POESIA DA SOLITARIETA'

Non sono nato 'vocato' alla scrittura, ma piuttosto 'forzato' - non sono uno scrittore di professione o di complemento, come amava definirsi l'amico fraterno Paolo Volponi, ma 'di leva', spesso, renitente a scavare, comunque sia, dentro le mie disamate piaghe - o per malattia storica interiorizzata o per difetto di natura ( il montaliano "vizio di natura./ Un peso/ che s'ingroppa/ con paura"), o per entrambi: quand'ero giovane mi si rimbrottava, dicendomi ch'ero un didròus, termine fornese intraducibile - rivoltato, al contrario, approssimativamente -, ma efficace ad indicare chi, naturalmente, vede 'dietro' le apparenze ed è disadattato in un mondo così com'è.
Certamente, per colmare una iattura - la perdita di una vita autentica e piena -, un vuoto che s'è insediato in me, per essere stato sottratto dal grembo panico della natura, prima; deprivato, per contingenze storico-geografiche, di rapporti affettivi primari e sociali, poi; senza indulgenze regressive. Mi spiego: quel quid corporale e psicologico, preintellettuale, di pienezza, di totalità naturalistica, di dissolvenza dell'io nell'assoluto (acqua e pesci, prati e fiori, azzurri di cielo e stelle e luna, canti degli uccelli e fruscio del vento tra le piante dei boschi, da esplorare come le giungle salgariane nella cerchia protettrice delle montagne, ma anche severe, minacciose e inquietanti ) s'è come incarnato nel mio corpo, fissato nei sensi, conservato intatto dentro di me, come vista interiore, ritmo intimo, profumo di una vita primordiale: una sorta di esperienza mitica, pavesiana per intenderci, per la quale, nonostante la frattura, non nutro nostalgie regressive, appunto perché non fu, ma vive in me, è coessenza del mio esistere: è lei, che detta i tempi della scrittura, quando si sente minacciata, dimenticata, nauseata del mondo circostante. 
Da qui, credo sia derivata una psicologia radicata nella istintualità, la mia 'solitarietà'; quella nata nella 'solitaria età' del silenzio (i leopardiani "sovrumani silenzi') e di un tempo fuori del tempo, in cui si avverte la sintonia delle proprie vibrazioni interiori con i ritmi della schopenaueriana 'volontà', serena e terribile, creazione e distruzione; solitudine naturale (diversa da quella sociale), selvatichezza (in senso positivo: come irriducibilità, libertà interiore, animalità che rifiuta ogni forma di cattività): la solitudine 'piena' della durata, estranea al contingente; una sorta di postumità, un vivere un tempo soggettivo simile all'essere vissuto; inappartenenza psichica, sottolineo, non emozionale, affettiva, culturale, sociale, che permette la distanza anche da me e di essere dentro e fuori contemporaneamente, di agire e vedere e di guardarmi mentre agisco e vedo: il tono della mia psiche, proprio per questo tempo individuale misto, naturale e sociale ad un tempo, è quello di una 'atemporale storicità' o, che è lo stesso, di una 'astorica temporalità'; da qui, probabilmente, certi caratteri surreali ed espressionistici del mio stile: la mia scrittura, così generata, non si propone come risarcimento di una perdita, ma come ricerca e riconquista di una vita autenticamente vera; può anche muovere dal passato, in verità preferisco dire che si sente il profumo della continuità dell'antico, ma sempre proiettata sul presente storico e sul futuro; totalmente immanente, figlia del limite umano, umile per questa consapevolezza, impetuosa contro la storia, se pur col desiderio di trascendenza e pienezza: si connota, prima di tutto, come 'voce' dell'Assenza, ma, insisto, con nostalgia del futuro.
Se questo quid (istinto, passione, emozione, sentimento) è la forza profonda che 'impone' la scrittura, la sua emersione non è così semplice, in quanto le urgenze interiori, spesso cieche ed inconsulte, devono trovare le parole e queste devono attraversare, per realizzarsi in forme più o meno compiute, gli archivi polverosi della memoria, le oscure paludi dell'inconscio, le geometrie razionali, gli insediamenti culturali, le dissonanze e la frammentarietà della storia: cioè, esso si disperde e frantuma al contatto con queste realtà e tenta di ricomporsi e realizzarsi attraverso la scrittura che, fenomenicamente, altro non è che la maschera socio-culturale dell'istinto di sopravvivenza, dell'amor proprio, della vita che ama la vita: soprattutto nella mia narrativa, ma anche nella poesia (come Calvino, non credo ad una loro rigida distinzione), talora anche nella saggistica, si avverte questa tensione tra unità e frantumazione, tra durata e consunzione, tra totalità empatica (del cuore, direi) e divisioni della ragione, che trovano il loro punto di incontro o scontro nella corporalità (sento che quid comincia ad agitarsi e irritarsi, perché tento, per quanto mi è concesso, di denudarlo e razionalizzarlo). 
Questa interiore oppositività credo sia fortemente condizionata dal luogo, la Carnia, in cui vivo, (ne accenno solamente) dove le stagioni si avvertono ancora nel sangue, però subito rappreso perché l'ambiente urbano è come tanti altri metropolitani, privo di relazioni sociali e di progetti e valori condivisi; dove, se mi volgo a nord lo spazio ha una sua concretezza e il tempo una durata e una storia, mentre se mi volgo a sud sfocano ogni prospettiva e punto di riferimento e vivo in tempo reale totalmente nel presente.
Però, questa corporalità, questo io primario (quello della penna stilografica, che sgorga con l'inchiostro in totale soggettività ed emozionalità), non si deve intendere come una entità astratta; essa convive con un io secondo (quello del computer, che lavora distanziato su un oggetto che non gli appartiene in toto), quello socializzato, inculturato e acculturato, adeguatamente super-egato, complicato ("l'io - scriveva Musil - è il delirio di molti"); coabita con i valori personali e quelli sociali, che possono essere in contraddizione e mettere in contraddizione la soggettività, che però attraverso l'autocontrollo razionale riesce anche a rimuoverla, a tenerla nascosta, a mascherarla, a controllarla, insomma. La 'solitarietà' è cieca, quindi non bada alle convenzioni, e, soprattutto, ingenua, sincera, spontanea: entra in rotta di collisione con la maschera sociale, provoca uno stato interiore di tensione e, se non la si fa uscire, si rischia l'esplosione.
Solamente la scrittura, che è un processo linguistico di appropriazione soggettiva della realtà, un intervento attivo nella storia attraverso l'istituzione linguistica, è in grado, liberandola, se non di pacificare, almeno di stabilire un armistizio precario (per questo si continuano a scrivere: libri diversi sono in realtà capitoli di una stessa storia, non nel senso che ogni autore vero, non commerciale, ne racconta una sua originale, ma racconta la storia, probabilmente di tutti, da un suo personale e specifico, per tonalità sensibilità prospettiva, punto di vista) tra una serie di dualismi: piacere (perché questo è anche lo scrivere; ludico se declinato, com'io faccio spesso, in tecniche dada) e dolore o dovere; vita e morte; ordine e caos; libertà e necessità; divergenza e conformità; verità e finzione; anarchismo e socialità; sessualità e moralità; trasgressione ed eticità; materialità e spiritualità; privato e pubblico; individualità e civismo; io-destinato e io-voluto, e potrei continuare, esponendo le mie, ovviamente, dilemmaticità: in tale condizione uno non può aspirare che ad una scrittura di 'armonica dissonanza' o di 'dissonante armonia', espressione di uno stato ossimorico, che riconosco come nucleo tematico contrastato tipicamente mio; esso è indistinto e informe, e il compito dell'io secondo è di dargli forma attraverso lo stile. 
E mentre faccio sono fatto, in quanto la scrittura diventa il mio specchio, difficile da decifrare, perché molto dell'espresso si è detto da solo, magari in forma involuta e oscura: non sono io, veramente, che la creo, ma è lei che mi ricrea, mi costruisce, anche in forma tirannica, appunto perché è una forza superiore alla mia volontà (o nolontà); parlo di una scrittura non programmatica o ipercontrollata, ma di una scrittura in cui il soggetto è quasi coatto a mettere in gioco e a rischio tutto se stesso: una lotta tra distruzione e conservazione del sé, con un paradosso: che l'io primario, se lasciato completamente libero, porta all'autodistruzione, mentre l'io secondo, suo nemico in quanto artificiale, si prende cura di sé e di lui. A questo punto si ricomplica tutto nell'antagonismo ontologico tra natura e cultura, sanabile, in parte, se si riesce ad attingere una scrittura naturalmente artificiale o artificialmente naturale; il che è dato raramente, per qualche sortilegio o grazia, per cui rimane la lacerazione, il doppio registro, in frizione o paralleli. 
Allora la scrittura intenzionale diventa come un filtro, il dipanamento di una matassa aggrovigliata, come libertà limitata di scelta metrica, ritmica, linguistica su una materia e una forma, se pur solo accennata, già predeterminata, che può essere plasmata, parzialmente orientata e controllata, ma non annullata, pena la perdita della motivazione e dell'urgenza interiore alla scrittura creativa.
Entra, così, in scena 'l'artificiale' che non deve mortificare 'il naturale': la consapevolezza, la cultura, la tecnica, l'ideologia, per produrre una letterarietà che non deriva dalla letteratura, ma dalla vita e dalla storia; amo definirmi uno scrittore 'verticale' in contrapposizione a quelli 'orizzontali', quelli, come scriveva Gramsci, che credono nella 'partenogenesi', che la letteratura nasca dalla letteratura, e così svolazzano in maniera epidermica sopra i problemi, intrattenendo i lettori con giuochi intellettualistici o distendendo una vaselina consolatoria e mistificante ("la pappa del cuore') sulla bellezza tragica dell'esistenza. Certamente tra i due 'io' c'è un confronto dialettico serrato, sfibrante (correggo e ricorreggo per anni): la prima stesura è come un'estasi; la prima lettura un piacere, cui segue la depressione, il rifiuto, l'oblio; poi la ripresa diffidente, una certa soddisfazione, il distacco, la correzione...
La mia scrittura, dunque, può generarsi, inconsapevolmente, da un suono; da una associazione; da un ritmo interiore; da uno stato confuso di tensione; da un personaggio, nato spontaneamente nell'immaginazione; da una urgenza e istanza interiore di liberare pulsioni, di identificare la 'propria 'voce tra le 'voci' che parlano dentro, di riconoscimento, di verifica dell' ubi consistam; in questa fase prerazionale, la più sofferta per l'autore, essa fa emergere l'assenza, ti sbatte in faccia la catena della tua necessità, ti sfibra con la sua insaziabilità di verità (il male che c'è in te e che essa ti rivela, anche brutalmente), non ha tregua fino a quando non ha 'trovato' e tu non puoi sottrarti, perché s'impossessa di te (con una atemporalità che ti distanzia dalla realtà e ti rende indifeso e fragile, tanto che hai paura della tua ricchezza creativa, ideativa, inventiva, progettuale e pragmatica, hai paura delle tue capacità introspettive e interpretative, hai paura di non reggere tutto ciò che si muove e si agita dentro di te), ti senti da lei usato, violentato, e la ragione cerca di incanalarla, di darle una direzione, la coscienza etica delle tue responsabilità storiche, che si oppongono alla deriva, in cui la trascina, e all'autodistruzione. E' come una forza istintuale, che segue le tracce nella foresta dell'inconscio e che, mentre lascia le sue orme, lo 'rischiara', s'imbeve dell'oscurità, del nulla, del dolore che attraversa; in tale maniera incrina, apre fenditure, fa emergere l'incontrollato, libera rimozioni, tocca il nervo, è s-pietata, la sua essenza è dire, nominare, dare forma anche al male, che poi, scritto, diventa 'oggettuale', legata alla memoria corporale; mentre la mente è valutativa (discrimina, ordina, seleziona, generalizza...), l'anonimo quid che la sostiene è a-valutativo, gli interessa l'essenza non il valore; è 'animale': non gli dolgono coscienza e conoscenza, che amplifica, le rende quasi insostenibili all'autore reale, perché costruisce, definisce, scolpisce il 'tuo' destino: non sei tu che dici, ma è la poesia che ti dice e ti fa, fa vacillare la mente e ne rivela l'intrinseca limitatezza e fragilità, e la insufficienza.
Poi, a livello cosciente, diviene il luogo a-funzionale, nel senso che ha un valore solamente per me, forse terapeutico, dove: tento di ricomporre la mia disseminazione e ciò che sopravvive dalle mie dispersioni; mi illudo di ricostruirmi come compiutezza; mi guardo nello specchio e mi sputo in faccia; faccio l'inventario di ferite insanabili, perdite, disillusioni, scacchi, amarezze, felicità che ancora aleggiano nell'aria come farfalle o foglie renitenti a disfarsi nel terreno; libero forze interiori, finchè ci sono,. per costringermi a vivere; definisco scopi, significati, direzione; cerco di spezzare la gabbia dell'io e mi rassereno nella conferma del dolore; faccio un'inventario del vuoto; m'immergo in antiche cadenze che mi illudono di una persistenza nel mio divenire; mi 'determino' per accettare e non fuggire; m'illudo d'essere un valore, almeno per me; sfogo la mia indignazione; definisco la mia posizione, hic et nunc, e cerco di slontanarmi e distanziarmi da me stesso; difendo uno spazio di libertà, di riflessione, sentimento, emozione, passione, istinto autonomi, non omologati; svelo i miei limiti e la mia forza 'umana'; anelo, attraversando il negativo, alla positività, al bello, mentre m'interrogo sulla mia disarmonia (cromosomica, ontologica, storica?); m'illudo di sopravvivere con la scrittura alla morte e lotto contro il tempo e gli sottraggo quello che lui distrugge e porta via; vivo in essa come postumo, disincantato e placo furore e sconfitta in una desolata serenità; rivivo la vita, la ordino, cerco di estrarne una significazione e un arricchimento alla vita reale; mi confronto costantemente con la morte e le 'morti' e provo un piacere estetico, che ricrea quello erotico (l'erotismo è una componente fondamentale della mia scrittura, che è quasi assente negli scrittori e poeti friulani, che non hanno evidentemente ancora superato nel profondo l'inibizione clericale e sessuofobica e l'hanno o rimosso o sublimato o in ideologie o in logorrea o in buoni sentimenti o); vedo e accetto il nulla, ma sogno la sopravvivenza, la metempsicosi, la palingenesi; comprendo la mia irrilevanza nel mondo e capisco di essere 'fuori tempo', sfasato, anacronistico, rispetto a come mi ero progettato; creo gratuitamente qualcosa di mio, mi do uno stile, una forma, un'autodifesa; mi astraggo per essere meglio presente e più incisivo nella storia e affilo il mio punto di vista su questo mondo e lo rappresento secondo le mie convinzioni estetiche ed etico-civili.

ermes dorigo