ALIDA AIRAGHI (Pasolini padre e patrigno in Zeta News, n.31/32, gennaio-febbraio 1995)

di Pier Paolo, un ritratto

 

 

come una cataratta, 
come una gelatina vischiosa 
oleosa, come in una pellicola 
bruciata, come attraverso niente 
scorre l'immagine della vita tua 
sbiadita, come la lente 
deformante vede la ragna errante, 
come un riflesso senza luce 
incidente, sei come un rifratto 
prisma dissolvente, come un'onda ansima, come una marea immonda, come un ansimo cieco, come il mondo a sbieco, come un fetido rancore, come un rauco ansimare, come vedi un fato condensato 
nell'aria stagna, come tra lagrime, 
come un ringhioso senso di colpa 
latra nel buio della coscienza, 
come da Nesso la pelle tesa 
o sottesa infra la cute, come 
una collazione di urla 
mute, inespansa virtute 
vedevi la verità: 
ma era vera?, prigione vivente, 
nel marmo stridente non levato, 
negli zigomi molato, come vista 
deretinata dall'infame peste 
emozionale che impietra 
la materia corporale

 

Ermes Dorigo è una voce nuova e diversa nella cultura friulana di questi ultimi anni: appassionato organizzatore di convegni in Carnia, divulgatore e tenace mentore di tradizioni alpine, polemico pubblicista e critico. Oltre a ciò, Dorigo è narratore e poeta in proprio, e in quest'ultima veste ha recentemente pubblicato un volume di versi, Le ceneri di Pasolini, che, a quasi quarant'anni dal libro pasoliniano dedicato a Gramsci, tende a recuperare la tensione ideologica e la forza d'urto di quel testo. Intendiamoci, Dorigo è abissalmente lontano dalle scelte formali di Pasolini: non troviamo in lui la terzina classica, né lo stile retorico-celebrativo dell'altro. Il suo discorso è più franto e tormentato ideologicamente, e si riflette in una forma molto accanita, più giocata e "astuta", nel senso che conosce e sa sfruttare tutti gli apporti poetici di questi nostri ultimi decenni (da Sanguineti ai neodannunziani). Eppure c'è anche qui indignazione morale (Secolo agonizzante, ora che tremi/ la tua fine e con livido sguardo/ delirante brami la fine/ dell'altro, ringhiando la vittoria/ sul tu solidale, dal seme di morte/ che ti ha generato educhi/ il male e una velenosa bava/ spargi di follia e di lutto:/ morto tu, dio, morto tutto?), con l'aggravante di una disperazione - cioè, proprio, di una non-speranza, di una consapevolezza della vanità di ogni resistenza politica - che Pasolini, alla fine degli anni '50, non conosceva. Pasolini padre, quindi, e Pasolini patrigno,amato e contestato (come/ una collazione di urla/ mute, inespansa virtute/vedevi la verità:/ ma era vera?), insieme ad altri riferimenti mitici, paterni, della nostra tradizione letteraria, quali Paolo Volponi, cui Dorigo attribuisce un secondo, affettuoso omaggio in versi. C'è, in questo volume di Dorigo, un intenso, straziato richiamo all'eros, molto diverso rispetto a quello che Pasolini ci lasciava intuire ne Le ceneri di Gramsci: là timore e tremore, adorazione religiosa del corpo, qui dissacrazione del sesso, svelamento impudico, genitalità espressa come in un basso continuo e ossessivo. La sezione "Raphaela", la più violenta e febbricitante del libro, presenta, accanto a versi di indubbia valenza erotica (Ma come guizzerebbe la mia trota/nella tua mano ignota con perle di latte arcano), in qualche modo sciolti e appagati nel desiderio soddisfatto, presenta dunque un angosciante turbinio di riferimenti espliciti , assillanti ed esagitati nella loro consapevole oscenità. Al punto che lo stesso Dorigo sembra averne paura, e tenta esorcismi che riducano la carica sensuale dei suoi versi, smorzandone l'ebbrezza attraverso giochetti linguistici, scioglilingua, che in realtà finiscono per risultare elementi di distrazione piuttosto datati: che porco/ questo mio corpo/ che copro d'un poco di croco! Lucido com'è ideologicamente, indubbiamente abile nella costruzione formale, quando non permette alla sua vitale tensione poetica di annacquarsi, e la mantiene vibrante e tesa, Dorigo ci regala versi importanti, importanti turbamenti.

"...mentore di tradizioni..."

 

CXLI

O d'ogni riverenza e d'onor degna
Alma mia Diva, il cui bel lume onora
L'aria, la terra e le campagne infiora,
E di salir al ciel la via c'insegna;

Lume gentil, ov’Amor vive e regna,
E tutti i sui pungenti strali indora,
Per impiagar mill’alme e mille ancora,
cor che di schemir s'ingegna;

Del vostro nome il grido al Gange et al Tile
Avria fatto sonar, s’a le mie rime il Cielo
Dato avesse favor, quant’è in voi lume.

Udranle adunque almen, tra fiamme e gelo,
Il bel TULMEGIO, ogni sua riva e fiume,
Poi che tanto non pò mio basso stile.