POMPEIORAMA

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25 ottobre 1990

MeltingPot /1

21 dicembre 1997


Intervento di post-presentazione
di Renato Nicolini
 

Questa mostra è anche il frutto dell’ultima delibera dell’"assessore Nicolini" approvata dalla Giunta Bassolino. È dunque per me l’occasione di un bilancio dei tre anni molto intensi che ho vissuto a Napoli, alla vigilia di assumere un incarico altrettanto difficile a Roma, alla presidenza del Palazzo delle Esposizioni. I bilanci sono sopportabili solo se brevi, affidati alla metafora. "Il 25 ottobre 1990 Carlo Alfano è morto" potrebbe andare benissimo per descrivere un problema, anzi "il problema", comune tanto a Napoli che a Roma. La società della comunicazione, dell’immateriale, del virtuale nella quale viviamo è anche il prodotto della nuova capacità di guardare il mondo creata dall’arte contemporanea. Dalla pluralità, contradditorietà, irriducibilità al "modello unico" che tante avventure politiche del Novecento hanno invece perseguito, dell’arte contemporanea. Paradossalmente però, anziché assistere ad una straordinaria fioritura di linguaggi artistici assistiamo piuttosto all’omologazione dei gusti, dei comportamenti e dei linguaggi. È come se la dittatura della maggioranza, resa visibile dalle masse in parata dei regimi totalitari degli Anni Trenta, si fosse realizzata come massa invisibile ma misurata dall’Auditel davanti allo schermo televisivo. Il politically correct si estende ai comportamenti culturali. E, anche se non siamo sotto la volta del Kuppelberg di Albert Speer, il secolo della modernità sembra concludersi nella negazione dei suoi stessi presupposti e nel ritorno al passato. E tuttavia sbaglieremmo a giudicare moralisticamente la nostra contemporaneità. Proprio questo è il punto, anzi il terreno di scontro, la contemporaneità. Sappiamo vederla non come un muro compatto e senza crepe contro il quale piangere, ma come un’onda, una grande onda che può travolgere, ma l’agile surfista sa cavalcare. La compatta certezza che sembra omologare potere politico e potere dell’informazione ci viene comunicata come tale ma tale non è. Gli "occhiali meravigliosi, occhiali che fanno vedere la vita in bellezza" dello sguardo dell’artista possono dissolverla, come l’artista infrange il carico del "cattivo vetraio", nel celebre poemetto in prosa di Baudelaire.

A patto che all’artista venga data la possibilità di comunicare la propria contemporaneità, con mezzi appropriati e non solo attraverso altri media; che gli venga consentito di saggiare la propria "politicità", nel senso etimologico del termine; derivato com’è da "polis", città. Come si propongono gli organizzatori di questa mostra; e come si propongono altri importanti progetti maturati nel corso di questi tre anni, come il "terminale Marianella", che si propone di dare vita ad una moderna colonia internazionale di artisti nella periferia Nord di Napoli. Al suggerimento conformista di chi si propone di organizzare unicamente eventi già in partenza destinati al successo, magari celebrando le avanguardie ma dell’inizio del secolo che si sta concludendo, bisogna sapere opporre il valore della contemporaneità. È dall’esperienza contemporanea che possiamo comprendere, fare nostra, non semplicemente contemplarla passivamente, la storia; e non viceversa. Così, al Palazzo delle Esposizioni di Roma; così alla Casina Pompeiana. Dire contemporaneità, modernità - insisto - non vuol dire escludere la storia, ma saperla interrogare, saperla saggiare come qualcosa che è strettamente legata al nostro presente. Che la Casina Pompeiana ritorni, dopo tanti anni, alle funzioni di promozione dell’arte contemporanea che chi la costruì le voleva affidare è molto importante, quasi essenziale. Ed è confortante sapere che questa mostra viene vista, dal comitato che l’ha promossa, come la prima di una rassegna, di un work in progress, che agisce proprio su questo terreno.

Nel momento in cui il Guggenheim Museum di Frank Gehry a Bilbao, o il Getty Center di Richard Meier a Los Angeles vengono completati con costi superiori al milione di dollari, bisogna però essere consapevoli che non bastano timidi ed incerti segnali per poter competere in Europa e nel mondo su questo terreno essenziale del conflitto e della lotta per l’egemonia del mondo globalizzato. Già Adolf Loos scriveva che, alla fine del Novecento, ci sarebbe stata nel mondo una sola cultura. Resta da vedere se questa unificazione culturale si compirà nel segno della morte della differenza, dunque nella possibilità di evolversi, dunque della stessa cultura; od in altre maniere più auspicabili. Se l’Italia vuole davvero valorizzare il proprio patrimonio artistico, riqualificare le proprie città in via di deindustrializzazione (come Milano, Torino e Genova, ex triangolo industriale) o mai propriamente industrializzate come città d’arte, cultura, turismo, produttrici di beni immateriali e di innovazioni linguistiche: occorrono investimenti sensibilmente maggiori. parlo in primo luogo degli investimenti pubblici. Investimenti, non sprechi: capaci di dare vita ad istituzioni culturali, autonome, non subordinate ai mutamenti politici. E parlo anche di investimenti privati; che vedo tanto più possibili quanto più sarà lo Stato nelle sue diverse articolazioni (Governo, Regioni, Comuni, Province) a dimostrare di credere davvero in questa strada. Un’industria culturale non si crea facilmente; se è suo nemico per definizione lo Stato sprecone, che spreca e non investe, che crea oligarchie protette di artisti di regime; è altrettanto suo nemico lo Stato assenteista che non capisce il valore fondamentale dell’arte e della comunicazione, cioè della contemporaneità, in un mondo che rischia di vedere cancellate, con le differenze, anche le identità, e dunque il senso.

Penso che sia giusto dire che ci si attende molto; che si attende una vera svolta nella nostra politica culturale, che non può limitarsi al buon governo, a nuove e più giuste leggi, e neanche ad atti esemplari. Napoli ha dimostrato in questi anni - penso alle installazioni prima di Paladino e poi di Kounellis in piazza Plebiscito - di avere il coraggio di sperimentare strade nuove e coraggiose. E tuttavia la collezione Terrae Motus non ha ancora trovato una sua sede a Napoli. Lucio Amelio come Carlo Alfano? E tuttavia anche a Napoli la crisi del mercato artistico si incrudisce e rende evidente la necessità di un intervento pubblico agile e leggero che sappia liberare energie e renderle autonome ed autosufficenti. In questa direzione può andare una gestione coraggiosa della ritrovata Casina Pompeiana. E può andare soprattutto la futura Kunsthalle di Palazzo Roccella. Uno spazio vuoto nella centrale via dei Mille, che può alimentarsi alle Fondazioni napoletane esistenti (Amelio, Rumma, Morra, gli Incontri Internazionali d’Arte), per produrre mostre da mandare nel mondo in cambio di mostre da ospitare nelle sue stanze. In una possibile rete di rapporti con le altre istituzioni attive per l’arte contemporanea. E forse non solo italiane. Se la Kunsthalle dovrà essere gestita da una forma pubblico-privata, magari una Fondazione, bisogna sperimentarla prima del termine dei lavori - prevista alla vigilia del 2000. Sperimentarla nella gestione della Casina, ma non solo, Napoli dovrebbe essere scossa come da una febbre d’arte. Perché solo a Natale e solo a piazza Plebiscito? A Los Angeles, in attesa del Museum of Contemporary Art, hanno riusato un grande padiglione industriale come Temporary Contemporary. E Napoli è ricca da padiglioni industriali; come ben sa Lia Rumma che ne ha utilizzato uno per la mostra permanente " Le costanti dell’arte". Ma, come sa sempre bene Lia Rumma, per gestire questo patrimonio occorrono risorse. Non solo custodi ma disponibilità finanziarie, possibilità di comunicazione, una strategia.

Solo con un assalto contemporaneo su tutti i fronti è possibile vincere questa partita. Solo in questo modo è possibile rimettere la contemporaneità, la creatività, l’innovazione linguistica al posto centrale che le compete nella nostra cultura. Questa è la partita che si sta giocando a Napoli. Mi piacerebbe che il Palazzo delle Esposizioni di Roma fosse il palazzo delle "cento città" d’Italia. Solo in questo modo assolverebbe alla funzione per cui fu progettato nel 1880 (e che non è mai riuscito ad assolvere). Ma in questo modo potrei continuare, anche nella mia nuova funzione istituzionale, a giocare un qualche ruolo in questa partita, aperta, appassionante e difficile, a cui sicuramente non mi riuscirà più di sentirmi estraneo.

 

 

Renato Nicolini