POMPEIORAMA

archivio

Home Page

Carlo Alfano 25 ottobre 1990

MeltingPot speciale

1 - 17 dicembre 1997


TRITTICO Conversazione tra Mario Franco, Eugenio Giliberti e Nino Longobardi pubblicata su MeltingPot /speciale1 - Napoli dicembre 1997
Eugenio Giliberti - La prima cosa che salta agli occhi, se parliamo di questa iniziativa, è che l’aver preso in prestito il problema di restaurare il lavoro di Carlo Alfano, ha messo sul piatto della bilancia un peso molto forte. È inutile negare che siamo venuti in contatto con una problematica più complessa di quella per cui all’inizio abbiamo fatto qualche colpo di telefono, deciso di vederci e di tirar fuori un’idea. Credo sia importante mettere a fuoco il rapporto fra questa prima tappa del lavoro e quelle successive.
Nino Longobardi - Sentiamo il problema di Carlo come un’urgenza, che ora dobbiamo risolvere.
Per quanto mi riguarda è un fatto morale. Non necessariamente metto in gioco la mia carriera. Ma l’immagine di Carlo mi appartiene. E questo potrebbe essere un lavoro su di lui, chi può contestarlo? Parte dei miei lavori sono stati anche suggeriti da lui, mi sono formato sulla sua idea, sulla sua percezione dell’arte.
Sono stato il suo assistente, lo conosco da sempre. Il mio lavoro e quello di Carlo rappresentano due momenti estremamente diversi, che in questo progetto coincidono e qui sta il fatto morale
Mario Franco - Secondo me la vicenda di Carlo Alfano è sintomatica per Napoli. Una città, come dice La Capria "autoreferenziale" che apparentemente parla soltanto di se stessa, solo apparentemente però, perché in realtà è una città che dimentica in continuazione, che cancella la sua storia.
Noi tentiamo di contraddire questo stato di cose. Scegliamo Carlo perché lo abbiamo conosciuto bene, è morto da poco ed è stato velocemente messo da parte. Ma non dimenticato. Flavia ha ragione quando chiede gesti concreti, come quello del restauro di un’opera. In una qualsiasi città per un pittore come Alfano si sarebbe istituito un premio, allestita una grande
  mostra, promosso una serie di studi. Questa è la normalità. Il titolo che abbiamo scelto, Carlo Alfano è morto, significa che in un certo senso è morto anche nelle nostre coscienze e solleva il problema che qui a Napoli la normalità non succede.
Eugenio - Non dobbiamo dimenticare che stiamo puntando alla realizzazione di un progetto più ampio: non proponiamo soltanto la celebrazione di Alfano, lavoriamo anche perché Napoli si doti di uno spazio dove la ricerca artistica contemporanea abbia cittadinanza. Che non sia semplicemente lo spazio della galleria, pure essenziale. Ci sono attività che le gallerie per statuto non hanno il dovere di fare, che rientrano invece, nei compiti delle istituzioni che dovrebbero giocare al rimando con il lavoro delle gallerie: la galleria fa la prima scelta, poi lo spazio pubblico che interviene ne rafforza il lavoro. (... ) Non mi interessano i motivi che hanno condotto questa città ad essere "autoreferenziale", che la inducono ad ignorare la propria storia. Mi interessa fare qualcosa per oppormi a questo stato di cose. Vedo la nostra iniziativa come una possibilità di opposizione, ma non contro un avversario. Credo che l’avversario sia soltanto la parola che non annuncia il fatto, la parola, cioè, alla quale siamo sempre stati abituati.
Mario - Vorrei precisare i miei timori . Ripensando alla passata esperienza personale, ho paura delle supplenze. Un’operazione di supplenza sono stati per anni i cineclub che colmavano l’assenza di cineteche pubbliche . In questo caso informiamo sull’arte, sulla sperimentazione, sui giovani, mentre questo compito spetterebbe alle istituzioni. Spesso poi, accade che il mercato copia le tue idee, travisandole, involgarendole, privando le istituzioni della necessità di appropriarsene. Il nostro intervento non dovrebbe essere di supplenza, ma di opposizione, di lotta, per far capire

che questa iniziativa deve diventare pubblica. Dopodiché noi ci faremo da parte.
Non condanno il mercato, ma credo debbano esistere degli spazi in cui il mercato non c’entra. Lo spazio della sperimentazione, per definizione, non può essere uno spazio di mercato.
Eugenio - C’è una frase di Elisabeth Schweeger in questa rivista ["Journal 1. Progetto arte", Milano, Edizioni Mudima, luglio 1995] che mi interessa molto: "le aziende sovvenzionate dallo stato sono l’unico spazio libero in cui è ancora possibile pensare in modo non commerciale ed in cui la riflessione su noi stessi quale necessità della nostra civiltà, del nostro progresso, rappresenta l’obbiettivo fondamentale". Secondo me c’è una natura pubblica ineliminabile nella cultura. Ci stanno abituando a pensare che tutto deve rendere. Questo non è mai stato il pensiero dell’arte. L’arte ha reso, qualche volta rende, ma non può essere motivata dal bisogno di rendere. Nasce per necessità.
Uno spazio come quello che stiamo progettando dovrebbe essere al riparo dal bisogno di produrre denaro e dovrebbe riconoscere una posizione centrale alla necessità d’espressione.
Mario - Uno spazio libero dalle preoccupazioni del mercato, dove possano nascere cose che rendono facilmente, o che non rendono affatto. Questo intendiamo, quando diciamo che deve essere uno spazio pubblico.
Eugenio - Credo che l’attuale congiuntura politica sia favorevole perché oggi questa nostra proposta abbia un senso.
Per la Casina Pompeiana pensiamo ad una programmazione piuttosto lunga: due anni, dieci mostre, una serie innumerevole di eventi, una proliferazione di iniziative. Dovremmo organizzare un gruppo di persone che lavori su questi progetti e che sia poi utilizzabile dall’amministrazione comunale.
Mario - Negli anni settanta non si parlava altro che di circuito alternativo, il nemico era lo stato delle multinazionali. Un’analisi che forse anticipava i tempi. Pensate a cosa è adesso la globalizzazione, il grande mercato. Ma la realtà è sempre più complessa di qualsiasi schematizzazione ideologica o di qualsiasi tentativo di individuare immediatamente i nemici. Non ci sono più
  nemici precisi.
Nino - Credo che faccia parte della natura dell’artista tirarsi fuori dalla ressa. Nella Casina Pompeiana non andiamo a produrre oggetti, andiamo a formare delle energie, del pensiero. Poi speriamo che l’iniziativa possa prendere altre strade, ma questa è una cosa che non ci interessa.
Mario - L’artista riscrive le regole. Non è uno che si accontenta del mondo così com’è, vuole rifarlo, riplasmarlo. Si fabbrica un ambiente, inventandolo, dipingendolo. Operando nella realtà, intervenendo su quello che ci circonda.
Nino - In questo senso complicità. A me interessa la complicità con i giovani artisti, mi interessa capire che cosa fanno, mi interessa indagare il loro mondo. Non mi interessano i cittadini, non ci sono ancora arrivato, ci arriverò.
Eugenio - Mi piacerebbe che nella Casina Pompeiana si coltivasse quel patrimonio recente dell’arte, che non é l’isolamento, la lateralità, ma é l’autonomia. Mettere in piedi una macchina nella quale una serie di soggetti agisce in maniera diversa. Costruire una specie di fabbrica dei pensieri, delle idee, delle cose, dei fatti. Immagino di avere finalmente un posto a disposizione, che ha una pessima storia, da reinventare insieme ad altri artisti invitati ad esprimersi nella maniera più forte possibile. Immagino che lì maturino degli individui più attenti all’arte. La Casina può diventatare il luogo in cui cresce questa cosa, che non so distinguere bene, cui non voglio dare un titolo. La sento come una cosa che mi fa piacere veder crescere, mi fa piacere immaginare.
L’arte ha bisogno di potere, ne abbiamo sempre parlato, non ci dobbiamo scandalizzare. Vogliamo l’artista potente, il gallerista che ha potere, un lavoro anche potente. Io credo che noi abbiamo un punto di vista necessario e non capisco quando gli artisti si sentono inutili. Però credo che il nostro punto di vista, assolutamente necessario, abbia bisogno di maggiore visibilità. Ho l’impressione che in questo momento, la forza del mio lavoro non sia messa in discussione dalla visibilità del resto dei lavori prodotti dagli altri artisti, come pensavo negli anni scorsi.
Mario - Pensi ad una comunità.he cerchiamo delle complicità.

Eugenio - Non penso ad un gruppo. Credo nell’autonomia dell’arte. Credo che l’arte abbia la sua ragione di esistere, di organizzarsi socialmente.
Mario - Ho usato il termine comunità e non gruppo.
Nino - C’é anche una richiesta di spettacolarità. Anche quello è un problema serio. Secondo me attraverso operazioni del genere si può in qualche modo cercare di avere consensi. La richiesta di spettacolarità è evidente perché l’esperienza in solitudine non basta più, nessuno la considera. Non ti seguono, non ci arrivano, quindi secondo me bisogna mettere insieme una macchina che dia in qualche modo spettacolo, creare un circolo, anzi un circo per l’arte.
In realtà tu fai una battaglia con te stesso. Poi cerchi dei riscontri all’esterno, va bene se trovi degli amatori, degli appassionati. Sarà una visione romantica la mia, ma considero lo studio dell’artista come una arena.
Eugenio - Probabilmente un artista riesce a lavorare veramente per se stesso nel momento di maggiore maturità. Ma darei fiducia al sentimento individuale. Ci possono essere altre spinte. Persone che fanno arte, poesia anche bella, partendo dall’avidità. Non credo ci sia alcun limite. L’arte può nascere dalle cose più alte come dalle più basse. Il problema secondo me sta nella capacità della persona di dare qualità a quello che sta facendo, qualsiasi ragione o motivazione lo spingano. Ultimamente mi sono esercitato ad usare la parola necessità, mi è capitato diverse volte di volerne puntualizzare il senso, soprattutto quando si trattava di contrastare con le posizioni di artisti che parlano di arte relazionale, di arte come servizio.
Mario - Mentre Eugenio parlava, pensavo che la parola necessità in latino si dice usus. Nel significato di necessità c’è anche l’idea di come utilizzarla. È la necessità che aguzza l’ingegno, determina l’ispirazione ed il suo divenire.
Nino - Chi sa quali siano le necessità dell’artista e quelle che gli affibbia la società. L’orecchio tagliato di Van Gogh, lui magari se ne fotteva, le parrucche di Warhol. Beyus aveva un grande desiderio di comunicazione e questo lo portava a fare il clown, si doveva travestire con cappelli, cappottoni per poter comunicare.
Mario - Van Gogh scriveva dell’orecchio tagliato a suo fratello, si ritraeva con la benda. Il corpo fa parte del lavoro dell’artista per lo meno dalla fine del Settecento in poi. Porta con sé il problema della necessità dell’altro, la necessità di uscire fuori.
Nino - Ci sentiamo capaci di prendere delle legnate.
Eugenio - In realtà ce la sentiamo perché crediamo di non correre più tanti rischi, non perché non ci sia più niente da perdere, ma perché qualcosa è cambiato.
Nino - Tutti questi discorsi per giustificare che noi andiamo a lavorare in uno spazio pubblico e che ci danno quattro soldi?
Mario - Il fatto da giustificare è quello della perdita di tempo, credo che la domanda da porsi sia: ci conviene? Invece di fare i vostri lavori, vi conviene mettervi a realizzare il progetto della Casina? Sarà un esperimento riuscito se nel momento in cui funziona lo affideremo alle istituzioni pubbliche. Si presterà ad equivoci ed a strumentalizzazioni se verrà condotto con l’idea di delineare una sorta di tendenza.
Nino - Vedo questa operazione in un certo modo. Sento il fascino dello spazio. Il progetto stesso lo immagino come una grande scultura, come una grande scultura sociale, in qualche modo un lavoro.
Mario - Per me è stato molto emozionante vedere la scultura che Eugenio ci ha mostrato. L’ho visto prendere le misure, l’ho sentito parlare di questa cosa, e di fronte al plastico della Casina Pompeiana con il progetto di allestimento, ho capito che si trattava di un’opera. Non solo la scultura, il plastico, ma in qualche modo tutta l’operazione. Ma dobbiamo ricordarci che l’impegno politico, sociale che c’è in questa operazione va oltre quello artistico.
Eugenio - L’intellettualità napoletana è allenata alla dissuasione. Qualunque cosa fai è guardata con una tale petulante precisione che a volte l’unica maniera per stare assolutamente tranquilli è non fare niente. Stiamo parlando di un’iniziativa che rischia di suscitare qualche opposizione. Ma questo accade sempre

nel lavoro artistico, anche se chiuso, nascosto, ha sempre una forte natura pubblica. È un veicolo di comunicazione, una maniera di esporsi, con tutti i rischi che questa comporta.
Nino - Kounellis sente l’esigenza di insegnare, Beuys ha fatto la stessa cosa. Noi una cattedra non la vogliamo, ma sentiamo la necessità di occupare uno spazio che non sia quello dello studio.
Mario - Non credo agli artisti che lavorano attraverso gli allievi. Nessun gruppo può vivere senza una condizione di parità, penso a quelli che hanno portato trasformazioni profonde, dalle avanguardie storiche fino al Gruppo 63. Se ci si aggrega intorno a situazioni preesistenti, non motivate dalla necessità, si creano surrogati artistici, si innescano equivoci, o meglio aberrazzioni. Sarebbe terribile se Eugenio e Nino pensassero di esprimersi attraverso l’operazione, sottintendendo una difficoltà creativa, non riuscendo più ad esprimersi davanti alla tela o agli oggetti che fabbricano.

Eugenio - Costruiamo uno spazio aperto verso il futuro, partendo però dall’identificazione di un ambiente. Un ambiente che cerchiamo di definire con la complicità di chi ci accompagna e che si preciserà attraverso la pratica del confronto. Per il momento abbiamo eletto a nostra complice Daniela (Daniela Lancioni - N.D.R.). Qualche giorno fa Nino puntualizzava la necessità di spingere gli interventi che si terranno in questo spazio ad esseri estremi, forti. Gesti che abbiano una loro unicità anche nel lavoro degli artisti che parteciperanno all’iniziativa. L’operazione è rivolta inizialmente verso l’ambiente di riferimento napoletano. Dopo aver immaginato la carriera artistica totalmente al riparo da questa idea di località, sento oggi fortemente l’esigenza di misurarmici. Forse nel momento in cui la globalizzazione é un fenomeno attivo da molto tempo, nasce la spinta alla ridefinizione del territorio.
Il mondo oggi ha sfondato i confini ed è diventato molto più grande.