a mio padre

 

 

Viene da lontano

il mio giorno

con fremiti di sole

e già il prato stinge

di foglie cadute

 

Rivoli di neve

sui sassi

la sera,

orme

di passate esistenze

 

Sono siepe

al mio tempo

adorati silenzi

 

 

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IL CAMOSCIO BIANCO

 

PRIMO CAPITOLO

 

 

FACCIADIPASQUA

 

 

 

Poteva sembrare una giornata come tante altre, col solito freddo e la solita fame.

La nebbia, ritornando al fiume, scopriva le buche fangose scavate dalle bombe nella neve dei prati e liberava schiere di salici che apparivano e scomparivano nel bianco della campagna coi rami dritti e scheletriti carichi di gelo.

Ogni voce, ogni passo risuonava attutito e lontano. Anche il mattino sembrava essersi fermato a metà, dietro la montagna, col cielo stinto che cadeva sulla valle a proteggere da occhi indiscreti le case mutilate e distrutte. Soltanto l'acqua del Malleretto scorreva nel roggione gonfia e impetuosa, quasi a rammentare l'inesorabile volgere del tempo sulle vicende umane.

Rocco ascoltava il gorgoglio dell'acqua e ne traeva una sensazione liberatoria, di pace e tranquillità, come se il roggione, dopo aver servito mulini e lavatoi, andasse a gettarsi nell'Adda col suo carico di scorie biologiche, portandosi dietro anche i crucci e le tribolazioni dell’intera città: aveva trascorso la notte insonne a causa dei ripetuti episodi di violenza e di antisemitismo che, ultimamente, avevano messo a dura prova il suo modo di essere e di considerare i sacrosanti diritti umani.

S’era rilassato facendo a pezzi un tronco di betulla, ed ora, rifornita la cucina di una buona scorta di legna, se ne stava sul portone di casa sua con lo sguardo alla montagna bianca, ai prati bianchi, agli alberi rinsecchiti e bianchi.

Al suo paese, forse, già fioriva la ginestra e il gabbiano lasciava la scogliera per seguire il pescatore che prendeva il mare, mentre qui, fra le montagne, sembrava tutto così tetro, così spento, quasi senz’anima…

I passeri che frullavano sotto gli sterpi gelati dell'orto gli volavano intorno coi becchi aperti e ciangottanti e andavano a posarsi sul filo spinato della siepe in attesa della solita manciata di briciole. Lui non aveva nulla da offrire, da qualche tempo riusciva a malapena a sfamare le bocche di casa sua, e mamma Neve, la sua giovane moglie, si consumava gli occhi fino a tarda notte per rivoltare abiti e sferruzzare maglie per vestire i suoi figlioli. Non poté fare altro che rammaricarsi. Si consolò pensando che presto sarebbe arrivata la buona stagione e avrebbe dispensato bacche e frutti in quantità, per tutti.

Accese una Milit, tirò un paio di boccate ingorde, e si unì alla gente che risaliva la via.

Non parlò con nessuno. Sostò soltanto un poco davanti alla cappelletta di sant'Anna e passò subito dal fornaio. Preferiva ritirare il pane appena sfornato e tenerselo vicino fino all'ora di pranzo. Gli dava sicurezza.

La signora Lina gli incartò la solita razione di pane nero, scrupolosamente misurata e pesata secondo le vigenti norme annonarie, e gli allungò da sotto il banco una di quelle rosette che preparava di nascosto con la pasta di farina bianca:

- Mettetela via - gli fece sottovoce tenendo d'occhio l'ingresso, dopodiché si sfilò il grembiule e lo accompagnò fin sulla strada stringendosi al petto caldo e pienotto la mano fredda e nervosa di Rocco che si guardava attorno imbarazzato senza dire nulla: un vezzo che si ripeteva da tempo con crescenti effusioni di cordialità.

Rocco accennò un rimprovero:

- Donna Lina, donna Lina! – sospirò, liberandosi abilmente della stretta.

Aveva imparato a divincolarsi con garbo, non voleva compromettere la buona disposizione d'animo della sua disinvolta ammiratrice. Ringraziò con dovizia di complimenti e si diresse a passi svelti verso l'ufficio.

Anche quel giorno vi giunse per primo, come al solito.

Salutò Savalli accucciato al bancone dell'uscio e si ritirò nella sua stanza, lanciando occhiate ostili alle pratiche impilate sullo scaffale dell’angolo:

- Sbrigherò quelle urgenti, poi si vedrà - brontolò tra sé.

Si infilò le mezze maniche nere, prese posto sulla scranna da vice commissario capo e nascose la rosetta di farina bianca in un cassetto della scrivania, sottochiave: era già accaduto che gliela facessero sparire e non aveva potuto neppure protestare perché, a quel tempo, il pane si poteva avere solo nero, razionato, con la tessera.

Stava rileggendo il verbale di un furto di galline, quando bussarono alla porta dell’ufficio: dapprima pensò al solito scocciatore che voleva farsi offrire il caffè, poi riconobbe i tocchi svelti e leggeri di Savalli.

- Avanti, avanti, che bussate a fare ogni volta! - disse, cercando di mettere a suo agio l'anziano e premuroso usciere.

- I coooonfinati - balbettò Savalli, dondolandosi sui piedi - sooono eebbrei... - i suoi occhi avevano un'espressione accorata, piena di raccomandazioni.

Savalli era un buon diavolo abituato a prendere ordini da tutti, e li eseguiva con solerzia e alacrità senza battere ciglio.

Per via della balbuzie non poteva spiegarsi più di tanto, ma, se qualcosa non gli andava per il verso giusto, si faceva intendere con occhiate e dondolamenti che mettevano a disagio anche il più arrogante e prepotente dei superiori.

Rocco lo considerava un uomo onesto e saggio, gli dava del Voi, e gli consentiva perfino di esprimere opinioni. Sulla questione degli ebrei s'era dovuto sorbire tante di quelle occhiate e tanti di quei dondolamenti che alla fine si sentiva il rimorso di coscienza, quasi fosse lui il responsabile delle loro quotidiane tribolazioni.

Savalli gli presentò i nuovi arrivati e ritornò al bancone dell'uscio.

- Venite, venite, accomodatevi – disse Rocco rivolto ai confinati. Spense la cicca nel portacenere d’alluminio e assunse un’aria distaccata, di circostanza: non poteva immaginare che quell'incontro avrebbe determinato profondi cambiamenti nel suo rapporto con le istituzioni delle quali, fino a quel momento, era stato integerrimo e fedele servitore.

Si fecero avanti un omone rosso e lentigginoso con le spalle da boscaiolo e una giovane donna in abiti succinti e dimessi: tenevano per mano due bimbi assonnati e si guardavano attorno con occhi pieni d’apprensione.

Rocco chiese loro i documenti e li informò del loro trasferimento presso il centro di raccolta di Aprica. Lassù avrebbero ricevuto cure e assistenza dagli incaricati della Croce Rossa: c'era anche un buon prete che dispensava il conforto spirituale a tutti, anche ai miscredenti.

- La corriera parte a mezzogiorno – concluse Rocco, trascrivendo i dati su un registro; passò il tampone della carta assorbente sul foglio, ripiegò i documenti e li restituì all'ebreo - potete andare – soggiunse con gli occhi bassi.

L'omone rosso e lentigginoso non si mosse. Girò lo sguardo sui bimbi, poi li puntò di nuovo su Rocco:

- Prego, signore, abbiamo freddo e siamo digiuni da ieri mattina – disse con decisione portandosi davanti alla scrivania.

Rocco ebbe un sussulto: i suoi interlocutori, di solito, lasciavano l'ufficio senza tante storie, indietreggiavano fino all'uscio e se ne andavano via in silenzio, richiudendo educatamente la porta alle loro spalle.

Si mise dritto sulla scranna e fece un mugugno.

- Per favore – continuò l'ebreo, chinandosi per guardarlo negli occhi - del latte, o del pane, almeno per loro - soggiunse, indicando i suoi figlioli.

Rocco rimase zitto. Levò lo sguardo dal registro e lo posò sull'uomo, poi lo girò sulla donna: notò i suoi grandi occhi neri e le labbra sottili ancora scosse da fremiti di freddo.

I due piccoli si stringevano alla madre e le scomponevano il vestito, scoprendole i ginocchi esili e tondi: lei un batuffolo rosa dalle trecce bionde, lui uno sgorbietto con le orecchie a sventola, rosso e lentigginoso come un'albicocca d'agosto. Se ne stavano col capo reclinato sulla spalla e fissavano l'austero signore in mezze maniche nere con espressione di contrarietà.

- Che devo fare? - si domandava il vice commissario capo, passandosi la mano sulla fronte. Gli sembrava tutto così assurdo!

Dalla finestra filtrava il pallido sole del mattino, e lontano, immerse nell’ombra, si potevano intravedere le montagne bianche cariche di gelo. Rocco si sentiva addosso quel livore come un peso dell'anima e non riusciva a liberarsene. Per la prima volta, provava un senso di pena e di vergogna insieme: un tozzo di pane, perdinci, non si nega a nessuno!

Non indugiò oltre.

Chiuse la porta dell'ufficio, prese dal cassetto della scrivania la rosetta di farina bianca e la spezzò in due, delicatamente, per non perdere briciole:

- Tenete, è appena uscito dal forno - disse sottovoce, porgendo il pane ai due bimbi.

La rosetta s'era aperta soffice, croccante, e spandeva un profumo intenso di cose buone, dimenticate.

I suoi figlioli, quando ne poteva avere dal fornaio, gli correvano intorno festosi come i passeri dell'orto e facevano gridi di contentezza. Sul tavolo restavano poche briciole: Rocco se le spingeva piano piano nel palmo della mano, un bel mucchietto, e poi, come una manciata di fragole o mirtilli o di uva sultanina, se le faceva scivolare in bocca tutte insieme, e stava lì, ad occhi chiusi, a gustarne i sapori.

Il ragazzino afferrò il pane con tutte e due le mani e lo mandò giù a bocconi senza dire nulla.

La bimba, invece, rimase a fissare Rocco con i suoi grandi occhi lucidi e assonnati: sorrideva, mostrando due graziose fossette sulle guance rosa. Si avvicinò a Rocco, prese la sua grande mano fra le sue e vi fece rotolare dentro una pallina di vetro con l'anima a spirale di tanti colori, di quelle che si acquistano a dozzine, al mercato, per pochi soldi.

Rocco aveva perso la sua aria di funzionario austero e intransigente: faceva rotolare la pallina fra le dita e non sapeva che dire.

Si chinò sulla bimba e la cinse per i fianchi.

Un po' si fingeva stupito per quella meraviglia di colori giallorossoazzurro racchiusi nella pallina di vetro come un piccolo arcobaleno in un cielo di cristallo, un po' le accarezzava i capelli, o una treccia, e tentava di convincerla a tenersi il suo gioco, a non sprecarlo, che lui era un povero adulto costretto a rivoltare scartoffie, e a biglie, proprio, non ci sapeva fare.

- E' soltanto un giochino, una piccola cosa - intervenne la madre, sforzandosi di sorridere.

Rocco dovette cedere.

Soppesò la pallina nella mano e la posò nel portaspilli.

- Ora dovete andare - disse dopo qualche istante di silenzio - don Giuseppe v'aspetta in Aprica, è un buon amico, avrà cura di voi - concluse con voce rassicurante.

Tornò alla scrivania, suonò il campanello appeso a un filo a treccia sul muro, e subito si presentò Savalli con quel suo passo dondolante e malsicuro che infondeva mestizia.

- I signori hanno bisogno di una buona colazione - gli fece Rocco, posandogli una mano sulla spalla – potreste accompagnarli al bar, dal pasticcere? Passo io, più tardi, a regolare il conto.

Savalli rimase un attimo perplesso: un improvviso attacco di balbuzie gli impediva di parlare. Poi, finalmente, riuscì a sbloccarsi e, svelto svelto, come per timore di qualche cambiamento di decisione, prese i bimbi per mano e infilò la porta.

- ... ‘ndiamo - disse d'un fiato, avviandosi per il corridoio.

Rocco si richiuse nel suo ufficio e ricominciò a sfogliare le pratiche, riportando su ciascuna le solite noiose annotazioni. Noiose e inutili perché nessuno le leggeva mai.

Istintivamente cercò le sigarette nella tasca. Fece per accenderne una, ma ebbe un ripensamento.

- Se mi riescono i cerchietti smetto di fumare - si disse con decisione.

Accese la Milit, si riempì la bocca di fumo, e soffiò tanti cerchi che rotolavano per l'aria, si allargavano, si dissolvevano in nuvolette bianche e brune.

Non gli era mai successo di soffiarli così tondi.

Li rincorse con lo sguardo fino al soffitto e stette a guardarli mentre si appiattivano contro le tende affumicate della finestra.

Poi, quasi volesse vendicarsi di un torto subito, prese la sigaretta per la gola e la soffocò nel portacenere.

- Sei stata l'ultima - sentenziò, lanciando uno sguardo bieco alla cicca che si torceva ancora calda nel portacenere - da oggi vita nuova.

 

 

 

 

 

Rocco finì presto di riordinare le pratiche. Le impilò sullo scaffale e s'avviò verso casa col sacchetto di pane nero sotto il braccio.

La città era deserta, le case silenziose, la gente chiusa dietro le finestre con le sue quotidiane tribolazioni.

Soltanto Giacomo, il casellante, aveva riposto la tromba e se ne stava seduto su una panca al sole a gustarsi una scodella di minestra calda.

Rocco frugò sotto il cappotto, tirò fuori il pacchetto di sigarette mezzo vuoto e glielo infilò nel taschino del giaccone.

- Se non le fumate è meglio – gi disse, salutandolo con un gesto del braccio.

Ora, Rocco se ne tornava per la strada fangosa immerso nella quiete della campagna che emanavano un forte odore di neve, quando udì un canto dolcissimo che veniva dalla cappella di sant'Anna. Nella penombra del tabernacolo non si potevano distinguere le cose, ma gli sembrava che la statua sorridesse e guardasse proprio lui.

Tra incertezza e stupore pensò al miracolo: era un tipo religioso, con una profonda venerazione per sant'Anna alla quale rivolgeva ogni mattina un pensiero di devozione, un uomo di fede, insomma, che aveva compiuto una buona azione aiutando quei poveri ebrei, ma l'apparizione, come premio al suo buon cuore, gli sembrava davvero una cosa esagerata.

Si affacciò alla grata per guardare meglio e vide una giovane donna coi capelli lunghi e neri che sistemava sull'altare un vaso di edere e strobili di pino: lo fissava con occhi sognanti e sorrideva con quel suo viso da bambina, proprio come la statua di sant'Anna.

Rocco accennò un inchino, ma la giovane abbassò lo sguardo e smise di cantare, continuando a ripulire i rami dal verde rinsecchito e a rimirarli col capo ripiegato come fossero fiori di giardino.

- Scusatemi, non volevo disturbarvi - bisbigliò Rocco, facendosi il segno della croce. Sollevò il bavero e riprese il suo cammino verso casa.

Dai comignoli salivano fumi densi e grigi e dai campi veniva il soffio del fiume con la sua aria umida, carica di malinconia: Rocco non si sentiva deluso, semmai un po' contrariato, ma con una inconsueta beatitudine dentro.

Stava ripassando le scarpe sul raschietto dell'uscio, quando gli giunse un profumo di soffritto, come di pasta e fagioli.

S’aggrappò al passamano della ringhiera e prese le scale di corsa, due a due, tutte d’un fiato…

 

Nel pomeriggio dello stesso giorno, verso l’imbrunire, Pippo, il leggendario caccia dell’aviazione nemica, attaccò le postazioni della contraerea tedesca piazzate in collina e nella boschina dell’Adda: un attacco in grande stile con acrobazie nell’aria e mitragliamenti a tappeto. Poi, all’alba del mattino seguente, i bombardieri completarono l’opera, mettendo a soqquadro la stazione ferroviaria e seminando panico e disastri sull’intera città, quasi quanto l’ultimo temporale d’agosto che aveva scoperchiato le case e sradicato gli alberi dei giardini.

Una bomba centrò in pieno la palazzina di Teobaldo Pagone che se la cavò con poche ammaccature soltanto perché s’era rifugiato sotto le robuste volte della sua cantina. Un’altra, invece, finì nel frutteto dietro la casa di Rocco: il botto mandò in frantumi i vetri delle finestre e lasciò profonde crepe sui muri.

- Non possiamo rimanere qui - seguitava a ripetersi Rocco: da quando gli avevano dipinto quella grande "S" di pericolo sulla facciata di casa, non riusciva ad avere sonni tranquilli, sognava caccia e bombardieri in picchiata e grappoli di bombe che esplodevano a mezz’aria come fuochi d’artificio…

E poi, quel correre su e giù dalla cantina per ripararsi dalle bombe, coi bimbi mezzi nudi in braccio e le donne in vestaglia tutte spettinate e piagnucolanti, con tanti uomini smaniosi attorno, era divenuta una vera ossessione.

Più volte, la signora Amelia, che faceva la levatrice e passava tutti i giorni a visitare Barbarina che aveva la pertosse, gli aveva offerto due locali al piano terra di casa sua: una casetta al di là dell’Adda, ai piedi della montagna di Albosaggia, fuori dal pericolo delle bombe, ma Rocco stentava a prendere una decisione e rimandava sempre a domani.

- Figuriamoci – pensava – come si può stare in due locali…

Già qui, con mille occhi e mille orecchie addosso, doveva aspettare che fossero tutti a dormire per concedersi un po’ d’intimità con mamma Neve, e andava ad abbracciarsela in cucina, vicino al fuoco del camino, prima che si fosse spento del tutto…

E i nonni, mica li poteva abbandonare lì…

Soltanto quando cadde un’altra bomba nel frutteto e scavò una buca larga e profonda come il cratere di un vulcano, Rocco si decise a traslocare.

Ricoprì con teli e sacchi le cose più preziose, raccolse stoviglie e masserizie, soltanto il necessario, le caricò su un carro da falegname e si trasferì dalla signora Amelia.

Ci abitava Robusto lì vicino, un vecchio amico, col quale, quando la stagione era propizia, andava al fiume a mettere filagne. Rocco lo incontrò che stava sistemando la rete dell’orto piegata dall’abbondante nevicata.

- Salve Rocco – che ci fai da queste bande? – gli urlo Robusto soffiandosi sui pugni.

Rocco gli strinse la mano forte e legnosa e gli spiegò che veniva ad abitare lì, nella stessa contrada.

- L’Albosaggia è il paese più bello del mondo – sentenziò Robusto gonfiando il petto, quindi lo aiutò a spingere il carro e a sistemare i mobili nelle nuova casa.

- E’ il momento buono per le trote – disse congedandosi da Rocco - ieri l’altro, ne ho prese due così – soggiunse sottovoce, mostrando la misura con le mani – c’è una bella ansa là sotto, domani ci andiamo.

I nonni si sistemarono alla Segrada, una contrada a mezza montagna con tanto di fontana e lavatoio. Nonno Auro non aveva fatto obiezioni. La piccola casa di sasso gli era subito piaciuta perché aveva la cucina grande, il camino, il soffitto di legno, e una finestra che guardava sulla valle e sul bosco.

 

Proseguiva intanto l’esodo degli ebrei verso il centro di accoglienza di Aprica, mentre l’ondata di antisemitismo assumeva giorno dopo giorno aspetti davvero preoccupanti.

Don Giuseppe faceva di tutto per alleviare il disagio dei confinati e, quand'era il caso, ricorreva anche all'ausilio di pietose bugie.

Sul finir dell'inverno, infatti, dopo un fattaccio che aveva messo in subbuglio l'intero paese, s'attaccò al telefono e si mise in comunicazione con Rocco: gli chiese di trasferire presso il preventorio di Prasomaso due poveri ebrei confinati in Aprica.

- E' brava gente, il signor Haar ha perso la moglie, sua figlia è malata e ha bisogno di cure - don Giuseppe elencò tutte le disgrazie che avevano colpito la famiglia del signor Haar e stava per aggiungerne altre quando Rocco lo interruppe:

- D'accordo, me li mandi, poi si vedrà - sospirò, strapazzandosi i baffi - non in ufficio, però - si affrettò a precisare - meglio a casa mia.

Il signor Haar giunse il giorno stesso, a mezzodì, proprio all'ora di pranzo.

- Siamo qui - disse, posando una sacca nell'angolo della cucina - mi chiamo Alfred e questa è mia figlia Muna - continuò, presentando una ragazza dai capelli neri e dall’aspetto tutt'altro che sofferente - spero di non darvi troppo disturbo - soggiunse, lanciando occhiate golose alla tavola apparecchiata.

Il signor Haar era un uomo alto e pienotto, con lo sguardo gioviale e la testa bistonda. Mamma Neve, che non riusciva a pronunciare il suo nome, lo soprannominò subito Facciadipasqua e da quel giorno, per tutti, si chiamò così.

Prese posto a capotavola, di fronte a Rocco e, con tutto l'appetito accumulato in tanti giorni di confino, si gettò sulle pietanze.

Che profumo, e che gusto!

La pasta coi fagioli aveva un sapore intenso e i bocconcini di cotenne con le rape solleticavano il palato e invitavano a bere. Facciadipasqua mostrò di apprezzarli e fece più volte i complimenti a mamma Neve. Lei, però, fingeva di non capire e mise via gli avanzi per la cena della sera.

Rocco attese che gli ospiti si fossero rifocillati, offrì il Doppiokümel al limone che lui stesso distillava con un alambicco clandestino nascosto nel solaio della vecchia casa, dopodiché compilò la richiesta di ricovero a Prasomaso e accompagnò Muna dal medico per la prescritta visita di controllo.

- E’ uno all'antica – la rassicurò – con un'occhiata sa scovare anche la più oscura e misteriosa malattia...

Muna non l'aveva previsto ed era imbarazza, avrebbe preferito tornarsene in Aprica.

- L'appuntamento è fissato - la zittì Rocco - non si può rimandare!

Il medico stese Muna sul lettino, le sfilò la camicetta, le tastò il fegato, le costole, la milza e l'intestino, la scrutò nelle pupille e le fece dire trentatré. Infine le misurò la temperatura e il battito del polso: nulla di patologico, neppure una semplice tonsillite.

Quel pallore e la mancanza di tono muscolare potevano essere riconducibili ad una leggera anemia associata ad una forma di depressione abbastanza diffusa in quei giorni di tensione. L'aria fina di Aprica avrebbe richiesto una dieta più sostenuta, adeguata alle caratteristiche climatiche del centro montano. Evidentemente c’era stata una grave carenza alimentare. Il preventorio di Prasomaso, dotato di assistenza medica e infermieristica specializzata, poteva essere ragionevolmente consigliato per le cure del caso.

Il medico passò alla scrivania e compilò la dichiarazione di diagnosi: la sua autorevolezza era fondata su riconosciute e indiscusse garanzie di professionalità.

- Si rimetterà presto, lassù c'è l’aria buona e tanto sole, sono le migliori medicine - concluse infine, arricciando i sopraccigli.

 

Fu in una domenica di marzo che incominciarono i guai.

In ufficio c'era una strana aria di mistero e tutti si muovevano guardinghi e taciturni come i gatti del giardino.

Rocco dapprima non capì, poi posò gli occhi su certi documenti e lesse il nome degli Haar nella lunga lista di ebrei per i quali era stato emanato l'ordine di deportazione.

- Devo avvertirli - pensò, ma per telefono non era prudente mandare certi messaggi, e non c'era tempo da perdere.

- La bicicletta... la bicicletta di Pasquale - si disse, infilando la porta.

Pasquale era un vecchio pilota d'aeroplani venuto dal Sud in cerca di lavoro. Faceva il corriere e aveva una bicicletta dai rapporti speciali con la quale passava di contrada in contrada a recapitare i pacchi delle consegne. Se la stava lucidando davanti all'ingresso di casa sua quando Rocco giunse da lui.

- Me la prestate la vostra bicicletta, cavaliere? - gli chiese Rocco dopo qualche istante di esitazione - ho da sbrigare una faccenda... mi fareste un gran piacere.

Pasquale sgranò gli occhi e non rispose. Si fece rosso in viso come una melagrana e continuò a lucidare il manubrio col polsino della maglia. Poi, portando le mani ai fianchi:

- Ecché, a voi posso dire di no? - sospirò con aria afflitta - prendetela, prendetela pure... Mi raccomando, però, trattatela bene! - s'avviò in cucina scuotendo il capo e fece segno a Rocco di seguirlo - Venite, facciamoci un bicchierino.

Rocco gli andò dietro a malincuore. Non se la sentiva di bere a quell'ora, ma non voleva neppure contrariare il suo bizzarro e imprevedibile compare.

- La mentuccia, Vincenzina, è arrivato Rocco! - gesticolò Pasquale, rivolto alla moglie che trafficava sul tavolo intorno a un gran mucchio di panni da stirare - l'abbiamo fatta noi con l'erba menta - soggiunse, indicando una bottiglia di liquore sulla mensola della credenza - è fresca fresca!

Rocco ne assaggiò soltanto un sorso, tanto per gradire.

- Grazie tante, cavaliere, a stasera - si congedò, avviandosi alla porta - scusate, Vincenzina, ho una gran fretta - e se ne andò via, accompagnando la bicicletta con una tal circospezione da suscitare ilarità perfino nel diffidente e meticoloso Pasquale.

- Salutiamo - rispose lui, mordendosi un labbro, poi, sporgendosi a metà dalla ringhiera - mi raccomando, state attento, andate piano - e brontolò qualcosa a denti stretti guardando il cielo.

 

Rocco pranzò con calma, assorto nei suoi pensieri, poi, senza dire nulla, infilò un giornale sotto la camicia per ripararsi dall'aria fredda, inforcò la bicicletta e partì.

Pedalò piano per evitare il fango e le pozzanghere: le raccomandazioni di Robusto gli martellavano la mente ad ogni buca e il cigolio dei freni gli ricordava il lamento di Savalli che un giorno aveva male qua e un altro là.

Alle porte della città, una grande pozzanghera segnava il confine fra lo sterrato e il lastrico del corso.

Rocco l'aggirò con cautela e tirò un sospiro di sollievo. Ora poteva pedalare con tranquillità, senza l'assillo del fango sulla bicicletta. Nemmeno fosse d'oro!

Eppure si voltavano tutti a guardarla quella bicicletta e facevano ovazioni, una vera sciccheria!

Rocco un po’ diceva che non era sua e un poco stava zitto per far credere che lo era. Non c'era nulla di male!

Si girò perfino il farmacista, il sacrestano e l'austero don Giovanni, e ciascuno gli faceva i complimenti e si compiaceva per il prestigioso acquisto.

Solamente i ragazzi che giocavano a palla sul piazzale del sagrato non s'accorsero di lui, e neppure quei vecchietti sotto il campanile all'angolo del sole, intenti com'erano a fumare cicche e a scambiarsi il tabacco per la pipa.

Gelsomina, invece, gli fece un sorriso, come per rallegrarsi, poi continuò a distribuire briciole di pane ai colombi della piazza e bocconcini di frattaglie a un gatto soriano con l'occhio guercio, costretto a vivere d'avanzi ai bordi del sagrato.

 

 

Fuori città, ricominciarono le pozzanghere.

Rocco seguitava a pedalare assorto nei sui pensieri e, quando gli affiorava alla coscienza qualche scrupolo per il suo comportamento decisamente trasgressivo, si dava subito risposte convincenti e rassicuranti, in linea con i suoi principi e con il suo modo di considerare i sacrosanti e stramaledetti diritti umani.

Avrebbe avvertito Facciadipasqua e questi avrebbe passato la voce ad altri perché fuggissero e si mettessero in salvo oltre confine.

In verità, qualcuno ci aveva già provato. Era stato facile, con una manciata di gioielli o di denaro, procurarsi una guida per superare la montagna e cercare rifugio nella vicina Svizzera: la ricchezza che gli ebrei si portavano appresso era immensa, così si diceva.

Alcuni di loro, però, erano stati ritrovati senza vita sul fondo dei burroni o fra le rocce del valico. Ciò aveva dato adito a voci e sospetti sull'attività senza scrupoli di certi accompagnatori.

- Non è vero, sono tutte storie! - cercava di convincersi Rocco schivando le pozzanghere, ma subito altri pensieri lo assalivano e gli martellavano la mente come un'ossessione – E poi che faccio, dove li nascondo, chi li accompagna oltre confine. E se capitassero nelle mani di quei lestofanti?

Pensava di ospitarli a casa sua, ma in quel buco d'appartamento non c'era posto neppure per un gatto!

Nella vecchia casa, allora! C'era l'occorrente per viverci comodamente tutto il tempo che si voleva e il rischio di prendersi una bomba in testa era minore di quanto si andava dicendo.

Sulla facciata della palazzina, in verità, spiccava la grande "S" che indicava pericolo di bombardamenti e poteva sembrare indelicato, oltre che inopportuno, ospitare i due fuggiaschi in una casa da sfollare.

Per un momento pensò di rivolgersi ancora all'amico Robusto, ma, da quando s'era intensificata la caccia ai partigiani, nei dintorni di casa sua c'era un via vai di tedeschi e di camicie nere che frugavano dappertutto, perfino nei pollai.

Avrebbe chiesto aiuto a Viligisto, un uomo coraggioso, discreto, riservato, gli avrebbe dato sicuramente una mano, ma poi si ricordò che, tempo addietro, il suo amico era stato arrestato insieme al parroco, al curato e al sacrestano per reiterata attività sovversiva e da allora s'era come chiuso dentro a un guscio, pieno di ombre e di paure.

Una faccenda delicata, meglio lasciarlo in pace...

E così si ritrovò solo e sconsolato a pedalare con rabbia in mezzo alle pozzanghere.

 

 

 

 

Quando fu al dosso di Tresivio, non se la sentì di affrontare la salita sui pedali. Prese la via dei vigneti e, con la bicicletta al fianco, s'incamminò per la tortuosa carreggiata che portava alle case.

L'aria, qui, sapeva di primavera e il bruno ocra dei prati stingeva già in colori tenui di verde e di viola.

Fumi radi di stoppie salivano dalle vigne, dritti, come gli incensi della purificazione, e stormi di gracchianti cornacchie si inseguivano per il colle beccando gromme di calcare dalle pietre dei muretti a secco.

Rocco si beava di questo inatteso anticipo di primavera e passava tra i vigneti, godendosi il tepore della campagna e quel sapore aspro di rasicce che gli metteva vigore.

Di tanto in tanto, si volgeva a guardare la campagna di Albosaggia ancora prigioniera della neve e ne traeva un'impressione d'irreale: due mondi opposti, tanto vicini e tanto diversi.

Anche il paese, oltre la sommità del colle dominato dall'antica chiesetta del Calvario, era adagiato nella sua bella conca di sole, ai piedi della pineta, già viva di suoni, di voli, di colori.

Per le strade, un chiassoso corricorri di ragazzini festeggiava il carnevale grasso: passavano mascherati di casa in casa suonando i campanacci, urlavano, ridevano, si lanciavano coriandoli, facevano sberleffi, e si rincorrevano per rubarsi i doni della cerca.

Rocco si lasciò distrarre dall'inconsueto spettacolo e andò a sedersi su un masso ai piedi del bosco, subito dopo le case.

Si fermò qualche istante a riposare e poté constatare con grande consolazione che la bicicletta si presentava ancora in buone condizioni. Solo qualche spruzzo qua e là, sui cerchioni e sui pedali: un danno facilmente rimediabile con un bel bagno alla prima fontana.

Stava per riprendere il cammino quando, appena sotto la strada, scorse un uomo con le spalle quadre che faceva rasicce in un campo di granturco. Gli pareva di conoscerlo.

Lo osservò attentamente e riconobbe l'uomo del mercato, quel tal Marino che gli vendeva il pollo a Pasqua e a Natale: i due ebrei, pensava, avrebbero potuto rifugiarsi temporaneamente da lui.

Non sapeva bene perché, ma sentiva che poteva fidarsi.

Portò le mani alla bocca e chiamò a gran voce il contadino finché questi non si accorse di lui.

- Sono Rocco, Marino, ci vediamo più tardi! - gli urlò da lontano.

Il contadino si tolse il cappello e gli fece segno d'aver capito, poi, svelto svelto, con l'aria un po' preoccupata, riprese a rivoltar la terra con la cenere dei fuochi.

Rocco tirò un sospiro di sollievo e riprese la via di Prasomaso, per una strada tutta a volte di fronde verdeazzurro e spicchi di cielo grigio.

Giunse ai sanatori stanco e frastornato, mentre il sole volgeva inesorabilmente al tramonto.

La guardiola era sguarnita: il custode sonnecchiava col berretto calato sopra gli occhi poco discosto dal cancello d'ingresso, e il primo istinto di Rocco fu quello di passare inosservato, evitando l'antipatica e compromettente trafila dell'identificazione. Un senso di disagio, però, lo tratteneva dal violare le rigide norme del villaggio.

S'avvicinò all'uomo e gli scrollò una spalla.

- Sono atteso da un medico - gli disse, abbozzando due colpi di tosse da asmatico, e, senza aspettare risposta, infilò il viale alberato del sanatorio.

Si ritrovò presto in un labirinto di viottoli e gradini che si perdevano nel verdescuro della pineta. Si sentiva disorientato e non sapeva dove sbattere la testa. Senza rendersene conto, si mise a seguire un'infermiera che saliva ancheggiando ai padiglioni: il camice bianco le cadeva morbidamente lungo la linea del corpo, mettendo in risalto due belle natiche tonde e polpose che s'inturgidivano e si rilassavano al ritmo cadenzato del passo.

La donna aveva intuito di essere osservata e andava via spedita, cercando di contenere il moto dei suoi morbidi glutei flottanti.

Non sembrava imbarazzata, e neppure infastidita, anzi, nel suo inquietante ancheggiare, nascondeva una sottile sensazione di voluttà. Si girò solo un attimo, prima di scomparire nel padiglione, proprio mentre Rocco inciampava in un cubetto di porfido, e sorrise divertita.

- Donna da pagliaio - sospirò Rocco, lanciando occhiate ai fianchi della giovane infermiera, e intanto cercava di immaginare dove potesse trovarsi Facciadipasqua.

Appoggiò la bicicletta a un pino e cominciò a guardarsi intorno: con quella giornata tersa e senza vento era certamente fuori a passeggio per la pineta.

Nel bel mezzo di un'aiuola, infatti, dove il sole posava sull'erba gli ultimi raggi d'argento, c'era un tipo immerso nella lettura di un libro: con quel testone a uovo non poteva essere che lui.

- Come va, signor Haar - gli chiese Rocco a bruciapelo, cercando di evitare lo sguardo altezzoso di una guardia che si avvicinava con espressione poco rassicurante.

Facciadipasqua aveva imparato a fingere per tante situazioni di disagio che aveva dovuto sopportare, e sapeva assecondare gli eventi.

- Tutto bene, grazie, c'è brava gente qui - si limitò a rispondere, ricambiando il saluto con una vigorosa stretta di mano.

Stava per chiamare Muna, ma fu trattenuto da Rocco che lo prese per un braccio e lo portò in disparte.

- Dovete fuggire oggi stesso, c'è l'ordine di deportazione per voi e per vostra figlia... non c'è tempo da perdere... - era imbarazzato e non riusciva ad esprimersi - scendete in paese e cercate del signor Marino, ci penserà lui...

Rocco si sforzava di sorridere per non insospettire la guardia e stringeva il braccio di Facciadipasqua con tale veemenza che il poveretto non poté trattenere una smorfia di dolore: dapprima trasalì, poi si liberò della stretta e assunse un'espressione desolata, d'impotenza.

Non diceva nulla, se ne stava a guardare nel vuoto con gli occhi lucidi e le labbra contratte in un sorriso di amara rassegnazione.

Si girò lentamente e sparì nel padiglione.

Rocco rimase in mezzo al viale a rimuginare i suoi pensieri con la rabbia che gli rodeva l'anima.

Alla guardia che s'era avvicinata a curiosare fra le canne della bicicletta, lanciò uno sguardo di vetro, raggelante. Con un gesto di stizza saltò in groppa alla bicicletta e si gettò nella pineta.

Ora vedeva gli alberi che passavano via veloci mostrando i tronchi resinosi e dritti, e sentiva una gran voglia di urlare e d'imprecare, di dare sfogo a tutta la sua ira: non si avvide di una grossa buca che ostruiva il passaggio e la infilò di prua.

La pozzanghera si aprì come una giara, schizzando fango sulle cromature della bicicletta, sul fanale, sul manubrio, sui pedali, sulla sella, e perfino sul vestito buono.

Era proprio il suo giorno sfortunato!

Avrebbe dovuto starsene tranquillo a casa sua e non impicciarsi delle grane altrui. Pazienza. Adesso c'era dentro fino al collo e non poteva tirarsi indietro.

Fu presto a casa di Marino.

Le campane della Santacasa suonavano a distesa come se dovessero disperdere la grandine, e Marino non rispose subito al suo saluto, intento com'era a ripulire l'aia dagli sterpi e dal fogliame.

- Salve Marino, ho bisogno del vostro aiuto - gli fece Rocco, scusandosi per la fretta.

Marino si levò il cappello e lo invitò ad entrare.

- Cosa posso fare per voi? - gli domandò, spingendolo in cucina.

Rocco era ancora agitato e andò a sedersi sulla panca accanto alla stufa. Quando riprese fiato, raccontò a Marino la storia dei due ebrei inseguiti dall'ordine di deportazione:

- Dovreste ospitarli per qualche giorno, Marino, solo il tempo di guardarmi attorno e trovare una sistemazione adatta - si affrettò a precisare.

- Per me, li posso anche aiutare - rispose Marino, versandogli del vino – anche se hanno messo in croce Gesù Cristo… comunque, se lo dite voi… - mandatelo giù che vi riscalda soggiunse, porgendogli il bicchiere.

Rocco se lo strinse fra le mani ancora dure di gelo e per un momento dimenticò i suoi problemi. Bevve a piccoli sorsi, con gli occhi al cielo, facendo schioccare la lingua, ma, quando Marino posò sul tavolo un piatto di formaggio vecchio, si levò di scatto e s’avviò alla porta.

- Non posso fermarmi, Marino, tra un po' c'è il coprifuoco - si giustificò, lanciando occhiate golose alle fette di formaggio - sarà per un'altra volta.

- D'accordo, v'aspetto, farò la polenta se vi piace...

Rocco annuì con aria distaccata, sapendo di non potere.

- Un momento, un momento - lo interruppe Marino, bloccandolo sull'uscio. Non poteva permettere che il suo ospite se ne andasse a mani vuote e lo pregò di attendere.

Rientrò in cucina e di lì a poco se ne tornò mostrando un mezzo braccio di salame stagionato che aveva preparato sul davanzale della finestra.

- E' del mio - disse sottovoce, avvolgendolo con cura in un foglio di carta grossa.

Rocco gli mandò un'occhiata di rimprovero, poi soppesò il salame tondo e polposo quanto un grosso sfilatino di francese, e se lo passò sotto il naso: ne pregustava già il sapore e sentiva un certo pizzicore in gola.

Non indugiò oltre, fissò il salame al mollettone del portapacchi, balzò sul sellino e partì.

- Arrivederci, Marino, è un regalone questo - salutò, pigiando sui pedali - a presto, e grazie di tutto - soggiunse infine senza voltarsi.

L'aria s'era fatta scura, gelida, tagliente.

Lontano, sotto una cappa di nuvole scure, brillavano le luci della città.

 

 

Era già buio quando bussò alla porta di Pasquale. Venne ad aprire Vincenzina avvolta nello scialle colorato che lei stessa s'era fatta con la lana di maglie disfatte.

- Pasquale dorme - gli disse subito - domattina va a Milano, deve alzarsi di buonora.

Vincenzina si rammaricava nel vedere Rocco pallido e infreddolito, e lo invitò ad entrare.

- Venite, vi preparo la mentuccia - soggiunse, tirandosi da parte.

Rocco rinunciò a malincuore. Ripassò la bicicletta con un cencio e la lasciò nel sottoscala. Intanto, pensava a qualcosa per imbonire Pasquale.

- Se va a Milano, potrebbe comperarmi il sale! - chiese sottovoce per non disturbare il sonno del suo amico - domani comunque vengo a ringraziare...

- Non fa nulla, non è il caso! - sorrideva Vincenzina, stringendogli le mani.

Rocco rimase un attimo perplesso, poi, spinto da un eccesso di scrupolo, decise di sacrificare il salame.

- E' per voi, me l'hanno regalato - continuò, porgendole il cartoccio.

Vincenzina non voleva accettare, ma dovette cedere alle insistenze di Rocco.

- Così mi sento meglio - sospirava Rocco, annusando per l'ultima volta il salame.

Lo lasciò nelle mani di Vincenzina e corse via.

- Per fortuna dorme - pensò, sbirciando la bicicletta inzaccherata nell'angolo del sottoscala.

 

Doveva essere molto tardi. I lampioni erano spenti, le case immerse nell'oscurità del coprifuoco. Solo qua e là, qualche luce abusiva filtrava dalle imposte socchiuse.

Ora Rocco se ne tornava per la strada buia e ascoltava lo scricchiolio dei suoi passi sul fango gelato.

Sciach, sciach... pareva uno sciacquio di onde contro la scogliera, e gli tornavano alla mente le barche della cala, all'imbrunire, lungo la pescaia, e il volo dei gabbiani nel cielo della sera, i pescatori in attesa di assalire il mare, e l'onda che batteva sulle chiglie con quel monotono sospiro di fatiche, di attese, di speranza.

Una nuvola passò sullo spicchio di luna e oscurò il cielo.

Rocco ebbe un brivido. Sollevò il bavero e seguì la sua ombra che scivolava sul fango.

Aveva appena superato gli orti della vecchia casa, quando spararono a raffica, all'improvviso: udiva i colpi delle mitragliette e vedeva il terriccio schizzargli vicino.

Con un guizzo si gettò nel roggione.

Un fiotto puzzolente gli riempì la gola : non poté evitare di inghiottirlo.

Non c'era pericolo di affogare perché il roggione era poco profondo, l'acqua gli lambiva appena i fianchi, ma in quel gelido concentrato di cloaca rischiava di beccarsi un infarto o un attacco di colera: s'aggrappò ai cespi della sponda e risalì la corrente fino agli orti della vecchia casa.

A un tratto s'imbattè nel ponticello d'accesso ai prati, tutto imbrattato di ragnatele ad erbe bavose. Ebbe un attimo di perplessità, poi affondò le mani nella putrida brattea e si infilò nel cunicolo. Vomitava e tossiva, mentre il puzzo gli mozzava il fiato.

All'improvviso, udì delle voci.

Si sporse per guardare meglio e sui cespi saponosi della sponda vide proiettarsi l'ombra minacciosa di una guardia che pisciava nel roggione.

Si rannicchiò nell'acqua e rimase in attesa, battendo i denti.

 

Facciadipasqua era un tipo intraprendente e al villaggio di Prasomaso s'era procurato un'occupazione da scrivano come aiutante addetto all'accettazione dei malati. Un'occupazione di ripiego, tanto per passare il tempo, s'intende. Come nessun'altra, però, si rivelava ora di grande utilità.

Dopo l'incontro con Rocco, infatti, Facciadipasqua s'era chiuso in ufficio e aveva cominciato a pensare al suo piano di fuga. Stava per abbandonarsi allo sconforto, quando, per caso, posò gli occhi sul blocchetto rosa delle dimissioni:

- O la va o la spacca - si disse, facendo gli scongiuri.

Prese penna e calamaio, riempì due moduli d'uscita in doppia copia con tanto di referto e prescrizione medica, vi appose il timbro del reparto e, dopo averli sottoscritti in qualità di addetto autorizzato, li infilò nel sacco insieme alle sue cose più preziose, e corse a prelevare Muna:

- Vieni, ce la filiamo, poi ti spiego ogni cosa…

Era euforico per la geniale trovata, ma ugualmente preoccupato: non poteva fallire, si stava giocando l'unica carta a disposizione per la salvezza sua e di Muna.

Calma e sangue freddo. In fondo, si trattava di affrontare con naturalezza la guardia all'ingresso dei padiglioni e ostentare la massima indifferenza.

Pensava di procurarsi un'arma nel caso avesse incontrato resistenza, si sarebbe sentito più sicuro, ma fu solo un momento di debolezza di cui si vergognò immediatamente.

Si presentò all'ingresso e mostrò i lasciapassare alla guardia. Un sudore freddo gli imperlava la fronte, ma fu pronto ad attribuire il fenomeno al suo precario stato di salute.

Solo allora si avvide del timbro capovolto e delle firme sghembe in calce ai moduli d'uscita.

Il solerte custode dell'ingresso, invece, non si accorse di nulla: esaminò i documenti con l'occhio esperto di chi sa riconoscere una firma a prima vista, trattenne le matrici di riscontro e le archiviò insieme agli altri documenti sopra lo scrittoio. Quindi, con la premura del caso, corse ad aprire il cancello, portò la mano alla visiera e, cercando di nascondere il suo sentimento di commiserazione, augurò buon viaggio agli ignari pazienti condannati dal referto a una fine scontata.

Muna e Facciadipasqua si presero per mano e, col cuore che ancora sobbalzava di paura, infilarono la pista dei borrai, giù per un vallone umido e buio che non prendeva mai sole. Soltanto quando i padiglioni di Prasomaso sparirono dietro l'abetaia, si fermarono a riprendere fiato in uno slargo tutto muschi e cortecce, ai piedi di un pino.

I passeri che beccavano le drupe di un pollone spinoso, volarono via spaventati e andarono a pigolare in alto, tra le muffe di un larice.

- Siamo alle case - segnalò Alfred dalla cima di un masso sul quale s'era arrampicato per orientarsi - andiamo, facciamo presto.

Si avvicinarono a un rudere. Doveva essere abbandonato da anni, muschi e rupicole avevano invaso i muri e il tetto sfondato. Poi, sopra un dosso, appena dopo una breve radura, apparve una piccola casa col comignolo freddo e senza fumo.

- C'è anche il fienile - esultò Alfred, sorreggendo Muna che faticava a scendere per quel sentiero ripido e stretto: un tappeto di aghi e foglie macerate rendeva viscido e insidioso il terreno.

Sembrava fatto apposta per loro quel fienile in mezzo ai castagni. Da una finestrella sotto l'architrave, si poteva controllare il prato, il sentiero, il bosco e le case.

Muna sprangò la porta e appoggiò all'anta gli attrezzi del fieno che erano lì. Quindi si sdraiò sullo strame e chiuse gli occhi.

Facciadipasqua, invece, era ancora agitato e aveva fame. Provò a rosicchiare una pannocchia lasciata lì da qualche anima benedetta, ma i chicchi di granturco erano troppo secchi e duri per i suoi poveri denti cariati. Ne usò gli stili per farsi una fumata, dopodiché si avvolse in un vecchio cappotto militare appeso a un chiodo della parete e si distese sul fieno.

Era una di quelle belle sere di favonio in cui devi inventarti i sogni per prendere sonno. Facciadipasqua aveva già contato tutte le foglie dello strame, i bottoni del cappotto, le travi del soffitto, le ragnatele, i chiodi sul muro, e ora tentava di rilassarsi, lasciandosi distrarre dai raggi della luna che filtravano dalle fessure del tetto: erano come tante stelle che si accendevano e si spegnevano nella volta del soffitto, una dopo l'altra, a intervalli regolari. Qualcuna resisteva più di altre e faceva brillare le pagliuzze di fieno sui legni del pavimento.

Riuscì a contarne cento.

All'improvviso, un bagliore dorato superò le ardesie sopra l'architrave, invase il tetto di ponente, e, nel riquadro della finestrella, apparve la luna col suo faccione dipinto a metà come le maschere di carnevale.

Facciadipasqua cominciò a contare le nuvole che le passavano davanti in processione, svelte, coi veli sfilacciati carichi di vento, poi, quando fu stanco di contare, si rannicchiò sul fieno e, in contemplazione della luna, s'addormentò.

Si svegliò di soprassalto, all'alba, scosso dal frastuono delle campane.

La campagna si stava liberando della bruma e un sole tondo e rosso come una grossa arancia matura salutava il pallido spicchio di luna che volgeva al tramonto.

- Vado a cercare quel tale – disse a Muna che lo guardava con occhi assonnati – accidenti, non ricordo il suo nome…

Indossò il cappotto militare che gli era servito da giaciglio, si caricò sulle spalle una gerla di fieno, tanto per nascondere le apparenze, e s'avviò alle case, lasciandosi guidare dal tintinnio dei secchi che veniva dalle stalle e dal lamentoso muggito delle vacche che chiamavano la monta.

Così abbigliato, non aveva certo l'aria del contadino, e una donna che abbeverava le mucche alla fontana, alla quale s'era rivolto per avere indicazioni, lo guardava con sospetto: Facciadipasqua le aveva chiesto di un tal Savino o Martino, non ricordava bene il nome, sapeva solo che abitava lì, da quelle parti.

In principio, la donna non gli dava confidenza e scuoteva la testa, poi, quando finalmente capì, prese per un braccio lo sconosciuto e lo accompagnò in cima alla via. Intanto gli raccontava dei suoi anni, della vita dura, del suo figliolo in guerra e di tante cose tristi che aveva dovuto sopportare.

- Come adesso, però, non ne ho mai viste - disse infine, portando le mani al viso - andate, non fatevi vedere - concluse in fretta, indicandogli la casa di Marino. Si avvolse nello scialle e corse via.

Marino era in giardino, stava potando i tralci di una pergola sopra l'androne.

Facciadipasqua non ebbe bisogno di presentarsi. Appena Marino lo vide arrivare con quella zimarra addosso, che barcollava sotto il peso del fieno, gli andò incontro e lo liberò dell'ingombrante fardello.

- Solo? – gli domandò.

- Mia figlia è ancora lassù – rispose Facciadipasqua, indicando la baita ai piedi del bosco.

- Ci penso io – lo rassicurò Marino, quindi affidò il suo ospite alle cure della solerte Elisa e partì alla ricerca di Muna.

Chiamò più volte prima di ricevere risposta, poi la vide venir fuori titubante e timorosa, con le vesti e i capelli imbricati di pagliuzze, e non poté trattenere un'espressione divertita: gli rammentava la sua Elisa, al tempo della mietitura, quando la portava a smorosare sui covoni di fieno. Erano passate parecchie stagioni da allora, ma il ricordo lo faceva ancora sorridere...

La signora Elisa, aveva preparato un bel tegame di latte caldo e lo servì col miele, il burro, e i crostini di pansecco.

- Oggi farò i pizzoccheri - disse infine, quasi per scusarsi della modesta colazione.

E all'ora giusta, tirò la sfoglia di grano saraceno, affettò i pizzoccheri, li mise in pentola con abbondanti verze e patate, li schiumò col ramaiolo e li versò nella teglia, mescolati coi pezzetti di formaggio magro. Quindi li innaffiò di burro fuso all'aglio e salvia, e li servì nei piatti caldi.

Marino portò dalla cantina il vino nuovo. Lo lasciò vicino al fuoco perché prendesse calore, e riempì i bicchieri fino all'orlo, facendo notare il colore rossofragola del vino e il suo profumo di uva matura.

Nella cucina calò il silenzio. S'udiva solo un ticchettio di piatti e di forchette svelte, e il gorgoglìo del vino che zampillava dalla brocca.

- Ci ricorderemo di questo pranzo - disse Muna con una punta di commozione - è stato preparato col cuore.

 

 

 

 

 

Il giorno seguente, il cielo si presentò coperto, con il colore delle cime innevate, segno che presto sarebbe caduta la neve. Nell'aria ne svolazzavano già dei fiocchi portati dal vento.

Rocco li guardava preoccupato dalla curva del sambuco mentre percorreva la via per recarsi in ufficio: chissà se gli scarponi dei suoi figlioli avrebbero sopportato un'altra nevicata.

Nel giardino dei tigli c'era Marino.

- Già qui - gli fece Rocco, mandando occhiate furtive alla soglia dell'ufficio.

- Non mi sento tranquillo - sussurrò Marino - si sono messi a rastrellare case e fienili, non so più che fare.

- Accidenti - biascicò Rocco facendo uno starnuto - venite, prendiamoci un caffè, qui tira aria malsana.

Starnutì più volte.

- L'altra sera m'hanno preso a schioppettate quelli della ronda, ho dovuto gettarmi nel roggione - si lamentò, cavando dalla tasca un fazzoletto che pareva un lenzuolo.

- Meglio un raffreddore che un viaggio al camposanto - rise Marino, ma si fece subito serio - 'sta guerra - sospirò, allargando le braccia.

Rocco si rammaricava d'avergli procurato tanto disturbo:

- Mi dispiace per tutto questo trambusto - replicò, come per scusarsi, ma non disse altro. Allungò dieci centesimi allo strillone che gli porgeva il giornale, e si infilò nel bar, salutando ad alta voce la signora Vera che riordinava i pasticcini nelle vetrinette del bancone.

- Un ambiente da signori - pensava Marino, tentando di fermare sotto il collo la camicia sbottonata: le sedie di faggio, i tavolini di marmo, le vetrate bianche, gli specchi lucidi e decorati, tutto quel luccichio di cristalli, gli ricordavano un certo bar, in Galleria, a Milano, in viaggio di nozze, con l'Elisa, che poi voleva le sedie uguali per il suo salotto. Ma nessuno le faceva più le viennesi e le era rimasto il desiderio.

- Sentite Marino - riprese Rocco, invitando il suo ospite a prendere posto al tavolino d'angolo - non c'è tempo da perdere, dovete portarli via oggi stesso.

Discussero a lungo e alla fine dovettero convenire che l'unico rifugio sicuro era la casa dei nonni, alla Segrada.

- E le guardie? - si preoccupò Marino grattandosi la fronte.

In effetti, c'era da percorrere un lungo cammino allo scoperto, col pericolo di incappare in qualche blocco stradale, Rocco se ne rendeva conto, ma al momento non vedeva altra soluzione.

- Le guardie, le guardie, quando occorre non ci sono mai - brontolò, mordendosi un labbro - passate per le vigne, non vi troveranno – soggiunse, senza nascondere il suo disappunto per l’inefficienza della polizia.

Dovettero interrompere la conversazione perché in quel momento venne la signora Vera portando un gran vassoio di cuccume e tazzine, coi cucchiaini e la zuccheriera d'argento: servì il caffè ben caldo e concentrato, come piaceva a Rocco, e aggiunse un pasticcino al cioccolato.

Marino si sentiva a disagio davanti a quel prezioso assortimento di chincaglie, e girava e rigirava il cucchiaino nella tazza, cercando di imitare i gesti del suo impeccabile accompagnatore.

Soltanto l'acqua, prima del caffè, gli sembrava una cosa fuori del normale e guardava con aria sconcertata l'impassibile Rocco che ne mandava giù un bicchiere intero senza battere ciglio: l'acqua, lui, la usava solo per lavarsi o per innaffiare la vigna quando c'era siccità. Semmai avrebbe gradito della grappa, ma non osò.

- S'è fatto tardi - fece notare a un tratto, indicando la pendola sul muro - e ho ancora da passare dal sellaio.

Rocco sgranò gli occhi:

- Ecco a chi dovete dirlo - scattò - al sellaio! Lui conosce l'uomo dei muli, mi capite, per passare il confine – soggiunse, e rimase a fissare Marino con uno sguardo acuto e penetrante che non ammetteva obiezioni.

- D'accordo, d'accordo, glielo chiedo - tagliò corto Marino, e si alzò per andarsene.

Rocco lasciò dieci centesimi sul marmo del bancone e s'avviò alla porta, spingendo per un braccio l'impacciato Marino che seguitava a inchinarsi e a voltarsi indietro a salutare. Fuori, se lo tirò vicino e gli puntò il giornale contro il petto:

- Dovete dirglielo, capito! - gli sussurrò con occhi spiritati.

 

 

Marino passò subito dal sellaio. Lo trovò che lucidava le fibbie col busetto e cantava una romanza di Puccini.

Si fermò sulla soglia ad ascoltare, poi entrò, e si mise a curiosare sul deschetto dove c'erano le pinze, le tenaglie, i martelli, e attrezzi d'ogni tipo.

Il sellaio aveva smesso di cantare e lo seguiva con la coda dell'occhio.

- Ho bisogno di parlare all'uomo dei muli - esordì Marino, prendendo un arnese fra le mani - se lo vedete, ditegli per cortesia che lo sto cercando,

Il sellaio gli tolse l'affilata mezzaluna dalle mani e si mise a fischiettare, continuando a intagliare un grosso foglio di corame.

- Quanto devo? - chiese Marino cercando la moneta nella tasca.

Il sellaio si alzò con uno scricchiolio secco di ossa, levò dal muro il basto con la borra e i finimenti rifatti, se lo rimirò con aria compiaciuta, e lo consegnò a Marino. Quindi mostrò due dita sopra il pugno e riprese a fischiettare.

Marino pagò venti lire e si sentì soddisfatto.

- Salve, Antonio, grazie per il buon lavoro! - salutò ad alta voce, caricandosi il basto sulle spalle.

Prima di uscire, si fermò sulla soglia e puntò l'indice in direzione del sellaio.

- Dovete dirglielo, capito!

- Mmh! - mugugnò il sellaio, e iniziò di nuovo a cantare.

 

 

Rocco aveva già notato qualcosa di strano nello sguardo di Savalli che se ne stava accucciato al bancone dell’ingresso con il capo piegato tra le mani e si era alzato a salutare senza il solito slancio benaugurante.

Pertanto, quando entrando nel suo ufficio vide il Primo Commissario Capo seduto alla scrivania che rigirava fra le dita la pallina di vetro colorato, si preparò ad affrontare una situazione a dir poco spiacevole.

- Sa già tutto – pensò, posando il sacchetto del pane nero nell’armadio.

Senza tanti preamboli, il Primo Commissario Capo gli fece capire che il momento era difficile ed era necessaria la collaborazione di tutti. Il superamento delle difficoltà era legato all'impegno di ciascuno. La politica perseguita imponeva sacrifici e decisioni anche gravi per il raggiungimento degli obiettivi stabiliti. Ad ogni costo!

Rocco, che temeva di essersi compromesso senza rimedio, tirò un sospiro di sollievo.

Fece per sedersi di fronte al superiore, ma questi si levò di scatto, ripose la biglia nel portaspilli, e s'avviò alla porta. Appoggiò la mano alla maniglia e si girò verso Rocco:

- Vi siete fatto la bicicletta nuova, ho saputo - si complimentò, guardandolo con occhi saettanti.

- Troppe lingue, dottore, troppe lingue - si difese Rocco trattenendo uno starnuto.

- Bene, bene, un giorno o l'altro me la farete provare.

 

 

Muna e Facciadipasqua lasciarono Tresivio alle prime luci dell’alba. Muna indossava un costume con il copricapo bianco e i calzettoni rossi, Facciadipasqua un panciotto tirolese e la mantella nera, mentre Marino sfoggiava un bel completo di velluto e il cappello a punta. Per sviare i sospetti, s'erano caricati sulle spalle un fasciame di giunchi e pannocchie di granturco.

Il momento più difficile fu quando dovettero attraversare il paese. Nonostante la buon'ora, le strade erano animate da un via vai di gente indaffarata e frettolosa, sembrava che tutti guardassero loro.

Soltanto quando infilarono la macchia di robinie ai piedi del dosso si sentirono al sicuro e poterono liberarsi dell'ingombrante fasciame.

Presero per un sentiero stretto e ciottoloso attraverso i vigneti, proprio mentre iniziava a cadere qualche fiocco di neve.

C'era nell'aria un che di indefinito, tra inverno e primavera, come un desiderio trattenuto di sbocciare: l'erba nuova faceva capolino sotto i cespi e la forsizia liberava timidi germogli tra le bugne rocciose delle vigne, e ovunque, tra i rovi, nel bosco, lungo i fossi, saltellavano i merli con la meraviglia giovane di chi va scoprendo il mondo, confusi e trepidanti per quella nevicata fuori tempo.

Muna osservava la campagna che si lasciava coprire dalla neve e si sentiva partecipe della stessa rassegnata sofferenza, come se la neve, oltre ai germogli, volesse soffocare anche i pensieri, le speranze, i desideri. Il sentiero che si perdeva nella luce diafana delle nuvole cariche di gelo, non faceva che accrescere la sua inquietudine per quella condizione di fuggiasca, prigioniera anche nell'anima di un destino incerto, senza colori.

Marino s'era caricato sulle spalle tutte le cose degli Haar e procedeva lentamente in un continuo saliscendi di viottoli e gradini. Di tanto in tanto si girava ad aspettare e indicava la chiesetta di sant’Antonio che s’ergeva snella e aguzza sui dossi del Grumello:

- Fino lì, poi riposiamo - ripeteva per incoraggiare i suoi compagni.

Muna si rallegrò quando infilarono un sentiero che puntava dritto a valle, ma dovette ricredersi presto. Inciampò nei rovi e scivolò sui sassi levigati dell'acciottolato.

Marino fu costretto a sostenerla fino al piano.

- Sant'Antonio guarda giù - mormorava, levando gli occhi alla chiesa del santo.

L'invocazione non rimase inascoltata e proprio mentre attraversavano la valle per portarsi al ponte sull’Adda, incrociarono il carro del borraio che rientrava dal lavoro in segheria.

Lo trainava un bardotto bolso e sgangherato che sbuffava e tossiva, mostrando i grossi denti arrotati e bavosi. Sul pianale, col cappello di traverso e un sacco di juta sulle spalle, sedeva il borraio. Andava a Feruda e chiese se volevano salire.

Muna non se lo fece ripetere. Si adagiò sul pianale e si addormentò sulla spalla del padre. Di tanto in tanto, quando il borraio faceva schioccare la frusta o il carro traballava troppo, apriva un occhio a metà e subito ricadeva nel sopore del sonno.

Presto cessò di nevicare e l'aria si fece più pungente.

Da un gruppo di case veniva odore di resine e di legna bruciata. Il fumo saliva dai camini, dritto, poi si sfilacciava sul bosco con colori celesti e bruni. Grosse stalattiti di ghiaccio pendevano dalla roccia come lunghe canne d'organo e gemevano e scricchiolavano.

All'improvviso, il bardotto prese il trotto, infilò un portico e si piantò a zampe divaricate nel bel mezzo di una corte.

Aveva il respiro pesante e le froge dilatate.

- Fine del viaggio - annunciò il borraio balzando giù dal carro - Napoleone ha fiutato la biada e non fa un passo di più. La sua razione, per oggi, se l'è guadagnata!

Marino e l'uomo del carro si scambiarono saluti a gran voce e pacche sulle spalle. Muna passò una mano sul muso del bardotto: lo salutò chiamandolo per nome, e lui ragliò.

Il bosco era già scuro. Un cumulo di cirri rosa e d'oro riempiva di bagliori il cielo di ponente. Gli uccelli stavano sui rami, zitti.

- Lo scorso anno, di questi tempi - iniziò a raccontare Marino - è venuta tanta di quella neve, ma tanta e poi tanta, che, di notte, le galline s'erano messe a beccare le stelle. Domani, però, farà bel tempo - concluse con aria da profeta, ma gli altri lo guardarono muti e si strinsero nelle spalle.

 

Rocco, intanto, attendeva al bivio, sopra i boschi di Feruda.

S'era fermato accanto a un gelso in compagnia di Toni, un tipo all'apparenza sempliciotto e stupido che abitava nei paraggi, ma in realtà arguto e perspicace come pochi.

Rocco lo stava osservando compiaciuto mentre rattoppava la trama sdrucita di un cavagno, quando, nel rado della boscaglia, intravide Marino che risaliva il sentiero.

Lasciò Toni a parlottare sotto il gelso e andò incontro ai suoi amici: erano sudati e stanchi, con gli occhi arrossati e lacrimosi per il freddo.

Offrì loro del brodo caldo che teneva nella borraccia e riprese a risalire verso il gelso, sorreggendo Muna che si lamentava per un fastidioso dolore alla caviglia.

All'improvviso, gli giunse dal bivio l'urlo di Toni che gesticolava, si sbracciava e si copriva il viso con le mani: non c'era dubbio, era un avvertimento.

Prese per un braccio Muna e si infilò nel castagneto.

- Seguitemi e state zitti! - ordinò sottovoce, dirigendosi verso un capanno mezzo diroccato. Li spinse nell'angusto nascondiglio e rimase in ascolto, mentre dal bivio venivano risate e sberleffi, e il lamento di Toni che s'arrabbiava e protestava animatamente.

Rocco si trattenne a fatica dal correre in suo aiuto, sapeva però che, a parte i lazzi di cattivo gusto, nessuno mai gli avrebbe fatto del male.

Poi, finalmente, un calpestio di passi e un vocio concitato di uomini annunciò la fine del divertimento: Rocco sbirciò da una fessura e vide una squadra di camicie nere che scendeva a Feruda discutendo sul modo di acchiappare al laccio l'anatra marzaiola.

Era in attesa che si allontanassero, quando udì il richiamo di Toni che segnalava dal bivio il cessato pericolo.

- Altro che stupido - pensava Rocco risalendo il sentiero, ma non sapeva spiegarsi come avesse potuto capire. Glielo chiese, quando lo raggiunse al gelso, un po' a parole e un po' a gesti.

Toni si strinse nelle spalle e sorrise.

- Non hanno santi, quelli - rispose con voce cadenzata e molle - meglio stare alla larga - e fece ciondolare il capo come i muli al morso in segno di ammonimento.

 

 

 

 

 

Da uno slargo con la quercia e il fontanile si dipartiva un sentiero stretto e sconnesso che portava a un gruppo di case coi tetti bianchi ancora carichi di neve.

- Siamo arrivati – disse Rocco indicando una piccola casa di sasso col comignolo vivo di fumo.

Nonno Auro attendeva sull'uscio con la sciarpa di seta intorno al collo e un berretto di lana grossa calato sulla fronte per ripararsi dalla sinusite. Intanto confabulava con un giovanotto armato di schioppo che scrutava la valle con un binocolo da teatro:

- E’ un partigiano, dice lui, passa sempre a quest’ora, si abboffa di fagioli, poi prende il binocolo di nonna Sara e spia il nemico - spiegò il nonno mentre il giovanotto riprendeva la via dei boschi – ma è tutta una scusa per farsi un piatto di fagioli…

Rocco gli presentò gli ospiti:

- Ve li affido per qualche giorno, padre - gli disse, lasciandogli dei soldi per le piccole spese - mi farò vivo appena possibile...

Nonna Sara aveva acceso un grande fuoco nel camino e stava rimestando il vino cotto. Muna l'abbracciò e le offrì un mazzetto di dulcamara che aveva raccolto nel bosco.

La nonna ammirò i rametti, li sistemò in un vasetto di coccio e li lasciò sulla mensola davanti al quadro della Madonna, insieme ai funghi, l’aglio, le cipolle, il barattolo di malva, la sveglia, la candela, il vino del nonno, e la foto di Saul, un suo figliolo arruolatosi volontario in marina, del quale, da troppi mesi ormai, non aveva notizie.

Fece per offrire il vino cotto, ma nonno Auro si parò in mezzo alla stanza.

- Gli uomini bevono del mio - esclamò con l'espressione di chi annuncia un evento solenne. Prese il suo mezzo fiasco di vino, un vino aspro, duro, di bassa gradazione, riempì i bicchieri fino all'orlo e brindò alla salute dei nuovi arrivati.

- L'ha fatto il Baltico con la sua uva - disse compiaciuto, senza badare che i suoi ospiti lo mandavano giù con una smorfia.

Facciadipasqua s'aggrappò al bordo del tavolo:

- E' buono, è buono - si affrettò a confermare quando s'accorse di essere osservato, ma appena nonno Auro accennò ad offrirne dell'altro, coprì il bicchiere con la mano e si versò dell'acqua.

Rocco ne assaggiò soltanto un sorso per rimettersi in forma, poi abbracciò la nonna e s'avviò alla porta. Doveva incontrare un tale, si giustificò, per vendergli il mobile di sala, una credenza di ebano antico intagliata a sbalzo. Il rigattiere l'aveva valutata bene.

La nonna ebbe un sussulto.

- No, quella no - supplicò, portando le mani al viso, e cercava di convincere Rocco a desistere e ad avere pazienza. Sarebbero arrivati tempi migliori. Rocco, però, allargò le braccia e se ne andò via con Marino.

 

All'ora di cena, nonno Auro si ripresentò col suo mezzo fiasco di vino.

- Per chi ne vuole - disse con aria di sufficienza, posando il fiasco sul tavolo.

- Non perde occasione per farsene un goccio - brontolò la nonna, scuotendo il capo.

Facciadipasqua ne accettò a malincuore mezzo bicchiere, ma alla fine dovette convenire che coi fagioli e le cotenne aveva un sapore diverso: il sapore dei grandi vini, commentò, e ne bevve anche Muna.

Quando sul tavolo non rimase più nulla da spartire, si riunirono tutti intorno al fuoco e il nonno lesse la lettera, l'ultima, che aveva ricevuto da Saul:

-... i miei compagni sono tutti scomparsi, chi sotto il tiro nemico, chi su navi affondate nel mare... - nonno Auro leggeva con voce ferma, si interrompeva solo per bere un goccio di vino - ...soltanto pochi giorni fa, mi ha sfiorato una scheggia e sono scampato a un terribile bombardamento nel porto ... dopo un anno, mi meraviglio di non essere ancora morto... - alcune parole erano state cancellate dalla censura o si erano perse nella piegatura del foglio.

Seguì un lungo silenzio mentre il nonno riponeva la lettera nella tasca interna del giaccone, poi Muna raccontò dei suoi giorni in Aprica.

Raccontò del generale Propawa che si ubriacava e mandava a svegliare le donne in piena notte per farle ballare, delle finte fucilazioni a cui veniva sottoposto chi si ribellava alle prepotenze dei brigatisti, delle esagerate pretese per un tozzo di pane, della pietosa opera di don Carozzi per proteggere i confinati dalle angherie dei polacchi.

- Don Giuseppe s'è dovuto inventare il malessere di Muna per farci trasferire - confessò Facciadipasqua, rallegrandosi per la furbizia del prete.

Nonno Auro ascoltava e scuoteva la testa.

- Che schifo di guerra - sospirava, rigirando fra le mani una rete da pescatore piena di nodi e di rattoppi.

Infine, prese sottobraccio il vecchio sintonizzatore a due valvole e s'avviò in solaio ad ascoltare indisturbato Moonlight Serenade di Glenn Miller con cui radio Londra iniziava la trasmissione dei suoi proclami.

In cima alla scala, si fermò, respirò profondamente, e:

- C'è bonaccia nell’aria stasera - disse, allungando un braccio come per tastare il cielo - domani si va per sarde.

Gli ospiti si scambiarono un'occhiata interrogativa.

- Gliel'ho detto mille volte che nell'Adda non ci sono sarde - intervenne la nonna scuotendo il capo - ma che volete, gli è rimasta la fissazione.

I mattoni sul camino erano caldi. Ciascuno ne prese uno, lo avvolse in un panno di lana grossa e andò di sopra a dormire.

Nonna Sara rimase sola. Gettò nella brace le bucce di limone che aveva usato per sgrassare le stoviglie, e subito nella cucina si diffuse un sottile profumo di agrumi, come al mare, quando fioriva la collina.

Ripulì il mazzetto di dulcamara, dopodiché s'inginocchiò davanti al ritratto di Saul e pregò.

Una lacrima le scivolò sul viso: l'asciugò con la mano e si ritirò nella sua stanza.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Non era stato facile per gli ospiti superare l'impatto gelido delle lenzuola e adattarsi ai cartocci di granturco del materasso. Con quegli spifferi dal tetto e lo scricchiolio delle foglie, sembrava proprio di stare in un fienile.

Poi, poco a poco, il calore dei mattoni e il tepore del fiato riuscirono a temperare il rigore del gelo e, a una cert'ora della notte, il sonno prese il sopravvento.

Il risveglio fu abbastanza sereno, nonostante l'iniziale senso di smarrimento e un bel reuma al collo e alla schiena. Facciadipasqua era ormai abituato a portarsi addosso qualche dolore di ossa, ma era così felice d'essere al sicuro che lo considerava quasi un privilegio.

Muna rimase ancora un poco sotto le coperte, poi si levò dallo scomodo giaciglio e scese in cucina, attratta da un intenso profumo d'orzo e dal crepitio del fuoco.

Nonna Sara aveva già pregato e stava preparando un intruglio di foglie macerate. Quando vide Muna che si trascinava zoppicando giù per la scala, la prese sottobraccio e l'accompagnò a sedere vicino al camino.

- E’ solo una piccola storta - mentì, mentre applicava l'intruglio alla caviglia di Muna.

Le fasciò il piede con una benda di lenzuola consumate e si offrì di accompagnarla da una donna del posto che guariva distorsioni ed altri mali con ungenti e miracolosi massaggi.

- Ha il fluido nelle dita - spiegò, mostrando il palmo delle mani tese - ma ai dottori non bisogna dirlo, si mettono a ridere

Nonno Auro e Facciadipasqua scesero poco dopo. Bevvero una tazza d'orzo e andarono a sbarbarsi insieme, nell'angolo del bacile.

Stavano ripassando il contropelo quando, tre colpi secchi e decisi ai vetri della finestra, li fecero sobbalzare sulla sedia.

Facciadipasqua per poco non si mozzava il lobo di un orecchio e rimase col rasoio a mezz'aria a guardare il volto di una donna col naso stemperato contro il vetro che chiedeva di poter entrare.

Nonna Sara si morse un labbro e corse alla porta.

- Venite avanti, Elvira, venite!

Elvira era una donna del paese un po' alla buona. Aveva avuto una questione con una vicina di casa e nel diverbio s'era lasciata sfuggire una battuta poco riguardosa nei confronti del duce. Per questo era stata arrestata e rinchiusa in galera.

Rocco aveva dovuto scomodare tutti i diavoli benedetti del suo commissariato per farla rilasciare: nelle argomentazioni della donna non aveva ravvisato alcun riferimento personale o intenzione d'offendere, quindi era intervenuto perché fosse liberata il giorno stesso.

Elvira si fermò sulla soglia alla vista di tanta gente e non voleva entrare.

- Venite, accomodatevi, sono amici nostri - la sollecitò la nonna, porgendole una sedia: sapeva di quel suo maledetto vizio di parlare troppo e non voleva destare sospetti.

- Ho solo da lasciare una cosetta e vado via - rispose Elvira, levando dal grembiule un vasetto di funghi sott'aceto - per il signor Rocco - soggiunse, mostrandolo con gesto cerimonioso.

- Elvira, Elvira! - la rimproverò la nonna - sapete che non vuole...

La donna posò i funghi sul tavolo e spiegò che li aveva raccolti nel bosco, sotto i castagni di casa sua.

- Quella ciambola d'una Teresa m'ha giocato proprio un bel tiro - prese poi a lamentarsi, sedendosi accanto al camino – se non era per il signor Rocco...

Nonna Sara sorrise.

- Cara la mia Elvira, certe cose non si possono dire, lo sapete ch'è proibito insultare il duce...

- Ma io l’ho detto così tanto per dire, senza intenzione - si giustificò Elvira allargando le braccia - va' a quel paese te e il tuo duce mica è un'offesa, per me...

- Proprio così, Elvira? - la stuzzicò la nonna, versandole dell'orzo.

Elvira cominciava ad alterarsi e cercava comprensione nello sguardo dei presenti:

- Non si chiedono sei lire per una gerla di fieno - aveva alzato la voce, ma, al cenno della nonna, si ricompose e riprese a parlare pacatamente - lo so ch'è il suo prezzo, ma le avrei dato del latte, o del burro, invece no, se lo vuoi è così, mi fa con superbia, è il prezzo del duce! Così le ho detto la mia...

- Lasciate perdere, Elvira, lo sappiamo, lo sappiamo - la interruppe giusto in tempo nonna Sara.

- Chi se l’immaginava che l’avrebbe riferito al gerarca. Sono venuti a prelevarmi in quattro, pensate, in quattro... con le manette! - protestò Elvira, accalorandosi.

- Eh sì, in effetti non si è mica comportata bene la Teresa, del resto lo sanno tutti ch’è un po’ taccagna e non dà nulla per nulla…- commentò la nonna, pensando di chiudere il discorso.

- Taccagna? - esplose Elvira - è una stro’ ecco cos'è! – urlò, agitando i pugni in aria.

Nonna Sara si coprì la bocca con le mani e stralunò gli occhi:

- Ora bevete l'orzo, Elvira, e state buona.

Elvira tirò un sospiro e finì di bere, poi strinse al petto nonna Sara e si avviò alla porta.

- Vò a vedere se c’è posta del mio uomo – disse fermandosi ad ammirare un cesto di limoni sulla mensola della credenza – forse me lo rimandano a casa, sapete, ha un piedone così e non ci sono scarpe della sua misura – rise di gusto, passando un dito sulla scorza liscia e dorata di un limone.

- Sono di Sorrento, li tengo lì così, hanno un buon profumo – spiegò la nonna – ne volete, sono buoni – infilò due limoni in un sacchetto di carta, poi, prese la donna per un braccio e se la tirò vicino – vi prego, Elvira, non dite nulla di questi nostri amici, mi raccomando…

Elvira incrociò due dita sulla bocca:

- Sono una tomba - sussurrò, baciando la croce tre volte, e se ne andò via di corsa, sorreggendo con le mani le lunghe vesti di cotone nero.

 

Negli orti fioriva la forsizia. La si vedeva farsi avanti a macchie giallo oro sui crinali della montagna, sovrapponendosi e sfumando nella nebbia ovattata dei colli.

La campagna, ancora prigioniera della luna di febbraio, si riprendeva poco a poco dal sopore invernale e liberava il verde dei germogli in un contrasto di cieli azzurri e cime innevate.

Facciadipasqua seguiva il lento evolversi della stagione e attendeva il giorno della partenza cercando di rendersi utile per non pesare troppo sull’ospitalità dei nonni: raccoglieva legna nel bosco, piantava trappole per lepri, zappava orti e dava una mano a un contadino anziano che turava con la biuta i buchi dei meli. Insomma, si guadagnava la giornata.

Aveva conosciuto Nieto, un ragazzino pieno di perché, che li sparava a raffica, uno dietro l'altro, e voleva sapere di tutto.

Stavano bene insieme: Nieto se lo portava per le selve di Bricera e Mantegone o alla chiesetta di San Giacomo, in cima alla montagna, da dove si poteva vedere anche la Svizzera.

Lassù, c'era ad aspettare un uomo con il basco nero e un cappottaccio militare lungo fino ai piedi: veniva fuori dalla neve all'improvviso, afferrava Nieto per i fianchi e lo teneva alto sopra il capo a rimirarselo e a farlo sgambettare. Poi gli infilava nelle tasche un biglietto scritto a lapis e spariva nuovamente nella neve.

Nieto non aveva mai rivelato chi fosse e Facciadipasqua se ne guardava bene dal porre domande.

I segreti, però, non durano a lungo e più son grandi, più presto fanno il giro delle contrade. Se poi si vuole portarli a conoscenza di tutti nel più breve tempo possibile, è sufficiente raccontarli ad una Elvira di turno con la raccomandazione di tenerseli per sè e di non farne parola con nessuno.

E così fu: tutti in contrada, Facciadipasqua compreso, sapevano che l'uomo dal basco nero era il padre di Nieto. Era partito per l'Albania quando Nieto era ancora piccino, ma, dopo i fatti di settembre che avevano ridimensionato le idee e il destino degli uomini, s'era dato alla macchia.

Aveva vagato per giorni e giorni attraverso le campagne dell'Albania e della Jugoslavia sfidando il fuoco dei serbi, dei croati, degli armeni, con il solo pensiero di tornare al suo paesello in Valtellina.

Ce l'avrebbe anche fatta, sennonché, alle porte di casa, quando già sembrava conclusa l'avventura, era stato ripescato dai tedeschi e rispedito al fronte.

A combattere contro chi non l'aveva ben capito, ma era riuscito a fuggire di nuovo insieme ad altri compagni che poi avevano cercato rifugio nella vicina Svizzera.

Lui aveva preferito restare vicino alla sua famiglia e s'era unito ai partigiani accampati in cima alla montagna.

Un motivo più che serio per rispettare quel segreto e Facciadipasqua ne aveva abbastanza del suo per interessarsi di quelli altrui. Quindi stava al gioco e fingeva di non sapere.

E quando non saliva a Mantegone insieme a Nieto, si ritirava sul muretto del viottolo e lasciava correre lo sguardo sull'Adda, sui tetti scuri della città, sulle contrade di piccole case abbarbicate alla montagna, a mucchi, come greggi di pecore all'ammasso: sembravano disegnate apposta per ammorbidire il tratto aspro della montagna e regalare momenti di contemplazione dopo il lavoro duro nei campi.

Di tanto in tanto, lanciava un'occhiata alle cime innevate della Valmalenco con le nuvole cariche di vento che si sfilacciavano a mezz'aria come mani protese sulla vicina Svizzera, e allora provava un senso di impotenza e di sconforto, come se il destino della sua misera vita fosse segnato nel profilo di quelle impervie montagne.

Finché, all'ora del sole, veniva una ragazza dai capelli rosso rame e sciacquava i panni al ruscello del prato: la sua bellezza aveva il fascino primitivo della donna circassa e i suoi capelli, raccolti in una morbida treccia sul collo, avevano i riflessi del larice, d'autunno, quando esplode in colori di fuoco.

Facciadipasqua si accucciava tra la quercia e il fontanile e l'ammirava da lontano: s'era invaghito dei suoi occhi, dei suoi capelli, del suo corpo giovane, eccitante come il temporale, prorompente come la campagna d'aprile.

Non conosceva il suo nome e non osava neppure avvicinarla.

Un giorno si fece coraggio e la salutò:

- Avete dei capelli bellissimi - le sussurrò, vincendo a fatica l'emozione.

Lei fece un vezzo e si chinò sul mastello, mostrando i seni turgidi e pieni attraverso l'ampia scollatura della camicetta.

Ora non sembrava più tanto giovane e le sue labbra rivelavano un temperamento forte e passionale.

Ma perché vestiva sempre di nero?

 

 

 

Ci sono giorni in cui guardi il cielo e speri che sia una giornata migliore di ieri. Poi vedi che è sereno e che non c'è nulla di nuovo: azzurro, azzurro e sole, ovunque.

Sembra illogico e assurdo lamentarsi di una giornata di sole. Talvolta, però, vorresti vedere il cielo carico di nuvole e sentire lo scroscio dell'acqua sui tetti o soltanto quell'odore di pioggia che mette voglia di casa.

Così pensava Facciadipasqua quando decise di parlare a Rocco: erano tutti gentili in quella casa, affettuosi, premurosi, ma appena accennava alla guida che lo avrebbe accompagnato oltre confine, si coprivano il viso con le mani e facevano sospiri.

Da troppo tempo se ne stava ad aspettare senza avere spiegazioni!

Così, un bel giorno, zitto zitto, senza dire nulla a nessuno, infilò il sentiero basso e in pochi minuti fu alle case del Porto.

Proprio in quel momento passava una squadra di giovani soldati.

Marciavano e cantavano spensierati.

Li guidava un comandante alto, magro, senza baffi, con la camicia nera, il fez, e il novantuno. Veniva avanti impettito e agitava lo stiletto in aria per battere il tempo.

All'istante, Facciadipasqua pensò di fuggire, ma preferì non dare nell'occhio e, con aria distratta, si mise a gettare sassi nel fiume: plop, plop, l'Adda se li succhiava uno dopo l'altro, guizzanti e luccicanti, e riprendeva il suo sciamare frettoloso e scuro tra i pioppi della riva.

Il suono dei passi si faceva sempre più vicino: vrramm, vrramm, vrramm.

Facciadipasqua si rimproverava di avere sfidato il fato venendo fino lì. Avrebbe dovuto starsene buono buono a casa dei nonni come aveva ordinato Rocco.

La fuga da Prasomaso era cosa vecchia e dimenticata, ma la foto segnaletica col suo inconfondibile profilo a uovo era ancora appesa alle pareti degli uffici di polizia insieme a quella di altri ricercati: lo avrebbero riconosciuto e gettato nel fiume.

Già sentiva l'acqua gorgogliare in gola e le narici dilatate che cercavano l'aria.

I soldati gli erano ormai vicini. Facciadipasqua si girò a guardarli con la coda dell'occhio.

Per un istante, a vederli così fieri e allineati, provò quasi un sentimento di ammirazione e dimenticò perfino che gli erano nemici, poi non potè evitare una reazione di rabbia e di paura: gli occhi del comandante avevano un guizzo indagatore che non lasciava dubbi.

Si appoggiò a una pianta e finse di scrutare nell'acqua: non voleva vedere quando gli avrebbero scaricato addosso i colpi del moschetto. Sperava di essere colpito subito al cuore e di non patire troppo tra i gorghi del fiume.

Intanto, il comandante aveva notato il fare circospetto dell'uomo sulla riva dell'Adda e richiamò all'ordine i suoi soldati: quel tipo dalla testa calva e bistonda assomigliava proprio a un intrigante ispettore tedesco del quale conservava un ricordo poco piacevole.

- Ci osservano, ragazzi, state in riga - disse gonfiando il petto, e riprese a scandire il tempo con voce secca e dura - Unò, duè, unò...

Facciadipasqua si vergognava della codardìa che lo assaliva ogniqualvolta si trovava in situazioni di pericolo. Raccolse quel poco di coraggio che gli restava dentro e si girò verso i soldati.

Ora non poteva mostrare indifferenza, almeno un gesto di considerazione lo doveva, anche solo per nascondere le apparenze.

Fece un passò avanti e applaudì.

Il comandante rimase un attimo perplesso, poi s'impettì, sfoderò un perfetto saluto romano in onore del fantomatico ispettore tedesco, e ordinò l'attenti.

I soldati scattarono come molle, ruotarono i loro volti fieri in direzione del loro ammiratore e, con un colpo secco di tacchi, batterono il piede sul fango: vvrramm!

Facciadipasqua sentì come una ventata, mentre un brivido di gelo gli correva per la schiena.

Ora non provava più né rabbia né paura, e neppure ammirazione. Sentiva solo un grande vuoto dentro.

Mamma Neve s'era affacciata alla finesta per seguire la sfilata dei soldati e vide Facciadipasqua che se ne veniva mogio mogio lungo la riva del fiume, e lo chiamò.

- Venite dentro, signor Rrarr, venite dentro per carità!

Gli fece posto accanto alla stufa con le piastre belle rosse di fuoco e proseguì nelle sue faccende: stava preparando il pane bianco per festeggiare il compleanno di Barbarina. Divise in quattro l'impasto che teneva sotto una salvietta umida sul tavolo, abbozzò dei panini, vi tracciò sopra una croce, e li infilò nel forno.

- Barbarina compie tre anni - spiegò a Facciadipasqua che sedeva immusonito nell'angolo della legna con le braccia appoggiate allo schienale delle sedie a fianco e faceva ballare nervosamente una gamba.

Mamma Neve cercò di imbonirlo.

- Una tazza di caffè? - gli chiese, sperando che rifiutasse.

Facciadipasqua sorrise, ma subito si rabbuiò.

- Cos’è questo frastuono, lo sentite? - corse alla finestra e trasalì - aeroplani - esclamò, affacciandosi a guardare il cielo.

Dovevano essere nemici perché le batterie contraeree avevano aperto il fuoco e facevano un gran fragore di botti. Si vedevano le nuvolette scure degli scoppi attorno alle eliche, e le bocche dei cannoni che sparavano a ripetizione dalla boschina dell’Adda, dai prati, dal frutteto dietro la vecchia casa.

S'era scatenata in pieno l'offensiva dell'artiglieria contraerea. Perfino dai balconi, qualcheduno, dava una mano ai tedeschi sparando in aria coi moschetti della grande guerra.

All'improvviso, gli aeroplani virarono sopra la montagna e sganciarono un'infinità di piccoli paracadute che si aprirono nel cielo come tanti ombrelli bianchi: i più raggiunsero l'obiettivo sopra la montagna dov'erano accampati i partigiani, altri, spinti dal vento, planarono nei campi o sulle case della città. Uno finì proprio sulla riva del fiume, davanti alle case del Porto, ed ebbe inizio l'assalto.

C'era di tutto nel sacco, per tutti: farina, cioccolato, caffè, biscotti, sigarette, zucchero in zollette, latte condensato, pasta, carne in scatolette.

I ragazzi, invece, si contesero le corde e la seta del paracadute.

Finché, dalla strada, giunse una voce roca d'arrabbiato: un soldato col moschetto a tracolla e l'elmetto alle ventitré veniva urlando in groppa a una grossa bicicletta nera. Si parò davanti al sacco ormai svuotato, urlando e sbracciandosi come un matto: raus raus! Lo ricompose alla meglio, lo caricò sul manubrio e se lo portò via.

Le donne, però, avevano arraffato abbastanza, rientrarono nelle case con i grembiuli gonfi e sembravano soddisfatte.

- Gli americani si stanno avvicinando - commentò Facciadipasqua che era riuscito a rimediare un cioccolato e due pacchetti di sigarette, ma non finì la frase perché, proprio in quel momento, entrò in casa Rocco: appena vide Facciadipasqua fece un gesto di stizza.

- Come ve lo devo dire, signor Haar - lo aggredì fissandolo negli occhi da vicino - volete proprio rovinare tutto!

In quei giorni, tra l'altro, i partigiano avevano rapito un milite dei servizi segreti tedeschi, l’avevano trascinato nei boschi, interrogato, e quindi rispedito in caserma in un sacco di juta. I tedeschi l’avevano presa male e s'erano scatenati in una caccia all'uomo senza precedenti.

Non era certo il momento di mettersi allo scoperto inventandosi bravate di quel genere.

- Sono stufo, non ci resisto più - sbottò Facciadipasqua stringendo i pugni - non è vita da uomini, questa!

Rocco si accorse di essere stato troppo duro:

- Non è ancora tempo, dovete avere pazienza, la montagna è troppo innevata, presto si farà vivo l'uomo dei muli, l'ha promesso...

Mentre parlava, il suo sguardo cadde sul pacchetto di sigarette.

- Vedere?

Facciadipasqua fece per aprire il pacchetto, ma Rocco gli fermò la mano.

- Neanche per sogno, voglio solo vedere!

Così dicendo portò il pacchetto al naso e aspirò.

- Le americane, le americane! - esclamò, ma si ricompose subito - adesso andiamo, non è prudente per voi restare qui.

Prese due scatolette di carne e un cartoccio di farina bianca che mamma Neve aveva lasciato sul tavolo per i nonni, diede un'occhiata fuori, e fece segno a Facciadipasqua di seguirlo.

Camminarono in silenzio, uno dietro l'altro, per un lungo tratto, poi, in mezzo al bosco, si fermarono per riprendere fiato.

- Vedete, signor Haar, sono momenti difficili - disse Rocco sedendosi sul muretto che costeggiava il sentiero - ci sono spie e guardie dappertutto, dovete capirmi - sul suo volto si leggeva ancora l'espressione di contrarietà per il comportamento di Facciadipasqua - abbiate pazienza, tutto s'aggiusterà per il meglio.

Si interruppe quando s'accorse della presenza di due uomini col berretto da muratore che facevano colazione in uno slargo del bosco.

Il più anziano aveva cavato dallo zaino un fiasco di vino rosso e beveva a garganella sotto lo sguardo compiaciuto del compagno che masticava formaggio e pane nero.

- Salute - gli fece Rocco passandogli vicino.

Quello sgranò gli occhi e annuì, ma non smise di bere.

Rocco proseguì per l'acciottolato pensando a quel suo maledetto vizio di preoccuparsi di tutto e di tutti.

- Un bel pasticcio - brontolò, tirando un calcio a un ramo secco, ma all'improvviso gli venne in mente la bimba dalle trecce bionde - sarà bene che avverta per tempo anche quei poveretti - si disse grattandosi il capo.

Si girò verso Facciadipasqua e gli fece segno di aumentare il passo.

 

Il piano di fuga che avrebbe portato Muna e Facciadipasqua oltre confine era ormai alle battute finali: era stato progettato con cura assieme all'uomo dei muli che, per la sua attività di portatore d'alta quota, era considerato un esperto di sentieri e di valichi alpini.

Sarebbero passati attraverso le montagne della Valmalenco: così alte e impervie erano ritenute inaccessibili ai più, anche alle pattuglie addette al controllo della linea di frontiera, soprattutto d'inverno.

La partenza era stata rinviata più volte, prima per le bizze del tempo, poi per l'inasprimento dei controlli in prossimità del confine, e da ultimo, a causa del blocco posto dagli svizzeri all'ingresso di ebrei nel loro paese.

Ora, con la luna crescente e il progressivo assestamento della neve, si presentavano le condizioni favorevoli per effettuare la lunga e difficile traversata.

Il segnale giunse quasi inatteso, all'improvviso.

Rocco se ne stava sui gradini dell'ufficio ad ammirare col Primo commissario capo la preziosa architettura di villa Tavelli, quando, all'altro lato della via, comparve Marino che teneva per le briglie un giovane avelignese dalla chioma bionda: faceva l'indifferente, come se non si conoscessero.

- Buono, Archimede, buono, buono - borbottava, sbirciando in direzione di Rocco: se aveva qualcosa da riferire, non aveva scelto né il luogo, né il momento adatto.

Rocco mosse appena la mano per fargli cenno d'aspettare, ma lui gli mandò un'occhiata furtiva come per dire che non era il caso e che preferiva non farsi notare.

Il Primo commissario non s'era accorto di nulla e seguitava a dare prova della sua cultura, soffermandosi a descrivere le finestre e i balconcini della villa, tutta stile veneziano, con le balaustre e la torretta di marmi policromi, e la scalinata che s'affacciava a ventaglio sul parco alberato del giardino.

- Dovreste vedere dentro, una cosa unica - concluse infine, girando le spalle ai tigli.

Rocco approfittò di quel momento propizio e, puntando lo sguardo su Marino, corrugò la fronte e si grattò il mento: qualcosa, forse, non andava per il verso giusto?

Marino lo tranquillizzò con un gesto del capo e cominciò ad articolare le labbra, sillabando le parole a bassa voce: l'uomo dei muli aveva trovato la persona giusta, disposta a far da guida per passare il confine, si poteva partire.

Rocco confermò d'aver capito, quindi sollevò i sopraccigli e sgranò gli occhi per domandare quando.

Marino non poteva dirlo con certezza. Volse lo sguardo al cielo e si chiuse nelle spalle.

- Do po do ma ni - scandì sottovoce, accompagnandosi con un movimento rotatorio dell'indice - forse - soggiunse, e fece un segno per confermare che, se non c'erano problemi, restava tutto come stabilito.

Rocco abbassò le palpebre e annuì.

- Che avete, non vi sentite bene che stralunate gli occhi? - lo interruppe il Primo commissario capo stringendogli un braccio.

- No, è questo riverbero di sole che m'acceca, andiamo a prenderci un caffè, ve l'offro io - divagò Rocco, salutando Marino con un'occhiata.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Quel giorno il sole si affacciò sulle case tiepido e discreto, sforzandosi di superare i pini alti e dritti sul crinale della montagna.

L'aria era umida e fredda.

Gli alberi stavano immobili sotto la bruma come vecchi silenziosi nella piazza del paese, mentre il mattino posava i suoi colori stinti sul fiume, sui prati, sull'ardesia dei tetti, sui colli velati di nebbie fumose.

Facciadipasqua passeggiava fra la quercia e il fontanile, nervosamente, con la faccia buia. Era d’accordo d’incontrarsi con Nieto, ma lui non s’era fatto sentire, era salito a Mantegone per non vederlo partire.

Apparve invece la ragazza dai capelli rosso rame, veniva dal prato frustando una mucca ostinata e la spingeva verso la stalla.

Facciadipasqua pensò di fermarla e le fece un cenno agitando un braccio in aria, ma lei si infilò nel vicolo e sparì dietro le case.

Ritornò di lì a poco, stringendo al petto un panone di castagne avvolto in un panno di tela bianca.

- Per il vostro viaggio – sussurrò, posandolo nelle mani di Facciadipasqua. Si sollevò sulla punta dei piedi e abbracciò Facciadipasqua, poi corse via senza mai voltarsi.

Lui la seguì con lo sguardo mentre s’allontanava e rimase a fissare il vuoto finché il calpestio dei passi non si perse nel vicolo.

 

Nonna Sara aveva pregato, aveva sistemato i semprevivi davanti al quadro della Madonna ed ora trafficava intorno al fuoco per la colazione del mattino: una colazione sostanziosa e abbondante più del solito. In un fagotto aveva preparato la scorta di cibo per il viaggio.

- La vostra merenda - disse, posandolo sul tavolo – anche una porzione di polenta fredda e due limoni se vi vien sete...

Nonna Sara parlava per nascondere la commozione. Di tanto in tanto si avvicinava a Muna e le accarezzava i capelli come per conservarne il ricordo anche nei sensi. Chissà se il tempo e gli anni e la bontà del Signore le avrebbero concesso di rivederla ancora.

Fecero colazione in silenzio, quasi si sentivano i loro pensieri. Poi, dal vicolo, venne un suono di passi ed entrò Rocco. C'era anche mamma Neve con due rosette di farina bianca.

- Dobbiamo sbrigarci - disse Rocco, scusandosi per la fretta, ma doveva rientrare in ufficio al più presto.

Facciadipasqua aveva una faccenda da sbrigare e chiese di assentarsi soltanto un attimo:

- Torno subito - disse avviandosi su per le scale.

Ritornò di lì a poco con la sua sacca gonfia di cose, frugò sul fondo e ne cavò un cartoccio grosso come un buon cavolo e lo depose nelle mani di Rocco.

- Un piccolo ricordo - sfarfugliò con gli occhi bassi. Avrebbe voluto fare un discorso, ma non gli venivano le parole.

Rocco lo aprì in fretta, era contrariato per l'ulteriore perdita di tempo, ma subito si bloccò con quella cosa in mano e un'espressione di stupore e meraviglia stampata in viso. Si girò verso i presenti e mostrò un portagioie d'argento tutto incastonato di smeraldi e rubini.

Mamma neve sgranò gli occhi. Da quei gioielli poteva ricavare abbastanza da vivere agiatamente per tutto il tempo della loro esistenza. Dopotutto se lo poteva anche meritare: se ne stava tutto il giorno a sbarazzare, stirare, cucire, lavare e cucinare, e alla sera, stanca e mezza morta di sonno, doveva pure ricambiare le moine di Rocco. Si girò verso il camino e cominciò a rivoltare la brace con l'attizzatoio: sapeva che Rocco non l'avrebbe accettato e non voleva guardare.

- Avete fatto tanto per noi - balbettò Facciadipasqua, cercando di vincere la commozione.

Rocco rigirava il portagioie fra le mani e lo mostrava a tutti. All'istante non s'era reso conto del cruccio di mamma Neve e commentava con ammirazione la finezza degli intarsi e il taglio delle gemme.

- Guarda, guarda - le diceva, ma lei seguitava a soffiare sul fuoco e a girargli le spalle: possibile che non s'era mai chiesto come potesse tirare avanti con quella miseria che le passava per la spesa. Ogni giorno doveva fare i salti mortali...

Il ricavato del mobile s'era perso in abiti, scarponi e cose varie, e lei seguitava a farsi sempre più magra e stecchita, mentre le mogli dei suoi colleghi avevano tutte la donna di servizio e potevano imbellettarsi e andare anche al caffè, ogni tanto, ad esibirsi coi loro mariti.

Rocco capì che non era il momento di scherzare. Con gesti lenti, studiati, per non sembrare scortese, incartò il regalo e lo restituì a Facciadipasqua:

- Ascoltatemi bene, signor Haar…

- Potreste chiamarmi Alfred? – lo interruppe Facciadipasqua.

- D’accordo, volentieri… ora però dovete ascoltarmi – Rocco rimase un attimo in silenzio – Vi ringrazio Alfred per la vostra generosità, ma dovete capire, io non posso accettare - si scusò, fissando l'ebreo da vicino - davvero, vorrei che fra noi restasse tutto come prima, credetemi, non posso proprio - poi, accortosi che Facciadipasqua s'era fatto cupo - forza, facciamoci un bicchierino, alla nostra amicizia.

Mamma Neve volle fare ancora un tentativo: quel portagioie avrebbe risolto i problemi di tutta la loro vita, potevano farsi anche una casetta con la camera tutta per loro e l'orto fuori della porta, una fortuna così non le sarebbe capitata mai più.

- Non vedi che ci resta male - provò ad insistere, seguitando a stuzzicare il fuoco con l'attizzatoio, ma non ebbe risposta.

Si avvicinò alla finestra e si strofinò gli occhi col polsino della maglia.

Nel prato zirlavano i tordi e un cane pastore spingeva la mandria nella tagliata.

Per la strada saliva sbuffando Archimede.

- Addio nonni, spero di riabbracciarvi presto - disse Muna congedandosi, e raggiunse Marino che controllava i finimenti del cavallo - andiamo, sennò mi metto a piangere - lo sollecitò, lanciando uno sguardo a tutti.

Per l'occasione, Marino s'era procurato un calesse e sfoggiava un costume coi calzoni di mezzalana, il panciotto rosso di Gandino e un vistoso paio di bretelle a strisce gialle e blu. Nello zaino aveva cibo e vino per quel giorno.

Prima di partire, chiese di poter usare il gabbiotto accanto al trogolo: per rimettersi in ordine, disse con garbo.

Fece buona scorta di paglione, caricò i fagotti sul carro, quindi, con uno schiocco secco di frusta, spinse al trotto il giovane avelignese.

- Andiamo Archimede!

 

 

 

Rocco s'era portato in avanguardia alle case del Porto e attendeva sul ponte dell'Adda in compagnia di Robusto.

- Ho promesso una trota alla mia Anna - gli diceva Robusto, indicando un grosso pesce argentato che si strofinava contro i sassi della riva, ma Rocco era distratto.

- Cos'è ti sei incantato? - lo riprese Robusto, spingendolo col gomito.

Rocco si scusò, era preoccupato per tanti fatti incresciosi accaduti negli ultimi tempi.

- Siamo proprio un branco di lupi - si amareggiava, stringendo la ringhiera del ponte.

- Di lupi, Rocco, ce ne sono ovunque, da sempre - sentenziò Robusto gonfiando il petto.

Poi, dalla strada venne il calpestìo di Archimede e il cigolìo del calesse.

Rocco segnalò ch'era tutto tranquillo, si congedò da Robusto e con un balzo prese posto a cassetta.

Si lasciò portare fino alle prime case della città, poi scese a terra e scortò il carro per le vie del centro: non si sentiva tranquillo, assillato da un brutto presentimento.

Nella piazza del mercato, infatti, in mezzo a un via vai di donne che si lamentavano dei prezzi alti, si ergeva prepotente la figura di una guardia: passava in rassegna i cavagni allineati lungo i muri delle case e controllava i documenti dei passanti.

Qualcuno si stringeva nei panni per tentare di passare inosservato, ma la guardia gli puntava l'indice contro, lo spingeva al muro e lo tartassava di domande.

In città lo chiamavano Lucifero per quel suo accanimento contro i poveri diavoli: se erano solo diavoli, si limitava a farli angustiare, ma se erano anche poveri, se li lavorava allo spiedo come braciole e non li lasciava in pace finché non leggeva nei loro occhi angosciati il segno della sottomissione più completa.

- Voi state zitti, semmai gli parlo io - disse Rocco fra i denti.

La guardia, invece, non li degnò di uno sguardo. Aveva rivolto le sue attenzioni ai seni prosperosi e tondi della pollaiola che offriva uova di giornata in un angolo della piazza.

Dalle bancarelle s'erano accorti della sua distrazione e ne approfittavano per vendere a braccio e dare spinte alla bilancia, giusto per rimediare al calo della merce e alle pretese della guardia che aveva imposto un dazio tacito sulle vendite, pena il ritiro della licenza.

Si davano tutti un gran da fare per sfruttare quel momento favorevole, quando la guardia si fece seria, scattò sull'attenti e portò la mano alla visiera.

Zittirono tutti, portandosi contro i muri: dal vicolo, veniva un funerale col carro di terza classe e un solo prete che borbottava litanie.

C'era poca gente al seguito. Gli ultimi del corteo parlavano fra loro e gesticolavano compostamente, mentre i bambini dell'orfanotrofio con le teste rasate e le divise nere camminavano per due, pallidi e imbronciati, e ripetevano con voce monotona e strascicata i piagnistei della suora.

- E' Gelsomina - sussurrò la pollaiola, coprendosi i seni col grembiule.

Dal campanile salivano i rintocchi del requiem e, nell'aria azzurra carica di sole, volavano in cerchio i colombi della piazza: volavano bassi sul carro e garrivano.

D'un tratto, da un porticato buio con le ragnatele appiccicate ai muri, sbucò il gatto soriano con l'occhio guercio: si affiancò al carro e, a passi corti e svelti, si unì al corteo, seguito a poca distanza da un nugolo di gatti miagolanti.

Rocco si soffermò qualche istante a considerare su quelle immagini, poi attese il momento propizio e fece segno a Marino di passare.

Salutò, evitando vistose effusioni, e rimase a guardare il calesse che spariva nel vicolo.

 

Sotto la strada sfilavano le case della città coi tetti di abbadino e i muri storti.

Muna si portava dentro quel senso di nostalgia che accompagna le partenze definitive, come un filo legato alle persone care: ora le tornavano alla mente gli sguardi, le voci, i sorrisi, ora i gesti e i volti, dapprima distinti, poi confusi e indefiniti, come avvolti nella nebbia.

Chiuse gli occhi.

Le pareva di rivedere nonna Sara nell'angolo dei fiori e ripensava alle sere intorno al camino con quel profumo caldo di resine e ceppi infuocati...

Lanciò uno sguardo alla montagna di Albosaggia con le contrade grigie sparse sopra i dossi: sembravano così lontane, adesso, senza colori, quasi senz'anima.

Il calesse si infilò nella valle.

La chiesetta di san Bartolomeo e il monastero di san Lorenzo disegnavano profili di architetture antiche sopra le vigne del poggio, e il Masegra stagliava contro l'anfiteatro della città le sue torri massicce e squadrate.

Muna si sentiva scivolare via, come se una mano la strappasse dal passato, dagli affetti, dai ricordi: un senso di abbandono, quasi di solitudine, la coglieva da dentro mentre le montagne si stringevano sulla valle, irte di boschi e di pietraie.

Dalle Cassandre del Mallero veniva lo scroscio dell'acqua e aria di neve.

La città spariva lentamente dietro il colle.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

SECONDO CAPITOLO

 

 

 

 

"Il camoscio bianco"

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Quella mattina, Tom si levò prima dell'alba, come ogni volta, quando la luna si faceva piena.

Lanciò un'occhiata fuori: contro il cielo del nevaio screziato appena di nuvole rosa, gli parve di vedere un camoscio che scendeva all'abetaia con l'aria greve e melanconica di una notte di gelo.

Dalla sua baita ai piedi del bosco poteva seguire il movimento dei camosci lungo i crinali della montagna e ogni volta si rammaricava per quel loro continuo migrare in cerca di nutrimento.

Pensava di rifornirsi di fieno, uno dei giorni a venire, di portarne lassù un bel sacco pieno e posarlo bene in vista tra i mughi della plaga. Lo doveva. Dopo tutto si assomigliavano, lui e i camosci, entrambi così inquieti e soli, sempre ad inseguire qualcosa da una montagna all'altra della valle.

Una taccola beccò ripetutamente alla finestra. C'era anche Martino, il merlo del bosco: ciangottava a piena gola per annunciare la fine dell'inverno e teneva d'occhio Gioele, il vecchio gatto, che lo fissava dalla cassapanca con occhi golosi.

Tom sbriciolò del pane, ne lasciò una manciata sul davanzale della finestra, e gettò il resto a un volo di passeri che faceva chiasso sul tronco cavo dell'antica quercia.

- Bello - pensò, affacciandosi a scrutare il cielo: la giornata era propizia e l'aria né troppo fredda né troppo molle, l’ideale per una bella camminata dopo la lunga sosta invernale - Preparati pigrone! - disse poi rivolto a Rocky che se ne stava con la pancia all'aria nell'angolo della legna.

Rocky era l'ultimo di una generazione di pastori addetti alla transumanza del bestiame, ma, dacché il casaro l'aveva abbandonato per mancanza di mucche, s'era dovuto adattare a un ruolo di ripiego e, senza scuola e senza vocazione, s'era ritrovato cane da valanga.

Capì che stavano iniziando le sue tribolazioni e mosse appena le orecchie, seguitando a leccarsi il pelo come se la cosa non lo riguardasse: il suo concetto di montagna era ancora legato al verde dei pascoli e al tintinnio dei campanacci ed ora, a pancia vuota e mezzo addormentato, pensava con sgomento alle situazioni in cui si sarebbe ritrovato con il suo spericolato padrone.

Tom accese il camino, appese la cuccuma del latte alla catena, e si abbandonò alle carezze del fuoco.

Gli piaceva seguire le faville che si rincorrevano per l'aria con quel guizzo allegro di lucciole, calde e vive di ardore: se ne spegneva una, e cento altre nascevano dai ceppi per svanire subito nel nulla in un brulicare di sussurri, sommesso e misterioso come un ciaccolare di comari.

Si accorse appena in tempo che il latte traboccava.

Preparò la zuppa, riempì due tazze per Rocky e per Gioele, dopodiché andò fuori sulla pietra dell'uscio a gustarsi con calma la sua colazione.

Sulla cima di Scerscen volteggiavano sbuffi di neve, sottili, come nembi fumosi, ma non se ne preoccupò.

Quando nel bosco si fece abbastanza chiaro da distinguere gli abeti, decise di partire. Caricò lo zaino, salutò Gioele, e raggiunse Rocky che attendeva al dosso del sentiero alto, accanto al pino mugo.

- Una bella arrampicata è quello che ci vuole! - gli disse per consolarlo.

Aveva conosciuto una cagnetta, Rocky, proprio su quel prato: la cagnetta più allegra e giocherellona che avesse mai incontrato, dolce e attraente da far drizzare il pelo anche ai castratelli. Gli avrebbe dato i cuccioli più belli del paese se il casaro non avesse seminato quel veleno dietro la topaia.

Era sepolta lì, accanto al pino mugo.

Dopo un anno, Rocky ancora non si dava pace e seguitava ad aspettare, a correre sul prato, ad annusare l'erba, a rotolarsi dentro il fosso.

Delle volte, prendeva la fuga, se ne stava via giorni e giorni, per poi ritornare con la coda fra le gambe alla baita di Tom: la montagna, la fatica, e quel vivere vagando tra le cime lo aiutavano a dimenticare.

Tom era padrone esigente, ma comprensivo. Viveva lì da sempre, con il suo cane, il gatto, la quercia, la montagna e i suoi pensieri.

E a sera, quando l'aria si copriva di silenzio e di luna, si stendeva sulla pietra dell'uscio e correva con la mente sul bosco, sul fiume, sui ricordi, sulle case piccole e grigie dove c'era Valentina.

Rocky si accucciava accanto a lui e ascoltava: i pensieri di Tom non erano diversi dai suoi.

 

 

 

Tom s'incamminò per il sentiero alto.

La brezza, sui rami, faceva un suono sommesso, come di un battere d'ali.

Dalle contrade ancora immerse nell'ultimo sonno, veniva il rintocco delle campane, da ognuna il suo, distinto, talvolta triste, talvolta gioioso, come l'animo della gente.

La casa di Valentina era sotto la luna.

- A quest'ora dorme - pensò Tom, sbirciando fra le case buie.

L’aveva vista lì, la prima volta, Valentina: s'era fermato a dissetarsi alla fontana, sotto il suo balcone, e incontrò i suoi occhi.

- T'aspetto al muretto dell'orto - le aveva sussurrato una domenica, uscendo dalla messa.

Valentina era venuta col vestito bianco della festa e correva, ma alla vista di Tom, s'era messa a camminare piano, affettando indifferenza.

Così, finché ci furono domeniche buone a primavera.

Al fiume c'erano andati soltanto d'estate, dopo la festa del paese. C'era il falò, la luna piena e una chitarra che suonava. La luna s'era fatta tonda e grande, così grande che il fiume non riusciva a rispecchiarla tutta.

La baciò fra le ginestre e fu come tuffarsi in acque chiare, fra isidi e gorgonie di un grande mare.

Il chioccolio di un fringuello distolse Tom dai ricordi. Lui rispose con zufoli corti e acuti, ma quello gli fece ancora un suono che non seppe ripetere. Allora lo lasciò in pace e proseguì.

Era impaziente di raggiungere il nevaio.

 

 

L'alpe s'apriva fra dossi di neve e respiri di prato, e i colchici, sottili schiere di calici bianchi, annunciavano prossimo l'avvento della buona stagione. Ma era presto per chiamarla primavera.

Tom sfilò la piccozza, saggiò la consistenza della neve, e risalì il breve canalone che immetteva al ghiacciaio. La neve era soffice e compatta come la terra del prato. Intorno, un azzurro intenso, carico di sole.

Improvvisamente, in quell’azzurro, si stagliò la cresta del Bernina, turgida di neve: s'era spogliata delle nuvole per farsi ammirare, e Tom, ancora una volta, si lasciava incantare.

Le donne del paese la chiamavano sirena per la sua sfrontatezza, la guardavano con occhi ostili e le mandavano maledizioni perché s'era presa tanti loro figli e mariti.

Tom si liberò degli occhiali per cogliere meglio la forza di quella bellezza unica e irripetibile, ma non poteva resistere al riverbero del sole e dovette coprirsi nuovamente gli occhi. Si soffermò ancora un poco su quelle immagini, poi proseguì per il passo di Fetz.

Da qui correvano le gobbe rosa e d'oro del Glüschaint, le ripide dorsali delle Selle, le rocce di Däcimals, e laggiù, verso oriente, immersa in un abbaglio di riflessi argentati, la cupola tonda e massiccia del Sella col piccolo bivacco di lamiere arrugginite sopra i torrioni della crepacciata.

Tom guardava quelle rocce ripide e crude e sentiva un desiderio irrefrenabile di stringerle, tastarle, accarezzarle, di respirare quel loro profumo giovane di muschio e di sole, ma la montagna così innevata gli incuteva un certo timore e non riusciva a decidersi.

- Vieni - gli diceva la montagna - vieni, sono tua.

Tom udiva quella voce ammaliatrice e pregustava già il piacere della roccia nuda, così viva e pura nella rinnovata verginità di primavera.

Non poteva rinunciare.

Cercò un appiglio e spinse Rocky lungo il dirupo, facendo muro al vuoto col busto e con le spalle.

In breve conquistò il crinale. Si sentiva un tutt'uno con la montagna, come la roccia che affiorava dal nevaio, come la nuvola che galleggiava sull'Argient, come il camoscio che correva sulle balze dorate di Entova.

Da giorni attendeva quel momento, immaginando lo scricchiolio dei passi sulla neve gelata, il sapore dell'aria cruda, le cime bianche cariche di sole: se le sentiva così profondamente vive dentro da provare una sensazione quasi materia della loro presenza.

Per quel giorno poteva ritenersi soddisfatto.

Stava per superare le rocce di Däcimals e portarsi sulla cupola tonda e massiccia del Sella, quando, prima lontano e via via più vicino, un sibilo acuto superò i bastioni e si propagò per l’aria come un urlo di paura.

Tom si fermò ad ascoltare: sembrava tutto così tranquillo!

Soltanto il sole aveva assunto una colorazione opaca, quasi metallica, e, sulle cime più alte, correvano sbuffi fumosi che si perdevano nel grigioazzurro dell'orizzonte.

Per poco, finché, dalle gole di Scerscen, vennero nuvole nervose cariche di vento. La montagna sparì dentro le nubi e il nevaio si coprì di nembi bianchi che galoppavano sui dossi, mulinavano nell'aria, graffiavano la roccia, urlavano e fischiavano come cento violini scordati.

Tom era incerto se proseguire o ritornare sui suoi passi.

Troppo tardi.

Si ritrovò nella tormenta senza rendersene conto. Un nevischio gelido e pungente lo aggrediva dal cielo, dalla valle, dai crinali, e lo costringeva a piegare il capo.

Barcollò. Non ebbe neppure il tempo di puntare la piccozza e finì in fondo al costone.

Tentò invano di rialzarsi. Un cumulo di neve farinosa e molle lo serrava in una morsa di gelo, si appiccicava al viso, alle mani, ai panni, e non gli dava respiro.

Tom annaspava e scalciava come un mulo per uscire dalla sacca nevosa, e più si torceva per venirne fuori, più si sentiva scivolare giù, risucchiato dallo stesso nevischio viscido e attaccaticcio dal quale tentava di liberarsi.

Finalmente trovò un punto d'appoggio. Si abbandonò alla neve fino a farsi coprire, poi, misurando le forze, si diede un gran colpo di reni e, con un grido spezzato, si rimise in piedi.

Allora venne il vento di favonio, soffiando e infuriandosi come un uragano: era lui, soltanto lui, il dominatore incontrastato delle cime e non poteva permettere che altri violassero così sfacciatamente il suo territorio. Si avventò sull'intruso e, a colpi di scudiscio, diede sfogo alla sua ira.

- Arrogante, sei un presuntuoso arrogante! – gli urlava gonfio di rabbia. Lo afferrò per la schiena e lo spinse nuovamente nella neve.

Rocky seguiva la scena dall'alto del crinale e osservava il suo sprovveduto padrone impegnato nell'impari lotta per uscire dalla sacca nevosa. Senza il suo aiuto, poteva rimanere lì fino al disgelo. Infilò un canalone e si fermò accanto a Tom, abbaiando con insistenza.

Tom se lo sentiva vicino, ma non poteva vedere. Attraverso le palpebre semichiuse, riusciva a distinguere appena un'ombra confusa. Si aggrappò a quell'ombra e si tirò su. Era stravolto e avvilito e si guardava attorno come un animale ferito.

Per la prima volta si sentiva offeso, beffato, umiliato: l'uomo poteva tradire, la montagna no.

- Femmina, la montagna è femmina, prima o poi ti tradisce! - ogni volta che tornava a casa vivo e indenne dalle sue escursioni, gli anziani del paese, che erano saggi e avveduti e ne avevano viste tante più di lui, lo ammonivano con la solita cantilena, dicevano che non doveva avventurarsi in montagna da solo, doveva portarsi un compagno, ma lui nicchiava e non voleva saperne perché la montagna se la portava dentro, nell'anima, come una cosa sua, e in montagna ci andava quando e come voleva lui, senza tanti impicci e fastidi.

Ora Tom provava un senso d'angoscia: sentiva gli occhi pesanti come quelli d'un vecchio cieco, le mani contorte come rami di garbice, la bocca arsa e le labbra dolenti.

Doveva muoversi o il gelo lo avrebbe avvinto in una morsa mortale. Avanzò a capo chino, cercando un segno che potesse indicargli la direzione del bivacco. Ricordava un masso di dolomia lì vicino, non doveva essere lontano.

- In ginocchio... devi metterti in ginocchio! - il vento seguitava a tormentarlo e gli gettava addosso spine di nevischio - strisciare, devi strisciare - lo aggrediva dai fianchi e lo frustava con i suoi artigli di ghiaccio.

Tom s'era infilato in una cuna e si copriva il viso con le mani per non farsi accecare, ma il vento aveva aggirato il crinale e lo attendeva in cima al dosso. Con una folata improvvisa gli fece ingoiare una manciata di nevischio:

- Furbo, non sei abbastanza furbo! - seguitava a sghignazzare. Il vento aveva chiamato a raccolta tutte le nuvole del passo e si preparava all'assalto finale.

- La tua ora... è giunta la tua ora - urlava minaccioso, e spingeva nuvoloni di neve, agitandosi e gonfiandosi come un mare in burrasca.

D'un tratto, Tom avvertì la presenza del vuoto. Puntò la piccozza e vide nettamente l'ombra di una voragine sotto di lui, livida e profonda come il cratere di un vulcano.

Un piede malmesso, un indugio, e il crepaccio lo avrebbe inghiottito come un cartoccio di rifiuti.

Fece per chiamare Rocky, ma si rese conto di non poter parlare. Gli veniva una voce roca, distorta, gutturale.

Sentiva odore di sangue e di sale nelle narici. La sete gli mordeva la gola.

Che tristezza! S'era sempre immaginato una morte dolce, fra le braccia di una montagna amica che lo cullava in un sonno di neve.

- Non sono ancora pronto, montagne, per morire. Oggi no, oggi non mi siete amiche...

Il vento sembrò quietarsi e per un istante tornò la calma.

Tom ne approfittò per cercare un riparo, ma non vedeva altro che dossi, seracchi e le fauci spalancate dei crepacci in agguato.

Avanzò carponi tra due piccole dune e trovò una nicchia, non troppo grande, ma sufficientemente ampia per sottrarlo alla furia del vento. Poteva finalmente fermarsi a riposare, solo pochi istanti se non voleva ricadere nelle maglie del gelo: giusto il tempo di rammaricarsi della sua imprudenza e delle pietose condizioni di Rocky.

In verità, non sapeva crucciarsi più di tanto perché altre volte s'era ripromesso di non trascinare Rocky in avventure azzardate, ma il rischio e il pericolo gli procuravano un senso di esaltazione, quasi di piacere, come fossero l'apice conclusivo di una bella escursione, e più difficile e faticosa si presentava la salita, più ne godeva il suo spirito irrequieto, sempre alla ricerca di nuove emozioni.

E poi, quel poco di sofferenza che ne poteva avere, lo distoglieva dal ricordo di Valentina, unico vero tormento della sua solitudine.

Se ne stava accovacciato nella nicchia in attesa d'una schiarita, quando, tra sibili e ululati, da un angolo del nevaio denso di nuvole dove neppure il sole riusciva a fare luce, gli giunse distinto un clangore di lamiere: alle sue povere orecchie strapazzate dal vento sembrava musica armoniosa e sublime.

Si sporse a guardare fuori e vide una sagoma scura, un grosso spuntone che si stagliava contro il grigio del cielo.

Riconobbe subito la finestrella sul retro del bivacco, il tettuccio a cupola, la bandierina congelata alla fune del pennone, rigida e bianca come un osso di seppia.

Non se l'aspettava così vicino, tutto avvolto nella neve, con le corde d'ancoraggio incrostate di ghiaccioli: sembrava un veliero nei mari dell'Alaska. S'aggrappò al collare di Rocky e si trascinò alla porta, mentre il vento tentava ancora di bloccarlo, spingendolo verso le rocce scivolose del dirupo.

Al riparo dal vento, si sentì immerso in una calma improvvisa, irreale, quasi un senso di liberazione, come fuori da un incubo.

Si appiattì contro il bivacco per gustare meglio quell'attimo di tranquillità, poi sollevò la spranga ed entrò.

Il sibilo della bufera sembrava così lontano da dentro. Il clangore delle lamiere e il cigolio delle funi avevano un suono gradevole, ristoratore.

Si liberò dello zaino, racimolò dalla mensola qualche pastiglia di meta, e accese il fornello. Quindi si rannicchiò sulla fiamma, cercando ristoro nella flebile vampa fumosa che saliva dal braciere.

Rocky, invece, s'era accucciato nell'angolo, accanto alle brande, e guaiva. Dai suoi grandi occhi cisposi traspariva uno sguardo afflitto, pieno di rassegnazione.

Di tanto in tanto, lanciava un'occhiata in direzione del suo incauto padrone, languida, quasi di rimprovero per i patimenti subiti, poi riprendeva a leccarsi il ventre tutto grumi e croste di nevischio.

Tom prese la coperta di una branda e gliela strofinò sul pelo: avrebbe voluto spiegargli che al piacere della montagna si aggiungono spesso tribolazioni e fatiche, e che nulla è più appagante di una conquista sofferta, ma era certo che non sarebbe stato compreso.

Stava per ritornare al fornello, quando, in un momento di pausa della bufera, nel breve silenzio che segue al fragore del vento, colse un lamento che veniva dall'angolo buio del bivacco.

Si chinò per vedere meglio e, tra le coperte di una branda, scorse il viso pallido e tondo di una giovane donna: aveva un'espressione triste da sofferente, e dormiva.

Al momento decise di lasciarla riposare.

- Un bell'impiccio - pensava.

Con la neve della finestrella riempì una pignatta ammaccata e nera, la posò sul fuoco, e preparò il tè. Dopodiché andò a sedersi sulla panca e a piccoli morsi si mise a masticare una cipolla.

Fuori, il vento urlava ancora la sua rabbia e faceva tremare il bivacco.

 

 

 

 

 

Tom si avvicinò piano alla ragazza.

Stette un poco a guardarla prima di posarle la mano sulla fronte: alla luce della candela, poté notare la bellezza viva e matura del suo viso, il turgore delle labbra piene, i capelli corvini morbidamente adagiati sul guanciale di lana cruda.

Lei trasalì al contatto della mano ruvida e fredda di Tom, sgranò i grandi occhi neri e si ritrasse nell'angolo.

- Andate via, lasciatemi stare! - singhiozzava in preda alla paura.

- Ehi, che ti prende, mica sono un orso - fece Tom tirandosi indietro - mi sono riparato qui per la bufera, cosa faccio, torno fuori?

La giovane sembrò quietarsi, ma seguitava a fissare Tom con occhi pieni di sgomento: se ne stava incantucciata sul guanciale con gli abiti discinti e sgualciti, mostrando appena il profilo del seno turgido e tondo come le bugne innevate del Glüschaint.

I capelli scompigliati le conferivano un aspetto malinconico e aggressivo nello stesso tempo. Soltanto lo sguardo aveva un guizzo sfuggente che non si lasciava afferrare.

Tom ritornò al fornello, deciso a starsene buono per conto suo, poi, preso da un improvviso senso di pena, versò del tè nella tazza che egli stesso aveva usato per bere e lo offrì alla giovane: era caldo e fumante e spandeva un profumo intenso di spezie.

- Tieni, viene dalla Svizzera - disse per rincuorarla. In altre circostanze l'avrebbe mandata inesorabilmente a quel paese, ma qui, a tremila metri - chissà come c'era arrivato quassù quel piccolo diavolo scatenato - si sentiva investito di inevitabili responsabilità.

Lei abbozzò un sorriso, ma ancora non riusciva a liberarsi dal senso di paura che la tratteneva nell'angolo buio del bivacco.

Strinse al petto quella manciata di provvidenziale calore e bevve a piccoli sorsi, facendo sbuffi e sospiri di sollievo. Intanto guardava di sottocchio il suo compagno di bivacco che ripassava con un cencio il pelo di Rocky.

A vederlo come si preoccupava del suo cane, non doveva essere malvagio: dopotutto, cercava di aiutarla e di essere gentile.

- Non volevo essere scortese - disse con un filo di voce quando ebbe finito di bere - ma dovete capirmi, mi sveglio e me ne trovo uno nella stanza...

- Nella stanza! - fece Tom sempre più stupito - cos'è, l'hai presa a fitto?

Non sopportava le persone complicate, lo rendevano nervoso, come le rocce brulle e spigolose di Scerscen: nascondevano sempre sorprese e grattacapi.

Fece un giro intorno allo sgabello e ritornò accanto alla giovane. "donna di città - pensava - da prendere coi guanti".

- Mi chiamo Tom - disse con aria di circostanza - mi dispiace, non volevo spaventarvi.

Lei ebbe un attimo di esitazione.

- Potete continuare a darmi del tu, se credete - ma non disse il suo nome.

- Purché sia reciproco - rispose Tom senza entusiasmo.

Stette un poco a guardarla, poi riprese a fare domande.

- Allora, che ci fai quassù? - chiese ancora, mostrandosi meravigliato - mica sei la Barnaby che se ne andava tutta sola per le cime in cerca di guai…

- Però ci sono - tagliò corto la ragazza. Sapevano di amaro quelle sue parole, se ne rendeva conto, ma le circostanze la costringevano a stare in guardia - parlami di te, piuttosto, sono curiosa - soggiunse per rimediare.

Tom cominciava a sentirsi in difficoltà, ma non lo diede a vedere:

- Abito in una contrada quaggiù, faccio la guida - rispose con aria di sufficienza.

Lei sussultò.

Non poteva capitarle di meglio, ma doveva saperne di più:

- Come mai non sei in guerra? - chiese con una punta di sarcasmo.

Tom accusò un senso di disagio, come se il suo contributo alle ragioni del paese non fosse abbastanza nobile e rischioso da meritare almeno un po' di considerazione.

- Mi usano per i soccorsi o per guidare i soldati in montagna - rispose dopo qualche istante di silenzio - accompagno anche i cacciatori, se occorre, però, non sempre dove vorrebbero loro - soggiunse divertito.

La ragazza rimase con la tazza a mezz'aria pensando a qualcosa da dire, ma non le veniva in mente nulla. Si affidò alla cosa più banale e prese a lamentarsi del vento che urlava e voleva trascinarli di sotto.

- E' solo una sfuriata, poi si calma - rispose Tom con distacco, poi, stanco di quella noiosa pantomima, si parò davanti alla ragazza e la fissò dritto negli occhi:

- Non si viene fin quassù, d'inverno, senza un buon motivo... stai fuggendo, vero? - le chiese a bruciapelo.

Lei s'irrigidì. Sentiva lo sguardo di Tom penetrare i suoi pensieri, ma non voleva cedere.

- Quanti anni ha? - divagò, accarezzando la schiena di Rocky.

- Proprio non ti fidi, vero... arrangiati allora! - reagì Tom con un gesto di stizza.

La ragazza chinò il capo e non rispose. Si levò dalla branda, sciacquò la tazza nell'acqua del secchio e la posò sulla mensola. Poi si avvicinò a Tom, fino a sentirne il fiato.

- Perché dovrei? - replicò, ostentando una improvvisa e disarmante disinvoltura.

Il suo corpo sprizzava calore come le rocce del Roseg in una giornata di sole.

Tom si appiattì contro i ferri della branda.

- Non credi che potrei aiutarti?

- Forse, non so...

- Comunque sia, da sola non ce la puoi fare – la ammonì Tom, lasciandosi andare sulla branda.

Lei rigirava il fazzoletto fra le dita e non riusciva a sbloccarsi, chiusa com'era in quel suo guscio di sospetti e di paure.

Finalmente si decise a parlare.

- Mi chiamo Muna - disse con un sospiro, e in breve raccontò della sua fuga e delle innumerevoli peripezie per raggiungere il bivacco.

- Tutto procedeva bene - continuò, mettendosi seduta accanto a Tom - poi, di punto in bianco, l'uomo che ci faceva da guida ha cominciato a fare strani discorsi. Per quattro miseri soldi non se la sentiva di rischiare la vita: prima ha preteso un aumento, poi voleva i gioielli, poi...

Muna parlava sottovoce, evitando i particolari, come per timore di offendere o di non essere creduta.

- S'è scatenata una zuffa e mio padre l'ha colpito col bastone - riprese a raccontare dopo qualche istante di esitazione - lui urlava, urlava e bestemmiava come un forsennato: me ne torno giù, non voglio più saperne della vostra storia...

Tom s'era ammutolito: soltanto ora aveva la conferma di certe voci che circolavano in paese, ma si riferivano a loschi individui che non avevano nulla a che fare con la gente di casa sua.

Provava comunque un senso di vergogna per quanto era accaduto.

Si girò verso Muna e la fissò dritto negli occhi.

- Chi è? - domandò, afferrandola per un braccio: doveva smascherarlo e trascinarlo in galera.

Muna sussurrò un nome.

- Non so altro - soggiunse - mio padre lo chiamava così.

Tom si consolò: doveva trattarsi d’un forestiero, di uno di quei loschi trafficanti che campano sulle disgrazie altrui. In ogni caso non era roba di casa sua.

- E tuo padre? - chiese preoccupato: ormai non c'era limite alle sorprese e doveva aspettarsi di tutto.

- E' salito alla bocchetta, verso il confine, voleva rendersi conto...

Tom si levò di scatto.

- Accidenti, e così lo dici! - esclamò, stringendo i pugni, e si mise a camminare per la stanza, imprecando contro il losco, contro i soldi e contro la bufera.

Muna seguitava a rigirare il fazzoletto tra le dita pallide e scarnite per la lunga permanenza al freddo.

Una lacrima le scivolò sul viso.

- Su, metti via le lacrime, mi rendono nervoso - fece Tom, passandole una mano sui capelli - lo ritroveremo, vedrai, con l'aiuto di Rocky non sarà difficile...

- Un indumento, qualcosa da fargli annusare - chiese poi con aria di comando.

- Cosa posso darti, non so - rispose lei smarrita. Frugò tra i guanciali e trovò una sciarpa con una grande A ricamata a mano - è di mio padre, si chiama Alfred.

Tom annuì.

- E' quello che ci vuole, Rocky sa il fatto suo.

Intanto pensava al padre della ragazza: le possibilità che fosse riuscito a salvarsi gli parevano davvero poche.

Sbirciò fuori e vide la luna che biancheggiava all'orizzonte, appena sopra le nuvole.

- Siamo fortunati - disse, cercando di nascondere la sua apprensione - con questa luna, sarà come passeggiare per i prati...

- Sai - continuò, preparando lo zaino - le mie più belle ascensioni le ho fatte di notte con la luna piena - e si mise a raccontare di scalate al chiaro di luna, di cime addormentate, di silenzi e di cieli stellati.

Muna ascoltava e ripassava con un cencio la schiena di Rocky.

- Che bella vita la tua! - disse con un sospiro.

Tom sorrise:

- Quando tutto sarà finito, se vuoi, ti prendo con me a gestire il rifugio.

- Hai un rifugio?

- Mi piacerebbe averlo. Un giorno, forse, lo avrò...

Il vento scuoteva ancora le pareti del bivacco, ma con minore intensità.

Tom tese l'orecchio e rimase ad ascoltare. Poi aprì la porta e uscì fuori.

Il sole era appena tramontato e colorava di rosa e di viola le cime del Tremoggia. Nugoli di neve rotolavano sul nevaio spinte dall'ultimo vento e un gioco di luci vibrava sui dossi, come un volo di lucciole.

Tom prese Muna per mano e la invitò ad uscire.

- Vieni, vieni a vedere!

 

 

Dopo la bufera, una quiete assoluta, da trattenere il fiato.

La montagna s'era ricomposta in un abito di indifferenza, come se nulla fosse accaduto: dove prima galoppavano cirri infuriati, c'era soltanto qualche sbuffo di nevischio che rotolava verso il crinale alto, e, dalle gole dei torrioni che avevano vomitato sassi e raffiche di vento per il giorno intero, veniva ora la brezza della sera, spingendo nuvole basse e cenerognole che andavano via via avvampando di colori infuocati.

Pareva di stare sotto una cupola iridescente che infiammava tutta la montagna.

Ecco dove prendevano i colori i cristalli gialli e azzurri del Tremoggia, i granati rossi e verdi di Acquanegra, gli smeraldi di Sferlun!

Poi, quando tutto sembrava trasformarsi in oro e gemme di piropo, quei colori precipitarono all'improvviso come risucchiati dal sole che scivolava dietro la montagna, e venne la sera con le sue ali di seta a ricoprire di ombre e di mistero le rocce, gli strapiombi, i crepacci, le vallate.

Anche la luna aveva ripreso il suo colore giallo porporino e s'era messa a passeggiare fra le stelle, senza riuscire, però, a liberarsi di una nuvola dispettosa che le impediva di illuminare interamente il nevaio: di tanto in tanto s'affacciava a un lembo di cielo e guardava giù, come per curiosare, e subito veniva ripescata dalla nube che l'avvolgeva nel suo guscio di bambagia d'oro.

Tom era pronto a muoversi. Aveva ritagliato una coperta di lana grossa e l'aveva infilata sulle spalle di Muna a guisa di mantella, fissandogliela ai fianchi con una robusta imbracatura di pochi metri di corda. Così fitta e morbida, diceva, non avrebbe lasciato passare né pioggia né bufera, e il vento poteva tirare a volontà, finché voleva.

Lei si sentiva goffa e azzardò una protesta, ma Tom la zittì con un'occhiata e la spinse fuori.

Prima di uscire, ficcò nello zaino una coperta sdrucita, accese un mozzicone di candela e lo lasciò sul davanzale della finestrella, sopra una tazza capovolta. Per vederla da lontano, spiegò, e tenere calda la stanza.

Era di buon umore, come ogni volta che s'avviava ad affrontare nuove scalate: avvezzo com'era a quell'andarsuegiù per la montagna, per cose tristi o piacevoli faceva lo stesso. Inoltre, le responsabilità di cui s'era fatto carico lo rendevano stranamente sereno.

Aveva preso a cuore la vicenda di Muna e s'era riproposto d'aiutarla, anche se la simpatia che nutriva per gli ebrei in generale non era viscerale e spontanea come poteva sembrare. Gli parevano intrisi di peccato o di chissà quale misterioso sortilegio.

In paese, quelli che avevano sentimento li nascondevano in soffitta, ma i più li tenevano alla larga perché portavano guai e perché avevano arraffato montagne di ricchezza turlupinando generazioni di cristiani.

Per questo si portavano addosso quello sguardo afflitto e truce: avevano il rimorso di coscienza, come i direttori della banca che al mattino presto vanno a pregare all'altare della Madonna e di giorno succhiano il sangue alla povera gente.

Tom sprangò la porta, assicurò a una doppia cima di corda l'inesperta compagna di bivacco e, superate le roccette, prese a risalire lentamente il vallone.

La neve era compatta, ma l'aria cruda, di un pungente acuto, da mozzare il fiato.

Muna faceva di tutto per stare al passo di Tom, ma il pur docile pendio sembrava ricacciarla indietro. La morsa del gelo le impediva di vedere, di sentire, di muoversi, e la montagna sembrava minacciarla dall'alto con il suo cupo cipiglio.

Si sentiva piccola, sola, braccata, oppressa dal peso di quella montagna come se le cause di tutti i suoi problemi fosse concentrata in quella massa di roccia e di ghiaccio che la insidiava e la perseguitava con meschini raggiri. La presenza di Tom non serviva a tranquillizzarla, e soltanto la speranza di ritrovare suo padre le dava la forza di continuare.

Rocky era già sul dosso. Aveva annusato la sciarpa e correva sulle dune in cerca di un segno che potesse rivelare il passaggio di qualcuno, ma il vento aveva ribaltato il nevaio intero, cancellando anche la più piccola traccia.

Tom lo incitava a cercare ora qua, ora là, negli anfratti, nei crepacci, nei banchi di neve farinosa:

- Lassù, Rocky, prova lassù - gli urlava da lontano, e lui correva con la lingua fuori, guaiva, s'infuriava, e ritornava giù per poi riprendere la corsa nell'oscurità del vallone.

- Dove si sarà cacciato - piagnucolava Muna, aggrappandosi al braccio di Tom.

Di tanto in tanto, lanciava un richiamo lungo e lamentoso - Papà, papà! - e si fermava ad ascoltare con l'orecchio teso, mentre la sua voce rimbalzava sui costoni e si perdeva nelle profondità buie del nevaio. Dai bastioni veniva solo il gemito dei ghiacci nella morsa del gelo e il brusio del vento fra le rocce del passo.

Camminarono a lungo, su e giù per il vallone, mentre la speranza di ritrovare vivo il padre di Muna si faceva sempre più debole.

Tom scuoteva il capo, immaginando di trovarlo ormai stecchito e bianco come un baccalà, col ghigno sorridente dei morti congelati, e già pensava di seppellirlo in una fossa di neve, ai piedi di una bella roccia sporgente, dove non batteva mai il sole.

Poi, quando lo sconforto stava per avere il sopravvento, in un angolo di cielo senza nuvole, s'affacciò la luna, grande e rotonda, e a Tom parve di vedere delle impronte che portavano ai piedi di un colatoio nevoso, nemmeno troppo distante dal bivacco.

Raggiunse Rocky in cima al dosso e gli fece annusare nuovamente la sciarpa.

- Cerca, Rocky, cerca lassù! - lo incitò, indicando le orme rischiarate dalla luna. Poi, prese Muna per mano - Vieni, facciamo presto.

Rocky aveva colto l'odore acre del sudore ed era eccitato. Abbaiava e guaiva con insistenza, e la sua eccitazione si faceva sempre più acuta mentre tentava di azzannare un lembo di pezza rossa che sporgeva dalla neve gelata.

Muna riconobbe lo scialle usato dal padre per ripararsi dal vento, e si gettò a scavare a mani nude, incurante del dolore che le straziava le dita.

Ansimava e si succhiava i polpastrelli per il gelo, e riprendeva subito a scavare e a invocare il padre, mentre Tom scalzava via la neve a colpi di piccozza.

Pochi attimi di trepidazione, poi, con un crepitio secco di ghiacci, si aprì una spaccatura, e una voce roca d'oltretomba risuonò dal buio del cunicolo:

- Sono qui, sono qui!

Tom riprese a piccozzare intorno alla fessura e continuò finché non si aprì un varco abbastanza grande da poterci guardare dentro.

Quando vide Alfred rannicchiato nella truna, che lo fissava con gli occhi sbarrati, spinse da parte Muna e, con un colpo di tacco, secco e misurato, mandò in frantumi la coltre gelata che ricopriva la nicchia. Afferrò per la giacca il povero Alfred e lo tirò su: era imbacuccato e bianco come un fantoccio di neve e respirava a fatica.

Tom si assicurò che non avesse subito danni gravi dalla lunga permanenza all'addiaccio e cominciò a menargli pacche sulla schiena.

- Siete un incosciente - ripeteva, continuando a strapazzarlo come un materasso.

Il poveretto se ne stava impalato senza dire nulla: si guardava attorno smarrito, battendo i denti, e provava quasi un senso di colpa per non essersi congelato almeno un dito.

- Pazzo, un pazzo incosciente - insisteva Tom, seguitando a vibrargli pacche per scuoterlo dal torpore, finché, impietosito dal miserevole avvilimento di Alfred, sfoderò il suo tono bonario e rassicurante - forza, mandatela giù - disse infine, passandogli la borraccia della grappa.

Alfred bevve a piccoli sorsi, facendo sbuffi e suoni gutturali.

Bevve anche Muna. Era la prima volta che beveva acquavite e la mandò giù con una smorfia. Prima di passare la borraccia a Tom, si sollevò sulla punta dei piedi e lo abbracciò.

Lui rimase a guardarla imbarazzato. Non era abituato a tenerezze e si sentiva a disagio. La fissò a lungo nei grandi occhi neri, poi riprese la sua aria di comando.

- Non è il momento di fare smancerie - brontolò, gettando sulle spalle di Alfred la coperta che teneva nello zaino - muoviamoci, parleremo al bivacco!

- Un attimo, fagli almeno prender fiato! - sbottò Muna girandosi di scatto, quindi, rivolta nuovamente al padre - questa specie di orso è una guida, si chiama Tom e ha promesso di aiutarci.

Alfred abbozzò un sorriso e fece un inchino col capo, ma Tom gli girò le spalle e fece segno di seguirlo.

- Il mio sacco, devo prendere il mio sacco! - balbettò Alfred, indicando la truna.

Tom frugò nella neve e recuperò lo zaino.

- Cosa vi portate dietro, i sassi! - protestò, soppesandolo con aria seccata mentre se lo caricava sulle spalle - forza, non perdiamo altro tempo - soggiunse, iniziando subito a scendere.

Alfred lo rincorse barcollando e s'aggrappò allo zaino, non tanto per farsi sostenere, quanto piuttosto per non farselo sfuggire. Così almeno sembrava.

Muna li seguiva da vicino stringendo al collare di Rocky, e provava uno strano senso di pace mentre si lasciava portare dal pendio.

Si fermò qualche istante in cima a un dosso, e la montagna le apparve nuovamente amica: il vallone le sembrava un grande prato di lenzuoli bianchi, e laggiù, dove finiva il bianco, brillava la candela, come un faro, dietro i vetri della finestrella.

Oltre i ghiacci, soltanto oscurità e silenzio: un mondo lontano, da dimenticare.

Per la prima volta, non ebbe paura. Osò perfino scherzare quando si lasciò cadere fra le braccia di Tom per superare le ultime rocce del bivacco. Si strinse al suo salvatore e gli indicò la luna, ma la voce dura di Tom interruppe sul nascere quel suo naturale desiderio di tenerezze: una mano la spinse dentro e si ritrovò di colpo nel buio del bivacco.

 

 

Alfred s'era bevuto due belle tazze colme di tè ed ora dormiva a bocca aperta nella branda alta, sotto due pesanti coperte di lana grossa. Tom, invece, aveva passato in rassegna l'attrezzatura e se ne stava sdraiato sulla branda pensando in che modo aiutare i due compagni di bivacco.

Ciò che maggiormente accresceva le sue preoccupazioni non erano i pericoli e le difficoltà alle quali sarebbe andato incontro inevitabilmente, o il nevaio che al sole cocente di aprile si trasforma in un ammasso di poltiglia saponosa, e neppure gli insidiosi crepacci della vedretta di Roseg, bensì il misero equipaggiamento dei due poveretti, per nulla adatto alle traversate d'alta quota.

Sapeva quanto importanza avessero un buon paio di scarponi, i guanti e la maglia di lana, una robusta giacca antivento, le provvidenziali se pure ingombranti racchette da neve, gli occhiali e un solido bastoncino per appoggiarsi.

Sapeva di contrabbandieri sorpresi dalla tormenta con i soli indumenti abituali: i più fortunati se l'erano cavata con un bel congelamento alle mani o ai piedi, e ora si consolavano raccontando la loro avventura e rallegrandosi di essere ancora vivi.

Nella sua esperienza di guida aveva recuperato i corpi di uomini robusti come querce, rimasti intrappolati nei crepacci per aver affrontato il ghiacciaio senza l'attrezzatura adatta, aveva soccorso alpinisti ustionati dal riverbero del sole, con gli occhi rossi e gonfi fuori dalle orbite, e li aveva visti piangere di dolore e disperarsi come bambini al solo pensiero di perdere la vista.

Doveva assolutamente rifornirsi di cibo e di vestiario, era una questione di principio.

Diede un'occhiata fuori e vide il nevaio illuminato a giorno, con i colori rosa e d'oro della luna piena. Una notte ideale. Coi pattini da neve e il plenilunio, sarebbe sceso a valle in un baleno.

Si sentì dare del matto quando lo disse a Muna, ma era troppo stanco per mettersi a discutere. Decise di riposare un poco, soltanto un paio d'ore, tanto per riprendersi dalla fatica.

Che bella cosa distendersi all'asciutto dopo una giornata di bufera, e addormentarsi in pace, con la consapevolezza di dover affrontare nuove pesanti fatiche, ma liberi nella mente e nell'anima, senza rimorsi e paure!

Rocky attese che Tom si fosse coricato, poi gli andò vicino, lo fissò con i suoi grandi occhi stanchi e gli leccò la mano, come ogni sera, prima di addormentarsi.

Muna, invece, s'era trattenuta a riordinare le stoviglie e intanto immaginava di abitare in una piccola casa di sasso ai piedi della montagna, con il prato, il ruscello, la pineta, e il cielo sempre blu, e tanto sole.

Lo disse a Tom:

- Però con te e un cane come Rocky - soggiunse con un sospiro, ma Tom s'era addormentato e non poteva sentire. Gli sistemò la coperta sulle spalle e rimase in contemplazione del suo salvatore: quel volto scuro, spigoloso e asciutto le infondeva sicurezza e fiducia, ma le procurava anche una incontenibile eccitazione.

Gli passò una mano sui capelli, poi, sfiorandolo appena, lo baciò sulle labbra.

La luce di luna tingeva di rosa e di viola le poche suppellettili del bivacco, essenziali, piccole e consumate, come in una casa di poveri, e Muna sentiva questa casa un po' sua, sua e di Tom.

Si accucciò nella sua branda e chiuse gli occhi.

 

 

 

 

 

 

 

 

Nel bivacco, la notte non fu troppo lunga.

Dopo un breve sonno ristoratore, Tom rimase a crogiolarsi un po' fra le coperte, lasciandosi distrarre dal fruscio dell'aria sulle lamiere del bivacco, leggero, come un suono di frasche.

Finché un raggio di luna superò la finestrella e lo colpì proprio negli occhi.

- E' ora d'andare - si disse, levandosi dalla branda.

Infilò brache e scarponi e fu presto pronto. Ricompose lo zaino, fermò qualche istante lo sguardo sul volto di Muna come per portarsene via il ricordo, e uscì fuori, facendo segno a Rocky di seguirlo.

Il cielo iniziava a tingersi di viola e le stelle si spegnevano nel riverbero grigio dell'alba, una dopo l'altra, come i lumini del sabato santo, mentre la luna posava sul nevaio colori tenui, soffusi, e faceva brillare le sottili increspature di ghiaccio sulle gobbe dei dossi.

Anche la montagna sfoggiava una bellezza nuova, prorompente e misteriosa, come una vergine all'altare nella solenne provvisorietà dell'attesa.

Tom si sentiva pieno di vigore.

Fissò i pattini da neve agli scarponi, fece qualche passo lì intorno per accertarsi che fossero ben saldi ai piedi, e puntò in direzione della pista bassa.

Il freddo lo aggredì subito, acuto: gli pareva di schiantarsi contro un muro di ghiaccio quando prese velocità, e dovette rallentare l'andatura.

Rocky gli correva dietro, saltava e abbaiava, e voleva superarlo.

Tom lo incitava, lo scherniva, lo faceva arrabbiare, si lasciava avvicinare e gli urlava di passare avanti, ma, appena Rocky accennava a superarlo, si piegava sulle gambe e, con un guizzo improvviso, scodinzolava via, lasciando il povero Rocky deluso e contrariato ad annaspare con la lingua fuori.

I dossi, via via che gli venivano incontro, gli porgevano le loro schiene gibbose, e subito si allontanavano verso la testata del vallone. Tom si divertiva a prenderle di prua come una grossa onda, e faceva schizzare via le fragili increspature di ghiaccio che si spandevano per l'aria in uno sciabordio di spume iridescenti.

Che emozione sentire il sibilo dei pattini sul ghiaccio e il fremito dell'aria sulle spalle con quel suono sordo di vele controvento, che sensazione fantastica volare sui crepacci con il timore di finirci dentro, farsi inghiottire dalle nebbie e riaffiorare ai piedi di una grande rupe dal piglio minaccioso, abbracciare l'aria, il cielo, l'orizzonte, l'infinito…

Che cosa meravigliosa superare le creste e i canaloni con quel senso di abbandono che accompagna i grandi sogni, giocare a rimpiattino con la luna che scompare e ricompare tra le dune, ora qua, ora là, sopra una cima, dietro uno spuntone, e vedere la cupola innevata del bivacco farsi piccola, lontana, e scomparire dietro l'orizzonte in un brillio di luce argentata.

E il bosco, infine, col suo abbraccio caldo e paterno.

Una corsa leggera, inebriante, liberatrice, come la planata del falco sulle case.

Le vedeva già le case farsi grandi e vicine, coi tetti bianchi, colorati di luna.

Tom era stanco di neve.

Aveva voglia di terra e di prati, e aumentò l'andatura.

 

 

 

 

 

 

 

Quando giunse al pino mugo sopra il dosso del prato, Tom si fermò ad attendere Rocky: si liberò degli sci e li legò allo zaino, mentre il suo sguardo correva sulle case addormentate della contrada, sul campanile della chiesa, sul capanno del casaro traboccante di fieno. Vedeva distintamente anche la casa di Valentina coi comignoli freddi e senza fumo.

Da molto tempo non incontrava Valentina, ma il ricordo dell’ultima volta, proprio lì, al pino mugo, era ancora vivo nella sua mente.

Quel giorno, Valentina risaliva il prato infagottata nel suo scialle di lana colorato, quando vide Tom venire dal sentiero alto con l'aria di quei gatti pesti e spelacchiati che han fatto a botte per la gatta del rione: era proprio malridotto.

Sentì il cuore sobbalzarle in petto e il primo istinto fu quello di fuggire.

Da tempo sperava di incontrare Tom, di rivederlo faccia a faccia senza occhi indiscreti attorno, e ora, dopo giorni di sofferti e rassegnati silenzi, si sentiva piena di incertezze e di paure.

Si fece coraggio e lo attese al pino mugo, sopra il dosso del prato.

Tom veniva giù dinoccolato e stanco, e l'aria risuonava del suo passo cadenzato e molle.

Al suo passaggio, gli uccelli del bosco andavano a posarsi sui rami bassi degli alberi che costeggiavano il sentiero e restavano lì coi becchi aperti e ciangottanti in attesa della consueta manciata di briciole.

Tom non aveva nulla da offrire, faceva gesti sconsolati e ripeteva con voce frettolosa e paterna: un'altra volta, un'altra volta...

Appena riconobbe Valentina, fece una scartata, traballò, e per poco non travolse il pino mugo.

Di sicuro non se l'aspettava e rimase imbambolato a fissarla con gli occhi stralunati e il fiato mozzo.

Rocky invece le andò vicino e l'annusò a lungo prima di lasciarsi andare a confidenze, poi le saltò addosso e le scompigliò le vesti.

Valentina non poté trattenere una risata allegra e cristallina.

Si chinò per abbracciarlo, ma Rocky fuggì via, fece una gran corsa sulla neve del prato e ritornò a farle festa e a scompigliarle le vesti.

Lei rideva, pregava Rocky di non sciuparle l'abito nuovo, e faceva gridi di contentezza. Quando Rocky si quietò, volse lo sguardo a Tom e mostrò i suoi grandi occhi azzurri come il cielo di quel mattino d'aprile.

- Finalmente - fece Tom, posando lo zaino a terra.

Che emozione rivedere quel sorriso, quella bocca, quelle labbra: fremevano di luce e s'aprivano al sorriso morbide e sottili. E gli occhi, così chiari, così caldi, pieni di domande ansiose...

Valentina non disse nulla: tese la mano e lasciò che Tom la stringesse nella sua, ruvida e legnosa, ma calda e rassicurante come il tronco cavo della vecchia quercia.

Si appoggiò alla spalla di Tom e si lasciò invadere di calore.

Riconobbe subito l'odore di muschio e di neve sulla maglia di lana grossa, e provò un senso di gelosia per la montagna che s'era presa il suo Tom e gli lasciava perfino il suo profumo addosso.

Chiuse gli occhi.

Sentiva il cuore sussultare in petto e il sangue ribollire nelle vene. I lunghi silenzi, le attese, le amarezze, la solitudine, tutto era svanito in quell'abbraccio: aveva ritrovato la gioia e le sensazioni di un tempo.

In verità, non s'era mai separata da Tom, se lo portava dentro come la sua anima, e il primo pensiero del giorno era per Tom.

Lo cercava, lo spiava, gli mandava accidenti, lo seguiva da lontano quando lo vedeva salire per il sentiero alto, se lo immaginava sulle cime, scrutava il cielo tempestoso, e stava ad aspettare alla finestra finché alla baita di Tom non s'accendevano le luci dietro le persiane.

Tom se la sentiva fra le braccia come una cerbiatta ferita.

- Valentina, Valentina - seguitava a ripetere, se la stringeva al petto, l'accarezzava, e non voleva crederci.

- Allora mi vuoi bene? - sussurrava, ma lei non poteva rispondere perché aveva il nodo in gola, s'asciugava i lacrimoni e ritornava a stringersi a Tom.

Lo si capiva bene ch'era innamorata di Tom, ma lui voleva sentirselo dire, e continuava a domandarglielo, e provava un senso di smarrimento e di paura per quella risposta che stentava a venire.

Seguì un silenzio incolmabile, poi Valentina sollevò lo sguardo e sorrise. Nonostante i lacrimoni non poteva fare a meno di sorridere.

- Sei sempre nei miei pensieri - disse, porgendogli le labbra.

Avrebbe voluto chiudersi in una nuvola e abbandonarsi a Tom per smorzare quella sete che le mordeva il petto e l'anima.

Si sentì scivolare nella neve e lasciò che Tom s'immergesse nelle sue sottane e respirasse la morbidezza calda e vellutata del suo seno: sentiva le labbra di Tom dissetarsi del suo calore, e quell'odore intenso di muschio impossessarsi del suo corpo, e scuoterla tutta come il vento di favonio tra i mughi della plaga.

La mano di Tom penetrava nelle sue sottane e cercava il suo corpo, e lei sentiva quella mano farsi grande, morbida e calda, risalire dal ventre fino al seno, liberarla del vestito nuovo e mettere a nudo il suo corpo: si sentiva piena di calore.

Avrebbe voluto prendersi tutto l'amore di Tom in una volta sola e custodirlo in grembo e fondersi e farne un corpo solo, carne della loro carne, anima della loro anima.

Tom affondava nelle sue sottane e vedeva i suoi occhi farsi chiari e le sue labbra aprirsi in un sorriso di felice abbandono, quasi che l'anima e i sensi e tutto ciò che Valentina si portava dentro sgorgassero dal petto come spore ansiose e trepide dapprima, frenetiche e appagate via via che penetrava nel suo grembo soffice e profumato come i prati di maggio.

Ora il sole si posava sull'areola e faceva brillare i capezzoli turgidi e tondi come i ranuncoli del prato in un mattino di luglio...

Valentina ebbe un sussulto e fece un gemito: sospirava e supplicava Tom di fare presto, che il suo sposo sarebbe salito per la messa e poteva passare da un momento all'altro...

Ora Tom si guardava attorno e gli pareva di sentire ancora i sospiri di Valentina fra i mughi della plaga e il profumo di lavanda delle sue sottane.

Era tutto così vuoto adesso, e così freddo...

Fece un fischio a Rocky e riprese il suo cammino verso casa.

 

 

 

 

Prima che il sole si affacciasse sulle case, Tom s'era ripulito e ristorato ed era pronto a muoversi: aveva riesumato la vecchia attrezzatura da montagna, s'era rifornito di vestiario e aveva fatto buona scorta di cibo, tutto ciò che c'era nella madia, qualche chicco di caffè per il mattino, una manciata di sale grosso, e una bella bottiglia di vino vecchio che da tempo se ne stava coricata al tiepido in una fessura del muro.

Gioele lo fissava dalla cassapanca con occhi curiosi: non riusciva a spiegarsi il motivo di quell'inconsueto andar su e giù per la montagna, ma aveva imparato a riconoscere il disordinato rimescolamento di cose come il segno premonitore di lunghi digiuni.

Tom lo consolò con una grattata sul collo e gli lasciò sul pavimento un'abbondante razione di zuppa.

- A presto Gioele - lo salutò, avviandosi alla porta.

Fece un fischio a Rocky e, col pesante fardello di provviste sulle spalle, puntò verso l'alpe.

Carico com'era, prese per la via normale, quella che seguivano tutti, anche gli alpini delle postazioni alte, ma ciò gli procurava una sensazione di disagio, quasi fosse un principiante alla sua prima ascensione. Un bel sacrificio! Quel giorno, comunque, doveva essere prudente e non concedersi distrazioni.

In breve superò le case e si portò sopra il bosco. Prima di affrontare i dossi innevati di Musella, calzò gli sci e avvertì subito il sollievo dello zaino meno pesante: aveva avvolto intorno ai legni numerosi giri di corda ed ora puntava dritto alla bocchetta, lasciandosi dietro un solco sottile che si allungava lento e sinuoso verso la cima.

Sospirò sette volte prima di raggiungere la sommità del vallone e più volte dovette liberarsi dello zoccolo di neve che appesantiva il passo, ma aveva imparato a considerare la fatica un prezzo dovuto per godere appieno dei piaceri della montagna.

Alla bocchetta tirava un'aria gelida e tagliente e fu costretto a cercare riparo sul ripido costone che immette alla valle di Scerscen senza poter gustare, neppure per un istante, lo spettacolo delle vette e dei ghiacciai che, quel giorno, era particolarmente suggestivo.

Era infatti una di quelle giornate che fanno apparire tutto magnifico e soprannaturale, col cielo terso e poche nuvole addensate sopra le cime dell'orizzonte e, più della vista, ne traeva godimento lo spirito.

Tom si sentiva ancora addosso l'emozione della discesa sotto la luna e gioiva e si meravigliava di questa sua fortuna quasi fosse un privilegio unico ed esclusivo, ma si portava dentro un senso di malinconia, o di sconforto, non capiva bene, per quella maledetta storia nella quale s'era ritrovato involontariamente coinvolto. E più dello zaino, l'opprimeva il peso di una situazione irreversibile e il timore di non riuscire a portare a termine il suo difficile compito.

Doveva soltanto sperare nelle favorevoli condizioni del tempo e affidarsi alla buona sorte.

Rocky lo aveva preceduto e attendeva su una cengia oltre il costone. Non abbaiava, com'era sua abitudine, per farsi notare o per incitare Tom a muoversi. Anche un soffio d'aria in quella quiete, con l'aria molle e tutta quella neve ammassata sui crinali, poteva provocare una slavina o la caduta di un cornicione nevoso. Ne sporgeva uno proprio sopra le loro teste, pronto a rovesciarsi addosso al primo che avesse osato violare il silenzio della montagna: il piccolo cimitero degli alpini travolti dalla valanga al tempo della grande guerra e che ora riposavano in fondo al vallone, era un avvertimento e monito per tutti.

Tom avanzò lentamente, un occhio alla cima e uno al costone. Ad ogni passo, una scarica di neve crostosa e cristallina si staccava sotto i suoi piedi e rotolava giù per la china con un suono sordo di cocci e andava a sbriciolarsi sulle rocce del vallone.

Doveva stare in guardia, concentrarsi e decidere senza fermarsi troppo a pensare. Superò le rocce e si portò sulla vedretta del nevaio sotto un insopportabile sole che gli gettava addosso raggi infuocati.

Camminava a capo chino, ubriaco di sole, di luce, di bagliori. Di tanto in tanto dava una scrollata allo zaino come per levarsi di dosso la fatica e guardava con occhi avviliti la capanna degli alpini che sembrava incitarlo dall'alto del torrione.

Tom non poté fare a meno di pensare a Valentina. Gli pareva di vederla al balconcino, d'estate, che sfarfallava i fiori della balaustra e cantava un motivo di campagna. Il suo canto si perdeva via, lontano, fra le rocce alte e ritornava poi con l'eco dalle piote di Scerscen.

Tom si rammaricava per tutti quei ricordi che gli tormentavano la mente, ma non poteva evitarli.

Dalle bocchette iniziava a soffiare il vento della sera. La neve s'era fatta pesante e saponosa, e il bivacco sembrava sempre più lontano.

Forza Tom, è l'ultima fatica.

Un passo, un altro, un altro ancora...

Il cielo cominciava a tingersi di viola e lungo i canaloni rotolavano i sassi della cima. Dalla valle veniva silenziosa la sera.

Le donne del paese si recavano al vespro a quell'ora, passavano davanti alla sua baita coi veli neri ed il messale in mano, una dietro l'altra, in lenta e silenziosa processione. C’era anche Valentina...

La brezza, sul ghiaccio, faceva un suono sommesso, come di onde sulla battigia.

Forza Tom, ancora pochi passi... Quanti? Cento, mille, duemila, sembravano un milione. Che importa, basta andare avanti e resistere. E' solo questione di passi e di tempo.

La montagna s'era coperta di vento e mostrava le sue cime rosse di sole mentre il bivacco puntava il suo brillio lontano, sempre più lontano.

Non mollare, Tom, devi resistere...

Dell'acqua, ci vorrebbe un sorso d'acqua, non c'è nulla che disseti più dell'acqua.

No, l'acqua no, meglio tè caldo o vino.

Il sole scivolava dietro la montagna, portandosi dietro un fruscio di brezze e nostalgie di sensi.

Nello zaino, la bottiglia di Sassella: un tal vino, berselo da solo, senza amici e senza sentimento! No, roba da mandare in bestia il vecchio Bacco.

Troppo complicato, e troppa fatica.

La neve era fredda e amara.

Il vento soffiava sulle pietre invocando la notte, e il torrente brontolava dal dirupo il suo incessante sciamare.

Povero Rocky!

Da dietro i monti salivano fiammate di luce come piropo e inondavano il cielo di colori infuocati.

Ora il bivacco s'era fatto grande e vicino. C'erano loro ad aspettare fuori, Alfred e Muna, agitavano le braccia in aria e urlavano qualcosa.

L'ultimo passo aveva sapore di casa...

Muna aveva preparato il tè e inseguiva Tom con la tazza in mano.

- Sono stanco, voglio solo dormire – disse Tom con uno sbuffo, e si gettò sulla branda: in quel momento gli pareva l'invenzione più grande del mondo.

Si girò su un fianco e chiuse gli occhi.

Non sognò nulla, neppure Valentina.

 

 

 

Muna s'era presa un bel colpo di fulmine, la notte prima, con tutte quelle stelle e quella luna, ed ora, in attesa che Tom si svegliasse per la cena, se ne stava in adorazione del suo idolo e intanto rattoppava un paio di calzini sdruciti.

Semmai ci fosse stato un dio quello era Tom e poteva chiederle qualunque cosa.

Alfred ci provava a dirle di lasciarlo stare, che non era tipo per lei, che doveva portargli rispetto e gratitudine e nient'altro, ma poi scuoteva la testa in segno di rassegnazione e ciondolava per la stanza con lo stomaco che brontolava e guaiva per il lungo digiuno. Così contrariato e affamato, attese impaziente il risveglio di Tom.

Quando s'accorse che aveva aperto gli occhi, lo assalì con ovazioni e pacche sulle spalle.

- Potevate cominciare - fece Tom, avvicinandosi allo sgabello imbandito di vivande - e Rocky? - chiese poi, accarezzando il suo cane che pisolava nell'angolo con la pancia all'aria.

Muna lo tranquillizzò:

- S'è lappato due belle tazze colme di zuppa - disse, mostrandogli la ciotola vuota sul pavimento.

Con un vezzo si riordinò i capelli e prese posto accanto a Tom.

Mangiarono con moderazione, come si conviene in alta quota, ma trovarono ugualmente modo di scherzare sulla loro avidità.

Muna si divertiva a pizzicare Tom e a fargli le moine, e alla fine confessò le ansie e le apprensioni per la lunga attesa.

- Ti pensavo dentro a un crepaccio - disse con ingenua e spontanea sincerità.

Tom la guardò di sbieco e fece gli scongiuri.

- V'è mai successo di finirci dentro? - intervenne Alfred che non aveva aperto bocca se non per infilarci del cibo - mi vengono le vertigini solo a pensarci - soggiunse poi assaporando un boccone di formaggio vecchio.

- Figuriamoci - ribatté Muna, sfilando una coperta dalla branda - non lo dice per non far brutta figura.

Tom non ne parlava volentieri, rifiutava di ricordare la sua brutta avventura, e tentò di cambiare discorso.

Inutilmente.

Muna gli faceva gli occhi dolci e insisteva per volerlo sapere.

- Dai, racconta, non farci soffrire...

- Ebbene sì, una volta m’è capitato di finirci dentro, proprio come un sacco di patate - ammise Tom, fermandosi a pensare col boccone in mano - a voi lo posso dire, tanto siete delle schiappe.

Muna gli gettò le braccia al collo.

- Su raccontaci, dai, sono curiosa...

Tom si liberò della stretta, prese con garbo la bottiglia di Sassella, la stappò e la mise accanto alla candela perché prendesse calore.

- Cosa posso dire, non so, è un'avventura come un'altra.

Muna gli si parò davanti e lo stuzzicò col gomito.

- Su, non farti supplicare.

Tom si sentiva disarmato di fronte alle effusioni di Muna, si meravigliava e si compiaceva, ma non voleva darle corda.

Si gettò la giacca sulle spalle e iniziò a raccontare:

- E' stato a causa della mia sbadataggine: m'ero incantato a guardare un'aquila che volteggiava sopra di me, quando...

Muna s'era piantata contro i suoi ginocchi e lo fissava con occhi languidi: un attacco in piena regola, senza possibilità di fuga.

- Ricordo un volo interminabile e un tonfo sordo che ancora mi rimbomba nella testa - continuava a raccontare Tom, e Muna gli veniva addosso e gli faceva le fusa come una gatta in amore.

- E' finita, dicevo tra me, ero destinato a una morte lenta, nella morsa del gelo... mi avrebbero trovato dopo cento, mille, forse duemila anni, quando il ghiacciaio avrebbe rigettato i miei resti attraverso i suoi intricati cunicoli...

Muna sentiva una strana eccitazione dentro. S'era impossessata della mano di Tom e se la stringeva al seno, convulsamente.

- Ho scavato dei gradini, poi, usando chiodi e moschettoni a distanza ravvicinata, ho teso la corda e mi sono tirato su - di tanto in tanto Tom s'interrompeva e cercava lo sguardo di Alfred per chiedere, se non aiuto, almeno un po’ di comprensione.

- Gioventù, gioventù! - faceva lui scrollando il capo, e azzannava un altro po' di pecorino fresco.

- Gli ultimi metri sono stati allucinanti, con la paura di cadere nuovamente di sotto - finì di raccontare Tom braccato dalle mosse di Muna - poi, finalmente, la luce: mi sono tirato fuori e ho pianto di gioia.

Mentre ascoltava, Alfred s'era ingoiato mezzo sgabello di vivande e ora sbirciava la bottiglia di Sassella e si succhiava le gengive per la sete: saranno state le scompostezze di Muna a fargli perdere il controllo, ma quel formaggio e il salame casereccio erano davvero squisiti.

- Ma chi ve lo fa fare di rischiare la vita in montagna, così, per nulla… - disse con aria assente, tastando la bottiglia del vino.

Tom rimase un po' a pensare. Si sentiva colmo di tristezza.

- In montagna si muore ogni giorno, ovunque, chi va in montagna lo sa - rispose, corrugando la fronte - per quel che mi riguarda, quando sarà il momento, se il Signore vorrà risparmiarmi l'inferno, mi piacerebbe andare in paradiso, passando proprio per la montagna che è anche più vicina al cielo. E vorrei che il mio corpo restasse sempre lì, dentro una bella tomba di ghiaccio smeraldino. Fra le rocce di Scerscen c'è una grotta, al confine fra la terra e il cielo, potrebbe essere una buona nicchia...

- Che discorsi - lo interruppe Alfred - la morte l'ho vista da vicino io, quand'ero nella truna, non ha una faccia simpatica. E poi, volete saperla una cosa - esclamò, levando il dito in aria - l'idea di morire dopo aver fatto il banchiere per tutta la vita, mi sconcerta un po' - continuò con gli occhi puntati sullo spicchio di cielo oltre la finestra del bivacco - Se me la cavo, voglio dedicarmi alla poesia, alla musica e alla filosofia... sì, proprio alla filosofia - soggiunse con enfasi, succhiandosi un labbro - e lo farò, così la prossima volta mi sentirò più tranquillo - concluse con aria da santone.

Muna levò dall'armadietto i bicchieri di latta che aveva recuperato ripulendo il bivacco, li ripassò con lo straccio e li lasciò sullo sgabello. La regalità del vino imponeva calici di vetro, ma ci si doveva adattare!

Sciolse i capelli raccolti a treccia sul capo e se li aggiustò sulle spalle, quindi ritornò accanto a Tom.

Lui avrebbe voluto farle un complimento, ma preferì restare in difensiva.

- Ora concentratevi - disse, levandosi in piedi.

Con la solennità che la circostanza imponeva, piegò la bottiglia sui bicchieri, delicatamente, per non muovere il fondo, trattenne il fiato e versò il vino, accompagnando il gesto con una espressione incantata, di attesa.

Annusò più volte prima di bere, scrutò il vino contro il lume di candela e lo portò alla bocca, quindi rimase con lo sguardo al cielo come se in quel vino, oltre al sapore, si celassero le anime dei santi.

Il vino si posò sul palato, morbido e leggero, coi profumi di un mattino di settembre.

Sapeva di roccia e di sole.

- Roba fine - commentò Alfred con uno schiocco di labbra.

Muna, intanto, aveva iniziato a cantare, si appoggiò alla spalla di Tom e lo invitò a fare la seconda voce.

Lui rimase ad ascoltare, non conosceva quel canto, poi, sollecitato da Alfred che rivelava un talento da tenore non comune, si lasciò trasportare dalla melodia ed entrò con la sua voce da basso.

Cantarono a lungo, modulando accordi e sentimenti. Il finale li colse a guardarsi con gli occhi lucidi.

- E' un bel canto - disse Tom, posando inavvertitamente una mano sulla spalla di Muna.

Lei gli andò vicino fino a respirarne il fiato.

- Frieden significa pace - sussurrò, lasciandosi scivolare fra le sue braccia.

- Ora basta, tutti a nanna... - fece Tom, levandosi di scatto.

Alfred piantò i gomiti sullo sgabello e non si mosse. Si sentiva in forma e aveva voglia di cantare ancora.

- Sto bene, sto bene – ripeteva - soltanto una leggera diplopia…

Rimase un po' con lo sguardo al cielo e si mise a cullare la bottiglia vuota.

- Quando beve diventa romantico - rise Muna accarezzandogli la nuca – notte pa’, notte notte Tom - soggiunse facendo un vezzo, e con un balzo si infilò nella branda.

Alfred mugugnò qualcosa. Succhiò l'ultima goccia di vino che rosseggiava in fondo al bicchiere e si stirò a braccia larghe. Quindi si avvicinò a Tom che s'era già spogliato e coricato, e gli battè due dita sulle spalle.

- Ho bisogno della corda - gli disse sottovoce, portandosi le mani alla pancia.

- Non potevate dirlo prima - rispose lui seccato - mica siamo al grandhotel qua dentro!

Alfred s'era piegato sui ginocchi e si premeva il ventre.

- Su, datemi una mano, vi prego, faccio presto!

Tom si alzò sbuffando, gli avvolse la corda attorno ai fianchi e lo accompagnò fuori.

Alfred si sistemò sul dirupo, calò le brache e si mise a fischiettare mentre Tom gli faceva sicurezza.

- Quanto stelle, stanotte - si disse Tom, guardando in alto - è un peccato dormire con un cielo così. Poi spinse lo sguardo sulla valle: si vedeva una luce laggiù ai piedi del bosco.

- La casa di Valentina, a quest'ora, è sotto la luna - pensò, cercando il prato fra le case buie.

Alfred finì di fischiettare presto e Tom recuperò la corda.

- Grazie Tom, siete un bravo figliolo - gli fece Alfred battendogli una mano sulla spalla.

Tom non rispose, soffiò sulla candela e nel bivacco calò il silenzio.

Rocky si avvicinò a Tom e gli leccò la mano, come ogni volta, prima di addormentarsi.

 

 

 

Tom era già in piedi alle prime luci dell'alba. Masticò due chicchi di caffè, si gettò la coperta sulle spalle e uscì fuori.

L'aria era immobile, cruda, pungente, e là, verso occidente, tra brandelli di nuvole solitarie, passeggiava sonnacchiosa la luna mentre le ultime stelle accucciate nell'angolo buio del cielo svanivano come d'incanto risucchiate dalla pallida luce del giorno.

Tom accese la pipa e ringraziò il Signore. Intanto correva con lo sguardo sulla valle, sul torrente, sui prati, sulle case colorate di luna.

Sembrava impossibile che laggiù gli uomini si odiassero tanto. E la luna seguitava ugualmente a spandere chiarori, sull'egoismo, sui soprusi, sull'ingordigia umana.

Il cigolìo della porta ruppe il silenzio e apparve Muna con i capelli neri sciolti sulle spalle. Si avvicinò a Tom e gli sussurrò qualcosa.

Lui non capì. Le fece posto sotto la coperta e se la strinse al fianco. Pensava di baciarla, ma preferì soltanto abbracciarla e respirare la sua pelle ancora calda di sogni.

 

 

Quando Alfred aprì gli occhi fece un lungo sbadiglio. Tra sbuffi e mugugni riuscì a mettere i piedi a terra, ma al primo contatto col pavimento gelido ebbe un ripensamento:

- Questo rifugio è una ghiacciaia, mi sento come un sacco di patate - si lamentò, lasciandosi cadere sulla branda.

- Buongiorno pà, sembri una foca - lo schernì Muna porgendogli dell'orzo.

Tom, invece, lo aggredì con il suo tono imperativo.

- Sveglia pigrone, sveglia, la Svizzera è vicina...

- E' un grande giorno - si rallegrò Muna, cercando consensi nello sguardo di Tom, ma non ebbe risposta - che dici, ce la faremo? - provò ad insistere dopo qualche istante di silenzio.

- Il tempo s'è messo al bello, siamo fortunati - si limitò a rispondere Tom, continuando a preparare la corda.

Non ci volle molto per riordinare il bivacco e, dopo una veloce e sostanziosa colazione, furono pronti a partire.

Muna volle dare un'altra occhiata dentro prima di lasciare il rifugio e indugiò un poco sulla soglia per portarsene via l'immagine intatta nella memoria: la branda, il fornello, il secchio dell'acqua, la piccola finestra puntata sulla luna, la mensola delle stoviglie, le pignatte ammaccate, gli sgabelli sgangherati, l'armadietto con le ante storte, la candela che versava ancora lacrime di cera sulla tazza capovolta.

Tom capì e attese un poco prima di spingerla fuori, poi distribuì l'unguento protettivo e controllò l'attrezzatura.

- Sembrate dei veri alpinisti - disse compiaciuto dopo una accurata ispezione.

Levò il braccio in aria e puntò verso il passo.

- Andiamo Rocky!

- Il mio zaino sembra più pesante stamattina - si lamentò Alfred mettendosi in coda - ma forse è solo carico di anni - soggiunse con una punta di malinconia.

La neve era soffice e compatta e il pendio per nulla affaticante: una grande sbuffata per superare un dosso e subito l'ampio respiro di un breve pianoro. E la montagna così amica, così docile, così confortante.

Il Roseg aveva l'aspetto di un re. Dal suo trono di granito mandava sguardi severi pieni di raccomandazioni: che lo tenessero bene a mente, solo per sua indulgenza potevano transitare di lì senza troppe tribolazioni. Era bene non lasciarsi ingannare dalla insolita quiete.

Tom lo andava ripetendo da quando avevano lasciato il rifugio: finché rimanevano sotto la sua dominanza, dovevano stare all'erta e non distrarsi neppure per un istante. Che ridessero pure delle trascorse avventure, ma non cantassero vittoria prima del tempo.

- Il solito fanfarone - brontolava Alfred: come si poteva non gioire di quella pace di cui ogni cosa sembrava permeata, con il passo a un tiro di schioppo e la libertà a portata di mano, ed era sufficiente una roccia affiorante che dava l'impressione di un cippo, per illudersi di aver superato il confine e con esso tutte le avversità e le angosce dei patimenti subiti.

Muna si sentiva addosso una strana euforia, una voglia di andare, di salire senza fermarsi mai - l'euforia dell'alta quota, le diceva Tom, come quella del mare - mentre Alfred pregustava già la fine del viaggio e una bella colazione al primo rifugio.

- Mi farò tre calici di birra e una bistecca così - sbuffava, mostrando la misura con le braccia tese - di cavallo!

- Di cavallo?

- Adesso non ricominciamo con la solita storia, di mucca sì e di cavallo no... la fame è fame, e io me le faccio tutt’e due allo spiedo, la prima che capita!

- Prosaico e crudele...

Si ritrovarono alla sommità del vallone senza rendersene conto, mentre il sole faceva capolino dalle cime con il suo seguito di nuvole d'oro. Un sole caldo, ristoratore, che metteva allegria. Di buon auspicio.

Poi, in breve, uno sfolgorio di colori invase la montagna, e tutto ciò che prima era grigiore e pallido riverbero di neve, esplodeva ora in uno sfarfallio di luce argentata, come se il cielo si fosse capovolto e avesse rovesciato sulla terra tutte le stelle del firmamento.

Alfred si girava, sudato e lento, a guardare la girandola di luci che avvolgeva i dossi, le cime grandi e vicine, e la valle sonnacchiosa che allungava i suoi tentacoli di rocce sui torrioni dell'alpe.

Assorto e meravigliato, seguitava a stupirsi e si compiaceva del suo stesso stupore.

Quando vide Muna in cima al passo, immersa nel bagliore del sole, sentì un nodo di commozione prendergli la gola: non più paure, sobbalzi, tristezze di malvagità, non più soprusi o scialbori di gente blaterante, ma profondità di silenzi e tanta pace velata appena di sottile malinconia.

- Dobbiamo legarci - fece Tom, svolgendo la corda - tenetela tesa e statemi vicino... capito Muna? - soggiunse poi, forzando la voce.

- Ho capito, orso! - reagì Muna, fingendosi offesa. Nei suoi occhi c'era una maliziosa espressione di piacere.

Rise divertita mentre si lasciava sistemare la corda intorno ai fianchi e la sua risata esplodeva in vampate d'allegria ogniqualvolta Tom le cingeva i fianchi per regolare i nodi .

Alfred si legò da solo e fece controllare i nodi a Tom. Prima di muoversi, si girò indietro e, con un ampio gesto del braccio salutò il bivacco che si perdeva lontano nel brillio del nevaio.

 

Ora che si sentiva al sicuro, Alfred faceva lo spiritoso e si divertiva a prendere in giro Tom per le sue inutili preoccupazioni: con il tempo dalla loro parte e il ghiacciaio che pareva un mare di bonaccia, se la sarebbero cavata anche da soli!

Tom lo lasciava dire. Dopo tanto penare, un po' d'allegria non guastava e lui non doveva continuamente voltarsi indietro a controllare i due inesperti compagni di cordata. Anche se a vederli come si muovevano sulle racchette, così goffi e traballanti, non c'era proprio da stare tranquilli: sembravano due papere appena fuori dallo stagno.

In verità, tutto era così sfacciatamente propizio: l'aria appena frizzante e la neve compatta, tutta dune ben modellate, con poche fragili increspature sui dossi ventosi.

Troppo bello per durare a lungo.

Ben presto, infatti, il sole divenne una palla di raggi infuocati e trasformò il nevaio in un campo di poltiglia saponosa.

Tom l'aveva previsto e si teneva vicino alle rocce, cercando di evitare i tratti scoscesi e quelle insidiose fosse di calore che comprimono i bronchi e le tempie fino a farle scoppiare.

All'improvviso, dietro una duna, apparve un crepaccio, scuro e profondo come una caverna. Accanto, separato da uno stretto seracco, un altro, e un altro ancora che spaccava la schiena del dosso.

Muna si coprì gli occhi: la bocca del crepaccio s'avventava su di lei con le fauci spalancate come se volesse inghiottirla e la invitava a lasciarsi scivolare giù nella sua gola di ghiaccio.

Tom si guardò intorno e scosse la testa: ci mancava anche questa! Si spinse sopra il ponte di neve e ne saggiò la consistenza. Troppo fragile. Bisognava risalire e cercare un altro passaggio.

Alfred se ne stava in disparte, sudato e muto, in attesa delle decisioni di Tom. Allungava il collo sulla voragine per guardare giù, e subito si ritraeva impaurito.

Era orribile quell'oscurità dalla quale salivano lamenti e folate di aria gelida, come se le anime dell'inferno si fossero radunate in fondo al crepaccio per celebrare chissà quale misterioso rito pagano.

Tom gli indicò un ponte di neve poco più a valle, all'apparenza compatto e accessibile.

Alfred non poté trattenere una smorfia di contrarietà. Per un momento, ebbe un tremendo sospetto. Non doveva assolutamente perdere di vista lo zaino, doveva tenerselo stretto stretto e non mollarlo. Per nessuna ragione. Soltanto così poteva controllare la partita.

Si vergognò immediatamente di quel suo pensiero, ma se Tom si comportava da pazzo, non era certo tenuto a seguirlo. Sarebbe risalito per dove era venuto e avrebbe aggirato il dosso. A quel punto, bastava seguire il pendio.

- Ci sono più buchi lassù che in un gruviera - lo interruppe Tom, indicandogli una placca di ghiaccio tutta crepe e caverne - forza, statemi vicino, non perdiamo altro tempo.

Una nuvola oscurò il sole e lo teneva come prigioniero.

Alfred si beò di quell'improvvisa frescura e si sentiva pieno di energie. In quelle condizioni poteva superare tutte le montagne dell'arco alpino, senza problemi, ma subito il sole si liberò della sua nube e riprese a martellargli il capo con raggi di fuoco.

Poi, al di là di una duna, si presentò un enorme crepaccio, buio e profondo come la gola del diavolo.

- Porc... - fece Tom, trattenendo l'imprecazione.

Era proprio un bel buco, di quelli lisci e senza fondo, che portano dritti all'inferno, ma con un gran ponte di traverso, all'apparenza compatto e resistente.

Tom piantò la piccozza in una fessura del ghiaccio, controllò che fosse ben salda, fissò la corda all’impugnatura e legò un capo al collare di Rocky:

- Forza, fai vedere chi sei ! - gli disse, accompagnandolo sul ponte di neve.

Rocky obbedì senza esitare, c'era abituato, e andava via spedito, saltellando con aria disinvolta.

Superato il crepaccio, Rocky si girò indietro a guardare, si diede una bella scrollata di pelo, e abbaiò.

- Bravo Rocky - gli urlò Muna, battendogli le mani, ma Tom la zittì, le fece cenno di non agitarsi che non era il caso, e di starsene buona.

Lei si quietò:

- Il solito orso - mugugnò.

- Via, non averne a male, non dobbiamo perdere la concentrazione - disse Tom come per scusarsi, quindi, rivolto ad Alfred che aveva seguito la scena con trepidazione - datemi lo zaino - soggiunse - vi muoverete meglio.

L'attaccamento di Alfred allo zaino era più forte della sua paura. Sudato e pallido, un po' guardava il crepaccio e un po' guardava Tom.

- Ce la faccio, ce la faccio - seguitava a ripetere con aria sospettosa.

Tom provò ad insistere, ma di fronte alla cocciutaggine di Alfred, preferì lasciar perdere. Per un momento volle pensare a un gesto di coraggio, ma senza convinzione.

- Peggio per voi - brontolò, spingendosi sul ponte.

Prima di muoversi, tastò più volte la consistenza del ghiaccio, quindi avanzò lentamente tenendo d’occhio i blocchi di neve che precipitavano nel vuoto in un vortice di polvere bianca.

Dal fondo del crepaccio saliva l’eco dei passi con un suono angosciante, da incubo, mentre Tom procedeva a passi lenti, misurati, sfiorando appena la neve: quando fu certo che il seracco poteva reggere, si diede un bel colpo di reni e con un balzo superò la voragine.

- Ora tocca a voi - urlò cercando una posizione comoda per fare sicurezza - venite avanti, vi reggo io!

Muna voleva farsi bella agli occhi di Tom e, dopo il primo momento di naturale titubanza, infilò il ponte di neve e sfoggiò le sue reminiscenze di ginnasta equilibrista.

Si muoveva con tanta disinvoltura da lasciare tutti estasiati. Davvero ammirevole. Lei stessa si meravigliava e si stupiva della sua bravura: Tom le infondeva una tale fiducia che l'avrebbe seguito ovunque, anche in fondo al crepaccio.

- Mica me l'avevi detto - si compiaceva Tom, allungandole il braccio.

Lei gli veniva incontro a passi corti e svelti, con aria trasognata, da sonnambula.

- Fa' attenzione, guarda dove metti i piedi. - Tom la teneva per la corda come una giovenca e si piantava nella neve forte e dritto come un pino di plaga.

- Brava, così - seguitava a ripetere per incoraggiarla, ma lei neppure la vedeva la voragine, aveva lo sguardo puntato su Tom e non vedeva l'ora di gettarsi fra le sue braccia.

Non s'era mai trovata a fare equilibrismo sopra il vuoto vero, e la voragine le procurava un senso di eccitazione, quasi di euforia, come al saggio di fine corso con tutti gli occhi degli insegnanti e degli spettatori addosso. Non puntava neppure i bastoncini, li teneva in aria a braccia larghe, e faceva gridi secchi e acuti per scacciare la paura.

Ora Tom le stava proprio davanti, grande e scuro come una roccia: sentiva l'odore di muschio e di neve dei suoi panni sudati. Quando gli fu abbastanza vicino da poterlo afferrare, si mise in posizione e, con un agile colpo di schiena, gli volò addosso.

Sentiva il petto gonfio di emozione, rideva e chioccolava come una gallina.

- Pazza incosciente! - imprecava Tom, mentre tentava di scrollarsi di dosso quella specie di demonio scatenato, ma lei seguitava a ridere e non accennava a smettere.

Tom attese che si fosse calmata, poi ritornò al seracco e chiamò Alfred che attendeva immusonito sul bordo del crepaccio.

- Forza, tocca a voi adesso, recuperate la piccozza e venite - gli urlò, mostrandogli che teneva la corda ben salda in pugno per fargli sicurezza.

Alfred fece un po' di storie e si prese anche della femminuccia: si lamentava per la sete e per gli occhiali che gli serravano le tempie, raccoglieva ghiaccioli e li succhiava come caramelle.

Finalmente si decise: se era destino che morisse, sarebbe morto e amen.

Dopotutto veniva da un paese dove si moriva tutti i giorni, ma erano cose che riguardavano gli altri e non s'era mai soffermato a ragionarci sopra. Il destino, fino a quel momento, gli aveva usato un occhio di riguardo...

Questa storia del destino non lo convinceva affatto: qui, la sorte se la stava giocando lui, con le sue mani.

Poteva chiedere aiuto al Signore, ma gli pareva d’averne approfittato abbastanza, in passato, nei momenti del bisogno...

Eppoi, perché tanta paura di morire? Se è vero che di là è tutto così straordinariamente magnifico!

Provò un senso di nausea a guardare di sotto: un passo falso e avrebbe raggiunto il diavolo dritto dritto all'inferno.

Se non moriva nel crepaccio, sarebbe certamente morto di paura.

Recuperò la piccozza e avanzò lentamente: un passo, un altro, e un altro ancora, e ogni volta che posava il piede e sentiva la neve solida e ferma, tirava un sospiro di sollievo.

Si aggiustò lo zaino sulle spalle e fece un altro passo. Ormai non c'era che continuare.

- Forza, muovete quelle zampe - gli gridava Tom dall'altra sponda - e non pensate al vostro maledetto sacco...

Poi, senza neppure avvertirlo, diede uno strattone alla corda e se lo fece rotolare addosso come un materasso.

Alfred si ritrovò sudato e ansante tra le braccia di Tom. Si palpava e si girava indietro a guardare, quasi per accertarsi che fosse ancora vivo. Era vivo davvero!

Tom fece passare la scatola dell'unguento e distribuì dell'acqua dal vago sapore di tè, dopodiché si portò sulla cima di un dosso e studiò attentamente il percorso: doveva decidere se proseguire per il costone nevoso o se affrontare la seraccata terminale del nevaio.

A quell'ora, col sole a picco e l'aria molle, incombeva ovunque la minaccia di slavine. Sul tratto ripido del costone affioravano già dei segni di distacco e sui bastioni alti, dove la montagna aveva eretto una muraglia di ghiaccio grande e massiccia come i torrioni del Castellaccio, c'era un enorme seracco pronto a staccarsi alla minima sollecitazione.

Meglio scegliere la via dei crepacci, meno agevole, ma certamente più sicura: il ghiaccio era compatto e i crepacci nè troppo larghi nè troppo profondi, soltanto un po' angoscianti a vederli, come le fauci di un mastino insonnolito. Qualcheduno si apriva minaccioso più di altri, ma facilmente superabile. Lo spiegò ai suoi compagni:

- Coraggio, è l'ultima fatica - soggiunse.

Dopotutto si trattava di muovere i piedi con un po' d'attenzione e di seguire lo stretto labirinto che portava a valle, evitando di cadere in una di quelle trappole di ghiaccio. C'era sempre lui, comunque, a guidarli e a fare sicurezza.

Dopo un breve tratto pianeggiante, lungo il quale poterono riprendere fiato e meditare sulla loro fragilità, affrontarono i crepacci: erano davvero orrendi a vederli, con quelle bocche spalancate pronte ad inghiottirli in un solo boccone, e i seracchi stretti stretti, tutti cosparsi di terriccio, all'apparenza fragili e inaccessibili.

Di tanto in tanto, una pietra rotolava nel buio di una voragine e rimandava indietro schiocchi secchi e duri: Alfred si impuntava come un mulo e stava con l'orecchio teso finché il suono non si perdeva nelle profondità del crepaccio.

Tom lo strapazzava e gli dava dell'impiccione, della zavorra guastafeste e del buono a nulla, ma poi cercava d’imbonirlo e lo incitava a proseguire indicandogli la bella macchia verde ai piedi del nevaio, tutta mughi e fitta d'abetaie.

Del resto, non c'era che d'aver pazienza. Non si poteva pretendere di più dai due inesperti compagni di cordata: ciò che avevano dovuto sopportare non era cosa da poco!

Alfred, dal canto suo, non ci faceva più caso, s'era abituato alle sfuriate di Tom e non se la prendeva più di tanto.

 

La seraccata finiva in un impasto di ghiaccio e di terriccio, sopra un pianoro di morene scure, umide e molli come le rive dell’inferno. Eppure, intorno era tutto così meravigliosamente suggestivo: le cime aguzze, le rocce, i seracchi, i declivi nevosi, le nubi di bambagia, il cielo turchino...

E l'aria fina e pura, col sapore di sole e il profumo di roccia, appena leggermente frizzante e cruda al respiro, ma appagante e ristoratrice.

Tom si fermò accanto a un masso di dolomia: doveva essere precipitato lì da poco e ora mostrava la sua anima fradicia attraverso una spaccatura ricoperta di muschio e quarzo cristallino.

- Mangiamo qualcosa, ho appetito – disse Tom, frugando nel sacco.

- Non ho voglia di niente - sbuffò Alfred, sdraiandosi sul terriccio - lasciatemi qui, voglio morire in pace...

Non ebbero il tempo di ridere.

Dai bastioni alti del Roseg venne un gemito, quasi un lamento, sordo dapprima e via via sempre più cupo, come il lacerarsi di una quercia sotto il peso dei suoi anni.

Un attimo per voltarsi a guardare, e uno schianto secco, quasi un colpo d'ascia, fece vibrare l'aria mentre un seracco si staccava dalla spalla del Roseg e andava a sfasciarsi sui sassi della pietraia.

Il boato rimbalzò da una montagna all’altra, poi si perse nel vallone come il rantolo del tuono dopo il temporale.

Muna impallidì:

- Ci siamo appena passati - sussurrò con voce rotta dall'emozione.

- Non è successo niente, sono cose di tutti i giorni - rispose Tom con distacco, prese Muna per i fianchi e la invitò a guardare verso una macchia verde ai piedi della morena.

Tra le rocce dell'abetaia, dove il bosco si faceva impervio e rado, centinaia di camosci, a branchi, ciascuno attorno al proprio verde e al proprio abete, brucavano muschi e rupicole e tentavano di addentare i rami bassi delle piante.

Le camozze, protese sulle zampe posteriori, affondavano i denti nella corteccia del tronco, la facevano a brandelli, e la distribuivano ai piccoli che, traballanti e insicuri, si strofinavano fra loro e si spingevano coi fianchi per porgere alle loro madri le giovani bocche affamate.

- Veh - fece Muna, trattenendo un grido.

- D'inverno, si riuniscono qui, si cibano di arbusti e di radici - spiegò Tom con l’aria di saperla lunga - le giovani camozze curano i piccoli, mentre quelle più vecchie fanno la guardia sulle rupi alte, un po' discoste, ma vigili e attente. Vedi, hanno avvertito la nostra presenza e hanno smesso di brucare.

Muna era eccitata e si aggrappava a Tom. Sentiva un desiderio immenso di chiudersi fra le sue braccia e lasciarsi andare. Lui le accarezzò i capelli ricci e spettinati e la fissò a lungo nei grandi occhi neri. Stava per dirle qualcosa, ma lei lo interruppe.

- Guarda, Tom, guarda - esclamò portando le mani al viso.

Sulla dorsale morenica di Tschierva, come uscito dal bagliore della neve, veniva a passi lenti e grevi un camoscio: un camoscio bianco. Veniva con portamento austero, mostrando le lunghe corna ricurve sopra il collo segnato dalle ferite di cruente battaglie. Ai raggi del sole, il suo mantello prendeva colorazioni rosa e d'oro come le rocce innevate di Corvatsch.

Il camoscio si fermò su un dosso e rimase immobile. Di tanto in tanto si volgeva in direzione delle camozze, poi tornava a fissare Tom.

Aveva un che di umano in quel suo sguardo, tra fiero e malinconico, come se si portasse dentro l'orgoglio delle battaglie e la nostalgia dei ricordi.

Forse non era più capo branco, ma le camozze avevano smesso di azzannare cortecce e lo seguivano da lontano in rispettoso silenzio.

Anche Rocky s'era piantato sulle zampe con la coda dritta e guaiva.

Tom frugò nello zaino, poi, muovendosi lentamente, lasciò una manciata di sale sopra una roccia liscia e squadrata, e ritornò sui suoi passi.

- Una bella schioppettata, altro che il sale - mugugnava Alfred da dietro - una bella bistecca e amen...

Tom non rispose. Li conosceva i tipi come lui, sempre eccitati e con le bave alla bocca per quella smodata voglia di uccidere, solo per levarsi lo sfizio del sangue.

Il camoscio s'era avvicinato alla roccia e annusava il sale con le narici gonfie: ora guardava Tom, ora il sale, e non voleva decidersi.

Tom arretrò un altro po' e, solo quando fu abbastanza lontano, il camoscio si tranquillizzò e finì di lappare il sale.

Poi, lentamente, si girò verso il monte e in pochi balzi sparì dietro un ciglione.

Muna era rimasta zitta, con lo sguardo nel vuoto.

- Non stanno mai con le femmine - disse Tom con aria di compiacimento - le incontrano soltanto a primavera, sulle rupi alte, quando devono accoppiarsi, poi se ne vanno per la montagna, liberi e soli, senza tanti impicci d’attorno.

 

 

 

 

La cresta del Bernina si perdeva dietro i bastioni di Aguagliouls, mentre i crinali tondeggianti di Corvatsch si infiammavano di sole. Sopra le guglie rotolavano nuvole rosse e viola, e i picchi argentati dei Giümels offrivano al vento le ripide dorsali turgide di neve.

Il rifugio apparve all’improvviso, oltre l’abetaia, col tetto bianco e l'usciale illuminato. Dal camino salivano fumi grigi e bruni che si sfilacciavano sul bosco spinti dal refolo fresco della sera.

- Non ci posso credere – gioiva Muna, saltellava e cantava, abbracciava ora Rocky, ora Tom, traboccante di freschezza e di euforia come se la lunga traversata fosse stata per lei soltanto una breve scampagnata.

Giunsero al rifugio ch’era già buio.

Alfred poté finalmente togliersi dai piedi quelle ingombranti racchette alle quali non s'era ancora abituato. Le gettò da un lato, accompagnando il gesto con un sospiro di sollievo.

Muna lo imitò in silenzio. Si girò a guardare la montagna, poi raggiunse Tom che l’attendeva sulla porta dell'uscio.

Entrarono così, sudati e sporchi, ma un uomo con i lunghi baffi arricciati li invitò a calzare le pedule e a riporre gli scarponi nell'apposito scaffale.

Disse di essere il custode e diede ordine di preparare la suppe a una donna dai capelli biondi che lo chiamava rispettosamente signor Tam.

Quindi li accompagnò nella sala grande dove c'era il camino acceso, il tavolo con la tovaglia rossa, il candelabro, e i rametti di ginepro in una bottiglietta tutta dipinta a fiori.

- L'avete presa comoda - disse, dando fuoco alla candela sul tavolo – v’abbiamo visti in cima al passo e poi siete spariti, ci siamo preoccupati e stavamo per venirvi incontro - continuò, indicando un uomo col cappello da guida seduto all'angolo del camino.

L'uomo fece un cenno col capo, poi continuò a fissare il boccale di birra che teneva tra le mani. Sembrava rude quell'uomo, ma con lo sguardo da saggio. Tom si presentò e gli strinse la mano grande e legnosa.

- Rauch è la migliore guida del Roseg - gli disse il gestore, stuzzicando il fuoco con l'attizzatoio - l'ha scalato almeno cento volte.

Intanto Alfred s'era avvicinato a Tom e tentava di dire qualcosa, ma la commozione gli impediva di parlare.

- Grazie, grazie - seguitava a balbettare, ma non riusciva a concludere.

- Lasciate perdere - lo interruppe Tom spingendolo verso la scala - andiamo a ripulirci, puzziamo come capre.

 

 

Quando Muna scese l'ultimo gradino della scala, si voltarono tutti a guardare.

Il profilo arcuato dei suoi fianchi si stagliava contro i vetri dell'usciale, lasciando gli stupiti avventori coi volti muti e incantanti a scambiarsi occhiate di compiacimento: erano troppo educati per azzardare commenti, ma lei era apparsa con tanta improvvisa avvenenza che non seppero darsi un contegno e nascondevano a fatica il loro turbamento.

L'uomo col cappello da guida masticava tabacco con tale avidità da farsi venire gli stimoli di tosse, mentre il gestore si succhiava i baffi e sgranava gli occhi come un camoscio in amore.

A Muna piaceva sentirsi gli occhi addosso, ora che non temeva abusi e prepotenze, e l'idea che qualcuno potesse desiderarla le procurava un senso di morbosa eccitazione.

Indossava il costume engadinese che la donna bionda le aveva rimediato per l'occasione, e veniva avanti passandosi la mano sui capelli raccolti in un nastro di seta rosso, quasi volesse scacciare l'immagine che Tom aveva di lei, sempre così in disordine, su per le nevi del bivacco.

Tom attendeva al camino: adesso che s'era ripulito, sbarbato, e messo la camicia nuova, poteva anche abbracciarla.

Ripose l'attizzatoio e le tese la mano.

Ora respirava da vicino il profumo di lavanda dei suoi capelli: un profumo di pelle, di carezze, di amplessi, di cose attese e desiderate.

Per un istante rivide il sorriso di Valentina: sentiva la sua voce, il fruscio delle sue sottane, il calore del suo corpo, come se l'aria fosse pregna della sua presenza. Ora, però, senza nostalgia, senza rimpianti, senza pensieri di sofferenza.

Prese fra le braccia Muna e se la tenne stretta a lungo, in silenzio, mentre lei singhiozzava e si asciugava i lacrimoni sul colletto della sua camicia.

Provò un certo imbarazzo quando incrociò lo sguardo di Alfred. Si scambiarono una breve occhiata, l'uno per giustificarsi, l'altro per esprimere la sua comprensione.

Presero posto al tavolo accanto al camino.

La signora dai capelli biondi aveva preparato la suppe coi crostini di pane secco e la servì calda e fumante.

- Bevi per dimenticare, ma non dimenticar di bere - recitò il signor Tam, lasciando sul tavolo una bottiglia di vino rosso, ripassò i calici col tovagliolo, e ritornò a conversare con Rauch.

Alfred riempì i bicchieri a metà, lentamente, come faceva Tom al bivacco, levò in alto il calice e brindò alla salute del suo salvatore:

- Grazie Tom.

Non disse altro, vuotò il bicchiere in un fiato e si gettò sulle vivande senza tanti complimenti.

Mangiava e beveva che era un piacere vederlo, e si sbizzarriva a decantare i piatti, innaffiando le pietanze con abbondanti sorsate di vino: la suppe era una crema, le patate al forno bocconcini da re, il pane al malto una soffice e croccante brioscia, perfino i crauti all'aglio e aceto avevano un gusto delizioso di primizie.

- Quando il vino è genuino, diventano così, come il fuoco - disse il gestore, indicando le orecchie di Alfred che s'erano fatte rosse come la brace del camino.

S'era avvicinato portando una bottiglia tutta coperta di polvere come il berretto degli spazzacamini. La stappò con gesti lenti e misurati e la versò in una brocca di cristallo. Intanto faceva notare il colore del vino, di un rosso bruno antico, come le rocce rugginose di Entova.

- Un buon vino è come la buona musica - recitò ancora dopo averlo assaporato - bisogna gustarlo col cuore.

- E berlo con gli amici - si affrettò a precisare Alfred, prendendo per il collo il suo bicchiere. Quindi invitò Rauch a bere con loro e subito la conversazione si animò di argomenti nuovi.

Muna non volle bere più.

Fece un breve giro tra le foto e i trofei di caccia appesi alle pareti della stanza, e ritornò al tavolo: si sentiva come presa dalle smanie e non vedeva l'ora di restare sola con Tom. Lui l'aveva capito, ma faceva l’indifferente.

Muna gli andò vicino e si appoggiò sulle sue spalle.

- Avete proprio deciso di partire? - gli stava domandando Rauch.

Tom non rispose e versò dell'altro vino nei bicchieri.

Solo Rauch rifiutò:

- Devo alzarmi presto domattina - disse, mandando uno sguardo a tutti. Raccolse i suoi attrezzi e si congedò.

Anche il gestore voleva ritirarsi e indicava Alfred che sbadigliava e si guardava attorno con occhi assonnati.

- Sarà meglio portarlo a dormire - disse schiacciando un occhio, e si avviò alla scala sorreggendo per i fianchi il povero Alfred che ciondolava e si stirava senza ritegno.

Rocky si avvicinò a Tom e gli leccò la mano, poi andò ad accucciarsi nell’angolo accanto al camino.

 

 

Il vento della sera aveva preso a soffiare sui mughi del piano e filtrava dall'usciale portando un ricordo di ghiaccio e di gelo.

A quell'ora, la mente si svuota dei pensieri e affiorano i sogni: il rifugio diventa un piccolo universo di quiete e di silenzio, s'ode solo l'alitare dei ceppi, odorosi e gonfi di ardore, quasi vivi a vederli, gli uni addosso agli altri, proprio con un'anima che sgorga dagli alburni smembrati e lascia le cortecce vuote e consumate a meditare sulla ineluttabile provvisorietà delle cose.

Muna s'era stesa sul tappeto accanto al fuoco e fissava il soffitto scuro e amorfo, appena mosso da un riflesso di fiamma arancione.

Non che fosse in contemplazione del soffitto, perché non c'era nulla da contemplare se non quel guizzo d'arancione sui cassettoni e sugli ottoni delle lumiere, ma il soffitto le dava un senso di rilassamento, come un cielo senza voli e senza nuvole.

Era come assistere a un continuo proiettarsi di passato e di futuro sotto la cupola dell'universo che stava sopra: illusione che appariva e scompariva e diveniva passato, dove il guizzo d'arancione era l'unica impressione di continuità del tempo che fugge.

Ancora non s'era profilata l'immagine del presente, che subito si faceva avanti il futuro, ma neppure quello si lasciava afferrare, e scivolava via nel passato in un continuo accavallarsi di forme evanescenti, sospese a metà, tra sogno e fantasia.

Muna pensava al bivacco, alle rocce colorate di luna, ai seracchi d'argento.

I suoi occhi s'erano fatti trasparenti e chiari come il laghetto di Scerscen e fissavano Tom con un'espressione di trepida attesa: sentiva la sua mano sulla pelle, nodosa e forte come i rami di garbice.

Chiuse gli occhi e si lasciò andare alle carezze di Tom.

Il Roseg coglieva dal cielo il primo raggio di luna: sembrava un profeta in meditazione.

 

 

 

Fine

 

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