ERMES DORIGO

LO SGUARDO ANACRONICO

poesie etico-civili

 

Campanotto Editore

 

MARIA CRISTINA CESCUTTI
(La veglia etica della ragione, in Il Gazzettino, 9 giugno 1999)

Ermes Dorigo è una figura di intellettuale quasi appartata, non per mancanza di voce, la sua è anzi una delle più forti e lucide in Carnia, ma per quel misto di pudore e di selvatico, di crudele e dolce, che è nella sua vocazione di poeta.
Una poesia, quella di Dorigo, che è smarrimento e slancio, dolore e denuncia, vitalismo e ragione. Una poesia dalle radici leopardiane e dantesche, che dialoga con i continuatori del Novecento (Montale e Volponi, Pasolini e Pavese). Una poesia universale che si fa nascendo e passando dalla terra carnica, suo dolore e speranza.Questa parola poetica nasce nei fessurati strati del pensiero razionale-istintuale, passa attraverso il vissuto, anche collettivo, lo scandaglia, illumina, tormenta. Dorigo ha scritto anche in prosa (Neuterio della lontra, Nello specchio incrinato...), ma è la poesia l'espressione più consona alle sue capacità intellettuali ed espressive. Essa parte dal contingente e lo scaraventa a sofferta distanza, ora per passarlo al setaccio della parola epifanica, ora per rifletterlo alla luce della filosofia,ora per purificarlo alla tradizione dei versi etico-civili.
E' un percorso tormentato e lungo, che pare ora arrivato a un traguardo pacificatore. 
L'ultima raccolta di poesie di Ermes Dorigo si intitola Lo sguardo anacronico. Poesie etico-civili, con un dialogo dell'autore con Luciano Morandini. I componimenti sono tutti dedicati (a Siro Angeli, a Maniacco, a Claudio Magris, al giovane Ludovico, a Luciano Morandini, a Massimo e Giulia, dulces ferique patres patri, a Mario Rigoni Stern, a Paolo Volponi), volgono al fuori, omaggiano, nel sentimento di un'alta e civile, riconoscente, fraternità.
Nel dialogo con Morandini l'autore esplora contenuti e forma del suo dire poetico senza malcelata paura, come di chi è passato attraverso un'analisi che "sprofonda nell'io" e lo rifrange. Ciò che lo sguardo 'anacronico' inquadra, dice Morandini ad apertura di dialogo, è "maculato di mal presente", è uno sguardo che "non è né misura né costume del tempo presente, ma strumento di lettura d'esso in negativo, lungo il filo di una confessione suddivisa in sette parti e chiusa da un Congedo
La raccolta è divisa infatti in sette sezioni che procedono da un inizio a una fine,viaggio dell'io poetico da sé a sé, con un ricongiungimento-superamento che, più che nel Congedo canonico, è nella sezione finale, Terminali, preceduti entrambi, non a caso, dal poemetto Di quel mondo, dedicato a Rigona Stern. La scelta del sonetto che accoglie e stempera, ma non scolora l'intensitá del dire, è anch'essa coerente all'itinerario, all'esigenza di non restare vittima della parola e delle ferite che apre, ma di trovare attraverso di essa la libertà, in un equilibrio comunque "periclitante".
Dopo Le ceneri di Pasolini (precedente difficile e scavata raccolta), ora la parola poetica non è più temuta, ma è "grembo", pacificatrice. L'impegno etico-civile, e in fondo la stessa poesia, salvano il poeta dall'annichilimento. Lo salvano da sé e dall'esterno reale
dalla 'servile vacua e acefala massa', dal nostro nuovo "secol morto" di leopardiana memoria, dove molti si macchiano di "disonestà intellettuale". A questa contemporaneità dell'incultura e del degrado morale e sociale, della "medietà piatta e cloroformica" Dorigo contrappone un mondo civile e razionale, il mondo della sostanza e della pienezza culturale. E come valore e sintesi l'allegoria della paternità: dell'essere nella storia responsabile, combattivo, coerente, nell'appartenenza coraggiosa alla totalità della vita e della morte. Anche in Carnia "confine di un mondo/ alle cose inaderente" per Dorigo questo è nostalgia di un possibile.
Ma qual'è l'intima necessità, la scintilla che muove una scrittura densa come quella di Ermes Dorigo? Scrittura da lui definita "da solitarietà". Ho voluto chiederglielo, un giorno, in questo stentato inizio di primavera carnica.
"Non sono nato vocato alla scrittura, ma piuttosto forzato, non sono uno scrittore di professione o di complemento, come amava definirsi l'amico fraterno Paolo Volponi, ma di leva. spesso renitente a scavare dentro le mie disamate piaghe, o per malattia storica o per difetto di natura, o per entrambi; quand'ero giovane mi si rimbrottava, dicendomi ch'ero un "didròus".
Un modo di dire del suo paese nativo, presumo. " In fornese significa 'rivoltato, al contrario', ma è anche efficace ad indicare chi vede dietro le apparenze ed è disadattato in un mondo così com'è"
Lei dunque si sente tale? Un disadattato al mondo?

"Per colmare una iattura, una perdita, un vuoto che si è insediato in me, per essere stato sottratto dal grembo panico della natura prima, da rapporti affettivi primari e sociali, poi. Mi spiego quel quid corporale e psicologico di totalità naturalistica, di dissolvenza 
dell'io nell'assoluto, si è come incarnato nel mio corpo, conservato intatto, come coessenza del mio esistere. Ed è quel quid che detta i tempi della scrittura, quando si sente minacciato, dimenticato, nauseato dal mondo circostante."
Da qui il suo appartarsi, l'esigenza di solitudine?
"Da qui la mia "Solitarietà", quella nata nella 'solitaria età'  del silenzio e di un tempo fuori dal tempo: Solitudine naturale (diversa da quella sociale), selvatichezza (in senso positivo, come irriducibilità, animalità che rifiuta ogni forma di cattività): la solitudine piena della durata, estranea al contingente, inappartenenza psichica, non emozionale, affettiva, culturale, sacrale".
Natura contro cultura, insomma, sentimento della distanza che è tutt'uno col fare poetico. Lei dice che la sua scrittura è "voce dell'assenza, ma con nostalgia del futuro."
Se questo quid è la forza che impone la scrittura, la sua emersione non è così semplice. L'io primario convive con un io secondo, quello socializzato, inculturato e acculturato, adeguatamente super-egato, mentre la 'solitarietà' è cieca, non bada alle convenzioni, è ingenua, sincera, a spontanea, Solamente la scrittura e in grado di stabilire un armistizio precario tra una serie di dualismi: piacere e dolore o dovere; vita e morte; ordine e caos; libertà e necessita; divergenza e conformità; verità e finzione; anarchismo e socialitá; 
trasgressione ed eticità; io destinato ed io voluto... e potrei continuare. In tale condizione uno non puó che aspirate a una scrittura di 'armonica dissonanza o di dissonante armonia'. La scrittura diventa il mio specchio, difficile da decifrare, perché molto 
dell' espresso si è detto da solo. E' lei che mi costruisce, anche in forma tirannica".
E' la continua lotta tra il fuori e il dentro, la forma e l'espresso.

"E una lotta tra distruzione e conservazione di sé. La scrittura intenzionale diventa come un filtro, il dipanamento di una matassa aggrovigliata, libertà limitata di scelta metrica, ritmica e linguistica su una materia e una forma già predeterminata. L'artificiale però non deve, mortificare il naturale; la letterarietá non deriva dalla letteratura, ma dalla vita. Come per gli scrittori 'verticali' di Gramsci, nei quali mi riconosco. La mia scrittura può generarsi inconsapevolmente da un suono, da un ritmo interiore, da uno stato confuso di tensione, da un personaggio. Mi illudo di sopravvivere con la scrittura alla morte e lotto contro il tempo e gli sottraggo quello che lui distrugge e porta via; vivo in essa come postumo, disincantato, e placo furore e sconfitta in una desolata serenità. Mi astraggo per essere meglio presente e più incisivo nella storia e affilo il mio punto di vista su questo mondo".