Arnaldo Lucchitta (Ermes Dorigo e le ceneri mute di Pasolini, in Il Friuli, 12.4.96)

Deliziosamente ludico e al tempo stesso profondo l'appassionante viaggio affabulatorio intorno all' io di Ermes Dorigo.
Il libro di versi Le ceneri di Pasolini è da ritenersi, a mio avviso, un capitolo importante della produzione poetica postmoderna con ascendenze che risalgono sino al Pianto di Jacopone e alle creazioni lessicali dantesche.
Il magma, attraverso cui si involve/evolve l'auscultazione di Dorigo, che giostra abilmente tra vocaboli culti e desueti, ossimori, rime interne, assonanze, contraddizioni, paradossi, iterazioni, pastiches ... , viene liberato delle scorie svariate della nostra società fino a ergersi, purissimo, in quasi febbricitanti assensi/dissensi dei propri recessi interiori.
Le ceneri di Pasolini (è chiaro il riferimento alle Ceneri dì Gramsci, dello stesso poeta casarsese) non rappresentano che una tappa, e, forse, non la più significativa di questo coraggioso e corrosivo viaggio che s'innerva nell'incanto/disincanto della parola e che genera impreviste e imprevedibili suggestioni.
Mi tornano alla memoria certa produzione in versi di Paolo Ruffilli con tutto il suo bagaglio postcrepuscolare e i criptoassiomi sessuali di Antonio Spagnuolo, ma vi sono altre componenti che differenziano l'opera di Dorigo da quelle dei sunnominati poeti. Vi sono, ad esempio, al di là di una urgenza assoluta del dire, un autocompiacimento (pseudo)narcisistico, uno spaziare a tutto campo (scopro persino un "egoampollico Citati", "l'area zac e quella di cossutta", "le amplessioni / con Baglioni! o con vecchioni?..."), in un mondo in cui è "incerto il passo / nella più certa direzione" e dove "tra sesso /e pensare ci sta di mezzo il mare".
Il farsi e disfarsi della vita, la ri/generazione attraverso la distruzione ("Nulla si crea nella storia, se non / si distrugge qualcosa"); le "mattane freudiane" (e come vi gioca Dorigo!: "Dio credette d'essere Dio / fin che non seppe/ dell'esistenza di tali io:/ da quel giorno Dio / si ritrasse dal mondo"), non sono che alcune fasi, "momenti" dei suo vagare etereo, pulsivo, esistenziale.
Le antiche fedi, le certezze di uomini e popoli sono inesorabilmente crollate; ri/nasce il dubbio ("Inespansa virtute / vedevi la verità: / ma era vera"; di Pier Paolo, un ritratto); il nostro è un destino di esseri senza storia in cui, paradossalmente, "nascono ancora bambini all'obitorio".
In "Raphaela", il poemetto conclusivo del volume, il sesso potrebbe rappresentare la liberazione dal male, ma ciò è illusorio (Se il sommo bene all'origine / fu, tutto ciò che dopo / venne fu male, pure tu) e così, in questo mondo capovolto, appare vacuo entrare nel tempo: meglio stare sulla soglia e ingannarlo tastando, frugando, baciando... tuffandosi voluttuosamente nell'eros. Pure inutile tentare di vincere la condizione caratterizzante l'uomo del nostro tempo: l'egocentrismo, che è sempre presente, anche in certe estrinsecazioni che sembrano travalicare l'essere in sé, ma che peraltro sono ad esso riconducibili. 
... e le ceneri di Pasolini (amara, impietosa realtà), restano là, mute, d/eluse, a testimoniare la sconfitta, il fallimento dell'uomo e delle sue ideologie.