L’onda del Fiume

di tito di blasi

ritorna alla pagina editoria

 

 

A chi per la prima volta risale la pianura che, dopo Trivio Fuentes, si apre sulle rive dell'Adda, la valle regala panorami di boschi adagiati sulla spalla dei monti ed emozioni nuove, di cime innevate scolpite su orizzonti lontani.

Viene spontaneo rallentare il passo dopo il veloce passaggio sulla strada del lago, per ammirare i crinali e i riflessi di luce che il fiume riversa nel Lario.

Dietro gli anfratti rocciosi del monte Ligoncio che digrada come un sipario su Cino, Mantello e Dubino, scompare presto la valle del Mera che porta a Chiavenna, al Maloja, allo Spluga e all'incantevole conca di Madesimo: terra di antica cultura e di nobili tradizioni dove il Carducci e il Bertacchi solevano trascorrere le vacanze fra i crotti che esaltavano fragranza di rime e di vino.

La strada quindi risale la valle fra schiere di platani, seguendo il corso della ferrovia.

Qui l'Adda si adagia, quasi un braccio del Lario, fra sponde di prati che si stringono intorno alla valle; sui fianchi, come solchi scavati fra vecchie abetaie, scendono numerose vallette ricche di pascoli e di laghi.

Sopra Morbegno, dominato dal profilo di Olano, si apre la valle del Bitto che porta da un lato al passo San Marco, segnato dagli antichi mercanti veneziani con grossi leoni scolpiti nel marmo, dall'altro a Gerola, paese di rinomati casari e prelibati formaggi.

Più su, oltre Talamona, un torrente di sassi si spinge dalla valle di Tartano fin dentro i confini della provincia di Bergamo.

Poi, lo sguardo spazia nell'aria e incrocia le cime del Cengalo e del Pizzo Badile, risale l'ampio anfiteatro di rocce fino a Ponte del Baffo e a San Martino dove la strada si insinua fra volte di arbusti, fustaie di faggio e di abete prima di aprirsi sui sassi e i graniti, antica palestra di roccia di tanti alpinisti.

Dopo il bacino di Masino e Ardenno lo sguardo s'adagia su colli protesi a terrazzo, su vigne e ruderi antichi: Maroggia dal vino fragrante e corposo; Sassella, Masegra e Grumello, dove sono maestri nel volgere i tralci e potare le viti. Di fronte Albosaggia domina Sondrio e si specchia nell'Adda.

Superate le anse del Mallero e delle Cassandre che assediano Gombaro con fragorose cascate, si ammira poi la parte più bella della Valmalenco, con lo sfondo di Scerscen, Roseg e Bernina e, tra le quinte, Scalino e Disgrazia.

Più modeste ma ugualmente imponenti si profilano a Sud le Orobie con le cime di Scais e di Rodes; da qui, quando l'aria è pulita, si vede lontana la punta del Duomo con la sua Madonnina; poi il Pizzo Stella, il pizzo del Diavolo e il monte Redorta con guglie ardite ricoperte di neve.

E ancora vigne e castagni: corre la valle fra i colli di Poggi, di Tresivio, di Teglio e la conca di Aprica; ed ecco Tirano dove l'Adda raccoglie le acque del Poschiavino, testimone di storia, di avventure e di antichi conflitti.

Da qui la strada decisamente sale con buon dislivello, fra conoidi pietrosi, foreste di abete, macchie verdi di pini. Su e giù per la costa del monte, giocando con l'Adda a sorpassarsi qua e là, un serpente d'asfalto s'insinua fra case di sasso e contrade; ma chi va ad abitare lassù, sulla cima del monte, fra quelle nuvole grigie frustate dal vento? Con quella piccola strada che vien giù dalla chiesa fra sassi e ruscelli e impervie salite? Eppure qui l'uomo ci vive con quello che il monte gli dà, con fatica e con qualche rinuncia.

Da Mazzo a Grosio, famoso per la bellezza delle sue valli e per i piatti del Jim, da Sondalo a Morignone, a Cepina, il cielo si stringe sempre di più tra il verde dei monti; i raggi del sole, come lame dorate, tagliano l'ombra dei pini; l'aria profuma di muschio e il rumore si perde nel silenzio dell'alpe.

Ed ecco le cime di Reit, dei Piazzi, del monte Sobretta, dominate dai ghiacci e dai venti del Nord.

Elegante e tranquillo nella sua conca di sole, Bormio si adagia fra piste di neve e giardini di verde, alla fonte di acque balsamiche e curative, dove gli antichi, da Plinio a Valerio, solevano recarsi in calesse da Roma a curare lo spirito e i sensi.

Da qui si sale in Valfurva, cruda e selvaggia, fra l'Ortles, lo Zebrù e il Cevedale, regno di aquile, cervi e camosci; si sale a Stelvio a sciare, d'estate, su nevi perenni battute dal sole; o in primavera, con la prima luna di giugno, sfiorando appena il Cristallo, giù per la Val dei Vitelli, una lunga volata su sci.

Ecco poi la Val Viola, tra il monte Foscagno e il Dosdè, ricca di acque profumate di neve e di sole.

Quindi si arriva a Trepalle, sul tetto d'Europa, a Livigno e in Val Federia a raccogliere le voci del mondo: si ritrovano qui tutti quanti, poveri e ricchi, a comprare, a giocare, a cantare, a sciare, a fare provvista di aria e di sole da portare in città, fra l'asfalto e il cemento. Qualcuno vuol raccoglier di più: stelle alpine, nigritelle, rododendri, genziane...

Non lo fate! Stanno bene quassù!

 

Siamo in estate, tempo di vacanze per chi può e di esami per gli studenti.

Quattro passi in piazza con amici a commentare il listino di Borsa, soffermandosi di tanto in tanto ad ammirare scorci di paesaggio che, fra le case, sembrano quadri dipinti nell'aria: S. Bartolomeo, S. Lorenzo, Grumello, Masegra, fra boscaglie di pini, ontani e cipressi quest'anno particolarmente rigogliose.

- Guarda lassù sotto le cime di Pessa e di Scais.

- É Legn Marsch, ci si può andare in rampichino da Piateda; ma guarda là, Albosaggia Vecchia , Bricera...

E poi si riprende a parlare dei vecchi tempi, degli amici burloni che ogni giorno preparavano uno scherzo; e non risparmiavano nessuno.

- Caro Gianni, ti comunico che da oggi sono in ferie e ho preparato un programma in montagna veramente favoloso;

- Ma stai attento, te vist el Maler?

- Eh sì, purtroppo, e poi questa pioggia ... speriamo che cessi!

- E se no cosa fai?

@SALTO PAG. = - Mah, sai cosa faccio? ... Scrivo.

<P24B>L<P255D>a Valtellina è una valle longitudinale formatasi in seguito alla pressione dell'Africa contro l'Europa.

La struttura del suo terreno è estremamente friabile e pertanto facilmente soggetta a processi di erosione.

Il mantenimento del suo assetto naturale è legato a comportamenti e ad interventi umani estremamente delicati, attenti agli aspetti morfologici che la caratterizzano.

Non è sufficiente ammirarne la bellezza distribuita fra boschi e cime innevate; non è sufficiente evitare il taglio delle piante e governare lo sfruttamento delle acque; è necessario difenderla dai predatori, custodirla e curarla, rinnovandone la flora e la fauna, in armoniosa simbiosi con le presenze economiche e sociali, ma sopratutto bisogna amarla. Amarla con lo stesso amore di coloro che un tempo la resero abitabile e fertile, che piantarono vigne a terrazzo e frutteti fino a mille metri, che rinnovarono boschi e alpeggi per la cura del bestiame, che trasformarono le località alpine in stazioni turistiche di sobria eleganza; con la stessa cura di coloro che in passato trasformarono una valle povera in un giardino di verde, con montagne e acque incontaminate e cieli azzurri dall'irripetibile trasparenza.

 

Nei giorni precedenti l'alluvione, un'ondata di caldo investe la valle: umidità altissima, insolita per la Valtellina dove il clima secco, da sempre, caratterizza anche l'inverno.

La calura raggiunge altitudini impensabili, fino a 3000 metri; si parla di zero termico a 4000 metri, sulla cima del Bernina, dove lo spessore delle nevi diminuisce, in pochi giorni, di oltre un metro.

Le falde freatiche si riempiono e il terreno morenico, non più consolidato nella morsa del ghiaccio, perde consistenza, si impregna di acqua e scivola a valle.

I torrenti si scatenano con furia devastante dalle zone innevate; altri, senza cappello nevoso a monte, si ingrossano per la pioggia, ma non creano danni di rilievo.

Già in passato piogge, temporali e grandinate di durata e di intensità anche maggiore, si erano riversate sulla valle, creando smottamenti e frane, mai, però, di tali dimensioni.

Ora, la pioggia di pochi giorni non può, da sola, creare un dissesto del territorio così grave; la calura, il disgelo dei ghiacciai, la pioggia a 3000/4000 metri predispongono l'ambiente montano al disfacimento: così lungo i crinali, l'acqua scorre, trascinando terra, ghiaia, sassi, rami e sterpaglia; si appesantisce di fango e acquista forza dirompente, travolgendo ogni cosa.

Cosa sta accadendo?

Il processo di degrado dell'ambiente ha forse raggiunto livelli tali da innescare fenomeni di entropia? Ha già prodotto gli irreversibili fenomeni dell'effetto serra?

Il rialzo della temperatura, il disciogliersi di nevai e ghiacciai, le violente perturbazioni che hanno caratterizzato le condizioni climatiche degli ultimi anni sono forse la risposta al dilagante e incontrastato disordine dell'uomo?

Attraverso lo studio dell'atmosfera e con misurazioni effettuate da un gruppo di ricercatori, autori fra l'altro di un rapporto sulla situazione ambientale, si è potuto constatare che, nell'ultimo secolo, il livello di anidride carbonica nell'aria è aumentato del 25% e che la temperatura media della Terra si è alzata di circa mezzo grado.

Carlo Rubbia, premio Nobel per la fisica, ha pubblicato un libro dal titolo "Il Dilemma nucleare" nel quale, dopo una serena valutazione del comportamento umano, ci presenta un quadro desolante delle condizioni ambientali e sollecita interventi per salvaguardare la Terra da catastrofici eventi futuri.

Gli interventi, però, devono scaturire da un cambiamento di mentalità e da una rinnovata educazione sulla gestione delle risorse e sullo sfruttamento delle energie.

L'aumento di mezzo grado della temperatura, di per sè non dice nulla e ci lascia abbastanza indifferenti; ma se si pensa che si è verificato negli ultimi cinquant'anni ed è stato prodotto dall'esagerato accumulo di anidride carbonica nell'aria, allora è il caso di essere più prudenti.

La Terra non deve essere il regno incontrastato dell'uomo; la flora e la fauna sono componenti essenziali per l'equilibrio della natura. Se l'intervento dell'uomo continuerà al ritmo attuale si presume che, nei prossimi cinquant'anni, il tasso di anidride carbonica nell'aria potrà raddoppiarsi, arrivando a un livello mai raggiunto in 70 milioni di anni.

L'effetto serra, causato sul Globo da una tale condizione, porterebbe a un aumento della temperatura media della Terra di almeno quattro gradi, temperatura mai raggiunta in quaranta milioni di anni. Le conseguenze sarebbero disastrose!

Forse, ma ancora non ci sono prove, l'aumento di anidride carbonica potrà sollecitare la crescita di piante e alghe marine che ne assorbirebbero l'eccesso, riproponendo così il giusto equilibrio.

Queste affermazioni pongono in discussione le ricorrenti dichiarazioni di chi pensa che eventi come quelli del 18 luglio siano eccezionali e si verifichino con ricorrenza secolare.

I motivi di questa situazione, che anticipa un degrado di proporzioni superiori, vanno ricercati nello squilibrio fra le varie forze che regolano la trasformazione delle energie: un solo elemento viene meno e la natura tende a riportare l'equilibrio, ricorrendo a movimenti che assumono spesso espressioni di inaudita violenza.

Le incontrollate attività dell'uomo, predatore di popoli e di terre, insaziabile accaparratore e dissolutore di ricchezze, hanno stabilito condizioni che procurano effetti irreversibili sulla continuità dell'equilibrio naturale.

L'abbattimento delle foreste, in particolare delle grandi estensioni dell'Amazzonia e di ben 2/3 di quelle dell'Africa, ha causato una perdita del prezioso patrimonio boschivo di oltre il 30%, compromettendo il processo di fotosintesi che trasforma l'anidride carbonica in ossigeno.

Se a questo fenomeno viene associato il consumo esagerato di combustibili fossili che disperdono nell'atmosfera energia inquinante, i motivi di preoccupazione per la specie vivente sono ancora maggiori.

Se non si porrà rimedio, se al consumo di combustibili fossili non si sostituirà lo sfruttamento di energia nucleare, naturalmente con garanzie di sicurezza delle centrali atomiche, se non si interverrà sul patrimonio forestale con la necessaria attività di recupero e di mantenimento, entro i prossimi cinquant'anni si potrebbe raggiungere un degrado ecologico tale da innescare fenomeni degeneranti irreversibili.

Quali saranno gli effetti? La natura arriverà in tempo a ricomporre l'equilibrio necessario? L'uomo si ravvederà per tempo?

Già ora i ghiacciai sono trasformati in misere placche crepacciose e là, dove grandi estensioni di nevai costituivano preziose ed inesauribili riserve di acqua, non resta che un ammasso di detriti morenici.

Dall'Antartide si è staccato un enorme Iceberg di 165 chilometri di lunghezza, grande quanto l'intera Liguria, e si muove alla deriva nell'Oceano Atlantico.

I ghiacciai si scioglieranno ulteriormente; le molecole dell'acqua, così sensibili alle variazioni di calore, si dilateranno, facendo aumentare il livello dei mari e dei laghi; le terre saranno sommerse, nelle valli alpine ritorneranno le antiche paludi e poi la siccità.

Allora si ritornerà alle origini, per ricominciare da capo!

Forse qualcuno si ravvederà per tempo. Certamente non chi è accecato dal frenetico accaparramento di ricchezze e di potere o chi vuol denigrare la convivenza di principi morali e di equilibrio sociale con l'interesse di grandi complessi economici.

L'egoismo che porta l'uomo ad arrogarsi potere di vita e di morte su tutte le specie viventi, l'abuso e la prepotenza, la complicità e l'imperante permissivismo delle istituzioni, precludono alle generazioni future ogni possibilità di riscatto.

La certezza di non essere presenti il giorno in cui l'uomo sarà chiamato a rispondere dei propri misfatti non lascia spazio alle voci di allarme che si levano da ogni parte della Terra, nonostante il quadro disastroso presentato da eminenti scienziati.

La mattina di sabato 18 luglio il cielo è coperto e una pioggia leggera si alterna a scrosci d'acqua più intensa; aria calda e un odore acre di sottobosco, di muffa e di zolfo, invade la città fino alla periferia. É l'odore della terra e della sterpaglia dei monti, dei sedimenti e del materiale metamorfico che si aprono alla luce dopo secoli, forse millenni di oscurità e scivolano a valle nelle acque del Mallero.

Gente curiosa, sbigottita, impaurita, segue la massa di fango e il rotolare dei massi sul greto del torrente, un rumore cupo come tuoni durante un temporale.

Onde enormi, come di un mare in burrasca, sfiorano i ponti e si frangono contro il grande argine, opera eseguita dall'Imperatore F.Ferdinando I d'Austria dopo i gravi disastri causati dal torrente nel 1834 e opportunamente rinforzata negli anni scorsi.

Chi scatta fotografie, chi commenta preoccupato.

I vigili urbani, al comando di Marzio Bonadeo, corrono lungo il torrente per controllare la situazione. L'acqua batte con violenza sulle sponde, preannunciando ciò che, da lì a poche ore, dovrà accadere.

Una gran quantità di tronchi, di terra e di sassi, infatti, si ammassa contro il ponte di Gombaro che, sotto la spinta dell'acqua, viene divelto e trascinato nei gorghi insieme a un pezzo di strada, sotto gli occhi di centinaia di persone ferme a guardare da Ponchiera e dalle zone alte della città.

Originariamente una ondeggiante passerella di funi d'acciaio, il ponte fu ricostruito anni fa, non abbastanza alto però, per impedire il formarsi di uno sbarramento così pericoloso.

Memori dell'alluvione del '27, gli abitanti lungo il torrente lasciano le case: quelli di Gombaro per primi, appena in tempo. Il Mallero si è trasformato in una colata di fango denso e impetuoso, quasi un rigurgito della montagna sull'invadenza dell'uomo.

Gli alberi vengono trascinati come fuscelli; rotolando fra i sassi vengono letteralmente sbucciati e sembrano tronchi appena piallati; scorrono veloci con l'acqua, fino alla foce dove, in una provvidenziale cava di sabbia, il Mallero spegne la sua furia, prima di gettarsi nell'Adda.

Alberi, bidoni, copertoni, lamiere, plastiche, carcasse d'auto, giù lungo il corso del fiume, tutto va a riversarsi nel lago che, il giorno dopo, già inonda piazza Cavour.

La televisione presenta un quadro desolante: acque torbide e agitate; una gran quantità di lattine, cartoni, sacchetti di plastica, galleggia sul lago e sulla piazza.

Qualcuno commenta, fra sè e sè, come la natura si prenda le sue rivincite; rivede i turisti del fine settimana con auto e moto, su per strade e sentieri di montagna, scamiciati e sdraiati sui prati, abbandonati in scomposti e disordinati pic-nic, lasciare accanto a larici e abeti e sull'erba dei prati, sacchetti, giornali, bottiglie, contenitori di ogni tipo.

Li rivede su per i boschi a rivoltare il muschio per raccogliere funghi di ogni genere; risalire il pendio schierati a ventaglio, con sacchi pieni fino all'orlo, vuotarli in macchina per riprendere poi la raccolta incontrollata, ingordi ed insaziabili. Quando a sera poi se ne tornano a casa, sui prati e nei boschi, oltre al solco profondo delle ruote dell'auto, resta una coltre di immondizia e rifiuti.

 

Da mezzogiorno di sabato il Mallero, anche a causa del deposito di massi e di sabbia sul fondo, comincia a crescere vistosamente; onde lunghe e increspate lambiscono i ponti.

L'odore di fango è intenso, ma l'acqua, pur violenta, si fa meno densa; l'aria è ancora calda.

All'ora di pranzo vengono emanate le prime disposizioni di evacuazione, in seguito al crollo del ponte di Spriana in Valmalenco.

Notizie preoccupanti arrivano da ogni parte della Valtellina.

In Valmalenco, dal Sissone, precipita dal nevaio acqua mista a fango e roccia e invade la valle fino a Pian del Lupo, appiattendo il paesaggio selvaggio e pittoresco. Il campeggio, all'ombra di una tranquilla pineta, viene abbandonato prima che tende e roulotte siano travolte.

La massa di detriti, trascinata dalla violenza delle acque, rovina poi a valle lungo il favorevole pendio, fra balzi e pianori e, in quantità sempre maggiore, va ad intasare ponti e gole lungo l'intricato alveo del Mallero.

Dai ripidi crinali cadono le prime frane mentre altri torrenti, affluenti del Mallero, si ingrossano pericolosamente.

Sopra Torre S.Maria, si fa minaccioso, favorito dal disgelo delle nevi, il Torreggio.

Aspra e cruda, quasi una spaccatura nel terreno friabile e sconnesso su cui crescono disordinatamente alberi e piante di ogni tipo, il Torreggio porta a valle, fra balzi e cascate di roccia, acque impetuose.

Il torrente, spumeggiando, attraversa Torre S.Maria, fra case di sasso che fanno da cornice all'antico campanile della Chiesa, fra larici, abeti e betulle.

Gli anziani del paese conoscono la montagna e i suoi torrenti; sanno quando diventano pericolosi, quando gli alberi sradicati, misti a sassi e terra, formano, nei punti più angusti, ammassi di detriti che lanciano a valle, con forza immane, cascate di acqua come bombe.

Sono loro a dare l'allarme, appena in tempo. Poche cose raccolte in gran fretta e via, verso zone più sicure, sotto la pioggia battente, lontano dal pericolo.

Lungo la spalla del monte, intanto, frana un enorme costone di terra di fronte a Ciappanico, ma, fortunatamente, va ad appoggiarsi su uno zoccolo di roccia che impedisce disastri peggiori, come quelli provocati nel 1834.

Gli ultimi fuggiaschi sentono alle spalle il boato del torrente che aggredisce il paese, travolgendo e distruggendo le case.

Il sacrificio di anni di lavoro, le piccole attività artigianali e commerciali, le case riadattate con gusto e sobria eleganza lasciano il posto a un fiume di detriti fangosi, a una ferita profonda come una frustata.

Per prima arriva l'onda d'urto, come un vento fortissimo, a spazzar via una casa e la falegnameria Joli, accanto al torrente; poi, dal ripido pendio, precipita una valanga di alberi, fango, sassi e macigni che lacera il cuore del paese, travolgendo il vecchio ponte, molte case e la strada, prima di spegnere la sua furia nel Mallero, già paurosamente rigonfio di acqua.

Intanto, poco più in basso, contro il ponte sul Mallero, si ammassano sassi e tronchi d'albero portati a valle dalla violenza delle acque.

Sembra che in quel punto la montagna si sfasci; perfino i ruscelli sono diventati piccole cascate.

Ci vuole poco perché anche questo ponte ceda, lasciando parte del paese di Torre, già diviso in due, isolato e con un solo collegamento con Chiesa Valmalenco.

Il terrapieno su cui sorge la Chiesa di S. Maria viene eroso alla base, compromettendo la stabilità delle case e della chiesa stessa. L'acqua impetuosa spinge a valle massi enormi e detriti; travolge prima il ponte di Tornadri, poi quello di Spriana e numerose case sulla strada accanto al greto.

Lentamente, ma inesorabilmente, la massa di pietre e di ghiaia viene spinta verso Sondrio.

La casa dei Conti, al Prato, rimane miracolosamente incolume, ma, dopo il diluvio, si ritroverà in mezzo al greto del Mallero, circondata da acqua e da sassi nel raggio di cento metri. Un cumulo di detriti l'ha protetta, deviando su due rami il corso del torrente.

Presto giunge l'ordine di evacuazione per Arquino e i paesi sottostanti, Sondrio compresa. Un manifesto illustra il piano di emergenza, assegnando alle cinque zone in cui è stata suddivisa la città,la destinazione in caso di allarme. La minaccia è duplice: quella del Torreggio, con la frana di Ciappanico, e quella di Spriana, con la nota frana incombente. Quale cadrà per prima?

Quella di Spriana, anche se di tanto in tanto lascia cadere qualche sasso, è ferma da anni, oggetto di polemiche e contrasti anche politici. É stata ancorata con getti di cemento, ma l'intervento non è ritenuto sufficiente e qualcuno suggerisce l'installazione, sul greto del Mallero, di griglie e tubazioni per evitare, in caso di caduta della frana, il formarsi di una pericolosa diga.

Fino a sera dalla Valmalenco giungono notizie di dissesti: i più grossi ghiacciai dell'arco alpino sono alle falde del Bernina e del Disgrazia.

Il Pizzo Scalino fa la sua parte con grosse frane, in Val di Togno, in Val Fontana e in Val Poschiavina.

Sabato sera una frana per poco non travolge il rifugio in Val di Togno. Un rifugio nuovo, inaugurato nell'86, costruito riadattando la caserma della Guardia di Finanza, ormai inutilizzata.

Qui si alternano pascoli e pietraie a foreste d'abete e fustaie di faggio intercalate a cespuglio, con toni e colori che a novembre, con l'ultimo canto d'autunno, prendono sfumature di giallo e di rosso, e ai raggi del sole sembrano lingue di fuoco.

Sono circa le sette di sera e, insieme al suo aiutante, Giuliana si appresta a preparare la cena.

Fuori piove a dirotto; improvvisamente una valanga di acqua e fango viene giù dalla montagna e sfiora il rifugio. I due escono a vedere; una frana passa dall'altro lato; mentre Nello si porta su un dosso poco distante, un'altra ancora, enorme, si stacca dalle cime.

- Salta, Giuliana, salta - vieni qua!

Come un camoscio Giuliana vola al di là della frana; un piede le sprofonda nel fango che le risucchia la scarpa; con la forza della disperazione affonda le unghie nei cespi d'erba e si arrampica sul ripido e scivoloso pendio, appena in tempo per non essere travolta.

Nel fango rotolano sassi e alberi; urla e pianti vengono dalle baite vicine. Sembra avverarsi l'antica leggenda di quando in Val di Togno, a metà estate, anime di ricchi sondriesi si ritrovavano a far baldoria e si lanciavano sassi e macigni.

A piedi nudi, in camicetta e blue jeans, corrono giù per il sentiero nel bosco verso Arquino per dare l'allarme, così che, qualche ora dopo, una squadra di volontari, sotto la pioggia battente, può soccorrere le famiglie in pericolo; solo un pastore muore nel suo cascinale, travolto da un macigno caduto proprio sul tetto.

Ad Arquino il Mallero esplode in tutta la sua violenza contro le rocce. Il vecchio ponte di sassi supera indenne la furia delle acque e rimane intatto a testimoniare il buon senso di chi l'aveva costruito.

All'Alpe Musella si scatena il finimondo: la montagna frana, travolgendo alcune baite; resterà un luogo di ricerca per i collezionisti di minerali, come la Val Sissone. Lo stesso avviene nella zona di Campagneda, ben più vasta e aperta. Per fortuna nessuna vittima.

Sul versante svizzero del Pizzo Scalino, alle falde del Bernina, acqua e fango, misti a sassi e tronchi d'albero, si riversano nel lago di Poschiavo, invadono la valle e sommergono i paesi fino al confine, per poi finire nell'Adda a Madonna di Tirano.

Presso la cittadina di Brusio l'impeto del fiume travolge gran parte della strada sotto Zalende e Campocologno; più tardi viene distrutta anche la ferrovia e viene così interrotta qualsiasi via di comunicazione.

Dalla Val Varuna precipitano ondate di materiale, finché una frana di enormi proporzioni si scarica nel fiume, a Privilasco, ostruendone il deflusso e creando una pericolosa diga che, cedendo a più riprese, riversa acqua, fango e legname sulle strade e sulle borgate; una gran quantità di detriti va ad ostruire il ponte di Cimavilla, troppo basso e massiccio, causando un vero disastro.

La popolazione, guidata per radio, affronta il pericolo e si prepara all'evacuazione, finché non giungono le forze di soccorso con provvidenziali ed efficienti elicotteri. Poi, con grande dispiego di mezzi e personale addestrato, si tenta di aggredire il fiume di fango e detriti per limitare i danni e riportare le acque nel loro corso naturale.

Poschiavo è irriconoscibile: ristoranti e negozi invasi dal fango e dai sassi, case semidistrutte, automobili rovesciate e sommerse.

L'architettura svizzera, sobria ed elegante, ha subito una ferita profonda; il tranquillo paesaggio rupestre è stravolto da un diluvio di indicibile violenza.

L'acqua impetuosa scorre per le vie, trascinando le opere di riparo improvvisate accanto a negozi e cantine, e le auto galleggiano come barche, rovesciandosi e rotolando nella melma.

Per diversi giorni le vie di comunicazione rimangono interrotte; il posto di dogana è completamente devastato e ricoperto da legname e detriti che qui, dove la valle si stringe in una gola ad imbuto, si sono paurosamente ammassati l'uno sull'altro, provocando ulteriori disastri verso Madonna di Tirano.

Ci vorranno mesi per ripristinare le strutture e ripulire la valle.

Per fortuna le dighe delle centrali idroelettriche sono semivuote e possono trattenere l'acqua dei monti circostanti che vi si immette a una media di sei metri cubi al secondo; acqua che, altrimenti, andrebbe a peggiorare la situazione già precaria in valle.

A Forcola, però, il bacino artificiale è saturo e l'acqua trabocca da ogni lato. L'irruenza dei torrenti laterali fa saltare l'argine poco sotto Berbenno e i prati vengono inondati.

Si rende necessario, allora, abbattere un tratto di sponda più a valle per far rientrare l'acqua che ha invaso la pianura e le paratoje vengono regolate per facilitarne il deflusso.

Il bacino fu già causa in passato di disagi per la popolazione locale, ma si era poi instaurato un rapporto di reciproca sopportazione; uno straripamento, un indennizzo e la cosa finiva lì.

I pescatori protestavano perché si era interrotta la trasmigrazione della fauna acquatica dal lago all'alta valle, mentre gli automobilisti dovettero presto fare i conti con quel velo di ghiaccio che si forma d'inverno sull'asfalto o con un improvviso banco di nebbia impenetrabile.

Ora l'acqua limacciosa invade la valle e livella ogni cosa; povere case coloniche e qualche ciuffo di salice emerge qua e là.

Colorina, Forcola, Pedemonte, la piana di Buglio e di Ardenno sono sotto una coltre di sabbia e di fango, come un'immensa soletta di cemento che ha invaso stalle, negozi, aziende artigiane.

I campi di granoturco scompaiono nel fango, gli allevamenti sono distrutti, il bestiame è miseramente travolto dalla piena; fortunatamente la maggior parte è in alpeggio; ma dove andranno al ritorno, alla fine dell'estate? E dove si troverà il fieno per l'inverno?

Lo spessore del fango, compatto ed impermeabile, in alcuni tratti è di oltre due metri.

Sarà necessario un intervento razionale per rivoltarlo, ararlo in profondità, asciugarlo e smembrarlo perché possa respirare e, dopo una accurata concimazione, riprendere la fertilità originaria.

Un agricoltore della zona, esperto di coltivazioni e di bonifica del territorio, suggerisce di effettuare l'operazione senza rimuoverlo perché il terreno alluvionale è fertile; inoltre, in caso di altre piene, sarà in grado di evitare che l'acqua trovi un invito così facile; occorre però ripristinare la rete di fossi per lo scorrimento delle acque.

La gente viene colta di sorpresa dall'improvvisa alluvione e molte famiglie rimangono bloccate in casa.

I salvataggi vengono effettuati con gommoni a motore o con mezzi anfibi, i soli a poter circolare. Vengono impiegati anche elicotteri e i piloti dimostrano perizia ed efficienza in circostanze non sempre facili: interventi rapidi, su terreni sconnessi, su pendii e cascinali; per giorni i cieli della Valtellina sono di loro dominio.

Ad Ardenno, un piccolo Circo, allestito sulla piazza del paese per gli spettacoli estivi, è sommerso dall'acqua; gli animali nelle gabbie vengono salvati a fatica; solo un grosso serpente fugge nei campi allagati e trova misera morte nel fango, dopo aver tenuto in apprensione gli abitanti per molti giorni.

Il ristorante "La Brace" è invaso insieme alle attrezzature e alle cantine rifornite di prodotti tipici di qualità.

Potenza distruttiva della natura! In due giorni e mezzo un territorio ricco di verde è diventato una landa di sassi e fango; cento imprese edili non avrebbero saputo fare un lavoro così.

Sotto quella coltre che dà al paesaggio un aspetto lunare, resta sommerso il lavoro, il sacrificio, la ricchezza di gente semplice e buona, attaccata alla propria terra dalla quale sa trarre da vivere per tutta la famiglia.

Resta il pianto composto delle donne, il dolore muto dell'uomo che, lavorando anche di sera e nei giorni di festa, era riuscito a realizzare il sogno della sua vita, una casa tutta sua.

Nei suoi occhi, però, già si legge il progetto di ricominciare da capo, anche per chi, già avanti negli anni, si guarda intorno sconsolato, in cerca di un appiglio.

Se però non verranno adottati opportuni rimedi per mantenere una condizione di sicurezza e di costante controllo, qui si vivrà sempre con la paura anche in circostanze meno violente.

Più a valle il Tartano rinnova la sua furia trascinando sassi e macigni e invade il vecchio ponte, già bersaglio in passato dell'impeto del torrente.

Poco distante, una massa di detriti e di tronchi preme, spinta dalla forza della corrente, contro il ponte di Paniga, una suggestiva passerella di ferro e funi d'acciaio che attraversa l'Adda nei pressi di Talamona.

Il ponte vibra rumorosamente; per poco: le funi cedono di schianto, trascinandolo nei gorghi.

Resiste invece, impassibile alle sferzate e alla violenza delle acque, l'antico ponte romano di Ganda costruito su ampie arcate saldamente ancorate alla riva.

L'antica architettura supera il tempo e le intemperie!

Dopo i primi interventi effettuati con i mezzi locali, arriva l'esercito con soldati e potenti attrezzature: elicotteri, trattori, camion speciali, ruspe, anfibi, e tanti ragazzi, giovani di leva, che si prodigano per giorni e giorni a soccorrere le popolazioni colpite dall'alluvione. Nel fango e nell'acqua, fra detriti e carogne di animali, scavano con badili e picconi, per aprire vie e liberare case, recuperando, ove possibile, le povere cose della gente contadina. Qualcuno è del posto e piangendo, scava anche con le mani, contento quando può restituire oggetti anche di poco valore, ma ricchi di ricordi e di affetti. Nei loro volti si legge la fatica e la desolazione, il risentimento nel trovarsi impotenti di fronte a una situazione più grande di loro. Un giorno di lavoro duro e ingrato, per poi scoprire di aver scavato un buco nel deserto

Con la prontezza che da sempre li distingue intervengono gli uomini del Soccorso Alpino di Sondrio, attrezzati con radio e strutture proprie. Portano i primi soccorsi nei paesi di montagna e nelle contrade minacciate dall'acqua e dalle frane; aiutano gli anziani ad evacuare, trasportano feriti e recuperano le prime salme in Val di Tartano.

Coordinati da Celso Ortelli, corrono nel fango, fra le macerie, mettono a repentaglio la loro incolumità con slancio non comune, assistiti da una efficientissima rete di collegamento dei radioamatori.

La città di Sindelfingen, cittadina della Germania, gemella di Sondrio, invia un gruppo di uomini con potenti pale meccaniche che, per le particolari caratteristiche, sono impiegate in Gombaro fra gli impervi meandri delle Cassandre del Mallero.

Anche molti giovani, con ammirevole slancio, si mettono a disposizione per dare una mano nell'opera di recupero e di sgombero delle case sommerse dal fango e dai sassi. Lavorano dall'alba alla sera, senza sosta, con passione e impegno: Oreste, Marco, Vittorio, Franco ... e tanti altri; tornano a casa con le mani segnate dalle pietre, dal piccone e dalla vanga, il palmo coperto di vesciche ...

Le donne del paese li seguono con amore materno, consigliandoli di stare attenti, di non farsi male, e, nonostante il disagio, riescono a preparare loro anche qualcosa da mettere sotto i denti.

- Andate a casa, ragazzi - dicono a sera le donne, dopo tante ore di lavoro - andate, è tardi, siete stanchi!

- Ma no!, ancora un po', almeno fino alle sette - ribattono loro.

E poi restano ancora mezz'ora, e poi mezz'ora, fino a che non è buio; per ritornare all'alba, puntuali, il mattino dopo.

Presso la Sede della Protezione Civile, Michele intanto, registra sul computer frane e dati relativi a smottamenti; rileva statistiche e passa informazioni utili per le decisioni e per il controllo della situazione.

Presso l'Ospedale, oltre cento giovani volontari della Croce Rossa si alternano in turni estenuanti, prestando soccorso e correndo qua e là con le ambulanze; appena arrivati già devono ripartire per un altro intervento.

Un capitolo che fa onore al valore, ai principi, al carattere dei giovani, così come li voleva un nostro Presidente, quando, in più occasioni, li incitava all'impegno e al coraggio!

Le acque, in provincia di Sondrio, vengono sfruttate da grosse centrali per la produzione di energia destinata prevalentemente ad alimentare la Lombardia e parte del Nord Italia; una minima parte viene consumata in provincia.

La popolazione locale deve subire i disagi conseguenti all'accaparramento delle acque, causa, ormai da decenni, di diatribe politiche, economiche e sociali.

Lo stato di dipendenza derivante dalla necessità di energia indispensabile al processo produttivo del paese, condiziona qualsiasi intervento volto ad equilibrare atteggiamenti e comportamenti nella cura e manutenzione del bacino idrografico e nell'attività di sfruttamento del territorio e delle acque.

Acque! ma è il caso di chiamarle ancora così?

Il tempo di fiumi e torrenti limpidi nel verde di valli incontaminate, di laghi e fiumi pescosi, protetti dal discreto convivere di gente rispettosa della natura, gelosa delle sue bellezze e dei suoi valori, fa ormai parte del passato.

Non più acque, ma discariche per liquame e immondizie, per scorie e residui di fabbriche.

Si dice che ingenti contributi siano erogati per la costruzione di depuratori, ma non sempre vengono utilizzati.

Gli agricoltori non si fidano più ad irrigare i campi e gli allevatori devono proteggere il bestiame dai canali inquinati dai detersivi e dai prodotti chimici.

Denunciare abusi e comportamenti irresponsabili è come battersi contro mulini a vento e non è facile convincere le istituzioni ad attuare interventi concreti.

I veri accusatori saranno quelli delle generazioni future, vittime del nostro dissennato comportamento, e certamente emetteranno sentenze che oggi ci farebbero vergognare di appartenere ad un'epoca caratterizzata dal massimo degrado ecologico di tutti i tempi.

Chi è vissuto finora senza fare nulla per salvare anche uno solo dei valori della natura, avrà forse ancora il tempo di riflettere; perché il sogno dei padri di lasciare ai figli un mondo migliore non sarà certo realizzato da questa generazione.

Saranno loro, le generazioni future, a pagare per i nostri errori; la natura già lancia moniti contro il dissesto ecologico in atto e la società dà quotidiani segni di degrado.

L'esempio viene purtroppo dalla famiglia, dalla scuola, dalle istituzioni, dalle piccole cose di tutti i giorni, dalla strada, ma nessuno sembra accorgersi di nulla!

"Dopo tanti anni e tanti mesi, anche l'acqua fa ritorno ai suoi paesi". Così si commenta per strada la cronaca dei fatti.

Chiuro subisce l'inondazione del torrente Fontana; la pianura è invasa dall'Adda e per molte ore la viabilità rimane interrotta. Il torrente trascina a valle tronchi, rami e sassi che vanno ad ostruire il ponte sulla strada per Teglio, troppo basso e massiccio. Si forma una diga e l'acqua cambia corso per finire, da un lato nei prati e, dall'altro, in paese, lungo le vie e dentro le case.

L'orso Ben, cresciuto nel verde di un recinto accanto al torrente, è travolto dal fango e dalle acque; si arrampica, finché può, sulla rete di protezione dove viene ritrovato, quasi anchilosato, dopo tre giorni, fra sassi e sterpaglia.

Madonna di Tirano è invaso dalle acque del Poschiavino che lambiscono il Santuario e inondano la pianura. La situazione in alta valle intanto si fa sempre più grave: Lovero è invaso da acqua e frane che in più punti erodono case, prati e strade. Il ponte di Nova viene divelto dalla furia dell'acqua mentre, a monte, una grande frana di terra e macigni si abbatte sulla strada, evitando di poco lo stabilimento Pierrel.

A Vernuga dove molte case sono sorte negli ultimi anni, si teme l'invasione dell'Adda che sbatte contro le sponde con onde di fango impetuose. Grosio, Grosotto, Sondalo e Le Prese vivono ore di paura per il pericolo dell'acqua e del fango e per la minaccia di frane.

A Sant'Antonio Morignone la gente fugge sui monti, abbandonando ogni cosa, perché l'alluvione è così repentina da non lasciare il tempo neppure di salvare il minimo indispensabile.

Chi transita in auto o in autobus deve abbandonare gli automezzi per strada e fuggire verso zone più alte.

Qualcuno porta ancora in un'ultima immagine il ricordo della sua casa, devastata dall'alluvione e, nel cuore, il calore di un focolare che non rivedrà mai più.

La Val di Tartano è sempre stata luogo di dissesti: il greto del torrente, presso Talamona, ricco di sassi sfruttati perfino dalle cave di inerti, testimonia lo sfacelo compiuto dalle frane e dalle acque. A monte, rivoli e ruscelli segnano, lungo i ripidi pendii, il disfacimento continuo della montagna.

Una valle aspra dove la natura sembra aver raccolto le bellezze dell'alpe fra asperità selvagge, fra rocce e strapiombi. Un paese dipinto sulla costa del monte, con case di sasso che fanno da cornice al campanile dell'antica chiesa di S. Barnaba.

Due valli con foreste di abeti e di pini si addentrano verso la provincia di Bergamo, la Val Lunga e la Val Corta.

Qui la gente ci vive. Sa dove costruire in luoghi riparati e ben ancorati alle rocce.

Per i turisti è un luogo ameno per le vacanze d'estate che qui dura solo due mesi, luglio e agosto. Gli incalliti pantofolai, che vogliono respirare aria pulita e guardare il cielo e le cime dall'alto senza far fatica, vi possono arrivare in auto per una comoda strada asfaltata.

Un pic-nic all'aperto, gli avanzi dispersi in sacchetti di plastica usa e getta, la tintarella da sfoggiare in città, il lunedì. Ci penserà il temporale o una slavina di neve a ripulire l'alpeggio.

Un ristoro, una villetta, in un posto così, è senz'altro un affare. La pace e il silenzio, dove puoi toccare il cielo con le mani, sono valori rari e impagabili.

Le vecchie baite di sasso, saldamente ancorate alla roccia in punti sicuri, non sono certo adatte al cittadino, anche se l'imperante pubblicità sull'agriturismo ne declama i vantaggi.

Bisogna riadattarle, alzarle di qualche piano; avvallamenti, canaloni e ruscelli sono superabili con una buona gettata di cemento.

Una betoniera, una mano veloce ed esperta, ed ecco il prodigio: un appartamento in condominio con vista panoramica a valle, dove scorre il torrente ...

Non ci vuole molto perché la tragedia si compia; il canalone si riempie d'acqua e di fango e il condominio diventa presto una diga. Finché, sotto lo sguardo terrorizzato di alcuni passanti, precip ita, con grande boato, sull'albergo sottostante, "La Gran Baita". Muoiono tutti, i gestori e molti turisti.

I pastori che vivono sull'alpe, lo dicevano, lì non si doveva costruire!

Notizie di paesi e contrade distrutte arrivano da tutta la valle; i ponti crollati sono tanti.

Sabato notte, alle tre, il ponte di Caiolo sull'Adda è ancora intatto; Luciano lo attraversa, di ritorno da un giro nei dintorni di Sondrio. L'Adda, tra i flutti, trascina rami e tronchi d'albero enormi. Lo ispeziona; tutto bene, tranne la crepa sulla spalla interna già segnalata a suo tempo.

La pioggia cade insistente.

- Come andrà a finire? - pensa infilandosi a letto; lampi e tuoni squarciano l'aria.

Dopo un'ora, nel buio, un cupo boato e un rotolare di sassi lo scuote dal sonno.

- Cosa sta succedendo?

La mattina, a buon'ora, si avvia per i campi. Il ponte non c'è più; è rimasta solo un'arcata verso la strada statale. Le altre sparite, travolte dall'Adda.

Anche la moderna aviosuperficie al Bachett di Caiolo viene invasa dall'acqua, ma con lievi danni; è presto sgomberata e ripulita.

Qualche chilometro a valle, Fusine vive ore di terrore e viene semidistrutto dalla furia del Madrasco in piena.

Il torrente scende dai monti lungo una valle buia, profonda e selvaggia: la Valmadre.

Alberi di ogni tipo coprono le impervie pareti del monte; piante tagliate, giacciono in fondo al torrente.

Qualcuno aveva, in passato, sollecitato la pulitura del monte e addirittura venne multato perché raccoglieva legname dal greto; i vecchi, già testimoni di antichi disastri, lanciavano moniti e avvertimenti, ma inutilmente.

Il paese viene evacuato appena in tempo: qualcuno si accorge che, dopo essersi ingrossato improvvisamente a dismisura, nonostante la pioggia battente, il torrente diviene meno impetuoso; nell'aria un odore acre di zolfo.

Infatti, a monte, dove la valle si stringe e forma una gola, alberi, rami e detriti si sono accumulati formando una diga e, come una bomba, rovinano a valle, trascinando mezza montagna.

La gente è fuggita da poco, avvertita dalle campane a martello. Quindi, un boato lungo e cupo come un tuono: i sassi, enormi macigni, rotolando, mandano scintille di fuoco, travolgono case, auto, capannoni, fin giù dove la strada da Berbenno si biforca per Cedrasco. Ogni cosa scompare sotto un ammasso enorme di sassi.

Poi l'acqua con violenza, insieme a fango e detriti, penetra nelle case; il paese è sventrato e, al suo posto, rimane un torrente sassoso alto più di due metri.

Fusine è abbandonato a sè stesso per alcuni giorni; i soccorsi giungono tardi. Devastazione, gente stravolta e una ruspa a riattivare la strada.

Acqua e fango ha coperto ciò che la frana di sassi ha risparmiato e poi, giù per il facile pendio, ha travolto il cimitero, sommergendo di sabbia lapidi e tombe, disperdendole a valle.

Qualcuno si aggira fra le macerie per raccogliere testimonianze fotografiche, ma rimane con l'obiettivo sospeso a metà, sconvolto e attonito di fronte a un paesaggio così devastato ... non ce la fa, gli sembra di offendere impietosamente il dolore della gente ...

Non si può far nulla; le parole di incoraggiamento sembrano non avere più senso.

Una donna anziana, nello scialle di lana avvolto intorno a spalle segnate dal tempo e da una vita di duro lavoro, prega davanti a quello che resta della sua casa:

- "El vardi, sciur, l'è 'ndacia anca lee ... ll'eva facia sü el me poor umm, vint'agn fà, prima de murì ... el m'à lasat el mutuo e l'ültima rata l'ò pagada l'oltru dì ... l'è cumè s'i m'avess tirat' foeu 'l coeur ..."

La stampa non arriva da giorni; i primi giornali giungeranno solo il 22 luglio. Telefonare è impossibile.

La televisione e la radio trasmettono bollettini agghiaccianti, suscitando allarmismo e panico. La situazione è desolante.

Mambretti, da Radio Sondrio, diffonde ogni ora notiziari e bollettini ufficiali. Talvolta invita alla prudenza, talvolta rassicura contro il facile allarmismo, dando sollievo e conforto.

Sondrio è deserta; per le strade circolano solo mezzi militari e ambulanze, potenziate da gruppi di volontari di altre città.

Chi è in vacanza, al mare, in villeggiatura fa ritorno precipitosamente, ma si trova di fronte al blocco insormontabile delle interruzioni stradali e ferroviarie; acqua, terra e sassi hanno travolto in più punti strade e ferrovia che rimarranno inutilizzate per una diecina di giorni.

Soltanto con mezzi d'emergenza è possibile, dopo almeno due giorni di attesa, accampati in alberghi e ospizi strapieni, ritornare a casa. Qualcuno, purtroppo, deve cercarla nel fango.

La Valtellina è ancora sconosciuta ai più; chi la colloca in Piemonte, chi in Alto Adige, qualcuno in Svizzera. Gli appassionati di sci e di alpinismo la conoscono bene e sanno apprezzarla, perché le montagne più belle dell'arco alpino sono qui, con nevi e ghiacciai di smeraldo, con pareti di granito fra boschi di larice e abete, e acque con riflessi di sole, dove l'aria si colora di luce, pura ed incontaminata.

Le voci dell'alpe, quando il vento tace e lo scrosciare dei ruscelli si fa musica, si perdono nel silenzio del monte; sotto le rocce, marmotte curiose lanciano fischi d'allarme mentre il ghiro fugge il volo del falco. Sui picchi e lungo i costoni vanno camosci e caprioli e, dalla cima, il cervo segue attento il volo maestoso dell'aquila.

É facile incontrare quassù vecchie guide dalle mani di ferro ancora segnate dal gelo e dalla tormenta; Cesare Folatti protagonista di ardite scalate o l'indomito Guido Bettini che vien fuori dalla tormenta con la sua famosa esclamazione "bel, bel, bel!"; Alceste Faggi, inseparabile compagno di salite del buon Bonazzi, Aldo Bonini, il Civera e il Moriondo, che a settant'anni suonati danno ancora la birra a tanti e vanno su e giù per le cime come se fosse la strada dell'orto.

A piedi, con gli sci, per i sentieri del bosco, attraverso gli alpeggi, nel silenzio, respiri a pieni polmoni e ti guardi intorno, scopri la vita, la forza e la bellezza della natura e senti la presenza di qualcosa di mistico, di qualcuno che ha voluto donarti tutto questo perché tu lo possa conoscere e amare.

Quanti sono innamorati delle nostre montagne!

Bruno Credaro le esaltava nei suoi libri e Luigi Bombardieri le viveva nel cuore, come una parte di sè.

Con meravigliose fotografie in bianco e nero, ricche di contrasti e di luce che solo la mano esperta di Ezio Nani sapeva sviluppare così, Fernando Fanoni immortalò cime innevate e immagini di vita rupestre con le imponenti e suggestive sembianze di un tempo.

Luigi Livieri viveva la sua profonda cultura umanistica con il gusto dell'uomo saggio; alla storia e alla letteratura alternava il piacere della musica e dal suo magico violino sapeva trarre note che ti vibravano nel cuore. Era affascinato dalla montagna: quale migliore strumento di un coro per cantarne l'amore e le bellezze? Fondò allora il Coro CAI di Sondrio, elevando il canto di montagna a un livello degno dei più prestigiosi riconoscimenti, grazie alla sensibilità e alla impareggiabile direzione del Maestro Siro Mauro.

Bruno De Dosso curava la montagna e con Carlo Pedroni insegnava ai giovani alpinisti ad amarla e a scalarla. Bruno Melazzini, accarezzando la sua lunga barba da Profeta e prendendoti un braccio con atteggiamento nobile e fiero, diceva che la montagna è il nostro maestro più saggio.

Le Guide Alpine e i Custodi dei Rifugi lo ricordano ancora come un grande Presidente che ha affrontato e risolto ogni problema con la fermezza e la serietà dell'uomo onesto.

Piero Camanni, uomo di legge e prima ancora Alpino, in un bellissimo brano, traccia il profilo della sua forza interiore e chiude proponendosi di fare almeno una piccola parte del bene che ha fatto Lui: "Da giovane aveva amato la montagna e con gli amici Peppo Fojanini e Attilio Gualzetti aveva conosciuto l'alpinismo vero, compiendo imprese che oggi sappiamo raccontare solo sfogliando le fotografie che conserviamo nel cassetto dei nostri cari ...".

Pochi giorni dopo i disastrosi eventi che hanno sconvolto le cime dei monti, solchi di terra segnano ancora i crinali come colpi di artigli; allora commenta, puntandoti addosso quei suoi occhi azzurri come per scavarti nel cuore: "La mia montagna! ... è come un animale del bosco, ferito e sperduto ... Ma chi gliele ha procurate tante ferite?

Le ultime notizie sulla Valtellina, apparse sui giornali prima dell'alluvione, riguardavano la possibilità di un incontro a Roma per la ripresa del progetto-metano, respinto, non si sa bene perché, pochi giorni prima. Un articolo di poche righe, dal tono distaccato, sebbene il progetto rappresenti ancor oggi per Sondrio e per la valle un'importante conquista.

Dopo il 18 luglio la Valtellina è l'argomento di prima pagina di tutti i quotidiani, della TV e della radio. A Sondrio però, non giungono i giornali per alcuni giorni, ma da quello che si dice, si può immaginare quanto tragici ed eclatanti siano i titoli.

Domenica e lunedì sono giornate che resteranno nel ricordo della gente come le più drammatiche; sono, insieme al 28 luglio, quelle che cambieranno la configurazione e la storia della Valtellina.

Ben 45 sono le valli interessate dal generale dissesto. Le cime dei monti portano ancora il segno delle frane e degli smottamenti: canaloni di terra color ocra, come rivoli lungo le pendici del monte, sormontate da massi pericolanti ed alberi divelti; un temporale potrebbe renderli nuovamente pericolosi!

I turisti, che avrebbero dovuto passare le vacanza in Valtellina, annullano le prenotazioni. I negozi sono vuoti; gli alberghi, rinnovati e pronti ad accogliere i villeggianti in una stagione in ripresa per le favorevoli condizioni economiche del Paese, accusano per primi il grave colpo.

Accanto alla sciagura una nota di conforto: la presenza in valle del Ministro Zamberletti con il suo seguito di tecnici della Protezione Civile.

Presso il Palazzo della Provincia e in Prefettura viene fissato il centro logistico, dove operano le autorità civili e militari, volontari, radioamatori.

Oltre centoventi Sorelle Infermiere volontarie della Croce Rossa di tutta la Lombardia, Ausiliarie delle Forze Armate, guidate dall'esempio dell'Ispettrice di Sondrio, il Capitano Maria Grazia Pereda Nobile, fissano la base logistica presso la Sala Operativa della Protezione Civile a Sondrio e a Morbegno. Il loro compito è quello di svolgere opera di primo soccorso nelle località colpite dal disastro.

Insieme a tanti altri militari e civili scrivono un capitolo che fa onore al nostro popolo, così disponibile e pronto a rispondere al richiamo della solidarietà.

Corrono ovunque, nel fango, fra le macerie, negli Ospedali, da Morbegno a Cepina, a Tola e a S. Bartolomeo per assistere e portare aiuto.

Al loro fianco il Comitato Femminile della Croce Rossa Italiana, con la Presidente Signora Giuliana Gualteroni, porta aiuti e vestiario, inviati con mezzi d'emergenza dalla Signora Maria Pia Fanfani.

Gli Alpini dell'ANA, oltre mille di tutta Italia, coordinati da Franco Nesina, fissano la loro base logistica in piazza Garibaldi, presso la vecchia Sede dell'INA.

Sono attrezzati di tutto punto, con mezzi propri, perché non devono pesare sulla organizzazione pubblica.

In silenzio lavorano giorno e notte, con turni estenuanti, per scavare, ripulire, ricostruire, portare aiuto.

E poi tanti medici ad assistere e a curare; i geologi su e giù per la valle a rilevare frane e dissesti, in mezzo al pericolo, con Maurizio Azzola, a far la guardia a pareti di roccia incombenti su contrade e paesi.

E tanti altri. Ci vorrebbe una medaglia per tutti, militari e civili!

Lo si legge anche negli occhi del Prefetto di Sondrio, Giuseppe Piccolo, quando passa a salutarli e a ringraziarli.

Bonvini, al centro radio della Protezione Civile, è esausto; raccoglie messaggi e cerca di esaudire un po' tutti. Tento anch'io di avere notizie della piccola Sophie, al lago Palù, giunta da Parigi per la tradizionale vacanza nella baita, con nonna Laura e Arturo, dove andava anche papà Fausto con Silvie.

Saltate le linee telefoniche, tento di mettermi in contatto tramite il centro logistico di Sondrio e le radio dei CB, ma è impossibile.

Sondrio è divisa in due: i ponti sul Mallero sono interrotti e sorvegliati, l'unico agibile è quello sulla circonvallazione in via Mazzini.

Il traffico è intenso e disordinato, in mezzo al fango; qualcuno si sposta in bicicletta, rasente al marciapiede, dentro un rivolo d'acqua lungo la strada in pendio.

All'alba di domenica, lungo il Mallero, le ruspe della ComEdile, incaricata di coordinare gli interventi, tentano di far defluire i banchi di detriti accumulatisi pericolosamente sotto i ponti. L'intervento, svolto in condizione di costante rischio, è determinante per la salvezza della città.

Si vive in ansia per i conoscenti delle zone alluvionate. L'Adda è straripato ovunque.

In alta valle, la galleria paravalanghe di Cepina viene travolta; il paese di Le Prese è invaso dall'acqua; numerosi i crolli di case e di strade; S.Antonio Morignone è in un mare di fango.

Tutto, fino a Tirano, è sconvolto dalla furia dell'Adda e dei torrenti.

Ovunque uomini con vanghe e picconi a riparare e ripulire le case o ad arginare con sacchi di sabbia i mille rivoli d'acqua.

Così fino a Chiuro, dove ancora le acque del Fontana e dell'Adda si uniscono in una furia devastante.

A Piateda l'Adda invade la pianura, lasciando dietro di sè un paesaggio desolante. Il torrente Venina e altri ruscelli impetuosi trascinano montagne di sassi sui casolari, sui terreni e sulle fertili coltivazioni.

Il quadro economico si fà sempre più drammatico. La notizia di provvidenze da parte del Governo viene accolta con un sospiro di sollievo, anche se i fondi stanziati bastano solo per i primi interventi d'emergenza.

É neutralizzata la struttura del sistema produttivo, l'organizzazione del mercato e dei trasporti. Tutto perso per il momento!

Basta poco per mettere in ginocchio un'economia, per disperdere un passato di tradizioni, di cultura e di professionalità ed infrangere l'armonia di una organizzazione.

 

L'uomo, talvolta, sa fare anche peggio!

Libera nel suo nuovo alveo, l'Adda si insinua fra le rive della Castellina dove un tempo ci si recava a godere, in serena contemplazione, dello scorrere dell'acqua, di brezze e di silenzi; dove, disteso al sole, seguivi il volteggiare delle lenze e coglievi emozioni dall'onda del fiume, fra anse sabbiose, pioppi e robinie.

L'Adda era profondo e pescoso; temoli e trote avevano prolifiche tane fra i cespi e le barche risalivano il fiume con la facile spinta dei remi e approdavano sulla spiaggia di sabbia accanto alla torre.

Qui il Della Bosca, famoso pescatore, era solito intrattenersi in spiritoso dialogo con i pesci:

- A sì, non ti piace? - diceva cambiando l'esca sull'amo

- adesso ti faccio assaggiare questa, vedrai, ti piacerà!

Così, per tutto il giorno, finché il paniere non era pieno; percorreva, sulla bici da corsa, il sentiero lungo l'Adda, dal ponte di Albosaggia a Faedo, rinnovando ad ogni ansa il simpatico soliloquio.

Qualcuno pensò bene, un giorno, di trasformare quell'angolo di spiaggia in località balneare. E quell'angolo tanto caro ai Sondriesi, così romantico nella sua selvaggia semplicità, divenne presto un campeggio con piscina; la torre, così suggestiva, un bar con tavolini e musica.

Il luogo fu recintato e presto le passeggiate estive dirottarono per altri lidi, sicuramente meno romantici e tranquilli, anche perché, a pochi metri, è sorta una pista da trial, nel verde di maestosi pioppi, un tempo rifugio di anatre selvatiche, di merli, di uccelli di ogni tipo.

Ora l'acqua dell'Adda è penetrata ovunque quasi a rivendicare il diritto di chi ne era l'antico custode.

Le cronache riportano episodi di solidarietà e, purtroppo, anche di sciacallaggio. C'è invece gente che rischia la propria vita per soccorrere famiglie rifugiate sul tetto di casa, dopo una notte al freddo, sotto la pioggia: bimbi coi piedi nell'acqua, il gatto infilato nella camicia, al riparo, al caldo. Un uomo attaccato ad una fune, con l'acqua fino al ginocchio e il suo cane lupo in braccio, tenta, a fatica, di arrivare a riva.

Sabato sera le auto che scendono da Bormio, trovano la strada sbarrata da una frana presso il ponte del Diavolo. Cercano di tornare indietro con una manovra difficile, nel fango e sotto la pioggia battente; ma, più su, un'altra frana si rovescia sulla strada interrompendo la via. É ancora giorno; le auto vengono abbandonate e i passeggeri, insieme a numerosi turisti in pullman, cercano riparo verso le zone alte, nel bosco.

La situazione si fa grave, l'acqua sempre più alta e impetuosa. Fuggono a piedi su per la china del monte, incespicando e scivolando sull'erba bagnata. Un centinaio di metri più su, sulle pendici dei monti sopra S. Martino, ecco una baita di pastori, piccola per tutti, ma con un camino acceso e qualcosa di caldo da "mandar giù". Uno dopo l'altro vi trovano riparo in tanti.

Un po' di latte caldo e un abito asciutto da indossare; quelli bagnati vengono messi ad asciugare accanto al camino per passarli ad altri, man mano che arrivano, fradici di acqua. Così, per tutta la notte, nella baita trovano rifugio oltre 150 persone, fino all'alba, dopo aver vagato per ore nei boschi, e ciascuna racconta la propria avventura. I più hanno visto la loro auto travolta dal fango e dalla piena dell'Adda scomparire sott'acqua, con i fari ancora accesi.

Tutti ricorderanno l'accoglienza di quei pastori, il loro prodigarsi per portare conforto e aiuto.

Alcuni giorni dopo, però, corre una brutta notizia e tutti sperano che non sia vera: i pastori sono scesi al piano, a S. Antonio Morignone; la grande frana del monte Zandila ha travolto anche loro, mentre tentavano di recuperare qualcosa dalla loro casa ...

Finalmente arrivano i giornali. Le prime pagine associano notizie sulla Valtellina all'impegno del Ministro Goria nella formazione del Governo.

Il Ministro Zamberletti, fin dal primo giorno, segue la tragedia della Valtellina, su e giù per la valle, confortando la popolazione più colpita e assicurando interventi e provvidenze.

In questi giorni così tristi riesce a conquistare i Valtellinesi con la sua presenza, con il calore delle sue parole.

La Valtellina, da sempre abbandonata a se stessa, riceve per la prima volta un segno di interessamento. Ci mancherebbe, con quello che è successo!

Intanto il Ministro Goria lavora sodo per definire le alleanze e i programmi. Le prime le cerca nel compromesso del pentapartito; i secondi li avrebbe definiti meglio successivamente, e, pertanto, è sufficiente un accenno anche solo parziale dei termini.

La scelta dei collaboratori è il vero problema e il Ministro Goria, presentando il Governo, lo dice apertamente: in questa alleanza si è cercato di dare al Governo quella stabilità e quella continuità che altrimenti dovrebbero ricercarsi in assetti diversi.

É un accenno al compromesso storico?

Si suppone, pertanto, che, in un clima così delicato, siano prevalsi, rispetto ai principi di etica, aspetti di carattere meramente politico.

E così, mentre il Ministro Zamberletti, rinunciando agli interessi politici, lotta nel fango delle frane in Valtellina, a Roma si compie un atto che sarà criticato da tutto il popolo italiano e non solo dalla Valtellina: la sostituzione del Ministro della Protezione Civile in carica Zamberletti con un nuovo Ministro, Gaspari.

Non vengono messe in discussione la capacità e l'esperienza di uno o dell'altro, ma viene severamente stigmatizzato il modo di trattare chi ha svolto efficientemente un compito difficile e trovandosi in prima linea a lottare, non può far sentire a Roma il suo reale peso politico.

Per il momento, prevale il compromesso politico, i programmi saranno definiti meglio poi.

- Ma ci sarà il compromesso storico?

- Non siamo preparati. Preferiamo il disordine politico, l'avventura, il gioco di franchi tiratori.

- Ma ci sarà pure una formula in cui le espressioni della volontà e del voto degli italiani siano rappresentate equamente al Governo della Nazione!

Un giro di binocolo lungo cime e crinali: canali di terra segnano il dissesto della montagna. Ci sono stati anche in passato eventi così. La gente del posto lo sa e convive con il pericolo, tenendo però un occhio vigile puntato sui monti. Sa dove passare e dove costruire e anche dove non si deve.

La montagna va rispettata e temuta, vissuta con amore. Chi scala pareti o cime innevate non guarda soltanto l'altezza o le condizioni del tempo; guarda se la roccia tiene, ogni appiglio o fessura e studia attentamente se è compatta o friabile, se è asciutta o bagnata, se è esposta al vento o al sole, se la neve è ghiacciata e saldamente ancorata al pendio. E sa che in certe ore del giorno è meglio non accostarsi. Ma, soprattutto, sa che il pericolo è sempre in agguato, ovunque, e ogni giorno è diverso da un altro

Il caso, talvolta, tradisce anche i più attenti e prudenti.

Sui luoghi dell'alluvione l'indagine porta presto ad individuare le zone ancora soggette a pericolo di frane.

Ciappanico e Torre S.Maria, Spriana e il Prato, violentemente segnati dalla distruzione, vengono evacuati. Gli abitanti di Sant'Antonio Morignone, Tola, Cepina, Verzedo, di Le Prese trovano rifugio un po' a Bormio e un po' nel Centro Ospedaliero di Sondalo, ben al riparo fra i pini in altura, essendo imminente il pericolo di caduta di frane dai monti circostanti.

Per Aquilone, oltre 350 metri più a monte non è prevista la possibilità che il movimento franoso raggiunga tali distanze.

La settimana è interamente dedicata alla ripulitura della valle, delle case e dei fiumi, e a rafforzare quelle strutture che possono essere recuperate.

In Municipio la finestra del Sindaco di Sondrio, Primo Buzzetti, è illuminata fino a notte fonda; le decisioni per organizzare e disporre gli interventi richiedono tempestività ed egli, con discrezione e fermezza, riesce ad imporre anche il buon senso.

Lungo l'argine e nell'alveo del Mallero ben 130 mezzi fra gru, ruspe e camion, coordinate dalla ComEdile, provvedono a rimuovere dal greto del torrente gli enormi massi, i detriti di sabbia e pietrisco che vi si sono depositati, alzando il fondo di almeno cinque metri.

Il provvedimento di affidare il coordinamento ad una impresa con capacità organizzative ed amministrative è stato adottato per evitare da un lato il disordine logistico che si sta creando, dall'altro il tentativo di speculare sul materiale inerte che via via viene estratto, materiale di qualità che sul mercato può valere dalle dieci alle trenta mila lire al metro cubo.

Con una ordinanza, il materiale viene requisito e raccolto in discariche opportunamente controllate.

Una prima valutazione indica in mille miliardi il valore dei danni subiti, per poi salire presto a oltre tremila. Ed è solo il valore dei danni materiali, senza tenere conto delle conseguenze economiche.

La Valtellina sembra in stato di guerra; militari dell'esercito impegnati ovunque a rimuovere fango e macerie: Bersaglieri della Legnano, Artiglieri, Polizia e Carabinieri, Guardie di Finanza, Guardie Forestali. I Pompieri, alla guida del Comandante Corbo, con abnegazione e coraggio non comuni, danno una prova esemplare di efficienza.

Nel cielo elicotteri militari e privati sorvolano le case alla "Apocalypse now" per poi sparire nelle valli fra nubi ancora dense.

In pochi giorni viene aperta la strada di Chiuro per l'Aprica, di Ardenno per Morbegno, di Torre S.Maria e Tornadri in Valmalenco, così da permettere, almeno ai pendolari, di recarsi al lavoro.

Resterà ancora chiusa per molti giorni la strada al confine italo-svizzero di Piattamala.

Naturalmente resta chiusa la via per Bormio, a Morignone; una ordinanza ne ha proibito sia il transito che l'accesso.

Gli alberghi e i negozi sono pronti, rinnovati e ampliati, ad accogliere le vacanze estive di villeggianti da ogni parte d'Italia. Ma chi arriverà a Bormio?

Un evento mondiale apre la stagione dei giochi: il campionato mondiale juniores di basket, appuntamento sportivo molto sentito, frutto delle appassionate fatiche di Diego Pini.

L'incontro, rimandato inevitabilmente, verrà riproposto ai primi d'agosto e darà all'Italia, sfortunata ed emozionata, la medaglia di bronzo, dopo la Jugoslavia, oro, e gli USA, argento.

L'Anas ha ritirato i suoi uomini. Il divieto è perentorio, inderogabile. L'incolumità e la vita di un uomo sono ben più importanti dell'interesse economico di un paese.

Ma non cadrà proprio adesso la frana! E poi, la si vede e si fa in tempo a scappare.

La pioggia è cessata; l'acqua dei fiumi e dei torrenti si è ritirata lasciandosi dietro fango, tronchi, sassi e devastazione.

Il sole col suo tepore asciuga le spoglie della Valtellina in ginocchio, con la testa già alta, però, pronta a rifarsi.

Come l'alpino, dopo la bufera, con i panni fradici e contorti, le mani incrostate di gelo contro la bocca per scaldarle col fiato, gli occhi lucidi, socchiusi per guardare lontano e i piedi in pesanti scarponi di vibram a metà nella neve; così si alza dal fango, dalle macerie e guarda il colore dell'alba e del sole: un colpo al cappello ancora bagnato e, poi, su la testa e "tirem' inanz"!

"Mai tardi al Quinto!", " mai tardi" per ricominciare.

Indro Montanelli, con un articolo sul suo quotidiano "Il Giornale", esalta lo spirito, il coraggio, la forza e la composta sofferenza dei Valtellinesi, incoraggiandoli a riprendere un cammino che per loro non è stato mai facile.

La Valtellina ha già conosciuto la miseria e la povertà e non la teme. La storia del benessere, non della ricchezza certo, trae origine da povertà e sacrifici, da lavoro duro che poco concede allo svago e al riposo, dall'emigrazione in miniere di terre lontane: camerieri o boscaioli d'estate, maestri di sci d'inverno e poi, a sera, mentre altrove aprono bar, taverne e night, col papà e qualche amico a tirar su un'altra soletta o il muro della casa iniziata con i risparmi di una buona stagione.

Poi ci sono le bestie da curare; ti danno buon latte se l'erba e il fieno sono buoni. La gente va matta per i formaggi dell'alpe, per il burro profumato di panna e di bosco.

Da un buon manzo ci puoi fare prelibata bresaola e, a novembre, quando la scorta di vino è già in cantina, puoi far la festa al maiale ben grasso: salami e salsicce che son la delizia di quelli in città.

E non tutti san farlo! Ci vuole la mano del nonno o del padre e la donna non deve toccare nulla, in quei giorni famosi, perché lascia l'amaro e va a male tutto.

Se poi hai un pezzo di vigna, sulla costa giù in valle, magari a Chiuro, a San Giacomo o a Villa, magari a Montagna, Sassella, Maroggia e Berbenno, allora ti fai il tuo vino, pigiando uve scelte, dentro botti di rovere antico pulite con cura ogni anno. Vino genuino, vivo; se è un po' magro lo puoi bere subito, dalla botte, giù nel ciapèl o, meglio, nel calice, insieme agli amici.

Non lo trovi altrove, un vino così. Te lo dicono quando lo offri agli amici e lo mandan giù con gusto e vuotano presto il bicchiere. Puoi berne quanto vuoi e non fa male, anzi, ti scalda le orecchie e se queste diventano rosse è la prova che il vino è veramente buono e genuino.

Così si dice.

Polenta e salsicce, un buon piatto di pizzoccheri, un buon arrosto, uno spuntino con pane di segale, salame e formaggio non può fare a meno di un bicchiere di rosso "de quel de cantina!"

Con queste povere cose, che oggi fan la delizia di tanti, son cresciuti i ragazzi sui monti. L'aria e il lavoro nei campi han fatto il resto: spalle larghe e braccia forti, viso duro, bruciato dal vento e dal gelo; occhi vivi e mani di ferro, come artigli di aquila.

Antiche pubblicazioni e testi di storia riportano descrizioni accurate, con lo stile classico dell'epoca, di alluvioni e disastri provocati dalla piena del Mallero e dell'Adda.

Si parla anche del Mallero quando scorreva a oriente del Castel Masegra, in tempi preistorici.

Particolarmente avvincente la descrizione del "terribile inondamento" che distrusse parzialmente Sondrio nell'agosto del 1834.

"Allora il Mallero preparò la sua furia con l'aiuto anche di una enorme frana dalla Val Torreggio, precipitando acqua melmosa e trascinando tronchi e macigni lungo il suo corso e un odore acre di zolfo, segno evidente del disciogliersi di antichi ghiacciai, invadeva le case. Così come in questa analoga circostanza del luglio 1987".

"Nonostante argini e ripari eretti con enorme dispendio di mezzi, il torrente straripò in vari punti a monte della città; con onde alte e violente, spazzò via antiche case signorili, disperdendo valori d'arte, di scienza e di letteratura".

"L'ospedale, l'albergo della Posta, la nuova casa Valaperta del dott. Balardini, lo studio del pittore Rusconi, l'antico palazzo dei signori Lambertenghi furono frantumati insieme a tanti altri preziosi palazzi; e poi l'acqua e il fango invasero le piazze e le strade".

Un disastro immane che trasformò la configurazione della città e lasciò un terribile ricordo.

Questa sciagura per poco non si è ripetuta nel luglio del 1987; le piogge sono cessate prima che l'argine del Mallero cedesse, sebbene opportunamente rinforzato e alzato; ma c'è mancato veramente poco.

"Altra simile circostanza porta la data dell'agosto 1817. Allora non vi erano argini e ripari a proteggere l'abitato, così che il Mallero trascinò via facilmente le costruzioni lungo il suo corso".

"Le cronache ci riportano agli anni 1844 e 1885, che videro disastrosi eventi abbattersi, così come nel '34, su Fusine, semidistrutta dal torrente Madrasco, e su Cedrasco. Qui, nel 1911, si ripeterono esattamente gli stessi fatti con vittime umane a Cedrasco, coinvolgendo anche Talamona per effetto dello straripamento del Tartano che, già nel lontano 1885 aveva trasformato l'ampio conoide di fertili prati d'allevamento, in rovinosa discarica di pietrame".

"Talamona, Fusine e Cedrasco, i paesi più colpiti dal disastro!" Proverbi e rime tramandavano storia e ammonimenti!

"Le continue alluvioni dell'Adda e i pericolosi straripamenti del Tartano indussero presto le ferrovie, che proprio nel 1885 avevano inaugurato la nuova linea Milano-Sondrio, a far passare la linea ferroviaria in galleria, traforando il monte di Dazio".

L'opera fu conclusa intorno al 1903 e da allora la ferrovia non ebbe più danni; corre in mezzo alla valle, ma purtroppo condiziona qualsiasi progetto migliorativo alla viabilità e allo sviluppo urbanistico di molti paesi e della città di Sondrio.

"Il 1911 lasciò un triste ricordo per la violenza e per la vastità del disastro".

"La strada per la Valmalenco, tracciata lungo l'argine sinistro del Mallero, fu abbattuta e dovette essere ricostruita lungo l'argine destro, ove attualmente corre".

"In Val Torreggio una enorme frana precipitò, sfiorando Ciappanico e travolgendo tre persone che persero la vita".

"Fusine fu invaso da un torrente di pietre e fango che lo semidistrusse come quest'anno. Sondrio fu colpita ancora duramente, sempre lungo le sponde del Mallero che scatenò la sua furia sull'abitato, senza però fare vittime". "Il capoluogo dovette subire, però, un'altra tremenda alluvione nel 1927, quella che i nostri vecchi ancora portano viva nella memoria come terrificante e disastrosa, forse superiore a quella del 1834, anche perché si manifestò due volte a distanza di un mese: in settembre e in novembre". "Furono giorni terribili e tutta la Provincia di Sondrio dovette soccombere alla furia delle acque e delle frane, alle tempeste e al vento".

Alcune foto dell'epoca, su cartolina o libri di storia, ricordano l'argine del Mallero sfondato, case sventrate e la Piazza Garibaldi sotto enormi macigni.

"Per alcuni anni, salvo qualche nubifragio, le cronache non riportano eventi degni di rilievo, anche perché, nel frattempo, le guerre dell'Impero e la seconda Guerra Mondiale sconvolsero le Nazioni con eventi luttuosi e devastazioni materiali e morali tali, da togliere importanza alle distruzioni dei torrenti e delle frane".

Nel 1951 grossi smottamenti e franamenti di montagne sconvolsero alcune valli alpine, ricoprendo di macigni e pietrame il fondo erboso dell'alpe lungo i torrenti.

In Val Sissone fu rovesciato, dall'acqua impetuosa proveniente dal ghiacciaio, oltre un milione di metri cubi di pietrame; la stessa cosa si ripetè nell'87, portando altro pietrame a ricoprire la già vasta estensione di sassi.

Da allora la Val Sissone fu meta di interessanti ricerche mineralogiche da parte di appassionati che vi trovarono pezzi di assoluta rarità. L'evento del 1987, rinnovando col nuovo franamento la consistenza di minerali e rocce, darà nuove possibilità ai ricercatori, dopo che, in seguito all'incetta fatta negli ultimi anni, le possibilità di trovarne erano quasi esaurite.

Anche a Torre S.Maria e in Val Torreggio l'enorme frana scesa dal monte, rinomato per i suoi preziosi minerali, darà certamente la possibilità ad appassionati collezionisti, di riscoprire altri preziosi prodigi della natura.

Ed è auspicabile che il buon senso governi, anche qui, in questa interessante ed appassionante ricerca e non si compia lo scempio degli anni passati, ad opera di pseudo collezionisti, interessati più al commercio dei pezzi trovati che alla loro bellezza. Usando perfino esplosivi e picconi hanno demolito rocce e anfratti, su, verso Sasso Nero, verso il passo di Fellaria, facendo scempio di giacimenti di cristalli e granati.

"Sempre nel 1951, in seguito al grosso inondamento della Val Porcellizzo, la piana dell'alpe sopra i Bagni di Masino, fu invasa da una marea di sassi e macigni che ancora oggi rimangono sparsi ovunque".

"Lo stesso anno, in Valchiavenna, la piena dello Schiesone, riempì di fango e pietrame i fertili terreni agricoli della valle".

"Anche l'inverno, quell'anno, fu crudele; cadde ovunque tanta di quella neve che grosse valanghe scesero dai monti a devastare boschi, già abbondantemente decimati dal taglio dell'uomo, e baite. Particolarmente toccata fu Livigno che dovette sopportare anche numerosi morti".

"Nel luglio del 1953, fatidica resta la data del 18 luglio che corrisponde esattamente a quella del 1987; temporali e nubifragi di inaudita violenza fecero dilagare oltre misura le acque dello Schiesone e del Mera, causando danni e distruzioni gravissime".

"Quindi, nel 1960, per diversi mesi, la Valtellina fu ossessionata da frane e alluvioni. Le acque dell'Adda, rompendo gli argini in vari punti, arrivarono quasi a toccare le case di Sondrio e sommersero la distesa di prati, da Piateda fino a Colorina e Ardenno. Fu un anno di franamenti un po' ovunque, dalla Valmalenco alla Valmasino, alla Val Gerola e in Valfurva; in quella circostanza molte strade furono travolte e distrutte; anche il Tartano fece la sua parte con nuovi disastri e alluvioni".

"L'evento si ripetè con analoghi danni alle strade e ai campi, nel 1963, colpendo un po' ovunque tutta la provincia di Sondrio, e nel 1965, destando apprensione per l'incombente pericolo di cedimento di grosse pareti sopra alcuni abitati di Valdidentro e in Valmalenco".

Fu allora che si cominciò ad avvertire il pericolo della frana di Spriana.

Dobbiamo risalire al 1970 e 1971 per ritrovare nella cronaca altri avvenimenti disastrosi provocati da frane e alluvioni, a Chiareggio in Valmalenco e a Traona, vicino a Morbegno, oltre all'enorme frana che invase la strada a Novate Mezzola in Valchiavenna.

Il dolore e la distruzione colpirono ancora la Valtellina nel maggio del 1983. Dopo un inverno scarso di neve e quaranta giorni di pioggia incessante, qua e là per la valle cominciarono a prodursi i primi franamenti. Vigneti di uve pregiate, strade di montagna, muri di sostegno in cemento, malamente costruiti senza scolo per l'acqua, franarono un po' ovunque.

Sotto la pioggia battente, il terreno si sfaldava qua e là sulla montagna, destando preoccupazione.

Lo disse anche Bruno, allora custode alla Capanna Marinelli, quando, ai primi di aprile, passai alcuni giorni con lui,in rifugio, sotto cinque metri di neve. Ero andato, come ogni anno, per fare un po' di sci alpinismo ai Sassi Rossi e al Sella; trascorremmo le giornate a spalar neve per tenere sgombro il passaggio ai servizi o giocando interminabili partite a briscola e a scopa.

Nevicò per giorni e giorni e la neve si accumulava pericolosamente su per il costone, compromettendo la possibilità di ritorno.

- Se va avanti così, salta fuori anche l'Adda; a valle questa è tutta pioggia - disse Bruno.

Aveva ragione, solo che non fu l'Adda a creare danno, ma l'acqua che, lenta e continua, filtrava il terreno, penetrava nelle crepe dei muri, dei dossi, del bosco. Finché una domenica, all'ora di pranzo, il muro di sostegno sopra un gruppo di case, a Tresenda, franò sotto la spinta del fango. Pochi istanti, qualcuno riuscì a fuggire, qualcuno fu salvato appena in tempo, altri, troppi, perirono fra le macerie delle case distrutte. Con grande coraggio, un po' di fortuna e con l'aiuto del Signore, Mario Besta riuscì ad avvisare e a salvare la famiglia Scaramellini, qualche istante prima che una valanga di fango si abbattesse sulla casa.

Era il maggio dell'83; i funerali delle vittime si svolsero a Sondrio in forma solenne, con la partecipazione di migliaia di persone commosse.

Le polemiche su interventi sconsiderati sull'ambiente, sul modo di fare le cose, sul luogo dove farle, si spensero però presto dopo violente discussioni per riprendere ancora oggi, cominciando dalla Val di Tartano ...!

Giornate lunghe per i soccorritori affranti dalla fatica e dal dolore! Si guarda il cielo e le nuvole per studiare il tempo perché qui, in Valtellina, le previsioni della televisione non ci azzeccano mai.

E non ci si capisce nulla: sembrano una lezione di meteorologia e alla fine non si sa mai se piove o se fa bello. Semmai si guardano le previsioni della TV svizzera che in un minuto o poco più, con un disegno e poche parole, dicono tutto e indovinano sempre, perché i Grigioni sono appena lì, al di là del Bernina, a pochi chilometri in linea d'aria.

La Valtellina è una valle longitudinale, fra le Alpi, al riparo dalle perturbazioni; ma quando arriva,il cattivo tempo non scherza; piove per giorni e giorni con violenti temporali.

La notte del 24, dopo aver tirato il fiato per qualche giorno, ecco che arrivano a coprire il cielo nuvoloni neri e pesanti; si accavallano uno sull'altro, rotolando col vento freddo del Nord. Tuoni e lampi squarciano l'aria facendo tremare le case. Gli alberi si piegano sotto la forza del vento che, fra le case, spinge nuvole di polvere e sabbia. Alcune gocce di pioggia sull'asfalto e poi, d'improvviso, quasi si fossero aperte le chiuse di una diga, l'acqua comincia a scorrere lungo le vie, spumeggiando.

Fulmini si abbattono tutt'intorno; rami spezzati saltano via dalle piante, piroettando nell'aria, prima di abbattersi a terra.

Un nubifragio di immane violenza si sta abbattendo sulla Valtellina, aggiungendo nuovi danni a quelli già ingenti dei giorni scorsi.

Ecco i primi colpi di grandine, secchi sui tetti e contro le foglie.

Fitti come fiocchi di neve, grossi come noci, si abbattono con violenza per oltre mezz'ora su ogni cosa, distruggendo frutteti e vigneti. Di solito sono misti ad acqua; questi, per almeno qualche minuto, sono di solo ghiaccio, secchi, violenti come una frustata.

Sembra un bombardamento, una sassaiola fittissima; la grandine è talmente grossa e di tale violenza da bucare finestre e tapparelle.

Il Mallero e altri torrenti si ingrossano ancora, proprio quando sembra diminuito il pericolo di straripamenti. In una settimana, dal cielo, cadono oltre 700 milioni di metri cubi d'acqua. Ne cadranno ancora?

Cosa succede? Cosa sta avvenendo da un po' di tempo in qua?

Per fortuna la grandinata cessa di colpo dopo mezz'ora, dopo aver inferto un altro duro colpo ai campi, alle uve, ai frutteti e più ancora al morale.

Il mattino di sabato 25 luglio, si presenta con un cielo terso e pulito e, le montagne intorno, verdi di boschi e di prati; sulle cime non c'è più neve, disciolta completamente dall'ultima pioggia e dalla calura.

Dopo il nubifragio e la grandinata, sulle ferite della Valtellina splende di nuovo un sole caldo e ben augurante.

I giornali riportano a grandi titoli, accanto ad immagini di grande bellezza paesaggistica, rovine ricoperte di fango e notizie di disgrazie. Tra queste una vola di contrada in contrada e fa presto il giro della valle: un grave incidente al Gaggio, sopra Piateda, ha coinvolto, purtroppo mortalmente, il Direttore della Sondel (ex Falck) Amerino Caprari e il suo autista, Remo Ramponi, durante un sopraluogo alle strutture della centrale Venina.

Amerino, amico di molti, stimato e apprezzato sul lavoro, benvoluto da quanti lo conobbero, insieme all'ingegner Zorzoli e al tecnico Zecca, deve ispezionare gli impianti dopo i giorni di maltempo.

Quante volte aveva fatto in jeep quella strada, in condizioni anche peggiori?

Questa volta il destino è crudele; un sasso sulla strada, il fango, forse un franamento, trascina la jeep giù per il dirupo, schiacciando sotto il suo peso Caprari e Ramponi, mentre Zorzoli e Zecca, sbalzati fuori, se la cavano con ferite e contusioni.

Impressione, commozione, rabbia.

Ancora vittime, ancora due famiglie nel dolore ed ancora tanta costernazione.

Quanta parte ha avuto la montagna in questa tragedia? Quanta il destino!

Il dovere, la vita di altri impongono un controllo agli impianti e alle strutture. In circostanze come questa non si può trascurare nulla; l'acqua, nella diga, ha raggiunto livelli preoccupanti e la montagna si sfalda dappertutto. La gente, giù in valle, è preoccupata, aspetta una risposta per essere tranquillizzata.

- Come vanno le cose lassù?

- Non mi sembra che ci siano problemi, per il momento, torno adesso.

- Andiamo a dare un'altra occhiata, per sicurezza, è meglio.

Ai funerali, il figlio Marco ha lo stesso sguardo e la stessa espressione di Amerino! La presenza di tanta gente gli conferma quanto amato e stimato fosse suo padre e quanto fosse importante per la comunità. Per lui, da sempre, era il migliore!

 

A poco più di mille metri, appena al di là della Val di Presure, dalla quale scendono le acque chiare e spumeggianti del torrente, poco dopo l'antichissimo sobborgo di S. Martino, si aprono vasti prati, a valle di una grossa sporgenza rocciosa su cui fa bella mostra un gruppo di case e il campanile della Chiesa di S. Bartolomeo.

Qui, lungo la statale, circondate da abetaie d'alto fusto, sorgono le case di Morignone abitate da poche persone, dedite prevalentemente all'agricoltura. Poco oltre, dopo aver aggirato lo sperone di S. Bartolomeo, lambendo il corso dell'Adda, in una vasta piana incorniciata fra dossi di abetaie, di ontani e di asperità rocciose tra le quali si snoda una allegra cascata, si affaccia il piccolo e ridente paese di S. Antonio Morignone, con le case che si stringono intorno al Campanile della Chiesa.

Un simpatico ristorante, il Camoscio, rinomato per la classe e la prelibata cucina, è meta di numerosi avventori da tutta la valle.

Più su, verso Bormio, a far da sobborgo a S. Antonio Morignone, sorge Aquilone, quasi un presepe di case e di abeti a ridosso del monte, "Quei de la curt de Lion", i pochi abitanti della contrada dove si trovano ancora segni di antichissimi insediamenti.

Piccole case, costruite con gusto, semplici, non lesinando fioriere in ferro battuto piene di gerani, danno una nota di allegria al paesaggio di rocce, nel brullo alternarsi di boschi e di prati. Qua e là, lungo gli impervi costoni, frane e morene, residuo di antichi ghiacciai, interrompono il passo.

Sembra un quadro, con piante secolari che ricordano il lento trascorrere del tempo. L'aria è fresca e pulita; riflessi di luce sui dossi rocciosi e sulle acque increspate del fiume che scorre in mezzo alla valle.

Un angolo di sogno, dove non puoi fare a meno di fermarti o rallentare per guardare con quanta poesia la natura ha disposto le cose, come un antico pittore fiammingo.

Siamo alle prime impressioni che annunciano il superbo paesaggio dell'alpe che da qui inizia in crescendo una sinfonia di verde e di sole, di montagne scolpite nell'aria trasparente e cristallina, di contrade appoggiate alla spalla del monte fra distese di prati ove, ancora, si vedono greggi e mandrie governate dal cane pastore, severo e intransigente.

Solo a Bormio s'interrompe per poco la solennità dell'alpe per fare posto a strutture alberghiere, industriali e commerciali. Qui il groviglio di auto e cemento si perde nell'ampia distesa dei prati che, quasi a raggiera, si spingono fino in Valfurva, a Livigno e a Passo Stelvio.

Questo il ricordo che molti portano nella mente e nel cuore, dopo il tragico franamento del monte che coprì di acqua e di terra un angolo di vita e di storia della Valdisotto.

Si stendono i primi rapporti sui danni causati, lungo la valle, dalle frane e dall'alluvione.

A Fusine, che per diversi giorni è stato ignorato nonostante la grande distruzione subita, sono in piena azione le squadre di soccorso, volontari e militari, per ripulire le case e le strade dalla melma e dal groviglio di alberi e sassi.

Il clima è teso ovunque e l'emergenza ancora in atto a causa di franamenti incombenti.

La popolazione delle zone devastate, compresa nel suo dolore, si rivolta le maniche e in silenzio si mette all'opera consapevole che solo così potrà riprendere la vita.

Le visite di Ministri e autorità locali hanno espresso la solidarietà generale della Nazione; gli aiuti finanziari per il recupero delle attività economiche e delle dimore distrutte non sarebbero mancati.

La distruzione, insieme alla perdita di vite umane, è per il momento il danno più grave. Sulle possibilità di lavoro, sul futuro economico, sul ripristino delle strutture, sicuramente, ci sarebbero state iniziative atte a recuperare le capacità e la professionalità di quanti, con impegno e costanza, si erano costruiti una posizione sicura; anche se la ripresa dovrà essere considerata in termini di tempo molto lunghi, con ritmi di crescita lenti, non scevri di ulteriori sacrifici.

Per molti c'è il vuoto davanti, non c'è più la casa, non c'è più il negozio o l'azienda, non c'è più la stalla, nè gli attrezzi nè i macchinari; il bestiame e i campi sono stati sommersi dal fango. Per qualcuno meno sfortunato sarà sufficiente ripulire o riparare i danni: forse non potrà lavorare come prima, guadagnerà di meno per qualche anno, ma almeno non dovrà ricostruire e rifare da capo tutto.

E chi ha contratto mutui o prestiti, affidando al proprio lavoro e alle proprie capacità la possibilità di rimborso?

Sommessamente, per la valle, si ragiona così, mentre si rimuovono sassi e fango, cercando di recuperare qualcosa, qualche ricordo, qualche valore.

L'acqua, in seguito al franamento dell'acquedotto, in alcuni punti, è inquinata.

Per precauzione alcuni paesi vengono evacuati e a Sondrio scatta il piano di emergenza; la città è stata divisa in cinque zone; in caso di pericolo, la popolazione dovrà abbandonare le case e portarsi in collina, verso Triangia, Montagna, Colda, S. Anna, Albosaggia.

Ovunque vi sono soldati; lavorano ininterrottamente insieme a migliaia di soccorritori di altre città, di Verona, di Venezia, di Bassano del Grappa, di Bergamo ...

Facce stanche, stravolte dall'emozione; divise color fango, spesso irriconoscibili.

Le televisioni nazionali e private si aggirano sulle ferite della Valtellina cercando di cogliere le immagini più significative del generale disastro.

I giornali riportano a grandi titoli del grave colpo subito dalla Valtellina, dando un quadro, certamente allarmante della situazione, ma efficace contro l'avventato atteggiamento di chi vuole minimizzare i fatti per lasciare che turisti disinformati giungano in valle, nonostante il pericolo; siamo alla fine di luglio, nel pieno della stagione turistica; i turisti potrebbero aggiungere pericolo al pericolo, disordine al disordine.

Le strade, i ponti, la ferrovia sono interrotti per tutta la valle.

Ecco il punto.

Mentre ovunque si scava in silenzio fra le macerie e i detriti, ecco levarsi un grido d'aiuto, inascoltato per diversi giorni, distratti come sono un po' tutti, giù in bassa valle, in Valmalenco, in Val di Tartano, dal lavoro per liberarsi dal fango, per seppellire i morti e per cercare i dispersi, per procurarsi un tetto dopo aver perso la casa.

Un grido di aiuto insistente, che finalmente riesce a richiamare ben tre ministri in una volta sola; poi verrà il Presidente Cossiga e infine il Ministro Goria. Questi addirittura "sgrida" i giornalisti perché vanno scrivendo che in Valtellina cadono le frane.

Le vie di comunicazione sono interrotte: la ferrovia e la strada statale all'altezza di Forcola viene riattivata dopo qualche giorno; ugualmente a Chiuro. Resta chiusa a S.Antonio Morignone e Cepina, sia per lo straripamento dell'Adda che per il franamento della strada e della galleria paravalanghe; inoltre incombe imminente il pericolo di caduta di una enorme massa di terra dal Pizzo Coppetto, sul monte Zandila; S.Antonio Morignone è stato evacuato e il transito vietato a chiunque. La zona, sotto controllo, è sorvegliata per vietarne l'accesso.

Anche il passaggio alla dogana di Piattamala è chiuso: il Poschiavino ha fatto molti danni, straripando al di là del basso argine che costeggia la strada e le case.

Per andare a Bormio bisogna passare per la Svizzera, dal passo Maloja a S. Moritz e al passo del Bernina, e quindi per il passo della Forcola a Livigno e dal Foscagno a Bormio, con un viaggio di circa sei ore.

Chi ci va più a Bormio?

E pensare che proprio all'inizio dell'anno è stata inaugurata la nuova e veloce strada sul lago, attesa da almeno un paio di decenni. Anche se, a causa dell'ingorgo di Lecco, al rientro si perde più tempo di quanto se ne guadagna all'andata. Ancora qualche anno di pazienza finché non sarà pronto il passaggio sotto il devastato monte di S. Martino.

Cominciano intanto ad arrivare le prime disdette e solo pochi turisti si aggirano per Bormio, godendosi, in un clima contrastante con la tristezza interiore, pace e tranquillità e tanta aria pulita.

Si preannuncia una stagione turistica magra; l'isolamento potrebbe mettere in ginocchio Bormio e per la gente sarebbe un bel danno.

Gli ambiziosi progetti, conseguenti alla notorietà assunta dopo i mondiali di sci, sono compromessi. I clienti, i villeggianti di Bormio, così prestigiosi e ambiti perfino dalle stazioni turistiche di Val d'Aosta e del Trentino, rischiano di non poter arrivare.

Bisogna correre ai ripari e attivare subito un passaggio, in qualche modo, che dia la possibilità di giungere in alta valle per la solita via, superando il tratto ostruito di S. Antonio Morignone.

Di fronte alla necessità di difendere l'interesse economico di un importante centro turistico, si può chiudere un occhio e cercare di tracciare in tempi brevissimi un passaggio in terra battuta. Poche centinaia di metri, ma sufficienti a collegare Bormio al resto della valle.

Si tratta di evitare una perdita economica, permettendo ai turisti di arrivare; una volta su, potranno spendere tranquillamente le loro vacanze, al sicuro, e godere delle infinite bellezze del luogo.

Pochi operai esperti sono sufficienti a portare a termine l'opera; le ruspe e i mezzi necessari sono già sul posto, rimaste lì dopo la veloce ed improvvisa evacuazione.

E così fu!

Al levar del sole, la mattina di martedì 28 luglio, in molti pensano di andare a recuperare ancora qualcosa nelle case o nelle baite abbandonate.

L'acqua dell'Adda si è ritirata e il fango va, via via, asciugandosi.

Attraverso i sentieri di montagna, ben conosciuti,si può aggirare il posto di blocco e arrivare facilmente alle case.

Così pensano anche alcuni operai addetti all'apertura della strada.

Nei giorni precedenti si sono sprecati, oltre ai divieti, gli avvertimenti, e le raccomandazioni a non inoltrarsi nella zona: il monte presenta vari punti di distacco e una profonda linea di frattura.

Alcune famiglie sono impegnate nel recupero di quanto è stato risparmiato dall'acqua e dal fango.

Presso il Ponte del Diavolo alcuni operai stanno costruendo una massicciata sulla quale correrà la nuova strada; un lavoro febbrile, quasi una corsa col tempo, fra il rumore assordante dei potenti motori, dei cingoli, della ruspa contro i massi nel fango.

Ad Aquilone la gente conduce una vita quasi normale, pur con tanta apprensione per quelli di Morignone e di Sant'Antonio; l'ordine di evacuazione qui non è arrivato, lontano com'è dalla zona di pericolo.

A San Bartolomeo, il pittoresco costone roccioso che si affaccia a terrazzo su Sant'Antonio Morignone, un gruppo di quattordici uomini, fra soldati e civili, al comando del Tenente bersagliere Bove, è in osservazione da qualche giorno, dopo i segni di cedimento dati dalla montagna.

A Sant'Antonio Morignone alcuni operai, con ruspe e pale, lavorano febbrilmente per liberare le case dal fango mentre alcuni abitanti, dopo aver superato col favore del buio i posti di blocco, cercano di recuperare le cose più care, ricche di affetti e ricordi.

Il tempo instabile, dà qualche segno di miglioramento, ma l'aria, pur pulita, odora ancora di fango.

Da poco si è annunciato il nuovo giorno e la vita riprende con tanti problemi nuovi, impellenti.

Qualcuno ha il tempo di capire, di correre col pensiero a vedere la tragica conclusione dei fatti.

Attimi, vissuti lungamente come in un sogno. Ti corrono alla mente le persone care, i momenti più felici del passato; vorresti essere in un altro posto, lontano da lì.

Come quando precipiti giù per un canalone di neve, in montagna. Ti lasci trascinare dal pendio, cercando di cogliere il momento buono per saltare verso un appiglio o per affondare gli scarponi in una massa di neve che possa attutire la caduta; sassi e sporgenze ti vengono incontro come lame taglienti. Hai il tempo di pensare all'errore e all'imprudenza commessa; non dovevi fidarti, non dovevi mettere il piede proprio lì. I tuoi cari, non li rivedrai mai più; il ricordo di momenti felici con i tuoi ti corre alla mente:vedi sguardi pieni d'amore e di gioia trasformarsi in lacrime, e un vortice di immagini di tempi lontani,della prima infanzia, si accavallano rotolando con te verso il fondo.

Il tonfo contro rocce e sassi è sordo; se sei fortunato sbatti contro la neve gelata, ammassata ai piedi del canalone.

Per un attimo il tempo si ferma, un colpo sordo rimbomba dentro la testa, profondo; e tutto gira, mentre la vista si annebbia fra visioni di rosso e di giallo. Non senti dolore, solo impressioni e sensazioni sconvolgono i sensi; il sapore del sangue fra i denti, gli occhi chiusi, il pensiero che corre lungo il corpo a cercare ferite, finché lentamente non ti perdi nel nulla.

Sono circa le 7.30 quando il tenente Bove sente un sordo boato e un gran rotolare di sassi, seguito da un vento fortissimo che lo fa vacillare.

La montagna di fronte sembra dissolversi in una nuvola; tutt'intorno massi e alberi spezzati lo sfiorano.

Un'enorme frana si abbatte sul fondo valle con un terribile schianto, rimbalza nel fango e risale la china opposta, aggredendo il ripido costone di S. Bartolomeo, lo aggira, trascinando alberi e case in un vortice di polvere.

La frana è terrificante, milioni di metri cubi di terra e sassi.

Contro il costone di S. Bartolomeo smorza la sua forza e ricade a monte verso Bormio, su un invaso naturale che si è creato durante la precedente alluvione.

In pochi attimi S. Antonio e Morignone vengono sommersi dalla terra e dal fango e scompaiono; ma la forza devastatrice della frana non si esaurisce lì. Continua a valle fino al Ponte del Diavolo, distruggendolo, mentre a monte, un'onda d'urto di estrema violenza si abbatte su Aquilone, frantumando le poche case raggruppate sotto le rocce di Oultòir.

Lo spostamento d'aria giunge fino a Le Prese e a Sondalo, a Tola e a Cepina, insieme a sgomento e a un profondo presentimento di morte.

Al Ponte del Diavolo gli operai, compresi nel lavoro di sgombero, sommersi dal rumore delle pale e dei bulldozer, non si accorgono subito della frana. Quando vedono la polvere e i sassi rotolare verso di loro, si gettano con la forza della disperazione giù verso valle, di corsa, con il fiato mozzato dalla paura. Poi il vento dell'onda d'urto li spazza via, gettandoli però lontano dai massi e dal fango che altrimenti li avrebbe travolti.

Ad Aquilone un giovane, in casa con la famiglia, udito il fragore della frana, grida ai suoi di fuggire, ma, mentre suo padre, a sua volta, gli urla di salvarsi, di andare, di non aspettarli, un vento violento investe l'auto e lo scaraventa lontano. Si risveglia sotto le ruote di un trattore; i suoi sono scomparsi sotto le macerie.

Nelle case i bimbi, ancora immersi nel sonno profondo del mattino, non si avvedono di nulla.

A Sant'Antonio e a Morignone, gli operai impegnati nei lavori di sgombero sono i soli a vivere in tutta la realtà il momento della tragedia.

Fino a Bormio, qualche chilometro più su, viene udito il boato. Chi guarda a fondo valle vede una nuvola giallastra di polvere.

L'elicottero è il primo a sorvolare la zona. La vita è scomparsa: un enorme solco di terra scende dal monte, là dove c'erano migliaia di alberi; la valle è sommersa per circa due chilometri sotto una massa di terra e detriti di ogni genere; a monte, verso Tola e Cepina, si forma intanto un piccolo lago con l'acqua dell'Adda che ancora affluisce torbida e limacciosa.

Tronchi d'albero galleggiano sull'acqua, mentre qualche sasso rotola ancora giù dal monte e la polvere si perde nell'aria.

Nessun segno di vita, solo un silenzio di morte e il rumore delle pale dell'elicottero.

Qualcuno si salva perché si trova al limite estremo della zona colpita e, sotto choc, fra le lacrime, porta testimonianze terrificanti di quella devastazione.

Il ministro Zamberletti, ancora fra di noi ad organizzare i soccorsi, ha appena il tempo di chiedersi cosa facevano lassù le persone rimaste sepolte, nonostante i severi divieti.

Per poco finché la politica non travolge anche lui, mentre, nell'acqua alta e nel fango, partecipa alla tragedia della Valdisotto. In silenzio, decorosamente, a testa alta, deve lasciare il posto al suo successore.

Il fatto addolora i Valtellinesi e chi ha avuto modo di apprezzare i suoi interventi, quasi quanto la tragedia che si è abbattuta su quella povera gente di Morignone.

Nessuno avrebbe mai pensato che la politica, pur fra inevitabili compromessi, potesse agire così, senza il minimo scrupolo.

I fatti avranno risonanza e conseguenze molto gravi per lunghissimo tempo, compromettendo anche le giuste aspettative della gente nei riguardi del nuovo Ministro.

La notizia della frana si sparge velocemente insieme all'ordine di evacuazione per i paesi da Le Prese a Tirano, oltre che per Tola e Cepina.

L'enorme frana, infatti, ha causato l'interruzione della valle per due chilometri, ha creato un bacino naturale entro il quale si raccoglie l'acqua dell'Adda, formando un invaso grande quanto un lago.

L'acqua potrebbe risalire ed invadere le contrade a monte, premere con la sua massa contro il bacino creato dalla frana ed esplodere a valle come una bomba.

La devastazione dei paesi sottostanti sarebbe inevitabile e violentissimo l'urto, a causa della quantità di terra, tronchi d'albero e sassi che l'acqua trascinerebbe con sè.

Inoltre, sul monte Zandila sono rimasti spuntoni di roccia e costoni pericolanti; la loro caduta, da quell'altezza, sul lago formatosi a valle, potrebbe causare un effetto Vajont, con coinvolgimento dei paesi di Tola e Cepina, a monte dell'invaso.

Migliaia di persone devono nuovamente evacuare verso Bormio e presso le strutture ospedaliere di Sondalo.

La gente si ritira in silenzio, racimolando alla meglio poche cose; solo qualche lacrima dignitosa e composta, come quando si lascia una persona cara con il presentimento di non rivederla più.

E le vittime? Come mai c'era gente lassù? Chi ce l'ha mandata?

Non lo si saprà mai, o meglio, non fate domande inutili, ora è il momento di lavorare sodo e di pensare alla ricostruzione della Valtellina. É l'ora delle grandi Commissioni, dell'emergenza, dell'assegnazione degli appalti. Anche Bormio, che ancora è preoccupata per l'isolamento, deve accettare la realtà.

Ora la Valtellina, bistrattata e inascoltata da sempre, deve far valere i propri interessi a Roma.

Quanti impegni attendono i nostri Parlamentari! Ma saranno capaci di farsi ascoltare?

 

 

 

 

Evacuare, fuggire verso luoghi sicuri, abbandonare le tue cose così come sono senza avere neppure il tempo di disporle con cautela al riparo. Chiudere le porte di casa e lasciarti dietro le cose che ti hanno accompagnato per tutta la vita, ricche di valori affettivi, di sentimenti, di ricordi ben più consistenti del mero contenuto venale, anche quella roba che ti seguiva da anni per ricordarti il passato e raccontarlo ai nipoti, devi lasciarle dietro un giro di chiave, e con queste, il tuo nido, il tuo mondo, quello che ti ha formato e cresciuto, dandoti sicurezza e rifugio.

Per qualcuno si tratta di dire addio al risultato del lavoro duro di anni, sasso su sasso, messo su durante il tempo libero, a sera, dopo il lavoro, o durante i giorni di festa, con qualche amico disponibile a dare una mano.

La casa è una conquista, è la prova che sei un buon lavoratore, un buon marito, un buon padre. Per essa fai qualunque sacrificio e la famiglia tutta partecipa con quel sentimento che guida l'uomo alla conquista del benessere, di valori e principi, di un posto nella lunga graduatoria della scala sociale. Perderla significa buttar via anni di lavoro, il sogno finalmente realizzato di una vita.

E chissà se, poi, avrai ancora la forza di ricostruirla e soprattutto se avrai la forza, la voglia, il tempo di rifare tanti sacrifici.

Una cosa è certa; se rifai la casa, devi farla in un posto sicuro, lontano dal fiume e da pendii troppo scoscesi.

Soprattutto guardati bene intorno, ascolta le voci del bosco, dei monti, della valle tortuosa ove scorre il torrente e impara a conoscere queste voci, a viverle come una parte di te.

Lasciare ad altri il rischio di collaudare disegni e programmi avventurosi può essere talvolta opportuno, purché si abbia la capacità di mettere in atto veloci cambiamenti in tempi brevi.

Il mercato ha le sue regole e la politica dei cambiamenti può essere attuata, oggi, solo con l'apporto di forze nuove, di strutture adeguate.

Poche aggregazioni, coinvolte in processi innovativi, espansionistici, congiunturali, alla ricerca di assetti e di equilibri dimensionali, hanno avviato da tempo programmi di sviluppo, sfruttando la sinergia di forme consortili e cooperativistiche o la fusione di capacità patrimoniali, tecnologiche e produttive.

Le forze individuali, anche se ricche di esperienza e di professionalità, non possono oggi sostenere, da sole, i vincoli imposti dall'evoluzione del mercato, dalla sollecitazione di eventi valutari e dall'instabilità della situazione politica e congiunturale.

É necessario, pertanto, promuovere iniziative rivolte al consolidamento delle strutture, alla ricerca di qualità ed efficienza, e coordinarle attraverso il consorzio delle attività.

A questa considerazione potrebbero fare riferimento le scelte che il futuro della Valtellina imporrà alle imprese e potrà essere la prima risposta ai ricorrenti interrogativi; ma, forse, i pregiudizi porteranno a ricercare alleanze fra forze non certo rispondenti alle più spontanee aspettative.

La Valchiavenna, nella cornice di montagne rocciose che affidano al Mera, limpido e pescoso, le acque dello Spluga e del Maloja, ha saputo trovare una dimensione in armonia con la genuina espressione delle tradizioni e della cultura, in equilibrio con le caratteristiche della propria economia.

In Valtellina, l'attività agricola, un tempo prevalente, ma non sufficiente a coprire il fabbisogno della popolazione, subì ben presto, intorno agli anni '50, un radicale processo di conversione, indirizzando le proprie forze verso le fiorenti attività industriali, artigianali e commerciali, verso le nuove imprese all'estero, e soprattutto, verso le iniziative turistiche e alberghiere.

Vecchie cartoline di Livigno, ricordano i viaggi, sul caratteristico slittone trainato da cavalli avelignesi, delle commissioni preposte al controllo e al collaudo dei primi alberghi. Si racconta di gente schiva e timida che si rinchiudeva in casa al passaggio di un estraneo; solo qualcuno, incuriosito, guardava fuori attraverso le pesanti ante socchiuse.

Poi gli alberghi, i ristoranti, i negozi, i distributori di benzina, sotto la spinta del crescente turismo e dell'allettante interesse prodotto dalla zona franca, proliferarono, creando, sotto le direttive del leggendario don Parenti, le premesse per l'affermazione di quella che diverrà una delle più belle e famose stazioni turistiche estive ed invernali.

A Trepalle, il paese più alto d'Europa, resta ancora vivo il ricordo di quei tempi lontani.

Fu costruita una galleria verso la bassa Engadina e furono potenziate strade e camminamenti per favorire il collegamento con i paesi e le valli limitrofe.

Presto vennero gli impianti di risalita per gli appassionati sciatori, collegati da una pista all'altra per non togliere gli sci.

Come Livigno, così Bormio, Valfurva, Passo Stelvio, Aprica, Valmalenco, Valgerola, rinomate per il prezioso patrimonio naturale e paesaggistico, mentre, in Valchiavenna, aveva già raggiunto notorietà e immagine di livello il centro di Madesimo.

Era facile, allora, trovare un lavoro più comodo e più redditizio di quello agricolo, dopo anni di emigrazione all'estero, di duro lavoro nei pascoli con le bestie, di agricoltura povera che dava appena quel tanto sufficiente per sopravvivere; certo più redditizio di quando, "per comprarti un paio di scarpe", grosse e robuste, o una giacca da mettere

alla domenica , dovevi vendere burro, formaggio e ortaggi "a poche lire e accontentarti".

Bastava aprire un bar, bastava saper cucinare polenta o pizzoccheri, "far andare costine alla brace"; bastava qualche stanza arredata in stile pseudoalpino, per iniziare un lavoro dal guadagno sicuro.

E così la gente fuggì via dalla campagna, dalle stalle, dai monti. Non era certo deprecabile, anzi, lo sviluppo economico che la Valtellina ebbe a quei tempi fu conquistato con l'impegno, il sacrificio e l'intraprendenza di chi dedicò le proprie forze alle nuove iniziative.

L'individualismo, la mancanza di esperienza e soprattutto di una tradizione turistica, però, fecero sì che la crescita assumesse aspetti contrastanti.

La furia degli elementi si abbatte, con effetti certamente meno gravi, ma con la stessa violenza anche sulla Valchiavenna, soprattutto nella parte più bassa della Valle, sulla strada provinciale, presso Novate Mezzola.

Qui, lo straripamento delle acque dell'Adda da un lato e del Lago di Novate alimentato dalle acque del Mera dall'altro, provoca allagamenti in pianura e sulla strada del Trivio di Fuentes e l'evacuazione di alcune abitazioni.

In Alta Valle, tra Isola e Pianazzo, una grossa frana tiene col fiato sospeso gli abitanti della zona, minacciando di cadere sul bacino artificiale dell'Enel.

Anche il campeggio, nei pressi di Campodolcino, viene evacuato e così alcune abitazioni.

Il Mera, nel pieno della sua furia, abbatte in alcuni punti l'argine in prossimità di Chiavenna, senza però invadere la città.

Danni, molti, ma senza vittime umane per fortuna. Fortuna e un pizzico di prevenzione: le opere di difesa, dopo le alluvioni del 1983, hanno dato evidenti risultati positivi. Seguono giorni tranquilli. Di tanto in tanto la visita di qualche Ministro dà al clima di attesa un vago calore di speranza, come se i problemi stessero per essere prontamente risolti.

Il Ministro Gaspari giunge in Valle con altri due Ministri per un breve sopraluogo; è accolto inizialmente con freddezza, ma poi, anche i più agguerriti contestatori diventano meno duri e opportunisticamente più comprensivi.

Il Presidente Cossiga è accolto con il doveroso e caloroso riguardo che spetta al buon padre di famiglia.

Il turista è mancato e negli alberghi vi sono molte disdette, ma, nonostante tutto, pare che le presenze turistiche siano del quaranta per cento.

Qualcuno sussurra fra i denti che una vacanza così, a Bormio, non la faceva da anni.

Con il tempo che si è decisamente messo al bello e con poche auto la gente passeggia tranquilla per via, godendo del silenzio e della pace che distingueva le villeggiature estive di un tempo.

Può salire le cime di Reit, dei Piazzi, del monte Sobretta e ammirare la conca di sole su cui Bormio si adagia fra giardini di verde, alla foce del Braulio.

Può salire in Valfurva, cruda e selvaggia, verso i monti Zebrù e Cevedale, dove l'aquila volge tranquilla le ali fra picchi e bastioni di roccia, protetta da attenti guardiani; poi, dopo Oga e Isolaccia, verso la valle più bella del mondo, tra il monte Foscagno e il Dosdè, in Val Viola. Pascoli, rododendri, larici e foreste di abete; pietraie e piccoli tratti a cespuglio di mugo prostrato; fra zolle e morene un intenso profumo di nigritelle e acque che scorrono a valle saltando fra i sassi e sfiorano il vento con spruzzi di sole.

Il cielo è blu e le acque d'argento, come un quadro del Benetti o del Punzo.

Peccato che gli animi siano rattristati da eventi così dolorosi.

La Valtellina ha ripreso il suo colore estivo, le sue montagne verdi, sormontate dal profondo azzurro del cielo. Basta un po' di sole e qualche pennellata di nuvole sulla cresta dei monti per far risplendere la valle in tutta la sua bellezza. Ferite profonde da un lato, bellezza incontaminata dall'altro; un contrasto che porta a riflettere, a considerare tante cose. E pensare che ricorre, guarda caso, l'anno dell'ambiente! Vuoi vedere che proprio quest'anno la natura ha voluto prendersi una rivincita?!

Fra riflessioni e considerazioni, fra divieti e ordini di sgombero, gli addetti ai lavori esaminano i problemi via via che si presentano; le commissioni si passano velocemente la patata bollente dell'emergenza, mentre si avvicina a grandi passi il periodo delle ferie e così, tutti, Governo in testa, vanno in vacanza.

Anche il Ministro Gaspari raggiunge le sabbiose spiagge di Vasto da dove può raccogliere notizie dai suoi discreti informatori.

Il programma di interventi è stato steso: la Snam Progetti provvederà a collocare grosse tubature per risucchiare l'acqua dall'invaso di val Pola.

Il lago, dopo una lunga serie di appellativi, ha preso infatti il nome di lago di val Pola; cresce lentamente ed è sotto controllo. Qualcuno comincia a pensare, che, in fondo, non ci sta male e può restarci per sempre, portando vantaggi all'ambiente, al paesaggio, al turismo.

Da dove salta fuori quel nome! Non sarebbe più giusto chiamarlo lago di Morignone o di Aquilone? Non è certo il caso di sollevare discussioni per la scelta di un nome che, fra l'altro, ricorda una tragica circostanza. Lago di Val Pola proprio non dice nulla, è solo il nome di quella valletta scoscesa, sotto il pizzo Coppetto, dalla quale si staccò la frana.

Peccato che dal monte Zandila incombe il pericolo di un'altra grossa frana, di proporzioni minori, ma sufficiente per impedire che i lavori di sistemazione sul fronte della frana proseguano secondo i progetti.

L'acqua del lago dovrebbe raggiungere il livello massimo non prima di un mese; c'è il tempo per una salutare vacanza per tutti ... tranne che per il lago.

 

 

 

 

Il rientro dalle vacanze è repentino, quasi forzato. I problemi sono ancora lì, insoluti, e aspettano interventi urgenti. Possibile che in tutto questo tempo non si sia fatto nulla?

Sì, è stata controllata la crescita del lago, è stato recuperato il corpo di qualche povera vittima, si sono scattate foto e sono state lanciate tante accuse: ce ne sono state per tutti!

La stampa e la Rai-Tv, dopo la tirata d'orecchie di Goria, si sono offese e hanno dirottato il tiro.

Ma il tempo sembra rimettersi al brutto, modificando ogni programma.

Le vacanze sono finite e si può riprendere a lavorare e a far polemica; il Ministro Gaspari si fa portare in elicottero sul fronte della frana per constatare la gravità della situazione.

Il lago è cresciuto e invade tutta la valle. Si portano urgentemente i tubi per installare un sistema di idrovore. A questo punto, però, è tardi, non c'è più tempo.

Via i tubi; bisogna scavare un solco sulla diga dell'invaso per permettere all'acqua di defluire naturalmente, una volta giunta al culmine; ma chi ci va a lavorare lì, in quelle condizioni, con il pericolo di un'altra frana?

Non si poteva pensarci prima, oltre un mese fa, subito dopo la caduta della frana, quando il livello del lago era ancora basso? Si poteva ripulire il monte dalle incombenti frane e vuotare il lago. Si poteva pompare l'acqua a valle e nel canale di gronda e quindi aggredire con le ruspe tutto il fronte della frana, livellarlo e spingere il materiale nell'invaso, il più possibile.

Ormai, però, non c'è più tempo.

Bisogna trovare il coraggio di portarsi sulla diga e preparare un solco in cui incanalare l'acqua per farla defluire a valle. Ci sarà pure qualche coraggioso!

Nessuno, neppure con lauti compensi! Finché non arriva Paride Cariboni, alla testa di un gruppo di operai; aggredisce la frana, nonostante il pericolo, e traccia con poche ruspe il canale di deflusso per l'acqua.

Vuole stare lì, con loro, per tutta la durata dei lavori, quasi tre giorni, mentre dal pizzo Coppetto cadono sassi e detriti: vengono calcolati almeno duecento smottamenti in un giorno.

In molti notano questo atto di coraggio, i suoi operai per primi, che lo vedono lì, con loro, pronto a dare l'allarme e a portarli in salvo in elicottero. Il Presidente della Repubblica Cossiga in seguito conferirà a lui e ai suoi operai una onoreficenza per il coraggio dimostrato e per aver svolto un'opera determinante per la salvezza della valle.

Il corpo di frana su cui lavorano gli operai, con pesanti mezzi, è inconsistente, estremamente friabile, in alcuni punti impregnato di acqua. Un operaio spinge una ruspa verso la bocca dell'invito, ma il fondo non tiene e, come dentro a un banco di sabbie mobili, la ruspa è inghiottita e scompare.

 

Sul lago, in superficie, centinaia di grossi tronchi d'albero galleggiano spostandosi verso la bocca del canale e, a sera, spinti dal vento, ritornano a monte. Con l'acqua in movimento sarebbero di grande pericolo e vengono, pertanto, imbrigliati e trainati verso la parte alta del lago e qui ancorati alla terraferma.

Accanto alla cronaca quotidiana non mancano fatti divertenti che, in momenti di ansia come quelli che si stanno vivendo, servono a rendere meno pesante l'attesa.

In piazza Garibaldi ha posto le basi un quartiere della radio-televisione con sofisticati mezzi e apparecchiature collegate con le postazioni dislocate in alta valle e, tramite ponte, con la centrale di Roma.

La gente corre per conquistarsi un posto alle spalle del cronista durante le riprese per il telegiornale e per apparire in televisione si sottopone ad attese anche di qualche ora.

I cronisti sono di casa e già hanno fatto conquiste; ognuno ha il suo folto gruppo di ammiratrici. Ugualmente i giornalisti dei quotidiani, alloggiati presso l'Hotel Posta, e i tecnici, simpatici o meno secondo il gradimento delle loro affermazioni.

Il più ammirato è Lunardi, seguito quasi a pari merito da Losa; quindi Presbitero e Gioielli e poi Scaramucci, troppo impegnato però sul fronte della frana per godersi i complimenti delle ammiratrici.

La signora Paola ha perfino sognato il Prof. Lunardi e Laura stravede per un giornalista:

- per quale giornale scrive?

- è un cronista dell'Ansa

- bene, domani lo compro!

 

 

 

I giornalisti, i cronisti, i tecnici della radio e della televisione sono giunti da qualche giorno e hanno preso contatto con la dura realtà della tragedia.

Si muovono nel fango, con mezzi di fortuna, verso pericoli che altri cercano di fuggire; stendono la cronaca quotidiana con impegno e meticolosa puntualità.

Il corso degli eventi porta presto alla tragedia e allora è necessaria una presenza costante: fissano una base stabile a Sondrio, presso l'Albergo della Posta, accolti dal tratto cordiale e signorile di Tato Sozzani.

Lì accanto, sulla piazza Garibaldi, roulotte attrezzate con sofisticate apparecchiature permettono di predisporre cronache e notiziari.

Una antenna parabolica li collega all'alta valle con una postazione mobile di Televaltellina installata a Pravadina, sopra Frontale. Da qui Losa e Gioielli, assistiti dal tecnico Piasini, inviano immagini e commenti che con un paziente lavoro vengono registrate a Sondrio per essere poi trasmesse alla centrale di Roma tramite la fantascientifica stazione di Telespazio a Nuova Olonio.

Un lavoro assiduo, puntuale, preciso, non scevro di difficoltà per la conformazione della valle.

Per giorni e giorni, con dedizione e non pochi disagi i giornalisti affrontano gli eventi che si susseguono con risvolti sempre nuovi: vivono le attese e le speranze, l'apprensione e la sofferenza della gente.

Campana dirige e intervista, mentre Scaramucci riporta cronache e fatti e corre qua e là fra i solchi tracciati dalla tragedia. Beltotto spesso li racconta con voce rotta dall'emozione.

Ci sono poi i giornalisti dei quotidiani, Paolo Valenti e tanti altri; devono riportare la cronaca degli accadimenti e le emozioni vissute.

Carta, penne, matite, rullini per foto si bruciano in poco tempo; sono tante le cose da raccontare e da far sapere.

La verità spesso è dura e crudele, ma bisogna continuare; è un lavoro ingrato. Loro parlano di tutti e di tutto, ma nessuno racconta di loro.

Chiavegatti dovrà informare tutto il mondo e corre su e giù per la valle per cogliere le impressioni e le immagini più significative. Quando un conoscente ci presenta, stringo la sua mano forte e robusta come le sue spalle, ma sento una nota triste nel suo sguardo e nella sua voce.

Ma com'è l'anima del giornalista? I suoi pensieri nascono dal cuore o dalla mente?

Ho sempre immaginato il giornalista un po' scrittore e un po' poeta, anche attraverso cronache scarne e asciutte pervase di realismo verghiano.

Ho sempre ammirato quella capacità di dire e di scrivere cose che suscitano emozioni e impressioni, che si agitano dentro di te per giorni e giorni, che lasciano un segno nella storia e nei sentimenti, come gli spunti di Piazzesi e di Goldoni.

Ora lo vedo da vicino, lavorare giorno e notte, alle prese con frane e alluvioni, con la cruda realtà della tragedia che quotidianamente lo ferisce nell'intimo.

Lo incontro tutti i giorni; scruto il suo sguardo assorto a leggere i pensieri della mente e cercare di fuggire le immagini di tristezza e di desolazione che gli si sono impresse nel cuore.

Non c'è sosta; il notiziario, l'articolo, la spedizione sul posto per raccogliere dal vivo immagini e notizie; deve correre col tempo e più veloce del tempo.

Come noi vive nel pericolo; noi lo fuggiamo, lui gli va incontro, per vedere, per sentire, per informare.

Quante volte abbiamo ascoltato la sua voce segnata dall'emozione e dalla fatica; quante volte abbiamo letto fra le righe la sua apprensione.

Deve dire cose spesso brutali, perché di là c'è chi vuol sapere e vuol vedere.

Lo incontro tutti i giorni; poi lo vedo in televisione o lo leggo sul giornale. Allora vedo la sua mente e il suo cuore lottare per vincere la realtà e per non essere travolto dalle emozioni.

Lo vedo lì a pensare, a considerare, a commiserare, a raccontare ... spesso non è compreso e quel che dice non

è gradito a tutti, ma egli ha scelto la sua libertà, i suoi principi e i suoi ideali; il tempo gli darà ragione ...

Forse ritornerà a visitare la valle; la visione di montagne profumate di verde e di sole, pur fra tante tragedie, non può averlo lasciato insensibile.

Allora coglierà attese, emozioni e trasparenze nuove.

 

 

 

Mentre gli operai dell'impresa Cariboni, incoraggiati e incitati dal loro capo, il signor Paride, raccolgono lodi e gratitudine, i tecnici sono divisi in due schieramenti: da una parte quelli della Protezione Civile e della Commissione Grandi Rischi vogliono anticipare la "tracimazione" del Lago di Val Pola, immettendo acqua dalla diga di Cancano e provocare un flusso controllato dell'acqua lungo il greto predisposto dalla ditta Cariboni; dall'altra i tecnici dell'Aem preferiscono affidare alle piogge e all'acqua che si immette naturalmente il compito di riportare il livello del lago al punto di "tracimazione".

Il tempo è bello, ma il Pizzo Coppetto dà continui segni di pericolo; in valle la gente segue impaziente le decisioni. Vorrebbe anticipare i tempi, togliersi quella tremenda spada di Damocle dalla testa, consapevole che il rischio di grossi danni è grave.

Vorrebbe, però, avere il tempo di prepararsi, di salvare il salvabile, di limitare al minimo i danni.

Invece l'ordine di evacuazione per tutti, fino alle porte di Sondrio, giunge senza preavviso, verso mezzanotte di lunedì 24 agosto, mentre tutti dormono.

Ma ugualmente si assiste ad un'evacuazione composta, piena di commozione: circa trentamila persone sono costrette a lasciare le proprie abitazioni in piena notte e a cercare rifugio in baita, presso amici o parenti, presso scuole e istituti dei paesi in collina; tutti, da Verzedo a Sondalo, a Grosio, a Tirano, a Tresenda fino alle prime case di Sondrio. I negozi, i magazzini, le abitazioni piene di valori e cose care vengono chiuse e abbandonate senza neppure il tempo di pensare a qualche riparo.

Ma non si poteva dare un preavviso, il tempo di prepararsi? E poi quanto tempo passerà prima di poter rientrare? Rivedranno la loro casa? E il bestiame, chi lo accudirà?

Ora c'è solo desolazione e paura e una gran pena nel cuore.

I tecnici ai quali è affidata la decisione sulle modalità di svuotamento del lago, fin dai primi giorni, affermano di preferire un'azione pilotata e controllata, ottenibile immettendo acqua dalla diga di Cancano.

Sono il Prof. Ugo Majone, geotecnico, presidente della Commissione Grandi Rischi; il Prof. Michele Presbitero, capo dei geologi della Regione Lombardia; e il Prof. Piero Lunardi, Presidente della Commissione Valtellina della Protezione Civile.

L'ex vice Presidente della Commissione Grandi Rischi della Protezione Civile, l'ingegnere geotecnico Felice Ippolito, dimissionario, dichiara comunque d'essere d'accordo con la decisione del gruppo del Prof. Majone, anche se critica il ritardo nell'intervento.

Il Prof. Raffaello Nardi, ordinario di geologia applicata all'Università di Pisa, non sarebbe d'accordo se il ritardo negli interventi non fosse giunto ad un punto così critico.

Anche il Prof. Enzo Boschi, fisico, Presidente dell'Istituto Nazionale di geofisica, è in linea di massima d'accordo ma critica il ritardo negli interventi.

Così, pure il Prof. Mario Mittembergher, geologo, Direttore della Divisione Ambiente dell'ENEA.

Per l'Aem esprime dissensi sulla "tracimazione" controllata, l'ingegner Scacchi, responsabile, da anni, della gestione delle acque per lo sfruttamento energetico.

Una "tracimazione controllata", per lui, non ha significato, semmai dovrà trattarsi di una "tracimazione" forzata; il pericolo in caso di pioggia sarebbe enorme. L'ingegner Scacchi preferirebbe abbassare il fronte della diga e svuotare gradualmente l'invaso. Ma a questo punto! Non ci sono ancora i tubi e le idrovore, e il livello del lago è ormai al massimo punto di allarme. Comunque per l'operazione forzata egli attenderà un'ordinanza di legge.

Finché, dopo una lunga seduta notturna, seguita da un ultimo sopraluogo al mattino di giovedì, il Ministro Gaspari, assumendosi personalmente la responsabilità della decisione, ordina la "tracimazione controllata".

Le paratoje della diga di Cancano si apriranno venerdì con l'uscita di venti metri cubi di acqua al secondo che, con i tre immessi dall'Adda naturalmente, porteranno nell'invaso ventitre metri cubi di acqua al secondo.

La "tracimazione" avverrà nella mattina di domenica trenta agosto, secondo calcoli e previsioni.

Quante importanti decisioni si avvicinano! L'ingegner Augusto Scacchi si appresta a governare le acque, ad imbrigliarle e a domarle, come un mandriano con un cavallo selvaggio in Maremma.

La Valtellina da quel momento è nelle sue mani; coerente con le decisioni di maggioranza, dedica tutta la sua esperienza e la sua professionalità nell'operazione, unica nella storia e nel mondo. É un protagonista importante anche se vuole mantenere un atteggiamento riservato e discreto fino alla conclusione dell'operazione che si rivela lunga e complessa.

L'ingegner Scacchi sa benissimo come si comporta l'acqua; è il terreno su cui passa a creare incertezza: la consistenza, la conformazione degli strati interni, questi sono gli interrogativi che suggeriscono un controllo costante della situazione, momento per momento.

Per l'occasione il Padreterno gli ha ordinato una giornata stupenda, di quelle che caratterizzano il settembre valtellinese.

Al suo fianco, l'Ing. Scacchi ha comunque i tecnici a dargli man forte, abituati anch'essi ad assumersi le pesanti responsabilità che la gestione di un'azienda come l'Aem comporta.

É pur vero che, dal Lago di Val Pola, saranno i tecnici della Protezione Civile Majone, Lunardi e Presbitero, ad ordinare più o meno acqua secondo le necessità, ma l'Ingegner Scacchi dovrà tener conto anche di tutte le altre esigenze della centrale.

L'emozione dell'Ingegner Scacchi è grande; un'occhiata di incoraggiamento ai suoi tecnici, un OK a Majone e Lunardi, pollice su e via: si aprono le paratoje.

 

 

 

Quando il sole nasce, in Valtellina, sembra rincorrere gli ultimi sogni della notte, con l'ombra che scende e risale più volte i crinali, su fino alle vette. Riflessi di luce tagliano il cielo con lame dorate e l'aria si colora di emozioni, di irripetibili trasparenze, di attese, di orizzonti infiniti.

La valle si apre alla docile brezza del mattino e respira il profumo delle abetaie invase d'azzurro, mentre dai nevai si protende a raggiera un'infinità di sinuosi rivi d'argento che vanno ad unirsi in spumeggianti cascate.

Le voci dell'alpe, confuse dal silenzio del bosco, giungono quasi impercettibili; a chi non c'è abituato, sordo dei numerosi ingorghi in città, può sfuggire il sibilo del vento fra i rami e lo scorrere dell'acqua lontana, lungo il crinale dei monti; possono sfuggire i mille suoni della pineta, dei pascoli, degli antri strapiombanti in lugubri forre inesplorate.

Impervie asperità rocciose sopra docili distese di verde circondate dal discreto ondeggiare di arbusti, dignitosamente, chiedono spazio all'avanzare di serpenti in cemento.

Qualche baita qua e là, è il segno che qui l'uomo vive la sua diuturna fatica con antiche tradizioni, quasi in simbiosi con quel piccolo pezzo di terra che sembra non avere confini.

L'uomo, quassù, è padrone saggio e discreto; qui ha il suo regno e il suo mondo e ci vive, con fatica e con qualche rinuncia, qui ha il suo gregge e il suo cane pastore, sa aspettare, sa godere di un giorno di pioggia o di sole e sa ringraziare il Signore per quel poco che ha; la natura pare affidarsi con serena fiducia al suo volere, al suo istinto; quando esce dal casolare per cogliere il frutto del suo lavoro, gli animali del bosco cantano con lui il trionfo dell'alpe.

E al tramonto, quando ancora la luce del sole si ferma sui monti e attende la sera, spunta il cane di Orione ad accendere il cielo, e poi Spica e il Toro con Aldebaran e le Pleiadi, come un pugno di diamanti e di zaffiri; basta allungare una mano e par quasi di coglierli da uno scrigno di stelle. Nelle sere d'inverno, fra le case di sasso e di larice rosso, quando la luna sta dietro le cime, ancora Sirio t'illumina il passo e la neve si tinge di luce e di blu.

Ma come per tutte le cose anche qui occorre amore e rispetto per l'alpe; basta poco perché finisca l'incanto.

 

Il giorno più lungo, quello della "tracimazione", quello della verità, della risposta ai tormentosi dilemmi, inizia presto domenica mattina, all'alba.

I tecnici della televisione si portano presto sulle alture sopra l'invaso per riprendere le fasi del momento tanto atteso, quello del passaggio dell'acqua nel canale preparato dalle ruspe lungo la frana.

Paride Cariboni e i suoi uomini sono sul posto con due pesanti pale meccaniche, pronti a rimuovere eventuali ostacoli lungo la soglia d'invito al canale.

Piero Lunardi, serio e pensieroso nel suo impermeabile chiaro, in un abbigliamento quasi trasandato che gli conferisce un'aria da duro, è consapevole dell'importanza della missione.

I suoi commenti sono sempre puntuali e precisi, pervasi talvolta da qualche apprensione.

Il Ministro Gaspari, presente sul posto, assiste alla Messa presso la Chiesa di S.Bartolomeo. I suoi imperativi si fanno, via via, più decisi e qualcuno ha imparato a tacere e ad ascoltare di più.

Alle sette del mattino il secondo canale della televisione dà in diretta le riprese dell'avvenimento.

L'acqua si porta lentamente sopra l'invito e conquista il canale, anticipata, come un bimbo ai primi passi, dal Professor Majone, da alcuni tecnici e dagli operatori addetti alle riprese televisive.

Dal monte Zandila cadono sassi e detriti: una massa di terra e sassi incombe pesante sull'invaso, finché, d'un tratto, con grande boato, lascia rotolare, avvolta da una fitta nuvola di polvere, una grossa frana, ma si ferma prima di giungere al lago.

Metro dopo metro l'acqua avanza; Gino Baruffi, giovane operaio di Tresivio, con una ruspa, si mette a rimuovere terra lungo il greto per permettere all'acqua di defluire. A pochi passi da lui Paride Cariboni, il suo onnipresente principale, lo incita a proseguire.

Poi, coraggiosamente, si porta su una fossa che assorbe l'acqua; con grande perizia, incurante dei sassi che rotolano giù dal monte e del fondo melmoso nel quale potrebbe anche sprofondare, riempe quella fossa di materiale più consistente, finché non è colma, così che l'acqua può continuare a defluire a valle.

Forse l'acqua avrebbe avuto un corso diverso e, infiltrandosi chissà fra quali meandri sotterranei, avrebbe compromesso la riuscita dell'operazione. É un intervento importante, determinante, decisivo.

Per tutto il giorno, passo dopo passo, curva dopo curva, l'acqua scivola lentamente lungo il greto; dopo il primo tratto forma una pozza, poi prende a sinistra un po' più veloce e, quasi zampillando, si porta in una cunetta. Da qui prende, pian piano, a infiltrarsi sotto uno sbarramento di terra, già predisposto, per sbucare al di là, poco più sotto, dove forma un altro invaso, più grande, a forma di otto.

Poi viene la notte per riposare, mentre sentinelle e vedette rimangono all'erta sul posto.

Lunardi e Majone, palesemente soddisfatti, annunciano la loro fiducia nel proseguimento dell'operazione, confortando così quanti, sfollati da molti giorni, sono in apprensione per la loro casa.

Il sonno coglie docilmente l'alta valle, da Sondrio fino a Verzedo, completamente disabitata.

Solo qualcuno, con i favori del buio, può andare ad accudire il proprio bestiame, abbandonato da giorni in stalle e cortili. Le forze dell'ordine picchettano le vie per custodire le case e le abitazioni abbandonate, piene di valori e di cose importanti.

Non c'è più il frastuono di radio e motori, di urli e schiamazzi. É un silenzio angosciante, che mette paura. Perfino lo scrosciare dell'acqua, lungo la frana, sembra un frastuono.

Il sonno è breve e profondo, giusto il tempo di riprendere forze.

Lunedì, ultimo giorno d'agosto, si annuncia promettente. La luce dell'alba lascia riflessi nel lago e sul corso dell'acqua che ormai, compatta e decisa, scende, fra pozze e anse, lungo il corpo della frana per aprirsi a ventaglio giù in fondo, nell'ultimo tratto, e unirsi al corso dell'Adda.

L'operazione può dirsi ultimata e la soddisfazione è grande. La frana ha tenuto, l'acqua è scesa docilmente; la situazione è sotto controllo. Così si voleva!

Come sarà in seguito si vedrà, siamo solo al principio!

Sulla conclusione dell'operazione di svaso non vi è molta certezza, anche se la prima fase, quella della "tracimazione controllata", ha suscitato grande entusiasmo.

Il Professor Majone e il Professor Lunardi raccolgono meritatamente i primi consensi e il plauso della popolazione evacuata da giorni in altura, al riparo da eventuali inondazioni. Anche il Ministro Gaspari tira un sospiro di sollievo.

La gente, dopo più di quaranta giorni, è stanca di sentire declamare opinioni e previsioni catastrofiche, è stanca di parole, troppe, buttate al vento; vuole fatti, azioni, vuole agire secondo una mentalità che la caratterizza: poche parole e fatti concreti. Ed è pronta anche ad affrontare i rischi, tanti, legati a molte eventualità.

Per questo l'esito positivo della "tracimazione", il 30 agosto, il giorno più lungo, viene accolto come un segno favorevole; ha fatto ben sperare in un ritorno a casa, anche se entro tempi non brevi; ha fatto ben sperare nella salvezza dei paesi a valle.

Quel giorno la gente, dall'alto, ha seguito la discesa dell'acqua lungo la frana; ha seguito Paride Cariboni e i suoi operai alle prese con pale e ruspe per spingere l'acqua verso il canale, incuranti dei massi che, senza sosta, rotolavano giù dal Pizzo Coppetto; ha seguito la vicenda, istante per istante e, quando il Professor Lunardi annuncia l'avvenuta congiunzione dell'acqua del lago con il corso dell'Adda, esulta, commossa. Esulta perché le case, per il momento, sono salve, perché la diga, per il momento, ha tenuto, perché si può sperare.

E questa speranza dà la forza per resistere meglio lassù, fra disagi e rinunce.

Ma c'è il bestiame da accudire. Deve essere sfamato e pulito, altrimenti rischia di ammalarsi e morire. Ci sono le scorte di viveri in cantina e nei magazzini, ci sono mille problemi che solo con la costante cura di tutti i giorni possono essere risolti.

Qualcuno riesce ad avere permessi provvisori di poche ore, altri riescono a passare clandestinamente, superando i posti di blocco; qualcuno, esasperato, viene perfino alle mani e corre il rischio di essere arrestato.

Intanto i tecnici passano alla fase successiva, sicuramente più delicata perché, a rischi già conosciuti, si aggiunge l'incertezza sulla tenuta del corpo di frana.

Il Professor Raffaello Nardi insiste sulla urgente necessità di vuotare il lago per diminuire il peso della massa d'acqua contro il corpo di frana la cui tenuta è forse già stata compromessa dalle infiltrazioni di acqua. Questa, infatti, potrebbe smembrarla così da farla slittare fino a provocare il totale cedimento della base, con conseguenze disastrose.

Per questo si deve accelerare il pompaggio dell'acqua con potenti idrovore, sia verso valle che verso il canale di sgombro che corre accanto al lago, cento metri più su.

La tubazione per il deflusso dell'acqua e le potenti idrovore saranno pronte non prima del 19 settembre, termine contrattuale concordato con la società Condotte di Roma

L'Aem invece, è da subito disponibile per l'utilizzo del canale di gronda come via di scarico dell'acqua. E qui, ancora una volta, un commento amaro: non poteva essere utilizzato subito il canale di gronda, fin dall'inizio? Si sarebbe potuto tenere basso il livello del lago, permettendo così di abbassare e rinforzare gradualmente il corpo della frana.

Il Professor Nardi, pur ribadendo la mancanza di pericolo di imminente caduta di grosse frane dal monte Zandila, nonostante il lamento delle rocce registrate dalle apparecchiature elettroniche di controllo, invita insistentemente a non perdere tempo perché piogge e fatalità potrebbero demolire le sue previsioni.

Il Professor Lunardi è soddisfatto dell'esito della prima fase di interventi, ritenuti da lui necessari. Si tratta, ora, di tenere sotto controllo il comportamento dell'acqua e della frana da un lato e del monte dall'altro.

Il corpo della frana sarà aggredito con ruspe e pale per abbassarne il livello e regolarne la struttura, contemporaneamente alla graduale riduzione del livello del lago.

Non è il momento di perdersi in polemiche e i problemi devono essere risolti con razionalità e consapevolezza.

Anche per i risentimenti, per qualche accusa estemporanea sulla tempestività dell'intervento, non c'è tempo; il Professor Lunardi ha lavorato come responsabile geomeccanico in Guatemala e Salvador, ha lavorato al Frejus e al Gran Sasso. La sua esperienza gli consente di assumersi tutte le responsabilità che il caso gli presenta.

 

 

 

 

 

La fatidica data del 28 luglio non è dimenticata, ma sembra tanto lontana. Le giornate si accorciano e l'estate volge ormai al termine. Le vacanze sono finite; solo qualcuno si aggira in valle e sui monti per godere del magico Settembre che in Valtellina è sempre protagonista di incantevoli giornate.

Ai primi di Settembre, accolti dal suono delle campane a festa, gli evacuati fanno ritorno a casa; l'emergenza è finita, anche se lo stato di allarme non lascia spazio alla distensione e alla tranquillità. In molte zone, infatti, vi sono ancora situazioni di pericolo per la possibilità di frane.

Quelli che hanno trovato rifugio in scuole, asili, ospedali o presso tendopoli improvvisate, sono commossi per il trattamento ricevuto. Qualche disagio, certo, ma cibo ben preparato da mattina a sera, saporito ed abbondante. Qualche anziano avrebbe voluto restare ancora, adducendo come pretesto la paura. Si dice addirittura che abbiano approfittato del pranzo destinato agli evacuati anche parecchi turisti; la discordanza fra il numero degli evacuati e quello dei pranzi serviti è troppo evidente.

Il rientro a casa si svolge tranquillamente con un velo di commozione. Per prime aprono le aziende con più di dieci operai; nelle fabbriche è stato montato un sistema di allarme che avverte in caso di pericolo. Poi rientrano gli abitanti della zona fra Sondrio e Tirano e, alcuni giorni dopo, tutti gli altri. Non ci vuole molto per tornare alla normalità; le cose da fare sono tante e non si può più perdere tempo. Solo chi ha perso la casa, oltre 1400 persone, resta con la speranza di una tutta sua, magari come quella di prima.

Da Piazza Garibaldi, quasi malinconicamente, partono anche i cronisti della radio e della televisione; la grossa antenna parabolica collegata con i satelliti di Telespazio viene smontata e le roulottes si avviano in carovana verso il fondo valle. Tutti quanti, operatori e cronisti, portano nel cuore un po' di Valtellina, un po' del suo cielo, così limpido e trasparente.

Sono stati con noi tanti giorni, vivendo da vicino le ansie e le paure della gente; spesso i loro commenti erano carichi di emozione per ciò che avevano visto. Sembra impossibile che in una natura di irripetibile bellezza, vi siano ferite così profonde.

I lavori di sgombero dei detriti nelle zone disastrate proseguono ancora alacremente ed è grande la meraviglia per quello che la natura è riuscita a fare in pochi giorni di furia incontrollata.

I militari, i soccorritori, volontari e no, dopo giorni e giorni di duro e incessante lavoro, stanchi ed affaticati, ma soddisfatti per l'aiuto prestato alla popolazione con la quale ha instaurato un indissolubile vincolo di solidarietà, lasciano la valle.

Il loro intervento si è rivelato indispensabile e determinante, risolutivo di fronte alla vastità del disastro. Restano alcuni elicotteri, un gruppo di Agenti di Polizia e soldati dell'Esercito, quale presidio per eventuali interventi.

La situazione generale è stata schematizzata in un rapporto che sarà oggetto di studio per la Commissione e per i tecnici.

Gli interventi per la sistemazione della frana e del lago hanno soddisfatto quasi tutti, anche se resta sospesa l'accusa per l'imperdonabile ritardo.

Soprattutto ha meravigliato la veloce ed energica risoluzione del problema, un miracolo nel quale, forse, non si sperava.

I tecnici hanno vinto la loro battaglia e i politici possono ostentare orgoglio e soddisfazione. Ancora una volta è stata giocata una buona carta.

In una riunione a Grosio, presenti sindaci, amministratori, tecnici e numeroso pubblico, viene presentata la situazione del Lago di Morignone e del Monte Zandila e qualche ipotesi sul futuro della frana; fra queste anche la possibilità di mantenere, opportunamente protetto, il lago naturale di Val Pola, entro un'altezza massima di sei o sette metri, come utile bacino di regimazione delle acque dell'Adda in caso di piena.

Ma la popolazione fa esplicitamente intendere di essere contraria e preferisce eliminare ogni futuro plausibile timore. Qualche consenso per l'ipotesi espressa dal Professor Lunardi circa il mantenimento del lago, viene da Bormio: dopo tanto disastro, l'opportunità di ritornare su quel territorio, completamente trasformato ed estremamente inerte, è dettata solo da un fatto sentimentale.

Le case scomparse non possono certamente sorgere sullo stesso luogo per ovvi motivi; il paesaggio è completamente stravolto; allora perché non mantenere il lago come nuovo motivo turistico e paesaggistico, oltre che regolatore climatico in una zona troppo spesso avara di neve durante il periodo invernale? Le case dei paesi sommersi potranno trovare collocazione altrove, in luoghi più accoglienti e sicuri.

Per il momento viene chiaramente definita l'opera di intervento immediato sul fronte della frana: alleggerimento del lago, abbassamento del fronte diga, collocazione di tubazioni e idrovore per lo svuotamento, abbattimento dei grossi costoni pericolanti sul Monte Zandila.

Il programma di ricostruzione della Valtellina è stato affidato a specifiche commissioni, ma il coordinamento richiede una organizzazione in cui le forze politiche, ancora una volta, esprimono discordanze e ambizioni.

La sistemazione della rete di comunicazioni in Alta Valle, in particolare la pista di collegamento stradale con Bormio, richiede un tempo non meno breve di tre o quattro mesi.

La costruzione di case, di ponti, il lavoro di drenaggio e di aratura dei terreni alluvionati richiede tempi più lunghi come pure l'opera di ripulitura dei torrenti e dei fiumi, ancora carichi di detriti e di sassi.

Dietro tutti questi problemi si nasconde l'incubo di un pesante e difficile momento economico che coinvolge tutte le attività della Provincia, direttamente o di riflesso, e quelle extraprovinciali, legate alla Valtellina da antica e gratificante collaborazione. Ci saranno sacrifici per tutti. Il Governo non manca di emanare alcuni provvedimenti urgenti oltre ad assegnare fondi per gli interventi immediati, in attesa di stendere un programma completo per il recupero economico e ambientale.

La sospensione degli oneri fiscali e dei contributi sociali dà una prima boccata di ossigeno. Ma quanti avranno il buon senso di accantonarli? Alla scadenza del beneficio quanti saranno in grado di versarli?

Ci vorrebbe un gesto di vera sensibilità, bonificando, almeno per un anno, tasse e contributi a tutti i Valtellinesi. Non hanno forse già pagato con il loro impegno e con un passato di sacrifici una gran parte del debito verso lo Stato?

La cassa integrazione è stata estesa a tutti i settori economici, con somma soddisfazione di tanti che già vedevano l'oscuro spettro della miseria.

I militari di leva della Provincia di Sondrio, hanno ottenuto un mese di licenza che sarà rinnovato, alla scadenza, fino alla fine di settembre, e poi, di mese in mese, fino a dicembre e oltre. Nel contempo viene presentata una proposta di esonero per il triennio 1987/1989. Le forze dei giovani sono necessarie per il recupero culturale, sociale ed economico del Paese.

Certamente il Governo sta dando segni di buona volontà e di considerazione per la Valtellina. Le rimostranze per l'inerzia iniziale e per il ritardo negli interventi hanno creato la necessità di riscattare tanta impopolarità che, in seguito, potrebbe procurare nuove emorragie alle forze politiche.

La calamità che ha investito la Valtellina, ha rivelato al mondo intero la dignità, il decoro, il coraggio della popolazione; ha fatto conoscere quanta forza e quanta umiltà sostengano il carattere della gente così provata e così compostamente riservata.

Il tratto più commovente esce da un senso profondo di fede e di serena rassegnazione; c'è negli sguardi, nelle parole, tanta solidarietà e disponibilità e un religioso sentimento di speranza, di convinzione della presenza divina che ha dato la forza per resistere e ricominciare.

Da tutta la valle, in tanti si recano in pellegrinaggio al Santuario della Madonna di Tirano ad esprimere il sentimento di devozione e il ringraziamento per lo scampato pericolo. I più anziani si fanno portare in auto, per poi percorrere l'ultimo tratto insieme agli altri venuti da lontano a piedi.

Di fronte a valori umani così rari, ad atteggiamenti così responsabili, alla dignità di chi non ha nulla ma non è capace di chiedere, non si può che rispondere così, con un gesto di comprensione e generosità. Anche se poi, dietro il generale consenso, già avanza l'ombra di sconvenienti intrallazzi, di chi già si muove per avere vantaggiose opportunità e approfittare, ancora una volta, di una così favorevole occasione.

Ma in Valtellina non si verificherà; la storia di disoneste speculazioni qui non si ripeterà!

Ci sarà l'occasione di lavoro per tanti. Chi vorrà lavorare onestamente e guadagnare bene avrà tutte le possibilità. Non mancherà il lavoro. Non mancheranno i soldi, almeno così è stato assicurato. Lo sperava anche Paride Cariboni, quando, lavorando sul corpo della frana, non sapeva nè chi lo avrebbe pagato, nè come, nè quando!

E poi lo ha dichiarato solennemente il Ministro Gaspari:

- Valtellinesi, avrete case, strade e miliardi!

E da quel giorno, anche Lui, divenne meno antipatico. A tutti.

 

 

 

Questo saggio, scritto quasi per caso durante i giorni che sconvolsero gli animi e le contrade della Valtellina, termina alcuni giorni dopo l'avvenuta "tracimazione".

Da quel momento è iniziato il lavoro più difficile di recupero e di ricostruzione della valle. Non sono mancate le controversie, le polemiche, gli attacchi politici.

Molte cose importanti sono state realizzate grazie anche a un personaggio arrivato quassù fra non pochi contrasti; qui ha ritrovato il carattere della sua gente e ne ha saputo esaltare il valore, ridando forza e speranza: il Ministro Remo Gaspari.

Molto resta ancora da fare; lo potranno fare il buonsenso e l'impegno di chi desidera recuperare i valori della vita e della natura.

 

ritorna alla pagina editoria