppone che in realtà non soltanto l'"inconscio non è divino, ma neppure
gli appartiene alcun attributo divino" [Frankl, 1990, p. 74]. Tale fraintendimento
si deve a una metafisica precipitosa e niente affatto ponderata.
La coscienza nell'esoterismo
Il concetto di coscienza ha un grande spazio
nell'esoterismo, che si basa tutto sul tentativo si ampliare la conoscenza
interiore.
Cito uno solo tra gli innumerabili materiali che si
possono reperire sull'utilizzazione esoterica della coscienza. È un sito
Internet: "Vita universale. La via interiore per adempiere passo dopo
passo i (sic) Dieci Comandamenti e il Discorso della Montagna" .
"La via Interiore ci aiuta a riprendere coscienza del
nostro vero essere, dell'eredità divina insita in ognuno di noi. Possiamo così
liberarci da aggressività, da odio, inimicizia, dall'abitudine di giudicare gli
altri". Così appoggiandosi - in modo sfacciato e fondamentalista - al nome
di Gesù Cristo viene proposto il "Il decorso della Via Interiore" che
deve iniziare con "corso preparatorio per ampliare la coscienza secondo il
cristianesimo delle origini, nella consapevolezza di Geù, il Cristo […] a questo
corso seguono i i quattro livelli della scuola intensiva": il livello
dell'Ordine, il livello della Volontà, il livello della Sapienza, il livello
della Serietà. Segue la pubblicità al libro La vita Interiore ("pagg
1390"…), alle musi-cassette con esercizi di interiorizzazione e musica per
il sottofondo e videocassetta con le spiegazioni per gli esercizi. Il tutto con
prezzi per in vista e offerte (senza sconto)!
Tutto ciò ricorda molto il fenomeno della New Age, che ha
attraversato non solo la musica, le arti, la filosofia e la religione, ma anche
il mondo dell'indagine scientifica (o parascientifica).
Sullo sconfinato e indelimitabile mondo della New Age
rimando direttamente allo studio recentissimo, completo e efficacissimo di M.
Introvigne, il massimo studioso italiano di nuove religioni, New Age &
Next Age .
La psicologia transpersonale
"La psicologia transpersonale si è imposta come una
"quarta forza", dopo la psicanalisi freudiana, il comportamentismo e
la psicologia dinamica. La prospettiva inaugurata da questa recente tendenza
vuole ampliare gli orizzonti della ricerca psicologica, estendendo l'esperienza
della vita interiore a nuove dimensioni di conoscenza, come la creatività, la
saggezza orientale e occidentale e un benessere psicofisico e olistico".
Così definisce la "psicologia transpersonale" un testo introduttivo
di Arturo De Luca .
I nuovi modelli di conoscenza e di esperienza sono quelli
del cosiddetto "Potenziale umano" , una gamma assai vasta di capacità
che normalmente noi non usiamo nella vita quotidiana.
"La psicologia transpersonale si è sviluppata sulla
scia della psicologia umanistica, una tendenza moderna che negli anno '60 aprì
nuovi orizzonti della crescita personale, grazie all'opera di Abraham Maslow e
Anthony J. Suitch" [De Luca, 1995, p. 3].
De Luca ricorda anche Ken Wilber e il suo "modello
dello spettro", "un tentativo ambizioso di unificare tutti gli stati
di coscienza e i livelli di realtà in una concezione in cui i contrari
coincidono" (p. 5).
Come lavora la psicologia transpersonale? "Affianca
al lavora analitico e di scandaglio della sfera inconscia personale un nuovo
approccio alle cosiddette regioni transpersonali […] Sono utilizzate
varie tecniche: la visualizzazione, il dialogo con le "maschere"
dell'anima e con i nostri conflitti, l'immersione nei sogni e nelle fantasie,
la drammatizzazione. Tutte queste procedure devono essere, tuttavia, unificate
in vista del raggiungimento di una sintesi finale: l'espansione della
consapevolezza" (p. 7).
Ciò fa pensare che in ciò vi sia un fondamento di pretesa
neo-gnostica.
Attualmente sono numerosissimi i siti web dedicati a
questa disciplina, alcuni con un'aura di serietà, altri molto meno credibili.
Livelli di coscienza e "Human Consciousness
Project"
Uno interessante, giusto per fare un esempio, è quello
dell'Associazione Italiana di Psicologia Transpersonale (Aipt) dove viene
citato lo "Human Consciousness Project", "uno sforzo
volto a realizzare una mappa dei vari stadi della coscienza umana, che
testimoni come lo stato dell'io ordinario, considerato sano e normale, è in
realtà distorto e illusorio, e come ogni essere umano possieda nel suo
inconscio potenzialità di conoscenza e di virtù che, attualizzate nella
coscienza, cambiano l'idea separata e limitata di sé, del mondo e del
significato dell'esistenza, producendo benessere e azione retta" (si veda
http://www.mclink.it/assoc/aipt/ page22.html).
Tale progetto viene detto - senza modestia - più
importante dello "Human Genome Project". Dico senza modestia,
non perché non creda anch'io che l'analisi della psiche e dell'interiorità sia
più importante dell'aspetto biologico dell'uomo (e forse in ciò sono
inconsapevole erede della metafisica), ma perché gli strumenti di analisi e di
studio proposti dalla psicologia transpersonale e tutto l'ambiente in cui
pesca, a cui viene proposto e da cui viene propugnato, ha spesso poco di
scientifico, razionale, sistematico.
"Lo stato di coscienza vigile o lucido è
caratterizzato dalla consapevolezza di sé e dall'attenzione all'ambiente, che
sono le strutture fondamentali della vita psichica [...] qualsiasi disturbo
[...] influisce su tali strutture, determinando un arretramento ai livelli
inferiori della vita psichica con manifestazioni che vanno dal torpore allo
stato crepuscolare, confusionale o comatoso" [DPL, 1992, p. 235].
Tali differenziazioni in livelli di vita psichica o stati
di coscienza, sono alla base delle discipline di meditazione di origine
orientale e ad esse alle recenti ricerche neurologiche si riallaccia la psicologia
transpersonale.
Nel libro di De Luca c'è un elenco esplicito degli stati
di coscienza, che sarebbero ventiquattro: fantasticherie (rêverie),
meditazione, contemplazione, concentrazione, ispirazione, intuizione,
attivazione, stato ipnagogico, stato ipnoide, ipnosi, sonnambulismo,
assopimento, sonno, risveglio naturale, risveglio brusco, perdita della
cognizione di spazio e tempo, scissione della coscienza, sub-personalità,
distacco dal corpo, ansia e angoscia, stato di shock, regressione, estasi,
esperienza mistica [De Luca, 1995, pp. 86-88].
Ciò è molto interessante ed è encomiabile lo sforzo di
analizzare il più precisamente possibile la vita della coscienza in tutte le
sue fasi e dimensioni, purtroppo nell'opera in questione le definizioni sono
vaghe, danno per acquisiti fenomeni che in realtà sono discussi e non si
utilizza e indica bibliografia scientifica.
L'IPNOSI REGRESSIVA E LA METEMPSICOSI
Siamo già vissuti nel passato? Vivremo ancora nel futuro?
Da migliaia di anni gli uomini si pongono queste domande, senza però trovare
una risposta sicura. Sottoposti a ipnosi, molti individui "regrediscono
nel passato", ricordando - o credendo di ricordare - esperienze di vite
precedenti, spesso appartenenti a epoche lontanissime. Chi rivista il proprio
passato prova nostalgia e rimpianto, ma, tornato al presente, si scopre più
incline ad accettarlo.
Raymond A. Moody jr., che ha insegnato etica, logica e
filosofia del linguaggio e si è poi laureato in medicina, dedicando anni di
ricerca e indagine alle cosiddette "esperienze di pre-morte" (NDE, Near
Death Experencies) , ammette che "non è facile trarre conclusioni
scientifiche dalla mia ricerca, per sua stessa natura aneddotica, in quanto si
basa sui racconti della gente. Spesso non c'è modo di verificare questi
racconti … Così come, in definitiva, non c'è modo di spiegarsi tutti i fattori
psicologici connessi: fino a che punto queste cognizioni sono "roba
vecchia" relegata nel subcosciente? Fino a che punto si tratta di problemi
reconditi che si manifestano come vite precedenti? Veramente non c'è modo di
stabilirlo.
Non esistono prove per la reincarnazione
Dopo tanto lavoro mi piacerebbe poter segnalare qualcosa
che davvero costituisse la prova della reincarnazione, ma non sono in grado di
fare una simile istanza. Come sottolineano i filosofi del metodo scientifico:
"le istanze straordinarie richiedono prove straordinarie". Per quanto
riguarda la reincarnazione, nessuno finora ha fornito prove del genere.
La mente umana è allettata dall'idea della reincarnazione,
perché questa conferisce alla vita il senso di un processo conoscitivo" .
"Tuttavia, proprio perché ci piacerebbe credere nella
reincarnazione, dobbiamo essere estremamente guardinghi di fronte alle
osservazioni e ai dati che ci vengono riferiti e che apparentemente appoggiano
questa fede" [Moody, 1990, p. 208].
"Come medico non posso né escludere né sostenere che
le regressioni siano la prova della reincarnazione. Ci sono psicologi e
psichiatri convinti che si tratti di drammi creati dalla mente per affrontare
meglio certe situazioni. A me piace definirlo il linguaggio dell'inconscio. Un
linguaggio che tratta i problemi metaforicamente, invece che direttamente. Per
creare queste metafore la mente attinge a tutte le risorse possibili"
[Moody, 1990, p. 93].
Le spiegazioni possibili della regressione al passato
"Secondo me, le esperienze regressive sono più
comprensibili se viste nel contesto della realizzazione del processo storico da
parte dell'umanità". Alla domanda: "Se si facesse un processo per
stabilire se esista o meno la reincarnazione, cosa concluderebbe la giuria?
Credo che il verdetto sarebbe a favore della reincarnazione: in fondo, queste
esperienze regressive sono troppo stupefacenti per poter avere una spiegazione
diversa. A livello personale, l'esperienza ha alterato il mio modo di
pensare" [Moody, 1990, pp. 209-210].
Tra le possibili spiegazioni della regressione al passato
Moody ricorda la criptomesia: "il ricordo di qualcosa che era
sepolto nei recessi della memoria - quando riaffiorano, questi dati emergono
come prodotti creativi, i che significa che ci sembrano creati da noi, e non
ripescati dalla memoria" (pp. 155 ss.); la xenoglossia: "ci
sono persone che, sottoposte a ipnosi regressiva, cominciano a parlare una
lingua "diversa", a volte si tratta di una lingua comprensibile, come
il francese o il tedesco, altre volte è una lingua che non si capisce, anzi non
è affatto una lingua ma soltanto un"farfugliamento"" (pp. 160
ss.); e anche il sonno ipnagogico: la condizione mentale a metà tra la
veglia e il sonno, "noto come stato di dormiveglia, nel quale non si è né
addormentati né del tutto svegli e nel quale si hanno allucinazioni che sono
diverse dai sogni, l'individuo osserva ciò che il subconscio gli somministra,
ma è tuttavia consapevole della realtà che lo circonda" (pp. 162 ss.),
tale condizione viene detta anche dei cosiddetti "sogni lucidi" .
"Troviamo in questi tre fenomeni la spiegazione di
tutte le regressioni al passato? Credo di no. Per quanto contribuiscano a
spiegare certe caratteristiche insite nella ricerca di una vita precedente,
questi fenomeni sono presenti in minima percentuale, in tali esperienze"
[Moody, 1990, p. 165].
"Oggi la comunità medica è pronta ad ammettere che
c'è una gran parte del rapporto mente/corpo che ci sfugge, e ad ammettere
l'esistenza di una quantità di fenomeni affascinanti, dei quali solo alcuni
possono essere riprodotti in laboratorio", quali, per esempio, le
stimmate, la "morte da malocchio" e le ipnosi regressive [Moody,
1990, pp. 73 ss.].
Sul rapporto tra regressione e terapia mentale Moody
specifica "I terapeuti della regressione che credono nella reincarnazione
hanno una visione metafisica della malattia", inoltre il fatto che
"la regressione al passato riesca a curare certi malesseri fisici fa
pensare che si tratti piuttosto di disturbi mentali del tipo delle fobie"
[Moody, 1990, pp. 76-77].
Sul rapporto tra indagine sulla reincarnazione e pensiero
cristiano Moody è consapevole delle difficoltà, ma "la reincarnazione non
intende affatto farsi beffe del pensiero cristiano che parla di ricompensa e
castigo, di paradiso e d'inferno. Piuttosto, la reincarnazione offre la
speranza del rinnovamento in una vita successiva imperniata sulla convinzione
che ogni inizio venga da una fine, e così via. Tale convinzione è l'antitesi
del pensiero cristiano [Moody, 1990, pp. 121-122].
parte seconda
Neuroscienze e neurofilosofia:
le prospettive della ricerca
VI
La dimensione della coscienza
nelle neuroscienze
Che cosa significa essere dotati di una mente, essere
consapevoli, avere coscienza di sé? A tali questioni fino a poco tempo fa erano
soliti rispondere i filosofi. Gli scienziati di fronte al problema della mente,
si ritraevano timorosi. Ma l’avvento delle neuroscienze sembra aver capovolto
tale prospettiva. Negli ultimi anni le conoscenze sul cervello hanno cominciato
ad accumularsi a un ritmo esplosivo
Si sono moltiplicate ricerche - per citarne alcune - sul
metabolismo del cervello [cfr Pellegri, 1999]; sulla sindrome di Williams [cfr
Lenhoff – Wang –Greenber – Bellugi, 1999] che sembrano poter aiutare a capire
il modo in cui è organizzato il cervello ma permetteranno anche di vedere sotto
una nuova luce i "ritardati mentali"; sulle sinapsi e i meccanismi
della memoria (cfr D’Angelo – Rossi – Taglietti, 1999); sulla memoria e
l’apprendimento delle lingue [cfr Aglioti – Fabbro, 1999]; sui disturbi del
comportamento (attention-deficit hyperactivity disorder, ADHD) e le
disfunzioni genetiche dello sviluppo di circuiti cerebrali [cfr Barkley, 1999].
Ed è tale oggi la mole di ricerche, pubblicazioni, teorie
(più o meno abbozzate), risultati sperimentali da mettere in difficoltà - anche
se le propsettive di buona riuscita perciò stesso si fanno maggiori - chi
voglia raccapezzarsi sulle direzioni che il mondo scinetifico sta prendendo
nella sua ricerca di comprensione del funzionamentero del cervello e della
mente umani. Un'idea delle varie posizioni, della ocmplessità degli studi e
della inconciliabilità di alcune posizioni si può avere dalla lettura
dell'antologia di brevi saggi sulla nerurobiologia, sull'intelligenza
artificale e la scienza della mente L'automa spirituale. Menti cervelli e
computer a cura di G. Giorello e P. Strata .
L’oggetto più complicato dell’universo, il nostro
cervello, comincia a svelare i propri segreti.
Ma è scientificamente possibile comprendere la mente?
Uno dei maggiori esperti al mondo è Geral Edelman, premio
Nobel per la fisiologia e la medicina (1972), direttore del Neurosciences
Institute di San Diego, che propone un approccio pluridisciplinare al problema
del mentale, che coinvolge la fisica, l’embriologia, la morfologia, la
medicina, la psicologia.
L’epoca moderna ha rimosso la mente dalla natura
"La biologia … rientra nel campo della ricerca quando
vi rientrano le altre scienze. Ma essa non può certo dispensarci da un
approccio filosofico al problema del mentale.
Con Galileo, e poi con Cartesio, l’epoca moderna ha
rimosso la mente dalla natura. La fisica matematizzante di Galileo si è
sviluppata dalla critica dell’eredità aristotelica e ha concepito l’universo
come un oggetto descrivibile e osservabile. … Persino oggi, dopo la rivoluzione
einsteiniana e l’avvento della meccanica quantistica, la procedura galileiana
non è stata spazzata via. [Ma] per fare fisica non si deve tener conto della
coscienza e delle motivazioni dell’osservatore. La mente resta ben lontana
dalla natura. … È nel corso del XX secolo che la fisiologia e la psicologia
hanno riportato la mente nella natura. E soltanto recentemente, con l’avvento
delle neuroscienze, il cervello e la mente dell’uomo sembrano disvelarsi nella
loro estrema complessità, biologica, psicologia e filosofica" [Carli, 1997,
pp. 8-9].
La scienza del cervello, e della mente, deve
necessariamente stabilire delle relazioni con la filosofia. … [Ma] non tutte le
teorie filosofiche riguardanti la mente sono condivisibili dalla prospettiva
scientifica … ipotesi di tipo trascendentale o metafisico, poiché i fatti
stessi della biologia ci portano a concludere che la mente non è
trascendentale. E non sono condivisibili le teorie funzionaliste, che
sostengono uno stretto parallelismo tra la mente e il programma di un
calcolatore".
Osservando le ramificazioni dei neuroni e i loro
collegamenti sinaptici "si deve riconoscere che l’organizzazione e il
funzionamento del cervello umano non hanno nulla a che vedere con una centrale
telefonica, né con un calcolatore. … Il computer non è un modello del cervello.
… Tuttavia il computer è senza dubbio uno strumento essenziale per fornire una
modellizzazione del cervello. … Darwin 4, la versione più recente del
nostro robot, … è in grado di compiere operazioni caratteristiche della
coscienza primaria, e nulla ci impedisce di pensare che in futuro potremo
produrre una coscienza superiore artificiale.
"Se consideriamo il nostro cervello secondo la teoria
di Darwin lo possiamo vedere come l’evoluzione di una popolazione di neuroni,
nella quale sopravvivono quelli che sono in grado di adattarsi ai cambiamenti
dell’ambiente esterno. … I fatti stanno oltre i modelli meccanici della mente,
e la questione centrale della mente e della coscienza sta nell’individualità:
ogni individuo ha una propria storia, unica e irripetibile, e questa non può
essere simulata da un calcolatore" [Carli, 1997, p. 9].
"La nascita di nuove discipline scientifiche e lo
sviluppo di nuove visioni del mondo sono spesso dovuti e determinati
dall’utilizzo di nuove tecniche sperimentali. Le concezioni del cervello e
della mente dipendono dalle nostre capacità di esaminare sperimentalmente il
sistema nervoso, e la neuroscienza è un ottimo esempio di questa dialettica tra
esperimento e teoria. … Le tecniche tradizionali di elettrofisiologia
permettono di studiare l’attività contemporanea solo di un numero molto
limitato di neuroni. Per questa ragione, la messa a punto di tecniche
sperimentali per l’analisi di reti nervose, note in letteratura come tecniche
di multisite recording o registrazione simultanea, costituisce una delle
frontiere più affascinanti nell’evoluzione delle neuroscienze. … Lo sviluppo di
moderni fotosensori e di opportune sonde chimiche permette … di ottenere
immagini che caratterizzano l’attività elettrica di molti neuroni
simultaneamente e che consentono di studiare la dinamica di una rete
nervosa" [Canepari – Torre, 1996, p. 82].
Tali tecniche sono note come tecniche di imaging, e
l’idea di applicarle alle dinamica dei processi biologici risale agli anni
settanta.
"Alla luce delle nuove prospettive di indagine
sperimentale … si possono prevedere, nel prossimo futuro, significativi
progressi nella nostra comprensione di come il cervello funzioni e come nozioni
astratte possano risultare rilevanti per le neuroscienze" [Canepari –
Torre, 1996, p. 87].
Lo stesso ottimismo è condiviso da altri ricercatori
"Non è eccessivamente ottimistico ritenere che nei prossimi anni potremo
chiarire del tutto uno tra gli enigmi più difficili e affascinanti della
moderna scienza della mente e del cervello": il perché ci sia la
lateralizzazione nei vertebrati, come si sia sviluppata, differenziata tra le
varie razze animali e che funzioni abbia [Vallortigara – Bisazza, 1997, p. 63].
La Tomografia ad Emissione di Positroni (PET)
Fornisco una breve descrizione delle tecniche diagnostiche
e di ricerca citate nell'introduzione: la PET, la RMN e gli sviluppi
dell'elettroencefalografia (microelettrodi).
Nella Tomografia ad Emissione di Positroni (Positron
emission tomography) vengono somministrati al paziente dei composti
fisiologici contenenti opportuni isotopi radioattivi, che non sono dannosi
perché la loro radioattività è minima e di brevissima durata.
In questi composti alcuni atomi sono stati sostituiti
("marcatura") dai corrispondenti isotopi radioattivi, dotati di molto
breve emivita (periodo di dimezzamento della quantità nell'organismo e della
durata dell'emissione radioattiva), di qualche minuto al massimo.
"Gli atomi radioattivi utilizzati nella PET decadono
emettendo positroni ... [i quali] perdono la loro energia cinetica dopo breve
percorso e raggiunto lo stato di riposo interagiscono con gli elettroni. Le due
particelle vengono annullate e la loro massa viene convertita in due
fotoni" [Gregory, EOM, 1991, p. 400 ss.] che vengono rilevati da una
apposita apparecchiatura (che registra solo i fotoni emessi contemporaneamente)
e indicano la presenza della sostanza marcata radioattivamente.
Con una apparecchiatura computerizzata e tomografica - che
produce immagini del corpo per singoli strati o a tre dimensioni - si mette in
evidenza la localizzazione esatta della porzione cerebrale in funzione dove la
sostanza marcata è concentrata.
E ciò perché le aree attive consumano una maggiore
quantità di sangue, ossigeno e sostanze nutritive ed energetiche, tra le quali
quelle marcate che emettono positroni.
Il risultato è che si ottiene una correlazione
anatomo-funzionale tra una determinata attività del soggetto e l'area cerebrale
dove essa si svolge.
La Risonanza Magnetica Nucleare (RMN)
È chiamata anche Risonanza Magnetica Funzionale. Con essa,
come con la semplice TAC (Tomografia Assiale Computerizzata) ma con migliore
definizione, si ottengono solo immagini morfologiche e non dinamiche, ovvero
senza informazioni sull'attività.
Solo con la PET, che si avvale delle nozioni anatomiche e
radiologiche delle altre tecniche di indagine cerebrale (TAC, RNM), si può
oggi, avviare una efficace mappatura del cervello.
Un esempio, che pare scherzoso eppure è estremamente
serio, è quello di un'indagine recentemente conclusa sul solletico. Si voleva
capire per capire come mai se veniamo solleticati nei punti sensibili (pianta
dei piedi o ascelle), non riusciamo a trattenere le risate mentre
l'autosolletico non fuinziona. Sara Jayne Blakemore, neuroscienziata
dell'Università di Londra ha sottoposto al solletico di piume, dita meccaniche
e altri strumenti per quattro giorni sei soggetti (volontari…) tenendoli
collegati a una macchina per la Risonanza Magnetica. La conclusione è che il
solletico autoinflitto non funziona perché manca l'elemento sorpresa: la parte
del cervello che cura il coordinamento dei movimenti (il cervelletto) manda un
messaggio a quella dove risiede la sensibilità al solletico (la corteccia
frontale) chiedendo - in parole povere - di ignorare lo stimolo .
L'Elettroencefalogramma
L'elettroencefalogramma invece registra l'attività
elettrica cerebrale, traducendola in onde su un grafico, che sono
caratteristiche di attività spontanee o stimolate, di stati di coscienza, di
certe condizioni patologiche, ma senza distinguere pensieri o emozioni, o aree
interessate.
Si esegue appliacndo degli elettrodi sul cuoio capelluto e
derivandone le correnti cerebrali; oppure a cranio aperto, cogliendo
l'opportunità di interventi neurochirurgici, inserendo dei microelettrodi nelle
zone cerebrali delle quali si intende determinare la funzione. Stimolandole con
opportune correnti se ne osserva l'effetto e si può anche lavorare con la
collaborazione del paziente sveglio, sfruttando la insensibilità dolorifica -
apparentemente paradossale - del tessuto cerebrale.
"Una gran parte delle nostre attività quotidiane
viene svolta senza una consapevolezza diretta: anzi, sarebbe poco economico
dover riflettere su processi che possono essere trattati in modo automatico,
una volta che sono diventati compiti di routine come, ad esempio la costrizione
pupillare o l'accomodazione del cristallino dell'occhio. Il cervello può
riservarsi soltanto una piccola parte delle sue capacità per quelle attività
che costituiscono globalmente il materiale per l'analisi introspettiva dei
processi mentali. Lo studio dei pazienti con "visione cieca", o della
memoria inconscia, o dei pazienti con cervello diviso, non soltanto evidenzia
quali aspetti della percezione, della memoria e di altre attività
"cognitive" possono essere separate dalla coscienza, ma può anche
permettere un'analisi empirica dei confini funzionali di queste aree"
[Gregory, EOM, 1991, p. 330].
La corteccia cerebrale (3 millimetri di spessore) contiene
almeno 100 miliardi di cellule nervose. Il resto dei due emisferi è composto da
filamenti (assoni o cilindrassi) che si sviluppano tra la gestazione del feto e
i primi due anni di vita.
La cosa interessante è che il 90% dei collegamenti tra le
cellule si sviluppa dopo la nascita, entro i primi due anni di vita, proprio
nel periodo in cui si sviluppa, prende forma, si evidenzia la coscienza.
Dunque ancora una volta appare l'inseparabile fondazione
neuronale della coscienza.
Per il suo sviluppo concorre naturalmente il corredo
genetico - e per questo tutte le coscienze si assomigliano e tutti gli uomini
ce l'hanno, intesa in senso etico o estetico o cognitivo - ma anche l'ambiente
- e per questo ogni coscienza è infinitamente diversa dalle altre.
Un senso primordiale
"Si comincia a capire che la metafora (inadeguata)
del cervello come elaboratore d'informazione dev'essere allargata a dismisura:
è il corpo (anzi il corpo immerso nel suo più ampio contesto, anzi è l'universo
stesso) a essere un elaboratore d'informazione. Non solo, ma è anche un
produttore di senso, un senso primordiale, radicato nelle particelle e
negli atomi della fisica, nelle pietre, nei pianeti, nelle molecole e negli
organi della biologia; un senso che precedette di molto la coscienza, un senso
che attendeva fin dall'inizio dei tempi di essere salutato dall'intelligenza
del mondo quando fosse diventata consapevole, attraverso l'evoluzione,
nell'uomo. Con l'uomo, il mondo estroflette un occhio e si guarda" [Longo,
1999, p. 33].
Ciò ricorda molto il pensiero di T. De Chardin, che ho
citato precedentemente.
La storia della civiltà (in particolare della scienza)
occidentale si può interpretare come un lungo tentativo di tradurre
l'intelligenza e il senso preconsci, primordiali e radicati nel corpo nelle forme
e nel linguaggio dell'intelligenza e del senso riflessi, consapevoli e, da
ultimo, razionali e distaccati. E ciò che accade a livello filogenetico e
storico accade a livello ontogenetico: venuto al mondo con un corpo che sa
adoperare, solo più tardi l'individuo ne comprende e ne regola l'uso in modo
riflesso e cosciente; ma il corpo aveva il suo senso e uso prima che fosse
avvertito. Lo stesso accade per la capacità linguistica: perché la grammatica
segue l'uso della lingua; e via dicendo" [Longo, 1999, p. 33].
La corteccia cerebrale come costante biologica nei
mammiferi
La corteccia cerebrale umana è uno strato di cellule
nervose e tessuti di sostegno ripiegato in profonde circonvoluzioni. Insieme
alle sue fibre di connessione, essa occupa buona parte del volume dell'encefalo
umano. Tutti i mammiferi ne sono provvisti e il suo spessore è una delle grandi
costanti biologiche. Per esempio, sebbene l'elefante abbia un cervello
centinaia di volte più grande di quello di un topo, la sua corteccia è solo tre
volte più spessa [Glickstein, 1992, p. 62].
Oggi sappiamo che le diverse aree corticali differiscono
per struttura e funzione, ma per raggiungere l'attuale livello di conoscenze
sono stati necessari secoli e secoli di ricerche, e molto è ancora da scoprire.
Comprendere la storia di tale evoluzione può aiutare a trovare una soluzione ai
problemi tuttora aperti.
"L'unità base, il neurone, non differisce nelle sue
proprietà essenziali nelle forme animali più semplici e nelle più complesse: è
dotato della capacità di andare incontro a modifiche reversibili sotto la
pressioni di fattori esterni" [Levi Montalcini, 1999, p. 45].
Però "Le specie inferiori possono imparare ad
associare solo una ristretta gamma di stimoli; gli esseri umani sono in grado
di associare qualsiasi cosa percepiscano" [Levi Montalcini, 1999, p. 58].
Un esempio di pseudoscienza: la frenologia
La storia della scienza e delle ricerche neurologiche ci
insegna come sia facile cadere nelle tentazione del riduzionismo, della
semplificazione indebita e fuorviante. Per esempio la vicenda della frenologia,
che fu fondata da Franz Gall e dai suoi discepoli, agli inizi del XIX secolo.
Gall riteneva che le differenze nello sviluppo della
corteccia influissero sulla conformazione del cranio. In altri termini era
convinto che se a una certa regione del cervello corrispondeva una determinata
facoltà, ne doveva conseguire un ampliamento dell’area corticale in questione
nonché la formazione di una prominenza nella parte corrispondente del cranio.
La frenologia era una pseudoscienza che, per un primitivo
grossolano tentativo di localizzare delle funzioni cerebrali, dallo studio
delle prominenze craniche pretendeva di risalire al carattere, alle capacità
intellettive e alla personalità di un individuo [Glickstein, 1992, p. 64].
RODOLFO LLINAS E IL FUNZIONAMENTO DELLA COSCIENZA
Rodolfo Llinas, neuroscienziato colombiano, che lavora
nella New York University, ha consacrato gran parte della propria vita alla
comprensione del funzionamento del cervello.
Ha studiato le popolazioni neuronali, cioè i vari tipi di
neuroni e i loro raggruppamenti, e attualmente si interessa al funzionamento
globale del cervello umano, studiando i meccanismi della coscienza e il modo in
cui il cervello simula la realtà esterna. Ha collaborato con la filosofa
Patricia Churchland.
In I segreti della mente ha sintetizzato il
risultato delle sue ricerche sulla natura neurobiologica e sul funzionamento
della coscienza.
Un evento cognitivo unico
In assenza di attività cerebrale - esordisce Llinas -
ciascuno di noi è morto. Il cervello è, dunque, l'elemento essenziale della
nostra esistenza, noi siamo il nostro cervello.
Ma qual è la storia naturale del cervello? Come è
diventato ciò che è? La biologia ci insegna che i soli organismi viventi che
hanno sviluppato un cervello o comunque un sisterma nervoso, anche se
rudimentale, sono quelli dotati di attività motoria. Perfino il verme più
semplice, o l'invertebrato marino più primitivo, ha un sistema nervoso. D'altro
canto, le piante non hanno sistema nervoso. E infatti le piante non hanno
neppure attività di locomozione.
Ma perché c'è bisogno di un cervello per muoversi
attivamente? Perché noi siamo costretti a spostarci all'interno di una
rappresentazione del mondo esteriore. Non possiamo andare alla cieca, sarebbe
troppo pericoloso. Occorre avere un'idea di quello che c'è nell'ambiente. Il
cervello si è sviluppato per consentire agli animali di muoversi.
La struttura del sistema nervoso dei vertebrati è lo
stessa per tutti: un cervello, un midollo spinale, dei nervi per attivare i
muscoli e degli altri nervi per trasmettere le sensazioni. I vertebrati
superiori hanno, oltre al tatto, il senso della vista, dell'udito, del gusto e
dell'olfatto. Questi sistemi sono tutti molto simili.
Il problema centrale del funzionamento del cervello è come
facciamo a raccogliere tanti frammenti della realtà per generare un'unica
immagine. Alcune parti del sistema analizzano il colore, altre analizzano il
movimento, e altre ancora analizzano il peso o la sensazione tattile. Come sono
integrate tutte queste sensazioni in un'unica immagine della realtà? Come
facciamo a costruire un evento cognitivo unico?
E' un problema, perché quando si esamina il cervello si
scopre che i diversi sistemi sensoriali sono situati in aree differenti del
cervello ed esiste una grande distanza che separa le diverse aree. Questa
distanza è enorme, rispetto alle minuscole dimensioni di un neurone. Come
fanno, quindi, questi neuroni a trovare questi altri neuroni, per costruire, a
partire dalle varie percezioni sensoriali, un singolo evento?
Le sensazioni e il dialogo fra talamo e corteccia
Dall'occhio il nervo ottico si dirige per prima cosa verso
un centro, chiamato talamo; quindi, dal talamo, le fibre ottiche raggiungono la
corteccia visiva. Analogamente per l'orecchio, il segnale uditivo passa per
prima cosa attraverso il talamo e quindi raggiunge la corteccia uditiva.
Al problema di come facciano i neuroni della corteccia
uditiva a collegarsi ai neuroni della corteccia visiva, per informarmi, ad
esempio, che ho un uccellino sulla mano? L'immagine è qui e il suono è lì. Come
fanno il suono e l'immagine a trovarsi? Secondo Llinas ci sono solo due
possibilità.
La prima possibilità è che il suono attraversi la
corteccia per trovare l'immagine, o viceversa, ma questo è molto difficile,
perché fra due aree della corteccia ci sono delle connessioni che vanno in
tutte le direzioni. Allora, qual è l'altra possibilità?
Se si cambia punto di vista si vede che il talamo si trova
al centro e si può disegnare la corteccia come un grande cerchio che gli gira
attorno. Le proiezioni del talamo verso la corteccia sono, allora, come i raggi
di una ruota di bicicletta. L'immagine e il suono sono entrambe sulla corteccia,
si può andare direttamente dall'immagine al suono, o viceversa, e le due
percezioni forse si incontreranno da qualche parte sulla corteccia. Questa era
la nostra prima possibilità.
Oppure, se il talamo è al centro, come nel centro di una
ruota, la percezione del suono va verso la corteccia e così l'immagine e la
corteccia rinvierà questi segnali al talamo. Quindi le sensazioni non sono
collegate né a livello della corteccia, né a livello del talamo, bensì in
questo dialogo fra il talamo e la corteccia: dal talamo alla corteccia, quindi
di nuovo al talamo, e poi alla corteccia, e poi al talamo, e così via.
Una cosa interessante a questo proposito è che la distanza
fra talamo e corteccia visiva, fra talamo e corteccia uditiva, fra talamo e
corteccia somato-sensoriale (quella responsabile della sensazione tattile sulla
mia mano) è la stessa in tutti e tre i casi. Quindi è possibile che uno stesso
evento attivi simultaneamente queste tre regioni corticali.
Ciò permette anche di immaginare un processo di
collegamento delle sensazioni che sia temporale piuttosto che spaziale, poiché
le informazioni situate in diverse aree sensoriali della corteccia possono
arrivare simultaneamente al talamo. Se si sente, ascolta e vede un oggetto
simultaneamente, lo si percepisce come un unico oggetto.
La coscienza da 2 a 40 Hz
Come può l'attività dei neuroni essere sincronizzata?
I neuroni hanno un corpo cellulare, un assone e dei
dendriti. Se con un elettrodo si misura l'attività elettrica dei neuroni del
talamo, si osserva che essi scaricano regolarmente a una frequenza variabile a
seconda del nostro stato di coscienza. Ad esempio, quando questi neuroni
scaricano a una frequenza di 2 Hz, ossia a 2 cicli al secondo, noi siamo
addormentati, cioè non siamo coscienti.
Quando torniamo coscienti, la frequenza con cui i neuroni
del talamo scaricano aumenta fino a 40 Hz, cioè a un ritmo di 40 cicli al
secondo. Ciò significa che questi neuroni scaricano tutti alla stessa frequenza
e quindi in modo sincrono.
Se un neurone collegato a una regione corticale attiva
alcuni neuroni a una frequenza di 40 Hz e un altro neurone collegato a un'altra
regione corticale e ne attiva alcuni neuroni alla stessa frequenza di 40 Hz,
queste due regioni corticali diventano coordinate nel tempo, cioè i loro
neuroni scaricano simultaneamente a una frequenza di 40 Hz.
In queste condizioni, collegare le diverse sensazioni
consiste nell'individuare i neuroni delle aree corticali che scaricano
simultaneamente. E', quindi, molto facile per il nostro cervello riconoscere le
aree corticali sincrone, ed è proprio questa sincronizzazione temporale a
produrre la percezione. "E' la sincronizzazione a produrre la coerenza".
Un'altra nozione importante è che il talamo è composto da
due parti. Oltre a essere interessante, questa divisione rende le cose più
facili da comprendere: c'è una regione centrale, detta
"non-specifica", e una regione periferica, detta
"specifica".
Sistema "specifico" e "non specifico"
Il sistema non-specifico riceve gli stimoli provenienti
dal tronco cerebrale, che controlla il sonno, in generale le funzioni corporee,
gli impulsi e probabilmente anche la capacità di attenzione. Il sistema
non-specifico ha funzioni rivolte verso l'interno: è il "sentire" del
corpo.
Il sistema specifico guarda, invece, al mondo esterno e
riceve dei segnali grezzi dall'occhio, dall'orecchio, dalla mano e dalle altre
periferiche sensoriali.
Ecco dunque - spiega Llinas - come funziona il sistema
talamo-corticale: ciascun neurone del talamo specifico si connette a un neurone
corticale e scarica a 40 Hz. Però i potenziali d'azione sinaptici così
trasmessi a questo dendrite non sono sufficienti per fare scaricare il neurone
corticale. Ci vorrebbe un altro stimolo oltre al primo. Infatti anche nella
regione del talamo non-specifico c'è un neurone che si connette allo stesso
dendrite del neurone corticale e che scarica anch'esso a una frequenza di 40
Hz. Quando i segnali dei neuroni specifico e non-specifico si sommano, il
neurone corticale viene attivato e può quindi scaricare,cioè rinviare il
segnale verso il talamo. Il movimento di "avanti-e-indietro" tra il
talamo e la corteccia è causato dalla combinazione delle attività specifiche e
non-specifiche.
Se subiamo un danno a livello del talamo specifico
coinvolto nella visione, diventiamo ciechi, ma non sordi, perché solo una parte
del cervello è danneggiata: quella che va dal talamo alla corteccia visiva.
Analogamente, se abbiamo una lesione nella regione che collega il talamo alla
corteccia uditiva, non possiamo più sentire, ma continuiamo a vedere. Vi è,
dunque, una separazione tra le sensazioni.
Al contrario, se subiamo un danno nel sistema
non-specifico, perdiamo in un colpo solo la vista, l'udito e il tatto. Il sistema
non-specifico è, quindi, indispensabile al buon funzionamento del sistema
specifico.
Dunque: il sistema specifico rappresenta il contenuto del
mondo, i colori, le forme, i movimenti, i suoni, invece il sistema
non-specifico rappresenta, invece, ciò che siamo, ciò che facciamo del
contenuto, in altre parole è il contesto. L'uno osserva il mondo, l'altro
osserva noi stessi. Il dialogo fra il contenuto e il contesto non è altro che
la coscienza.
I quanti di coscienza
Come può questo sistema collegare tutte le diverse
sensazioni prodotte da un oggetto, come per esempio un uccello? L'immagine
dell'uccello, la sensazione tattile delle zampe sulla mano e il canto stanno in
parti diverse della corteccia.
Le zampe producono uno stimolo da 40 Hz, il suono produce
un altro stimolo da 40 Hz e l'immagine produce un terzo stimolo da 40 Hz. Sono
tre stimolazioni specifiche ma il cervello non vede ancora l'uccello perché
manca la stimolazione non-specifica.
È la stimolazione non-specifica che produce un movimento a
onda nella corteccia. Se i neuroni delle tre parti, quella tattile, quella
uditiva e quella visiva, scaricano insieme allora si combinano a significare
"uccello"
Gli assoni del nucleo non-specifico, invece di andare
verso punti specifici della corteccia, si irradiano in tutte le direzioni. E i
suoi neuroni sono organizzati in modo tale da formare un circuito. Esso
funziona per 12,5 millisecondi, e poi ricomincia. L'onda si ripete
regolarmente, e ogni volta tutto quello che nella corteccia oscilla a 40 Hz lo
si ritrova lì. Ogni onda è un quanto di coscienza.
L'informazione entra, in modo continuo, per esempio dalla
retina, e viene subito suddivisa in pacchetti. Questi pacchetti sono quanti di
coscienza.
È come quando si va al cinerma: si vede qualcuno a cavallo,
o che spara con una pistola, non lo si percepisce come un insieme di immagini,
ma come un evento continuo. Ciò significa che il cervello non è in grado di
distinguere tra una sequenza di immagini e un evento continuo.
Pertanto quando si innesca un'onda, si ottiene
un'immagine, se ne innesca un'altra e si ottiene un'altra immagine e così via..
La coscienza, la cognizione, è un insieme di immagini che si succedono le une
alle altre come in un film. I sistemi specifico e non-specifico mettono in
comunicazione tutte le parti del cervello: dal talamo alla corteccia, dalla
corteccia al talamo, con un'onda ogni 12,5 millisecondi.
Il cervello è un emulatore della realtà
All'interno del cervello ci sono molti miliardi di
neuroni. E' un numero enorme, eppure, il sistema funziona come un singolo
evento funzionale: la coscienza.
Ed è interessante che in realtà sono molto pochi i neruoni
dedicati alla vista, all'udito o al tatto. La maggior parte dei neuroni del
cervello non si occupa del mondo esterno. Queste e altre considerazioni ci
fanno ritenere che il cervello sia, fondamentalmente, un sistema chiuso.
"I colori - spiega Llinas - in realtà non esistono
indipendentemente da noi, ma sono l'interpretazione che il nostro cervello fa
di particolari informazioni provenienti dalla retina. Anche i suoni non
esistono, ma sono la nostra interpretazione delle vibrazioni dell'aria.
Analogamente, il tatto è qualcosa che noi produciamo in seguito alla
deformazione della pelle.
Tutto questo ci dice che il nostro cervello è un emulatore
della realtà, qualcosa che si è evoluto nel tempo per "imitare"
ciò che esiste al di fuori di noi, o, in altre parole, per costruire una
storia. Ma gli elementi di questa storia esistono da prima della nostra
nascita, poiché nessuno ci insegna a vedere i colori, né a sentire il dolore o
le altre sensazioni. Queste facoltà nascono con noi, proprio come il naso, le
orecchie e il corpo. Noi siamo come una coscienza equipaggiata con un sistema
di sensazioni! Il nostro cervello è, dunque, un emulatore che genera una realtà
e che ne verifica l'affidabilità servendosi delle sensazioni" [R. Llinas, I
segreti della mente, 1998].
HERBERT SIMON: LA MENTE, LA RICERCA E IL COMPUTER
Herbert Simon, oltre a essere un economista, è uno
studioso di scienze politiche, un esperto di scienze dell'informazione e uno
psicologo. Il filo di congiunzione tra tutte le sue ricerche è stato
l'interesse per i processi decisionali e di risoluzione di problemi nell'uomo.
Ha inventato e sviluppato la teoria della "razionalità limitata", che
rimette in discussione la teoria economica tradizionale, secondo la quale i
soggetti economici prendono decisioni in modo "ottimale". Per questo
studio nel 1978 gli è stato conferito il premio Nobel l'economia. È stato tra i
primi a comprendere che i computer possono essere utilizzati per simulare i
processi di pensiero umano.
I suoi studi (dedicati, peraltro, a molti fenomeni
cognitivi diversi, tra cui la risoluzione di problemi, la memoria,
l'apprendimento, il ragionamento dell'esperto e del principiante, e il
ragionamento e la creatività scientifici) hanno rivoluzionato i fondamenti
della psicologia cognitiva. Essi sono all'origine di un nuovo modo di simulare
ciò che accade nella mente dell'uomo: la cosiddetta "rivoluzione cognitiva".
Si è occupato ampiamente dunque delle analogie e le
differenze fra intelligenza del computer e umana e della psicologia della
risoluzione di problemi e natura dell'expertise.
"Il nostro cervello contiene miliardi di neuroni, e
un numero ancora più grande di connessioni tra neuroni. E' un oggetto molto
complesso. Il nostro obiettivo è, in fondo, lo stesso di tutte le discipline
scientifiche: prendere qualcosa che non capiamo e dirci: "Ci deve pur
essere un ordine, un'organizzazione interna in assenza della quale questa cosa
non potrebbe funzionare: cerchiamo di scoprirla". Quando scopriremo il suo
ordine nascosto, allora questa cosa ci sembrerà più semplice; non meno
stupefacente, né meno efficace di prima, ma semplicemente più comprensibile.
Questo è lo scopo delle nostre ricerche sulla mente e sul cervello".
Mente e cervello
Secondo Simon "i primi computer utilizzavano schede
perforate come supporto dell'informazione. Questo ci fornisce una metafora
delle relazioni fra la mente e il cervello: il cervello è un oggetto fisico,
come il cartone della scheda, la mente, invece, elabora delle forme, che sono
dei simboli e che corrispondono alla configurazione dei fori sulla scheda. La
mente è, dunque, rappresentata dalla configurazione dei fori, e non è possibile
avere quella configurazione in assenza della scheda di cartone.
Llinas è di parere diverso: "Io sono il mio corpo, i
miei pensieri, i miei movimenti, i quali sono a loro volta il risultato del
lavoro del mio cervello. Io sono il mio cervello al lavoro.
Quando mi addormento, e non sto sognando, io scompaio, non
esisto più. Il cervello sta facendo qualcos'altro. Non sta producendo me.
Quando sogno, produce me usando una certa frequenza. Quando sono sveglio,
utilizza un'altra frequenza".
Non vi è, dunque, dicotomia fra mente e cervello.
"Non posso nemmeno immaginare che cosa potrebbe significare la parola
"mente" in assenza del cervello, poiché la mente è uno stato
funzionale del cervello.
Credo che siccome la gente non vuole morire, perché la
vita è meravigliosa, perché essere coscienti è meraviglioso, si è davvero
tentati di separare la mente dal corpo. Così si può negoziare: se saremo stati
buoni, andremo là, se saremo stati cattivi, andremo da un'altra parte".
Ma c'è un problema più fondamentale: c'è relativamente
poca differenza tra un corpo vivo e un corpo morto.
"Si può credere che ciò che noi siamo non si trovi
all'interno del nostro corpo, perché, vivo o morto, il nostro corpo resta lo
stesso. Ma questa impressione denota, in realtà, solo l'incapacità degli esseri
umani di distinguere fra un corpo morto e uno vivo. Storicamente questo senso
di inadeguatezza ha impregnato la nostra cultura, la nostra religione e la
nostra letteratura, e per questo motivo ragioniamo in questo modo" [H.
Simon, I segreti della mente, 1998].
La mente e il computer
Qualcuno come Herbert Simon (e tutti i cosiddettti
"computazionisti") ritiene che il computer rappresenti in modo
abbastanza utile il funzionamento del cervello: "tutto mi porta a credere
che la mente funzioni come un computer, che sia un tipo particolare di
computer, fatto di materiali diversi dai computer che conosciamo". La
maggior parte dei computer attuali ha un'architettura centralizzata, l'architettura
di Von Neumann, che funziona in modo prevalentemente seriale. La maggior parte
delle attività umane non può essere facilmente suddivisa in un'esecuzione
parallela, poiché generalmente alcune cose devono essere fatte prima di altre,
per cui l'esecuzione in serie è spesso più appropriata. Malgrado l'entusiasmo
di molti per i computer altamente paralleli, la progettazione di queste
macchine è stata molto lunga e ci sono molti esempi di computer paralleli che
non funzionano per niente.
Perciò io credo (se non si tiene conto del parallelismo di
funzionamento della retina e degli organi di senso), che il computer di Von
Neumann non sia, in prima battuta, una cattiva approssimazione
dell'architettura complessiva del cervello umano".
Ma molti altri studiosi sono di parere esattamente
opposto.
Secondo Rodney Brooks: "ci siamo lasciati fuorviare
un po' troppo dalla metafora del computer, che distingue tra software e
hardware. I sistemi biologici non fanno questa distinzione: la funzione dipende
fortemente dall'ambiente in cui essa ha luogo.
Questa metafora del cervello-macchina è davvero
pericolosa. C'è stata un'epoca in cui il cervello era considerato un sistema
idrodinamico, poi è diventato una macchina a vapore. Quando ero bambino lo si
paragonava a una centrale telefonica! Poi è diventato un computer, poi un
computer che opera in parallelo. Tra un po' diventerà internet!
La tecnologia più complessa viene sempre presa in prestito
per l'ultima metafora del cervello, e non c'è mai fine. In futuro vedremo
sorgere altre metafore in parallelo all'emergere di tecnologie sempre più
complesse e affascinanti".
James McClelland ritiene che "il cervello è una
macchina che non assomiglia a nessun computer. Se è vero che un computer
tradizionale può simulare i ragionamenti logici e algoritmici, io non credo che
i processi di pensiero umani siano sempre logici e algoritmici. Penso, al
contrario, che questi processi siano spesso paralleli, interattivi, sintetici e
costruttivi. Tutto ciò fà sì che, anche se il cervello è una macchina, esso sia
molto diverso da un computer qualunque". Della stessa opinione è Jean
Pierre Changeux.
E Llinas aggiunge: "i computer non possiedono
un'immagine di se stessi, non sono concepiti per avere un'immagine di se
stessi, sono fatti solo per elaborare i dati che noi diamo loro, per
immagazzinarli e modificarli. Essi comprendono la sintassi, ma non la
semantica, dal momento che non capiscono quello che fanno. E non comprendono
quello che fanno, poiché la loro esistenza non dipende da ciò" [I
segreti della mente, 1998].
Il pericolo del "riduzionismo"
Un tema assai dibattuto è se la comprensione della mente e
la descrizione dei suoi meccanismi possano, in un modo o nell'altro, ridurre il
valore dell'unicità della specie umana.
"Quando Darwin stabilì che tutti gli organismi
avevano avuto origine da un'unica forma di vita - ironizza Herbert Simon -
molti hanno pensato che ciò avrebbe sminuito gli esseri umani. Negli Stati
Uniti ci sono ancora persone che la pensano così, ma la maggior parte di noi
non è angustiata dall'idea di avere un antenato in comune con le altre creature
viventi di questo mondo. L'errore sta nel credere che l'unicità sia importante
e che essa sia la fonte del valore dell'uomo. Dovremmo pensare meno alla nostra
unicità e più al fatto che facciamo parte di un universo molto più grande, di
un pianeta molto più vasto, che accoglie molte altre creature".
E aggiunge: "Credo che comprendere noi stessi, e
apprezzare i meravigliosi meccanismi che ci animano, non porti in alcun caso a
sminuire la nostra umanità".
Sui rischi del "riduzionismo" Jean-Pierre
Changeux: scrive che "la conoscenza viene sempre acquisita eliminando e
riducendo, in modo da isolare uno specifico oggetto di studio. In questo senso,
ogni impresa scientifica è necessariamente "riduzionista". Ma non amo
che la parola "riduzionismo" sia usata negativamente per descrivere
gli studi sul cervello, poiché ogni tentativo di comprendere il mondo, ogni
impresa scientifica, comporta l'eliminazione e la semplificazione di informazioni,
al fine di scoprire nuove strutture"
Stephen Kosslyn si definisce "materialista
non-riduzionista". "E' un po' come in architettura: non si può
parlare di archi, o confrontare lo stile georgiano con un altro stile parlando
solamente di mattoni, pietre e malta. E non si può costruire un grattacielo
solo con i mattoni. Non si potrà sostituire un discorso sulle rappresentazioni,
sugli obiettivi, sui desideri eccetera, con un discorso sui neuroni, i flussi
ionici eccetera. Non credo sia neppure possibile pensare che un giorno saremo
in grado di sostituire un discorso sulla mente con un discorso sul
cervello".
ALCUNE QUESTIONI APERTE
Il mio cervello può comprendermi?
Dalla bella opera multidmediale I segreti della mente
traggo molto spunti per considerare alcune questioni aperte.
Secondo Herbert Simon comprendere il funzionamento teorico
della mente, come si fa in psicologia, ci consente di conoscere i meccanismi
del sé. Però "per capire perché io faccio quello che faccio in ogni dato
momento, avrei bisogno di avere molti più dati di quelli che possiedo sui
contenuti esatti della mia mente, e supporre che essi possano essere
completamente accessibili. Anche se avessi una buona teoria della mente, non
credo che sarei in grado di comprendere il mio proprio comportamento, non più
di quanto un fisico che possiede una buona teoria sui metalli possa prevedere
se un pezzo d'acciaio sia sul punto di rompersi. Sono elaborazioni a livelli di
precisione differenti, le quali richiedono insiemi di dati completamente
diversi per funzionare".
Esiste il libero arbitrio?
Sempre secondo Herbert Simon l'esistenza del libero
arbitrio dipende dal modo in cui lo si definisce. "Certe persone lo
spiegano con l'indeterminazione quantica, il fatto che le equazioni
quantistiche di Heisenberg lascino un certo margine di incertezza. Io non vedo
il rapporto con il libero arbitrio: libero arbitrio vorrebbe, dunque, dire che
i miei atomi possono competere con me? Dov'è allora il mio libero arbitrio? Forse
nel fatto che sono un prodotto del caso? Ma questo non è il libero arbitrio!
Il libero arbitrio è il fatto che "io" possiedo
certe caratteristiche e un certo numero di conoscenze che riflettono le
esperienze della mia vita, io costituisco un "sistema" in grado di
scegliere a ogni dato momento tra più soluzioni, come ad esempio parlare o
tacere. Io trovo sempre più facile parlare che non starmene zitto! E' questo il
mio libero arbitrio; il fatto che "io", ossia l'insieme degli
elementi presenti nella mia testa, possa fare questa scelta. E questa scelta è
il risultato dell'esecuzione di un certo numero di "regole" che non
sono né dettate dal caso, né il prodotto dell'indeterminazione quantica. Ecco,
questa è la mia idea del libero arbitrio".
Secondo Jean-Pierre Changeux: "il nostro cervello
contiene una sorta di spazio per la coscienza, nel quale vengono prese le
decisioni. Queste decisioni derivano da una sintesi fra i segnali provenienti
dal mondo esterno e dalla memoria, in relazione al "sé". Di
conseguenza, vengono compiute delle scelte.
"Se è questo ciò che si dice libero arbitrio, allora
sì, sono d'accordo che esista. L'espressione "libero arbitrio" può
avere diversi significati. Mi piace la definizione di Spinoza: "Gli esseri
umani pensano di essere liberi fino a quando sono inconsapevoli delle cause che
li determinano"".
Anche secondo James McClelland i comportamenti umani siano
totalmente non-deterministici e sono il risultato dell'incontro spontaneo di un
gran numero di influenze esterne con le condizioni psicologiche del momento,e
il risultato può essere un comportamento quasi completamente casuale.
"Perciò, ci può venire un'idea in qualsiasi momento, per delle ragioni non
determinate: era una delle tante idee possibili in quel momento, ma la sua
gestazione non era preordinata, né completamente predeterminata a priori.
Ciò non implica tanto un libero arbitrio, quanto una mancanza
di determinismo".
La mente è ben adattata all'ambiente esterno?
Anche questo è un tema su cui attualmente si dibatte grandemente.
Quanto è davvero evoluta e abile la mente umana?
Per alcuni la mente umana è straordinariamente ben
adattata al suo ambiente e in ogni momento trova il modo per avere a
disposizione le informazioni più appropriate. "Quando si deve prendere una
decisione, generalmente la scelta operata dalla mente è la più saggia
possibile. I limiti che talvolta si osservano nel pensiero umano sono, di
fatto, il risultato della concentrazione della mente sulle informazioni più
rilevanti ai fini della decisione da prendere" (John Anderson).
Secondo Eric Kandel, "anche se i nostri processi
mentali sono altamente imperfetti, noi possediamo delle capacità straordinarie,
che non possono che suscitare stupore e ammirazione. Sono convinto che queste
capacità continueranno a stupirci per i prossimi cinquanta o cento anni".
Il cervello riesce a costruirsi una rappresentazione degli
oggetti e della loro posizione nello spazio visivo esterno a partire da segnali
variabili e poco definiti, e lo fa in un modo al quale nessun sistema robotico
attuale può nemmeno avvicinarsi. Inoltre, riesce a calcolare traiettorie nello
spazio, che ci permettono di evitare di investire oggetti e di provocare
catastrofi quando ci muoviamo nell'ambiente.
Noi risolviamo in continuazione problemi di equilibrio
dinamico e di interpretazione di segnali ambigui: problemi che ogni informatico
ben conosce come quasi del tutto irrisolvibili con le tecnologie attuali.
"Perciò dobbiamo tenere bene a mente queste nostre
capacità, che, nonostante le molte imperfezioni, sarebbe utile considerare come
delle procedure potenzialmente ottimali".
Fino a che punto quello che noi oggi chiediamo alla nostra
mente corrisponde a ciò per cui essa si è evoluta?
Secondo David Servan-Schreiber è notevole che, dal punto
di vista mentale, cognitivo ed emozionale, i nostri antenati avessero una vita
radicalmente diversa dalla nostra, ma che, ciò nondimeno, oggi l'uomo si trova
a dover fare i conti con lo stesso bagaglio anatomico e biologico di cui
disponevano loro.
"E' assolutamente improbabile che il nostro cervello
si sia evoluto per ricordare i numeri telefonici; esso non è mai stato
sottoposto a pressioni evolutive per ottenere prestazioni di questo tipo.
Questa necessità ha avuto inizio circa settant'anni fa, ed è davvero improbabile
che abbia esercitato un impatto di alcun tipo sui nostri geni. E' chiaro che il
nostro cervello, proprio come i ritmi e le modalità del nostro sonno, si è
evoluto per far fronte a circostanze molto diverse da quelle a cui noi lo
esponiamo oggi.
Ma allora, il cervello è o non è un organo altamente
adattato? Naturalmente lo è, ma non per il tipo di società in cui stiamo
vivendo. Possiamo constatare questi difetti e le conseguenze di questa
discrepanza nella nostra vita di tutti i giorni, dal jetlag all'insonnia
cronica, all'iperstimolazione esercitata su di noi dalla televisione e dalla
pubblicità, ai comportamenti sociali anormali derivanti dalla promiscuità delle
interazioni umane e dalla rottura delle leggi tradizionali di organizzazione
gerarchica e sociale".
Rodney Brooks, invece, pensa che l'intelligenza umana,
essendo il prodotto di un'evoluzione in un ambiente complesso, popolato di
numerose altre specie e moltissimi esseri umani, non è assolutamente ottimale.
Essa è semplicemente il risultato di adattamenti locali a condizioni
specifiche, incontrate nel corso dell'evoluzione.
"Sono certo che esistono cose a cui l'uomo è
completamente incapace di pensare, su cui non sa ragionare e che non arriva a
comprendere; cose che forse altre specie, da qualche parte dell'universo, sono
in grado di fare e capire. Viceversa, queste creature potrebbero magari vivere
in società tecnologiche, ma essere del tutto incapaci di pensare a certe cose
su cui noi invece riflettiamo normalmente. Come potrebbe anche darsi che certe
specie siano migliori di noi sotto tutti i punti di vista".
È comunque un problema difficile da affrontare perché
"nulla è davvero ottimale se si definiscono le alternative in modo
sufficientemente ampio" (Herbert Simon). "Il nostro è un mondo molto
complicato, di cui la nostra coscienza vede solo una minima parte. Perfino in
questa stanza, per la maggior parte del tempo noi ignoriamo gran parte degli
oggetti presenti.
Noi non ottimizziamo niente, semplicemente decidiamo cosa
occorre fare e troviamo il modo per farlo. A volte troviamo delle buone
soluzioni, a volte delle soluzioni meno buone, e cerchiamo di adottare le
migliori. Ma la parola "optimum" in questa nostra vita non ha molto
senso.
Quel che possiamo dire, a proposito della mente, è che
essa è ben adattata nella misura in cui, finora, l'evoluzione è riuscita a
renderla tale. E questo ha consentito, nel bene e nel male, a sei o sette
miliardi di persone di vivere simultaneamente sulla faccia della Terra, almeno
fino ad ora. Perciò, in questo senso, la storia della mente è la storia di
un successo. D'altra parte, se si misura questo successo considerando la
velocità alla quale gli esseri umani si uccidono fra loro, beh, allora si
potrebbero trovare dei margini di miglioramento. In verità, non saprei proprio
con quale criterio valutare questo successo".
JEAN-PIERRE CHANGEAUX: INFANZIA E MATURITÀ DEL CERVELLO
Jean-Pierre Changeux ha compiuto i suoi studi in scienze
naturali alla Scuola Normale Superiore di Parigi e ha conseguito il dottorato
di ricerca sotto la guida del premio Nobel Jacques Monod. Dal 1975 è titolare
della cattedra di comunicazione cellulare presso il Collegio di Francia di
Parigi e dirige il laboratorio di neurologia molecolare all'Istituto Pasteur.
Ha scittto L'uomo neurone
Le sue ricerche stabiliscono un legame fra la scienza di
base, la biologia e la medicina, contribuendo alla comprensione dei meccanismi
fondamentali della vita. Esse hanno, inoltre, importanti implicazioni per le
applicazioni cliniche e la farmacologia. E' stato il primo scienziato a isolare
il recettore di un neurotrasmettitore. Inoltre, in collaborazione con Antoine
Dranchin, ha dimostrato come la rete di neuroni del cervello si sviluppi
moltiplicando le connessioni tra le cellule nervose e successivamente
eliminando, per "selezione selettiva", quelle ridondanti [I
segreti della mente, 1998].
L'infanzia del cervello
A uno stadio precoce dello sviluppo cerebrale appare una
struttura primitiva: la placca neurale. Essa si ripiega rapidamente su se
stessa formando una sorta di tubo, che in seguito andrà a suddividersi in più
vescicole. Durante questa fase, chiamata "neurulazione", le cellule
che sono i precursori dei futuri neuroni si moltiplicano in modo estremamente
veloce. Vi è, dunque, una prima fase, nella quale si assiste all'acquisizione
della forma generale del cervello, e alla proliferazione e al differenziamento
delle cellule nervose.
Aprendo un cranio, vi si trova dentro un cervello. Il
cervello è un organo che pesa circa 1,4 kg e che presenta molte
circonvoluzioni, pressoché identiche in ogni essere umano. In tutti gli esseri
umani il cervello ha una forma molto simile, caratteristica della nostra
specie. È, invece, molto diverso da quello degli orangutan, degli scimpanzé e
dei macachi.
Il cervello è una macchina estremamente complessa, di
fronte alla quale non possiamo che stupirci. Il nostro cervello non viene
costruito, come un computer, assemblando circuiti prefissati. Piuttosto, si
sviluppa progressivamente, passando attraverso diversi stadi. Durante questo
processo di sviluppo, il cervello umano è in costante interazione con il mondo
esterno e tale interazione consente l'imprinting culturale: l'acquisizione del
linguaggio, l'apprendimento di regole di condotta e di sistemi morali e
simbolici.
Lo sviluppo delle connessioni neuronali
Una delle caratteristiche delle cellule nervose è che, una
volta formate, non si dividono più. Non appena si differenziano, al termine
della divisione cellulare, esse cominciano a sviluppare connessioni l'una con
l'altra. Queste connessioni non sono lineari: somigliano piuttosto a piccoli
alberi, i cui rami crescono progressivamente durante lo sviluppo del cervello.
Di conseguenza, la rete delle connessioni diventa sempre più complessa nel
corso dello sviluppo, in particolare dopo l'infanzia.
Lo sviluppo delle connessioni neurali è graduale.
L'estremità distale di una connessione in via di sviluppo ha forma conica. E'
una sorta di ricognitore che consente alla connessione in crescita di trovare
la propria strada. Questa struttura è chiamata "cono di crescita".
Mentre si muove, il cono di crescita "tasta" le cellule in cui si
imbatte, finché non raggiunge e riconosce le proprie cellule bersaglio. Dopo
averle riconosciute, il cono si connette ad esse formando una sinapsi.
Le caratteristiche delle cellule bersaglio di un dato
neurone sono in prevalenza determinate a livello genetico. Ad esempio, i
motoneuroni del midollo spinale si connettono sempre a specifici muscoli
scheletrici. Può, tuttavia, succedere che un dato neurone riconosca più cellule
bersaglio di uno stesso tipo. Vi è, dunque, un certo grado sulla destinazione
finale di questo neurone.
Per risolvere questo problema, il neurone si connette a un
numero di cellule superiore rispetto a quello necessario nello stadio adulto.
Esiste, pertanto, un primo stadio nel quale vengono stabilite troppe
connessioni, seguito da uno stadio successivo nel quale le connessioni
superflue vengono eliminate. In altre parole, la rete delle connessioni
dell'adulto viene "stabilizzata" e le sinapsi che
"sopravvivono" sono selezionate durante lo sviluppo.
L'esperienza seleziona le connessioni
Una volta che il cono di crescita ha raggiunto la sua
destinazione e che si sono formate diverse connessioni sinaptiche funzionali,
alcune di queste connessioni devono essere selettivamente eliminate.
Tale eliminazione è controllata dall'attività del sistema
nervoso durante lo sviluppo. Ad esempio, se si paralizza un muscolo, il numero
di sinapsi stabilite sulle sue fibre non diminuisce. Se, però, si stimola il
motoneurone di tale muscolo, alcune di quelle sinapsi scompaiono. Questo
dimostra che l'eliminazione delle sinapsi è controllata dall'attività del
sistema nervoso durante lo sviluppo del cervello.
Un fenomeno simile si verifica durante lo sviluppo del
sistema visivo. Ogni qualvolta viene alterata la competizione fra i due occhi,
alcune sinapsi che nello sviluppo normale avrebbero dovuto essere eliminate
sono, invece, mantenute. Questo accade soprattutto nel caso in cui uno dei due
occhi è cieco. Pertanto, se l'occhio ha attività anormale o nulla la funzione
dei neuroni visivi risulta alterata.
Anche dopo la nascita continuano a formarsi nuove
connessioni sinaptiche. In effetti, il 90% delle sinapsi della corteccia
cerebrale si instaura tra la nascita e i due anni d'età.
Una conseguenza di questo sviluppo cerebrale prolungato
dopo la nascita è che il cervello di un bambino interagisce con il proprio
ambiente sociale e culturale per un tempo straordinariamente lungo.
Ciò permette molti tipi di interazione. Alla nascita il
bambino comincia a mettersi in relazione con i propri genitori, poi
l'interazione si estende gradualmente ad altri bambini, creando così le prime
relazioni sociali. In questa fase il bambino impara anche a camminare, a
riconoscere i genitori e il proprio ambiente sociale. Si trova immerso nel
linguaggio, che a poco a poco impara a riprodurre egli stesso. Il suo cervello
gradualmente apprende come assegnare simboli alle immagini presenti
nell'ambiente. Impara, inoltre, regole di condotta morale, ed è
possibile che anche il senso estetico si sviluppi in quest'età.
Lo sviluppo continua fino alla morte
Changeaux sostiente che Il cervello non è una struttura
stabile che resta immutata dalla nascita alla morte. Al contrario, si evolve
costantemente. Si forma in età prenatale. Dopo la nascita lo sviluppo continua
con l'apprendimento delle capacità cognitive fondamentali, come il linguaggio e
il senso morale.
Il cervello normale raggiunge la funzionalità ottimale
nell'età adulta. Con l'invecchiamento, tuttavia, alcune capacità, come la
memoria per i nomi, si alterano. Probabilmente tali alterazioni aiutano le
persone anziane a vedere il mondo in un modo più semplice e coerente. Un
possibile beneficio di tale semplificazione nel cervello che invecchia è la
migliore organizzazione di alcuni pensieri e azioni. Pertanto, il cervello
possiede a ogni età capacità appropriate all'interazione con il proprio
ambiente.
Tipi di memoria e acquisizione dei linguaggio
"La memoria non è un sistema unitario, ma piuttosto
un mosaico di sistemi. Nell'ambito della memoria a lungo termine, per esempio,
si distingue la memoria dichiarativa da quella procedurale. La memoria dichiarativa
comprende informazioni riguardanti specifici fatti ed episodi (memoria
episodica) e conoscenze enciclopediche (memoria semantica). Le informazioni
contenute in questo tipo di memoria sono accessibili all'introspezione (memoria
esplicita) e possono essere verbalizzate (recupero consapevole). L'acquisizione
di nuove informazioni di tipo episodico e semantico sembra legata all'ippocampo
e alle porzioni mediali del lobo temporale. Una volta fissate, queste
informazioni vengono depositate nelle aree corticali associative
temporo-parietali.
La capacità di apprendere procedure che richiedono
contemporaneamente un bagaglio di conoscenze e un'abilità motoria come, per
esempio, il gioco del tennis, rappresenta un tipo di memoria che tipicamente si
instaura tramite ripetizioni del compito e non richiede consapevolezza (memoria
implicita). Questo meccanismo implicito è probabilmente anche alla base
dell'apprendimento della lingua materna" [Aglioti – Fabbro, 1999, p. 58].
LA NEUROPSICOLOGIA
Oggi esiste una branca che si avvale delle immense
conoscenze della biologia e soprattutto della neurobiologia mettendole in
collegamento con la ricerca psicologica: si chiama neuropsicologia.
"La neurofisiologia e la psicologia sperimentale sono
diverse per metodo e per oggetto di studio. In comune hanno solo il carattere
rigorosamente scientifico della ricerca che rinuncia a interpretazioni non
verificabili. La neurofisiologia, infatti, è lo studio delle strutture nervose,
mentre la psicologia sperimentale è lo studio del comportamento in condizioni
rigorosamente definite. La loro sintesi è giustificata da due fatti: da un lato
la neurofisiologia dei fenomeni psichici richiede la definizione di situazioni
psicologiche sperimentali, senza le quali non è possibile studiare, da un punto
di vista nerufisiologico, il comportamento; dall'altro la psicologia
sperimentale, che formula leggi sul comportamento a partire dall'osservazione,
trova nella neurofisiologia la possibilità di confrontare le sue ipotesi
strutturali, di modificare i suoi assunti e di concepire nuovi esperimenti.
[...]
Ponendosi ai confini tra il somatico e lo psichico, nel
tentativo di superare questo dualismo che non ha consentito una comprensione
dell'uomo nella sua integrità, la neuropsicologia apre nuovi punti di vista che
pongono alternative e problemi che passano trasversalmente rispetto a quelli
che prima costituivano due settori nettamente separati.
Per questo le sue zone di confine sono anche zone di
apertura verso la medicina psicosomatica nel tentativo di chiarire quei
meccanismi psicobiologici finora letti solo nelle coordinate della psicologia
dinamica; [...] verso la filosofia a cui offre basi sperimentali per la
soluzione di alcuni problemi connessi alle strutture causali, spaziali e
temporali dell'esistenza umana.
Queste aperture sono legittimate dalla persuasione che
l'attività mentale non solo va sempre più studiata con metodi fisiologici
simili a quelli della ricerca biologica, ma anche che essa, per la sua stessa
complessità di sviluppo, impone un'evoluzione dei metodi di ricerca che tengano
continuamente conto del fenomeno comunicativo e di integrazione individuale a
cui i meccanismi fisiologici sottesi approdano. Non più dunque l'organo o
l'organismo in isolamento, ma l'interazione dell'organismo con gli altri
organismi e l'ambiente a partire dal quale si tenta di risalire ai meccanismi
che sono alla base di questo rapporto" [DPL, 1992, pp. 607-608] .
A tale nuova prospettiva appartiene anche la psicobiologia
(A. Meyer) che punta all'"integrazione" dell'organismo, la
psicofarmacologia (nata negli anni '50 ma che peraltro oggi non suscita più i
grandi entusiasmi del primo ventennio di di studi), la psicofisica che studia
il rapporto tra stimoli e risposte, la psicofisiologia che studia le realzioni tra
processi mentali e sistema nervoso, e la psicosomatica.
RITA LEVI MONTALCINI
Rita Levi Montalicini ritiene che "rimane tuttora
insoluto quello che è stato definito il problema numero uno che riguarda
l'uomo: la comprensione delle modalità funzionali della mente .[...]La
conoscenza della funzione del proprio cervello ha affascinato l'uomo sin da
epoche remote della civilità". E, citando Francis Crick, aggiunge
"per l'uomo non esiste ricerca scientifica più importante di quella che ha
per oggetto il suo cervello. La nostra visione dell'universo è astrattamente
legata ad essa. Ancora più che la conoscenza dell'universo è di fondamentale
importanza pervenire alla conoscenza del nostro cervello, che non soltanto è la
chiave di comprensione dell'universo stesso, ma è anche quella per poter
penetrare e capire le modalità di funzione della mente umana".
È dunque necessario "capire il rapporto fra le basi
morfologico-funzionali e le attività mentali" [Levi Montalcini, 1999, p.
122-123]. "Negli ultimi decenni l'approccio al problema cervello-mente è
diventato interdisciplinare e coinvolge la psicologia, l'informatica, la
filosofia, la linguistica e le neuroscienze; esso è rappresentato dalle scienze
cognitive che mirano a fornire un apporto decisivo alla filosofia della mente.
Ma contemporaneamente hanno assunto un ruolo decisivo nei
settori scientifici, tecnologici, economici e dei servizi in tutto i Paesi ad
alto sviluppo culturale e tecnologico. Le loro applicazioni sono in crescita
nel campo educativo, nell'interazione uomo-computer e in genere uomo-artefatti
teconologici, nello sviluppo delle tecnologie dell'informazioone e della
comunicazione, nel prendere decisioni, nel formulare e attuare scelte politiche
e nel campo dei disturbi del comportamento.
L'interesse nei risultati conseguiti è legato sia dal loro
apporto nella conoscenza delle componenti e delle funzioni dei circuiti
cerebrali, sia al fatto che tale conoscenza ha diretta attinenza all'affronto
di grandi problematiche sociali quali la devianza, il disagio psichico diffuso,
la convivenza multietnica, l'handicap, la formazione giovanile" [Levi
Montalcini, 1999, p. 126-127].
LA PSICONEUROIMMUNOLOGIA
Al Congresso "The early human life" organizzato
dall'Istituto di ginecologia e ostetricia dell'Università Cattolica di Roma,
sono state divulgate delle stupefacenti scoperte che confermano l'importanza
delle ricerche in quel terreno di incontro pluridisciplinare che è la
psiconeuroimmunologia.
Gli scienziati hanno confermato che una madre viene
modificata dalla gravidanza in modo permanente dalla presenza del figlio, di
cui "eredita" in certo qual modo alcune caratteristiche e, attraverso
il figlio, anche dal padre del bambino. Che il figlio erediti il cinquanta per
cento del suo patrimonio genetico dalla madre e che nella sua vita uterina
"senta" il mondo esterno attraverso il corpo materno - che quindi
condiziona in modo sostanziale la vita del feto - sono dati di fatto acquisiti.
Sorprende invece apprendere che anche la madre subisce alcune modificazioni a
lungo termine dalla gravidanza proprio dalla "persona" del figlio e,
indirettamente, anche del marito.
"Abbiamo le prove - spiega il professor Salvatore
Mancuso - che, sin dalla quinta settimana di gestazione, vale a dire quando la
donna si accorge di essere incinta, passano dall'embrione alla madre
un'infinità di messaggi, attraverso sostanze chimiche quali ormoni, citochine,
linfochine , neurotrasmettitori eccetera. Tali informazioni servono a far
adattare l'organismo della madre alla presenza del nuovo essere. In più è stato
riscontrato che l'embrione manda anche cellule staminali che, grazie alla
tolleiranza inununitaria della madre verso il figlio, vanno a colonizzare il
midollo materno, da cui non si separano più. Anzi, da qui nascono linfociti per
tutto il resto della vita della donna".
Ma anche prima della quinta settimana, sin dal
concepimento partono messaggi e succede qualcosa di importante a livello
psiconeuroimmunologico. "Anche durante la prima fase di suddivisione
cellulare, quando l'embrione transita attraverso le tube, avvengono
trasmissioni per contatto con i tessuti dove l'embrione si muove. Poi, dopo
l'impianto in utero, il dialogo si fa più intenso per via ematica e cellule e
sostanze chimiche entrano nel circolo sanguigno della madre.
Infine cellule staminali del figlio passano alla madre in
grande quantità sia al momento del parto, naturale o cesareo, sia in caso di
aborto. Queste cellule si impiantano nel midollo della madre e producono
linfociti, che hanno un'origine comune con le cellule del sistema nervoso
centrale, hanno recettori per i neurotrasmettitori e possono far passare
messaggi che il sistema nervoso materno capta.
Si apre un territorio di ricerca stupefacente: sono
informazioni di enorme importanza sulle prime fasi della vita".
Quando si fa distinzione tra embrione e pre-embrione si
compie un errore grossolano: in una fase così iniziale non si può certo parlare
di sistema nervoso centrale, ma i messaggi che vengono mandati dall'embrione alla
madre esprimono manifestazioni proprie della specie umana. E vengono usati
strumenti che sono sostanze chimiche molto specializzate e cellule totipotenti
come le staminali. Occorre ricordare che se mancasse la comunicazione,
l'organismo materno rifiuterebbe l'embrione.
Il dialogo permette l'accoglienza perfetta di un organismo
estraneo per il 50% dal patrimonio genetico della madre. Infatti queste
sostanze chimiche esprimono le esigenze nutrizionali e metaboliche
dell'embrione alla madre e ne provocano una depressione immunitaria e una
tolleranza che permettono l'accoglienza del nuovo essere.
Le cellule staminali sono state trovate nella madre anche
trenta anni dopo il parto. Si può dire che, invece delle quaranta settimane
canoniche, la gravidanza dura tutta la vita della donna.
E deve far riflettere anche circa le ipotesi di utero
"in affítto": in questo caso la madre che ospita l'embrione accoglie
un essere che ha il patrimonio genetico estraneo per il 100% e che la
"rnodifícherà" per il resto della vita. Non abbiamo idea delle
conseguenze a distanza di tali operazioni. E nuove domande si pongono anche per
le tecniche di fecondazione artificiale di tipo eterologo".
Un dialogo a distanza
Stupisce anche l'idea che qualcosa del padre si
trasferisca nella madre.
"Sono territori ancora da esplorare nelle loro
potenzialità. Certo si impone una riflessione su un nuovo modo di intendere la
gravidanza. Si crea indubbiamente un legame stretto anche tra donna e uomo,
perché il figlio ha per un 50% le caratteristiche genetiche del padre. E le
cellule staminali ematopoietiche (che sono state ritrovate anche nel fegato
della madre come epatociti) vanno nel midollo e producono cellule figlie,
linfociti, che sintetizzano citochine, e neurotrasmettitori con la capacità di
dialogare con il sistema nervoso centrale materno.
È un po' come se i "pensieri" del figlio
passassero alla madre persino tanti anni dopo la sua nascita" .
Questo è solo un esempio delle grandi possibilità di
indagine che ha la psiconeuroimmunologia , la scienza che studia i rapporti tra
psiche, cervello e sistema immunitario e con quello ormonale. Tale disciplina,
nata una quindicina di anni fa, ha procurato una grande rivoluzione che
cambierà a fondo la medicina. Ma solo oggi è giunta a risultati davvero
strabilianti.
Nei laboratori di ricerca e nelle università più avanzate
del mondo si è dimostrato in modo chiaro che il cervello è in grado di
influenzare il sistema immunitario e che a sua volta, fatto ancor più
sorprendente, quest'ultimo fa sentire i suoi effetti sul cervello. Sono state
decifrate anche le "parole" di questo dialogo interno al nostro
corpo: si tratta di piccole molecole, dette "neuropeptidi", che
vengono rilasciate e captate sia dalle cellule nervose sia da quelle
immunitarie ed endocrine.
La portata di questa rivoluzione non sta solo nel
rappresentare un punto d'incontro tra le ricerche della medicina organica e
quelle della psicosomatica, ma nell'interpretare in modo nuovo vecchie malattie
(infettive, cardiache, infiammatorie, metaboliche, tumorali) e nel suggerire
più appropriate terapie.
"Il misterioso "salto dalla mente al
corpo", come lo definiva la vecchia psicoanalisi, e che è stato l’assillo
dei filosofi per migliaia di anni; in seguito, della medicina psicosomatica e, in
generale, di tutti coloro che si sono occupati dello studio dei rapporti tra
mente, cervello e funzioni dell’organismo, sembra avviarsi a considerazioni
sempre più stimolanti.
Negli ambienti in cui ci si occupa di
"psiconeuroimmunologia", un nome chilometrico per definire una
disciplina che fa da "ponte" tra territori che apparivano separati,
c’è aria di grande fermento. […] Tenuto conto che non è più possibile parlare
di singola causa nello sviluppo di una malattia – fosse anche l’influenza – gli
studi confermano sempre più il ruolo centrale dello stress emozionale
nel determinare le modificazioni delle risposte immunitarie. […] Il sistema
immunitario non sarà quindi un "secondo cervello", come qualcuno
aveva azzardato, ma è legittimo considerarlo un ulteriore aspetto del sistema
nervoso centrale "disperso" a livello viscerale e macromolecolare
[Garzia, 1997, pp. 22-23].
Specificità e plasticità
S. Rose si è occupato del problema se è la funzione che
determina la via, cioè i collegamenti si sviluppano nel processo che il
soggetto compie attraverso l'interazione con il mondo esterno, o se invece è la
via che determina la funzione, cioè i collegamenti tra neuroni sono
geneticamente determinati [Rose, 1976, p. 193].
Rose dice che sembrerebbe a propri più probabile la prima
ipotesi. Invece esperimenti condotti sugli anfibi, nei quali sono consentiti
dalla capacità delle fibre nervose recise di rigenerarsi, dimostrano come
valida la seconda ipotesi - la via determina la funzione - poiché le fibre
recise ricrescono ritrovando con precisione le loro iniziali connessioni.
Nei mammiferi, le cui fibre nervose non hanno tale
proprietà di ricrescita, non è possibile verificare la determinazione genetica
dello sviluppo delle connessioni. Tuttavia prove indirette e considerazioni
sull'importanza di tali proprietà del sistema nervose, che certamente
dovrebbero essersi conservate nell'evoluzione, fanno propendere per la seconda
ipotesi anche nell'uomo.
Tuttavia secondo Rose la specificità va intesa meno
rigidamente, nel senso che alle vie geneticamente prestabilite può aggiungersi
un enorme numero di ulteriori collegamenti determinatisi con la funzione.
La plasticità è più importante della specificità per il
funzionamento del cervello: permette l'apprendimento e la memoria e conferisce
identità e unicità all'individuo (nei pensieri, nelle emozioni e nei
comportamenti).
"La specificità determina la specie e la
popolazione; la plasticità l'insostituibilità e unicità dell'individuo e
la capacità evolutiva sociale" [Rose, 1976, p. 201]. La specificità crea
l'uguaglianza di due gemelli monoovulari, la plasticità li differenzia.
Plasticità e coscienza sono correlate e aumentano a mano a
mano che si sale nella scala evolutiva e si raggiunge l'uomo, la cui
singolarità è maggiore di quelle del cane o della scimmia.
"Come a livello di comportamento così a livello
neuronale la plasticità deve modificare il cervello in termini di architettura,
biochimismo e risposte elettriche", tutti verificati sperimentalmente con
la registrazione di potenziali elettrici "d'azione",
elettroencefalogramma, evoluzione della struttura microscopica con lo sviluppo
dell'individuo.
Il difficile è determinare la misura dell'influenza
dell'ambiente rispetto a quella della determinazione genetica. E anche come
grandi differenze individuali nel comportamento, intellettuali, morali o
sociali, siano codificate nel cervello sulla base di differenze strutturali
assai piccole da soggetto a soggetto (peso, volume, numero, tipi e disposizione
dei neuroni, eccetera) praticamente identiche [Rose, 1976, p. 202].
E tale problema rimarrà aperto ancora a lungo.
Va però chiarito che polemica eredo-ambientale può essere
superata dalla considerazione che esiste una sorta di terzo elemento, ovvero
che il fattore genetico (nonostante la sua fissità) è dotato anche di un
potenziale di variabilità nella gamma di risposte ai diversi stimoli
ambientali.
Alleanza delle aree cerebrali
Su quale sia la sede della coscienza indagano un po'
tutti.
"I risultati di una recente ricerca pubblicata su
Nature e svolta da un gruppo di ricercatori francesi del Laboratorio di
neuroscienze cognitive dell'ospedale Salpetrière di Parigi, suggeriscono che la
coscienza potrebbe emergere dalla momentanea alleanza di un insieme di
aree cerebrali coinvolte in un determinato compito, da una comune attenzione a
un particolare aspetto della realtà. L'intreccio tra attenzione e coscienza
risulta dai dati di numerose ricerche sull'attenzione selettiva".
In che modo la coscienza si focalizza su un particolare
aspetto della realtà? Secondo numerosi psicologi e scienziati cognitivi
l'attenzione guiderebbe il contenuto della coscienza e la coscienza, a sua
volta, guiderebbe l'attenzione in una sorta di moto circolare. La coscienza,
anziché essere il frutto di un piano ordinato, ordito dalla corteccia frontale,
emergerebbe dal caos, dalle configurazioni che derivano dalle momentanee
alleanze delle parti del cervello coinvolte in una particolare funzione" .
La coscienza comanda il corpo
"Analizzando la coscienza, essa si presenta come
"continua", estesa a tutto il periodo di veglia dell'uomo,
"autoeccitantesi" perché possiede una costante eccitazione interna,
quindi "autonoma" e "indipendente", e "non più
evolvibile" perché più che coscienza di sé non può essere. Tutto ciò pone
l'uomo, possessore di questa coscienza, in un punto (o posto) del suo corpo da
cui vede il corpo come una realtà che gli è esterna anche se vi è dentro,
perché lo usa come un oggetto qualunque della sua esperienza quotidiana e lo
comanda come crede in rapporto a motivazioni sue che possono coincidere, ma il
più delle volte non coincidono affatto, con le emozioni del corpo o le sono
diametralmente opposte […] Il determinismo che domina il corpo le è completamente
estraneo.
Se la coscienza è una realtà biologica cerebrale, la prima
definizione da accettare è che l'uomo non è più un animale; lo era fino alla
scimmia, ma il salto dalla scimmia all'uomo non è più paragonabile ai passaggi
precedenti perché l'uomo nella realtà cerebrale della sua coscienza ha
raggiunto uno stadio evolutivo concettualmente e praticamente antitetico a
quello della scimmia. L'uomo è un "individuo" e questa sua realtà,
conclusa e definitiva, è tale da porlo "fuori" del concetto solito di
specie" .
Il cervello è soggetto o oggetto?
A proposito del dilemma se il cervello, in cui nasce e si
sviluppa la coscienza, debba essere considerato "oggetto" (come il
corpo in cui è contenuto) o "soggetto" (come la sua funzione) Franco De
Carli conclude che si deve "necessariamente" pensare "che
l'evoluzione col cervello ha creato un "corpo" nel corpo in cui è
contenuto. […] In realtà l'uomo è composto, indipendentemente da come appare,
da due corpi, uno dentro l'altro, il primo e più importante formato dal
cervello e dalla sua funzione della coscienza, il secondo da tutto il resto del
corpo con i suoi organi […] L'evoluzione ha finalmente realizzato nell'uomo un
"corpo" che realmente e funzionalmente si è separato dal corpo animale
sia perché lo vede e lo domina, sia perché vive in sé una legge di libertà che
il corpo ignora; è una libertà dal determinismo del corpo, anche se la
coscienza non è libera dal determinismo delle sue motivazioni" .
È POSSIBILE DEFINIRE L'INTELLIGENZA?
All'inizio del '900 si presupponeva che ci fosse
un'intelligenza "generale" riducibile a un solo fattore, il
cosiddetto "fattore g". Il modello si rivelò subito un
"abito" mentale troppo stretto. Negli anni '30 Luois Thurstone, della
Chicago University, postulava un'intelligenza fatta di almeno sette
"vettori" indipendenti (che negli anni '60 salirono a 150). Oggi
Robert Sternberg, della Yale university, propone un'intelligenza triarchica:
fatta di abilità di calcolo, sensibilità al contesto, reattività al nuovo.
Ma la teoria più popolare l'ha elaborata venti anni fa
Howard Gardner, docente di psicologia da Harvard, postulando otto intelligenze
multiple, dalle tradizionali (linguistica, logico-matematica, spaziale) ad
altre radicalmente nuove: cinestesica (eccellenza nella coordinazione dei
movimenti, propria di atleti e danzatori), musicale, emozionale (di due tipi),
naturalistica (un esempio Darwin).
E ora cerca di completare l'opera definendo una nona
intelligenza: quella "esistenziale", propria di filosofi e capi
spirituali, da Kierkegaard al Dalai Lama .
La mente divisa in due
Ma anche se non possediamo una definizione esaustiva e
onnicomprensiva dell'intelligenza siamo ormai ben informati sulle
specializzazioni dei due emisferi cerebrali (che comandano le metà opposte del
corpo) e sulla distribuzione delle varie abilità cognitive.
Appartengono all'emisfero destro le abilità matematica,
musicale e visivo-spaziale (che alimenta il talento artistico) ; all'emisfero
sinistro invece l'abilità razionale e linguistica. Per esempio è stato notato
che, rispetto alla media della popolazione, ci sono più mancini tra i
musicisti, gli artisti e i matematici.
La divisione dei compiti chiarisce pure il fenomeno dei savant,
i ritardati con formidabili abilità e di bambini prodigio con talenti
sbilanciati: bravissimi in arte, calcolo o musica, molto indietro
nell'espressione verbale, nella lettura e nella scrittura.
Una spiegazione che è stata fornita è che se si produce un
danno cerebrale nel periodo prenatale - per esempio per un eccesso di
testosterone in circolo - e viene danneggiato l'emisfero sinistro, quello
destro compensa con un ipersviluppo.
L'intelligenza emotiva
Nel 1996 lo psicologo americano Daniel Goleman ha
teorizzato l'intelligenza emotiva e l'ha divulgato in un libro che è
ormai divenuto un bestseller internazionale e capostipite di numerose
pubblicazioni dello stesso filone, ma dedicate a situazioni concrete e
particolari .
Goleman è arrivato alla sua formulazione (ispirato da un
grande ricercatore, Joseph LeDoux, autore di un libro dedicato alla
neurobiologia delle emozioni, Il cervello emotivo ) innestando nel campo
della psicometria classica alcune variabili legate allo studio della
personalità. Anche se non esisterà mai un valido "quoziente d'intelligenza
emotiva" perché gli studi sulla personalità eseguiti con l'analisi
fattoriale non presuppongono criteri di uniformità scientifica, una delle
analisi più interessanti di Goleman, su un gruppo di dipendenti della AT&T
(compagnia dei telefoni americana) ha portato risultati sorprendenti. Anche se
ciascun dipendente era stato assunto superando brillantemente i classici test
del Quoziente Intellettivo (quindi il campione era omogeneo), le carriere si
erano poi differenziate fortemente.Dunque il successo dipendeva, più che dal
Q.I., da un'altra intelligenza, quella emotiva, ossia la capacità di rapporti
interpersonali, empatia, resistenza allo stress che costituisce l'impasto da
cui nasce la personalità.
L'intelligenza quindi sfuma nel carattere.
E sembra che sia un fattore per buona parte (ma non del
tutto) ambientale: un bambino sottoposto a molti stimoli culturali potrà
mostrare un incremento del Q.I., anche se lento.
E la costellazione di studi e ricerche si allarga, dall'Intelligenza
matematica al Codice dell'anima in un fioritura che fa ben sperare .
Se fosse possibile, cosa dovremmo cambiare
dell'intelligenza umana? A questa domanda lo sicenziato Herbert Simon ha
risposto: "Penso che aumenterei un poco la memoria a breve termine.
Ampliarla in modo indefinito non sarebbe, però, una cosa buona, perché comunque
non possiamo prestare attenzione a più di una piccola porzione per volta. Sì,
potrei fare questo. Oppure potrebbe essere utile accelerare certe funzioni,
perché no? Ciò potrebbe rendere più rapida la nostra intelligenza.
Non sono veramente entusiasta all'idea di accelerare
l'intelligenza umana. Ne abbiamo già abbastanza. Quando penso ai problemi che
abbiamo in questo mondo, che ritengo siano già parecchi, non sono certo che
essi possano essere risolti con più intelligenza. Sono sempre rimasto sorpreso
dal peso che si dà ai test d'intelligenza. Forse dovremmo fare più test sul
carattere, dare più importanza ai valori. Se io dovessi migliorare la specie
umana, lavorerei prima di tutto in questa direzione" .
L'ABC dell'apprendimento e della memoria
Da un recentissimo articolo di Le scienze possiamo
ricavare informazione sullo stato delle ricerche sull'intelligenza "Il
cervello umano possiede approssimativamente cento miliardi di cellule nervose,
o neuroni, collegati gli uni agli altri in una trama articolata che consente lo
sviluppo di una notevole varietà di attributi mentali e cognitivi come la
memoria, l'intelligenza, le emozioni e la personalità.
Le basi per la comprensione dei meccanismi molecolari e
genetici dell'apprendimento e della memoria furono poste nel 1949, quando lo
psicologo canadese Donald O. Hebb elaborò un'idea semplice ma profonda per
spiegare in che modo i ricordi vengono rappresentati e conservati nel cervello.
In quella che è oggi conosciuta come "regola
dell'apprendimento di Hebb", egli ipotizzò che un ricordo si produce
quando due neuroni collegati fra loro sono attivi contemporaneamente in modo
tale da rafforzare la sinapsi, cioè il sito di contatto fra le due cellule.
Nella sinapsi l'informazione, sotto forma di molecole chiamate
neurotrasmettitori, fluisce dalla cosiddetta cellula presinaptica verso la
cellula postsinaptica.
Nel 1973 Timothy V. P. Bliss e Terje Lomo, che lavoravano
nel laboratorio di Per Andersen all'Università di Oslo, scoprirono un modello
sperimentale che sembrava confermare le caratteristiche salienti della teoria
di Hebb. Essi notarono che le cellule nervose di una regione del cervello
chiamata ippocampo stabilivano connessioni più forti quando erano stimolate da
una serie di impulsi elettrici ad alta frequenza. Questo rafforzamento
sinaptico - un fenomeno conosciuto come potenziamento a lungo termine (LTP) -
può durare per ore, giorni o persino settimane. Il fatto che l'LTP si manifesti
nell'ippocampo è particolarmente affascinante perché questa struttura cerebrale
è cruciale per la formazione della memoria, sia nell'uomo sia negli animali.
Studi successivi compiuti da Mark F. Bear dello Howard
Hughes Medical Institute della Brown University e da altri scienziati
dimostrarono che, applicando uno stimolo a bassa frequenza agli stessi circuiti
nervosi dell'ippocampo, si induceva una riduzione prolungata della forza delle
connessioni sinaptiche locali. Tale riduzione è a sua volta duratura ed è conosciuta
come "depressione a lungo termine" (LTD), sebbene non abbia nulla a
che vedere con la depressione clinica.
Il rafforzarsi e l'indebolirsi delle connessioni
sinaptiche attraverso processi simili all'LTP e all'LTD sono ora ritenuti i
principali meccanismi responsabili della conservazione e dell'eliminazione
delle informazioni acquisite nel cervello. Oggi sappiamo che l'LTP e l'LTD si
presentano in molte forme diverse e che si verificano in altre regioni
cerebrali oltre all'ippocampo, come la neocorteccia - o materia grigia - e
l'amigdala, una struttura coinvolta nella formazione delle emozioni"
[Tsien, 2000, p. 50].
"I nostri esperimenti con i topi Doogie hanno
confermato chiaramente le previsioni della teoria di Hebb, indicando anche che
il recettore NMDA è un importante interruttore molecolare in molte forme di
apprendimento e memoria. Ma nonostante il ruolo centrale dei recettori NMDA in
un'ampia gamma di processi cognitivi e di memoria probabilmente queste molecole
non sono le sole a essere coinvolte: nei prossimi anni ne saranno senza dubbio
identificate molte altre, con specifiche funzioni" [Tsien, 2000, p. 53]
Alcuni si domandano se tali "scoperte implicano che
presto potremo creare con l'ingegneria genetica bambini più intelligenti o
mettere a punto pillole che renderanno tutti geniali. La risposta pura e
semplice è: no; e oltretutto, lo vorremmo veramente?" [Tsien, 2000, p.
54].
Tre nobel per la ricerca sul cervello
È interessante che uno dei premi nobel del 2000, quello
Per la fisiologia e la medicina, sia andato a tre studiosi, A. Carlsson, P.
Greengard e E. Kandel, autori di scoperte sul trasferimento dei segnali nel
sistema nervoso, che sono definite "cruciali per una comprensione della
funzione normale del cervello", ma anche delle malattie che i difetti di
trasmissione dei segnali possono provocare.
Le loro ricerche sono un tipico esempio del materiale che
i neurofisiologi e neurobiologi riescono aprodurre oggi, accelerando di molto
la costruzione dell'enorme palazzo che sarà la teoria completa della coscienza.
È necessario, dunque, che si osservi con attenzione lo
sviluppo di tutte queste ricerche.
Eric Kandel per esempio ha spiegato il funzionamento della
memoria a breve e a lungo termine, arrivando alla conclusione che "si può
dire che la nostra memoria sia basata sulle sinapsi" e sui loro
cambiamenti di forma e funzione.
"Anche se la strada verso una comprensione delle
funzioni complesse della memoria è ancora lunga … ora è possibile studiare, per
esmpio, come le immagini complesse di memoria sono immagazzinate nel nostro
sistema nervoso e come è possibile ricreare la memoria degli eventi più in
anticipo" .
COSCIENZA, SONNO E SOGNO
Dal punto di vista neurofisiologico lo stato di veglia e
di sonno sono governati da due sistemi cerebrali fra di loro antagonisti (e che
non costituiscono centri ben delimitati).
Capire il funzionamento del cervello è una delle sfide più
difficili per la scienza, ma negli ultimi decenni si sono scoperte parecchie
cose. Lo studio del cervello avviene ormai a vari livelli: si cerca di capire
più a fondo la struttura nervosa, il ruolo delle varie aree, il meccanismo dei
neurotrasmettitori, le connessioni tra le zone diverse, le
"gerarchie" dei sistemi, la biochimica che regola le varie
interazioni, ecc.
Il sonno è una delle tante e complesse funzioni cerebrali,
combinazione di "interruttori" che stimolano, inibiscono, modulano il
passaggio degli impulsi nervosi, senza che sia conivolto mai un solo centro .
I ricercatori non hanno ancora capito definitivamente perché
sia necessario dormire.
"Nato forse nel corso dell'evoluzione come strategia
di risparmio energetico, poiché permette di abbassare nella notte il
metabolismo e la temperatura, il sonno ha assunto un ruolo e ha quindi un
significato più profondo, che ancora non si riesce a "leggere" ma che
certemente esprime primarie esigenze del cervello, più che dell'organismo"
[Angela, 1994, p. 52].
Fra i vari centri cerebrali coinvolti nel sonno, uno è
quello strategico, l'ipotalamo, che è una parte del cervello che deriva da un
lungo percorso evolutivo. È difficile conoscere i percorsi seguiti, all'interno
del cervello, dai vari passaggi nervosi, chimici, ormonali. Tuttavia, si
ritiene che dall'ipotalamo parta un flusso di segnali verso una delle parti più
primitive del cervello: il tronco. Da qui come in un sistema a cascata sembrano
partire altri due flussi, uno verso verso la vicina zona che presiede allo
stato di veglia, l'altro a quella del talamo il quale, in ultima analisi,
riduce il flusso di segnali tra la corteccia e il resto del cervello. Così si
ottiene l'addormentamento.
Ma il sonno non è un fenomeno passivo: in realtà il
cervello non "dorme" mai, semplicemente, funzione in modo diverso,
disattivando alcuni "interruttori" e attivandone altri.
Un tema molto interessante è la funzionalità del sonno nei
neonati (ma anche nei feti) e nei fanciulli .
I meccanismi del sonno e del sogno saranno capiti meglio
solo il giorno in cui si conosceranno meglio anche i meccanismi del pensiero.
Ecco come questi studi si aiutano e influenzano a vicenda.
La privazione di sonno
Gli esperimenti nell'uomo di privazione del sonno hanno
portato a conoscenze molto interessanti: per esempio dopo cinque giorni di
privazione del sonno la capacità di resistere al sonno migliora notevolmente (Fifth
day turning point) per un adattamento ignoto. Nel corso della privazione si
osserva sempre uno scadimento delle funzioni percettive, cognitive,
psicomotorie, tremori delle mani, atassia della marcia, ecc.
Il fenomeno più caratteristico della privazione di sonno è
rappresentato dall'insorgenza di brevi (pochi secondi) attacchi di sonno
leggero (lapses o micro-lapses). Dopo 100 ore circa di mancanza
assoluta di sonno compare una grande sindrome psicotica acuta [DPI, 1970, pp.
729-730]
Il sonno paradosso (REM)
La durata del sonno paradosso (sonno REM, rapido o
desincronizzato) è massima subito dopo la nascita, poi diminuisce gradatamente.
La soppressione selettiva del sonno paradosso per alcune
notti provoca, in seguito, un suo aumento compensatorio, che è inquieto con
sogni agitati.
Le sostanze psicotrope riducono le fasi REM, la loro
soppressione porta a un aumento compensatorio con disturbi del sonno e
incubi.Nonostante si ritenga universalmente fondamentale per l'uomo il sonno
REM, la cui perdita viene compensata, il suo ruolo fisiologico è ancora poco
conosciuto, ma alcuni lo mettono in rapporto con la più intensa irrorazione
cerebrale.
Tutti sognano: oggi è accertato che chiunque, svegliato al
momento giusto, riferirebbe un sogno. Non è stata ancora dimostrata, invece,
sperimentalmente la necessità psicologica dei sogni [DPI, 1970, p. 723]
IL SOGNO
Un recente articolo su Focus di R. Procenzano presenta gli
ultimi risultati della ricerca psicologica e neurologica sui sogni .
Il sogno è la terza attività della mente; si è calcolato
che una persona mediamente trascorre 50 mila ore a dormire, pari a sei anni
della vita. Il sognare è un'attività diversa dal ragionare coscientemente
(veglia) o dormire un sonno profondo.
Nell'antichità il sonno era considerato fondamentale per
comunicare con le divinità, da cui si sviluppò l'arte dell'interpretazione dei
sogni. Si riteneva che i sogni avessero il potere di scacciare le avversità,
accrescere la fertilità, portare prede ai cacciatori e valore ai guerrieri; li
si pensava capaci di predire il futuro, curare le malattie, veicolare
rivelazioni spirituali. Gli antichi cercavano costantemente di
"incubare" i sogni da cui si attendevano quei doni, e a tal fine
dormivano in luoghi sacri e solitari (templi o recessi naturali) e seguivano
appositi rituali.
Questa disciplina fisica e spirituale li predisponeva e
rendeva specialmente ricettivi alla vivida intensità dei sogni. Era una pratica
comune in Grecia e in tutta l'Europa pagana ma anche presso i primi cristiani
che dormivano vicino ai sepolcri dei santi e dei martiri sperando di ricevere
guariginone e pacificazione. Nell'estremo oriente (la Cina del XIV secolo per
esempio) c'erano templi per "sognatori".
Per i popoli nomadi il sogno ha effetti radicali sulla
vita (nelle tradizioni dei nomadi che vivono sul delta dei Nilo bisogna
indossare un turbante prima di andare a dormire, per impedire che in sogno
l'anima lasci il corpo, e i Masai del Kenya credono che non si debba svegliare
una persona che sogna perché il suo spirito potrebbe non riuscire a tornare nel
corpo). Fino al secolo scorso i membri di alcune tribù pellerossa, se sognavano
di essere morsi da un serpente, al risveglio si curavano la ferita nel punto
dove doveva trovarsi.
Il potere del sogno sta proprio nella sua somiglianza con
la realtà: durante il sonno l'inganno è così perfetto che la nostra coscienza
scambia gli avvenimenti creati dal cervello "sognante" per realtà.
Alcuni esperti parlano di cortocircuito mentale: la corteccia cerebrale è
attiva (anche di più che durante la veglia ) ma non riesce a confrontare le
immagini e gli stimoli che genera da sé con ciò che succede all'esterno. Si
comporta cioè come se avesse le "allucinazioni". "In realtà il
cervello non dorme mai. Durante tutte le fasi del sonno si svolge la cosiddetta
attività pensiero-simile, più frequente dei sogni. La mente, insomma, continua
a lavorare su fatti, considerazioni, avvenimenti delle giornate precedenti. Ma
che legame ci sia tra questi pensieri inconsapevoli e i sogni, ancora non si
sa" afferma Carlo Cipolli, docente di psicologia all'università di Bologna
e studioso della vita onirica.
I sogni sono ancora una mistero
Si è scoperto che i pensieri notturni sono spesso legati
da un filo logico, e che anche i sogni sono "coerenti" tra loro: ci
sono similitudini sia tra le costruzioni oniriche di una stessa notte sia tra
quelle di notti successive. Non ce ne rendiamo conto perché in genere
ricordiamo solo l'ultimo sogno, quello che si verifica mezz'ora al massimo prima
del risveglio. Ma durante le otto ore di sonno, il cervello genera almeno una
decina di sogni. Eppure per la scienza i sogni sono ancora in gran parte un
mistero.
"Fino a pochi anni fa si credeva che ognuno di noi
sognasse solo durante i cosiddetti periodi REM: fasi di sonno leggero
caratterizzate da rapidi movimenti degli occhi (Rapid Eye Movement). Ce
ne sono quattro o cinque ogni notte. Invece abbiamo verificato in laboratorio
che spesso si sogna anche nelle fasi di sonno tra una REM e l'altra, e a volte
si tratta di sogni molto movimentati, come quelli tipici della fase REM"
racconta Vincenzo Natale, ricercatore all'università di Bologna, dove si
eseguono esperimenti sistematici
I ricercatori possono svegliare i soggetti (volontari) a
qualunque ora della notte (in fase REM oppure no) e chiedere loro che cosa
stavano sognando. Spesso raccolgono racconti pieni di particolari, che però il
sognatore la mattina dopo non ricorda per nulla (l'unica eccezione è l'ultimo
sogno della notte, che rimane nella memoria pochi minuti).
Il cervello ricorda tutti i sogni che ha fatto
"In laboratorio si può verificare facilmente che il
cervello ricorda tutti i sogni che ha fatto: basta far riascoltare al
volontario l'inizio del racconto registrato del suo sogno raccolto, poniamo,
alle due di notte, per far sì che egli si ricordi tutto il sogno. Poi gli si fa
riascoltare quello delle quattro di notte e si ottiene lo stesso risultato, poi
quello delle cinque e così via" fa notare Cipolli . Insomma, possediamo la
memoria di tutti nostri sogni (e sono milioni) ma non la chiave per accedervi.
Negli ultimi anni alcuni scienziati hanno cominciato a
guardare "dentro" il cervello di chi sogna: Pierre Maquet,
ricercatore all'università di Liegi, ha sottoposto a una PET (tomografia a
emissione di positroni) alcuni volontari dormienti per verificare quali aree
cerebrali fossero attive durante il sonno. "Abbiamo scoperto che durante
le fasi REM molti impulsi nervosi partono dalla zona del ponte, in profondità
nel cervello, e bombardano la corteccia e alcune zone limbiche, sedi delle
emozioni. Nelle fasi intermedie invece sono più attive le zone associative
frontali e parietali, sedi dei ragionamento" spiega lo scienziato belga.
Gli impulsi tipici della fase REM darebbero perciò luogo
ai sogni più "movimentati": la corteccia si trova a dover dar senso a
una specie di tempesta elettrica, e lo fa creando un sogno, cioè assemblando
nel modo più coerente possibile frammenti di immagini e di sensazioni che si
trovano già nella memoria, prese dalla vita reale.
In altre fasi del sonno, invece, predominerebbero i
pensieri. Ma questo non spiega la presenza di sogni bizzarri o incubi
movimentati anche in fasi diverse dalla REM.
Ora gli scienziati prevedono ricerche congiunte, da
effettuare con la PET ma svegliando il soggetto di tanto in tanto per
chiedergli che cosa ha sognato, in modo da abbinare il tipo di attività
cerebrale al tipo di sogno.
A cosa serve sognare?
Una cosa è certa: sognare è necessario. Sono stati
condotti esperimenti su volontari che venivano svegliati non appena gli
strumenti registravano i movimenti oculari tipici del sogno. Per impedire ai
soggetti di sognare sono stati necessari fino a 20 risvegli all'ora, uno ogni
tre minuti. E quando finalmente si permetteva loro di dormire, il cervello dei
volontari sognava il triplo del solito, doveva recuperare.
La vita onirica, dunque, è un bisogno fisiologico, come
mangiare. Ma a cosa serve? Per il momento a questa domanda rispondono solo
teorie.
Secondo il neurobiologo M. Jouvet sognare servirebbe al
cervello per fare il "rodaggio" ad alcuni istinti prima di usarli
nella vita reale. Il neonato passa molto del suo tempo a sognare: già a due
giorni di vita il suo viso nel sonno ripete espressioni (disgusto, sorpresa,
gioia) che il bebè è assolutamente incapace di fare da sveglio. E a mano a mano
che il neonato apprende la mimica facciale, essa non compare più nel sonno.
Quasi che il cervello dovesse prima ripassare la "lezione", per poi
poterla utizzare davvero. Secondo altri, i sogni della fase REM sarebbero il
risultato della trasformazione di un sonno frammentato (tipico di molti
animali) in uno continuo: un residuo dell'evoluzione senza nessuno scopo
particolare tranne quello di accorgersi più facilmente se ci sono predatori in
giro (il sonno REM è leggero anche se pieno di sogni).
Altri studiosi ritengono che durante il sonno, e nel sogno
in particolare, il cervello faccia "manutenzione": elimini le
informazioni inutili e ridondanti dalla memoria e registri invece quelle più
necessarie, apprese da poco. Un gruppo di ricercatori americani di Harvard ha
dimostrato che occorrono almeno sei ore di sonno per ricordare le nozioni
appena apprese.
Qualcuno arriva ad affermare che ogni sogno abbia uno
scopo particolare (una volta archiviare dati, un'altra volta cancellare
informazioni o riabbinarle ad altre già presenti) e che il cervello elabori una
sceneggiatura adatta a quel fine prendendo dalla memoria i personaggi e gli
scenari più appropriati. E quando il cervello non riesce a tessere una storia
adatta allo scopo, si ha il risveglio improvviso. Teorie come questa sono
affascinanti ma non dimostrabili.
I sogni sono prodotti (non del tutto casuali)
dell'attività elettrica della mente. E non sono privi di significato: gli psichiatri
hanno stabilito che in alcune fasi della vita (quelle di passaggio) ci sono
sogni tipici, che hanno lo scopo di aiutare la persona a "girare
pagina" più facilmente. I maschi intorno agli otto anni sognano abbastanza
spesso di fare la lotta con animali o con alcuni mostri fantastici. Sogni come
questo rafforzano la fiducia in se stessi e li aiutano ad aumentare
l'indipendenza: è emerso da un'indagine di F. Battisti (università di Cassino)
sui sogni di mille bambini italiani. Un'analoga ricerca, condotta sulle donne
in attesa del primo figlio, ha dimostrato che verso la fine della gravidanza
sono comuni i sogni in cui il bambino ha già due o tre anni: corre e sa
muoversi da solo. Servono a preparare la futura mamma alla
"separazione" dal feto che avverrà con la nascita.
E i sogni ricorrenti come volare, cadere o non riuscire a
scappare? Cadere è un sogno tipico della fase di addormentamento: forse
"si cade" perché la mente perde il controllo sul mondo esterno.
Volare e non riuscire a muoversi sono invece sensazioni causate, dicono gli
studiosi, dalla paralisi muscolare di tutto il corpo: fenomeno tipico della
fase REM.
Sui sogni è molto interessante (e semplice, pur se
completo: è un libro di divulgazione scientifica) il libro di P. Angela I
misteri del sonno (soprattutto i capitoli dal IV al IX) .
I "sogni lucidi"
Esiste un sito molto interessante
(http://www.lucidity.com) interamente dedicato ai sogni lucidi ("Che cosa
sono e come imparare a farli") con una sezione sulle esperienze
paranormali come l'OOBE (Out of body experencies) o le cosiddette
"esperienze di pre-morte", NDE (Near death experencies) e
altro.
Le esperienze di pre-morte vengono generalmente riferite
da soggetti risvegliati dal coma: essi testimoniano esperienze talmente ricche
di sensazioni da essere "indicibili" con linguaggio umano; essi
avrebbero provato l'esperienza - per riassumere in uno schema generale le
innumerevoli testimonianze (ed è proprio questo aspetto, dell'essere così
numerose eppure tutte simili, che dà loro una patente di serietà in quanto
fenomeno antropologico) - di vedersi usciti dal proprio corpo, di galleggiare,
di attraversare una sorta di "tunnel", ed entrare in un ambiente di
"pace" e di luce, incontrare un "essere di luce", vedere
gli episodi più importanti della vita "come in un film", incontrare
una barriera oltre al quale non ci sarebbe ritorno e infine l'essersi
risvegliati nel corpo .
Alcuni ricercatori oggi cercano di spingersi molto in là
nella ricerca sul sonno e sui sogni: tentano non solo di condizionare ma anche
di "teleguidare" i sogni. È il campo dei cosiddetti sogni lucidi. Per
sogno lucido si intende un sogno in cui il dormiente è consapevole che
quello che sta vivendo è un sogno. Si sta cercando di capire se, con individui
particolarmente soggetti a questo tipo di esperienza e ben allenati, sia
possibile aumentare il grado di consapevolezza, in modo da poterli aiutare a
"guidare" in una certa misura il sogno. Ma i risultati di queste
ricerche, pur affascinanti, sono ancora lontani dall'essere convincenti .
D. Fontana ribadisce l'importanza dei sogni: "La
comparsa nei sogni di antiche memorie e il comprovato valore terapeutico
dell'interpretazione dei sogni confermano il valore guida che può assumere per
noi l'esperienza notturna" .
Sull'importanza dei sogni e in particolare sui "sogni
ad occhi aperti" è interessante il libro di Ethel S. Person - che ha uno
stesso titolo . "Sogni a occhi aperti e fantasticherie sono virtualmente
onnipresenti e fluttuano dentro e fuori dalla consapevolezza […] ma non sono
mai lontane dal nostro Sé più intimo. Le fantasie ci dicono qualcosa su chi
siamo veramente: è questa una delle ragioni per cui siamo riluttanti a
condividerle con un estraneo" [Person, 1998, p. 4]. La Person ribadisce
che proprio "tramite l'indagine di Freud sui sogni, la psicoanalisi si è
evoluta da metodo di trattamento a teoria generale della mente, a psicologia
del profondo che concepisce la mente come un continuum che si articola
dall'inconscio al preconscio alla coscienza: e questa suddivisione della psiche
corrisponde a ciò che percepiamo - e accettiamo - a livello di coscienza
personale" [Person, 1998, p. 92].
VII
La neurofilosofia tra esplorazione
e critica epistemologica: limiti e potenzialità
del dialogo tra neuroscienze e
filosofia
TRADIZIONE E INNOVAZIONE
Tutto il pensiero filosofico è interessante e importante,
ma inevitabilmente fa parte della "tradizione" e rischia di far
pesare il suo ipse dixit di fronte all'innovazione.
Noi oggi dobbiamo adeguare il pensiero filosofico alle
ricerche scientifiche e alla consapevolezza culturale di oggi. Ciò significa
che tutti i pensatori fino al '600, grandi o piccoli, sono stati solo una sorta
di "mitologia filosofica", essendo ancora al di fuori del pensiero
scientifico.
Solo quelli che sono venuti dopo il '600 sono consapevoli
di un certo modo di indagare filosoficamente. Ma neanche essi possono
costituire materia solida per una ricerca attuale di filosofia, sopratutto di
"filosofia cognitiva" perché tutti hanno formulato ipotesi al di fuori
del campo neurobiologico.
Quindi in sostanza, tutti i filosofi prima del '900 sono
"tradizione" e devono essere ascoltati solo come spunto, solo come
passato storico della filosofia, come primordi, antesignani, creatori e
scopritori di archetipi.
Solo nel '900 (un esempio per tutti, Popper) ci sono stati
filosofi che hanno cercato di coniugare l'indagine metafisica, con le ricerche
neurologiche più avanzate, le conoscenze scientifiche con l'istanza teologica.
Ci può essere solo neurofilosofia
Ritengo che nessuna filosofia, d'ora in poi, può
prescindere dall'aspetto neurobiologico e che il futuro della filosofia è
unicamente quello della neurofilosofia.
Con ciò non voglio restringere l'indagine filosofica al
campo cognitivo, né intendo ridurre la filosofia alla neurobiologia, né intendo
cancellare secoli di meravigliose costruzioni filosofiche.
Cerco invece una sintesi, sinergie, confronto e dialogo
tra le varie discipline (quello che ho cercato di fare con questa tesi).
Penso che un'indagine filosofica deve assolutamente tener
conto, in via preliminare, di alcuni aspetti: il linguaggio (interpretazione),
la coscienza, la conoscenza, la visione del mondo legata alla biografia di chi
guarda al mondo (psicologia), la situazione sociale, culturale, internazionale
del paese di chi pensa...
Così, forse, è possibile dare spazio all'innovazione, alla
luce della (e senza distruggerla) innovazione.
La neurofilosofia ha una sua dignità riconosciuta, lo
testimonia Dennett: "Churchland rappresenta il primo esempio di
"neurofilosofo" (si veda il suo libro del 1986 Neurophilosophy:
Toward a Unified Science of Mind/Brain)" .
LE TEORIE DELLA COSCIENZA TRA CONCEZIONI NATURALISTICHE,
RIDUZIONISMO E METAFISICA
Da un prezioso articolo di S. Nannini pubblicato su Internet,
che dovrebbe diventare presto un saggio pubblicato per i tipi della Laterza,
traggo i seguenti interessantissimi spunti sulle concezioni oggi possibili a
cavallo tra filosofia e scienze cognitive.
È un tratto comune a tutte le odierne concezioni naturalistiche
della conoscenza considerare quest'ultima come un fenomeno integralmente
naturale che può essere spiegato senza residui dalla psicologia
scientifica, dalla biologia, dalla chimica o dalla fisica: i processi
cognitivi, possibili solo in animali dotati di un sistema nervoso centrale
altamente sviluppato, sono il prodotto di una lunghissima evoluzione biologica
che ha il proprio punto d'origine nella coordinazione senso-motoria; essi
svolgono la funzione biologica di adattare il comportamento dell'organismo
all'ambiente esterno al fine di aumentare le probabilità di sopravvivenza.
Tali concezioni naturalistiche della conoscenza trovano
una delle loro principali fonti nella filosofia di W. v. O. Quine . Secondo
quest'ultimo l'epistemologia non può e non deve essere una disciplina normativa
che autorizza il filosofo a chiarire a priori quale debba essere il
corretto modo di procedere della scienza. L'epistemologia può essere solo una
descrizione del modo nel quale gli uomini sono effettivamente capaci di
conoscere la realtà.
L'epistemologia, da branca della filosofia, come sempre è
stata considerata, o anche da logica della scienza, come gli empiristi logici
l'hanno intesa, deve divenire essa stessa una scienza empirica: la
"scienza dei processi cognitivi", ramo della psicologia scientifica.
La psicologia scientifica alla quale Quine pensava,
negli anni Sessanta, di ridurre l'epistemologia era ancora il comportamentismo.
A dire il vero ciò era abbastanza anacronistico, perché il comportamentismo era
entrato in crisi profonda già verso la fine degli anni Cinquanta ad opera di
linguisti come N. Chomsky e di psicologi come G. A. Miller. Ma, se al
comportamentismo sostituiamo la "psicologia cognitiva" o qualsiasi
altra scienza naturale (la neurobiologia, la chimica ecc.) e le affidiamo
l'antico compito, un tempo filosofico, di chiarire che cosa sia la conoscenza,
restiamo ancora fedeli all'essenziale della posizione di Quine: pensiamo ancora
che l'epistemologia, in quanto disciplina filosofica, debba scomparire a
vantaggio di una scienza naturale (o quanto meno empirica) dei processi
cognitivi; ossia aderiamo ad una dottrina filosofica (più precisamente
meta-epistemologica) che può essere chiamata "naturalismo
epistemologico forte".
Tuttavia già l'accenno precedente al carattere
meta-epistemologico della dottrina di Quine fa comprendere come non sia facile
per il naturalista liberarsi di ogni residuo filosofico-normativo non
riducibile in termini empirici. Proprio perciò alcuni naturalisti, pur seguendo
fino ad un certo punto Quine, preferiscono aderire ad una qualche forma di
"naturalismo epistemologico debole" (o "naturalismo
cooperativo"), secondo la quale occorre distinguere l'indagine
scientifico-descrittiva intorno all'origine naturale dei processi cognitivi
dalla ricostruzione filosofico-normativa sui loro titoli di validità, ma i due
punti di vista, sebbene diversi, devono integrarsi e sorreggersi
reciprocamente.
Naturalismo epistemologico e naturalismo ontologico
Molti seguaci di Quine ritengono essenziale restare
rigorosamente fedeli al carattere unicamente epistemologico del
naturalismo del maestro senza fare alcuna concessione ad un naturalismo ontologico,
che inevitabilmente assumerebbe un carattere materialistico. Essi pretendono
che la scienza debba essere assolutamente scevra di presupposti a priori
su ciò che effettivamente esiste e sulla sua natura. Esiste tutto ciò che può
essere oggetto d'indagine empirica; ed esso ha tutte e sole le caratteristiche
che le teorie scientifiche stesse gli attribuiscono per poterlo spiegare e
prevedere. Posizione questa che può ricongiungersi con il relativismo cognitivo
di quei post-empiristi che pensano esistano tanti mondi reali diversi quante
sono le teorie scientifiche.
Per giustificare questa posizione assolutamente scevra di
presupposti ontologici a priori (tutti egualmente sospetti, non importa
se di carattere materialistico o spiritualistico), si fa spesso riferimento al
saggio Relatività ontologica di Quine (1969). Se si legge, tuttavia, che
cosa egli ha scritto ad es. in un saggio successivo, Il posto dei
pragmatisti nell'empirismo (1981), in polemica con i pragmatisti stessi e
gli idealisti, vediamo che egli non è affatto un relativista e non sembra
rinunciare, quale presupposto necessario del fare scienza, ad un'ontologia
filosofica di tipo realista: "Per James e gli idealisti europei ciò che ho
chiamato realtà consisteva più che altro nella sensazione. Per i filosofi
naturalisti come me, invece, gli oggetti fisici sono reali, fino alla più
ipotetica delle particelle, sebbene il riconoscimento di essi sia soggetto,
come tutta la scienza, a correzione. Posso sostenere questa linea ontologica di
realismo un po' ingenuo e poco elaborato e allo stesso tempo posso salutare
l'uomo come soprattutto l'autore, piuttosto che lo scopritore, della verità.
Posso sostenere i due punti insieme perché la verità scientifica relativa agli
oggetti fisici è ancora la verità, per tutti gli uomini che ne sono
autori. Nel mio naturalismo, non riconosco verità più elevata di quella che la
scienza fornisce o ricerca (…). Parliamo sempre all'interno del nostro sistema
attuale quando attribuiamo la verità; e non possiamo fare altrimenti. Il nostro
sistema cambia, certo, e quando ciò avviene noi non diciamo che la verità
cambia con esso, ma che noi abbiamo prima erroneamente pensato che qualcosa
fosse vero e che poi abbiamo migliorato le nostre conoscenze. Fallibilismo è
la parola d'ordine, non relativismo. Fallibilismo e naturalismo".
Il naturalismo di Quine non è, dunque, affatto
relativistico. Il titolo del suo saggio Relatività ontologica non deve
trarre in inganno. Nessuna teoria scientifica, certo, può descrivere il mondo
"così com'è"; lo descriverà sempre e inevitabilmente entro una certa
cornice teorica, compresa un'ontologia, che un domani dovrà forse essere
rivista. Ma, se lo sarà, ciò non avverrà semplicemente perché gli uomini
avranno arbitrariamente cambiato il loro modo di guardare al mondo, bensì
perché si saranno accorti che il vecchio modo era inadeguato rispetto ad una
mai conclusa ricerca della verità. Insomma, appena parlo del mondo non posso
farlo che in un modo theory-laden, storicamente datato e soggetto a
revisione; ma l'ideale (mai completamente raggiungibile e tuttavia
progressivamente avvicinabile) che guida la mia ricerca continua ad essere
quello di conoscere il mondo com'è e non come io me lo invento!
Ammettere l'inevitabilità di una qualche ontologia
filosofica come presupposto della ricerca scientifica non significa certo
tornare automaticamente alla vecchia metafisica. Sebbene, come vedremo tra
poco, le odierne teorie ontologiche riguardo al rapporto tra la mente ed il
corpo riprendano più o meno consapevolmente (ma comunque con sorprendente
fedeltà) le dottrine sull'anima già presenti nell'antichità, tuttavia esse,
quando siano concepite come semplice cornice teorica di sfondo delle attuali
scienze cognitive, cessano di essere delle verità a priori per divenire dei
semplici presupposti teorici che i risultati sperimentali possono sempre, in
linea di principio, costringerci a rivedere o abbandonare. Tali presupposti
sono solo più generali e cruciali rispetto a teorie scientifiche più
particolari. Non possono quindi essere smentiti facilmente, mediante singoli
esperimenti. Nondimeno, poiché la loro funzione è quella di guidare la ricerca
scientifica, essi devono essere abbandonati quando, alla lunga, risultino
infruttuosi o ne esistano comunque di preferibili.
Livelli d'analisi e scienze cognitive
Una qualche forma di ontologia filosofica è utile per le
scienze cognitive? Alcuni eminenti studiosi, che pur perseguono tenacemente e
coerentemente un programma di "naturalizzazione della mente" (cioè di
spiegazione dei fenomeni mentali mediante le neuroscienze e le simulazioni
compiute con reti neurali artificiali), lo negano con forza. Penso che abbiano
torto, perché, se non si presuppone la riducibilità ontologica degli stati
mentali a stati cerebrali, diviene assolutamente ingiustificato spiegare i
fenomeni mentali stessi in termini neurologici.
Inoltre le varie scienze cognitive individuano oggetti
diversi. Costituiscono essi altrettanti livelli di realtà reciprocamente
irriducibili oppure tali oggetti sono soltanto ridescrizioni diverse, livelli
d'analisi diversi, di un'unica e medesima realtà? E, in quest'ultima ipotesi,
qual è la natura di tale realtà? Vediamo anzitutto quali siano questi livelli
d'analisi delle scienze cognitive:
Fenomeni culturali, storici e sociali (antropologia cognitiva, scienze
sociali, storia, linguistica);
Stati mentali individuali (folk psychology, behavioural sciences,
psicologia scientifica intelligenza artificiale e teoria computazionale della
mente);
Reti neurali artificiali (connessionismo);
Fenomeni neurologici (neuroscienze);
Basi fisiche e chimiche dei fenomeni neurologici (fisica e chimica).
La relazione tra questi livelli d'analisi può essere
considerata secondo un approccio riduzionistico o antiriduzionistico.
Inoltre il riduzionismo può essere ontologico o metodologico.
Pertanto si danno quattro approcci fondamentali al
riduzionismo:
* Riduzionismo ontologico e metodologico La sola vera realtà è quella
fisica e le sole vere spiegazioni di tutti i fenomeni sono quelle date in
termini fisici. In altre parole, in primo luogo, i livelli superiori d'analisi sono
solo differenti descrizioni di fenomeni che possono essere descritti anche in
termini fisici (almeno in linea di principio); in secondo luogo, le spiegazioni
date da scienze che siano differenti dalla fisica possono essere praticamente
utili o addirittura indispensabili, ma esse sono valide solo se sono
traducibili, almeno in linea di principio, in termini fisici.
* Riduzionismo ontologico e antiriduzionismo metodologico La sola vera realtà è quella
fisica, ma alcune proprietà funzionali di certi sistemi fisici possono essere
descritte e spiegate solo da linguaggi che appartengono a livelli d'analisi più
alti. Le teorie che sono formulate in linguaggi di livello più alto possono
essere intraducibili in linguaggi di livello più basso.
* Antiriduzionismo ontologico e riduzionismo metodologico Questa teoria, sebbene sembri prima
facie piuttosto bizzarra, è stata sostenuta da taluni
"emergentisti", secondo i quali, da un lato, la mente dopo il suo
emergere dalla materia nel corso dell'evoluzione biologica non è più riducibile
ad essa e costituisce un regno autonomo; e tuttavia, dall'altro lato, anche
questo regno può essere studiato scientificamente con metodi analoghi a quelli
adottati dalle scienze naturali.
* Antiriduzionismo ontologico e metodologico I livelli d'analisi rispecchiano
differenti livelli di realtà, che possono essere descritti e spiegati solo da
linguaggi reciprocamente intraducibili. Inoltre un tale pluralismo
ontologico si presenta in due differenti versioni:
Alcuni pluralisti ontologici ammettono livelli di realtà
più alti la cui esistenza è indipendente dall'esistenza di livelli di realtà
più bassi (si pensi a tutti coloro che credono nell'immortalità dell'anima): pluralismo
senza correlazione completa..
Altri pluralisti ontologici ritengono che i livelli di
realtà più alti siano ontologicamente irriducibili a quelli più bassi, ma
emergano da questi ultimi e possano esistere solo se sono da essi
"sostenuti": pluralismo con correlazione completa..
Il "problema mente-corpo"
L'essere riduzionisti o antiriduzionisti tra una coppia di
livelli non implica l'esserlo anche riguardo a qualsiasi altra coppia. Ad
esempio quasi nessuno oggigiorno nega la riducibilità ontologica (si noti, solo
ontologica, non metodologica) dei fenomeni socio-culturali ad insiemi di
azioni, atteggiamenti e stati mentali individuali (più i loro effetti nel mondo
materiale): le guerre ad es. non ci sarebbero senza i soldati; esistono le
persone in carne ed ossa, non la Società, la Cultura o lo Spirito. Molto più
controverso è ancor oggi, invece, se gli stati mentali individuali siano a no,
a loro volta, ontologicamente riducibili a processi fisico-chimici
(prevalentemente localizzati nei cervelli). Riguardo a questo rapporto, che è
noto come il "problema mente-corpo", sono state sostenute
dall'antichità ad oggi, trascurando ovviamente ogni dettaglio e semplificando
all'osso, le seguenti teorie:
- Dualismo o pluralismo (Platone, Agostino ed il pensiero
cristiano in genere, Descartes, F. Brentano, K.R. Popper, D. Chalmers ecc.):
mente e corpo sono due "cose" distinte.
- Materialismo (gli atomisti, Gassendi, Hobbes, alcuni illuministi, i
positivisti tedeschi, il fisicalismo, la teoria dell'identità mente-corpo, il
materialismo dello stato centrale): gli stati mentali sono ontologicamente
riducibili a stati fisici (prevalentemente cerebrali).
- Funzionalismo e cognitivismo (l'ilomorfismo di Aristotele, varie forme del
funzionalismo contemporaneo, inclusa la cosiddetta "teoria computazionale
della mente" o "analogia mente-computer"): l'anima è la forma
del corpo; gli stati mentali sono stati funzionali implementati da stati
cerebrali.
- Monismo neutrale e "teoria del doppio aspetto" (Spinoza, T.G. Fechner, E. Mach, W. James, B.
Russell, P.F. Strawson): alcune sostanze (o, in Spinoza, l'unica sostanza
esistente) sono in se stesse né mentali né fisiche, ma possono avere proprietà
o aspetti sia mentali che fisici.
- Eliminativismo (W.v.O. Quine, P. Feyerabend, R. Rorty, P.M. Stich, P.M. Churchland e
P.S. Churchland): il linguaggio della folk psychology deve essere
abbandonato in favore di concetti tratti dalle neuroscienze. L'eliminativismo è
una forma recente e radicale di naturalismo materialistico.
Queste prime cinque teorie compaiono nella filosofia
antica, moderna e contemporanea, inclusa la filosofia analitica e
post-analitica, sebbene in forme molto varie e differenziate.
- Idealismo trascendentale fenomenologico (Husserl): il Soggetto
Trascendentale non è un oggetto tra gli altri: è "l'occhio" al quale
gli oggetti appaiono e per il quale essi sono oggetti. Il mondo esiste solo in
quanto è "visto" dal Soggetto Trascendentale.
- Analisi esistenziale ed ermeneutica (M. Heidegger, H. Gadamer ecc.):
la forma d'essere che è tipica dell'uomo (l'esistenza o Dasein propria
di un ente "gettato" nel mondo) non può essere studiata
empiricamente, ma solo analizzata da quei filosofi che sono capaci d'intendere
(soprattutto nei poeti) la "Voce dell'Essere".
Queste due teorie contemporanee sono alternative alle
teorie analitiche della mente e anche alle ultime due posizioni classiche (in
declino al giorno d'oggi) rappresentate da:
- Idealismo (i
neoplatonici, Leibniz, Berkeley, Fichte, Schelling, Hegel, ecc.): la materia
non ha un'esistenza indipendente dalle menti; gli oggetti materiali esistono
nella misura in cui sono pensati da una mente.
- Spiritualismo (F.P. Main de Biran, E. Boutroux, W. Wundt, H. Bergson ecc.): un misto
di dualismo e idealismo.
Teorie che rifiutano il problema metafisico mente-corpo
Tuttavia un nuovo approccio riguardo alla natura della
mente fu introdotto da Locke e Hume nella filosofia moderna. Questo approccio,
basato sulla teoria generale che ogni sostanza possa essere intesa come una
collezione delle idee delle proprietà che le appartengono, determinò il rifiuto
del problema mente-corpo concepito come il problema metafisico della relazione
fra due sostanze. Una mente, al pari di un corpo, è concepita solo come una
collezione d'idee. Perciò i filosofi non sono interessati all'insolubile problema
della natura della mente, ma al problema empirico della determinazione delle leggi
di associazione fra le idee così come i fisici sono interessati alla
gravitazione universale di Newton. Questo atteggiamento verso la metafisica,
scaturente dall'empirismo classico, è stato sviluppato dai filosofi analitici
nel Novecento ed è stato fatto proprio dagli empiristi logici e dai
comportamentisti nell'ambito della filosofia della mente (dove esso è venuto a
convergere con l'analogo punto di vista dei neokantiani, che ripetevano la
famosa teoria di Kant secondo la quale l'anima non può essere conosciuta).
Pertanto si possono aggiungere alle nove soluzioni
ontologiche del problema mente-corpo summenzionate i seguenti quattro modi di
rifiutarlo in quanto problema metafisico e quindi insolubile:
- Empirismo classico (Locke e Hume).
- Idealismo trascendentale classico (Kant e i neokantiani).
- Empirismo logico (M.
Schlick, R. Carnap ecc.).
- Comportamentismo analitico (L.
Wittgenstein e G. Ryle).
Il "comportamentismo logico" degli
empiristi logici, pur avendo molti punti di contatto con il comportamentismo
analitico di Ryle, si fonde con il fisicalismo, cioè con una
forma di materialismo che, ad avviso di Carnap e degli altri empiristi logici
che l'hanno sostenuta negli anni Trenta, sarebbe completamente non metafisica.
Questo completo rifiuto della metafisica, o più
precisamente dell'ontologia filosofica, tuttavia, è divenuto sempre più
contestato tra i filosofi analitici o postanalitici negli ultimi quarant'anni:
per un verso Quine, come abbiamo visto, ha riabilitato, sia pur entro limiti
precisi, l'ontologia; e per altro verso le scienze cognitive affermatesi a
partire dagli anni Sessanta , sebbene fondino tutte le loro teorie sul
comportamento osservabile, non pensano, come i comportamentisti, che sia non
scientifico occuparsi di stati soggettivi e coscienti, ma credono al contrario
che sia essenziale formulare ipotesi sui processi interni che avvengono
nella mente. Pertanto il problema della natura degli stati mentali è tornato ad
essere dibattuto.
Il "naturalismo cognitivo"
Le scienze cognitive, che già sono inclini per la loro
origine anticomportamentistica a riflettere sulla natura degli stati mentali
concepiti come stati interni e non direttamente osservabili degli esseri umani,
trovano in tale riflessione il modo più semplice e conveniente per dare una
base ontologica a quella interdisciplinarità che è la loro peculiare
caratteristica metodologica. Se, in particolare, i differenti fenomeni che sono
oggetto rispettivamente delle neuroscienze e della psicologia scientifica non
sono che ridescrizioni, a vari livelli d'analisi, di una medesima realtà,
allora la tendenza naturalistica a costruire un'unica scienza naturale della
mente e dell'uomo trova un solido fondamento in un'ontologia fisicalistica.
Buona parte delle odierne scienze cognitive presuppongono perciò, più o meno
implicitamente, delle concezioni generali sul rapporto tra mente e corpo.
Muovendo dalla convinzione che tali concezioni generali
riprendano, sia pur in forme nuove, alcune delle soluzioni tradizionalmente
date al "problema mente-corpo", possiamo formulare quattro principi
accettati, anche se talvolta solo implicitamente, dalla maggior parte delle
tendenze naturalistiche dominanti nelle scienze cognitive e chiameremo
l'insieme di questi principi "naturalismo cognitivo".
Tutte le soluzioni intuitivamente non naturalistiche
rifiutano (o comunque violano) almeno uno dei quattro principi in questione,
mentre tutte le soluzioni palesemente naturalistiche li rispettano
I quattro principi potrebbero dimostrare che cognitivisti
e eliminativisti, sebbene siano oggi in polemica tra loro, quando la loro
disputa venga considerata in una prospettiva storica più ampia, risulterebbero difendere
due teorie che, per quanto diverse, sono comunque entrambe naturalistiche. Per
sottolineare questo punto parliamo di "naturalismo cognitivo debole"
e "naturalismo cognitivo forte".
- Primo principio - La mente (così
come la coscienza, lo spirito o la soggettività) fa parte del mondo reale.
- Secondo principio - La natura
costituisce l'intero mondo reale. Pertanto (da [1] e [2]) la mente, la
coscienza e la soggettività fanno parte della natura.
- Terzo principio - La natura può essere
conosciuta solo dalle scienze empiriche. Nessuna parte della natura può
essere conosciuta a priori (o mediante metodi diversi da quelli delle
scienze empiriche). Pertanto la mente, la coscienza e la soggettività, in
quanto appartenenti alla natura, possono essere conosciute solo per mezzo di
scienze empiriche.
- Quarto principio - L'universo fisico è
un sistema "chiuso". Ogni evento fisico può essere spiegato,
deterministicamente (come nella meccanica classica) o probabilisticamente (come
nella meccanica quantistica), in termini puramente fisici. In una prospettiva
naturalistica i fenomeni descritti ai livelli d'analisi più alti sono ontologicamente
riducibili ai fenomeni fisici e, perciò, non possono essere cause o effetti di
questi ultimi (almeno se si accetta la tesi di Hume secondo la quale la causa e
l'effetto devono essere logicamente indipendenti l'una dall'altro): altrimenti
uno stato mentale, ad esempio, potrebbe essere la causa di quegli eventi
cerebrali dei quali è una semplice ridescrizione.
Teorie non naturalistiche
Alla luce dei quattro principi summenzionati Nannini
elenca le più importanti teorie non naturalistiche.
Il dualismo o pluralismo è la più
antica teoria alternativa al naturalismo (si pensi a Platone). Ma, dal momento
che non tutte le forme di dualismo sono incompatibili con il naturalismo, è
necessaria una distinzione preliminare tra di esse:
Dualismo metodologico Il modo nel quale vengono
conosciuti gli stati mentali ed i fenomeni culturali è diverso dal modo nel
quale vengono conosciuti gli eventi naturali. Questa forma di dualismo è
rifiutata in linea di principio solo dai comportamentisti ed è compatibile con
il naturalismo cognitivo.
Dualismo concettuale intensionale Pensiero e materia sono
fenomenologicamente distinti, ma può darsi che, per ogni predicato psicologico,
vi sia un predicato fisico avente la stessa estensione. Questa forma di
dualismo è perciò compatibile con la "teoria dell'identità tra mente e
corpo" (vale a dire, con il materialismo).
Dualismo concettuale estensionale Nessun predicato psicologico può
avere la stessa estensione di un qualsiasi predicato fisico. Le descrizioni e
spiegazioni psicologiche non sono traducibili in termini fisici o biologici.
Sebbene ogni singolo stato o evento mentale possa essere identico ad un certo
stato o evento fisico, non si dà nessuna identità permanente fra tipi di
stati o eventi mentali e tipi di stati o eventi fisici. Questa forma di
dualismo è compatibile con la "teoria dell'identità delle
occorrenze", ma non lo è con la "teoria dell'identità dei tipi"
e perciò è contraria a quella forma forte del naturalismo che, come vedremo,
cerca di collegare la psicologia alle neuroscienze.
Il dualismo o pluralismo ontologico può
essere suddiviso nel modo seguente: Dualismo delle proprietà, Dualismo
delle sostanze.
Entrambe le forme di dualismo ontologico devono rendere
conto di un certo grado (almeno) di correlazione tra il mentale ed il fisico:
se voglio alzare il braccio, esso di solito si solleva. Questa correlazione può
essere spiegata dai dualisti in tre modi diversi:
Interazionismo Un evento fisico può essere la causa di un evento mentale
e viceversa (ad es. Descartes e K.R. Popper).
Parallelismo Non c'è nessuna relazione di causa ed effetto tra il
fisico ed il mentale. La loro correlazione è dovuta ad una terza causa (si
pensi, ad es., all'unicità della sostanza di Spinoza, all'occasionalismo di
Malebranche o alla "armonia prestabilita" di Leibniz). Il
parallelismo è una dottrina molto implausibile al giorno d'oggi, anche se potrebbe
essere compatibile con certe forme di dualismo delle proprietà combinate con il
monismo neutrale.
Epifenomenismo Un evento cerebrale può causare l'emergere di uno stato
mentale, ma quest'ultimo non può retroagire sul corpo.
Sebbene negare un certo grado di correlazione tra la vita
mentale ed i movimenti corporei negli esseri umani sia impossibile, tuttavia
alcuni dualisti ammettono solo una correlazione parziale fra il mentale
ed il fisico, mentre altri pensano che questa correlazione sia completa,
vale a dire senza eccezioni: ogni evento mentale è correlato ad un certo evento
cerebrale. Tale correlazione può essere dovuta o ad una interazione causale in entrambe
le direzioni (dal fisico al mentale e dal mentale al fisico) o ad un'azione
del fisico sul mentale, ma non viceversa, oppure al parallelismo tra fisico e
mentale. In base alle distinzioni precedenti si danno perciò due forme di
dualismo ontologico (trasversali rispetto al dualismo delle sostanze e delle
proprietà):
Dualismo ontologico senza correlazione completa Alcuni stati mentali possono non
avere alcun correlato cerebrale (Cartesio).
Dualismo (o pluralismo) ontologico con correlazione
completa e interazione Mente e corpo sono irriducibili l'una all'altro. Nondimeno stati
fisici identici sono necessariamente accompagnati da stati mentali identici.
Questa correlazione è dovuta sia all'azione causale del fisico sul mentale sia
viceversa all'azione del mentale sul fisico (interazionismo): alcuni stati
mentali sono correlati ad eventi fisici perché sono essi che li producono nel
cervello (il mio atto volontario è accompagnato dall'eccitazione di certi
neuroni della corteccia cerebrale perché è il mio libero arbitrio che produce
quell'eccitazione come effetto fisico di una causa mentale) .
Dualismo ontologico con correlazione completa, ma senza
interazione bidirezionale La correlazione fra il mentale ed il fisico è dovuta a
parallelismo o epifenomenismo. Non si dà nessuna causazione del mentale sul
fisico: perciò la loro correlazione è compatibile con il concepire l'universo
fisico come un sistema chiuso (ma l'esistenza del libero arbitrio, nel senso
richiesto dai libertarians, non è più possibile). L'epifenomenismo è una
teoria ancora presente, sebbene minoritaria, tra i filosofi contemporanei .
Il dualismo ontologico è contrario, in quasi tutte le sue
forme, al naturalismo cognitivo, poiché rifiuta tre dei suoi quattro principi
fondamentali. Infatti è sì vero che i dualisti ontologici ammettono che il
mentale e la soggettività fanno parte del mondo reale (primo principio del
naturalismo cognitivo), ma negano per lo più che il mentale e la soggettività
siano fenomeni naturali (secondo principio), a meno che non si sia disposti a
definire la natura in un senso molto più lato di quello usuale. Questo è
evidente almeno nel caso del dualismo ontologico senza correlazione completa:
uno spirito che può esistere senza il corpo ed è immortale non fa sicuramente
parte della natura! Inoltre chi pensa che il mentale sia fuori della natura è
incline a rifiutare anche il terzo principio del naturalismo cognitivo: vale a
dire, è incline a pensare che i fenomeni spirituali possono essere spiegati
solo a priori, filosoficamente, non attraverso le scienze empiriche.
Infine un dualista ontologico che sia interazionista, anche se accetta la
correlazione completa tra fisico e mentale, necessariamente rifiuta il
carattere chiuso del mondo fisico (quarto principio del naturalismo cognitivo),
dal momento che ritiene che gli eventi mentali possano causare eventi fisici:
ad esempio, pensa che i movimenti volontari del suo corpo annoverino almeno un
evento mentale irriducibile fra le loro cause, vale a dire una sua
"volizione" (Popper).
L'epifenomenismo ed il parallelismo, invece, sono forme di dualismo ontologico
compatibili con il naturalismo cognitivo (il problema qui è la loro
plausibilità alla luce del "rasoio di Ockham").
Monismo anomalo Il monismo anomalo non è un'ipotesi scientifica (a differenza di
quanto pensano della teoria dell'identità dei tipi i suoi difensori), ma una
verità filosofica che può essere provata mediante argomenti a priori. Di
conseguenza il monismo anomalo sembra rifiutare il terzo principio del
naturalismo cognitivo, il principio secondo il quale la psicologia, da un punto
di vista metodologico, è una normale scienza empirica al pari della fisica. Per
questa ragione il monismo anomalo, sebbene possa essere visto come una forma
di materialismo (o di monismo neutrale), non è una forma di naturalismo
cognitivo.
L'idealismo trascendentale fenomenologico vale a dire l'idealismo di
Husserl, è profondamente antinaturalistico. È evidente infatti che la
fenomenologia di Husserl rifiuta sia il primo che il terzo principio del
naturalismo cognitivo.
Analisi esistenziale ed ermeneutica. Queste si teorie si
contrappongono, nel complesso, all'idea che anche la mente, lo spirito e più in
generale il mondo umano e storico-sociale possano (e, anzi, debbano) essere
studiati con i metodi delle scienze empiriche. Pertanto esse rifiutano quanto
meno il terzo principio del naturalismo cognitivo.
Idealismo e spiritualismo sono filosofie in declino al giorno
d'oggi e non sono molto importanti per la filosofia contemporanea della mente.
Ad ogni modo sono decisamente antinaturalistiche. Nessun idealista potrebbe
accettare l'idea che lo spirito faccia parte della natura (secondo principio
del naturalismo cognitivo). L'idealismo ed il naturalismo sono reciprocamente
in contrasto anche riguardo al terzo principio del naturalismo cognitivo
stesso: nessun idealista ha mai affidato la conoscenza dello spirito alle
scienze empiriche.
Teorie naturalistiche
Veniamo alle teorie naturalistiche. Il naturalismo
cognitivo implica, in tutte le sue forme, il rifiuto del dualismo (o pluralismo)
ontologico interazionistico. Inoltre, sebbene sia in linea di principio
compatibile con forme deboli di dualismo ontologico come l'epifenomenismo o il
parallelismo, implica di solito il riduzionismo ontologico: esso perciò è
monistico e più precisamente materialistico in senso lato. Per i naturalisti
l'unica vera realtà è la realtà fisica. Le istituzioni sociali e i fenomeni
culturali (incluso il linguaggio) possono esistere solo nella misura in cui
sono realizzati dai comportamenti e dagli stati mentali di persone in carne ed
ossa. Gli stati mentali, a loro volta, possono esistere solo se sono
implementati da stati cerebrali.
Il riduzionismo ontologico dei naturalisti è tuttavia
difficilmente accompagnato da un completo riduzionismo metodologico, perché
quest'ultimo è praticamente impossibile. Ad esempio, chi può pretendere
seriamente di spiegare l'andamento della borsa di Milano in un certo giorno
ricostruendo i processi subatomici che sono avvenuti nel cervello di tutti gli
esseri umani il cui comportamento in tutto il mondo ha contribuito a
determinare un tale andamento?!
Il naturalismo cognitivo è definito non solo dal
riduzionismo ontologico del primo e secondo principio, ma anche da due principi
chiaramente metodologici ed epistemologici come il terzo ed il quarto. Tuttavia
il terzo principio del naturalismo cognitivo (secondo il quale ogni fatto, non
importa se mentale, culturale, biologico o fisico, deve essere studiato da una
scienza empirica), sebbene accettato da tutti i naturalisti, è da loro
diversamente interpretato a seconda del differente livello d'analisi (e perciò
della differente scienza empirica) che essi preferiscono per lo studio dei
fenomeni psicologici (o sociali e culturali). Ricompare qui una tendenza più
debole o più marcata verso il riduzionismo metodologico, che è qui da
intendersi non come il progetto (impossibile a realizzarsi, abbiamo visto) di
ridurre completamente ogni scienza alla fisica, ma, più semplicemente, come la
tendenza a servirsi di teorie scientifiche che appartengono ad un basso livello
d'analisi per spiegare fenomeni di livello più alto. Diviene cruciale perciò,
per distinguere le differenti forme di naturalismo cognitivo, la relazione che
la linguistica e la psicologia cognitiva intrattengono con le neuroscienze. È
riguardo a questa relazione che si può distinguere il naturalismo cognitivo
debole dal naturalismo cognitivo forte.
Naturalismo cognitivo debole e naturalismo cognitivo forte
Il naturalismo cognitivo debole è una
cornice teorica per le scienze cognitive che, sebbene includa l'accettazione
del riduzionismo ontologico e di tutti e quattro i principi del naturalismo
cognitivo, non solo difende l'antiriduzionismo metodologico, ma sottolinea che
lo studio del linguaggio e degli stati mentali è possibile anche qualora nulla
si sappia degli stati cerebrali dai quali gli stati mentali stessi sono
"implementati". Le teorie seguenti sono gli esempi più importanti di
questa forma di naturalismo:
Linguistica trasformazionale e generativa (N. Chomsky)
Funzionalismo (primo Putnam).
Teoria computazionale della mente (J. Fodor)
Il naturalismo cognitivo forte è una teoria
secondo la quale le attività mentali, in generale, e l'intelligenza, in
particolare, sono abilità (o l'esercizio di abilità) che consentono ad
un organismo di meglio adattarsi al suo ambiente. Esse si sono formate e
mantenute per selezione naturale nel corso dell'evoluzione biologica per la
ragione che incrementavano le probabilità di sopravvivenza degli individui che
le possedevano. La loro base comune è la "coordinazione
senso-motoria".
L'intelligenza umana, che dipende in alto grado dalla
capacità di parlare, è solo il prolungamento evolutivo di abilità che già erano
presenti negli animali (fra queste abilità la vista ha un'importanza cruciale,
perché permette il riconoscimento della preda o dei predatori con grande
precisione e a distanza). Pertanto lo psicologo cognitivo non può spiegare il
funzionamento della mente umana senza sfruttare il patrimonio via via crescente
di conoscenze sul funzionamento del cervello offerto dai neuroscienziati.
Oltre che dalle neuroscienze un aiuto prezioso per lo
psicologo può venire anche dal "connessionismo" (reti neurali
artificiali). Infatti i neuroscienziati possono sì chiarire per mezzo di
"neuroimmagini" quali potenziali elettrici vengano evocati e quali
aree della corteccia siano eccitate allorché vengono eseguite determinate
attività linguistiche o motorie, ma conoscono molto poco riguardo al ruolo
giuocato in tali prestazioni del cervello dal modo nel quale esso è
"cablato", vale a dire dal modo nel quale un cervello, in quanto rete
di neuroni, produce il giusto "pattern di attivazione" dei
motoneuroni quando riceva un certo input sensoriale (in questo campo
l'unica cosa chiara è che il cervello non può funzionare come un
computer digitale). Le reti neurali artificiali, invece, consentono di
formulare quanto meno una prima ipotesi riguardo al modo nel quale il cervello
funziona in quanto sistema di neuroni e perciò riguardo al modo nel
quale esso processa l'informazione sensoriale. Pertanto, secondo il naturalismo
cognitivo forte, il legame della psicologia (e anche della filosofia) con le
neuroscienze diviene sempre più stretto.
Questa forma di naturalismo si presenta oggi
principalmente sotto le tre forme seguenti:
1) La teoria dell'identità dei tipi (insieme
alla sua variante nota come materialismo dello stato centrale), a
differenza della teoria dell'identità delle occorrenze, è una forma di
naturalismo forte, dal momento che i suoi sostenitori considerano l'identità
degli stati o eventi mentali con degli stati o eventi fisici come una ipotesi
scientifica suggerita da una correlazione costante tra fenomeni ripetibili
di un certo genere che ulteriori risultati sperimentali forniti dalla
psicologia e dalle neuroscienze possono confermare o falsificare.
2) L'eliminativismo, sebbene appartenga
insieme alla teoria dell'identità alla grande corrente del materialismo in
senso stretto e sottolinei il legame della psicologia e della filosofia con le neuroscienze,
si contraddistingue però dalla teoria dell'identità, perché considera i
concetti psicologici tratti dalla folk psychology come troppo rozzi e
inadeguati, perciò, alla costruzione di una scienza della mente. E' impossibile
scoprire il correlato cerebrale al quale un certo stato mentale dovrebbe essere
identico, se lo stato cerebrale è descritto nel linguaggio sofisticato delle
neuroscienze e lo stato mentale nel linguaggio approssimativo della folk
psychology. Gli eliminativisti non negano l'esistenza della coscienza (come
i loro oppositori quasi sempre ritengono, attribuendo loro una tesi ridicola);
essi affermano piuttosto che, ad esempio, il concetto corrente di dolore è
troppo vago e perciò non può essere correlato ad alcun concetto delle neuroscienze
che abbia la medesima estensione. Più in generale la psicologia e la filosofia
devono rivedere il loro linguaggio ed i loro concetti alla luce delle
neuroscienze, se vogliono avere con esse un rapporto di coevoluzione .
3) Il "naturalismo biologico" di
J. Searle. Questi concepisce la coscienza come una proprietà biologica
emergente, dovuta ai "poteri causali" del cervello, e pretende con
ciò di avere mandato in soffitta la vecchia alternativa tra dualismo e
materialismo: la coscienza è una proprietà naturale, ma al tempo stesso
introduce nel mondo una dimensione soggettiva irriducibile in termini
materialistici. È dubbio, tuttavia, che la posizione di Searle sia chiara e non
oscilli incoerentemente tra monismo e dualismo delle proprietà.
I "QUALIA"
Dedico un po' di spazio a un tema molto caro alla
neurofilosofia e sul quale i neurofilosofi dibattono argutamente e aspramente:
i "qualia"
Il termine latino qualia (plurale di quale)
è entrato nell'uso filosofico per analogia con il termine quanta (singolare
quantum). Un quantum è una quantità; specificare un quantum significa
riferirsi a una quantità di energia, massa, velocità e via dicendo. L'idea di
un quale, viceversa, è, come indica il nome, qualitativa, invece che
quantitativa. Specificare un quale significa indicare come è una certa cosa,
fare riferimento irriducibile al carattere fenomenologico della nostra
esperienza, al modo in cui le cose appaiono al soggetto cosciente. Esempi di qualia
sono il profumo del caffè appena macinato o il gusto dell’ananas; tali
esperienze hanno un carattere spiccatamente fenomenologico di cui tutti abbiamo
esperienza ma che è, sembra, molto difficile da descrivere. La ricerca sulla
natura, fenomenologia e probabile origine causale dei qualia è diventato un
importante terreno di indagine per la recente filosofia della mente [Gregory,
EOM, 1991, p. 766].
Secondo i riduzionisti i qualia posono essere
pienamente spiegati in termini degli eventi neurofisiologici del cervello e
delle sue interazioni con l’ambiente.
Secondo la teoria che va sotto il nome di
epifenomenalismo, i qualia sono dipendenti per causalità o
"susseguenti" a eventi cerebrali, ma non possono puramente e
semplicemente essere identificati con tali eventi.
Secondo il punto di vista dualistico, i qualia sono
indipendenti dalla fisica e appartengono al regno autonomo, non fisico, della
mente.
L'universo, così come è descritto dalla scienza moderna, è
concepito per lo più in termini quantitativi, in risposta alla domanda quantum?
cioè quanto? Ma è notevole il fatto che la maggior parte dei modi più comuni
che usiamo per descrivere il nostro ambiente non sono quantitavi, ma
qualitativi: le descrizioni relative rispondono alla domanda Quale?, Com'è?
C'è un antico dibattito filosofico sul problema se tali
qualità siano veramente inerenti agli oggetti o se siano semplicemente effetti
soggettivi nella mente dell'osservatore.
John Locke sistematizzò (ma non l'aveva inventata) una
distinzione fra qualità primarie e secondarie [Gregory, EOM, 1991, pp.
766-767].
Le qualità primarie corrispondono grosso modo ai quanta
scientificamente misurabili, comprendono forma, grandezza e numero, e si
suppongono inerenti agli oggetti.
Le qualità secondarie, come colore, dolcezza ecc., sono piuttosto
differenti: le idee che ne abbiamo noi, secondo Locke, non assomigliano
direttamente ad alcunché negli oggetti stessi, ma sono solamente il risultato
del modo in cui gli oggetti influiscono sui nostri sensi per mezzo delle loro
qualità primarie.
Alcuni filosofi non si sono fidati della distinzione fra
qualità primarie e secondarie, osservando che le nostre attribuzioni di colore,
non meno delle nostre attribuzioni di misura, sono una funzione di regole di
linguaggio perfettamente lineari e obiettive, così che è giusto dire che il
sole è "veramente" giallo, così come è giusto dire che è
"veramente" sferico. Ma rimane alla nostra sensazione di qualità,
come quella di "giallezza", un carattere speciale soggettivo o fenomenologico
che sembra dipendere in parte dal particolare apparato sensorio del quale è
provvista la nostra specie e che non è lo stesso per tutti gli individui.
Così è possibile immaginare che degli extraterrestri
forniti di tipi di organi differenti possano percepire la luce di una certa
lunghezza d'onda in modi radicalmente differenti da noi, fino al punto che la
nozione umana di "giallezza" sarebbe inaccessibile per loro. Questa
linea di pensiero dà un sostegno all'idea che ci sia veramente qualcosa di
"soggettivo" nelle qualità sensoriali, come l’essere rosso o dolce;
le nozioni di quadrato o sferico, per contro, non sembrano analogamente legate
al "modo" sensorio particolare nei cui termini sono sentite.
A parte le questioni di soggettività, c'è il problema se i
quale come il color rosso o la dolcezza possano utilmente figurare nelle
spiegazioni scientifiche. Robertl Boil, che scriveva intorno al 1650, faceva
osservare che se vuoi sapere perché la neve abbaglia, non serve che ti dicano
che ha la "qualità del candore". Simili accuse di vacuità delle
spiegazioni furono rivolte contro la teoria scolastica che i corpi cadono a
causa di un'inerente qualità di gravitas o pesantezza. È per questo tipo
di ragione che Cartesio insisteva che le spiegazioni scientifiche dovrebbero
rifarsi a "null'altro che non sia ciò che gli studiosi di geometria
chiamano quantità e prendono come oggetto delle loro dimostrazioni, cioè quello
a cui si può applicare qualsiasi tipo di divisione, forma e moto" (I
principi della filosofia, 1644). Tuttavia, mentre questo punto di vista
quantitativo è senza dubbio stato frutturoso per la fisica, la sua applicazione
alla psicologia è più discutiblie.
Le qualità sensibili sono una parte inevitabile del
paesaggio psicologico; qualsiasi comprensione della nostra vita mentale deve,
sembra, comprendere qualche rapporto su che vuol dire per noi vedere i
colori, annusare gli odori e così via [Gregory, EOM, 1991, p. 767].
VIII
Appunti su alcune teorie
contemporanee
della coscienza
IGNACIO MATTE BLANCO E LA MENTE ASIMMETRICA
In questo capitolo e nei seguenti raccolgo riflessioni di
e su quattro autori contemporanei. Non ho assolutamente la pretesa di
illustrare le loro opere e le loro teorie che in alcuni casi (come quello di
Matte Blanco, sono interi universi…). Ma voglio solo indicare una serie di
spunti tratti dalle loro indagini, che mi sono sembrati interessanti e che mi
hanno portato - come farò negli ultimi capitoli - a elaborare alcune mie
riflessioni.
Il primo autore di cui mi occupo è Ignacio Matte Blanco
(Santiago del Cile 1908 - Roma 1995). Psichiatra e psicoanalista cileno,
laureatosi in medicina in Cile, si è poi specializzato in psichiatria a Londra
dove ha condotto il training psicoanalitico., ha operato anche in
Italia.
Nella sua opera maggiore L'inconscio come insiemi
infiniti (1975) Matte Blanco ha proposto un ripensamento sistematico
dell'epistemologia psicoanalitica attraverso i risultati della logica
matematica.
In contrapposizione con le teorie della psicologia dell'Io
di scuola americana, che tendevano a isolare l'inconscio facendone un mero
contenitore di elementi rimossi, Matte Bianco ritiene che ciascun atto psichico
sia il frutto di entrambe le funzioni, conscia e inconscia, le quali mettono
capo a strutture logiche differenti ma unite (tesi della "bi-logica")
all'interno del medesimo apparato psichico.
Mentre la logica cosciente risponde ai principi noti della
logica classica e razionalistica che da Aristotele giunge alle procedure
scientifiche, quella inconscia - da cui deriva la precedente - si definisce nei
termini con cui Freud descrisse il processo primario.
Matte Blanco non condivide del tutto la posizione che
potremmo definire "pessimistica" di Freud che nel 1900 aveva scritto
che "la vera realtà psichica nella sua più intima natura è altrettanto
sconosciuta a noi come la realtà del mondo esterno ed è a noi presentata dai
dati della coscienza in modo altrettanto incompleto, quanto il mondo esterno
dalle indicazioni dei nostri organi di senso" [p. 73].
"La riflessione di Matte Blanco si sviluppa come un
portare alle loro naturali (o estreme?) conseguenze le rivoluzionarie
intuizioni di Freud sull'inconscio, il tutto alla luce dell'osservazione
clinica sopratutto con riferimento alle manifestazioni schizofreniche" [P.
Bria, in Matte Blanco (Introduzione), 1981].
La logica inconscia è regolata da:
a) il principio di generalizzazione, per cui
l'inconscio tratta l'elemento individuale come se esso fosse membro di un
insieme che contiene altri elementi, e questo insieme, a sua volta, come sottoinsieme
di un altro insieme e così via all'infinito;
b) il principio di simmetria, secondo il
quale l'inconscio tratta le relazioni asimmetriche come se fossero simmetriche,
per cui per es. "x è padre di y" implica "y è padre di x".
Il risultato di questi due principi dà luogo
all'abolizione della successione spazio- temporale, alla negazione dei
principio di non-contraddizione, all'identità tra la parte e il tutto.
Dato che la logica conscia e quella inconscia di fatto
coesistono e solo la prevalenza quantitativa della prima sulla seconda
differenzia la normalità dalla follia, la terapia consiste nel ridistribuire
più equilibratamente gli elementi tra conscio e inconscio e non
nell'"eliminare" l'inconscio.
"Essere simmetrico" ed "essere
asimmetrico"
Per spiegare la natura dell'essere simmetrico e di quello
asimmetrico Matte Blanco chiarisce che "non avrei nulla da obiettare se
qualcuno chiamasse l'essere simmetrico "inconscio per sua natura",
"inconscio strutturale" o semplicemente "inconscio". Allo stesso
modo, l'essere asimmetrico potrebbe esser chiamato "l'essere che si
manifesta nella coscienza" o semplicemente "coscienza".
Ritorneremmo, così, ai vecchi termini di Freud, "coscienza" e
"inconscio", purché sia in ogni caso chiaro che quando adoperiamo
questi termini ci stiamo riferendo ai due modi di essere, caratterizzati
dall'uso rispettivo di relazioni asimmetriche e simmetriche e non stiamo
indicando qualità coscienti o inconsce. In tutto il libro userò, in effetti,
l'espressione "inconscio" estensivamente, nel senso di essere
asimmetrico" [p. 108].
"Con le relazioni simmetriche non è possibile
stabilire una differenza tra cose individuali; quindi l'individuo è, in tal
caso, identico alla classe. Il pensiero richiede relazioni asimmetriche. E così
pure la coscienza. Le potenzialità della classe o, in altre parole, il numero
di valori che la funzione proposizionale può assumere è infinito. Esse non
possono, quindi, venir simultaneamente comprese nella coscienza umana.
"Il pensiero è un processo, qualcosa in cui
una cosa segue l'altra. La coscienza umana assume una cosa dopo l'altra. Nulla,
tuttavia, ci impedisce di concepire una forma di coscienza che può cogliere
simultaneamente un numero infinito di cose. Se così fosse, l'essere simmetrico
potrebbe entrare ed essere colto in toto dalla coscienza. Per riprendere il
paragone del bicchiere dipinto: perché ciò sia possibile la coscienza dovrebbe
avere infinite dimensioni. In tal caso l'essere simmetrico riuscirebbe ad
entrare in questa coscienza di infinite dimensioni. Ma ciò non rientra
nella realtà umana ed è perciò estraneo ai fini della scienza. Forse potrebbe
corrispondere alla coscienza di Dio. Pensiero ed essere verrebbero allora a
coincidere" [pp. 109-110].
"Ogni fenomeno mentale è psico-fisico. [...] le
dimensioni dello spazio-tempo [...] sono in contatto immediato con il nostro
intelletto che anche "si muove" in esse." [p. 215].
Misurare i fenomeni psichici
Sulla possibilità di indagare, misurare i fenomeni
psichici Matte Blanco dichiara che "la stella più distante, la caverna più
profonda della terra e la più sfuggente particella di un atomo sono più
pubbliche, più vicine alla nostra osservazione di un pensiero o di un
sentimento che non comunichiamo" [p. 216].
"Le conseguenze concettuali derivano dalla visione
dei processi mentali qui discussa sembrano significative [...]. Anche a prima
vista si può constatare che le infinte possibilità di misurazione inerenti ai
processi mentali portano ad una conseguenza piuttosto paradossale: è
effettivamente impossibile, al presente, misurare processi così densi di
possibilità interne. Se, però, ricordiamo che il concetto matematico di
integrazione può essere concepito come la somma di un numero infinito di
infinitesimi, non c'è bisogno di sentire la via sbarrata per sempre. [...]
L'idea di attribuire ai processi psichici una intrinseca non misurabilità si è
dimostrata, alla luce di quanto sopra, insoddisfacente. [...] l'alternativa
degli psicologi sperimentali appare ugualmente insoddisfacente [...] Ambedue
possono essere superate con l'introduzione del concetto di insiemi infiniti.
[...] In alcuni dei suoi aspetti, molti dei quali sono esattamente quelli
studiati dalla psicoanalisi, la mente può essere trattata come una collezione
di insiemi infiniti" [p. 234].
"Un'altra osservazione che è alla portata di ogni
persona che faccia introspezione.Essa riguarda un caso che in alcuni casi di
nevrosi ansiosa può manifestarsi in forma drammatica.
Quando pensiamo esercitiamo tutta la nostra attività
cosciente. Quando, però, ci soffermiamo a considerare il processo stesso del
pensiero e pensiamo che siamo noi che stiamo pensando, quando in altre parole
cerchiamo di cogliere questa importantissima caratteristica dell'essere
cosciente nella sua interezza, nella sua pienezza, troviamo cha la nostra
coscienza è qualcosa di fugace, di mai completamente afferrato. [...] quando
vogliamo diventare pienamente consci del nostro essere consci, la nostra
coscienza di essere consci si annebbia. Possiamo diventare consci di essere
consci solo in un modo tangenziale, passeggero, fugace; non possiamo fermarci e
restare a contemplare la piena estensione della nostra comprensione, almeno non
possiamo farlo in condizioni normali, poiché per cogliere la nostra attenzione
il pensiero deve muoversi da un punto all'altro.
È interessante paragonare queste osservazioni con quelle
fatte dai neurofisiologi. Quando vediamo, i nostri occhi non sono mai fermi
[...] Se cerchiamo di osservare solo un punto e lo fissiamo la nostra visione
diventa confusa: per vedere dobbiamo muovere gli occhi. Ci troviamo esattamente
nella stessa situazione nel caso della "visione mentale" della
coscienza. [...] alcune caratteristiche peculiari osservate nei nevrotici
ossessivi che possono in verità essere chiamate disturbi del funzionamento
della coscienza, per quanto non siano mai stati classificati tra i disturbi
classici della coscienza.
Un nevrotico ossessivo chiude la porta di casa, fa alcuni
passi e si chiede se ha veramnte chiuso o meno la porta. [...] Fa ogni sforzo
per fare appello alla sua introspezione (retrospettiva) con la massima
chiarezza possibile. Cerca di fissare quel momento nella sua mente ma più cerca
più fugace diventa il momento e più gli sfugge. [...]
Sembrerebbe che la certezza sia colta e sentita come tale
solo se riusciamo ad accettare la qualità fugace del momento in cui la stiamo
cogliendo." [pp. 256-257].
"Per la nostra coscienza (umana) "essere"
equivale ad "accadere". Eppure abbiamo imparato a conoscere
essere senza alcun avvenimento. Che cos'è questo essere immobile in noi? Non
possiamo comprenderlo poiché comprendere è un avvenimento (asimmetrico).
Lo "viviamo"? La difficoltà è che la vita è anche asimmetrica: il suo
concetto presuppone avvenimento. L'unica risposta sembra essere che noi
siamo (un) essere. Essere un essere è estremamente
"oscuro" poiché la "luce", sia essa fisica o simbolica
(propriamente "la luce dell'intelletto") appartiene al regno
dell'avvenimento. Diciamo perciò: in qualche senso oscuro siamo. [...] Così
essere un essere o "essere: 'essere' " è il massimo che
possiamo dire, finora, di esso. Si rimane frustrati. Ma, forse, quando noi
siamo, sperimentiamo che cosa è essere. Questa, però, dovrebbe essere
"un'esperienza che non è un avvenimento"" [p. 354].
"La sensazione appare inizialmente nella coscienza
maculare in uno stato puro, nudo, per così dire. Ciò succede solo per un
istante fugace; subito dopo viene rivestita o ricoperta dallo stabilimento di
relazioni senza il quale non sembra essere in grado di rimanere nella coscienza
maculare. [...] In sé la sensazione-sentimento è sperimentata come
un'unità indivisibile non come una sequenza e come tale essa è al di fuori
della successione o tempo e non si presta al lavoro della coscienza maculare, che
si sposta nel tempo, con considerazioni successive prima di un aspetto poi di
un altro. Il pensiero accade o si dispiega, la sensazione è" [pp.
260-261].
"Se, però, consideriamo il tempo in cui si esercita
l'introspezione, dobbiamo concludere che l'introspezione è sempre
un'attività retrospettiva. Queste due caratteristiche sono sempre
indissolubilmente legate."
"Possiamo quindi concludere che pensiero ed emozione
hanno qualcosa in comune che possiamo descrivere approssimativamente dicendo
che vi è pensiero nell'emozione ed emozione nel pensiero" [p. 316].
La natura della coscienza
"Sebbene sia vero che la coscienza non si riveli che
tramite un oggetto della coscienza, un pensiero, questo non significa
necessariamente che l'oggetto è la sola cosa che sia "lì". L'uomo
invisibile della storia di Wells era "lì" eppure non si rendeva
visibile se non coperto da qualche materiale opaco. La coscienza può essere
paragonata all'uomo invisibile e gli oggetti della coscienza - pensieri - al materiale
opaco che ne rivela l'esistenza. La forma del materiale opaco implica l'uomo
invisibile e lo rivela; e l'uomo invisibile dà a questo materiale la sua forma.
Qualcosa di simile è vero per la coscienza. Questa parola è un nome adoperato
per designare un'astrazione costituita dall'insieme delle attività - pensieri -
per mezzo delle quali e in cui allo stesso tempo gli oggetti della
coscienza - anche pensieri - si rivelano. In questo senso James sembra essere
nel giusto quando afferma che la coscienza rappresenta una funzione; forse,
però, si potrebbe aggiungere qualcosa di più, sebbene bisogna riconoscere che
la questione viene, in definitiva, a dipendere dal significato che si
attribuisce alla parola "entità" e "funzione". [...] invece
di argomentare a favore dell'uno o dell'altro termine (o di ambedue) cercherò
di spiegare ciò che ho in mente. La coscienza può essere paragonata ad una
coppia di specchi paralleli che stanno uno di fronte all'altro. Se nessun
oggetto vi si riflette, allora uno specchio riflette l'altro e viceversa; il
primo riflette il riflesso di se stesso nel secondo e il secondo riflette il
riflesso di se stesso nel primo e così via all'infinito. Se, però, nessun
oggetto si interpone tra gli specchi non si vede nessuno di questi riflessi,
mentre quando fa la sua comparsa un oggetto ci rendiamo conto del numero
infinito di riflessi.
La coscienza e i suoi oggetti sono della stessa natura,
cioè pensieri ma assolvono funzioni differenti; la prima quella di essere
consapevole dei secondi e i secondi quella di essere consapevoli di qualche
realtà esterna. Sono complementari: gli oggetti - pensieri - rivelano
l'esistenza della coscienza e quest'ultima, a sua volta, dà forma a quegli
oggetti cosituiti dai pensieri, poiché i pensieri sono pensieri in quanto la
funzione della coscienza è strutturata in termini di pensieri.
In altre parole i pensieri non esisterebbero se, in
qualche modo, essi non si riflettessero nei pensieri della coscienza, che
costituiscono la vera struttura della coscienza. Sembra una qualità essenziale
al pensiero umano il fatto di essere riflesso nella coscienza. I pensieri non
possono esistere senza il loro riflettersi nella coscienza, almeno come
possibilità se non sempre come attualità.
La differenza tra i pensieri chiamati oggetti della coscienza
e i pensieri chiamati coscienza sta, probabilmente, nel loro orientamento:
verso qualcosa di esterno nel caso dei pensieri "ordinari" e verso se
stessi nel caso dei pensieri della coscienza.
Bisogna, tuttavia, riconoscere che non appena i pensieri
si rivolgono verso se stessi, cioè diventano "pensieri di coscienza",
essi non possono evitare di trattare se stessi come esterni a se stessi.
L'attività asimmetrica (e l'attività della coscienza è
attività asimmetrica) non può evitare la separazione inerente alla contiguità e
alla successione poiché queste due nozioni sono essenziali alla nozione di
essere esterno.
Eppure questa "riflessività" dei pensieri, che
stabilisce la differenza tra pensieri come oggetti della coscienza e pensieri
come coscienza, tende verso una misteriosa unità indivisibile di questi
pensieri che noi vediamo come appartenenti a due categorie diverse.
Forse la nascita della coscienza è "situata"
proprio al punto esatto di incontro dei modi simmetrico e asimmetrico e sarebbe
questa la ragione di questa strana elusività del fenomeno della coscienza:
quando lo descriviamo lo impoveriamo poiché lasciamo fuori, nelle nostre
descrizioni, gli aspetti simmetrici che sono essenziali alla coscienza stessa.
Ma forse, dopo tutto, l'aspetto simmetrico della coscienza
si rivela nelle nostre descrizioni attraverso il riferimento all'infinita
riflessività della coscienza su se stessa, che ci appare così strana e
misteriosa. Forse questo è un altro esempio del fatto che abbiamo già notato e
vedremo ancora di nuovo: ogni qualvolta la ragione asimmetrica si trova di
fronte all'essere simmetrico, la cosa migliore che può fare è descriverlo come
un insieme infinito. L'infinita "riflessività" della coscienza su se
stessa è un caso di insieme infinito.
Tutto ciò, credo, potrebbe essere oggetto di ulteriore
ricerca. Forse se riusciamo a sciogliere questo mistero, saremo molto più in
grado di capire la capacità di coscienza che possiede l'essere simmetrico"
[pp. 251-253].
Uomo e società
"La nozione di conflitto intrapsichico, che è così
centrale nella concezione analitica, può essere vista sotto una nuova luce se
esaminata dal punto di vista della bipolarità simmetrico-asimmetrico [...] In
termini generali, il contrasto tra l'aspetto dell'uomo per cui egli è un solo
essere con tutti gli altri esseri e l'altro aspetto, per cui egli è separato e
indipendente dagli altri, è all'origine della patologia mentale. In termini
biologici possiamo parlare del contrasto tra la tendenza ad essere un sincizio
e la tendenza ad essere una cellula.
In questo senso è interessante considerare che il concetto
di comunità e di organismo sociale rappresenta il punto d'incontro tra ambedue
gli aspetti, poiché da un certo punto di vista questo concetto comporta quello
degli individui che formano il gruppo e da un altro indica la fondamentale
unità di tutti gli esseri umani. Forse questa è la base dell'importanza
fondamentale della visione dell'uomo come essere sociale: il punto di incontro
tra individualità (asimmetria) e simmetria onniconclusiva" [pp. 352-354].
Insomma, quando e dove si applica il
principio di simmetria scompaiono lo spazio, il tempo, le distinzioni tra parte
e tutto, tra individuo e classe, tra individui, tra cose singole; e scompare
anche il principio di non-contraddizione [P. Bria, in Matte Blanco (Introduzione),
1981, p. XXXIV].
Ma "il solo spazio che ha qualche significato per i
nostri sensi è lo spazio tridimensionale o, più precisamente, gli oggetti
tridimensionali" [p. 500].
Psicanalisi ed epistemologia
Bria conclude l'introduzione al saggio di Matte Blanco
citando la risposta che quest'ultimo ha dato in un'intervista sul
"futuro" della psicoanalisi e dell'epistemologia.
"Essa rappresenta - sostiene Bria - la sintesi più
profonda ed efficace del suo intero pensiero:
D. Che cosa può offrire la psicoanalisi per una
epistemologia del futuro?
R. L'identità tra simbolo e cosa simbolizzata,
profondamente inconscia, suggerisce una visione dell'essere come unico,
indivisibile, omogeneo (Parmenide), in contrasto e costante intreccio con
quella del pensare, che fa distinzioni senza fine tra gli esseri e negli
esseri; epistemologia bi-modale e bi-logica. Così, nel mezzo delle agitazioni
dell'amore e dell'odio, sentite inconsciamente come infinite, l'uomo è anche
abisso insondabile di pace totale. Tutto ciò porta all'infinito come struttura
bi-logica, perciò ad una nuova fondazione della matematica, quindi della
scienza, del mondo e della società: uomini diversi ed un solo essere.
Infine, tutti misteriosamente immersi in Dio invisibile,
con diversi nomi umani - Bellezza, Bontà, Scienza, Società politica ideale e
Dio - ma, in fondo, Jahveh impensabile, essenzialmente inconoscibile,
ineffabile" [P. Bria, in Matte Blanco (Introduzione), 1981, p.
CVII].
DANIEL C. DENNETT E LA VISIONE COGNITIVISTA DELLA
COSCIENZA
Daniel C. Dennett si è occupato ampiamente della coscienza
pubblicando numerosi saggi e articoli nei quali propone analisi sistematiche e
stringenti ma esposte con uno stile gradevole e divertente. Per esempio è addirittura
spassoso quando critica i trabocchetti filosofici ed epistemologici che il
complesso tema della coscienza fornisce (si vedano per esempio le assurdità del
"teatro cartesiano"), salvo però caderci lui stesso.
Infatti il suo indirizzo cognitivista lo porta a costruire
una teoria complessiva sulla coscienza esponendosi perciò stesso a numerose
critiche, dal momento che attualmente nessuno è in grado di fornire una teoria
soddisfacente che spieghi la natura e il funzionamento della coscienza.
L'obiettivo di Dennett è abbastanza chiaro: "Nei
capitoli seguenti [...] spiegherò i vari fenomeni che compongono ciò che
chiamiamo coscienza, mostrando come essi siano tutti degli effetti fisici delle
attività del cervello, come queste attività si siano evolute e come facciano
sorgere le illusioni sui loro poteri e le loro proprietà" [Dennett, 1993,
p. 25] .
Eppure ammetteva che "la coscienza umana è
praticamente l'ultimo mistero che ancora sopravvive. Un mistero è un fenomeno
sul quale la gente non sa - ancora - come ragionare. Con la coscienza ci
troviamo ancora nella confusione più completa [...] E, come con tutti i
precedenti misteri, ci sono molti che insistono - e sperano - che non ci sarà
mai una demistificazione della coscienza" [Dennett, 1993, p. 31-2].
Ma "c’è il vago sospetto che la caratteristica più
attraente della sostanza mentale sia la sua promessa di essere così
misteriosa da tenere la scienza in scacco per sempre " [Dennett, 1993, p.
49d].
Egli sa che la sua spiegazione della coscienza è tutt’altro
che completa. "Si potrebbe perfino dire che è stata solo un inizio, ma è
un inizio, perché rompe l’incantesimo creato dalle idee che fanno sembrare
impossibile una spiegazione della coscienza. Io non ho sostituito una teoria
metaforica, il Teatro Cartesiano, con una teoria non metaforica
(letterale, scientifica). Tutto quello che ho fatto, realmente, è stato di
sostituire una famiglia di immagini e metafore con un’altra: ho rimpiazzato il
Teatro, il Testimone, l’autore Centrale, il Figmento con un Software, le
Macchine Virtuali, le Versioni Molteplici, un Pandemonio di Homunculi. È solo
una guerra di metafore, potresti dire - ma le metafore non sono
"solo" metafore; le metafore sono gli strumenti del pensiero. Nessuno
può riflettere sulla coscienza senza di esse, così è importante equipaggiarsi
con il migliore insieme disponibile di strumenti" [Dennett, 1993, p. 508].
Dennett critica l'atteggiamento di dire che la coscienza è
ciò che conta, e poi aggrapparsi a dottrine sulla coscienza che impediscono
"sistematicamente" di ottenere qualsiasi ragguaglio sul perché
essa conta" [Dennett, 1993, p. 502].
Ma ha fiducia, una genuina fiducia positivistica, perché
"naturalmente ci deve essere qualcosa che viene "lasciato fuori"
- altrimenti non avremmo iniziato a spiegare". E "il fatto che
qualcosa venga lasciato fuori non è una caratteristica delle spiegazioni
mancate, ma delle spiegazioni riuscite" [Dennett, 1993, p. 507].
Per formulare la sua teoria Dennett utilizza il concetto
di mema. "Intuitivamente queste sono delle unità culturali più o
meno identificabili: le unità sono gli elementi più piccoli che replicano se
stessi con affidabilità e fecondità. Dawkins conia un termine per tali unità: memi
- unità di trasmissione culturale o unità di imitazione" [Dennett, 1993,
p. 227].
Sono tre i mezzi che hanno contribuito al progetto della
coscienza umana - l’evoluzione genetica, la plasticità fenotipica e
l’evoluzione memetica - ognuno a suo tempo e a una velocità crescente [Dennett,
1993, p. 235].
Discipline a confronto
Sulla necessità che una teoria della coscienza sia
eclettica e su come i vari addetti ai lavori facciano fatica ad accettare gli
sconfinamenti ironizza Dennett raccontando un aneddoto. Quelli
dell’Intelligenza Artificiale chiedono a Dan "Perché sprechi il tuo tempo
a parlare con i neuroscienziati? Non danno importanza ai "processi
informazionali" e si preoccupano solo di dove essi avvengano, e di
quali neurotrasmettitori siano implicati [...], ma non hanno la minima idea sui
requisiti computazionali delle funzioni cognitive superiori".
Ma "perché - domandano i neuroscienziati - sprechi il
tuo tempo con le fantasie dell’Intelligenza Artificiale? Quelli non fanno altro
che inventare innumerevoli marchingegni e affermano cose di un’ignoranza
imperdonabile sul cervello".
Gli psicologi cognitivi, nel frattempo, sono accusati di
mettere assieme dei modelli privi sia di plausibilità biologica sia
di dimostrati poteri computazionali; gli antropologi non riconoscerebbero un
modello anche se lo vedessero, e i filosofi, come tutti sanno, non fanno altro
che riciclare i panni sporchi degli altri, mettendo in guardia da confusioni
che essi stessi hanno creato, in un'arena priva sia di dati che di teorie
empiricamente verificabili.
Con tutti questi idioti che lavorano al problema, non
stupisce che la coscienza sia ancora un mistero" [Dennett, 1993, p.
284-5].
La coscienza come "macchina virtuale di memi che
reimpiega il cervello"
Ecco la teoria di Dennett: "L'ipotesi che difenderò è
che la coscienza umana è essa stessa un enorme complesso di memi (o più
esattamente, di effetti provocati dai memi nel cervello) che si può comprendere
egregiamente pensando al funzionamento di una macchina virtuale "neumanniana"
implementata sull’architettura parallela di un cervello che non era progettato
per attività del genere. I poteri di questa macchina virtuale accrescono
notevolmente i sottostanti poteri dell’hardware su cui gira, ma nello
stesso tempo molte delle sue caratteristiche più strane, e soprattutto delle
sue limitazioni, possono essere spiegate come prodotti collaterali dei kludge
che rendono possibile questa strana ma efficace riutilizzazione di un organo
già esistente per nuovi scopi" [Dennett, 1993, p. 236-7].
I fenomeni della coscienza umana sono stati spiegati in
termini di operazioni di una "macchina virtuale", una sorta di
programma informatico evoluto (e evolventesi) che plasma le attività del
cervello. Non esiste un Teatro Cartesiano; esistono solo Molteplici Versioni
composte da processi di fissazione di contenuti che giocano vari ruoli
semi-indipendenti nella più vasta economia tramite la quale il cervello
controlla il viaggio del corpo umano attraverso la vita. La convinzione
straordinariamente persistente che ci sia un Teatro Cartesiano è il risultato
di una varietà di illusioni cognitive che sono state ora esposte e spiegate. I
"qualia" sono complessi stati disposizionali del cervello e il sé
(altrimenti noto come il Pubblico del Teatro Cartesiano, l’Autore Centrale o il
Testimone) si rivela essere una valida astrazione, una finzione teorica
piuttosto che un osservatore interno o un boss.
Se il sé è soltanto il Centro di Gravità Narrativa, e se
tutti i fenomeni della coscienza umano sono "soltanto" i prodotti
delle attività di una macchina virtuale realizzata nelle connessioni
incredibilmente modificabili del cervello umano, allora, in linea di principio,
un robot opportunamente programmato, con un cervello costitutito da un
calcolatore a base di silicio, sarebbe cosciente, avrebbe un sé [Dennett, 1993,
p. 480].
"Poiché ha trovato difficile - spiega Dennett -
immaginare come un robot possa essere cosciente, il mio amico è stato
riluttante ad immaginare un robot che fosse cosciente [...] Ma è
altrettanto difficile immaginare come un cervello umano organico possa
sorreggere la coscienza. Come potrebbe un complicato ammasso di
interazioni elettrochimiche tra miliardi di neuroni equivalere alle esperienze
coscienti? Eppure noi immaginiamo facilmente che gli esseri umani siano
coscienti.
Come è possibile che il cervello sia la sede della
coscienza? Questa è stata di solito considerata dai filosofi una domanda
retorica, un invito a pensare che la sua risposta si collochi oltre la
comprensione umana. Uno dei compiti principali di questo libro è stato quello
di demolire tale presupposizione. Io ho sostenuto che puoi immaginare
come tutto questo ammasso complicato di attività nel cervello equivalga
all’esperienza cosciente" [1993, p. 482].
La coscienza è il prodotto delle nostre rappresentazioni
Secondo Dennett noi siamo costantemente impegnati a
presentare noi stessi agli altri, e a noi stessi, e quindi a rappresentare
noi stessi - tramite il linguaggio e i gesti, internamente ed esternamente.
Quando diamo libero accesso a queste parole, questi veicoli di memi, esse
tendono a prendere il sopravvento, a crearci, utilizzando il materiale grezzo
che trovano nei nostri cervelli.
La nostra tattica fondamentale di auto-protezione, di
auto-controllo e di auto-definizione non è quella di tessere ragnatele o quella
di costruire dighe, ma quella di raccontare storie, e più in particolare di
architettare e controllare la storia che raccontiamo agli altri - e a noi
stessi - su chi siamo. I nostri racconti vengono tessuti, ma per lo più noi non
li tessiamo; essi ci tessono. La nostra coscienza umana - la nostra
individualità narrativa - è un loro prodotto, non la loro fonte.
La coscienza e i sé
"E dov’è la cosa a cui si riferisce la tua
auto-rappresentazione? È ovunque tu sia. E cos’è questa cosa? È nulla di
più, e nulla di meno, che il tuo centro di gravità narrativa" [Dennett,
1993, p. 477].
Dennet giunge all'affermazione paradossale secondo cui due
o tre o diciassette sé per corpo non è davvero metafisicamente più stravagante
di un sé per corpo. Anche uno è troppo!.
"I sé non sono anime-perle che esistono
indipendentemente, ma risultati dei processi sociali che ci creano e, come
altri prodotti del genere, soggetti a improvvisi mutamenti di status.
"Se ciò che sei è questa organizzazione
dell’informazione che ha strutturato il sistema di controllo del tuo corpo (o,
per dirlo nel modo più usuale e provocatorio, se ciò che sei è il programma che
gira nel tuo calcolatore cerebrale), allora potresti in linea di principio
sopravvivere alla morte del tuo corpo, così come un programma può conservarsi
intatto anche dopo che sia stato distrutto il calcolatore sul quale è stato
creato ed eseguito per la prima volta" [Dennett, 1993, p. 478-9].
L’idea di un sé (o di una persona o, anche, di un’anima)
distinto dal cervello o dal corpo è profondamente radicata nel nostro modo di
parlare, e quindi nel nostro modo di pensare. "Io ho un cervello".
Questo sembra un modo di esprimersi completamente accettabile. E non sembra
significare semplicemente "Questo corpo ha un cervello" (e un cuore,
e due polmoni, ecc.) o "Questo cervello ha se stesso". Ma "il
guaio con i cervelli è che, quando ci guardi dentro, scopri che non c’è
nessuno in casa. Nessuna parte del cervello è il pensatore che
effettivamente o lo sventurato che sente il dolore, e il cervello nel suo
insieme non sembra essere un candidato migliore per questo ruolo speciale"
[Dennett, 1993, pp. 40-41].
"Nel cervello non esiste una cellula o un gruppo di
cellule in una tale preminenza anatomica o funzionale da poter sembrare la
chiave di volta o il centro di gravità dell’intero sistema, (William James,
1890).
Non esiste un singolo punto nel cervello verso il quale
tutte le informazioni vengono incanalate" [1993, pp. 119-120].
"Poiché la cognizione e il controllo - e quindi la
coscienza - è distribuita in tutta l’area del cervello, non è possibile
scegliere nessun momento preciso come quello in cui avviene l’evento
cosciente" [1993, p. 193].
Coscienza e linguaggio
"Il linguaggio gioca un ruolo enorme nella
strutturazione di una mente umana; quindi non dovremmo supporre che la mente di
una creatura priva di linguaggio - e che non ha in realtà alcun bisogno di esso
- sia strutturata nelle stesse maniere" [Dennett, 1993, p. 498].
"Il linguaggio infetta i nostri pensieri e ne altera
la flessione a ogni livello. Le parole nel nostro vocabolario sono dei
catalizzatori che possono far precipitare contenuti specifici quando una parte
del cervello prova a comunicare con un’altra. Nulla di tutto ciò ha il minimo
senso se continuiamo a pensare alla mente come idealmente razionale e
perfettamente unificata e trasparente a se stessa. A che cosa serve parlare
a noi stessi, se si conosce già cosa si intende dire?" [Dennett, 1993,
p. 335-6].
Se non potessi parlare a me stesso, non avrei modo di
conoscere quello che stavo pensando.
E d'altronde, "come sappiamo, gran parte
dell’elaborazione dell’informazione nei sistemi nervosi è completamente
inconscia " [Dennett, 1993, p. 495].
Cervelli e computer
I due registri, in cui possono comparire solo
un’istruzione e un valore alla volta, costituiscono la celebre
"strozzatura di Neumann", il luogo angusto in cui tutte le attività
del sistema devono passare in fila indiana. In un calcolatore veloce, si
possono svolgere milioni di operazioni al secondo che collegate insieme
producono gli effetti apparentemente magici che l’utente osserva. Tutti i
calcolatori numerici sono i diretti discendenti di questo schema progettuale.
Queste nuove ed affascinanti macchine di von Neumann furono chiamate
"giganteschi cervelli elettronici", ma esse erano in realtà gigantesche
menti elettroniche, imitazioni elettroniche - decise semplificazioni - di
quel che William James chiamò flusso di coscienza, la tortuosa sequenza di
contenuti mentali coscienza meravigliosamente descritta da James Joyce nei suoi
romanzi.
L’architettura del cervello, al contrario, è
massicciamente parallela, con milioni di canali operazionali simultaneamente
attivi. "Ciò che dobbiamo capire è come un fenomeno seriale Joyceano (o
come ho detto "neumanniano") possa esistere, con tutte le sua
familiarità peculiarità, nel tumulto parallelo del cervello" [Dennett,
1993, p. 241].
L'eterofenomenologia
"Possiamo paragonare il compito dell’eterofenomenologo
di interpretare il comportamento dei soggetti con quello del lettore di
interpretare un’opera narrativa" [Dennett, 1993, p. 93]. Che non è un modo
normale di trattare le persone, come produttori di finzioni narrative, ma
questo è lo statuto dell’eterofenomenologia per Dennett.
"Ovunque esiste una mente cosciente, esiste un punto
di vista. [...] Una mente cosciente è un osservatore, che recepisce un
sottoinsieme limitato di tutte le informazioni esistenti; un osservatore che
recepisce le informazioni disponibili in una sequenza particolare (più o meno)
continua di tempi e luoghi nell’universo" [Dennett, 1993, p. 119].
Secondo il modello delle Molteplici Versioni, ogni tipo di
percezione - in verità, ogni tipo di pensiero o attività mentale - è compiuto
nel cervello da un processo parallelo e a piste multiple di interpretazione ed
elaborazione dei dati sensoriali in ingresso. Le informazioni che entrano nel
sistema nervoso sono sotto continua "revisione editoriale".
La revisione orwelliana
"La possibilità di una revisione (orwelliana)
post-esperienziale mette in luce una delle nostre più fondamentali distinzioni:
quella tra apparenza e realtà. [...] Una revisione orwelliana non è l’unico
modo per ingannare i posteri. Un altro consiste nell’inscenare processi
farseschi, presentando trascrizioni accurate di false testimonianze e finte
confessioni, e integrandole con prove abilmente contraffatte. Un tale
stratagemma si potrebbe chiamare staliniano" [Dennett, 1993, p. 135-6].
I cervelli più sosfisticati nel mondo animale, grazie alla
loro plasticità, sono capaci "non solo di anticipazioni stereotipate, ma
anche di adattarsi a linee di tendenza. Ma per un controllo veramente potente,
hai bisogno di una macchina anticipatrice che si riprogetta radicalmente in pochi
millisecondi.
Secondo Edelman uno fra i caratteri più sorprendenti della
coscienza è la sua continuità. Ciò, per Dennett è completamente sbagliato.
"Uno fra i caratteri più sorprendenti della coscienza è la sua discontinuità"
[Dennett, 1993, p. 395]. "Stai negando allora che la coscienza sia un
qualcosa di pieno? - hanno chiesto a Dennett. - Sì, infatti. La coscienza è
lacunosa e sparsa, e non contiene neanche la metà delle cose che la gente
pensa" [Dennett, 1993, p. 407].
KARL RAIMUND POPPER E IL MONDO DELLE IDEE
Il filosofo austriaco Karl Raimund Popper (Vienna 1902 -
Londra 1994), pur essendosi formato a stretto contatto con il circolo di
Vienna, non ne fece mai effettivamente parte e la sua prima opera, Logica
della scoperta scientifica (1934), ne rappresenta una critica radicale.
Popper parte dalla critica bruniana del procedimento
induttivo secondo la quale è impossibile giungere logicamente a una conclusione
universale partendo dall'analisi di una somma di casi particolari. Se nessun
numero di esempi confermati può giustificare la verità di una proposizione
universale, un solo esempio contrario consente invece di dimostrarne la
falsità, cioè di procedere alla sua "falsificazione".
È quindi la falsificabilità e non la verificabilità che
costituisce il tratto caratteristico delle teorie scientifiche. È la direzione
stessa dell'indagine che viene in tal modo invertita: non si muove dai fatti
alla costruzione delle teorie, ma dalle teorie al loro controllo mediante i
fatti.
E poiché questo controllo avviene traendo deduttivarnente
dalle teorie le loro conseguenze, Popper designa il metodo da lui proposto come
"ipotetico-deduttivo"
Dunque una teoria, nella migliore delle ipotesi, può
essere assunta soltanto provvisoriamente come vera, poiché in realtà essa
conserva sempre un carattere ipotetico e congetturale e può quindi sempre venir
confutata da controlli futuri.
Popper ha anche sostenuto l'esistenza di una verità
assoluta che costituisce la meta (sia pure come ideale regolativo nel senso
kantiano) del cammino della scienza (Congetture e confutazioni, 1962).
Ha proposto perfino una teoria della conoscenza che ha parecchi punti di
contatto con il platonismo tradizionale e cioè la teoria della conoscenza
oggettiva o teoria del "mondo 3" (Conoscenza oggettiva, 1972)
[EGF2, 1997, pp. 880-881].
Un'importanza che nella sua epistemologia riveste il
principio di contraddizione della logica classica ha condotto Popper a una
presa di posizione polemica nei confronti del metodo dia- lettico. In Che
cos'è la dialettica (1937) ha sostenuto che il rifiuto dei principio di
contraddizione rende impossibile ogni indagine scientifica e razionale in
genere, poiché è fa- cile mostrare che, da una coppia di asserzioni tra loro
contraddittorie, è possibile dedurre lo- gicarnente qualsiasi asserzione.
Per il razionalismo critico popperiano non esistono
contraddizioni nella natura delle cose, ma soltanto nel pensiero, e la
conoscenza scientifica deve evitare le contraddizioni proprio per poter
cogliere l'oggetto, proponendo delle congetture e controllandole deduttivamente
(presupponendo quindi la validità dei principio di contraddizione).
L'insieme di queste sue conlcusioni mi pare una piattaforma
metodologica imprescindibile per chi voglia perseguire lo studio della
coscienza. Ecco perché, anche in questo caso mi soffermo un po' su questo
autore e ne cito alcuni passi più utili alla mia ricerca.
Un programma di ricerca metafisico
Nelle sue opere più recenti Popper ha sostenuto che
l'impresa scientifica è irrealizzabile se non si svolge sotto le direttive di
un "programma di ricerca metafisico".
Tali programmi indicano alla scienza i problemi rilevanti,
la direzione che la ricerca deve assumere, il tipo di spiegazione
soddisfacente, il grado di profondità raggiunto da una teoria. Essi si
collocano così all'inizio e alla fine del processo scientifico, dapprima come
selettori di problemi e poi come criteri di valutazione dei risultati
conseguiti.
La stessa epistemologia di Popper è impensabile senza
presupporre un programma di ricerca metafisica: la fede speculativa professata
è il realismo metafisico, che postula l'esistenza di leggi naturali, cioè
regolarità strutturali che soggiacciono al mondo fenomenico.
Popper dichiara di non credere più alla demarcazione tra
scienza e metafisica, sia perché idee e problemi metafisici hanno determinato
per secoli lo sviluppo della scienza assumendo la funzione di idee regolative,
sia perché alcuni programmi di ricerca metafisici, come l'atomismo, si sono
gradualmente trasformati in teorie scientifiche.
Non possiamo accettare indiscriminatamente ogni
metafisica: si tratterà piuttosto di valutarne la fecondità nei confronti della
situazione problematica con cui la teoria interagisce e la capacità di
promuovere lo sviluppo della scienza.
Della sua stessa teoria Popper è pronto a fare verifica..
In La conoscenza e il problema corpo-mente, scrive: "Devo avvertire
che la teoria provvisoria che intendo proporre non solo è provvisoria, ma non è
nemmeno propriamente una teoria se confrontata, per esempio, con le teorie
della fisica. È, in ogni caso, una teoria controllabile, e ha passato alcuni
controlli in un modo che ha superato tutte le mie aspettative. Per coloro che
hanno familiarità con la storia della filosofia, non devo nemmeno sottolineare
quanto sia del tutto insoddisfacente ciò che sul nostro problema è stato detto
finora. È soltanto in confronto a certi tentativi più primitivi che credo di
aver qualcosa da offrire" [Popper, 1996, p. 141] .
Popper ironizza sulla pretesa di inconfutabilità di tante
teorie moderne. "Molte persone ritengono, erroneamente, che una teoria
inconfutabile debba essere vera. […] Tutte queste teorie sono inconfutabili, e
questa circostanza sembra aver fortemente impressionato alcuni filosofi -
Wittgenstein, per esempio. Tuttavia, le teorie che asseriscono esattamente
l'opposto sono altrettanto inconfutabili - un fatto che dovrebbe insospettirci.
Come ho detto spesso, è un errore pensare che l'inconfutabilità sia una virtù
per una teoria. L'inconfutabilità non è una virtù, ma un difetto" [1996,
p. 144].
"È chiaro che sia il solipsismo sia la teoria di
Berkeley - detta "idealismo" - risolvono il problema corpo-mente,
perché asseriscono che non esistono corpi. Anche il materialismo o il
fisicalismo o il comportamentismo radicale risolvono il problema corpo-mente.
Ma lo fanno utilizzando lo stratagemma opposto. Essi asseriscono che non
esistono le menti, che non esistono né stati mentali né stati di coscienza. E
sostengono che non vi è intelligenza, ma soltanto corpi che si comportano come
se fossero intelligenti - per esempio, pronunciando emissioni verbali più o
meno intelligenti […]" [1996, p. 145].
"Posso descrivermi come un dualista cartesiano.
Di fatto sto addirittura facendo più di Cartesio: sono un pluralista, poiché
accetto la realtà anche di un terzo mondo […]. Con mondo 3 intendo, più
o meno, il mondo dei prodotti delle menti umane" [1996, p. 15].
"Io sono in questo senso un pluralista, e non aprirei
mai una controversia in favore della teoria secondo cui vi sono soltanto tre
mondi. Potete suddividerli quanto vi pare, e tali suddivisioni potrebbero
rivelarsi importanti per certi problemi" [1996, pp. 158-159].
Popper si schiera contro il solipsismo, all'interno del
suo metodo di indagine. "Un argomento analogamente non conclusivo contro
il solipsismo - ma che a me è sufficiente - sarebbe il seguente. Quando leggo
Shakespeare, o ascolto uno dei grandi compositori, o ammiro un'opera di Michelangelo,
sono ben consapevole del fatto che queste cose vanno ben al di là di qualunque
cosa io possa mai produrre. Secondo la teoria solipsistica, tuttavia, soltanto
io esisto - cosicché nel sognare queste cose io ne sono, di fatto, il creatore.
Ciò è per me del tutto inaccettabile. Pertanto, ne concludo, devono esistere
altre menti, e il solipsismo deve essere falso. Naturalmente questo argomento
non è conclusivo. Ma, come ho detto in precedenza, è sufficiente per me. Di
fatto, per credere seriamente nel solipsismo dobbiamo essere megalomani. Un
argomento non conclusivo di questo genere viene chiamato argomento ad
hominem. Non un argomento conclusivo ma, in effetti, un appello da uomo a
uomo." [1996, p. 143].
Il significato biologico della mente
Secondo Popper, le varie correnti filosofiche e i loro
discutibili risultati nel teorizzare la coscienza suggeriscono che "per
comprendere la mente o la coscienza, e la loro relazione con la fisiologia
dell'organismo, dovremmo adottare un punto di vista biologico e chiedere: quel
è il significato biologico della mente? Che cosa fa la mente per l'organismo?
Tutte queste teorie mi hanno portato a quella che potrei
forse chiamare una nuova teoria della mente e dell'io. Inizierò con l'osservare
che il mondo della coscienza è tanto poco omogeneo quanto il mondo 1 o
il mondo 3.
Vi è la differenza di genere nota a tutti noi fra stati di
coscienza […]
La mia prima e fondamentale congettura può, quindi, essere
formulata come segue. Parlare di corpo e di mente è fuorviante, poiché nel
regno animale vi sono molti tipi e livelli di coscienza diversi. […] La mia
seconda congettura è la seguente. Possiamo distinguere fra una piena coscienza
- ossia la forma più alta della coscienza umana - e forme più basse, che
possono differire in modo consistente.
Sorge adesso il problema del significato biologico di
questi vari livelli di coscienza. È un problema a cui è difficile rispondere.
Qui tutto, più o meno, è speculativo - anche l'esistenza di una forma di
coscienza più bassa, o animale. […]
Per rispondere mediante congetture alla domanda sul
significato biologico della coscienza introdurrò due idee: l'idea di gerarchia
dei controlli e l'idea di controllo plastico. […]
In tutti gli animali che si muovono liberamente, vi è un controllo
centrale dei movimenti. Quest'ultimo controllo, apparentemente, è il più alto
della gerarchia. La mia congettura è che gli stati mentali sono connessi con
questo sistema di controllo centrale più elevato, e che contribuiscono a
rendere questo sistema più plastico" [1996, pp. 148 e ss.].
"Chiamiamo i pericoli e gli oggetti pericolosi
"biologicamente negativi", e le opportunità "biologicamente
positive". Gli organi di molti animali sono costruiti in modo da
distinguere fra queste due classi. Il che vuol dire che essi interpretano
o decodificano gli stimoli che incontrano. […] Questo sistema - che ha
una base anatomica - è in prima istanza rigido.
La mia congettura è che, attraverso l'evoluzione
emergente, si presentano in primo luogo sentimenti vaghi. per diventare,
attraverso ulteriori passi dell'evoluzione emergente, sentimenti di dolore e di
piacere. Essi hanno, in generale, un carattere anticipatorio. A loro volta,
divengono la base di un sistema di interpretazione o di decodifica dei segnali
di livello più alto. E da questi possono svilupparsi interpretazioni
anticipatorie e provvisorie di una situazione. Significherebbe il provare
in modo provvisorio movimenti possibili o reazioni possibili, senza dover
effettuare subito realmente i movimenti. questo dovrebbe implicare un qualche
tipo di immaginazione. […] Questo, dunque, è il modo in cui la coscienza
interagisce con il corpo" [1996, p. 151].
"Quello che ho tratteggiato fino a questo punto è una
sorta di sfondo evoluzionistico generale della mia nuova teoria congetturale
della mente umana o dell'ego umano. Prima però di passare a questa
teoria, voglio sottolineare che la relazione fra stati mentali e stati fisici è
[…] fondamentalmente la stessa di quella fra sistemi di controllo e sistemi
controllati - in particolare con il feedback dal sistema controllato al
sistema di controllo. Si tratta cioè di un'interazione.
La coscienza contiene molti residui di forme più basse di
coscienza è pertanto qualcosa di estremamente complesso. La famosa idea del flusso
di coscienza è tutto sommato troppo semplice" [1996, p. 152].
Popper cita le sperimentazioni eseguite su pazienti ai
quali era stato sezionato il corpo calloso, esse gli servono per confermare la
localizzazione del controllo gerarchico superiore della coscienza: in quei
pazienti se la parte destra non entrava in gioco non potevano dare nessuna
spiegazione delle reazioni della parte sinistra. "Questi movimenti
rimangono inconsci poiché non vengono riferiti al centro del linguaggio"
[1996, p. 177].
La coscienza è nei centri di linguaggio
"Vengo adesso alla formulazione della mia teoria
della piena coscienza e dell'ego o del sé. Ho cinque tesi principali.
1) La piena coscienza è ancorata nel mondo 3 - il
mondo del linguaggio umano e delle teorie.
2) Il sé, o l'ego, è impossibile senza la
comprensione intuitiva di alcune teorie del mondo 3, lo spazio, il tempo
le persone e il loro corpi.
3) Il problema cartesiano della collocazione della piena
coscienza o del sé pensante è lontano dall'essere privo di senso. La mia
congettura è che l'interazione del sé col cervello sia localizzata nei centri
del linguaggio" [1996, p. 153].
"Nello sviluppo del bambino, l'ego o sé o
autocoscienza si sviluppa con le funzioni più alte del linguaggio" [1996,
p. 174].
"Senza disposizioni innate - disposizioni ad imparare
- non potremmo mai imparare alcunché. Il punto decisivo è la disposizione
innata ad imparare un linguaggio: questo ci fornisce la chiave per il terzo
mondo" [1996, pp. 27-28].
"Il problema corpo-mente era infatti il problema
della relazione tra i mondi 1 e 2" [1996, p. 18].
Intelligenza animale e artificiale
Alla domanda che gli viene rivolta, citando la teoria di
Lewis Mumford secondo cui le macchine vengono prima del linguaggio, Popper
risponde che "tutto depone a favore del fatto che le macchine vengono
molto tardi, soprattutto del fatto che nemmeno la più semplice delle macchine
mostra alcun segno di trinceramento genetico. E il linguaggio è geneticamente
trincerato […] Così troviamo in primo luogo, probabilmente, il linguaggio. E
troviamo un'incredibile evoluzione dell'immaginazione" [1996, p. 167].
"Gli animali possiedono un senso dello spazio
altamente sviluppato […] e un orologio interno. Essi sono, io sostengo, anche
coscienti. Ma quel che manca loro - e tutto ciò è una congettura, naturalmente
- è la capacità di vedere sé stessi come qualcosa che si estende nel tempo e
nello spazio e che agisce nel tempo e nello spazio. […] la loro coscienza è
diretta dai loro stati interiori verso eventi significativi al di fuori di loro
[…]. Al contrario, la piena coscienza di sé contiene, come una delle sue
componenti, una conoscenza di noi stessi che va indietro nel tempo, almeno per
un breve periodo" [1996, pp. 171-172].
FABRIZIO DESIDERI E LO SVILUPPO DELLA COSCIENZA TRA
L'"IO" E L'"ALTRO"
Molto interessante è la ricerca sulla coscienza condotta
da Fabrizio Desideri .
Per lui "nessuna ambizione di offrire qualcosa come
una teoria o un sistema della coscienza, Porprio a tale proposito, come si
vedrà, termini come teoria e sistema divengono alquanto
problematici. Nessuna preoccupazione, d'altra parte, di fornire un'esauriente
ricognizione storico-filosofica del problema o una descrizione del quadro
attuale della discussione, tanto complicato quanto abbastanza noto nei suoi
lineamenti essenziali" [Desideri, 1998, p. 9-10].
"È possibile interrogare la coscienza? Il mio punto
di vista in quest’indagine suona volutamente diverso da una domanda del tipo:
"È possibile sapere che cos’è la coscienza?", con tutto quel che
segue. Ciò per il motivo che quel che segue si muoverebbe, in questa seconda
posizione del problema, obbligatoriamente già in una direzione: Toward a
Science of Consciousness, per citare il titolo di un importante meeting di
studiosi di ogni disciplina e indirizzo (anche se con una netta prevalenza di
neurofisiologi, psicologi cognitivisti e ricercatori nel campo
dell’Intelligenza Artificiale) che si è tenuto nel 1994 e nel 1996 a Tucson in
Arizona . Rispetto a tale direzione, ci si può arrestare, si può proseguire in
un senso o nell’altro (connessionismo, funzionalismo, eliminativismo,
interazionismo e persino dualismo)" [Desideri, 1998, p. 11].
Egli, analizzando alcuni autori (Husserl, Wittgenstein,
Derrida e altri) mette l'accento sull'aspetto dell'ascolto, non tanto di tipo
morale, quanto di relazione riflessiva tra io, sé e altri sé. "L’ascolto
viene qui inteso sia come l'atteggiamento da assumere nella propria ricerca,
sia come una proprietà essenziale della cosa stessa: quella proprietà senza la
quale la coscienza non solo non sarebbe pensabile, ma non sarebbe nemmeno
possibile" [Desideri, 1998, p. 10].
"Quella di interrogarsi non è forse una proprietà
essenziale della coscienza? [...] La possibilità per la coscienza di funzionare
consisterebbe proprio nell'ignoranza rispetto a sé, e dunque nel dover
sintonizzare il proprio canale introspettivo verso i fenomeni di superficie. È
una questione, insomma, di rapporto tra efficienza ed economia" [Desideri,
1998, p. 26].
La coscienza = guardare l'atto del guardare
"Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche sembra
sfiorare la medesima questione rimasta insoluta nel Carmide platonico
[...] e la sfiora, si potrebbe dire, dopo aver attraversato le aporie
dell'introspezione. Il volgere l'attenzione alla coscienza non si presenta,
insomma, come un guardarsi dentro, ma piuttosto come un tentativo di guardare
l'atto stesso del guardare: un tentativo veramente paradossale - contro ogni
evidente apparenza - di considerare dall'esterno l'internità della coscienza a
se stessa" [Desideri, 1998, p. 29].
"C'è coscienza in quanto c'è relazione a sé:
autorelazione. Ma identificare coscienza e autoreferenzialità sarebbe un passo
affrettato [...] Il fatto è che con tale identificazione si tralascia di
mettere in questione il senso stesso dell'autoriferirsi, o tutt'al più lo si
identifica tacitamente con l'autoricorsività di un processo [...] con una tale
domanda l'ente o il sistema mostra di potersi mettere in questione e quindi
problematizza il senso stesso dell'autoriferimento" [Desideri, 1998, p.
13].
Desideri ricorda i diversi esiti possibili della
teorizzazione della coscienza: dal funzionalismo di Putnam ("il software
del cervello può funzionare anche altrove"), che poi però ha smantellato
la sua posizione, al connessionismo della Churchland ("la coscienza può
essere riprodotta con calcoli in parallelo, rete di connessioni!) [Desideri,
1998, p. 13 in n.].
Poi c'è la proposta di soluzione agnostica del problema
della coscienza di Colin McGinn ("la mente non è trasparente a se stessa").
Desideri li definisce "neomisteriani" [1998, p. 20].
L'approccio wittgensteiniano porta invece a dissoluzione
della coscienza, disvelamento del carattere di illusione filosofica del
problema tramite un terapeutico ricorso a un'analisi del nostro comportamento -
non solo linguistico - in sitazioni ordinarie [cfr Desideri, 1998, p. 27].
Coscienza come factum e medium
Il problema della coscienza come lo si intende oggi è un
problema di accesso epistemologico ai contenuti psichici oppure come il problema
di un legame tra psichico e fisico [Desideri, 1998, p. 18]. "Il problema
dell'interrogarsi sembra non potersi declinare altrimenti che nei termini di
Agostino "quaestio mihi factus sum". Ma come sviluppare tale
questione, come discorrerne se, ancor più radicalmente della prima persona
singolare, del suo punto di vista privilegiato, coscienza qui significa
innanzitutto il medium al cui interno ci troviamo già a pensare e a
parlare? Il termine del discorso - ciò su cui esso verte - è nel contempo anche
il territorio nel quale ci muoviamo. O, se si vuole, il factum nel quale
non possiamo che disporci" [Desideri, 1998, p. 14].
"Nessun discorso sul metodo può in questo caso
presentarsi come esterno alla vera e propria indagine aperta dall'interrogativo
iniziale ("è possibile interrogare la coscienza").
La questione della coscienza appare, così, come del tutto
interna alla sua fattualità, come implicata in quello che abbiamo detto il suo
carattere "mediale" [...]. E a tale fattualità, in certo modo, non
potrà aggiungere nulla. Potrà tutt'al più chiarire quanto avviene e come può
avvenire" [Desideri, 1998, p. 16].
Il lavoro della filosofia "non potrà mai significare
l'aggiunta di una dimensione ulteriore a questo fatto: una sorta di
super-coscienza della coscienza comune. O l'indagine viene a chiarire quanto
già si sapeva all'inizio, oppure deve riconoscere che si era sbagliata circa il
suo oggetto. […] Quel che deve essere afferrato è l'atto stesso del
guardarsi" [Desideri, 1998, pp. 16-17].
Altro tema che appassiona Desideri è "il rapporto tra
la societas della mente e l'unità della coscienza" [Desideri, 1998,
p. 39-40].
IX
Due tentativi discutibili
di teorizzazioni psicologiche della coscienza
e altri assai pregevoli di matrice cristiana
In questo capitolo cito due ricerche che si presentano
particolarmente promettenti e ambiziose, eppure si rivelano ad una più attenta
analisi assai incomplete, ossia dunque dei modelli in negativo molto
istruttivi. Ma nella parte finale aggiungo anche una panoramica su altre
ricerche molto interessanti e ormai classiche di matrice cristiana.
LA "PSICOLOGIA CRISTIANA" DI GIOVANNI PETROCCHI
L'intento di G. Petrocchi, come egli stesso scrive nel
titolo della prima parte del suo libro , è di "fondare una psicologia
scientifica cristiana".
Esordisce scrivendo che "La Psicologia Scientifica
Cristiana è la teoria psicologica fondata da uno, della moltitudine di uomini
che costituiscono il popolo di Dio, un cristiano, il quale, sia per l'iter di
studi compiuti che per la professione che quotidianamente svolge , ha la
peculiarità di occuparsi attivamente, da circa quindici anni, di psichiatria e
psicologia.
Essa nasce, nell'intenzione del suo fondatore,
dall'esigenza di colmare un vuoto che, come psicoterapeuta e cristiano, egli
stesso - non diversamente da numerosi altri credenti - ha avvertito nel corso
degli ultimi anni con particolare intensità.
Non è difatti disponibile nell'ambito della cultura
contemporanea, per quanti non si riconoscono nei modelli ideologici attuali e,
in particolare per coloro che simpatizzano per gli ideali sanciti da Cristo nel
Vangelo, un movimento psicologico di chiara ispirazione cristiana, a cui poter
fare riferimento per tutte le questioni di natura psicologica e psicopatologica
alle quali fossero a vario titolo interessati.
Effettivamente nel corso degli ultimi anni è sembrato
sempre più consistente il numero dei cristiani che avvertono l'esigenza di un
movimento psicologico più vicino alla proprio sensibilità etica e spirituale; una
scuola psicologica che consenta, cioè, al credente di conoscersi ed occuparsi
attivamente del miglioramento della propria personalità senza dovere, per
questo, vedere messa in discussione la propria fede" (p. 21).
Tale proposito ha una grande dignità ed è molto
interessante. Tiene però poco in considerazione il fatto che ormai da alcuni
decenni si è stemperato ed è in pratica scomparso il vecchio e duro scontro tra
psicanalisi e pensiero cristiano. Per fare solo un esempio, ormai non si
contano più le esperienze terapeutiche che coniugano ricerca della fede e
terapia.
Petrocchi denuncia i tempi difficili (stress, consumismo,
materialismo, la scristianizzazione) e la mancanza di un movimento psicologico
di ispirazione cristiana che aiuti per esempio nell'educazione, fornendo un
alternativa agli imperanti sistemi di valori sostenuti da psicanalisi e
comportamentismo.
L'obiettivo ideale è di "ispirarsi fin dalle
fondamenta alle verità affermate - sulla personalità umana - dalla Religione
Cristiana, in consonanza ai dati offerti dalla Rivelazione" (pp. 24-25) ma
rimanendo un movimento scientifico autonomo.
Critica dei presupposti
Un altro aspetto interessante è la premessa metodologica,
la dichiarazione del "credo" su cui si basa la teoria del Petrocchi. In
questo egli si appoggia a riflessioni imperiture di F. Nietzsche: "Si vede
che anche la scienza riposa su una fede, che non esiste affatto una scienza
"scevra di presupposti"" e "La disciplina dello spirito
scientifico non comincerebbe forse qui, nel non concedersi più convinzione
alcuna? … Probabilmente è così: resta soltanto da domandare se, affinché questa
disciplina possa avere inizio, non debba esistere già una condizione, e invero
così imperiosa e incondizionata da sacrificare a se stessa tutte le altre"
.
"Non esiste, giudicando rigorosamente, alcuna scienza
"priva di presupposti", il pensiero di una scienza siffatta è
impensabile, paralogico: una filosofia, una "fede" deve sempre
preesistere, affinché la scienza derivi da essa una direzione, un senso, un
limite, un metodo, un diritto all'esistenza. […] La scienza è ben lontana dal
riposare su se stessa, ha sotto ogni aspetto innanzitutto bisogno di un ideale
di valore, di una potenza creatrice di valori, al servizio della quale possa
credere in se medesima - essa stessa non è creatrice di valori" ed "è
pur sempre una fede metafisica quella su cui riposa la nostra fede nella
scienza" .
Petrocchi cita anche N. Hartmann secondo il quale
"ogni teoria che vuole essere più che semplice descrizione diventa
necessariamente metafisica fin dai primi passi".
Petrocchi cita per alcune scuole filosofiche il credo di
fondo.
Si potrebbe aggiungere l'esempio di una scuola che si è
affermata con grande forza, l'Analisi transazionale , che poggia tutta su pochi
postulati come "tutti gli uomini sono uguali", "Nessuno può
farmi soffrire se non gliene do il potere", "Esiste un copione che
definiamo all'età di 4 anni a cui obbediamo per tutta la vita". Il credo
dunque indica i valori di fondo della scuola di pensiero e fornisce una visione
del mondo speciale.
Il "credo" su cui la Psicologia Scientifica
Cristiana fonda la propria dottrina psicologica "si identifica nella piena
fiducia nella veridicità dell'insegnamento annunziato sulla psiche dell'uomo da
Cristo" e "la componente soggettiva che ne deriva, consiste nel fermo
convincimento del fondamento morale della psichicità umana, cioè
nell'affermazione che i processi posti alla base della salute tanto quanto
della malattia mentale, sono sostanzialmente di natura etica (pp. 34-35).
Fino a qui, dunque, nelle premesse, tutto il discorso
sembra interessante. È stata posta una sfida attuale e coraggiosa, è stato
preso in considerazione un grande sistema di valori.
Ma cosa ne consegue?
Il fatto cristiano come ideologia
È qui che il Petrocchi comincia a disperdersi, a
rallentare l'analisi e al contempo a sciogliere la briglia della teorizzazione
non-scientifica.
A pagina 35 paragona la religione cristiana a una
ideologia, perdendo così la dimensione più profonda del fatto cristiano che si
basa su un evento, una persona, che si vuol credere ancora Viva. Quindi
l'affermazione che la psicologia cristiana non differisce dalle altre
psicologie è un tradimento della sostanza dell'esperienza cristiana e viene
persa in un colpo la sfida di mettere in contatto il paradosso salvifico della
Risurrezione con gli strumenti analitici e terapeutici.
Nel primo capitolo della parte seconda Petrocchi comincia
a fare uso - un uso che diverrà sempre più ampio e indiscriminato - della
Bibbia: "In nessun libro la psiche dell'uomo è scandagliata, sezionata,
analizzata, attentamente descritta e soppesata in ogni suo più remoto aspetto
come nella Bibbia" (p. 47).
Di essa tiene conto che "non usa un linguaggio
sistematizzato", ma può comunque essere utilizzato come materiale simile a
quello che le scienze psicologiche studiano fin dai loro esordi.
Petrocchi ammette però che "la Bibbia non fornisce
una definizione chiara e sistematica dei costituenti la natura umana" (p.
50).
E nonostante questo, da qui in poi, tutto il libro (oltre
300 pagine) è basato su dati biblici da cui l'autore parte per costruire
schemi, spiegazioni della mente, della coscienza, dei meccanismi della psiche.
Ma non si tratta neppure di una "psicologizzazione del pensiero biblico",
ciò che avrebbe una sua dignità, dal momento che non esistono analisi accurate
dei libri sacri né citazioni di studi in proposito. Quindi tutto si riduce a
una psicologizzazione del pensiero tradizionale cattolico… Nel complesso si ha
l'idea di una teoria poco scientifica, molto schematica, spiritualista,
tradizionale e poco significativamente psicologica.
Per esempio dal richiamo che Gesù fa della Legge
("Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima
e con tutta la tua mente" Mt 22,37) Petrocchi deduce una
"tripartizione funzionale dell'anima in
"cuore-mente-spirito"" (p. 57) da cui deduce costellazioni di
dimensioni interiori e che infine usa come impostazione fondamentale per
descrivere la struttura della psiche.
Una lettura moralistica e fondamentalista (ma senza
bibliografia)
La declinazione disinvolta di tali termini, senza validi
sostegni storici, teologici, psicologici diventa incontrollata.
È allora che si incomincia a incontrare frasi come
"legata a una concezione fondamentalmente materiale e individualistica
della realtà, la coscienza - "idea di sé" - se staccata dall'azione
illuminante dello spirito è, tra l'altro, spontaneo motivo di rinforzo
dell'egoismo dell'inconscio…", dove emergono il sostrato moralistico
(peraltro dichiarato nel suo "credo" di fondo) e il ripescaggio
disinvolto di così tanti concetti antichi e tradizionali.
Sembra quasi che il dolore del mondo dipenda dal desiderio
della "mente", proprio della mente, di vedere soffrire gli altri
uomini (p. 73).
A p. 208 Petrocchi fornisce uno schema riassuntivo che
sancisce definitivamente l'astruseria della sua teorizzazione. Esso dovrebbe
descrivere la "Psichizzazione del corpo + Somatizzazione dell'anima =
unità pneumo-psico.somatica", tirando in ballo l'Animo (cuore), l'Io
(coscienza = idea di essere sé), il Sé (spirito = sovraconscio = idea del bene
e del male) e l'Inconscio (idea di poter essere) in varie sfere che si
compenetrano.
Altro elemento debole è la bibliografia, ridotta a 28
titoli, di cui quasi metà testi patristici, scritturistici o medievali, poi
tanti di teologia, letteratura e filosofia e appena qualche grosso nome della
storia della psicologia; nessuno studio clinico, ricerche aggiornate, confronti
con altri movimenti o scuole di pensiero psicologico.
Dunque, questo lavoro di Petrocchi si rifà solo alla
Bibbia cadendo in una logica "fondamentalista" che inquina il metodo
di indagine psicologico.
Come si può sostenere che la Bibbia è un'opera di
psicologia, quando la psicologia è nata come scienza (e ancora qualcuno ne
discute lo statuto di "scienza") da neanche due secoli? Come si può
sostenere, in un lavoro che ha pretese scientifiche e addirittura diagnostiche
e terapeutiche che Gesù era uno psicoterapeuta? Dio forse è uno psicologo?
Io mi sentirei di affermare al massimo che Dio non è uno
psicologo, ma in tutte le guarigioni, anche quelle psicanalitiche c'è Dio.
Perché Dio è ovunque, vuole la salvezza, guarisce il sofferente. Ma questo è
linguaggio biblico, è riflessione teologica, è esperienza di fede. Non può aver
valore il passaggio disinvolto tra ambiti così diversi come la psicologia e la
teologia.
Il libro è infarcito di moralismo (si veda la parte
quarta, capitolo I, d: "Desiderio e volontà, senso di colpa ed autocritica:
una delicata questione diagnostica") e non offre uno strumento terapeutico
valido e stimolante.
LA "PSICOLOGIA COSCIENZIALE" DI E. MAIMONE - F .
FICONERI
Per il lavoro di E. Maimone e F. Ficoneri si possono porre
obiezioni simili a quelle già elencate per il lavoro del Petrocchi.
Gli autori - di cui si sa solo che hanno scritto anche il
libro La donna fra cultura e conoscenza - hanno l'ambizione, con gli
"otto anni di ricerca personale, tanto silenziosa quanto feconda" di
aver realizzato la "nascita di un nuovo sistema psicologico".
Quella di Maimone e Ficoneri è una teoria complessa, a
tratti innovativa, un tentativo di fondare una psicologia coscienziale,
che tiene conto di tanti risultati dell'indagine psicologica e delle
neuroscienze, una psicologia "fondata sulla realtà informatica
naturale".
Il libro nel complesso interessante e coraggioso, è
critico verso il mondo della ricerca, tanto spesso arroccato e poco disponibile
al confronto, a battere strade nuove, ad appoggiare ricerche pionieristiche.
Ha però dei vizi di fondo e dei limiti che ne riducono
considerevolmente il valore, fino a mostrarlo come un lavoro a tratti da
principianti, per quanto riguarda il peso innovativo teorico.
Per esempio la bibliografia è addirittura completamente assente.
Sono però presenti nel testo (252 pagine) o nelle note a piè di pagina
citazioni di ricerche cliniche, rimandi a strumenti diagnostici e di indagine
(sul cervello, per esempio), saggi di padri fondatori della psicologia e altri
pensatori. Ai fini di questa dissertazione l'argomento e la teoria del libro
sarebbero utilissimi, ma non se ne può ricavare molto.
Per gli autori "la coscienza dell'uomo è il
collegamento dei collegamenti, un anello di convergenza delle proiezioni
istintuali di base (conservazione, sessualità, conoscenza), una sintesi cioè
tra cognitiva [sic, n.d.r.] ed affettività. Perché in ultima analisi
anche la coscienza è una struttura neurobiologica, dobbiamo individuare e
descrivere un processo di maturazione coscienziale a cui possiamo utilmente
riferire ogni programma comportamentale" (p. 149).
Nel "Protocollo esplicativo" gli autori citano
con insistenza gli aspetti genetici e neurologici della mente ("la mente
genetica di un sistema vivente"), si definiscono appartenenti alla corrente
del "dualismo interazionistico, interno all'uomo, di carattere dinamico
evolutivo, tra mente genetica e area neuronale" (p. 16).
Molti cognitivisti dicono che "la personalità
dell'uomo è "essenzialmente appresa" e molti sociologi ed educatori
che "si possono formare le coscienze". Ed è in effetti una tendenza
preoccupante, la falsa problematica del cosa dare e cosa vietare ai cittadini
di tutti gli stati. […] dunque noi contestiamo il contenuto di tali concetti,
ribadendo che l'Io non è un pronome, ma un'area specializzata del cervello, a
cui fanno capo tutte le canalizzazioni organiche, dirette e indirette, nonché
genetiche dell'uomo" (p. 23).
"La vita non è comparsa per caso […]. Nell'universo,
da noi ritenuto un grande sistema aperto, scenario di libere aggregazioni,
prendono origine i sistemi viventi, i sistemi chiusi, in cui le relazioni sono
vincolate. […] La nostra filosofia della natura ci fa vedere la materia come
informazione. […] La realtà naturale resta per noi una realtà informatica"
(pp. 27-28).
Ciò che sorprende è l'uso di questi concetti, ormai
classici (da Galileo a S. Hawkins) come fossero inventati per la prima volta
dai due emeriti studiosi.
La "Teoria del sistema chiuso" è l'argomento
della prima parte del libro, tra programmazione evolutiva, mente genetica e
pensiero istintivo.
Cervello maschile e cervello femminile
La seconda parte analizza la struttura psicologica
dell'uomo, arrivando ad un'affermazione sorprendente: il cervello delle donne è
diverso dal cervello degli uomini ("Il diverso funzionamento del
cervello nei due sessi", capitolo IV, parte seconda).
Concetto che gli autori ribadiscono nella terza e ultima
parte del libro ("La Psicologia coscienziale"), dove
approfondiscono l'aspetto della formazione della coscienza e del pensiero,
della crescita: il processo coscienziale, ovvero un nuovo concetto di età
evolutiva globale.
Sulle differenze tra maschio e femmina insistono a partire
dalle strutture cromosomiche (p. 167 ss.) per arrivare a una distinzione del
"processo di pensiero femminile" dal "processo di pensiero
maschile"
È in questa sezione che si lasciano andare ad affermazioni
come "Il pensiero della donna è snello, non appesantito da preoccupazioni
formali o morali…" (p. 195), "Non di rado la femmina diviene
grottesca, quando la si scopre intenta a conciliare degli opposti valori…"
(p. 196), "Mentre la giovinetta risponde sempre in qualche modo ai
richiami, l'adolescente maschio spesso non risponde agli stessi, poiché nemmeno
li sente…" (p. 199).
Ed è proprio questa parte, così delicata e che dovrebbe
essere innovativa, che ha la minor giustificazione clinica, scientifica o
blibliografica.
Gli autori distinguono varie tipologie di personalità
("prototipi umani") e arrivano a una dichiarazione definitiva (nel
capitolo VII, "Le età coscienziali", p. 210 ss.), riassunta in
uno schema - sorprendente e inquietante - sulle fasi di crescita coscienziale
(p.212):
FASI DI CRESCITA COSCIENZIALE
Donna Uomo
3-8 Età magica della fabula sì sì
8-10 Età dell'imitazione sì sì
10-12 Età della recitazione sì sì
12-16 Età delle opinioni sì sì
16-25 Età degli ideali sì sì
25-35 Età del senso critico sì sì
35-45 Età dell'analisi sì sì
45-55 Età dell'autonalisi no sì
In base a cosa gli autori hanno suddiviso le età? E come
possono giustificare questa discriminazione tra i sessi? Ci sarebbe da sperare
in un errore tipografico, ma agli autori sanno quello che scrivono:
"L'uomo è potenzialmente in grado di raggiungere la maturità: quella di
conservazione, quella sessuale e quella conoscitiva. Sembra inutile a questo
punto ripeterne i motivi: essi sono stati già ampiamente illustrati nei
capitoli sul processo di pensiero e coscienziale, maschile e femminile.
Per i medesimi motivi, la donna risulta potenzialmente in
grado di raggiunere la sola maturità sessuale; ciò la ancora irrimediabilmente
(o fortunatamente) al partner o al figlio, per l'inserimento coscienziale nella
realtà" (p. 232).
A titolo di informazione, un'altra ricerca, basata su una
teoria del cervello, sembra essere arrivata alla conclusione opposta: la
superiorità della donna .
Ciò a dimostrazione di quanta poca univocità, distinzione
e chiarezza sperimentale ci sia in questa materia…
UNA PLAUSIBILE CORRELAZIONE TRA PSICANALISI E VERITÀ DI
FEDE. ALCUNI ESEMPI
Françoise Dolto e "La psicanalisi del vangelo"
Queste mie critiche al lavoro di Giovanni Petrocchi, che
potrebbero sembrare eccessive, trovano una conferma in un lavoro di tutt'altro
genere che mostra come, al contrario, sia legittima la sfida di mettere il
Vangelo sotto verifica da parte della psicanalisi e come se ne possa trarre
spunti di grandissimo rilievo teologico, psicanalitico, antropologico e
culturale.
È l'opera della psicanalista francese Françoise Dolto, che
si presenta in modo affascinante nel libro che in origine si intitolava
appunto: L'évangile au risque de la psychanalyse .
In esso la Dolto, in dialogo con Gérardin Sévérin,
utilizza le parabole dai vangeli di Luca Marco e Giovanni scoprendo
interessantissime notazioni psicanalitiche che evidenziano la capacità
terapeutica di Gesù di Nazareth e i movimenti interiori e i significati delle
relazioni che egli viveva con le persone, la folla, il Padre.
Toccanti in particolare gli episodi delle risurrezioni
che, attraverso la lettura psicanalitica acquistano significati nuovi,
difficilmente udibili nelle tradizionali sedi di interpretazione della Parola,
della figura di Maria, madre di Gesù, e la sua famiglia e della dimensione
dell'amore altruistico (dal buon Samaritano).
Temi che la Dolto analizza acutamente: il desiderio
profondo, la maturazione della persona e il distacco dai genitori, malattia e
guarigione, la società e l'individuo.
Giacomo Daquino
Il libro dello psichiatra e neuropatologo Giacomo Daquino,
Religiosità e psicanalisi , è un buon manuale di psicologia e
psicopatologia religiosa, basato sulla conoscenza della storia delle
interpretazioni psicologiche e psicoanalitiche del fenomeno religioso. Oltre ad
analizzare la genesi ed evoluzione della religiosità e la psicopatologia
religiosa con la relativa psicoterapia, esplora il tema della maturità e
immaturità morale (pp. 233 ss.) con ben altro metodo e senso critico rispetto a
quello utilizzato da Petrocchi, Ficoneri e Maimone.
Senza tralasciare il dibattuto argomento del rapporto tra
psicoanalisi e cura spirituale (pp. 269 ss.) , psicanalisi e confessione (pp.
287 ss.).
A proposito della genesi e strutturazione della
religiosità Daquino illustra le varie posizioni (innatista, derivazionista,
bisogno di dipendenza, ecc.) a cui non può allearsi perché tutte
"interpretazioni non sostenute da un convincente materiale scientifico che
ne dimostri la validità" e dichiara la sua posizione: "Anche se la
ricerca delle cause psicologiche della religiosità infantile può solo fornire
ipotesi interpretative senza pretendere di poter spiegare perentoriamente la
genesi del fenomeno, preferiamo pensare che la religiosità infantile derivi da
una "disponibilità religiosa istintiva aspecifica" d'origine
inconscia e quindi intrinseca allo psichismo umano. Infatti nei primi
tre-quattro anni di vita, il bambino manifesta un atteggiamento religioso che
ha dell'istintivo e non può essere soltanto dovuto a dei meccanismi di
identificazione e di proiezione e nemmeno connesso all'apprendimento e
all'imitazione" [Daquino, 1980, pp. 59-60]. Nei primi due anni di vita il
bambino non manifesta ancora un sentimento o un pensiero religioso. Solo verso
i tre anni presenta un crescente sviluppo della funzione simbolica che gli
permette di avvicinarsi alla religiosità.
Victor Frankl
Invece Dio nell'inconscio , il libro di Victor
Frankl, il fondatore della terza corrente viennese della psicoterapia, la
"logoterapia" (che "per definizione è una psicoterapia che parte
dallo spirituale") vuol mostrare che l'uomo non è soltanto dominato da
un'istintività incosciente, come sostiene Freud, ma è caratterizzato anche da
un inconscio spirituale. Perciò analizza i casi modello della coscienza morale
e dell'interpretazione dei sogni per trovare la realtà di una religiosità e di
un legame con Dio, inconscio dell'uomo, che egli rende con la formula del
"Dio inconscio", da non fraintendere, come esplicitamente avverte, in
senso panteistico.
Per introdurre il tema della trascendenza della coscienza,
Frankl cita un'espressione di Maria von Ebner-Eschenbach: "Sii padrone
della tua volontà e schiavo della tua coscienza". "La coscienza,
quale fatto psicologico immanente, richiama da se stessa la trascendenza: essa
viene compresa solo partendo dalla trascendenza, solo in quanto è essa stessa
in certo qual modo un fenomeno trascendente" (p. 61). "La coscienza
diventa comprensibile solo partendo da una regione che sta al di là del piano
umano: ultimamente, la si comprende solo se l'uomo è visto nella sua creaturalità,
nel suo "essere-creato"" (p. 62). La coscienza dunque non è
l'ultima (come pensa l'uomo irreligioso che la prende solo nella sua fatticità
psicologica) ma la penultima istanza (p. 64).
A proposito della coscienza come organo di significato
Frankl scrive che "Il significato non solo deve, ma può essere trovato. La
coscienza viene in aiuto per una tale ricerca. In una parola, la coscienza è un
organo di significato. La coscienza si può definire come la capacità intuitiva
di scoprire il significato univoco e singolare nascosto in ogni situazione. […]
La coscienza può talvolta sviare l'uomo. Non solo: fino all'ultimo momento
della sua vita, fino all'istante di esalare l'ultimo respiro, l'uomo non può
mai sapere se effettivamente ha realizzato il significato della sua vita,
oppure se non si è piuttosto ingannato: ignoramus et ignorabimus. Ciò
non vuol dire che non esista la verità. Può esserci infatti solo una verità.
Nessuno però può sapere se sia lui, oppure un altro, a possederla" (pp.
105-106)
"Mi sono permesso di introdurre una definizione
operazionale di Dio ["Dio nell'inconscio", n.d.r.] talmente neutrale
da comprendere anche l'agnosticismo e l'ateismo. Ciò facendo sono rimasto
psichiatra, e confrontandomi con la religione, l'ho considerata come un
fenomeno umano, anzi espressione del più umano dei fenomeni umani, ossia la
volontà di significato. La religione infatti può essere definita come
realizzazione di una "volontà di significato ultimo""
(pp. 143-144). In altra pagina infatti Frankl dichiarava uno dei suoi assunti:
che non esiste alcun ateo puro.
parte terza
Per una teoria spirituale della
coscienza
X
La genesi della coscienza umana
Il dibattito sull'origine della coscienza nel bambino, sul
significato profondo e "coscienziale" del primo sviluppo neuronale è
complesso e ricco di posizioni opposte.
In questo capitolo cerco di darne conto, mettendo a
confronto le opposte argomentazioni sull'"innatismo" della coscienza.
Sulle potenzialità della mente infantile è appena uscito
il libro di Gopnik, Meltzoff, Kuhl, Tuo figlio è un genio Le straordinarie
scoperte della mente infatile (soprattutto il capitolo 6 "Quel che gli
scienziati hanno imparato sul cervello dei bambini", pp. 215 ss.) che è
molto aggiornato e completo, eppure semplice e molto chiaro a proposito dello
sviluppo del cervello e della mente nei bambini, con anche ottimi consigli su
come educare e sviluppare le giovani menti.
Un'ampia indagine sulla genesi della coscienza umana
nell'infanzia è stata svolta da C. Trevarthen . Tale ricerca risulterà molto
utile al mio tentativo personale di analisi della coscienza che proporrò negli
ultimi capitoli di questa dissertazione.
Nei primi messi di vita le cellule cerebrali continuano a
dividersi e moltiplicarsi e i loro prolungamenti fibrosi stabiliscono i
collegamenti: e qui succede qualcosa di singolare, che non si nota nelle altri
parti del corpo umano: le cellule si sviluppano secondo le condizioni
dell'ambiente esterno. È questo l'unico periodo nel quale influssi esterni come
per esempio la percezione che arriva attraverso gli occhi, il naso, il gusto,
l'udito e il tatto intervengono direttamente nella costruzione del cervello,
provocando modificazioni anatomiche e stabilendo collegamenti durevoli fra le
cellule che via via si sviluppano .
Secondo Sperry, la coscienza umana è il principio
gerarchicamente più elevato di organizzazione della mente, identificabile con
l'intero ordinamento spazio-temporale dei cervello; essa è in grado di
controllare i sistemi neurali che compongono la mente, compresi quelli preposti
alla raccolta delle esperienze e all’orientamento finalistico delle azioni in
rapporto al mondo. Tale teoria ha un riscontro pratico nell'osservazione di
come funziona la mente di un bambino. Se, infatti, compito della coscienza è
controllare in modo unitario e coerente tutti i processi cerebrali di livello
inferiore, fisiologicamente automatici, nonché attribuire un valore e un senso
alla realtà esperita dai sensi, allora l'organizzazione della coscienza -
almeno nelle sue grandi linee - deve necessariamente precedere l'apprendimento
acquisto attraverso l'esperienza, proprio come l'organizzazione degli organi
embrionali precede l'emergere della loro funzionalità.
La coscienza esiste fin dalla nascita?
"È mia convinzione che il sistema fondamentale della
mente non possa formarsi dall'apprendimento, a partire da un sistema sprovvisto
all'origine di tale livello organizzativo, ma che piuttosto la coscienza sia
presente e operante sin dalla nascita, quale principio di attività mentale e di
motivazione all'apprendimento e allo sviluppo mentale stesso. A mio giudizio,
inoltre, la coscienza del bambino attribuisce un valore del tutto particolare
alla comunicazione umana, è cioè strutturata per interagire con la coscienza di
altri essere umani. In questo sembra consistere quella particolare strategia
secondo la quale le funzioni mentali umane crescono nel cervello attraverso
l'apprendimento per imitazione, il gioco collettivo e lo svolgimento di compiti
culturali, sotto la guida degli insegnanti" [Trevarthen, 1991, p. 120].
Nel corso degli ultimi vent'anni, mentre andava
affermandosi la cosiddetta rivoluzione della coscienza la psicologia
evolutiva - che indaga ciò di cui è cosciente il bambino, e la finalità che
egli attribuisce all'esperienza - ha ottenuto notevoli scoperte e ampliato
enormemente il proprio campo di ricerca. Nuove intuizioni in materia di
sviluppo comportamentale hanno condotto gli psicologi a rivedere molte delle
assunzioni riduzionistiche circa la natura dei fenomeni mentali, del linguaggio
e dei pensiero razionale.
Fin dagli inizi i pionieri di questa disciplina (Baldwin,
Geseli, Wallon, Piaget) e alcuni esponenti della tendenza psicoanalitica
(Melanie, Fairbairn, Winnicott) aprirono la strada a questi sviluppi fornendo i
primi dati su vari aspetti del comportamento infantile che ponevano in luce una
notevole e precoce complessità mentale. Nessuno di loro, tuttavia, era pronto
ad accettare che la coscienza umana avesse origine nella fase prenatale.
La tendenza dominante in psicologia fra gli anni '30 e gli
anni '50 considerava il neonato com un insieme di riflessi ciechi, ciscuno dei
quali provocava - come il petardo esplode all'accensione della miccia - un
movimento indotto da un preciso evento fisico, designato come lo stimolo a una
determinata risposta. La ricerca ha dimostrato. invece, che anche appena nato e
con un'esperienza limitatissima del mondo esterno al corpo della madre il
bambino possiede già una consapevolezza unitaria che lo motiva a ricercare attivamente
esperienze conplesse di oggetti reali, a darne una prima interpretazione e ad
apprendere.
La coscienza del neonato è essenzialmente tesa
all'esplorazione degli altri esseri umani, e della madre in particolare, e le
reazioni a quest'ultima costituiscono terreno fertile di ricerca per lo
studioso dei processi mentali nel bambino.
Molto probatori, in questo senso, si sono rivelati i test
d'imitazione, molto semplici ma raramente usati in passato perché ritenuti poco
credibili. Verso gli inizi degli anni '80, alcuni ricercatori scoprivano che
neonati di poche ore riuscivano a imparare per imitazione come mostrare la
lingua, muovere le mani o produrre semplici vocalizzi. In nessun caso poteva
trattarsi di un riflesso semplice o di un "modello fisso di azione":
affinché il bambino colleghi l'esperienza visiva di qualcuno che mostra la
lingua con il movimento della propria, deve associare la motivazione o la
sensazione della protrusione linguale con l'immagine di un'altra persona intenta
nello stesso gesto. Poiché il bambino non è in grado di vedere la propria
lingua, bisogna presupporre che egli compia un'associazione mentale fra la
sensazione del movimento della lingua e la vista dei medesimo movimento nel
partner.
Il feto, il neonato e le prime relazioni
Il neonato imita solo le espressioni potenzialmente utili
alla comunicazione, comprese alcune mimiche facciali atte a esprimere emozioni
come la sorpresa, la tristezza o la felicità. Ricorre alle espressioni solo
quando queste costituiscono una sorta di messaggio nella comunicazione.
L'imitazione inoltre è biunivoca, giacché anche la madre imita il bambino, e
nel farlo gli insegna a parlare, intuendo lo sforzo che egli sta sostenendo per
dirle qualcosa.
Prima ancora di nascere, il feto riconosce il suono della
voce materna ; ciò fa sì che il neonato preferisca questa voce a quella di ogni
altra donna (De Casper e Fifer). Quanto alla voce paterna, è sicuramente
distinta dalle altre e tuttavia non ancora oggetto di preferenza. Se per la
madre è importante sentirsi riconosciuta e ricercata con ogni mezzo, sembra che
al bambino importi soprattutto riconoscerla immediatamente dall'odore e dal
suono della voce. Ben presto, anche l'immagine del volto materno diviene fonte
di piacere.
Le reazioni del bambino alla presenza delle persone e
della madre in particolare, sono molto complesse, e tuttavia la sua
consapevolezza non si limita ai soli individui, ma si estende al mondo fisico
visivo che egli comincia a esplorare con movimenti coordinati della testa,
degli occhi e delle mani, anche se la muscolatura, molto immatura, non gli
consente di mantenere la posizione eretta e la testa e le braccia sono ancora
malsicure. Con movimenti mirati e coordinati egli riesce, inoltre, a
raggiungere e afferrare un oggetto.
I processi interni al suo giovanissimo cervello, solo
parzialmente sviluppato, raggiungono un notevole livello organizzativo, tanto
da consentirgli di assegnare un fine alle proprie azioni e da guidare i suoi
movimenti in un campo percettivo unitario.
Le componenti principali del meccanismo uditivo sono in
grado di informare la coscienza del feto già un paio di mesi prima della
nascita; quanto al sistema visivo, esso comincia la sua esplosiva
differenziazione solo nel periodo postnatale.
Nel giro di poche settimane, a misura che la vista si
acutizza, emerge un'abilità fondamentale, una capacità tipicamente umana di
condividere la coscienza, da cui dipendono tutte le altre qualità sociali e
culturali (Braten, 1988). Si tratta della capacità di condividere con un'altra
persona - preferibilmente conosciuta, per lo più la madre - un gioco che imita
la conversazione, uno scambio di espressioni definito
"protoconversazione", o conversaione primordiale (Bateson, 1979).
Le vocalizzazioní, ovvero quell'insieme di movimenti
"prelinguistici" della mascella, delle labbra e della lingua, sono in
sincronia con movimenti gestuali delle mani e delle dita, che quasi sempre il
bambino effettua con la destra leggermente più alzata della sinistra
(Trevarthen 1986).
Tale comportamento giustifica, in un contesto di scambio
interpersonale e condivisione dei sentimenti, l'uso del termine
"protoconversazione". Sembrerebbe, infatti, che il bambino voglia
comunicare alla madre un messaggio, o una frase, su qualcosa che egli conosce e
intende esprimere. La madre, dal canto suo risponde a tali scoppi espressivi
come se il bambino dices se effettivamente qualcosa, interloquendo a sua volta
con frasi tipo: "Oh, interessante!", "Ma che bella storiella!",
"Dai, dammene ancora un'altra!", "Ma davvero?!". Va
ammesso, comunque, che non esiste prova alcuna che il bambino esprima, nel suo
"parlare", delle idee sulla realtà che lo circonda, anche se
indubbiamente agisce come se avesse qualcosa da dire.
Rivolgendosi al bambino, la madre atteggia il volto a
espressioni felici, gioiose e amorevoli, parla con voce carezzevole e pacata,
spesso sussurra, usa un tono più alto del normale e si esprime con frasi brevi
e cantilenanti. Sono queste le caratteristiche del linguaggio infantile
universale, oggi definito intuitive motherese ("madrese"
intuitivo), che risulta essere lo stesso da cultura a cultura, da lingua a
lingua. In esso vengono infatti stravolti i caratteri prosodici, tonali e
sillabici propri della lingua materna, cosicché tutte le madri finiscono col
parlare con la stessa cadenza e la medesima intonazione (Fernald, 1985).
Nel toccare e carezzare il bambino, le mani della madre si
muovono delicatamente, secondo un ritmo ripetitivo e periodico la cui frequenza
comunica l'intensa carica di affetto che il neonato le ispira; i movimenti del
volto e del capo, i vocalizzi e i movimenti delle mani sono coordinati o
sincronizzati. Essi sono chiaramente regolati da un meccanismo che permette alla
madre di comunicare al bambino gli stati motivazionali dinamici del suo Io già
formato; essa lo aiuta così a modulare questo scambio, anima e sostiene la sua
espressività.
Tuttavia, è il contributo attivo del bambino che determina
la scansione e la durata delle protoconversazioni, che generalmente hanno il
ritmo di un adagio. Il bambino, da parte sua, tende ad avere cicli espressivi
della durata di 3-5 secondi e non riesce a sostenere conversazioni vivaci per
più di un minuto o due (Trevarthen e Marwick, 1986).
La descrizione dettagliata di tutte le espressioni di
questa sorta di ballo figurato che è la protoconversazione non lascia dubbi: il
gioco è fonte di grande piacere per la madre come per il bambino (Wolff, 1963),
che si trasmettono sentimenti usando un codice comune. Se al contrario il
contatto si rompe, oppure la madre è nervosa o depressa, il bambino partecipa
delle emozioni negative che minacciano il rapporto, mostrando paura e tristezza
o, se frustrato, addirittura rabbia. Le valenze emotive universali, cui tutti e
ovunque ricorriamo per esternare sensazioni di attrazione o repulsione, per
indicare la gioia di un incontro, la rabbia dell'opposizione o la tristezza di
una perdita, sono immediatamente recepite dal bambino e, come aveva già mostrato
Darwin (1872), non sono quindi oggetto di apprendimento (Trevarthen, 1984,
1990a).
Le emozioni universali sono il ponte naturale fra le menti
di qualsiasi età. Il
ruolo del bambino è tutt'altro che passivo. Cadenza e qualità della
protoconversazione sembrano infatti imposte proprio dal suo bisogno di scoprire
il gioco o un racconto, e la madre deve rispondere in un determinato modo, come
il musicista che esegue uno spartito o improvvisa su di un tema conosciuto per
accompagnare un altro musicista.
Il fine ultimo della mente umana è la comunicazione
I circuiti mentali e le funzioni cerebrali sono infatti
organizzati in un sistema integrato per esternare gli stati interiori di
coscienza e motivazione a un partner attento, e per osservare e percepire la
qualità emotiva delle sue risposte. Eccellenti studi condotti in vari paesi
hanno dimostrato come, nel suo primo anno di vita, il bambino si dedichi
attivamente alla ricerca di conoscenza, di persone innanzi tutto, quindi di
oggetti che. possa manipolare e infilare in bocca.
I filosofi empiristi hanno a lungo sostenuto che il
primato dei sensi spetta al tatto e che il bambino, quasi fosse cieco, deve
esperire per contatto diretto l'estensione fisica e la consistenza di un
oggetto, misurarne la posizione e l'estensione, prima di poterlo vedere o
sentire come separato dal proprio corpo. Deve cioè costruire il
"concetto" degli oggetti e del mondo a partire dalle sensazioni
elementari.
Oggi sappiamo che non è così (Bower, 1974; Spelke, 1985).
A soli tre mesi, quando ancora non è in grado di esplorare perfettamente un
oggetto facendo uso delle mani, perché troppo debole per muovere in maniera
coordinata le pesanti membra, il bambino è capace di collocare gli oggetti
nello spazio e nel tempo e li vede muoversi e cambiare fisionomia senza
peraltro mutare identità.
L'Io coerente e la continuità dell'esperienza nei neonati
Il bambino, dunque, interpreta le informazioni mutevoli
trasmessegli dai sensi come parti di una realtà fenomeníca ad essi esterna,
costituita di oggetti permanenti. Ciò significa che si comporta come se
possedesse un Io coerente, ubicato al centro di tutte le esperienze della
realtà sensibile, che segue contemporaneamente tutti i diversi eventi.
È indubbio che la memoria e la conoscenza di un bambino,
al pari del suo senso del futuro, siano alquanto limitate, eppure la sua vita
mentale prevede già la continuità dell'esperienza, tanto che persino nei
neonati si riscontra una tendenza significativa a verificare nella pratica
l'idea che si sono fatti della struttura e della funzione di un oggetto. Al
pari degli altri animali intelligenti, il bambino gioca con le proprie azioni
ed esperienze, ripete con entusiasmo i movimenti che hanno appena prodotto
effetti interessanti, si ferma ad osservare nuovi oggetti e a verificare con
cautela ed attenzione gli effetti dei suoi movimenti in circostanze inconsuete.
Già a qualche mese, si applica con sforzo e sentimento
alla soluzione di problemi. Così, per esempio, quando è posto nelle
condizioni di provocare uno sfavillio di luci o la rotazione di un oggetto
sopra la culla con un movimento volontario - come girare la testa più volte
nella stessa direzione, stendere il braccio fino a un certo punto, o assestare
un calcio ben mirato - un bambino di tre mesi cerca il movimento più adatto
perché lo spettacolo si riproduca, salutando con vocalizzi e risa il risultato
atteso, o arrabbiandosi e rattristandosi se l'apparato non risponde "come
dovrebbe" (Papousek, 1987; Watson, 1972). Persino il neonato, infatti, è in
grado di controllare le conseguenze del suo debole agire, purché venga
predisposto un apparato a sua misura, che egli possa controllare con facilità
(De Casper e Carstens, 1981).
La "poppata comunicativa"
Nel caso specifico del neonato, la tecnica più efficace
sfrutta un tipo di movimento che il lattante deve imparare prestissimo a fare:
la poppata. I bambini nascono con la capacità di succhiare il latte in due
modi, l'uno volto a trarre nutrimento dal seno - in cui la bocca del bambino
funge da pompa aspirante del latte materno - e l'altro dedicato alla
comunicazione - attraverso una sorta di codice Morse, trasmesso dalle labbra
del bambino al capezzolo della madre (Wolff, 1966). In questo caso, il bambino esercita
lievi pressioni con le labbra, senza aspirare, realizzando così una poppata
di tipo comunicativo ed esplorativo. Gli esperimentí in cui il neonato
poteva usare questa poppata comunicativa per dare il via (attraverso un
interruttore) a un'esperienza interessante - quale un brano di musica
registrata - hanno per- messo di dimostrare, per esempio, come il neonato
preferisca ascoltare la registrazione della voce della madre piuttosto che la
voce di un'altra donna (De Casper e Spence, 1986).
Per apprendere nuove modalità di controllo sul proprio
comportamento è indispensabile verificare gli effetti delle proprie azioni. Non
sorprende dunque che una giovane coscienza sia dotata di una curiosità tanto
vivace, degna di un piccolo artista, inventore, esploratore o scienziato.
Tuttavia, lo sviluppo del comportamento ludico mette in luce come la coscienza
umana sia dotata di una forma particolare di autoconsapevolezza che necessita
di continuo incoraggiamento, partecipazione e di una certa dose di giocoso antagonismo
da parte degli altri.
Tutti gli animali socialmente organizzati usano il gioco
per provocarsi e confrontarsi ed esercitano le capacità essenziali di
sopravvivenza giocando alla lotta, a nascondino, a rincorrersi. Il cucciolo di
cane e di gatto, l'agnello o il coniglio "simulano" il combattimento,
la caccia e la fuga dal predatore, in una messa in scena il cui fine è ottenere
una risposta dal loro compagno di giochi. Essi recitano per un pubblico, o per
un avversario, anche quando sono soli.
La "coscienza cooperativa"
Nel bambino, il gioco sociale è molto complesso e riveste
un ruolo capitale nella formazione di quella "coscienza cooperativa"
tipicamente umana, senza la quale non vi sarebbero apprendimento culturale e
uso di simboli (Trevarthen e Logotheti, 1987). Già a qualche mese, nel gioco
relazionale del bambino intervengono l'umorismo e una penetrante curiosità
circa i sentimenti altrui (Reddy, 1990), aspetti che egli mostra di riservare
ai rapporti per lui più significativi. Nei confronti degli estranei, infatti,
si comporta in maniera del tutto diversa, guardandoli con sospetto e timore, e
tentando un approccio ludico solo successivamente, ma sempre con fare vigile e
"formale". In altri termini, il gioco del bambino, il suo apprendere
giocando, è espressione dell'attaccamento ai familiari, tant'è vero che in un
ambiente familiare poco sereno, in cui mancano amore e gioia, il gioco è
raramente fonte d'apprendimento, il bambino non sviluppa una crescita cognitiva
adeguata (Fraiberg, 1980; Murray, 1988) e, quel che è peggio, perde la
sicurezza in se stesso.
Un esempio immediato di vivacità e creatività infantile è
offerto dal bambino di sei mesi quando interviene nelle filastrocche che la
madre canta per lui. Si è osservato che tali canzoncine hanno una struttura che
permane invariata da lingua a lingua e che il bambino ha tendenza a
prediligere, e quindi a imparare, melodie semplici in cui l'elemento base è una
strofa di quattro versi di movimento andante, e ogni verso ha quattro battute.
Anche se, ovviamente, il bambino non può afferrare il senso delle parole,
partecipa della vitalità e del sentimento narrativo (Stern; Trevarthen, 1987) e
quanto prima impara a compiere qualche movimento d'accompagnamento, come
battere le mani, con grande gioia dei familiari.
Due stati mentali distinti nel primo anno d'età
Il senso di un Io esteriore e pubblico, di un Io sociale,
comincia a manifestarsi verso la fine del primo anno (Stern, 1985), quando il
bambino diventa ogni giorno più abile nell'esplorare e usare gli oggetti e nel
trovare soluzioni ai problemi posti dalla loro combinazione (Wishart e Bower,
1984). In un primo tempo, questo interesse per le proprietà e l'uso delle cose
sembra rivaleggiare con la comunicazione, tanto che il bambino spesso rífiuta
di giocare con qualcun altro mentre è intento a esplorare un oggetto. Sembra
che esistano due stati mentali distinti, l'uno privato e "cognitivo",
l'altro giocoso e sociale (Trevartììen e Hubley, 1978; Trevarthen, 1980).
In seguito, verso i nove mesi, il bambino smette di
interessarsi alle proprie azioni per concentrarsi preferibilmente su quelle
degli altri (Hubley e Trevarthen, 1979). È una fase di cruciale importanza
nello sviluppo della coscienza umana, che apre la strada alla capacità di
condividere un'azione e allo svolgimento collettivo di un compito, consentendo
al bambino di imparare dagli altri nuove proprietà, valori e usi delle cose. Da
qui all'apprendimento culturale il passo è breve (Trevarthen, 1988).
Il linguaggio: forma trasfigurata di coscienza collettiva
Nel secondo anno di vita, il bambino esce dalla prima
infanzia, da uno stato "senza parole", e muove alla conquista di
quella forma trasfigurata di coscienza collettiva che è il linguaggio (Bruner,
1975, 1983; Halliday, 1975). Indubbiamente, la coscienza non si identifica col
linguaggio: chiunque può rendersi conto di come esista una consapevolezza che
non è necessario descrivere a parole, e di quanto sia comunicativa ed efficace
la coscienza muta del bambino. Nondimeno, l'acquisizione del linguaggio cambia
l'oggetto della comunicazione e del ricordo, espande la coscienza nel tempo e
unisce le menti nella comprensione di realtà lontane dal "qui ed
ora".
A due anni, la compagnia dei coetanei è continua occasione
di divertimento perché il bambino, con entusiasmo e creatività, gioca con il
significato delle sue azioni secondo modalità che gli altri possono facilmente
interpretare. Negli anni che seguono, questo gioco si complica, il bambino
comincia a "giocare a far finta che…", calandosi in un'infinità di
ruoli e di contenuti immaginari, il cui sviluppo è strettamente legato alla
crescita del lessico (Fein, 1981; Schwartzman, 1978).
È comunque importante sottolineare che la coscienza del
significato precede la parola. A diciotto mesi, quando ancora non è in
grado di parlare in modo intelligibile, il bambino può prendere il thè con le
bambole, o far finta di essere un cane o una macchina. Il linguaggio inter-
viene essenzialmente per dare un nome a delle idee che hanno già preso forma nel
gioco collettivo, con tutto quel che di comunicativo ha il suo aspetto teatrale
(Trevarthen e Logotheti, 1987). A questa età gli adulti non sono l'unica fonte
di apprendimento. A partire dai due anni, infatti, la trasmissione di idee
culturali è straordinariamente attiva anche fra gli stessi bambini, che proprio
attraverso il gioco stringono le prime amicizie.
E possibile ravvisare nel bambino motivazioni tipicamente
umane che promuovono l'apprendimento delle idee proprie di una società la cui
storia e cosmologia si estendono su generazioni e generazioni e penetrano la
profondità del mondo.
Che persino esseri tanto giovani si sforzino di comunicare
valori e di comprenderli, dimostra quanto la coscienza umana sia
motivata a costruire una realtà culturale.
Se è vero che tali complesse attività psicologiche sono
intrinseche alla struttura e ai processi cerebrali umani, cosa possono dirci le
recenti scoperte della ricerca sul cervello?
È possibile, in altri termini, spiegare come il cervello
in crescita del bambino riesca a modulare il proprio sviluppo e capacità di
apprendimento nell'interazione con l'attività mentale di altri cervelli
(Trevarthen, 1990)?
Negli ultimi anni, nuovi dati hanno dimostrato quanto
fossero sbagliate le vecchie teorie che consideravano il cervello del bambino
un sistema di riflessi automatici, privo di motivazioni psicologiche di ordine
superiore.
L'asimmetria degli emisferi dal quinto mese di gravidanza
Negli anni '70 è stato in primo luogo dimostrato che
l'asimmetria propria dei processi superiori di conoscenza e apprendimento che
hanno luogo nei due emisferi del cervello adulto, soprattutto in quello umano,
comincia a delinearsi già verso la metà della vita del feto (Trevarthen, 1987).
Intorno al quinto mese di gravidanza, compaiono nell'emisfero sinistro i
tessuti preposti all'ascolto dei linguaggio che giungono a piena maturità solo
diversi anni dopo la nascita.
Lo studio delle vie neurali dei cervello, inoltre, ha
rivelato che i sistemi sensoriali e motori hanno fasi evolutive diverse, e che
ciascuno è composto di un certo numero di sottosistemi con funzioni di vario
tipo. Queste fasi evolutive potrebbero essere interpretate in termini di un programma
di sviluppo del cervello corrispondente a una sequenza di stadi psicologici
emergenti. Le vie uditive dei tronco cerebrale, per esempio, da cui
dipenderebbe la percezione dell'emozione nella voce, si sviluppano interamente
prima della nascita; il sistema uditivo che raggiunge la corteccia cerebrale,
la cui importanza è massima durante l'apprendimento dei linguaggio, ha invece
uno sviluppo lento che si protrae nella prima infanzia.
Al contrario, tutte le componenti del sistema visivo
giungono a maturità più o meno contemporaneamente durante il primo anno di
vita. I sistemi sensoriali che informano il cervello sulla coordinazione dei
movimenti e sulla posizione di testa, tronco e arti si sviluppano in fase
prenatale, a eccezione di due componenti che maturano invece lentamente dopo la
nascita: il cervelletto e le sue connessioni con la corteccia cerebrale - che
si sviluppano durante l'infanzia parallelamente all'agilità locomotoria - e i
sistemi neocorticali che governano il movimento delle dita e il tatto - i quali
evolvono nei primi anni di vita man mano che il bambino perfeziona la sua
capacità di manipolazione. Queste correlazioni fra elaborazione cerebrale e
sviluppo comportamentale sono incoraggianti, ma le scoperte più sensazionali, e
più interessanti in questa sede, sono quelle relative a determinate funzioni mentali
quali la motivaizone, l'emozione e la generazione di capacità cognitive.
Fra le aree del cervello in cui hanno origine le emozioni
figurano sia alcune componenti delle zone profonde e primitive, sia estensioni
più recenti situate nel proencefalo e soprattutto nei lobi frontale e
temporale. I sistemi più antichi compaiono per primi nell'embrione umano, poche
settimana dopo l'inizio dello sviluppo.
Le cellule fondamentali, raggruppate intorno ai nuclei
della formazione reticolare del tronco cerebrale, estendono i loro
prolungamenti ai tessuti ancora indifferenziati delle altre aree. Tali cellule
invadono, dunque, le sottili e rudimentali pareti degli emisferi cerebrali
molto prima che si insedino i neuroni corticali. Le cosiddette aree limbiche o
marginali della corteccia sono estremamente simili a questi sistemi profondi di
coordinamento e più tardi, nel feto, la corteccia limbica si formerà prima
della neocorteccia.
Questo significa che le aree del cervello che motiveranno
l'azione e l'apprendimento si sviluppano prima di quelle preposte all'analisi
dell'esperienza e al controllo di azioni più sofisticate.
La coscienza e le emozioni
Ciò suffraga la teoria secondo cui la consapevolezza
cosciente e l'azione volontaria hanno origine in quelle parti della mente
preposte alla formazione degli stati emotivi e cognitivi.
Entusiasmanti conferme a quest'ipotesi vengono dalla
ricerca sullo sviluppo nei cuccioli di gatto dei meccanismi corticali da cui
dipende la stereopsi binoculare, ovvero la capacità di misurare la profondità
con entrambi gli occhi. Questa componente della corteccia visiva giunge a
completo sviluppo nelle prime settimane di vita, ed è frutto di una selezione e
stabilizzazione delle connessioni intercellulari temporanee prodotte in grande
eccesso al momento della nascita. Era già noto che tale selezione richiede
un'eccítazione di natura visiva, dal momento che essa non si verifica se il
cucciolo è tenuto al buio o viene privato di esperienze visive adeguate. Di
recente, tuttavia, si è scoperto che anche stimolando entrambi gli occhi con
forme luminose le giuste connessioni non vengono selezionate se non si
soddisfano due condizioni ulteriori.
In primo luogo, il buon funzionamento dei sistemi motori
che sincronizzano il movimento degli occhi e correggono il cristallino per la
messa a fuoco dell'imrnagine sulle due retine richiede l'attività coordinata
dei neuroni del tronco cerebrale. Inoltre, come hanno mostrato Singer e i suoi
colleghi (1982), le cellule corticali cui spetta il compito cruciale di
integrare le informazioni provenienti da entrambi gli occhi devono essere
attivate dalle aree cerebrali profonde, oltre che dagli occhi stessi. Ciò
significa che perché l'oggetto osservato possa aiutare la corteccia visiva a
rifinire le sue connessioni il cucciolo deve avere il coordinamento necessario
e al contempo la motivazione a vedere. Ovvero, deve provare interesse (per
esempio giocando) per ciò che vede, altrimenti il suo sistema visivo non si
svilupperà adeguatamente.
Le motivazioni innate e l'apprendimento plasmano la
corteccia cerebrale
Tutti questi dati consentono di elaborare una teoria che
integri le emozioni e le motivazioni innate con l'apprendimento percettivo e
cognitivo. Ulteriore conferma giunge dagli studi relativi agli effetti indotti
dalla stimolazione materna sulla crescita cerebrale dei cuccioli di ratto e dei
bambini prematuri (Schanberg e Field, 1987). I meccanismi ormonali essenziali
per una crescita cerebrale normale sarebbero attivati dalla stimolazione
tattile operata delle carezze materne.
Un'altra ricerca ha dimostrato che le aree limbiche del
cervello di una scimmia, le quali maturano prima della neocorteccia, hanno un
ruolo importante nell'interazione sociale, tanto che se vengono danneggiate
alla nascita ne risulta inibito lo sviluppo sociale e cognitivo dei cucciolo,
che sarà affetto da una patologia simile all'autismo nei bambini, e rifuggirà
dunque il contatto sociale chiudendosi in attività coatte ripetitive o in
un'inattività totale (Merjanian, 1986).
Numerose ricerche mostrano quanto il cervello umano sia
modificato dall'esperienza e dall'apprendimento. Così, la corteccia cerebrale
di un non udente è organizzata in maniera diversa da quella di un non vedente,
ed entrambe differiscono dalla corteccia cerebrale di una persona con udito e
vista normali. Il pianista ha sicuramente un sistema motorio diverso da quello
di un suonatore di flauto e i sistemi di entrambi differiranno da quello di un
atleta o di uno scrittore.
Tuttavia, esistono in tutti alcuni principi comuni di
apprendimento, fra cui il bisogno di sostegno emotivo, di insegnamento e di
motivazione. Gli esperimenti sui bambini hanno messo in luce che
l'apprendimento umano è aperto, sin dall'inizio, agli effetti emotivi della
comunicazione, mentre le nostre conoscenze sull'evoluzione cerebrale lasciano
supporre che l'influenza selettiva dell'ambiente sia coordinata e regolata da
sistemi motivazionali innati.
"Personalmente - conclude Trevarthen - non ho dubbi
sul fatto che la coscienza umana si sia evoluta per essere condivisa, e che lo
sviluppo cerebrale nel bambino si serva dei sentimenti e delle motivazioni
comunicatigli dagli altri per migliorare quella coscienza che possiede in virtù
della sua organizzazione prenatale. Tale convinzione è perfettamente compatibile
con la teoria di Sperry, per cui la coscienza avrebbe un ruolo causale
emergente "verso il basso" nel controllo del comportamento indotto
dalla prassi e dall'esperienza, e orientato alla realtà. Non sembra quindi
esservi ragione per pensare che le funzioni mentali siano di una natura diversa
da quella delle funzioni del cervello, sistema unitario e unificante
all'interno dell'organismo. Tali funzioni comunicano intensivamente ed
estensivamente con le altre menti, gli altri corpi e gli altri cervelli, nello
sforzo di condividere il significato del mondo" .
Immaturità fisiologica del neonato e l'Io corporeo
Rimane vero, come ricordano Farneti e Carlini che "il
bambino viene al mondo in uno stato d'immaturità fisiologica che rende
necessario il proseguimento della simbiosi già realizzata nell'utero; per
sopravvivere egli ha bisogno del rapporto continuo con un altro essere che gli
fornisca, oltre al contatto e al calore, anche il nutrimento e che lo protegga,
contemporaneamente, dai pericoli esterni e da quelli che la sua stessa
immaturità psicomotoria gli creano: è questo un rapporto specificamente
corporeo nel quale il bambino, "massa che si agita", "è
agito" dalla manipolazione degli altri. La sua vita si esprime essenzialmente
attraverso profonde sensazioni interne legate al ritmo inesorabile de bisogni
alimentari, alla necessità dell'equilibrio e di una postura confortevole.
Alcuni psicologi che si sono interessati alle fasi fetali
della vita e ai rapporti fra la vita psichica della madre e quella del bambino
che porta in sé, ritengono - per quanto sia stato ormai appurato che le
condizioni psicofisiologiche della madre esercitano una certa influenza sullo
sviluppo del feto - che non si è ancora in grado di stabilire strette
correlazioni fra la vita intrauterina e la futura evoluzione psichica del
bambino, comprese le eventuali manifestazioni patologiche [Farneti - Carlini,
1981, pp. 17-18].
"Pensiamo ai processi mentali che caratterizzano la
diffusione del senso di Sé per tutto il corpo del bambino, in cui il Sé è
alloggiato. Quando il bambino, una volta che la vista è abbastanza sviluppata,
vede il proprio corpo, lo percepisce come qualunque altro oggetto che si
presenti alla sua mente attraverso l'organo della visione.
Del tutto diverso è l'effetto dell'esperienza percettiva
allorché il bambino tocca il proprio corpo: qui l'esperienza è prodotta da due
sensazioni contemporanee, fatto che può realizzarsi molto presto nella vita,
forse già nello stato intrauterino. La nostra esperienza di adulti quando
tocchiamo il nostro corpo ci fa pensare che una parte di esso, per esempio la
mano, si accosta attivamente a un'altra parte, che prova l'esperienza passiva
di essere toccata, ma questa non è affatto una giustificazione sufficiente per
supporre che lo stesso avvenga nella prima infanzia: venire a contatto col
proprio corpo suscita nel bambino piccolo due sensazioni della stessa qualità,
che lo conducono a distinguere fra Sé e non-Sé, fra il corpo e quello che in
seguito diventerà l'ambiente circostante. Ne deriva che questo fattore
contribuisce al processo di differenziazione strutturale. Inizia così la
delimitazione fra il Sé-corpo e il mondo esterno, il mondo dove si trovano gli
oggetti." [Farneti - Carlini, 1981, p. 203].
Nascita biologica e nascita psicologica
Dunque il tema - che a me interessa particolarmente - del
momento della nascita della coscienza (sempre che non sia un falso problema…)
vede gli studiosi su posizioni opposte.
"La nascita biologica e la nascita psicologica non
coincidono temporalmente" sostengono Farneti Carlini, mentre Trevarthen,
come abbiamo visto, era convinto che già nella vita intrauterina il feto
mostrasse segnali di vita psichica.
Mentre la nascita biologica è un evento drammatico,
osservabile e ben circoscritto, la nascita psicologica è un processo
intrapsichico che si svolge lentamente. Agenti principali di questa seconda
nascita, di questo "emergere" dell'individuo come essere separato,
provvisto di un proprio, seppur rudimentale, psichismo, possono senza dubbio
considerarsi l'esperienza del proprio corpo e la figura materna "oggetto
d'amore primario".
"Lungi dall'essere un sistema fuso, il bambino è da
principio privo di intima coesione e abbandonato senza il minimo controllo alle
influenze più fortuite. Sotto l'influsso di questa sfera emotiva si
stabiliranno molto velocemente delle connessioni fra le manifestazioni
spontanee e le reazioni utili suscitate nell'ambiente" [Farneti - Carlini,
1981, pp. 238-239].
A sostegno della loro teoria, Farneti Carlini riportano che
è stato osservato con quale precocità il sorriso del bambino risponde a quello
della madre. "L'emozione genera gli impulsi collettivi, la fusione delle
coscienze individuali in una sola anima comune e confusa. Uno scambio psichico
più primitivo della presa di coscienza attraverso cui la persona afferma la sua
autonomia. Proprio nei trasporti passionali, in cui ciascuno si distingue male
dagli altri e dalla scena complessiva in cui si confondono i suoi appetiti, i
suoi desideri e il suo timore, l'individuo percepisce se stesso immediatamente.
L'emozione procede da una vita psichica ancora mal differenziata, e nello
stesso tempo i centri nervosi che regolano le sue manifestazioni così viscerali
come motorie appartengono alle regioni subcorticali del cervello, cioè a un
insieme funzionale assai più anticamente evoluto nella specie che non le
operazioni della rappresentazione e della decisione più esclusivamente
imputabili alla corteccia.
Il periodo inziale dello psichismo sembra dunque essere
stato di indifferenziazione fra quello che dipende dalla situazione esterna e
quello che dipende dal soggetto stesso" [Farneti - Carlini, 1981, p. 240].
"Io" e "altro" precoscienti
"L'io di fronte all'altro non ha ancora
assunto questa specie di stabilità e di costanza che noi riteniamo elemento
indispensabile della coscienza dell'io, che ci sembra costitutiva della
persona. Si potrebbe paragonare il primo stato della coscienza ad una nebulosa
in cui si diffonderebbero senza vera distinzione azioni sensitivo-motorie di
origine endogena o esogena. Nella sua massa finirebbe col delinearsi un nucleo
di condensazione, l'io, ma anche un satellite, il sub-io, l'altro.. Fra i due
la divisione della materia psichica non è necessariamente costante. Può variare
secondo gli individui, secondo l'età ed anche dinanzi a certe alternative della
vita psichica" [Farneti - Carlini, 1981, pp. 241-242].
"Tutte queste analisi concordano nell'ammettere che
non si potrà spiegare la percezione dell'altro se si presuppongono un io e un
altro assolutamente coscienti di se stessi e che di conseguenza
rivendichino una originalità assoluta in rapporto all'altro che è di fronte a
loro. […] Inizialmente ci sarebbe uno stato di precomunicazione in cui
le intenzioni dell'altro agiscono in qualche modo attraverso il mio corpo e le
mie intenzioni agiscono attraverso il corpo dell'altro" [Farneti -
Carlini, 1981, pp. 245-246].
"Le aree del corpo più importanti al fine
dell'istituzione di confronti e di contrapposizioni e al fine della
ricognizione individuale del proprio corpo e di quello degli altri sono il viso
e i genitali. Nello stesso tempo, sono le aree più difficili da vedere
per l'individuo stesso" [Farneti - Carlini, 1981, pp. 157-158]. E
un'importanza speciale ha la cavità orale, che incorpora gli organi sensoriali
esterni e interni.
Anche L. Ancona sostiene la indistinzione iniziale
della coscienza: "Per interpretare gli inizi della vita mentale
possiamo dire che il mondo del neonato è del tutto privo di oggetti e pertanto
di relazioni oggettuali. Si tratta di un universo che è radicato in un quadro
sensoriale, per usare l'espressione di Piaget (1954), ma nel quale il soggetto
non può ancora disporre di coscienza, di percezioni, di sensazioni, o di
qualsiasi altra funzione psichica. Egli è infatti ancora un'entità non
differenziata, dalla quale emergeranno in seguito progressivamente strutture,
funzioni, pulsioni" [Ancona, 1970, p. 132-3].
Le risposte a certe stimolazioni non sono "esperienze
coscienti", nelle prime settimane di vita, ma "semplici processi di
recezione, che dimostrano di avere natura fisiologica piuttosto che
psicologica. All'inizio, l'organismo umano non possiede altro che uno strumento
congenito, e certe disposizioni che rimangono ancora allo stato potenziale;
l'uno e le altre sono suscettibili di successivi processi di maturazione,
propri della specie e innati, e di evoluzione, propri della cultura e
dipendenti da uno scambio fra il soggetto e il suo ambiente. Soltanto la
continua reciprocità di relazione con la madre, che rappresenta la sua prima
cultura, e cioè il ciclo emotivo specifico che gli permetterà di trasformare
stimoli senza significato in segnali significativi" [Ancona, 1970, p.
133].
Le "organizzazioni cenestesiche"
"A causa dell'esistenza di una barriera protettiva dagli
stimoli, il neonato nelle sue prime settimane ignora praticamente il mondo
esteriore ed è sensibile solo alle stimolazioni provenienti dai sistemi
proprio- ed entero-cettivi. Si tratta di esperienze sensoriali che Spitz ha
definito col nome di "organizzazioni cenestesiche"" [Ancona,
1970, p. 136].
"In tal modo si delinea la sequenza progressiva dello
sviluppo percettivo, dalla pura reazione cenestesica alla percezione per
contatto, da questa alla percezione distale, basata sul riconoscimento del
segnale gestaltico, semplice preoggetto e dal preoggetto all'oggetto
individualizzato, investito d'amore, attraverso la percezione diacritica, ogni
gradino precede e prepara il successivo, ne è una condizione ineliminabile,
fino al raggiungimento di un processo percettivo completo, in grado di cogliere
anche gli aspetti transfenomenici delle cose" [Ancona, 1970, p. 139].
Le "fantasie" del neonato
Spitz si è opposto alle ipotesi secondo cui il lattante
sarebbe capace, sin dal primo giorno di vita di processi intrapsichici, di
pensieri simbolici, di meccanismi di difesa e sarebbe già dotato di complesso
di Edipo e di super-Io. Egli fa precisi riferimenti critici al pensiero della
cosiddetta scuola di Londra, rappresentata e fondata da M. Klein, secondo il
cui pensiero, le relazioni oggettuali che l'Io costituisce fin dall'inizio non
riguardano solo i contenuti della realtà, ma anche quelli della fantasia,
quindi i cosiddetti "oggetti interni". Gli oggetti interni sono le
fantasie inconsce che si hanno di ciò che è contenuto coscientemente nella
psiche, cioè dell'oggetto realistico; essi esistono sin dall'inizio, perché
sono l'espressione mentale degli istinti [Ancona, 1970, pp. 139-140].
Una posizione rigida contro l'attribuzione di capacità
cognitive e motivazionali al feto si trova nel sito che ho già citato del
Controllo delle Affermazioni nel Paranormale (CICAP) in cui Beyerstein
ridicolizza le "farneticazioni Scientologiche di L. Ron Hubbard circa la
vita nell'utero che iniziarono come fantascienza e sono oggi bollate,
appropriatamente, come religione" .
In conclusione, vediamo dimostrato quanto detto in
precedenza, a proposito della possibilità attuale di formulare una completa
teoria della coscienza, e segnatamente per quel che riguarda il suo sorgere, e
cioè che non è possibile, perché la mole di dati - invero già notevolissima -
fornisce indicazioni contrastanti e non esaustive. Si apre così lo spazio per
la possibilità di accentuare questa o quella posizione. Basterà ricordare che
negli anni prossimi venturi si dovranno sottoporre a verifica nuovamente e con
accuratezza le teorie fino a qui formulate.
Le prime impressioni della vita: una programmazione
sottovalutata
La mia posizione coincide con quella di Vester che ha
scritto: "La maggior parte del cervello umano è già sviluppata prima della
nascita e le cellule residue e le loro congiunzioni si formano nel breve
periodo delle prime settimane o dei primi mesi di vita. Da quel momento
l'accrescimento del cervello è quindi concluso. Questa fine sorprendentemente
precoce della scissione delle cellule in confronto agli altri organi è però
l'unica garanzia del fatto che un essere vivente possa apprendere qualcosa. Se
le cellule del nostro cervello si moltiplicassero di continuo come per esempio
le cellule della muscolatura o della pelle, allora ne morirebbero
contemporaneamente altrettante e con loro andrebbe persa per sempre anche
l'informazione che vi è immagazzinata, perché la scissione delle cellule
implica sì la trasmissione dell'informazione genetica contenuta nell'acido
deossiribonucleico (DNA), ma non quella delle informazioni acquisite.
Naturalmente non ci ricordiamo più nulla di quei primissimi giorni; però queste
prime informazioni ricevute mediante le sensazioni tattili, olfattive e
gustative vengono immagazzinate come patrimonio durevole quasi come le
informazioni genetiche e (ugualmente nel subconscio o inconscio) in maniera più
stabile della maggior parte dei ricordi consci successivi. Così ognuno di noi
lavora ancora oggi con le stesse cellule nervose che possedeva poco dopo la
nascita" .
XI
Dalla sinderesi al coscienzialismo:
alcune questioni ancora aperte
sulla coscienza
In questi ultimi capitoli della dissertazione posso
cominciare a trarre qualche conclusione.
Ho trovato molto interessante ricostruire, nel poco spazio
qui a disposizione e senza pretesa di completezza, la storia del concetto di
coscienza ed è emerso un percorso abbastanza significativo.
"Sunevide§is " e "sunthvrh§is" dalla grecia classica al medioevo
Nella Grecia classica c'era la dimensione della sunevide§is, intesa come coscienza nel senso di consapevolezza,
termine usato da Diodoro Siculo, e Menandro, ripreso dal lessico dei Settanta e
da quello neotestamentario.
Derivato da sunoravw, "vedere insieme", "vedere contemporaneamente",
con Platone significa anche "comprendere" e, più tardi,
"accorgersi".
Nel medioevo invece si è ripreso un concetto greco, quello
della sunthvrh§is (lat. synteresis) ed ha
ricevuto un grande sviluppo concettuale per opera della filosofia scolastica.
Il greco sunthvrh§is significava "vigilanza (della coscienza)"
esame, conservazione, nome d'azione di sunthrevw "vigilo", composto di sun "con" e threvw "osservo", ma anche
"custodisco", "proteggo", "mantengo" (thvrh§is, "costodia", "conservazione")
[Devoto, 1968, p. 394]. Sunthrevw
significa dunque mantenere attentamente, [th;n gnwvmhn] par! eJauth'/ il proposito in segreto (Polibio) da [DIGI, 1975,
p. 1241]. Nei Settanta significa preservare da (con l'infinito) e
osservare attentamente; nel Nuovo Testamento invece conservare e conservarsi,
in Plutarco, spiare l'occasione di (con l'infinito) [EGF1, 1981, p.
864].
La sinderesi è ricordata da san Gerolamo nel suo Commento
a Ezechiele come sinonimo di quella parte dell'anima abitualmente definita
coscienza (I, c. I).
In san Tommaso essa mantiene il senso originario di
tendenza verso il bene e di fuga dal male (Summa theologiae, 1, 1 q. 94,
art. I). Lo stesso significato di attitudine dell'anima a riconoscere i primi
principi morali è attestato in tutta la scolastica, che sulla scorta dei testi
precedentemente citati concepisce la sinderesi, o scintilla conscientiae,
come la parte dell'anima non toccata dal peccato originale, l'attitudine
dell'anima a riconoscere i principi morali fondamentali.
Nello stesso senso di funzione attiva della coscienza il
termine si ritrova in Bossuet (Trattato sulla conoscenza di Dio e di se
stesso, cap. I par. 7), mentre in età contemporanea è caduto in disuso.
Ho trattato ampiamente nel capitolo IV di come il concetto
di coscienza avesse duplice valore nella scolastica: la sinderesi è la
coscienza originaria, innata e sintetica percezione dei valori morali
dell'esistenza cristiana; invece la conscientia è un atto che applica
quella unitaria e dinamica intuizione ai casi e alle azioni concrete.
Quel che possiamo osservare è che sempre più nel pensiero
medioevale e moderno l'accento viene posto più distintamente sulla conscientia:
e cioè sulla funzione o atto applicativo ai singoli comportamenti di quel
dinamisrno vitale che si pone come radicale "presa di coscienza" del
senso e dell'orientamento del proprio esistere cristiano.
La coscienza dunque è ridotta a "funzione di
discernimento" per essere infine relativizzata, rilegata alla sfera
morale-religiosa dall'illuminismo e resa muta nell'epoca contemporanea dal
positivismo e dallo scientismo materialista.
Anima e coscienza
Quello che per secoli si è chiamato "anima"
sembra essere la stessa "sostanza" che ora viene chiamata
"coscienza".
Per la coscienza, come per l'anima si può dire quello che
disse Eraclito di Efeso (480 a.C. circa), nel frammento 45: "I confini
dell'anima, per quanto tu vada e se anche percorressi tutte le strade, non
riusciresti a trovare: così profondo è il Logos che essa porta in sé".
In questo frammento, come ha scritto Ravasi , l'anima è
raffigurata come una terra sterminata, come un oceano sconfinato che si
percorre senza mai scoprirne le frontiere e senza mai ritornare nelle stesse
acque ("non potrai bagnarti due volte nelle acque dello stesso
fiume", ha scritto Eraclito). A distanza di secoli e soprattutto di
visione delle cose, santa Teresa di Lisieux esclamava: "Come dev'essere
grande un'anima per contenere Dio!".
Il filosofo efesino non parla di Dio ma usa il termine Logos,
che per lui ha vari significati: può essere la legge divina, universale che
determina il divenire delle cose; oppure la ragione umana; oppure il discorso,
il linguaggio, la parola che annuncia la verità e che non può essere separata
dall'intelletto (nou§) . È comunque, il nodo d'oro che
tiene insieme tutto il mistero dell'anima. Per Eraclito è dentro l'uomo che va
cercata la verità e il solo modo per trovarla è prestare ascolto al Logos.
Secondo i cristiani quel Logos ha un nome e un volto
preciso e nitido, che va cercato navigando nel silenzio del mare dell'anima.
Io rilevo dunque l'attualità di questo concetto, se non
nel senso della conscience, certamente invece in quello della consciousness.
È un percorso che è passato attraverso un momento
teoretico specifico che è stato il coscienzialismo.
Alcuni esponenti del coscienzialismo
Il coscienzialismo è un orientamento filosofico che pone
la coscienza come elemento originario e attivo nella formazione
dell'esperienza. Al coscienzialismo si richiamano la dottrina immanentistica
(come gnoseologia) e ogni forma d'idealismo da Berkeley al criticismo kantiano,
all'idealismo ottocentesco, all'evoluzionismo bergsoniano, alla fenomenologia
husserliana.
In particolare il coscienzialismo formò il nucleo centrale
del pensiero filosofico di Schuppe e dell'italiano Martinetti [GADA, 1973, p.
493]. Aggiungerò qualche nota su O. Külpe.
Piero Martinetti
In opposizione all'"idealismo immanente". di
Croce e Gentile, ispirato all'hegelismo, Piero Martinetti (Torino, 1872 - 1943)
ha sostenuto un "idealismo trascendente" di matrice kantiana e
leibniziana. Le sue opere principali sono state: Il sistema Sankya (1897);
Introduzione alla metafisica (1902-04); Il compito della filosofia
nell'ora presente (1920); Breviario spirituale (1923); La libertà
(1928); Gesù Cristo e il cristianesimo (1934); Ragione e fede
(1942); Kant (1943).
Secondo Martinetti la filosofia non deve rifiutare il
contributo della scienza, ma deve anzi configurarsi come "metafisica
empirica" volta per successive sintesi all'unità del sapere empirico
stesso. In tal modo essa si pone come correttivo del dogmatismo positivistico,
incapace di comprendere la funzione dell'unità dell'autocoscienza in quanto
condizione di ogni esperienza.
L'autocoscienza umana è solo una "manifestazione
empirica" del Soggetto assoluto, cioè di quell'Unità trascendente alla
quale la conoscenza e anzi l'intero universo si dirigono senza poterla mai
adeguare. Dell'Unità non può darsi concetto speculativo; essa può venire solo
intuita mediante "simboli" e "ideogrammi", in quanto
"il sapere nostro è un atto di unione mistica col Logos eterno" (Introduzione
alla metafisica).
L'idealismo martinettiano costituisce una forma di
romanticismo, in cui forti sono gli influssi della filosofia indiana. Religione
e filosofia si identificano e si traducono in una vita etico-religiosa come
superiore sintesi del diritto e della morale.
La religione di Martinetti (in parte ispirata al Kant
della Religione nei limiti della sola ragione) ripudia ogni "chiesa
visibile" storicamente determinata. Buddha, Cristo, Giamblico, Marcione e
altri personaggi sono visti da Martinetti come coloro che vollero riportare la
religione alla sua pura spiritualità, liberandola dalla superstizione e dal
dogmatismo, in vista di quella "chiesa invisibile" che si identifica
con la ragione universale e con il kantiano "regno dei fini".
È proprio contro questa visione della religione che
recentemente Francesco Tomatis, recensendo una ristampa di un'opera di
Martinetti , un'antologia evangelica, parla di "Cristo
"razionale" di Martinetti". Martinetti con "una discutibile
selezione di brani riduce il Vangelo a legge morale e il Salvatore a una figura
profetica".
Ma "il merito di Martinetti non fu soltanto quello di
rifiutare il giuramento di fedeltà al regime fascista, lasciando nel 1931 la
cattedra di filosofia teoretica presso l'Università di Milano" e
ritirandosi a Castellamonte, dove continuò la sua azione culturale con gli
scritti e sulle pagine della "Rivista del filosofo".
"In un clima culturale sempre più storicista e
immanentista, Martinetti richiamò la centralità filosofica della metafisica e
il valore spirituale della vita.
Il suo personale neokantismo, volto a cogliere e
approfondire la religione e la vita spirituale in genere come esigenza e frutto
della stessa e semplice umana ragione, è impossibilitato a comprendere il
fenomeno religioso nella sua profondità, trascendenza, libertà" [EGF2,
1997, pp. 693-694].
Wilhelm Schuppe e la "filosofia dell'immanenza"
Wilhelm Schuppe (Brieg, Slesia, 1836 - Breslavia 1913), fu
professore a Greifswald e dal 1897 diresse la "Zeitschrift für
immanente Philosophie", organo della "filosofia
dell'immanenza" di cui Schuppe era l'esponente di maggior rilievo. Cultore
di fìlosofia del diritto, dedicò a questi studi numerose pubblicazioni, oggi
rivalutate in quanto anticipatrici della scienza del diritto inteso come
"pura legalità", secondo criteri metodologici che rivelano in lui un
pioniere della concezione neopositivistica dell'unità della scienza. Tra i suoi
scritti filosofici, oltre all'opera principale Abbozzo di gnoseologia e
logica (1894), si ricordano: Logica gnoseologica (1878); Fondamenti
dell'etica e filosofia del diritto (1881); La filosofia dell'immanenza
(1897); Il problema della responsabilità (1913) [EGF2, 1997, pp.
1028-1029].
Tesi di fondo della "filosofia dell'immanenza" è
che l'oggetto, in quanto contenuto di coscienza, è immanente alla coscienza
stessa.
Questa posizione intende rifiutare sia il "realismo
trascendente" sia l'idealismo, che misconoscono 1'essenziale
coappartenenza di mondo e pensiero, soggetto e oggetto, sulla quale da sempre
si fonda giustamente il senso comune.
Nella coscienza vanno poi distinti gli aspetti individuali
da quelle caratteristiche comuni che costituiscono la coscienza, propria della
specie umana o "coscienza generale" (Abbozzo, par. 45). Su di
esse si fondano le verità della logica e della scienza.
Il realismo di Schuppe, affine per vari aspetti
all'empiriocriticismo, venne ulteriormente radicalizzato dallo psicologo
tedesco Oswald Külpe (Landau, 1862 - Monaco di Baviaera 1915).
O. Külpe
Distaccatosi dal suo maestro W. Wundt, Külpe fondò una
propria scuola. Egli riteneva - diversamente da Wundt - che i processi
superiori di pensiero potessero essere studiati sperimentalmente con lo stesso
rigore con cui venivano studiati i processi sensoriali e percettivi, ed elaborò
in questa prospettiva il metodo dell'"introspezione sistematica", in
base al quale al soggetto sperimentale veniva fra l'altro richiesto di
stabilire connessioni logiche fra i concetti.
Fu egli a scoprire il "pensiero senza immagini",
contro la tradizione associazionistica fatta propria dalla psicologia
wundtiana, la presenza nell'esperienza cosciente di elementi sensoriali.
ALCUNI PROBLEMI DI FONDO E NON RISOLTI SULLA COSCIENZA
A questo punto, dopo aver esaminato i possibili
significati del termine e lo sviluppo del concetto di coscienza, dopo aver
considerato gli usi che se ne fa in varie discipline e le prospettive della
ricerca nel campo delle neuroscienze e della neurofilosofia, vorrei
individuare, riassumere e - ove possibile - impostare una serie di problemi
tuttora insoluti, problemi filosofici e non solo.
In realtà esistono moltissime risposte ad essi, ma, come
si è potuto vedere nei capitoli precedenti, sono incomplete e, con molta
probabilità, sbagliate.
La coscienza è un problema. Lo è oggi, lo sarà per molto
ancora, lo sarà forse per sempre.
Nel prossimo capitolo esporrò la mia posizione. Qui
riassumo alcuni problemi, che - ciò che farò nel prossimo capitolo - mi hanno
portato a voler dire qualcosa di personale sulla coscienza.
Che cos'è la coscienza?
Il problema principale è e rimane capire che cos'è la
coscienza. Ciò non può essere solo trovare una definizione, ma implica lo
spiegarne la sostanza, la natura, l'origine, il rapporto col corpo, con il
resto della mente, con il mondo. Questo è "il problema". Ed è un
problema che investe tutto l'uomo, la cui risoluzione sarebbe il traguardo più
ambito da raggiungere, superiore a qualsiasi altro posto dall'uomo.
La soluzione di questo problema a mio giudizio sarebbe la
tappa che lo avvicinerebbe di più alla divinità.
Nei secoli in molti - come si è visto - hanno
"spiegato" cos'è la coscienza, eppure col tempo le teorie cadono, si
rigenerano, si trasformano - basti pensare al passo decisivo compiuto
recentemente dalle neuroscienze. Così "il problema" della coscienza
continua ad essere insoluto.
Urgono nuovi paradigmi di indagine.
Potrebbe essere definita un "atto" o invece un
processo (così la pensa Bergson).
Può essere definita uno stato (stato mentale o di un altro
tipo) o altro ancora. Senza dimenticare che ancora c'è chi nega tout court
l'esistenza della coscienza.
La coscienza unisce o divide?
La coscienza è un problema perché è l’aspetto più elevato,
profondo e complesso dell’uomo.
Essa, al contempo, accomuna tutti gli uomini e li
distingue tutti.
Accettiamo che ogni uomo abbia la coscienza, e che tutti
gli uomini siano simili in quanto diversi da tutti gli altri esseri del creato.
Ma al contempo ogni uomo è diverso soprattutto nella sua
coscienza. Lo è per tanti motivi biologici, genetici, morfologici, eccetera. Ma
anche dove le differenze "esterne" sono minime, interviene la
coscienza a sancire la separazione, la distanza, la differenza.
Alcuni "problemi" che la coscienza pone li ho
affrontati nei precedenti capitoli, altri li affronterò più esplicitamente in
seguito.
Ho già citato, per esempio, il "problema delle altre
menti" : io so che i miei caratteri esterni coincidono con quelli interni,
ma come faccio ad accettarlo per gli altri uomini, non potendo esperirlo
empiricamente? [cfr Gregory, EOM p. 182 ss.]
Quale rapporto c'è tra corpo e coscienza?
Umberto Galimberti ha svolto una riflessione sulla radice
corporea dell'eccentricità e la coscienza come suo riflesso: "abbiamo
introdotto la metafora della danza per volatilizzare il più possibile la
sostanzialità della coscienza. La coscienza, infatti, non è una cosa, ma
tensione verso le cose, quindi pura intenzionalità, tratto tipico
del corpo umano che, a differenza di quello animale, è irrimediabilmente
esposto al mondo" [Galimberti, 1999, p. 199]
"Dimentichi dell'esperienza del corpo, Cartesio, Malebranche,
Leibniz hanno dovuto inventare rispettivamente la ghiandola pineale, la
coincidenza occasionale, l'armonia prestabilita per spiegare quell'operazione
magica per cui la rappresentazione coscienziale di un movimento suscita nel
corpo il movimento". L'autore aggiunge che "Riflettere non è
rientrare in sé e scoprire l'"interiorità della coscienza", quella
soggettività presunta che, al di qua dello spazio e del tempo, dovrebbe
garantire quella prima equivalenza che è l'identità con se stessi.
"Riflettere" è accogliere nel proprio sguardo quelle fugaci
impressioni e quelle percezioni inavvertite con cui il mondo mi si offre e con
cui io mi offro al mondo nel momento in cui gliele restituisco, perché non le
confondo con le mie fantasie e con l'ordine dell'immaginario dove, invece, non
rendo quello che sottraggo." [Galimberti, 1999, p. 200].
Dunque le relazioni che il corpo, aperto al mondo,
dispiega fanno del corpo l'origine di tutte le trascendenze, e da questa
origine scaturisce quel sapere che antecede e condiziona tutti i
rapporti logico-oggettivi che un cogito astratto può dispiegare.
"L'io penso deve scoprirmi nel mio spessore corporeo
perché questo vien prima dell'a priori kantiano dell'unità dell'io
penso" [Galimberti, 1999, p. 200-1]
Avere un mondo, infatti, è cosa diversa che essere al mondo.
Tutti i viventi sono al mondo, ma l'uomo è al mondo come colui
che ha un mondo, come colui per il quale il mondo non è tanto la casa,
il luogo che lo ospita, quanto il progetto per la sua costruzione.
"Essere al mondo significa allora per l'uomo
sfuggire all'assedio del mondo per abitare il mondo, fuggire dal proprio essere
in mezzo al mondo per averlo come luogo d'abitazione [...] Stante questo suo
carattere ec-centrico [sic, n.d.r.] , la coscienza, lo ribadiamo, non è
la duplicazione di quel centro che è il nostro corpo nel mondo, ma distacco,
distanza, superamento di sé nelle cose verso cui si protende" [Galimberti,
1999, p. 202]. Già Platone parlava di una "lacerazione" inflitta
dagli dei agli uomini, a causa della quale "ciascuno di noi è il simbolo
di un uomo" (Simposio], la metà che cerca l'altra metà.
La coscienza è crisi?
Nel corpo c'è qualcosa di incerto che rende titubante e
precario il suo rapporto con il mondo, "questa impercettibile crisi, che
chiede al corpo una rielaborazione del messaggio del mondo e una modificazione
del movimento successivo a partire dalla qualità del messaggio ricevuto, l'origine
della coscienza, che dunque è già rintracciabile nella motricità come
incrinatura del suo fluire spontaneo" [Galimberti, 1999, pp. 190-191].
Già tra gli ambiti di significato avevo mostrato come tra
alcuni poeti, scrittori e filosofi la coscienza sia il luogo del disagio
esistenziale, dell'essere inadatti alla vita, verifica dell'imperfezione, fonte
di paura, è malattia, viltà, dubbio, vanità, tristezza.
Ma si può ridurre la coscienza a una "crisi"?
La coscienza è sostanza o strumento?
F. Nietzsche scriveva "Ciò che noi chiamiamo
"coscienza" e "spirito" è solo un mezzo e strumento, con
"cui" non un soggetto, ma una lotta vuole conservarsi" (Frammenti
postumi).
Un problema forte è se la coscienza sia uno strumento
(strumento di chi o di che cosa?).
O se invece non sia una sostanza e l'uomo, il corpo, il
resto delle dimensioni umane ne siano il suo strumento.
Ho ripercorso la trasformazione del concetto, nell'ambito
teologico e morale, da "parte più intima dell'anima" a
"strumento di valutazione e decisione".
Si deve concludere che questa oscillazione è radicale
nella nostra cultura, a differenza di altre, per esempio quella orientale
(buddismo, induismo), nelle quali la coscienza coincide in ultima analisi con
il divino, il Brahman, e tende a raggiungerlo, ad annullarcisi, terminando il
ciclo delle reincarnazioni, o quelle animistiche dove l'"io" è
asservito agli spiriti o al grande Spirito e ne sta a contatto fino a
coincidere con esso (sciamanesimo).
L'oscillazione della concezione di coscienza tra sostanza
interiore e strumento morale tipica della cultura occidentale si fonda sulle
origini da una parte ebraiche e cristiane, del giudaismo e del pensiero mistico
dall'alto medioevo fino all'illuminismo, dall'altro sulla filosofia greca,
l'aristotelismo, il moralismo platonico, gnostico, il naturalismo
rinascimentale, fino all'illuminismo stesso, il positivismo dell''800 e lo
scientismo dell'ultimo dopoguerra.
Come si uscirà da questa oscillazione? Se ne può uscire?
Non si può rinunciare alle proprie radici.
Io credo che si possa sviluppare una ricerca non
incoerente con i presupposti culturali anzidetti, facendo interagire tutti gli
elementi, dalle neuroscienze, alla istanza metafisica, dalla filosofia alla
riflessione etica.
Bisogna chiedersi prima "cos'è la coscienza" o
prima "come funziona"?
Per sapere "che cos'è" la coscienza è necessario
capire con completezza "come funziona". Questa è la posizione di
Dennett, per esempio. La sua posizione è rischiosa perché getta la ricerca nel
rischio di rimanere invischiata nel meccanicismo materialistico e
naturalistico.
Forse sarebbe meglio dire prima "che cos'è" e
poi lasciar guidare la ricerca sul "come funziona" dalle neuroscienze
e dalle discipline cognitiviste. Avere cioè un paradigma di riferimento che è
auspicabile e possibile vista la ricchissima tradizione di riflessione
filosofica, religiosa e spirituale sulla coscienza.
Anche in questo caso si rischia di cadere in un tranello,
quello della metafisica ovvero del dualismo.
Nasce prima il linguaggio o prima la coscienza?
Nasce prima la coscienza e poi il linguaggio? O prima il
linguaggio e poi la coscienza?
Gli studi sulle aree cerebrali coinvolte
nell’apprendimento delle lingue da parte di soggetti bilingui danno
informazioni molto utili, non solo su come migliorare l’efficacia
dell’apprendimento, ma anche sulla struttura del cervello, sul suo funzionamento
e quindi sul funzionamento della mente. "È noto che nell'uomo alcune parti
del lobo temporale (area di Wernicke) e frontale (area di Broca) dell'emisfero
sinistro rivestono fondamentale importanza per la comprensione e la produzione
del linguaggio. Va tuttavia precisato che il linguaggio - che è una funzione
cognitiva tra le più complesse - non è legato a una singola struttura, ma si
basa sull'integrità di una complessa rete nervosa con importanti nodi
cortico-sottocorticali.
L'emisfero di destra, per esempio, è molto importante per
gli aspetti emozionali e pragmatici del linguaggio, e forse anche per alcuni
aspetti squisitamente linguistici delle lingue apprese successivamente alla
lingua madre.
Per chi studia le basi neurali dei bilinguismo è fondamentale
conoscere se la rappresentazione della lingua madre avviene tramite vie e
processi che differiscono da quelli usati per la rappresentazione della seconda
o di eventuali altre lingue.
Informazioni rilevanti a questo proposito sono state
fornite dalla tecnica di microstimolazione diretta del parenchima cerebrale nel
corso di interventi neurochirurgici in cui l'apertura del cranio viene
effettuata in anestesia locale" [Aglioti – Fabbro, 1999, p. 56]
Il mio linguaggio non è lo stesso del linguaggio degli
altri (infatti si impara con ritmi diversi, si pronunciano suoni e parole in
modo diverso, con significati diversi, con associazioni emotive diverse (si
pensi alla complessità dei problemi che hanno da affrontare e risolvere i
programmatori di elaboratori vocali, considerate le sfumature nella dizione che
differenziano ogni individuo).
Eppure si può anche dire che ci sono caratteristiche
comuni. L'apparato fonatorio è simile (anche se sono diverse le corde vocali in
ciascun individuo).
Io penso, sulla linea di alcuni autori che ho citato nel
capitolo X (tra gli altri Vester), che, ribadendo la modalità dello sviluppo
della coscienza nell'infante nel primo anno di vita e solo successivamente del
linguaggio (tra il primo e il secondo anno di vita), che la coscienza è appunto
la prima a sorgere, sulla base del linguaggio di "altri" esseri
umani. Solo dopo sorge l'abilità del linguaggio.
Quale è il linguaggio della mente? E il linguaggio della
coscienza?
Si è creduto negli anni '70 che la mente funzionasse con
un linguaggio simile a quello dei computer, il bit (cioè 1 o 0, circuito acceso
o spento), ma si è presto capito che questo linguaggio non permette di
comprendere la mente. Tuttavia oggi la corrente dei computazionisti (quelli che
credono di poter spiegare il funzionamento del cervello e della mente
utilizzando il paragone di hardware e software) è ancora in vita.
D'altronde anche la teoria che ogni idea abbia una
localizzazione cerebrale, e quindi le associaizioni d'idee non sarebbero altro
che contatti tra aree diverse, è debole o falsa, perché ogni stimolo o attività
cerebrale impegna sempre numerose parti del cervello in un'attività d'insieme,
associativa.
Molta importanza - come mostrerò anche in seguito - si è
attribuita al linguaggio nell'origine della coscienza e nella possibilità di
comprenderne la natura e il funzionamento.
Ma quello che ci manca è la conoscenza del
"linguaggio" che la coscienza utilizza per il suo funzionamento.
Che tipo di linguaggio è? Matematico, per associazioni, un
metalinguaggio (che utilizza altri sottolinguaggi)?
Nessuno attualmente ha risposte esaurienti e convincenti.
Esiste un'unica coscienza per tutti gli uomini?
Tutti sentiamo con evidenza di essere l'uno diverso dagli
altri. Però - come dice Matte Blanco - la coscienza, nel suo modo di essere
simmetrico, si sente unita alle altre coscienze.
Se non fossi diverso dagli altri non comunicherei: non mi
accorgerei della differenza.
Se non fossi uguale agli altri non comunicherei.
Ogni essere umano è diverso dagli altri, non solo per il
corredo genetico, le impronte digitali, la mappa della retina, la dentatura.
Tantissimi particolari ci rendono diversi, a livello biologico e fisiologico.
Però esistono anche meccanismi uguali in ogni uomo: il
metabolismo, la produzione di calore, il movimento, la riproduzione.
Caratteristiche che ci accomunano agli altri animali e ci distinguono dagli
esseri cosiddetti "inanimati".
Ora, tutti gli uomini hanno meccanismi fisiologici simili
ma sono tutti diversi.
Anche per la dimensione psichica e mentale esistono
caratteristiche simili?
O la differenza del campo di indagine, dal fisico e
biologico a quello psichico rende impossibile questo confronto?
La psicoterapia si basa proprio su questo paradosso: che
si è uguali, quindi ci si può capire, identificarsi, fino nelle dimensioni più
"antiche" di noi e profonde, le emozioni; ma siamo anche diversi.
Sulla somma di queste considerazioni si può fondare la possibilità della guarigione.
In che cosa sono diverse le coscienze?
Le coscienze sono tutte - e completamente - diverse o
invece uguali in alcune parti? Quali sarebbero le dimensioni della coscienza
comuni a tutti?
Quali sono le caratteristiche della coscienza che
appartengono solo a me?
Io posso, al massimo, cercare di conoscere la mia
coscienza, ascoltando, attraverso l'uso dell'analogia e delle metafore, cosa
gli altri sanno della loro coscienza.
Le differenze tra gli uomini e tra le cose dipendono dal range
che intendo usare nella misurazione. Dal punto di vista di una galassia, gli
uomini sono tutti uguali, sono nullità. Dal punto di vista di un microbo, gli
uomini sono tutti uguali, ne basta uno ed è tutto ciò che gli serve per
sopravvivere, se l'uomo non ingerisce antibiotici.
Ma se usiamo il punto di vista umano, che ha la pretesa di
sintetizzare tutti i punti di vista, diciamo che ogni cosa è diversa e con la
scienza schematizziamo, astraiamo, economizziamo la riflessione per trarre
conseguenze e modificare ulteriormente noi stessi e il mondo.
Risolvere questo problema potrebbe spiegare anche perché
si può comunicare e capirsi tra uomini. Agostino d'Ippona aveva risolto il
problema del fondamento del dialogo con la presenza nella mente di ogni uomo
(in una concezione ispirata al platonismo) del medesimo Gesù Cristo che è la
base unificante nella comunicazione. Questa è una soluzione molto lontana dalle
istanze neurofilosofiche attuali, ma testimonia da quanto lontano venga questo
problema.
Un esempio familiare: la gamba che non c'è
Porto un esempio personale, banale eppure significativo,
sul problema della differenza tra le coscienze che tuttavia non impedisce la
comunicazione.
Nella stanza in cui sto lavorando ci sono dei calzoni
appoggiati sullo schienale di una sedia, pendono dritti e rigidi quasi per
intero verso il pavimento, spiegazzati dietro il ginocchio, gonfi dove la
rotula preme sulla stoffa, ripiegati dove il piede si alza per camminare,
frusti e usati, rigonfi dove c'è la tasca. Hanno conservato dunque la forma
delle mie gambe. Ciò mi fa credere che dentro i calzoni ci siano ancora le
gambe, le mie gambe.
Invece non c'è nulla dentro quei calzoni, anzi si tratta
solo di stoffa sgualcita e logora. Ma più ci penso e più li associo alle mie
gambe. Sembrano contenere attualmente le gambe. Non importa se sono le mie, non
dubito di averle io attaccate al corpo ora e coperte dalla tuta. Ma mi
impressiona l'abitudine di associare agli oggetti personali emozioni, funzioni
e addirittura parti del nostro corpo.
Se faccio entrare mia moglie nella stanza e le chiedo di
guardare i calzoni e di dirmi cosa vede e che associazioni mentali sente di
compiere, mia moglie, dopo qualche istante di sbigottimento e preoccupazione,
decidendo di stare al gioco, senza sforzo dichiara di vedere dei calzoni in
disordine, sgualciti e che sarebbe ora di cambiare.
"Non ti sembra che ci sia dentro la gamba?", le
chiedo. "No. Sono solo molto sgualciti".
Ecco un esempio "familiare" di come le coscienze
siano tutte diverse.
Per me quei calzoni sono importanti, li abbiamo comprati a
New York in viaggio di nozze, li ho usati spesso, sono leggeri e sportivi,
troppo leggeri all'inizio della primavera e alla fine dell'autunno, ma utili
nelle mezze stagioni e d'estate. So che sono vecchi, ma in questo momento ne ho
pochi altri a disposizione.
Insomma tutte sensazioni, emozioni, ricordi, che rendono
quei calzoni, appoggiati in quel modo alla sedia, come vivi, legati e me,
ancora indosso alle mie gambe.
La coscienza è assoluta o relativa? È "confine"
con l'assoluto?
La coscienza si dà da sé, ed ha perciò attributi divini, è
immortale, si autopone; o invece è creata (e da chi?) viene dal nulla? O
addirittura avrà un termine?
La coscienza è confine con dio? Con l'Assoluto? Ma esiste
un assoluto?
Oppure la coscienza è il "limite meta-noetico e
ontologico" con il nulla?
Posizoni differenti possono dare risposte molto differenti
a queste domande.
Esiste una coscienza dell'universo?
Esiste una coscienza del mondo? E del cosmo?
Siamo convinti che solo chi ha un sistema nervoso può
avere una coscienza. Ma sappiamo anche (ovvero molti scienziati sostengono) che
la coscienza non è solo un meccanismo biologico. Perciò come possiamo negare
che l'universo abbia una coscienza?
Questo porta alla posizione - difficile da sostenere - che
tutto è coscienza? Non credo necessariamente.
Perché non tutto ha il sistema nervoso, con cervello
quantitativamente esteso e qualitativamente sviluppato
Coscienza del mondo in senso oggettivo, sì. Io ho
coscienza del mio mondo interiore
Quando "nasce" la coscienza?
Esiste un momento in cui la coscienza nasce?
E la nascita è una metafora appropriata per spiegarne
l'origine?
La coscienza è il primo stato mentale naturale che nasce nell'uomo,
entro il primo anno di vita, come è stato teorizzato ampiamente.
Ma non è uno dei tanti stati mentali naturali. Essa ha uno
statuto unico.
L'uomo nasce molte volte. Simone Weil ha scritto: "la
nascita dell'uomo dura tutta la vita".
Altri stati mentali, che riteniamo molto importanti, in
realtà vengono in seguito.
Si nasce padri solo quando si ha un figlio e dopo alcuni
mesi si scopre cos'è l'orgoglio di un padre, l'emozione del sentirsi dire
"il mio papà", il senso di colpa verso il figlio, il senso di
inadeguatezza nell'educazione ecc. Prima non si poteva capire, immaginare al
massimo, ma solo razionalmente. Ora, invece, nati come padri, lo viviamo.
E così solo quando si è vicini alla morte, davvero, si
prova il brivido della vita. Si ha piena coscienza della vita.
Solo quando ci si innamora si capisce il senso della
comunità, del sociale, della famiglia.
L'educazione, a volte, rende gli uomini orribili. Ciò
capita in sobborghi violenti o in culture totalitarie, dove i ragazzi sono
educati nell'odio, nel rancore, nella violenza totale. Si pensi a come avveniva
l'educazione di certi indiani d'America, gli Chochones a cui le madri
rifiutavano il latte per lunghi periodi, così da renderli più frustrati e
aggressivi. Eppure può capitare a tali persone, per qualche circostanza, di
capire che c'è una strada diversa dalla sopraffazione, magari si sono
innamorati o sono stati salvati da qualcuno o hanno imparato che si può
fidarsi.
Lì può dirsi che è nata una coscienza, che c'era già
prima, ma bloccata allo stadio embrionale e tenuta artificialmente nel liquido
amniotico perché non desiderata dall'ambiente in cui doveva nascere e di
conseguenza neanche da chi la possedeva. La coscienza come un figlio
indesiderato, temuto, ma che poi porta gioia, porta vita a chi decide di
partorirla…
Esiste prima la materia o prima la coscienza?
Se la coscienza "nasce", allora viene prima la
materia?
È una domanda mal posta, perché si può benissimo
immaginare cha la coscienza, essendo uno stato costitutivo dell'uomo è in potenza
nell'uomo fin dall'inizio o, meglio, "nasce" con l'uomo, perché
l'uomo si compie come uomo solo dopo alcuni mesi dalla nascita, perché si
relaziona con altri esseri umani, con i quali ha relazioni intime, manipola
l'ambiente, sceglie, interagisce.
Ma anche prima era "uomo", anche se qualcuno
ancora direbbe che, prima dello sviluppo neuronale (il quattordicesimo giorno?,
i primi mesi?, dopo la nascita?) era solo "materia", qualcosa di più
di una scimmia e qualcosa di meno di un uomo.
Dagli studi "neuroevolutivi" si ricava che prima
esiste la "materia" e poi la "coscienza".
Ma questa affermazione porta al dualismo materia - mente,
che invece deve essere superato, pena la non soluzione del problema della
coscienza.
Nei primi mesi di vita del feto e poi del neonato si
sviluppano moltissime connessioni (cfr gli studi di Rose e tanti altri). Perciò
la "nascita" della coscienza è legata al diffondersi delle
connessioni neuronali. La coscienza nasce con lo sviluppo rapidissimo delle
connessioni neuronali e la loro ramificazione nei primi mesi di vita del
bambino.
Ma se nasce significa che dipende solo dalla materia,
dalla componente neurobiologica?
C'era già prima senza dipendere così strettamente dalla
biologia neuronale o invece si è sviluppata ex novo? Viene dal nulla? O
invece è solo una qualità nuova del cervello?
Io penso che la sua "formazione" dopo alcuni
mesi dal parto del bambino, è un cambiamento talmente speciale da non
somigliare a nessun altro cambiamento, né alla nascita né all'apprendimento del
linguaggio o alla pubertà, alla menopausa, a un'amputazione o ad altri stati
che ho ricordato più sopra.
Una coscienza nei bambini anencefali?
I casi dei bambini anencefali (nati con assenza parziale o
quasi totale del cervello), una di quelle situazioni di confine che mettono in
difficoltà la scienza e l'etica, farebbero pensare alla possibilità di
esseri-umani-non-umani, privi cioè delle caratteristiche fondamentali
dell'essere uomini, la funzionalità corticale. Come se il bambino prima di
nascere fosse un non-uomo, un quasi-animale o un vero e proprio animale (le
discussioni etiche sull'aborto non si estinguono mai)
Eppure è la constatazione che i bambini anencefali non
sopravvivono mai (per più di qualche giorno) che rilancia la discussione. Se,
al contrario sopravvivessero, si potrebbe considerare la possibilità di
esistenze quasi-umane (senza ricorrere agli zombi o a computer pensanti, come
fanno i neurofilosofi).
Bisognerebbe dire non che prima dello sviluppo della
coscienza i bambini non sono uomini, ma che sono solo bambini , una
verità che pare scontata e non significativa, e che invece dovrebbe essere il
necessario tentativo di rendere conto del salto di qualità della vita umana,
che nasce priva di coscienza eppure dotata, per universale ammissione, di
qualità umane, e solo in seguito vede svilupparsi la coscienza.
E dovrebbe valere la tesi secondo cui non esiste alcun
uomo senza coscienza.
Altri casi interessanti sono quelli di bambini che già molto
presto (6, 8 anni) dimostrano una maturità religiosa talmente avanzata da
essere poi riconosciuti come santi (non solo i casi dei bambini martirizzati,
ma anche quello di Maria Goretti che aveva 12 anni, Domenico Savio che ne aveva
15, sant'Agnese 12 o 13 anni e altri ).
In essi ovviamente la coscienza è ben sviluppata,
soprattutto quella morale e quella che potremmo definire
dell'"astrazione", o "trascendente".
Esperimenti per l'indagine sulla coscienza
Sarebbe interessante se non fosse immorale fare degli
esperimenti su un bambino
Se isolassimo un bambino impedendogli di ricevere
percezioni o stimoli esterni di qualsiasi tipo (ma forse bisognerebbe impedirli
proprio tutti altrimenti qualcosa succede lo stesso...) si svilupperebbe la
coscienza?
È una variante dell'ipotesi del "cervello
sospeso" tanto cara a filosofi e neurologi e altrettanto impraticabile, ma
per motivi etici, invece che per l'inadeguatezza tecnologica che non consente
ancora il mantenimento in vita di un cervello separato dal corpo.
Il rispetto della coscienza personale nei bambini, che non
dubitiamo esista, non ci conscnte di fare esperimenti sui bambini per scoprire
cos'è la coscienza.
Come si può uscire da questo circolo vizioso (ma che per
altri aspetti sembra pienamente morale)?
Che rapporto c'è tra la coscienza e l'intelletto? E tra la
coscienza e la sensibilità?
Un problema su cui tutti gli studiosi dicono la loro
(soprattuto i cognitivisti) - eppure non è mai definitivo quel che dicono - è
il rapporto tra coscienza e intelletto. In tante ricerche sulla coscienza
questo aspetto sembra secondario e scontato. Ma il fatto che nessuna teoria
abbia esaurito l'indagine sulla coscienza toglie definitività anche alle
soluzioni di questo problema.
Qualcosa di simile accade con il rapporto tra coscienza e
sensibilità. Questo tema piace molto agli piscologi.
Ed è chiaro perché tutti i ricercatori trattino di essi:
perché sensibilità e intelletto sono i due ceppi della conoscenza umana.
La coscienza è razionale o irrazionale?
Un problema invece che trovo poco affrontato (se non in
Matte Blanco) è se la coscienza sia razionale o invece non-razionale.
Cercherò di mostrare nel prossimo capitolo in che senso si
possa affermare che essa sia in parte razionale e in parte non-razionale.
La coscienza unitaria o molteplice?
Possiamo chiederci se la coscienza risenta delle
trasformazioni della persona nel tempo.
L'identità di una persona è legata strettissimamente alla
sua coscienza. Si potrebbe dire che la coscienza è l'identità di una
persona.
Ma la coscienza/identità rimane sempre uguale o cambia
nella vita?
Proprio la coscienza potrebbe essere la dimensione, il
luogo dove (incomprensibilmente per noi) si realizza la continuità e unità
della persona e contemporaneamente la sua molteplicità, pluralità, divenire.
XII
Una riflessione personale: la
coscienza come "origine" e "unità" dell'essere
umano
Ritengo di fondamentale importanza il concetto di
coscienza nella filosofia, nella scienza e nella vita.
"Nell'interrogare la coscienza come tale, e dunque
nell'interrogarsi, c'è qualcosa che dà le vertigini al pensiero. Eppure non
sembrerebbe esserci niente di più ragionevole e di più saggio di questo
gesto" [Desideri, 1998, p. 17].
La mia posizione è che la coscienza sia il punto di verità
e di unità per l'uomo, sorgente di ogni aspetto dell'uomo, punto di nascita
antropologico: in una parola origine dell'uomo. È proprio su questa
dimensione della coscienza che insisterò in questo capitolo.
Fine del "percorso di indagine"
Internet ha cambiato il modo di fare ricerche e lavori
umanistici: la rete virtuale è un'immensa biblioteca, è un dizionario
sterminato, un'enciclopedia multimediale completa.
È una "biblioteca" dove si trova non solo
titoli, recensioni e articoli, ma intere ricerche già confezionate, opere
complete, analisi specialistiche minuziose.
Dunque non ha più senso elaborare raccolte con pretesa di
completezza su di un certo argomento (se non per pubblicarle in rete). E non è
il mio intento - per quanto sia inevitabile la tentazione, quando si affronta
la ricerca su un tema, di accedere a tutte le informazioni bibliografiche
possibili, per "possedere" la materia.
Quel che serve oggi è elaborare un "percorso di
indagine".
È quello che ho tentato di fare in questa dissertazione. E
mi sono spostato progressivamente verso una nuova dimensione di indagine: una
riflessione del tutto personale sul tema che mi sono posto, la coscienza.
Questa è la parte più personale della ricerca, la più intima, e la più difficile
- una sfida - perché tra il dire una cosa personale e dirne una stupida il
tratto è assai breve.
La sfida nasce dalla passione per il concetto di coscienza
che mi anima da tempo, si nutre del percorso di indagine che ho fatto tra così
tanti e diversi riferimenti, di cui ho dato conto, e mira a costruire un
"pensiero" sulla coscienza, se non una teoria.
Esiste uno spazio per una risposta personale proprio
perché tanti problemi legati alla coscienza (citati nel capitolo precedente)
sono ancora insoluti.
Uno dei rischi che non voglio correre è di assumere un
tono simile a quello degli esoteristi, dei guru, dei fondamentalisti,
che sembrano possedere tutta la verità sulla coscienza, sull'universo e su
tutto il resto…
Per essere più consapevole di questo tranello e non
caderci mi sono soffermato sull'esoterismo, l'occultismo e il paranormale in un
capitolo specifico (il V) esaminando come viene considerato il concetto di
coscienza. A me non interessa quello sfondo spiritistico, olistico, cosmico, magico,
se non per qualche spunto che da quel mondo può derivare per accidens e
per il fatto che dimostra l'interesse che c'è oggi intorno alla coscienza e
l'attualità del tema.
Per motivi simili ho esaminato delle
"discutibili" teorizzazioni della coscienza, nel capitolo IX. Ed è
stato per il motivo contrario - per trarre spunti e illuminazione - che ho
indagato alcune teorie contemporanee (seconda parte della dissertazione) e
tante ricerche neurologiche e neurofilosofiche.
Ma nessuna delle analisi neurbiologiche e filosofiche o
spirituali mi è sembrata del tutto convincente, esaustiva e in grado di dar
conto dei problemi posti dalla vivacità e complessità che il tema della
coscienza riveste oggi. Né quelle degli ormai classici ricercatori e
neuroscienziati come Eccles, Searle, Edelman, né quelle dei più giovani
Chandler, Dennett o Di Francesco (per citarne alcuni).
Sono molte le posizioni (filosofiche ed epistemologiche)
in cui non mi riconosco e da cui vorrei stare lontano (salvo caderci
inconsapevolmente). Li cito più avanti (si veda la sezione "Prospettive di
riferimento").
Noi siamo "nani sulle spalle di un gigante" e
dunque è ben difficile non essere condizionati da quanto detto nel passato.
Eppure è impossibile venire a capo di una teoria completa
sulla coscienza se non verifichiamo tutte le teorie e le impostazioni
epistemologiche di nuovo e alla luce delle ultime innovazioni tecnologiche nel
campo dell'indagine neurofisiologica, che hanno assunto un ritmo di
perfezionamento rapidissimo e sono in grado di raccogliere un'immensa mole di
dati da analizzare e rielaborare in nuove teorie.
Illuminare il fondamento assoluto dell'uomo nella
coscienza potrebbe essere forse un retaggio illuministico, una pretesa di
certezza che è irreale e impossibile da sempre e per sempre. Ma in realtà tale
ricerca per me è una esigenza personale di individuare certezze, punti fermi.
É forse questa un'esigenza per soddisfare il super-io
fatto ingigantire da un'educazione troppo rigida? Anche se fosse, non riguarda
la ricerca. Ciò non influisce metodologicamente, se rispetta il metodo
filosofico della ricerca.
Si deve cercare ugualmente, perché è buona cosa che con la
ricerca si possa soddisfare quelle esigenze super-egoiche o addirittura
circoscriverle e dominarle.
Piuttosto: è giusto che una esigenza personale di certezza
promuova una ricerca che deve essere oggettiva? Ciò non è filosofico, ma è
sempre stato così per i filosofi e per tutti: la vita personale condiziona le
teorie.
Per una "neurospiritualità"
Inoltre, nel panorama odierno della scienza della mente,
mi pare che manchi una seria "neurospiritualità", con riferimento a
una "neuroteologia", un ascolto "forte" della spiritualità
nella neurofilosofia. Sento che può sembrare fantascienza, fantaspiritualità. Ma
sono sicuro che fra cento anni sembrerà scontato.
Io credo - lo ribadisco per l'ennesima volta - che
l'indagine sulla mente sia il nuovo paradigma di tutte le scienze e in tutte le
discipline, compresa la teologia e la spiritualità.
Io non sono in grado di fare questa sintesi, tra le
neuroscienze e la riflessione spirituale; ma almeno posso mettere l'accento su
un aspetto, quello dell'"origine unificante" della coscienza, ciò che
può favorire l'incontro tra neuroscienze, filosofia e spiritualità.
Nella recentissima enciclica Fides e ratio di
Giovanni Paolo II, troviamo un invito a far dialogare tra loro scienza e
riflessione umanistica.
E il professor Nicola Cabibbo, presidente della Pontificia
Accademia delle scienze e ordinario di Fisica delle particelle all'università
La Sapienza ha dichiarato al convegno "Scienza e conoscenza: verso quale
razionalità?" (Bologna, 5-8 settembre 2000, in occasione del giubileo dei
docenti universitari): "Dobbiamo tornare a una cultura non più divisa in compartimenti
stagni. Un incontro a tre, teologia-filosofia-scienza, è quanto mai urgente,
visto che il mercato e la tecnologia stanno trasformando profondamente la vita
umana" .
I filosofi hanno indagato la coscienza attratti
soprattutto dal suo aspetto cognitivo, che oggi è assolutamente predominante
(si studia più la consciousness che la conscience). Ciò è
avvenuto in particolare negli ultimi tre secoli, passando dall'idealismo al
cognitivismo materialista, attraverso tante correnti (dal positivismo, allo
strutturalismo, al funzionalismo fino al nichilismo).
Più anticamente si privilegiava un punto di visto
metafisico, dove la coscienza non era ancora il centro dell'uomo, dimensione
degnissima da indagare per identificare l'uomo, ma specchio di Altro ben
superiore, oppure era solo strumento, caratteristica della creaturalità
dell'uomo.
Ma studiando la coscienza si conosce se stessi, la
coscienza è unione tra il mondo e l'interiorità dell'uomo.
A queste impostazioni parziali vorrei reagire, tendendo a
una concezione sintetica e unitaria. E credo che il concetto di coscienza come
"origine" lo permetta.
PROSPETTIVE DI RIFERIMENTO
Prima di ampliare la mia teoria sulla coscienza, riaffermo
alcuni presupposti e prospettive di riferimento.
Io voglio: recuperare il concetto di Dio, ma
evitando il dogmatismo, il tradizionalismo, l’assolutismo;
eppure mantenere l'eredità cristiana, quella
cattolica, ma non necessariamente solo quella; l'ottica cristiana, che assumo,
è quella secondo la quale lo "spirituale" ha sempre il primato;
evitare di cadere nella metafisica intesa come pretesa di spiegazione
della realtà attraverso categorie meta-materiali, o nel neotomismo,
ancora in auge, che trovo inadeguati a rendere la complessità dei risultati
ottenuti fino ad oggi dalle ricerche di così tante discipline che si trovano
implicate e coinvolte nello studio della coscienza.
evitare tutte le correnti filosofiche non più adeguate come una neo-metafisica,
l'idealismo e il solipsismo, il dualismo, il materialismo, il positivismo e lo
scientismo, il riduzionismo, il meccanicismo, il computazionismo, il
determinismo, così come anche lo scetticismo, il relativismo, il puro
comportamentismo e tutte le teorie unitarie e "totalitarie" che
cercano di spiegare tutto l'universo mondo .
La riflessione sulla coscienza e la ricerca della scienza
della mente suggellano a mio giudizio la crisi di gran parte del pensiero
filosofico, della metafisica (nel senso anzidetto) in primis,
dell'idealismo, dei pensieri forti e anche di quelli deboli.
Voglio adottare il pensiero debole, non fino al
nichilismo che facilmente porta con sé , ma come metodo di indagine. Il
pensiero debole è l'ultimo grande figlio della "vecchia filosofia".
Ma proprio il pensiero debole è quello che ha meglio diagnosticato la morte
della vecchia scienza e della vecchia filosofia, senza però saper fornire una
epistemologia alternativa in grado di sostenere filosoficamente l'avanzare
delle nuove ricerche tecnologiche.
Voglio verificare tutto ciò che dico alla luce delle
neuroscienze, perché le scoperte sul funzionamento della mente, non solo
hanno rinnovato la scienza, la tecnologia, e la filosofia, ma anche la
teologia, la morale.
Oggi le teorie della mente hanno poco valore, se non hanno
fatto i conti con la neurobiologia. Le nuove discipline che hanno saputo fare i
conti con la biologia (quali la neuropsicologia, neuropsichiatria,
neurofilosofia, neurosociologia, ecc.) evidenziano con chiarezza la cesura tra
ogni indagine avvenuta nel passato e quanto si sta scoprendo oggi.
Secondo il filosofo Enrico Berti "oggi il filosofo
non può più studiare solo la storia della filosofia e le più recenti
pubblicazioni filosofiche. Deve essere aggiornato anche sui progressi delle
scienze, particolarmente quelle che hanno a che fare con la mente. Ed è uno sforzo
quasi insostenibile, data l’accelerazione delle scoperte scientifiche" [Letture
sulla persona, Centro Maritain di Treviso, 1999].
Dunque per indagare la coscienza è necessario che i
filosofi imparino il linguaggio della biologia.
Vorrei usare come strumento di indagine principale
l'esperienza: se un fatto, un fenomeno non si riscontra nell'esperienza è
inutile per la mia indagine.
Ecco il mio "rasoio di Ockham".
Alcuni "postulati"
Quello che presento qui di seguito non ha la pretesa di
essere una teoria della coscienza.
Qui riporto innanzitutto alcune tesi che, a mio giudizio,
si evincono da una ricerca bibliografica sulla scienza della mente e paiono
largamente condivise.
* La coscienza ha una base biologica, ma anche una
dimensione "metabiologica".
Questo è il principale problema, il problema del rapporto
mente-corpo. La difficoltà sta nel metodo di indagine attuale che è
efficacissimo dal punto di vista quantitativo e biologico, ma debole dal punto
di vista qualitativo, ontologico.
* La coscienza è in tutti gli uomini. non possono esserci due categorie
diverse di esseri umani, quelli con la coscienza e quelli senza.
Se è così, molti ragionamenti non hanno bisogno di altra
dimostrazione che l'esperienza universale di ogni uomo (al di là di ogni ipse
dixit).
Ma quale concetto di coscienza hanno le altre civiltà, per
esempio gli aborigeni, i non "occidentali evoluti"? Sarebbe
interessante indagarlo.
* La coscienza accomuna tutti gli uomini, appunto in quanto distinti dal
resto del creato.
Su questo punto si è realizzato un grande percorso: il
dialogo, la consocenza reciproca, la psicologia hanno investigato assi, come
anche le filosofie e le religioni.
* La coscienza distingue l’uomo dall’animale e dagli altri
esseri del creato.
Problema: non si saprà che cos’è la coscienza finché non
si sarà chiarito del tutto la differenza tra uomini e animali (genoma,
neurobiologia, etologia, ecc.) sia da un punto di vista biologico, sia
metabiologico
* La coscienza distingue ogni uomo da ogni altro uomo.
Problema: come fa la coscienza a unire e distinguere
contemporaneamente e in così tanti modi? Non si conoscerà la coscienza finché
non si saranno chiarite completamente - vedi sopra - le differenze tra uomini e
tra uomini e animali.
Non tenderò io, e forse tanti altri, a considerare la
coscienza come qualcosa di assoluto, un Dio nell’uomo o qualcosa del genere?
* La coscienza non esiste alla nascita dell’uomo; si forma
nei primi anni di vita
(tra il primo e il secondo).
problema: come è possibile ciò? Come avviene?
È certamente dovuto alla proliferazione dei neuroni e dei
collegamenti tra neuroni. Ma anche negli animali avvengono questi processi. Che
cosa c’è di diverso nell’uomo?
* La coscienza ha a che fare con importanti dimensioni e
argomenti: le idee, la mente, il cervello, la conoscenza, la società, il senso
religioso, la
personalità, la memoria, la volontà, lo sviluppo, la storia individuale, la
cultura, la morale, l’educazione
* La coscienza è un tema difficile, perché riguarda
biologia e metafisica.
È delicato, decisivo, perché esige il metodo di indagine scientifico, per
quanto riguarda il terreno biologico, ma anche la riflessione filosofica e
umanistica per quel che riguarda l’aspetto metabiologico.
* Proprio per questo è un tema molto attuale. Dopo una parentesi positivista
–ateista tra seconda metà dell'‘800 e prima metà del ‘900, oggi c’è di nuovo
sensibilità per l’incontro tra scienza e filosofia e religione.
* Attualmente non esiste una teoria sostenibile, chiara,
adeguata, completa della coscienza.
Non è possibile formularla e difendersi dalla obiezioni
che gli sarebbero mosse.
* I paradigmi della ricerca scientifica impediscono la
formulazione di una teoria accettabile sulla coscienza.
* Qualcuno in verità tenta di formulare teorie, ma viene
facilmente criticato o si espone al ridicolo (vedi il capitolo IX).
* La neurofilosofia lungi dal poter formulare teorie, per
ora si occupa solo dei problermi metodologici, potrebbe definirsi più propriamente
neuroepistemologia.
Vedi Churchland che si limita a criticare le teorie o discutere sulla
probabilità di alcune ipotesi (per esempio la seguente: "è credibile che
si giunga a una Intelligenza Artificiale autonoma?").
* La coscienza ha un valore "totale-diffusivo"
nella vita dell’uomo:
sociale, relazionale, affettivo, ma anche morale, di autoperfezionamento,
autotrascendimento, autocompimento, è origine della cultura, memoria, emozione
e dell’amore, dell’arte ("Grazie Dio per avermi dato una buona musica!"
dice Salieri in "Amadeus" di M. Forman; come dire che si crea
perché è Dio a lasciarlo fare, a spingere l'uomo, a farlo creare - e ciò
attraverso la coscienza).
La coscienza è un "luogo" perché non è un
potere, non è assoluta; è piuttosto uno strumento, ma è più di uno strumento,
una voce, ma è perfettibile, eppure null’altro è così profondo, importante,
lontano, vero in noi.
* La coscienza influenza tutte le attività dell’uomo, quelle consce, ma anche quelle
inconsce, creatrici, affettive ecc.
Detto questo, specifico che a me interessa poco che cos'è
la coscienza, di ciò si occupa la filosofia; dove risieda nel cervello, di ciò
si occupa la neuroscienza; come condizioni il comportamento dell'uomo, di ciò
si occupa la psicologia; se sia "impeccabile", di ciò si occupa la
teologia morale; da dove abbia avuto origine, né come si manifesti.
Piuttosto vorrei dimostrare che è l'"origine"
dell'uomo, che è l'unità (meglio, l'universo originario) da cui l'uomo ha
attinto fin dall'inizio e attinge ancora continuamente.
LA COSCIENZA COME "ORIGINE" DELL'UOMO
Per capire cosa sia la coscienza è fondamentale analizzare
(lo abbiamo visto) la sua formazione, la sua "nascita" nella persona,
quello che potremmo chiamare la sua "genesi".
È importante chiedersi quando essa ha avuto origine (e
l'ha avuta da Dio?).
Per questo ho inserito nella terza parte della
dissertazione il capitolo sugli studi neurologici e psicologici sullo sviluppo
della coscienza nell'infanzia.
Ed è molto significativa anche l'evoluzione - precedentemente
ricordata - del concetto di coscienza dalla sineidesis greca alla sinteresis,
alla conscientia della scolastica, con l'oscillazione tra l'essere
considerata dimensione "la più profonda" dell'anima o solo strumento
di decisione morale.
Questo sviluppo è parallelo a quanto accade nella persona
e dunque è significativo e da analizzare nell'indagine sulla natura della
coscienza.
Sento il rischio, in questa teorizzazione, di navigare
alla cieca, verso orizzonti che rischiano di essere immaginari. Però sento
anche la necessità di cercare di esprimere la enormità della dimensione
radicale, interiore, "originale" del concetto di coscienza per
l'uomo.
Ecco perché continuo - un po' incoscientemente - in questa
riflessione...
Il primato della coscienza
Per decidere cosa fare, quale azione intraprendere, che
conseguenze provocare, noi uomini potremmo ascoltare aspetti molto diversi e
vari della nostra umanità: ascoltare gli istinti, oppure la fantasia, seguire
l'orgoglio, o l'abitudine, la memoria del passato, o la pura razionalità, il
consiglio di altri o l'affetto o l'amore, oppure la coscienza.
Perché dovremmo ascoltare proprio la coscienza?
Abbiamo deciso, universalmente, da sempre, che la
coscienza è ciò che vale di più in noi, perché è formata di ragione,
sentimenti, fantasia, di tante dimensioni.
Abbiamo intuito che è la parte che vale di più in noi? Se
non l'abbiamo intuito, di certo l'abbiamo deciso.
Con le parole di G. Piana: "La coscienza è il centro
di unificazione della persona; è il luogo in cui l'uomo si autoconosce e decide
di sé. Essa riflette la realtà complessa dell'uomo, costituita di corpo, anima
e Spirito Santo (Ireneo), ed è l'ambito da cui partire per cogliere il senso
ultimo dell'agire morale. La tradizione cristiana ha sempre riconosciuto il
primato della coscienza, definendola come la norma "ultima" della
moralità [o penultima perché "Ultimo" è solo Dio, n.d.r.] e
difendendone i diritti inderogabili, anche nel caso di errore".
La centralità è oggi recuperata a partire da un'interpretazione
dell'agire umano che fa anzitutto riferimento alla persona e alla sua ricerca
di autorealizzazione.
"La decisione morale, pur nel limite dei
condizionamenti biopsichici e socioculturali, è in ultima analisi espressione
della realtà più profonda dell'uomo, del "mistero" che lo connota, e
ha perciò la sua sede nella coscienza. Solo attraverso l'accesso ad essa è,
infatti, possibile conoscere l'agire nel suo spessore più radicalmente umano,
come frutto di una progettualità complessiva che si incarna negli atti concreti
della vita quotidiana.
La coscienza, in quanto espressione della realtà della
persona, ha un carattere essenzialmente relazionale; essa è, in altre parole,
costitutivamente aperta agli altri, al mondo, a Dio, e si autocostruisce solo
nel corretto sviluppo di questi rapporti. Così la coscienza si apre alla
pienezza della verità, che essa trova inscritta nel profondo di sé, ma la cui
sorgente ultima deve essere ricercata nel progetto originario di Dio"
[Piana, EC, 1997, p. 191].
La moralità, la coscienza morale, aiuta la coscienza (ora
in senso generale, filosofico): perché se fai il bene ti si spalanca la
"comprensione" di te, ecc.; se fai il male ti si obnubila, si
razionalizza, sclerotizza, maschera.
L'etica è necessaria all'uomo (per la sua vita sociale,
per non sentirsi abbandonato solo agli istinti, ecc.), perciò anche la
coscienza è necessaria.
La coscienza è madre e figlia dell'uomo
Mi piace la metafora della madre e del figlio. La
coscienza è figlia dell'uomo che le è padre.
Ma la metafora è ambivalente: l'uomo partorisce la
coscienza eppure è la coscienza che lo fa nascere di nuovo e veramente come
uomo.
Un po' è "madre" perché ci critica, ci guida, ci
origina; un po' è "figlia" (la educhiamo, la correggiamo), ma un po'
è anche "sposa": la amiamo, ci è connaturata, conviviamo con essa per
tutta la vita, cresce con noi.
Potrei definire la coscienza come origine originata
originante, ricorrendo al concetto dell'origine e dell'originatore
(Dio).
Originatore a mio giudizio come termine è meglio che
"creatore", che ha sapore di potenza, poco attinente alla dimensione
di Amore del Dio cristiano personale. È importante come concetto per non
dimenticare la natura di alterità che ci connota rispetto a Dio (noi creati dal
nulla, lui preesistente dall'eternità).
Ma, sempre rimanendo nella teologia cristiana, anche la
nostra anima e la nostra coscienza hanno caratteristiche di eternità, dal
momento in cui sono state create (un altro dei tanti paradossi, anche
epistemologici, proposti dal cristianesimo)
Il nostro Dio ("nostro"?) è amore e genera (ma
"generatore" non sarebbe una bella definizione, e
"genitore" è riduttivo), è originatore.
La coscienza è voce originante e rimane tale per tutta la
vita, ma essa è anche voce dell'Origine originante, ed è anche la voce
"che dà origine" a una Voce Originante, ne rende possibile il
pensiero in noi, crea la possibilità dell'amore di Dio (in senso oggettivo e
soggettivo). È un ragionamento analogo alla considerazione che noi contribuiamo
a creare il Paradiso o il Regno, siamo con-creatori.
Risalire all'"origine"
Il problema allora è se la coscienza sia l'origine
dell'uomo, o se invece ne sia originata dal suo sviluppo corticale, come per
ora afferma senza difficoltà la neuropsicologia
E se la coscienza è "origine" dell'uomo, chi ha
creato la coscienza?
Se si è creata da sé, è divina. Ma questo è un pericoloso
passo metafisico, che l'esoterismo compie imprudentemente arrivando a un
inganno pericoloso, che aliena Dio all'uomo e l'uomo a se stesso - alla fine
dei conti.
Alcuni autori intendono che la coscienza abbia avuto
un'origine, per esempio Galimberti: "La tecnica, che è alla base
della costruzione del mondo, di quel "mondo costruito" che è poi
l'unico che l'uomo può abitare, è dunque l'origine della
"coscienza", termine con cui si designa l'ec-centricità [sic,
n.d.r.] dell'uomo che muove da un centro non per ritornarvi come
l'animale, ma per allontanarsi posizionando, in quella traiettoria che
siamo soliti chiamare "progresso", ulteriori centri che poi lascia
alle proprie spalle per effetto di quell'agire che fa dell'uomo un essere in situazione
ma, come dice Jaspers, sempre desituato" [Galimberti, 1999, p.
197].
Il punto di partenza della teoria della coscienza è di considerarla
come "unità" originante dell'uomo. Si dovrebbe dunque indagare la
coscienza singola, allo stato semplice, nel feto che si sviluppa. E questo
perché la coscienza viene intesa come unità originante; dunque il luogo
originatore è proprio il grembo. A quando straordinari strumenti di indagine
che lo permettano?
La coscienza è "origine" "originata"
Io invece intendo la coscienza come origine dell'uomo e
quindi origine della tecnica stessa.
Secondo Galimberti "in quanto apprende dalla reazione
ottenuta, la coscienza è memoria; in quanto organizza la motricità
successiva in vista del risultato atteso, la coscienza è futuro e,
muovendo dal futuro, ridefinisce l'intenzionalità motoria. Prima di essere una
prerogativa dell'apparato psichico, l'intenzionalità è già iscritta anche nel
più elementare atto motorio, che è comunque sempre orientato, anche quando non
è nota la sua attesa anticipatrice" [Galimberti, 1999, p. 191].
Se affermiamo che la coscienza è stata creata, dobbiamo
supporre una divinità, oppure un'origine naturale.
Ritengo impossibile risolvere questo problema attualmente.
Mi sono soffermato sulle origini neurologiche della coscienza nel bambino
proprio per assicurare una base neurofilosofica a questo problema e, posto che
le posizioni tra gli scienziati sono così diverse, sarebbe bene schierarsi, ma
impossibile ottenere risposte inappellabili.
È origine che fa esistere anche l'anima e la psiche,
originata da Dio che è l'Origine per eccellenza. Questa però della derivazione
da Dio è solo una conclusione alla domanda: da dove viene questa
"origine" che tutti gli uomini hanno?
Se si fosse creata autonomamente avrebbe le
caratteristiche della divinità. Essa non si è creata da sola, ma ugualmente
ritengo di poter pensare che sia assoluta.
Ovviamente parto dall'assunto che la coscienza non sia
solo un prodotto dell'attività cerebrale.
La cultura orientale ci ha insegnato che infinitamente
grande (fuori di me) e infinitamente piccolo (dentro di me) sono in rapporto.
Intendo riallacciarmi alla tradizione secondo cui la
coscienza è il punto fondamentale di incontro e coincidenza tra infinitamente
grande (universo) e infinitamente piccolo (le idee e l'interiorità).
Essi coincidono nel senso che tutto, dentro e fuori, ha le
stesse caratteristiche della pienezza (nel senso biblico, in particolare nel
libri sapienziali), dell'atemporalità, a-spazialità: caratteristiche di
eternità (ma questo concetto è insostenibile, essendo già così difficile
definire il tempo).
Il mio vuol essere un "pensiero religioso" sulla
coscienza, ma tale è definizione ambigua, perché potrebbe far pensare, il che
non è, a una abdicazione nei confronti della riflessione filosofica e
neuroscientifica.
Che cos'è la coscienza intesa come "origine"
La domanda "cos'è la coscienza?" è una domanda
mal posta.
Se la coscienza è "origine" come si fa a
chiedere all'uomo di spiegare l'origine? Piuttosto sarà l'origine a poter dire
qualcosa sull'uomo.
L'origine di me, che è la coscienza, è fatta di una
materia, è di una natura molto particolare.
Io posso rivisitare il luogo in cui sono nato, posso
osservare gli oggetti della mia infanzia, posso interrogare i miei genitori, la
mia balia e mio fratello, ma la mia vera origine sta dentro di me, è qualcosa
di più profondo e interiore e mentale, pre-mentale, ultra-razionale.
Sta oltre tutti i ricordi che si hanno degli oggetti della
vita, soprattutto dell'inizio, prima di compiere il primo anno di età
(aggiungendo poi i nove mesi del rapporto parenterale con la madre), i ricordi
delle emozioni, delle azioni, delle parole.
La coscienza è la prima cosa che viene originata nell’uomo
(ma non è l’anima, né lo spirito, o se è quelle dimensioni lo è in modo nuovo,
globale).
Così l’uomo deriva dalla coscienza.
La coscienza assume un significato molto più grande di quello morale o neurobiologico
o filosofico. Significa il fondamento di tutto l’uomo, corpo e mente, di
tutte le sue attività.
La coscienza è l'"origine" dell’uomo, sebbene si
formi dopo la nascita dell’uomo, perché è il fondamento di tutte le sue
dimensioni, compresa quella biologica (che è legata al cervello in quanto
organo direzionale del corpo).
Conoscere la propria coscienza significa conoscere la
propria origine,
dunque andare verso il creatore. Ma non si può mai conoscere definitivamente la
propria origine.
L'origine, che è la coscienza, è legata, come punto
estremo, al mio essere-dal-nulla, per rimanere alla concezione cristiana.
La coscienza come origine è nulla-che-è-diventato-io.
È insieme coscienza del diventare io dal nulla, ora.
Adesso la coscienza è coscienza di aver avuto origine; ma
c'è stato un "prima" della coscienza, prima quando essa era
"pura" origine: per questo gli attribuisco caratteristiche di
assolutezza, come ho detto sopra, senza però confonderla con la divinità.
Terminata l'originazione (così sono costretto a
chiamarla), che è coscienza anch'essa, siamo esistiti io, la mia coscienza (mia
come potrei dire di una madre, non di un figlio), il fatto che sono stato
originato, la coscienza di originatore-creatore, creatore di uomini, di
coscienze, di oggetti, di mondi, di universi interiori e materiali.
La coscienza è un fondamento, ontologico e antropologico.
Non solo, ma anche dell'universo. Dio è nell'inconscio. O almeno lì vi
troviamo, agostinianamente, la "traccia" di Dio, o, jaspersianamente,
una "cifra" di Dio.
La coscienza come origine è "as-soluta"
dall'uomo
È rischioso affermare l'assolutezza della coscienza.
Io ribadisco e voglio conservare la concezione
dell'alterità della coscienza rispetto a Dio (per questo è più corretto parlare
di "norma penultima" in teologia).
Però potrei dire che la coscienza ha una carattertistica
di assolutezza: è assoluta in senso non assoluto. Ovvero è ab-soluta dall'uomo,
sciolta da lui, perché viene prima di lui, è la prima cosa che nasce con
l'"uomo".
La coscienza, nel seno dello strumento di giudizio morale
può essere modificata, sviluppata, può evolvere, essere accresciuta, ma non
eliminata. L'uomo non può più prescindere dal momento che ce l'ha.
Però la coscienza non è ab-soluta dall'originatore.
Da qualcuno è nata, è stata creata.
Se anche non fosse qualcosa d'assoluto, la coscienza
rimane un fenomeno straordinario per l'uomo: è il più caratterizzante dell'uomo,
e il più misterioro e difficile da penetrare e descrivere, il più affascinante
in tutti i tempi (così vicino e parallelo ai concetti di "anima" o
"spirito" o "io" o "mente").
Io non posso postulare una coscienza originaria, una
origine assoluta, per il rischio che ho indicato, del panteismo. Però posso
analizzare i fenomeni della coscienza con l'obiettivo di verificare se esiste e
se posso indagare una Origine anteriore all'uomo nella sua interezza, cioè a
tutti i fenomeni umani.
Per esempio la coscienza mi aiuta a immaginare il futuro,
ma non le azioni reali, concrete, oggettive, fattuali nel mondo, quanto il
futuro dei miei stati d'animo, delle mie emozioni, della mia evoluzione
interiore.
In base alle esperienze che ho vissuto precedentemente posso
sapere cosa accadrà dentro di me la prossima volta che incontrerò quella
situazione.
Con l'educazione i bambini imparano ad aspettarsi gli
avvenimenti. Se un bambino lascia cadere un bicchiere e riceve uno schiaffo,
rimane sorpreso, sente il dolore, si ribella alla sofferenza, ma non sa ancora
cos'è successo. Poi di volta in volta impara che se lascia cadere e rompe
oggetti "fragili", che "sporcano per terra", non facilmente
ricostruibili, "necessari", che possono ferire i piedi, riceverà uno
schiaffo. Allora comincia a non essere più sorpreso di quello che accade: la
punizione, il dolore. È più debole dei genitori, che anzi sono il suo modello
di vita, e cerca altre strategie per farseli amici.
Questo, che è un aspetto dell'evoluzione della coscienza
morale, può dimostrare molte cose.
È ben risaputo che la coscienza sia la parte più intima e
di valore dell'uomo (Lutero tra gli altri l'ha rivalutata grandemente).
Ma siccome tante categorie filosofiche e teologiche sono
andate (finalmente, giustamente o purtroppo?) in crisi, ora anche la
riflessione sulla coscienza va rifatta.
Di esistenza di Dio non si può parlare (dal momento che
non si può dimostrare, e che, qualsiasi cosa diciamo, rischiamo di ridurlo o
mistificarlo).
Perciò la cosa più "assoluta" che possiamo
conoscere è la coscienza ed è una cosa che tutti hanno e tutti possono
facilissimamente e quotidianamente sperimentare!
La coscienza è l'unico assoluto che l'uomo possiede, ma
che è misteriosamente anche "altro" all'uomo.
Io non voglio dimostrare, perché non lo credo, che la
Coscienza sia Dio, né che l'uomo sia divino, né che sia in nessun modo
"autonomo" in senso pieno. Il nucleo del messaggio cristiano sta
proprio nell'abbandonarsi a Dio, così come Gesù Cristo ha fatto e insegnato a
fare.
Come fa l'uomo, dunque, a dipendere da Dio ed essere allo
stesso tempo responsabile di sé? Ritengo che ciò sia possibile nell'uomo,
creatura permeata da una natura complessa (anticamente si diceva "carne e
spirito", ora ritengo ambigua questa espressione, per il pericolo di
cadere in un irrisolvibile dualismo), proprio grazie alla coscienza che è
l'aspetto più duraturo dell'uomo, eterno, è il più importante. Avere quel luogo
intimo, sacro, assoluto, se mai ci può essere qualcosa di assoluto al mondo,
potente, dimensione di unità interna, memoria dell'origine, assicura all'uomo
la possibilità del rapporto con la divinità.
La coscienza non è un istinto primordiale, che sarebbe
come divinizzare la materia, il corpo, gli istinti, la natura. La coscienza è
il nostro stesso grembo, sopravvissuto in noi, interiorizzato, fattosi adulto e
che ci accompagna.
La coscienza, la sofferenza e la morte
La morte è l'antitesi della coscienza?
La morte è solo una situazione, una percezione, forte (ma
non l'unica forte, né la più forte), che aggiungiamo alla coscienza. Anzi, per
la coscienza la morte non è nulla (come nell'inconscio la morte non è nulla,
tanto che potremmo affermare che "la morte non esiste" (stando ben
lontano dal senso marxista dell'affermazione) .
La coscienza è un "universo" interiore che noi
possiamo riempire di piccoli particolari, ma mai distruggere. È in noi, e fuori
di noi non c'è nulla di più potente dell'universo che ci portiamo dentro, che
ci illumina da dentro, che è sorgente dell'etica, dell'amore, dell'arte, della
conoscenza, di tutto nell'uomo.
In questa visione la coscienza non avrebbe antitesi perché
è il fondamento di ogni azione, pensiero, modo di esistere dell'uomo. Quindi è
alla base di tutti i fenomeni umani.
Ivi compresa la morte. Perché si dovrebbe dedurre (sarebbe
bello poter dedurre...) che anche dopo la morte ci sia il divenire incessante e
senza fine della coscienza. Come dimostrarlo? Non è possibile farlo. Però, se
per millenni all'anima è stata attribuita questa caratteristicha - l'essere
creata dal nulla ed esistere da quel momento in modo imperituro - possiamo
utilizzare questo
Kant dice che il presupposto della morale è l'eternità
dell'anima; infatti che senso avrebbe il continuo autoperfezionamento se non si
ha coscienza che esso possa continuare all'infinito?
Se alla base di quella meravigliosa attività che è il
pensiero non c'è l'immortalità dell'anima, è inutile continuare a logorarsi il
cervello contro la finitudine, la limitatezza terrena.
Coscienza della morte è dimensione necessaria nell'uomo, è
segno di assoluto nell'uomo.
La sofferenza è una dimensione dell'uomo che ha un ruolo
fondamentale nella strutturazione della coscienza. Come anche molto la
gratificazione, l'autorealizzazione.
La responsabilità dell'uomo è totale per tutto ciò che lo
riguarda, salvo il fatto di esistere, che dipende solo dalla volontà del
Creatore che dal nulla ci ha tratti: per questo stesso motivo noi siamo
innegabilmente a lui subordinati e da lui dipendenti.
L'uomo è responsabile e corresponsabile a Dio in ogni
cosa, delle azioni che decide, delle idee, dei desideri, degli effetti causati
sugli altri, e di ogni cosa, perfino della morte.
Non c'è nulla al mondo che non sia collegabile e
spiegabile con la presenza dell'uomo e della sua coscienza, che è una lettura
etica e ontologica del "principio antropico" formulato dai
cosmofisici. Esattamente in modo parallelo a come si può affermare che niente è
estraneo a Dio.
Fine dell'anima e il rinnovamento dei concetti
Il concetto di anima è decaduto (potremmo dire
nietzschianamente: l'anima è morta), si è svuotato. L'anima è ormai solo un
mito arcaico, duro a morire a causa dell'importanza che l'uomo le attribuisce
in fatto di religione, di fronte alla paura dell'annichilamento personale nella
morte e per il peso che ha nella vita umana la dimensione morale. Ma appunto
rimane solo come concetto funzionale.
Il fenomeno moderno dell'ateismo è un segnale di ciò, ma
esso ha fallito nel tentativo di sancire "scientificamente" la morte
dell'anima. Essa è scomparsa per conto suo.
E anche l'ateismo è agonizzante, oggi.
Il mito dell'anima deriva dal fatto che nel momento della
morte si espira profondamente (in realtà non sempre accade).
Il cadavere è quanto di più inconsapevole ci sia. É senza
significato.
Questo "significato" può sussistere a sé e il
corpo è solo supporto, bello, utile, che perfeziona, ma non necessario
Il mondo trae significato dalla coscienza intesa come
consapevolezza, significato dell'uomo, non dall'anima.
Io ritengo non essenziale, anzi ambiguo attualmente
conservare il concetto di anima, mentre attribuirei alla coscienza
(evidentemente non si tratta solo di un cambio di etichetta) le caratteristiche
o almeno le istanze ontologiche, gnoseologiche, antropologiche che avevano
portato al concetto di anima.
Ciò perché - come cerco di dimostrare con tutta questa
dissertazione - il concetto di coscienza riesce a inglobare dimensioni diverse
(morale, esistenziale, neurologica, cognitiva, eccetera) rimanendo l'unico
dunque e il migliore per dare un nome alla teoria che spieghi la parte più
importante, più difficile, più potente dell'uomo, quella mentale. Il concetto
di "spirito" è inadatto altrettanto di quello di anima; anche
"mente" appare troppo parziale, non ha cioè lo spessore morale, di
sapienza che ha "coscienza".
Infatti nel concetto di coscienza, per esempio, si trova
in posizione centrale la dimensione della consapevolezza. Ed Essa è proprio una
delle doti che elevano così tanto l'uomo all'interno della creazione.
Coscienza e anima
Dunque ritengo che il concetto di anima sia sostituibile e
di fatto sostituito da quello di coscienza.
Dalla storia della medicina possiamo imparare che fino a
quando non si fanno scoperte empiriche decisive, le teorizzazioni sconfinano
naturalisticamente con la superstizione o la metafisica (nel suo significato
deteriore).
Per esempio si esamini la vicenda delle definizioni di
morte: anticamente intesa come cessazione del respiro, poi come cessazione del
battito cardiaco, ora come cessazione totale dell’attività cerebrale; ma
quest’ultima è più un protocollo (molto utile per poter decidere un espianto),
che una descrizione esauriente della morte (che rimane un mistero, dal punto di
vista del cambiamento psichico e personale dell'individuo).
Coscienza è il modo nuovo, più empirico, scientifico, ma
senza tradire la trascendenza, di descrivere quella dimensione dell'uomo che
per millenni è stata chiamata "anima" o "spirito".
Caduta la pregnanza del concetto di anima, oggi si usa
piuttosto il concetto di mente, perfino al posto di quello di coscienza.
Ma, come ho detto, a me appare più adeguato quello di
coscienza.
Il mio concetto di coscienza la teorizza come
"luogo", "unità", "origine", caratteristiche che
aveva il concetto di "anima", compresa quella di eternità, che
sussista dunque anche dopo la morte.
Ma non sono la stessa cosa i due concetti, per quanto
abbiano le stesse caratteristiche: "coscienza" mette in risalto
l'esperienza universale degli uomini della luce interiore che illumina sulla
verità dell'individuo, fa capire che ognuno ha un'identità a cui essere fedele
e rappresenta l'anelito alla perfezione: la coscienza ci fa sognare la
perfezione. Senza coscienza non "sogneremmo" (in senso filosofico) né
ci evolveremmo. Rimarremmo come gli animali.
Anima è concetto diverso e troppo legato al dualismo
antropologico corpo/anima, ormai inaccettabile. Bisogna recuperare una
concezione il più possibile unitaria dell'uomo.
La coscienza ha alcune caratteristiche del vecchio concetto
di "anima". Si potrebbe dire - se non si rischiasse di accettare
ancora una volta l'anima - che la coscienza è la qualità dell'anima.
Il concetto di coscienza, serve a esprimere l'universo
interiore perché è legato alla "conoscenza" e alla "consapevolezza",
ed è legato all'"esperienza" della verità interiore, del riferimento
radicale e trascendente che abbiamo dentro di noi.
Il concetto di "coscienza" ci parla di mente,
sapere, razionalità, moralità, responsabilità; categorie molto attuali, oltre
che universali.
Il concetto di "anima" invece chiamerebbe in
causa una oggi inaccettabile sostanzializzazione in senso dualistico. Le
categorie di spirito, creazione dal nulla, oltre-vita, non si possono
avvicinare a una fondazione neuroscientifica della teoresi filosofica sulla
coscienza (salvo alcuni maldestri tentativi che ho citato) se non all'interno
di una teoria coscienziale, che è ancora tutta da impostare.
Coscienza, conoscenza e verità
Poiché la coscienza è il fondamento dell'esistenza, il
punto di contatto tra assoluto e immanente, tra uomo e Dio, la conoscenza è il
mestiere dell'uomo, la vocazione, la sua anima, la sua funzione. Negli
scienziati, negli studiosi, negli insegnanti, negli educatori è evidente. Ma
anche negli altri: si viaggia per imparare, è divertente giocare fintanto che
si impara, poi meno, un lavoro stufa se non ci sono situazioni nuove da
imparare ad affrontare e lo stesso vale per un rapporto d'amore; i pettegolezzi
si basano sulla conoscenza dei fatti altrui, e così via.
Ma tra tutte le cose straordinarie che si conoscono,
quando ci si sforza anche minimamente di aprire gli occhi, quella che vale
veramente, l'unica importante è la verità, la verità sulla vita, sulla morte,
sul senso dell'esistenza dell'universo. Per i cristiani il modo per trovarla è
amare e conoscere e incontrare Gesù, ed è tale la infinità della verità di Gesù
che lo incontriamo in ogni aspetto della vita, e tale è la nostra libertà che
possiamo negare quella verità su ogni cosa, la più adatta a noi, quella che
spiega tutto, in ogni momento.
La coscienza è fondamento della verità, essa spinge alla
ricerca, con i "dilemmi" te ne fa capire l'importanza. La coscienza è
verità.
La coscienza è fondamento della libertà (senti che puoi
decidere), e della responsabilità (non ogni decisione è uguale),
Coscienza "luogo d'incontro" con l'assoluto
Che ci sia una coscienza è evidente dal punto di vista
biologico.
Io vorrei dimostrare che ci sia il luogo d’origine
attraverso gli studi neurobiologici, che tuttavia non vogliono prestarsi a
ragionamenti al di fuori della biologia.
La coscienza ha a che fare con Dio, ma né l’una né l’altro si possono
dimostrare, eppure il loro rapporto è evidente (in una visione cristiana, come
quella che io ho adottato). La coscienza non è Dio. È il luogo privilegiato dove
lo si possa incontrare. La coscienza è il luogo dell’incontro.
Nel pensiero biblico, Dio ci circonda ed è ovunque. Non
occorre postulare le categorie del tempo e dello spazio (e infatti nella storia
della filosofia ritroviamo risultati assurdi nel senso di una assolutizzazione
di tali categorie, poi necessariamente falsificata), ma solo Dio. Questo è il
pensiero biblico, testimoniato da tutti i mistici e i santi della Chiesa e che
sta alla base della dottrina cattolica e delle varie Chiese cristiane.
Dio è ovunque, ma nella coscienza l'uomo lo incontra in
modo più originario, genuino, diretto, più da vicino.
Coscienza è il luogo in cui ci siamo "separati"
da Dio e quello in cui lo reincontreremo , per questo possiamo pensare che la
coscienza non avrà fine, proprio come l'"anima" per i medioevali o il
"cuore" per gli scrittori sacri .
La coscienza è eterna. È stata creata, ma è stata creata
per essere eterna.
Coscienza come luogo di contatto tra assoluto e materiale
è un tema fondamentale comune a tutto il pensiero filosofico moderno. Non a
quello contemporaneo che abolisce l'oggettività dell'idea di Dio.
Il mio considerarlo un "luogo" è impiego di una
metafora. Se non fosse così sarebbe un complicare le cose (dove sta questo
luogo? cosa c'è in quel luogo? chi può rispondere?)
A me interessa evidenziare che nell'uomo mortale e
materiale esiste l'assoluto, forse non comprensibile né dimostrabile, a rigore
(ciò che lo connota come assoluto, ossia inconoscibile), ma esistente
oggettivamente perché ogni uomo lo sperimenta. È un punto di vista a metà tra
filosofia e antropologia.
Ma se l'uomo ha l'assoluto in sé perché non può conoscere
l'assoluto?
Oppure la coscienza non è un assoluto e l'uomo non ha
l'assoluto in sé. Ma allora come può credere in un assoluto, come può averne
l'idea?
La coscienza può essere solo una metafora che noi
raccontiamo prima di tutto a noi stessi, e che rappresentiamo a noi stessi.
Ma è una bellissima metafora della creazione, del nostro
essere originati, dell’essere "figli di Dio" (altra bella
metafora...).
Si potrebbe intendere la coscienza come un omuncolo dentro
di noi un "altro", da alcuni detto "il vero io", che
governa il corpo - come in un romanzo di fantascienza - ma dipende da lui. Ma
dove sta questo "altro"? È qualcosa come il ba della religione
egiziana antica? Di cosa è fatto? Chi è veramente? È quello che trovano quelli
che scavano dentro di sé (ed è sempre una sorpresa)?
Io non penso la coscienza come un "omuncolo",
piuttosto come un punto di nascita antropologico dell'uomo, il
fondamento ontologico e della perfezione nell'uomo.
La coscienza "voce dell'ascolto"
Secondo Derrida "la voce è coscienza" (La
voce e il fenomeno, 1968).
Desideri precisa che "la differenza [tra
intramondanità e trascendentalità, n.d.r.], introdotta originariamente dal
fenomeno della voce (dalla sua irriducibile sonorità), si presenta nella forma
del rimando. La voce della coscienza (anzi: quella voce che è la
coscienza) rinvia così l'origine oltre di sé. In questo rinvio essa rappresenta
la traccia dell'Altro nel Sé: quella traccia che lo precede come lo
"spazio" della non-identità da cui sgorga ogni presenza a sé"
[Desideri, 1998, p. 62].
Desideri illustra l'importanza del rapporto tra coscienza
e voce - la coscienza è voce, la voce è l'origine della coscienza - e il
rapporto tra coscienza e ascolto; la coscienza si deve ascoltare, ma l'ascolto
è l'origine della coscienza.
Una proposizione acquista per noi significato
"soltanto quando l'ascoltiamo o la proferiamo: soltanto, insomma, nel
momento in cui viene pronunciata [...] La stessa lettura, del resto, non è un
cercare di risalire dal detto al dire da cui trae origine?" [Desideri,
1998, p. 38], così per me, analizzare la propria vita, significa voler risalire
alla voce che ha originato la vita, e che a sua volta è originata.
Ciò dà una vertigine per il fatto che la coscienza è
origine dell'uomo, quindi caso mai è la coscienza che deve interrogare l'uomo
(ciò che avviene infatti) non l'uomo che interroghi la coscienza. Intendo che
sia necessario teorizzare la coscienza oltre la strettoia dell'essere essa solo
individuale (perciò sarebbe una fatto soggettivo incapace di collegare il
soggetto all'assoluto) o solo universale (rischio di ipostatizzazione).
Certamente la coscienza è sempre legata all'individuo,
all'essere umano, ma devo postulare che lo trascenda.
Io auspico - come preciserò alla fine del capitolo - una
teorizzazione forte e creativamente capace di uscire da questo dilemma.
Se la coscienza è la voce dell'ascolto, chi ascolta?
Ascolta il divino, che ci è padre, l'originatore.
Coscienza come origine originata è il luogo interiore, ma
anche esteriore, dove parliamo a Dio, dove ascoltiamo Dio, inteso come
l'originatore.
In questo luogo privilegiato lo incontriamo emotivamente,
razionalmente, intuitivamente, figurativamente.
La coscienza è come un "orecchio interno", è
l'ascolto, piuttosto che o prima che una voce. Certamente non è un semplice
strumento.
Ogni monologo è anche dialogo
Io mi oppongo alla tesi di Desideri secondo il quale una
"conseguenza che possiamo trarre dallo Husserl delle Ricerche Logiche
consiste, nel ritenere del tutto insostenibile una dimensione comunicativa
volta verso l'interno: un parlare puramente a sé. In questo caso, e cioè nel
caso del monologo interiore, parlare di discorso risulta affatto improprio:
"In certo senso si parla indubbiamente anche nel discorso isolato,
ed è certo possibile in questo caso intendere se stessi come persone che parlano
ed eventualmente anche che parlano a se stesse, così come quando, rivolgendoci
a noi stessi, diciamo: Hai fatto male, non puoi continuare a comportarti così.
Ma in senso proprio, in senso comunicativo, in questi casi non si parla, non ci
si comunica nulla, non si fa altro che rappresentare se stessi come persone che
parlano e che comunicano. Nel discorso monologico le parole non possono avere
per noi la funzione di segnali dell'esistenza di atti psichici, perché questa
indicazione sarebbe del tutto priva di scopo. Gli atti in questione sono
infatti vissuti da noi stessi nel medesimo istante" (Husserl, Ricerche
logiche, I)" [Desideri, 1998, p. 64-5].
Per me invece ogni atto comunicativo è dialogo, perché
sempre c'è qualcuno che ascolta o legge. Se non altri, noi stessi (e come sta
bene la prima persona plurale per ciascuno di noi) che curiamo l'esposizione e
avvertiamo il flusso del pensiero (lo stream of consciousness) e
reagiamo emotivamente. Non è una comunicazione senza significato.
Siccome c'è sempre un feed-back, tutte le
comunicazioni sono dialoghi. Cambia solo il numero di ascoltatori e le reazioni
che si possono suscitare.
Dentro di noi, dentro la sorgente dell'atto comunicativo,
dentro "l'impianto sonoro amplificato" che siamo ci sono molte voci,
molti speaker.
Coscienza come centro unificatore dell'uomo
Coscienza come epicentro del pensiero razionale
(perciò della scienza), del pensiero intuitivo (più profondo) e del pensiero
estetico (arte, ecc. legato ai sensi, unificazione di sensi più astrazione
del bello verso l'assoluto).
Centro unificatore anche del pensiero riflesso (autocoscienza)
e perciò del pensiero morale (vero vertice, più vicino di tutti
all'assoluto [comunque inattingibile]).
La coscienza è il legame tra fisicità e pensiero,
perché, soprattutto quella morale, come tutti sanno, è indefinibile, perché è
un insieme di sensazioni fisiche, voci interiori, riflessione, memoria,
intuizione, illuminazione dall'alto.
Coscienza quindi come punto di contatto con l'assoluto,
che non conosciamo, ma possiamo tentare di immaginare proprio perché abbiamo la
coscienza. Bisogna unificare tutti se stessi per rapportarsi e ricondursi
interamente alla coscienza e per poter aderire all'assoluto.
Solo in quel punto, in quel "luogo" che è la
coscienza ci può essere un contatto con l'assoluto. Per questo è la coscienza
che genera la verità, la giustizia, l'umanità, ma anche la scienza, la
conoscenza, l'arte, l'amore più sublime, la fede. Genera nel senso, come detto
sopra, di rendere possibile nell'uomo, concreare. Anche qui non intendo
rinunciare alla natura creaturale dell'uomo e subordinata a Dio.
E quando qualcosa di ciò che ho detto si genera, non è
ordinato dall'esterno dell'uomo, ma si è generato nella parte più profonda,
interiore e vera di ciascun uomo ed è costituito da una tensione del relativo
dell'uomo che si unisce alla luce che deriva da quel punto, da quel luogo che è
la coscienza, dunque un insieme di umano e di oltre-umano.
Coscienza come "universo interiore"
Definizione di coscienza: è un universo, con
caratteristiche di infinità ed eternità (ma con un inizio preciso), è talmente
grande che è lei a contenere noi e a generarci e ad alimentarci, non noi che la
conteniamo; ha buchi neri dentro di sé, quelli che portano alla crisi (la morte
in primis) ma anche intere galassie e pianeti (in senso
metaforico e non solo) e forme di vita straordinarie.
Più si conosce la coscienza e più ci si accorge della sua
vastità.
Se la coscienza è quello che penso io, non esistono definizioni
adatte o sufficienti, per spiegarla, non esistono esempi per comprenderla e
tutta la mia teorizzazione è solo un tentativo di rappresentarla, ben
facilmente superabile e aumentabile.
C. Biscontin ha affermato che "non si può dare una
definizione di coscienza: è uno dei limiti umani. Essa è indefinibile. Così è
meglio dedicarsi ai nostri doveri, alla ricerca dei valori".
La coscienza sarebbe un organo di comunicazione tra Dio e
uomo. Ma anche solo per questo sarebbe qualcosa di straordinario.
Sarebbe non "la voce di Dio" (via del panteismo
che porta all'Uomo -Dio), né un organo corporeo, né una zona della psiche.
Sarebbe un coordinamento delle funzioni spirituali per far agire la morale. Con
tre compiti:
- custodire l'unità e integrità dell'individuo. É una
difesa dalla spaccatura che deriva dalla differenza tra scelte e convinzioni
(schizofrenia morale).
- garantire l'integrazione sociale dell'individuo
preservandolo dalla devianza (bene individuale = bene sociale). Quando fai
qualcosa di diverso alle persone essa ti avvisa, per farti adeguare. Ma anche
ti porta a non seguire in questo senso la società perversa, quando essa intera
sbaglia.
- guidare l'individuo nell'integrazione nella
"totalità oggettiva" (o verità, termine pericoloso e incompleto). Ti
fa sentire disagio se si va contro la totalità oggettiva.
Così però si finisce per rimanere in una concezione
strumentale e si rinuncia alla sua definizione che invece può significare farla
esistere, forgiarla come fondamento dell'uomo.
La coscienza come evento centrale dell'interiorità
cristiana
La riflessione cristiana fornisce interessanti spunti di
riflessione sulla coscienza intesa come "origine". Nel capitolo IV ho
già sottolineato il contributo di San Paolo secondo il quale la testimonianza interiore
della coscienza si compie nello Spirito Santo (Rm 9,1), componente nuova del
giudizio di coscienza, che esprime a livello concreto e operativo l'originalità
propria della coscienza cristiana come fondamentale percezione e
assunzione della salvezza compiuta in ciascuno da Cristo .
La coscienza è l'evento centrale dell'interiorità
cristiana, attraverso il quale l'intera persona si coglie come esistente in un
nuovo rapporto ontologico (con Dio in Gesù Cristo) e di conseguenza intuisce e
decide il nuovo ordine di valori etici che ne deriva. È il momento globale e
fondamentale della coscienza come "struttura morale originaria":
cuore pulsante da cui poi scaturisce ogni particolare esercizio di interiore
valutazione etica [DETM, 1985, p. 170].
Io voglio sostenere - filosoficamente - che la Verità c'è
nel mondo: è Cristo che si è manifestato nella storia, che è perfetto come
uomo, e come Figlio di Dio e Dio, è stato tramandato in modo esemplare dagli
evangelisti e ciascuno di noi lo trova nella coscienza, che non è altro che
Cristo (o una traccia magnifica di Cristo) presente in noi in ogni momento
della nostra vita. Essa è l'assoluto che possediamo.
Ne consegue che si deve cercare il bene con l'amore (tutti
gli uomini cercano il bene, ciò è innegabile) che è l'assoluto in noi e che
proprio l'amore è il Vero Dio assoluto. Con ciò non divinizziamo l'uomo perché
in esso c'è solo una traccia.
Dunque non "cogito ergo sum", ma "io sento
Cristo in me, dunque esiste l'assoluto sulla terra" (ed è solo un simbolo
dei cieli). Sento di desiderare il bene, dunque sono nell'amore, sono in Dio,
Dio esiste (anche) per me.
La coscienza e Gesù Cristo
Dentro di noi il luogo di ricerca della perfezione, per
tutte le "vie" che possiamo scegliere, è la coscienza.
Ma esiste anche un punto esterno a noi, esterno al nostro
corpo, e sta nella storia, che è Gesù. Egli è stato un personaggio storico, ha
dato insegnamenti ed esempi, ha fatto miracoli.
Non do per scontato che fosse Dio, cosa che non si può
dimostrare razionalmente (mentre il mio studio vuole rimanere entro ambiti
razionali) ma solo credere.
Però è certo che Gesù fosse un personaggio storico e che
abbia rappresentato un esempio sublime (il migliore che si possa conoscere) di
umanità, e che abbia fatto anche miracoli.
Alcuni testimoniano che sia risorto e viva: da ciò deriva
la speranza che la coscienza sia la porta per l'eternità, come Gesù e la croce
sono la via per la salvezza e la rinascita nell'al di là).
Quello che la coscienza è dentro di noi (via, luce, fonte
di potenza, strada per l'eternità, ecc.) nella storia e nella vita è Gesù
(esempio, maestro, amico ancora vivo, ancora creduto da tante persone, ma
realmente ancora operante, strada di felicità, modello di comportamento
interiore, affettivo ed esteriore).
È interessante considerare il caso degli atei.
L'ateo ha una dignità pari al credente, perché siamo tutti
liberi di credere o non credere, ed egli realizza una delle possibilità.
Ma un ateo che creda almeno nella propria coscienza, non
si può a rigore definire ateo.
Torna ad essere un credente mascherato.
Chi può non credere nemmeno nella propria interiorità? È
una posizione difficile da vivere e da sostenere, certo, ma non impossibile).
Cosa cerca un uomo veramente? Di cosa ha bisogno?
Se potessimo definire "definitivamente" ciò di
cui ha bisogno, seppure un concetto minimo, come l'acqua e il cibo e il sonno e
un affetto, un'appartenenza, ricadremmo in una visione deterministica
dell'interiorità, o una visione sistematica, neotomistica dell'antropologia
teologica.
Il bisogno di cibo non ha niente a che fare con il bisogno
di trascendenza (se c'è): sono due dimensioni non commensurabili.
In tutte le religioni è importante il concetto di
coscienza.
La Gnosi, giudaica e cristiana, pretendeva di trovare in
essa la salvezza. Al di là degli eccessi è evidente che la coscienza, come
consapevolezza e conoscenza, è strumento privilegiato di perfezione e di
salvezza.
Mircea Eliade è giunto alla conclusione che la religione è
una struttura della coscienza umana e l'uomo non può non essere religioso.
Coscienza, Parola di Dio e libertà
Ma come la Bibbia non è "Parola" di Dio, ma
"parola" di uomini che vivevano la "Parola" di Dio, e
perciò contiene la "Parola", così la coscienza non è la verità di Dio,
ma un sentiero umano, e il più profondo, il più intimo, il più individuale per
ciascuno, il più perentorio, nei limiti della relatività della vita umana,
seguendo il quale si intravede la Verità, che sta in fondo, lontana ma chiara.
La Bibbia è l'assoluto della scrittura perché è il mettere
in pratica la coscienza in modo assoluto, da parte di Cristo, di chi ha agito
come lui e di coloro che hanno scritto su Cristo e i suoi seguaci. Cristo per
esempio sentiva che odiare, anche i nemici, è male. Gli evangelisti lo
sentivano anche loro in coscienza (che per loro era Cristo con loro là vivo!) e
l'hanno messo in pratica prima e poi l'hanno scritto ascoltando questo loro
comandamento interiore (ed esteriore poiché c'era Cristo là) in modo assoluto.
Noi dobbiamo obbedire non alla Scrittura in sé, ma al modo
in cui è stata vissuta e contemporaneamente stesa. Questo è il suo assoluto;
altrimenti avremmo nei confronti della scrittura lo stesso atteggiamento, per
esempio, dei musulmani nei confronti del Corano.
Il conflitto, che sembra inevitabile allora, tra la nostra
coscienza e la Scrittura (che è molte coscienze assolute redatte in modo
assoluto) in realtà non è un conflitto di sostanza (due assoluti) ma solo nella
forma. Se Cristo è in noi, non può dirci cose diverse da quelle che ha detto e
vissuto al suo tempo e che gli evangelisti hanno scritto.
E' vero che siamo sottomessi a qualcosa: alla nostra
coscienza che è l'incontro del Cristo, dentro di noi.
E' strano che dobbiamo essere sottomessi a qualcosa? Niente
affatto; se veniamo dal nulla, creati solo per un Amore assoluto, è evidente
che gli dobbiamo qualcosa: esistenzialmente dipendiamo da Lui, dalle Tre
persone divine, e questa dipendenza la sentiamo con la coscienza, non altro.
La coscienza di Gesù Cristo
Per tentare di comprendere un po' di più Gesù si può
utilizzare qualche cognizione sul cervello.
Posto che gli uomini usino solo una parte del potenziale
intellettivo, si spiega perché dimenticano, sono poco elastici, non capiscono
quasi nulla della natura, che pure contiene leggi semplici e lineari, non
capiscono se stessi, sono incoerenti e cattivi.
Potremmo dire - per usare un linguaggio psicologico di
oggi - che Gesù usava tutto il suo potenziale umano, perché con perfetta ascesi
era riuscito a liberarlo tutto e in più forse aveva qualcos'altro.
Qualcos'altro che deriva dall'aver realizzato se stessi: il vedere il senso
delle altre cose, oltre che di sé, il senso del tutto.
L'uomo di oggi che ha più tecnologia non è più
intelligente, né più santo. Non è la tecnologia che dà intelligenza, ma la
santità. San Francesco è stato molto più intelligente di qualsiasi grande
scienziato.
Come si fa a misurare l'intelligenza se tra l'umanità di
uno stupido e quella di un genio c'è così poca differenza?
L'etologo Giorgio Celli ha dichiarato che "tra un
genio come Leonardo e uno scimpanzé, a livello di DNA, c'è una differenza di
solo un due per cento".
Ma quel due per cento è quello che costituisce il salto
qualitativo, contrariamente a quanto dicevano gli antichi: Natura non facit
saltus.
Gesù, il santo dei santi, esempio supremo, che rivela
l'uomo all'uomo, capiva tutto, vedeva tutto perché aveva raggiunto la perfetta
armonia interiore e la perfetta utilizzazione di ogni sua qualità.
Paolo scrive "Ora invece Cristo è risuscitato dai
morti, primizia di coloro che sono morti. Poiché se a causa di un uomo venne la
morte, a causa di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti" (1 Cor
15,20 ss).
A causa di non è da intendere in senso causale, ché appoggerebbe una
concezione mistificante del peccato originale che spiega e perdona tutti i
nostri limiti, ma in senso temporale: a partire da un uomo siamo
mortali, e a partire da un uomo (Cristo) siamo immortali se lo vogliamo,
tenendo presente però che Cristo è sempre stato, generato ab eterno dal
Padre.
Perciò si deve pensare a come con il dono
dell'intelligenza (con tutti gli strumenti che comporta) Gesù abbia infuso la
coscienza nell'uomo (nel senso filosofico che intendo io e morale e
psicologico, e platonicamente, ecc.)
Ma Cristo è il riferimento e il termine della coscienza di
ogni uomo: Cristo presente nella coscienza di ogni uomo. La coscienza è legata
alla presenza continua di Cristo con noi (e dell'Angelo personale che
custodisce il nostro corpo).
Una teoria filosofica
L'origine di tutto il mio filosofare sulla coscienza, è
certamente il cristianesimo, ma inteso come "incontro" con Cristo. E
tuttavia la mia vuole essere una ricerca filosofica.
Coscienza per me è più della coscienza morale, o del conscio.
È invece la "verità ontologica" dell'uomo, il
codice di comprensione, il manuale di vita, il premio già disponibile,
l'accesso al creatore, al consolatore, al salvatore, la fusione di ogni potenza
umana (conoscitrice, amatrice, creatrice, perfezionatrice, ecc.).
Nessuna disciplina da sola può studiare la coscienza (nel
mio significato), al contrario essa è il fondamento di tutte queste discipline
di pensiero.
La filosofia però, e la neurofilosofia in particolare, ha
uno statuto speciale per studiare la coscienza, sia perché offre i migliori
strumenti di pensiero (verificati alla luce della neurobiologia) per
comprendere l'importanza della coscienza nell'uomo, sia perché è proprio la
filosofia che indaga il senso della vita umana (illuminata dalla religione),
sia perché la coscienza è ritenuta comunemente la parte più profonda,
difficilmente accessibile dell'animo umano, ma pur sempre la più vicina alla
sfere della ragione e delle idee della persona.
Se la coscienza è l'assoluto nell'uomo, ciò che rende
possibile agli uomini di diventare "come dei" (come afferma la
Scrittura), se la si sviluppa e non la si tarpa o ignora, allora la psicologia
sbaglia a non concepire questo problema.
Conscio e inconscio sono collegati all'assoluto, se
l'assoluto esiste.
Cristo è coscienza storica dell'umanità, luogo d'incontro
di immanente e trascendente, punta del cono del tempo.
Anche i filosofi (il "dio dei filosofi" non è
poi così freddo e vuoto) che conoscono Gesù come maestro devono tenere conto di
Lui come Risorto, in quanto coscienza storica dell'umanità.
Una coscienza del corpo
Posso pensare che anche il corpo abbia una coscienza, un
punto di vista unificante.
Esso è quella "sensazione" che possiamo
scoprire, educare e impostare per sempre e in continuazione, se vogliamo, che
ci permette di vederci dall'esterno, di aprire altri due occhi sopra la
testa, che ci permettono di vedere intorno e di vedere noi stessi in
relazione con gli altri.
Non è lo stesso del capire cosa pensano gli altri di noi:
ciò è sempre una fantasia e quasi sempre deriva da una paura degli altri o da
una presunzione e non arriva mai a uno stato di verità soddisfacente.
"Coscienza del corpo" invece è il punto di
verità del corpo, la consapevolezza dei limiti del nostro corpo, della
caducità, ma anche delle potenzialità, è la tensione verso l'uso migliore
possibile del nostro corpo, la ricerca del punto di contatto tra coscienza
interna e corporeità, trovato il quale otteniamo un perfetto equilibrio tra
corpo e mente nell'esprimere l'arte, la scienza, la moralità, così come ci
suggerisce e ci illumina la coscienza.
Il tempo è il parametro della coscienza.
La coscienza è il fondamento del pensiero filosofico
occidentale: percepirsi tra passato e futuro, tra Big bang e Apocalisse
[Andreoli, 1995, p. 9].
Coscienza come percezione del limite
La percezione del limite non è il "Dio in noi",
né può essere solo materia. La percezione è la misteriosa informazione
intra-dimensionale della materia umana. Certamente nei prossimi decenni con gli
studi sul cervello e sulla psiche e soprattutto quelli sul genoma si capirà
ancora meglio l'essenza della coscienza.
Decifrare completamente l'apparato genetico sarà il punto
di partenza per scoperte, conoscenze e un'evoluzione che potrebbero non avere
pari nella storia dell'umanità ed essere seconde solo all'evento della comparsa
del primo uomo, dotato di conoscenza razionale e di coscienza morale (e della
stessa "percezione del limite"), ma nato da "animali"!
Se la coscienza è percezione del limite il peccato nasce
proprio dalla mancata o errata percezione. L'uomo esercita la sua percezione
del limite per pochi istanti ogni giorno, mentre potrebbe farlo continuamente:
come sperano i filosofi, come fanno i santi.
La percezione del limite è contemporaneamente intuizione
dell'assoluto che sta al di là del "limite". L'una non esiste senza
l'altra.
"L'uomo non ha nulla da offrire che non sia
terreno" ricorda Giovanni Paolo II in Varcare la soglia della speranza.
Tutto è limitato e mortale nell'uomo. Anche la coscienza. Non è divina la
nostra coscienza, anche se ci pare con certezza (umana) la cosa più profonda,
elevata, ultima e "assoluta" che abbiamo.
Però la coscienza è una porta. Una porta materiale, grezza,
scura ma che si può aprire sull'infinito. Dietro quella porta c'è l'infinito.
O meglio di porte ce ne sono tante nella materia:
l'universo, le distanze stellari, l'infinitamente piccolo, la potenza del
cervello, i sentimenti. Ancora: tutto nella vita è una porta per l'infinito. Ma
la coscienza è una finestra che ci permette di guardarlo per bene, di gustarlo,
di sentirsi per un poco al di là della finestra, nel giardino meraviglioso,
beati.
Teologismi postmoderni
La filosofia ora può trovare ugualmente accettabili (o
ugualmente inaccettabili), e lo deve fare, da una parte il pensiero debole:
pessimismo, nichilismo e morte di Dio (derivanti dall'assolutizzazione dell'io,
figlia del "cogito ergo sum" cartesiano); dall'altra il pensiero forte:
metafisica, assoluti in Dio creatore, morale come senso dell'agire per
l'eternità.
Ma considerando i limiti intrinseci della ragione,
l'inconoscibilità del mondo, del nostro corpo e della nostra stessa ragione,
sembra il possesso della verità integrale sia a noi precluso senza mezzi
termini e, di conseguenza, in modo tragico.
Trovo decisamente inadeguata allo sviluppo attuale delle
conoscenze una visione tomistica e anche neotomistica della coscienza, mentre
purtroppo molti teologi sembrano adattarsi bene ad essa, ciò che li porta non
accettare un confronto con le discipline neuroscientifiche, un po' come
accadeva con l'aristotelismo al tempo di Galileo.
Coscienza come punto di intersezione tra spirito e materia
Credo che l'antico e terribile rovello della conciliazione
tra spirito e materia (ove non ci sia prospettiva divina, ma anche dove c'è)
potrebbe trovare un contributo per la risoluzione con la mia concezione della
coscienza: essa è contemporaneamente (oltre che strumento morale, stato
psicologico, ecc.) il vero punto di contatto tra la materia e la dimensione
mentale e psichica.
Io credo che la ricerca del fondamento biologico della
coscienza porterà a chiarire proprio quell'antico rovello e ogni risultato
nuovo aggiungerà un tassello fino a una dimostrazione accettabile. Un po' come
è accaduto per l'ultimo teorema di Fermat, ma dopo secoli e grandiosi progressi
della matematica per opera di intere generazioni di studiosi.
Con la differenza che ora tutto è accelerato, soprattutto
in questi ultimi anni del XX secolo.
Se la coscienza è quello che penso io, non esistono
definizioni adatte o sufficienti, per spiegarla, non esistono esempi per
comprenderla e tutta la mia teorizzazione è solo l'ultimo tentativo storico di
rappresentarla, che sarà ben presto superato...!
Coscienza del passato e senso del futuro
Scopriremo molto probabilmente - già se ne sente parlare -
un metodo tecnologico per rivedere, attraverso le tracce dei fotoni, fatti
accaduti nel passato, perché sempre rimane traccia dei fotoni appartenuta a
ogni ambiente in ogni istante in quei paraggi. Si tratta solo di capire come
fare.
Questa sarà una macchina del tempo non nel senso che piega
il tempo per trasportare persone in altre epoche permettendo loro magari di
mutare gli avvenimenti, ma solo nel senso che recupera le tracce, le immagini
del passato, rendendole fruibili agli uomini moderni resi spettatori degli
avvenimenti.
Di questo si è sognato per secoli. E ogni buon pensatore
sapeva secondo buon senso e intuizione che non si sarebbe trattato di una
modifica del tempo ma solo di uno spettacolo.
Ciò accadrà perché possiamo credere che l'uomo possiede al
suo interno così tante informazioni (vedi le ricerche sull'immagazzinamento di
migliaia di sogni in ognuno di noi) e il senso di tutta la sua vita e di tutta
la natura e la storia.
La coscienza è la sapienza sostanziale che intuisce la
verità di ogni pensiero sulla natura o sull'uomo, servendosi di ogni dimensione
dell'uomo. Si tratterebbe di una conoscenza, che non va di moda tra gli
scienziati, sarebbe piaciuta agli antichi e ai medievali, come anche ad autori
quali Theilard de Chardin, piace ad altri come F. Capra, P. Davies, F.J.
Tipler.
La filosofia, la matematica e le altre discipline non
servono per raggiungere la verità, che non è raggiungibile ed è già dentro di
noi (è impossibile che la natura permetta di ricreare esattamente qualcosa che
già esiste).
Nella morte di ogni uomo sta il senso della sua vita, così
come per l'umanità: il progetto universale ed eterno prevede il trapasso, la
trasfigurazione, esattamente in un preciso momento e per precisi motivi. Noi
non li conosciamo con certezza. Possiamo intuirli sapendo che possono essere
falsi come possono essere veri altri che noi mai potremmo immaginare, mentre
solo Dio sa. Potrebbe essere che ciascuno muore perché non poteva fare di più
nella vita: ognuno ha il suo limite. O perché ha capito a sufficienza per
meritarsi quel che si merita. Oppure perché ha compiuto la sua piccola parte
nella storia della salvezza dell'umanità. O invece per impedirgli di fare altro
male.
La scoperta della coscienza
Secondo il racconto della Genesi possiamo ricavare
che l'uomo è diventato veramente uomo (ma anche prima c'era dolore, emozione…)
quando grazie allo sviluppo intellettivo (e la grazia) ha cominciato a
riflettere su se stesso (autocoscienza) - a differenza degli animali - e ha
scoperto la propria relazione con Dio, l'Origine, la sfera morale, la
religione, l'io. Ha scoperto la coscienza, l'ha creata perché l'ha scoperta,
l'ha con-creata con Dio, come si con-crea il Paradiso con Dio.
Solo quando ebbe la coscienza fu uomo, prima era solo
animale intelligente.
La grazia che ha fatto iniziare l'umanità coincide perciò
all'inizio (e ora quotidianamente) proprio con la coscienza (non
l'intelligenza, che permea di sé anche la natura o i robot)
La coscienza è allora sintesi tra natura e divino,
originante, provvidente, che permette l'intuizione e la preparazione del
paradiso.
L'evoluzione delle specie è progressivamente un
avvicinamento alla Coscienza.
PER IL RITORNO DI UN "PENSIERO FORTE" FILOSOFICO
SULL'UOMO E SULLA COSCIENZA
La filosofia oggi sembra volersi limitare - e così anche
la neurofilosofia che, in un ambito specifico, ne è un chiaro esempio - a
tentare di chiarire i limiti della ricerca scientifica e della teorizzazione,
pretende di porsi come interlocutore di ogni disciplina di studio, in quanto
fondata sull'istanza di interpretare l'uomo. La filosofia postula un al di là
dell'uomo, che mostra la capacità di autotrascendenza dell'uomo, la sua
capacità di riflettersi.
Eppure non è più in grado di "dimostrare" o
anche argomentare in modo forte tale "al di là", perché è giunta a un
indebolimento degli strumenti linguistici, metafisici, logici, di cui
orgogliosamente consapevole.
Quel che la fa da padrone, insomma, è il pensiero debole.
Che è un traguardo irrinunciabile - come ho detto - un caposaldo dello sviluppo
filosofico occidentale, ma appunto deve essere una tappa, non la destinazione
finale di tutta la teorizzazione sull'uomo e il creato.
Invece sembra che la filosofia oggi, tra i vari movimenti,
si dibatta tra impasse (nichilismo, scetticismo, agnosticismo, ateismo),
teorizzazioni che hanno più dello scientifico che del filosofico
(computazionisti, riduzionisti), teorizzazioni vaghe (ne ho indicate e
criticate alcune).
Io auspico dunque il momento in cui si possa affermare di
aver ricostituito, senza realizzare un "ritorno al passato", un
pensiero forte sull'uomo, ne sento il bisogno in questo passaggio di secolo.
Non so prevedere che strada dovrà percorrere la
riflessione filosofica per arrivarci.
Credo però che il tema e il concetto della coscienza, con
tutta la ricchezza di specificazioni che ho illustrato sia un ottimo e
privilegiato campo di ricerca per poter assicurare tale risultato. In primis
grazie alla opportunità di convergenza su questo tema da una parte della
riflessione umanistica, che può contare su una sterminata incalcolabile
tradizione, dall'altra della ricerca scientifica che può contare su
avveniristici strumenti di indagine e sulla speranza di accelerazione del
progresso umano.
Voglio affermare che credo che la riflessione filosofica e
antropologica raggiungerà di nuovo un pensiero forte, deve essere così, è già
accaduto molte volte, e tanti segnali, uno dei quali è l'interesse del tema
della coscienza, lo suggeriscono.
Quel che non so è solo quando accadrà e chi e come
riuscirà a ottenerlo.
La fiducia nell'importanza del tema della coscienza sta
nel fatto che "la coscienza è dialogo con l'essere" (L. Lavelle) e
perciò è il sentiero della verità: "Dove comincia e dove finisce la
coscienza? Chi può fissarne i limiti? Chi può fissare un qualsiasi limite? Non
sono forse le cose tutte intessute l'una nell'altra?" (S. Butler).
Conclusione
Coscienza, salvezza e benessere
La presente ricerca corre il rischio di essere astratta,
poco utile all'uomo comune, come tutte le speculazioni filosofiche e
teologiche.
Invece desidero che serva come contributo alla formazione
di un metodo di ricerca personale e utilizzazione della "coscienza"
come risorsa di benessere, equilibrio, autoconsapevolezza.
È troppo pretendere che tutte le teorizzazioni abbiano
"ricadute" pratiche. Ma il tema della coscienza lo può permettere.
Ed è anche facile cadere in uno di quei maldestri
tentativi - come se ne vedono e leggono a iosa, citati in vari punti di questa
dissertazione - di ricavare l'elisir della lunga vita accostando con poca
prudenza e senza metodo rigoroso scienze e discipline le più diverse.
Ma io credo che la riflessione sulla coscienza possa
concretamente aiutare l'uomo a dare spazio alla propria interiorità, intesa
come un'armonia originante che può condurre ad aprirsi verso il trascendente, a
recuperare un'armonia individuale.
È possibile recuperare l'"emozione" di avere la
coscienza
Il neuroscienziato Rodolfo Llinas ha detto: "La vita
è meravigliosa, essere coscienti è meraviglioso".
Più conosciamo la coscienza, l'universo che c'è in noi che
unifica e origina tutte le dimensioni dell'uomo, conoscenza, affetti, morale,
religione, vita, più ci accorgiamo di quanto "infinita", ovvero
"piena" sia la coscienza e la vita.
Cerco dunque di collegare analisi scientifiche,
filosofiche e spiritualità alla ricerca di una "igiene coscienziale"
Viviamo in un'epoca che sarà fondamentale per l'umanità,
un'epoca in cui avviene una svolta decisiva. Essa deriva dall'avvicinarsi a
grandi passi alla definizione scientifica della mente.
Tale definizione che oggi, nel 2000, non è ancora
possibile - ma lo sarà entro pochi anni o pochi decenni - avrà come paradigma
fondamentale proprio la coscienza.
Non sarà dunque possibile più formulare e utilizzare
alcuna teoria senza considerare - non se ne potrà proprio prescindere -
l'aspetto soggettivo, neurobiologico, personale.
Questo conduce a un rinnovamento della scienza. Credo
senza esagerare che si deve parlare di una scienza vecchia e una scienza nuova.
Quella vecchia era quella straordinaria del XX secolo, la fisica quantistica,
la relatività, l'energia nucleare, le telecomunicazioni. Quella nuova sarà,
come detto, quella che riesce a tener conto della coscienza individuale, della
mente, dell'uomo nella sua interezza.
Usare il potenziale della vita onirica
Un aspetto interessante collegato alla coscienza è la vita
onirica.
Secondo alcuni studiosi bisognerebbe curare di più la
propria vita onirica, "allenare la mente a sognare in modo più vivido e
più facile da ricordare", abituarsi a interpretare i sogni, arricchire le
esperienze quotidiane con le tecniche di ricordo e di controllo dei sogni ,
tenere un diario dei sogni, usare positivamente i sogni per superare le ansie
personali, con ciò migliorando le relazioni interpersonali.
I sogni sono un potenziale enorme in noi, ma decisamente
trascurato e sprecato.
Sarebbe necessario che tutti potessero ogni mattina
dedicare mezz'ora a ricordare e analizzare i sogni fatti nella notte.
Certo lo slogan di chi se ne occupa e un po' pretenzioso
"Seguiamo le lezioni dei sogni e non saremo più dominati dagli eventi del
giorno: riguadagneremo la completezza che ci appartiene per nascita" .
Però è vero che "benché sogniamo ogni notte,
l'insostituibile valore delle nostre esperienze notturne ci sfugge: è grazie ai
sogni che possiamo ascoltare, quasi origliando, il segreto colloquio che si
svolge tra la coscienza e l'inconscio ricavandone un'opportunità per capire chi
siamo e raggiungere una più completa armonia interiore" [Fontana, 1999, p.
8].
Counseling e tirocinio esistenziale
Un altro aspetto collegato alla coscienza e all'ambito
psicologico è la considerazione che non si guadagna una maturità interiore, un
equilibrio nell'armonizzare e utilizzare le risorse interiori per il benessere
sociale ed esistenziale senza un tirocinio, un confronto educativo e formativo
con un "maestro".
Dovrebbero essere, dunque, molto più diffuse e utilizzate
quelle figure di "counsellor", non veri terapeuti (non voglio
certo arrivare a dire sbrigativamente che "siamo tutti malati"!) che
in altre nazioni si stanno consolidando.
Forse un'indagine sulla coscienza aiuterebbe questa
prospettiva sociale, di aiuto, di interazione verso un perfezionamento
spirituale.
Sarebbe necessario per esempio un insegnamento psicologico
di base nella scuola dell'obbligo. Per fortuna nei licei la filosofia
(soprattutto con in nuovi "programmi Brocca" eccetera) supplisce un
poco a questa "debolezza coscienziale" della cultura educativa in
Italia.
La scuola secondo il cervello
In un interessante articolo, consultabile in Internet , G.
Piangatello, un ingegnere che insegna nelle scuole professionali, tenta di
mettere a servizio della didattica (nelle scuole superiori italiane) le
ricerche sul funzionamento della mente. Ne risulta una riflessione stimolante,
provocatoria e accattivante, verso un rinnovamento della didattica, della
valutazione, dell'organizzazione della scuola italiana, anche se tutto rischia
di essere inficiato da una non comprovata teoria di base.
L'autore ammette all'inizio che il suo modello di
funzionamento della mente non è stato ancora esaminato dalla comunità
scientifica, ma egli ne trae ugualmente delle conseguenze "a titolo di
opinioni personali".
La principale è che "se è vero, come io credo, che
ogni neurone [più avanti specifica che intende "gruppo di neuroni"]
delle cortecce associative sia legato a una parola, allora il compito
principale della scuola, ossia far nascere cortecce associative, sarebbe
descrivibile dicendo che essa deve fornire delle parole allo studente".
Altro riferimento neurobiologico è la differenza tra la
funzione della corteccia posteriore (che elabora le informazioni ricevute
dall'esterno) e corteccia frontale (che si occupa di inviare segnali
all'esterno) e la loro parallela strutturazione gerarchica "su tre
livelli". Ciò dà modo a Piangatello di riflettere sui cicli scolastici e
sulla riforma della scuola pensata dal ministro L. Berlinguer, sui criteri di
valutazione (ritmi dell'apprendimento) degli studenti e sull'autonomia
didattica (una lingua o tante lingue?).
Per un approfondimento rimando al testo stesso.
Invece uno studio molto serio eppure creativo e innovatore
è quello del neurofisiologo inglese Jan H. Robertson, contenuto in Il
cervello plastico . La tesi è che il cervello sia un organo patisco che
viene continuamente modificato dall’esperienza in un processo di scultura
cerebrale nella quale variano le connessioni tra i neuroni. Si è scoperto
infatti che il cervello è sempre plasmabile, anche in caso di gravi danni; la
crescita e la riconnessone delle reti neuronali possono infatti avvenire a
qualsiasi età.
Robertson ribadisce l’importanza della volontà nel
riparare alcune funzioni cerebrali: "Esistono prove del fatto che, anche
se le persone non sono più in grado di muovere un braccio paralizzato, il
semplice immaginare il movimento possa arrecare quel genere di miglioramenti
che i miei studi hanno dimostrato essere una conseguenza dei movimenti reali.
In altre parole, in futuro sarà possibile effettuare una terapia di
riabilitazione in palestre interne al cervello".
L’autore si occupa approfonditamente della funzionalità
cerebrale nei primi anni di vita. Pur non negando una componente genetica nella
capacità di elaborare il linguaggio e nell’intelligenza in genere, ritiene che
le interazioni con il mondo siano fondamentali nel plasmare quello che
definisce "l’io elettrico", alla cui formazione devono contribuire in
modo favorevole altre menti nella società. L’autore esemplifica questo
ragionamento con un consiglio pedagogico: poiché sembra che l’accelerazione
dello sviluppo linguistico del bambino sia determinata più dall’instaurarsi di
una relazione individuale con l’adulto che da rapporti collettivi, è
consigliabile che siano i genitori stessi a occuparsi della "scultura del
cervello" dei loro figli.
Posso aggiungere, a proposito di interazioni con il mondo,
una mia osservazione, a suffragio della tesi di Robertson: che un talento
individuale trova quasi mai una realizzazione se non attraverso il
riconoscimento, l’addestramento, perfino la sollecitazione violenta da parte di
un "altro", specialmente un "maestro", quasi sempre un
parente prossimo.
Nel paragrafo "Le chiavi per sbloccare il potenziale
del cervello" Robertson propone gli "ingredienti della ricetta
dell’apprendimento", considerazioni per gli insegnanti al fine di mettere
a punto una valida strategia per essere buoni maestri e compiere "prodigi
sul cervello di un gran numero di studenti".
La materia e la sua presentazione
Infine un testo interessante è quello di Frederic Vester, Il
pensiero, l'apprendimento e la memoria , che soprattutto nella parte finale
fornisce interessanti consigli didattici e pedagogici tutti basati su
scrupolose osservazioni neurobiogiche, metodo sperimentale rigoroso e
ragionamenti convincenti.
Riporto un interessante schema che Vester pubblica alla
fine del libro.
1. Conoscere gli obbiettivi didattici L'allievo deve poter vedere in ogni
momento il motivo per cui gli si fa sentire, vedere, leggere o fare una certa
cosa. Dovrebbe sempre sapere per quale scopo studia una determinata materia,
che cosa ne potrà fare e come la potrà applicare nella pratica. Bisogna
metterne in chiaro il senso. In tutti i nostri test uno dei fattori che
inibivano l'apprendimento è risultato essere sempre la mancanza di precisione
di questi obbiettivi.
2. Piani di studio intelligenti Si cerca di orientare la scelta
delle materie, l'organizzazione della materia e il piano di studi secondo
obbiettivi didattici, basati sull'applicazione pratica nella vita tenendo conto
degli aspetti fisici, psichici, mentali e sociali. Il curriculum scolastico non
deve essere determinato dalla suddivisione rigida delle discipline, ma deve
orientarsi in base alla nostra struttura biologica.
3. La curiosità compensa la paura del nuovo Materie sconosciute ed estranee e
termini nuovi provocano inizialmente ostilità, frustrazione e rifiuto. La
curiosità è il più forte istinto naturale per superare questa resistenza
interna. Se mancano la curiosità, l'entusiasmo e le aspettative non può esserci
la necessaria disponibilità per l'apprendimento.
4. Informazioni nuove e presentazione familiare Far associare dettagli o
informazioni nuove a contenuti già noti. Presentare argomenti sconosciuti
possibilmente in un contesto familiare.
5. Il generale prima del particolare Iniziare con il contesto generale e
conosciuto. Soltanto in un secondo momento presentare i particolari e le
singole informazioni, affinché possano essere inquadrate efficacemente e
correttamente (e quindi collegate a un'esperienza di successo). In questo modo
si favoriscono anche la motivazione all'apprendimento, la possibilità di
associazioni familiari e un sicuro ricordo della materia immagazzinata.
6. Evitare le interferenze Non ripetere l'informazione in
varianti diverse finché è ancora nella memoria immediata. Portare piuttosto
esempi tratti dalla realtà, che impegnano canali sensoriali diversi.
7. Spiegazioni prima dei concetti Soprattutto non impaurire con
termini nuovi. Prima basta nominare il fenomeno, descriverlo, dare esempi; dopo
si possono anche fare astrazioni e nominare la nuova "parola in
codice".
8. Associazioni supplementari Cercare possibilità di approccio
più complesse possibile tramite riferimenti a fatti interessanti, divertenti e
curiosi. La presentazione operazionale stimola la risonanza di canali
percettivi non utilizzati, assicurando quindi un più agevole passaggio alla
memoria a breve termine e a quella a lungo termine.
9. Imparare con divertimento Per principio si deve garantire che
gli alunni provino piacere nella lettura dei testi, nell'ascolto e
nell'elaborazione della materia. Il piacere, tramite la positiva disposizione
ormonale, aumenta le capacità di apprendimento, di associazione e di
rievocazione.
10. Fitti collegamenti Una stretta connessione di tutti i fatti in una
lezione, in un libro o in un compito rafforza i punti 4, 5 e 8, procura
sensazioni di successo e favorisce la ritenzione e le combinazioni creative
senza eccessivo dispendio di energie. Naturalmente anche questi dieci punti
devono essere collegati e accordati nella prassi scolastica. In ogni singolo
caso debbono essere combinati in modo da accordarli con il tipo di
apprendimento degli allievi.
Ecco dunque che esistono già coraggiosi (e più o meno
deboli) tentativi di coniugare indagine neuroscientifica con vita pratica, ciò
che sarà sempre più efficace e fecondo nel prossimo futuro.
La preghiera guarisce
Infine, un ambito interessante ma assai scivoloso, è
quello del rapporto tra spiritualità e guarigione fisica.
Oggi si vendono molto i libri che insegnano a
"pregare per guarire", quasi sempre basati più su fideismo e
superstizione che su ricerche rigorose. Ed è molto di moda parlare di angeli,
spiriti che parlano e magia, proprio oggi quando le neuroscienze sono così
avanzate.
Libri come Guarire con la preghiera di K. McClellan
, oppure La forza della preghiera di P. Abozzi P. e M. Fiammetta
sostengono proprio questo. E ne esistono infiniti altri quasi sempre poco seri
(lo dico nel senso della ricerca filosofica e rigorosa, non dal punto di vista
spirituale, che in fondo sposo senza difficoltà), che contengono preghiere e
rituali e così sfiorano (o favoriscono) la superstizione.
Eppure sembra incontestabile, filosoficamente,
spiritualmente, ma soprattutto statisticamente, il benessere derivante dalla
preghiera.
Sarebbe interessante analizzare questo fenomeno - il
rapporto tra spiritualità e benessere psico-fisico - a livello neurobiologico,
producendo poi una teorizzazione interdisciplinare.
La coscienza, per me, è proprio il "luogo interiore
di guarigione", origine della "salvezza" di tipo anche corporeo
(so che è un linguaggio di confine quello che sto usando).
Per concludere riporto l’opinione
di G. Frey che faccio mia:
"La coscienza tende sempre
a manifestarsi al di fuori
dell'individuo, e si realizza nell'interazione
degli uomini".
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