VICENDE               VISSUTE               E      RACCONTATE                  DAI         LETTORI              DI       CAVALLO               MAGAZINE

 

 

 

 

 

 

 

 

Ritorno alla libertà

 

Ero nato. La luce filtra­va dalla piccola fine­stra del mio box. Il mio alloggio era avvolto da un inebriante tepore. I peschi erano in fiore e il loro caratteristico profu­mo invade ancora la mia mente nel narrare il mio passato... il passato di un campione. Ero accanto a mia madre, che mi rassi­curava facendomi avver­tire la sua presenza sfio­randomi con il suo soffi­ce muso. Stanco mi ada­giai sulla lettiera di pa­glia e dormii un poco.

In quei giorni molti uo­mini vennero a farmi vi­sita. Li vedevo confabu­lare tra loro come se si confidassero qualcosa di serio, che riguardava il loro futuro. Uno di loro disse, guardandomi negli occhi: «Exeption, il cam­pione». Quelle parole non mi suonarono nuo­ve, mi parve di averle già udite... chissà.

Tra quelle rozze persone che mi squadravano ogni giorno dalla testa agli zoccoli, riuscii a distin­guere una ragazza che, lo si vedeva dallo sguardo, mi apprezzava semplice­mente per il mio caratte­re. Uno di quei pomerig­gi mi avvicinò, mentre io, impassibile, lasciai che mi accarezzasse sul collo con la sua tiepida mano. Mi mossi cercan­dola per mordicchiarla, come osavo fare soltanto con mia madre.

 Stava giungendo l’estate e fra me e Clara, la ragaz­za, c’era un bellissimo rapporto di fiducia reci­proca e affetto. Era lei, in­fatti, a liberarmi nei pad­dock dove correvo senza tregua, sgroppavo e, a volte, dormivo sdraiato sull’erba tenera. I giorni trascorrevano lieti, le mie gambe mi sostenevano bene grazie alla muscola­tura sempre più solida.

Ricordo con profonda a­marezza una sera durante la quale ero di ritorno da una delle mie scorriban­de. Fui introdotto in un box a me estraneo nel quale ero solo, tristemen­te solo. Mia madre non c’era e con lei se n’era an­data la mia allegria di pu­ledro. Non la vidi più. Il mio morale era precipita­to in un abisso insormon­tabile: non mangiavo, i miei occhi erano coperti da un velo di tristezza che solo Clara sapeva cancellare. Lei mi curava, mi stava sempre accanto, a volte riusciva anche a farmi dimenticare la ma­linconia. Un po’ alla volta riuscii a distrarmi in qualche modo, così ripre­si le mie uscite quotidia­ne in paddock e tutto tornò come prima.

Ricordo che era una fre­sca mattina d’autunno quando un uomo di scu­deria mi prelevò dal box e mi legò ai ‘due venti’. Ero piuttosto agitato, non ve­devo Clara e sentirmi le­gato a quel modo mi infa­stidiva. L’uomo si avvi­cinò e appoggiò sul mio dorso quella cosa che sen­tivo chiamare ‘sella’ con estrema attenzione ai miei movimenti. Quando mi strinse il sottopancia die­tro agli arti anteriori mi sembrò di soffocare e scoppiai con tutta la mia potenza: mi buttai all’in­dietro, tirai con tutte le mie forze, le mie gambe scalpitavano sulla lastra di scivoloso cemento. Le catene legate ai due pali verticali cedettero, facen­domi cadere rovinosa­mente. L’uomo a quel punto cercò di placare il mio furore, ma inutilmen­te, perché cominciai a cor­rere trascinandomi dietro le catene. Riuscirono a prendermi circa due ore dopo, offrendomi un sec­chio d’avena alla quale non seppi resistere.

Il mattino seguente lasciai che mi mettessero la sella anche se ero molto teso. Quel giorno era presente anche Clara, e fu proprio lei che aprendomi la bocca mi mise l’imboccatura. E­ra una sensazione stranis­sima, mi sentivo intrappo­lato da tutte quelle fibbie, poi il morso d’acciaio in bocca non mi dava tregua, tirava continuamente co­stringendomi ad aprire la bocca dal dolore. Ero im­paurito e irrequieto anche quando, dopo avermi ‘la­vorato’ un’ora alla corda, provarono a montarmi. Sentendo il peso di un uo­mo su di me mi impennai bruscamente, in modo che il mio cavaliere non aves­se il tempo di reagire; su­bito dopo mi scatenai in una corsa frenetica inter­vallata da vertiginose sgroppate. Questa volta l’uomo non riuscì a rima­nere in equilibrio e cadde pesantemente a terra. Mi prese subito e rimontò in sella: io mi agitai al massi­mo, ma questa volta non riuscii a farlo cadere. Quel giorno lavorai come mai avevo fatto prima; galop­pai soprattutto su un ter­reno piano, dove avrei po­tuto dare il meglio di me. Mi allenarono ogni gior­no, la mia muscolatura e­ra ottima, le gambe non a­vrebbero potuto sostener­mi meglio: ero cresciuto. Montato adesso da un fantino più leggero del precedente correvo in pi­sta: i miei tempi erano molto buoni tanto che di­venni famoso in tutto il Paese sia per il mio ga­loppo sia per aver fatto cadere ripetute volte uno degli addestratori più abili del momento.

Clara mi era stata molto vicina, fino a che giunse il giorno del mio debutto in pista, una pista vera. Quella mattina, con gran­de fatica del mio fantino e degli uomini di scuderia, fui caricato sul van e tra­sportato in un grande ip­podromo, già colmo di ca­valli e spettatori. Mi intro­dussero in un box e Clara mi fece compagnia fino a che non mi sellarono.

Ero agitatissimo.

     Da un altoparlante chiamarono i cavalli che avrebbero do­vuto partecipare alla com­petizione. Fra quei nomi si udì: “Exeption, montato

il    J. Harrison ». Il cuore mi balzò in gola, come se avessi capito cosa stava per accadere. Fui condotto a mano dal mio allena­tore fino al cancelletto di partenza e, con una ten­sione indicibile, io e il mio fantino aspettammo il via. Venne dato il segnale di partenza e contempora­neamente sentii il frustino lacerarmi la pelle; preso da una foga irrefrenabile cominciai a correre come mai avevo fatto. Vedevo altri cavalli che come me galoppavano imprendibili e forse per questo aumen­tai la velocità. Udivo il battito regolare degli zoc­coli sul terreno erboso, il mio respiro era affannoso. Il mio fantino continuava a frustarmi ripetutamen­te, il morso d’acciaio

tirava ma io continuavo a correre come un automa. Ero in testa e sentii la gente urlare quasi impazzi­ta: avevo taglia­to il traguardo. Venni fermato faticosamente dal fantino che si era “attaccato” al filetto d’ac­ciaio. Clara mi corse incontro felicissima.

Presi parte a molte altre com­petizioni di quel genere e, mode­stamente, ero sempre in vetta alle classifiche. Poi arrivò la ga­ra più attesa, importante per me ma soprat­tutto per il mio team: il cavallo vincitore sareb­be stato il miglior galop­patore sotto i cinque anni d’età. Avrebbero parteci­pato i soggetti migliori degli ultimi tre anni, sicu­ramente difficili da batte­re. Il giorno precedente la gara ero stato trasportato in un ippodromo in Fran­cia. Piuttosto sereno, rite­nevo di possedere quella ‘marcia in più’ che mi a­vrebbe consentito di vin­cere. Ero un veterano, perché mi sarei dovuto preoccupare? Mentre ri­flettevo tranquillo nel mio box, vidi un uomo avvici­narsi molto cautamente, passando inosservato agli uomini di scuderia. Io al principio non vi feci mol­to caso, poiché ero abitua­to alla presenza umana. In quello stesso istante l’uomo sollevò la spranga di ferro della porta e avvi­cinando la mano al mio collo mi fece un’iniezione. Spaventato balzai all’in­dietro, mentre lui, come se nulla fosse accaduto, se ne andò furtivamente. Quando Clara arrivò per sellarmi vide che ero piut­tosto agitato, ma non se ne preoccupò, pensando che fosse normale prima della corsa. Cominciavo a sentirmi strano, sudavo. Fui accompagnato allora alla partenza: appena udi­to il via galoppai frenetica­mente ma gli altri cavalli mi superavano. La mia vi­sta s’appannò, tutto co­minciò a girare. La pista o­ra colava a picco, ora dive­niva un muro insormonta­bile. Sbandavo continua­mente. Il fantino percuote­va il mio corpo con violen­te frustate. Caddi pesante­mente al suolo. Ricordo di aver provato un forte do­lore all’anteriore destro. Lo muovevo a fatica. Ciò che vedevo e udivo era confuso, ovattato. Dormii a lungo. Mi svegliai sdraiato sulla soffice lettie­ra di truciolo. La mia gam­ba era fasciata. Accanto mi stava Clara, inginocchiata, e mi tranquillizzava acca­rezzandomi sul muso. Un mese dopo quel tragico avvenimento lei mi com­prò, per un motivo a me i­gnoto. Quel che ora so è che vivo in Inghilterra, do­ve sono nato, tra prati ver­dissimi coperti da un cielo sempre cupo. e tenebroso, come il mio carattere. A te­nermi compagnia c’è Ta­lier, un purosangue con al­le spalle il mio stesso pas­sato, che ha ancora tanta voglia di vivere e che con me adora galoppare nella brughiera nei giorni di vento, ricordando i tempi memorabili, i tempi vissuti come un divo.

 

Elisa

Maggio 1995 – Cavallo Magazine n. 102 Anno X