Copertina di MAX















In un mondo in cui
è il più forte a dettare legge
sono i deboli che alla fine la scrivono


Nell’anno del Signore 998.
Una notte fredda e tempestosa accolse il re di ritorno al suo castello da un lungo viaggio in terra d’occidente. Arnoldo Raffaello Giuseppe Malnato di Terranova il suo nome, re di Castelbruciato, Signore delle terre di Vigogna e Pratorosso che dalle pendici del monte Nerissimo scendevano a valle fino alle gole del Vento Urlante. La carrozza in cui viaggiò divenne una tinozza colma d’acqua e i suoi cavalli nitrirono arrabbiati pensando “ma si può scegliere un giorno più iellato per rientrare a casa?”. Sembrò il rumore di sei locomotive a vapore che entrano insieme nella stazione e frenano all’unisono, quello che fecero i sei cavalli del re quando, aperto il primo portone, abbassato il ponte levatoio, aperto il secondo portone, entrarono nel cortile del maniero e puntarono i loro zoccoli. Ma re Arnoldo era ancor più adirato dei suoi cavalli e come poteva non esserlo? Aveva percorso miglia e miglia, attraversato montagne e valli, passato giorni e notti in viaggio per raggiungere suo cugino Romualdo re di Pietrascura. Andò per proporre una nuova alleanza militare contro il comune nemico principe Federico e si sentì chiedere del denaro per pagare debiti di gioco. Ma ci pensate? Era il sangue del suo sangue, la carne della sua carne a batter cassa, proprio a lui che aveva lavorato una vita intera, e senza dare garanzie né interessi. Chissà se e quando avrebbe rivisto i suoi soldi. Per concludere in bellezza questa uscita ci si era messa pure la pioggia, come se il mare fosse stato messo al posto del cielo e qualcuno avesse detto loro di rimettersi posto. Tutta la servitù era inquadrata nel cortile per accogliere il re. I cortigiani giustamente, dato il tempo, rimasero nei loro villotti sparsi nelle campagne circostanti. Il maggiordomo Gasparro gli andò incontro con una coperta di lana per ripararlo dalle ultime gocce di pioggia che parevano gavettoni. “Hai fatto preparare il bagno, Gasparro?” tuonò il signore.
“Certo mio re,” rispose il maggiordomo come un lampo, “è già pronto.”
Neanche un saluto né uno sguardo verso i suoi servitori e il re era già seduto in una vasca calda e profumata, sistemata vicino al camino nella sala grande, mentre Gasparro gli massaggiava la schiena. Non doveva essere proprio una bella persona il nostro re Arnoldo, fumante un antenato di pipa: capelli lunghi, barba incolta, occhi piccoli e mascella sfuggente, un naso grosso e le sopracciglia che sembravano due archetti in perfetto stile neoclassico con colonnine laterali. Di media statura, aveva cinquant’anni di cui quarantanove passati in guerra, comprese le notti mentre dormiva. Aveva certo costruito ma i villani e i contadini del luogo non ne erano molto orgogliosi visto che toccava pagare proprio a loro. Il momento della riscossa era però in arrivo, ne erano sicuri. Tutti sapevano che con la fine del millennio sarebbero cessati fame, malattie e sofferenze. Erano quasi felici per questo. Il giorno del giudizio universale si avvicinava. “Trovo che sia indegno che mio cugino non collabori per la giusta causa. Conquistare le terre del principe Federico, quel vile e codardo figlio di re, sarebbe un gioco da bambini,” sbraitò re Arnoldo. “Calmatevi mio sire” disse Gasparro, grattando via le croste dalla schiena del nobile signore. “Perché non pensate a un successore piuttosto che preoccuparvi solo di allargare i vostri domini ?” “Smetti di tormentarmi Gasparro!” trasecolò il re. “Ho ben altro a cui pensare, e poi... non ho ancora trovato la mia anima gemella.”
“Potete sempre cominciare a cercarla,” rispose il maggiordomo.
“Non mi tediare oltre. Dio vede e provvede. Ora asciugami sono stanco di stare a mollo.”
Gasparro scosse leggermente la testa in segno di disapprovazione. Era un uomo basso, dal fisico asciutto. Di poco più vecchio del re, con lui praticamente era cresciuto. Risaltava sul viso il naso aquilino, gli occhi incavati e una cicatrice sul sopracciglio destro. Non era il ricordo di una battuta di caccia o di uno scontro corpo a corpo. Era la testimonianza di un segreto che condivideva col re, sebbene questi neanche lo sapesse.

Gli ultimi giorni di agosto portarono via il caldo e l’afa delle lunghe estati di Pratorosso. Il buon contadino Flauco, giovane forte e fiero, trascorreva il suo tempo dietro le cose che più amava: le belle ragazze delle sua contea e il vigneto. Almeno ciò che la madre riuscì a piantare e salvare da un incendio in cui, qualche anno addietro, perse tragicamente la vita. Flauco viveva solo, in una casetta ai piedi del monte Nerissimo, circondato da pochi amici, poveri come lui ma che tanto affetto sapevano dargli, sebbene incolmabile fosse il vuoto prodotto dalla perdita prematura della madre. Ma tant’è che da quel funesto anno ogni estate il vigneto prese fuoco. Pochi avanzarono l’ipotesi di un fenomeno che secoli dopo venne chiamato autocombustione. Molti pensarono a un incendio doloso reiterato, ma chi voleva male al mite nonché coraggioso Flauco? Triste storia la sua. Non conobbe mai il padre. La madre Mariandra giovanissima si innamorò di un cavaliere di cui non seppe mai il nome, che la amò ma poi sparì nel nulla. Mariandra si arrabattò tutta la vita per non far mancare l’indispensabile al figlio. Quando Flauco fu grande, ella decise di prendere in affitto un pezzo di terra dal signorotto locale, uomo di corte di re Arnoldo. Inutile dire che già a quei tempi le tasse erano da strozzinaggio ma bene o male i due tirarono avanti. Un giorno Mariandra si fece mandare dei semi di uva rossa del Sud, dove viveva la sua cara sorella. Era l’uva migliore che esistesse. Mamma Mariandra pensò che producendo dell’ottimo vino avrebbe potuto fare scambi più favorevoli al mercato e garantire una vita migliore a suo figlio. Che tragedia la notte prima della vendemmia. Sembrò che un immenso ascensore avesse portato in superficie l’inferno, per quanto fuoco e fumo si propagassero tutto dintorno. Non si salvò neanche un grappolo. Non si salvò neanche Mariandra. Fu allora che Flauco giurò a se stesso che quella terra, la sua terra, avrebbe un giorno prodotto il miglior vino che mai quel regno avesse conosciuto. Vita grama quella di un contadino, fatta di fame e di stenti. Ma Flauco andò avanti. Lavorò nei campi dall’alba al tramonto. Minuziosamente sistemò ogni palo, e tra l’uno e l’altro palo ogni filo su cui far crescere i tralci. Fu instancabile e mai si perse d’animo, perché amò la vita sebbene qualche dubbio vi fosse che la vita amasse lui. Ma no, non v’era incertezza. La natura, di certo incontaminata, rappresentò la sua fonte di energia, con i suoi ritmi e i cicli millenari che portavano ogni volta la stessa carica e lo stesso perfetto amore. Certo, Flauco preferiva l’estate e ancor più la primavera, ma nessuno poteva biasimarlo o rimproverarlo per quei cali d’umore nei mesi freddi. Eppure per quanto forte fosse il suo impegno, ogni estate come una maledizione il suo campo prendeva fuoco. Riusciva solo a raggranellare qualche soldo da quella poca uva che si salvava. Ma lui ancora lì, testardo a ripiantare uva. Quanta passione, quanta dedizione ogni volta e come era bello veder salire i rami, spuntare le prime foglie, i primi acini ancora verdi. E poi che buon profumo per tutta la campagna ogni estate. Quell’anno Flauco decise di scoprire esecutori e mandanti dell’incendio, perché oramai era sicuro per lui che non si trattava di coincidenze: una volta o due può capitare, ma sette incendi consecutivi tutti nell’ultima settimana di agosto era un po' troppo per pensare al caso, e Flauco non era tipo da credere alla superstizione dilagante nel suo evo. Ancora non sapeva come, ma Flauco avrebbe scoperto tutto.

Fu al tramonto che al villaggio uno straniero arrivò, Fabrianus era il suo nome. Giovane uomo dal volto scavato, alto, magro, occhi chiari e uno sguardo pulito. Veniva da molto lontano ma dopo tutto cosa conta la distanza? E aveva l’aria di chi è sempre in viaggio. Infatti non si fermò alla locanda del paese, proseguì ancora un po' fuori dal centro abitato fino al bivio: a destra c’era una distesa di patate, pannocchie e ortofrutti assortiti, continuando dritto la strada poi piegava leggermente a sinistra e lì nella curva c’era una piccola piantagione che colpì il forestiero perché quello che vi cresceva era molto diverso dalle colture tutto intorno. Si avvicinò al campo, ove c’era una catapecchia in pietra e legno sistemata alla bene e meglio. Svoltato l’angolo gli si presentò una scena piuttosto singolare che non lo fece indietreggiare, anzi ne fu ancor più incuriosito. Quello che vide sulla sedia appoggiata al muro della casa era Flauco, assopito, mentre prendeva gli ultimi raggi di un sole rosso e generoso. Chissà quale viaggio stava facendo: magari era su un prato in compagnia di una dolce ragazza, del vino e qualche buon amico a ridere e scherzare senza pensieri, come da bambini. Poco distante dalla casa Fabrianus realizzò finalmente che quella piantagione era proprio un vigneto, del tutto inconsueto in quel paesaggio brullo e monotono, e ancor più insolito vedere un contadino in panciolle davanti al suo campo. Fabrianus non fece rumore, Flauco aprì gli occhi lentamente, si voltò verso lo straniero, ci fu uno scambio di sguardi.
“Ma noi ci siamo già conosciuti” disse Flauco senza indugio.
“Possibile, anzi probabile,” fece Fabrianus “per chi viaggia molto...”
“Posso fare qualcosa per te?"
“No, grazie, ma non credo per ora. Chissà, forse potrei fare io qualcosa per te...”
“Prenditi pure una sedia” disse Flauco con un sorriso.
I due, dopo breve presentazione, cominciarono e conoscersi. Flauco raccontò la sua storia, che chi legge già sa, mentre Fabrianus descrisse molti posti, volti e storie in cui si era imbattuto. Passarono le ore, cenarono insieme. Il vino scorreva nelle loro vene. Poco ma buono. Così Flauco prese a raccontare le storie più strane perché questa era la terza cosa che amava dopo le donne e il vigneto. Aveva un modo tutto suo di fantasticare. Bastava un particolare, un oggetto, un fatto e su quello costruiva. Ad un tratto notò Fabrianus osservare una lampada a olio sul davanzale della finestra. Era molto bella nonostante l'alabastro che ripara la fiamma fosse rotto, e sembrava diversa dal resto dell’arredamento, così spoglio e necessariamente misero per un contadino, ma era da sempre stata lì. La fantasia di Flauco fu provocata. Narrò di confraternite cristiane, di canti sacri e riti segreti dentro catacombe illuminate flebilmente da lumi come quello. Ma la singolarità di quella storia, come di tutte le altre recitate, era che finì bene anche se in effetti non finì... Al termine della serata Flauco tornò a parlare della realtà, degli incendi al vigneto e della sua ferma intenzione di scoprirne la causa.
“Sono certo che riuscirai nella tua impresa,” disse Fabrianus alzandosi “chiunque, se si impegna, raggiunge i risultati desiderati.”
“Ne sono convinto anch’io,” rispose Flauco, e dopo breve pausa, “puoi stare a dormire qui per il tempo che vuoi.”
Andarono a dormire. Prima che il sonno li portasse in altri mondi Flauco pensò a quello che la madre gli ripeteva sempre: per quanto puoi non percorrere la tua strada da solo, noi abbiamo risposte per gli altri e gli altri ne hanno per noi, rendi divertente il tuo cammino in compagnia e mai proverai stanchezza. Fabrianus prima di addormentarsi pensò alla cena, decisamente saporita quella minestra di fagioli.

Quella stessa sera, al castello di Terranova, re Arnoldo parlava con ben altra persona per ben altre questioni. Non si era ancora tolto dalla testa le terre del principe Federico, aveva da sbrigare un impegno delicato per fine mese e in più gli erano uscite strane bolle sul collo. Decise allora di interpellare l’oracolo. Chi meglio di mago Merluzzo poteva sciogliere i nodi e dipanare la matassa? Il mago viveva in un attichetto in cima alla torre più alta della fortezza. Inutile descriverlo, i maghi son tutti uguali. Fu lì che i due parlarono: re Arnoldo espose i suoi problemi come si fa dall’analista mentre mago Merluzzo preparava uno strano miscuglio dentro al paiolo sul fuoco. Quando il re finì di parlare e la brodaglia andò in ebollizione, lo stregone prese una sfera d’acciaio, della grandezza di un pompelmo appesa ad una corda sottile. La fece roteare sopra al pentolone. Dalle figure e i colori che si formarono sulla palla argentea per condensa del vapore, mago Merluzzo fu in grado di dare questo responso: Si tributa crisci, qui nova bella expendere,
cives disciscitur.
Si terra rubra urere temptis, deprehensus futuri es,
nec faucis sanare habitur.
Qui multum proximus tuo, quo multum remotus tibi est
arcanus patefacturus.
Et in finali qui falsum dixit, ululatus de la forcula,
sic acutus afflatu, librare fora te facturus.
Piuttosto ermetico il mago con le profezie in latinus maccheronicus. Il re non poté capire molto, ma fece ugualmente il suo sguardo da cane S.Bernardo ringhiante, come per dire: ora so esattamente ciò che devo fare.

Il mattino seguente Fabrianus raccontò al contadino di aver avuto una strana visione (complici i fagioli?) Sognò di essere in mezzo alla savana e di avere molta sete. Ad un tratto si imbattè nelle ombre di una zebra e vicino ad ogni impronta notò che la terra era umida di acqua. Potè così dedurre due cose: primo, la zebra aveva fatto il bagno; secondo, la fonte non doveva essere tanto lontana. Quindi seguì a ritroso i segni lasciati dall’animale, in breve trovò la fonte d’acqua e potè finalmente dissetarsi. Nel mentre Flauco pensava e ripensava a questa storia stramba, gli si illuminarono occhi e cervello. Eureka! Lampo di genio! Aveva una pista da seguire per le sue indagini. Si vestì e andò al villaggio lasciando l’ospite su due piedi. Entrò direttamente nel negozio del venditore di pece, ne doveva comprare un po' per preparare i tini prima della vendemmia. Quindi, senza apparente interesse, per non destare sospetto, chiese al negoziante dove trovasse tanta pece, chi gliela forniva. Il ragionamento di Flauco era molto semplice: per scoprire il piromane bisognava risalire a chi gli procurava il materiale, la pece appunto, con cui riusciva ad appiccare l’incendio nella vigna con tanta rapidità. Il negoziante, appassionato del suo lavoro, cominciò un pistolotto sull’intero ciclo produttivo del ramo pece:
“Aldilà del fiume, quasi sul confine, c’erano delle grotte. Un tale estraeva notte e giorno da queste una fanghiglia scura. Metteva la melma dentro grossi contenitori di rame e faceva cuocere. Raggiunta la temperatura di ebollizione...” In quel mentre il venditore fu interrotto da squilli di trombe e rullo di tamburi: era il portavoce del re, sceso in paese per leggere l’ultimo editto. La gente si radunò tutta intorno. La voce era lontana e poco chiara. Flauco uscì dal negozio, si avvicinò ma la lettura era già finita. Sentì solo qualcuno commentare: “Ci risiamo, un altro aumento delle tasse, solo per fare una nuova guerra”.
Questa volta i terranovesi non l’avrebbero presa tanto bene.
Flauco passò il resto della giornata a sistemare tini, tinozze e botti per il vino, aiutato da Fabrianus. Smise nel tardo pomeriggio. Uscì di nuovo. Da dietro la chiesa del paese imboccò una stradina che portava al bosco. Proseguendo per un sentiero scosceso Flauco arrivò al fiume. La vegetazione si faceva sempre più abbondante e la luce dell’imbrunire meno penetrante. Attraversò il ponticello, continuò diritto fin quasi alle gole che segnavano il confine del regno. Finalmente arrivò alle grotte pecione (ovvero della pece) che era quasi buio. Fece per avvicinarsi quando sentì delle voci accompagnate da rumori. Flauco non riuscì a distinguere parole o volti ma non gli fu difficile capire che si stava contrattando per un grosso quantitativo di pece. A fianco ai due uomini, di cui a malapena si distinguevano i contorni, c’erano tre grossi barili di finissimo liquido nero pronto all’uso. Alla fine uno dei due uomini caricò i tre barili sul carro, ricevette una saccoccia tintinnante, salutò con reverenza, poi rientrò nella caverna. L’altro salì sul carro e partì. Flauco non ebbe dubbi: quello era il suo uomo. Lo seguì per un tratto. Poi in una curva, nel momento più propenso, saltò sul carro con movenze da felino. L’uomo alla guida del carro neanche se ne accorse e proseguì la sua salita verso il paese. Quando il mezzo entrò nel tratto a strapiombo sulla valle, Flauco capì che era arrivato il momento di gettare i barili. Così fu. La missione era compiuta, il pericolo di incendio scampato. Ma prima di sgattaiolare via Flauco voleva scoprire chi fosse il suo nemico. Si coprì il volto con la bandana, che già esisteva, per non rivelarsi, strattonò la spalla dello sconosciuto e sorpresa! Flauco si vide di fronte il re in persona. Rammarico e tristezza lo colpirono in quel momento ma grande fu la gioia nel raccontare a Fabrianus l’avventura. Restava da capire perché il re voleva il suo male. “Cosa ti fa pensare che quella pece sarebbe servita per bruciare la tua vigna?” chiese Fabrianus.
“Nulla. Ci sono delle cose sulle quali non occorre riflettere, ma bisogna soltanto agire di istinto,” fu la risposta calma e lapidaria di Flauco.


Enorme fu la stizza del re quando tornò al castello col carro vuoto come alla partenza. Alterato come non mai sfogò la sua rabbia col fido Gasparro che soltanto alla fine, serafico, domandò: “Cosa volevate fare, mio signore, con tutta quella pece?”
Non ebbe risposta, in compenso ricevette un cazziatone di venti minuti, il re doveva pure scaricare in qualche modo, e alla fine lo schiaffò in cella con tre giorni di consegna per divisa in disordine. I giorni che seguirono non furono dei migliori. I cittadini di Tarranova organizzarono manifestazioni e scioperi per protestare contro l’ingiusto aggravio fiscale. La salute del re andava deteriorandosi, con tutte quelle bolle che aumentarono e si gonfiarono ad ogni incazzatura. Bruciavano e gli rendevano difficile la respirazione. Diventò una specie di rospone gigante pieno di pustole e croste. Quando parlava gracchiava e dopo mangiato rimetteva.

Arrivò finalmente il giorno della vendemmia. Fu un raccolto davvero ottimo e abbondante. Con tutta quella cenere che fece da concime per tanti anni, il contadino fu ben ripagato. Molti in paese aiutarono Flauco nella raccolta dell’uva. Bisognava tagliare con cura i grappoli. Raccoglierli nei tini dove venivano pestati con i piedi per ottenere il mosto. Lasciato decantare per venti giorni circa, facendo attenzione a non respirare i gas prodotti, si filtrava il liquido ottenuto che stagionava per almeno due mesi dentro botti di legno di noce, evitando la formazione di bolle d’aria. Quanta allegria e quanta festa accompagnò l’evento, di certo sorprendente, in quella terra così povera e piena di tensioni. Il re, stranamente, non fece sentire la sua presenza, del resto come poteva? Rimase a letto per settimane, perché il riposo è la cura migliore disse il medico. Quando si ristabilì un po' i giochi erano fatti e non gli rimase che fare una cosa.

Mago Merluzzo stava preparandosi un brodino vegetale quando irruppe nella stanza re Arnoldo. Tanto per cambiare era teso, tesissimo. Impallidito, itterico, dimagrito come non mai. “Si può sapere cosa diavolo è successo?! Possibile che bastano poche settimane di mia assenza e questo regno va in rovina?!” Tanta fu l’ira in quell’urlo che gli spuntò un bernoccolo di proporzioni eccezionali in piena fronte, da lì schizzò del pus che nel toccare il pavimento fece un buco largo una palla da biliardo. “Calmatevi mio sire,” rispose con voce lenta il mago “qual è esattamente la causa del contendere?” (cioè dov’è il problema?)
“Quale calma e calma!” rincarò Arnoldo “sono io che chiedo cosa sta succedendo là fuori: ci sono rimostranti sotto al castello da giorni con cartelli come: ‘ferma la guerra’, ‘no al rincaro delle tasse’, oppure ‘ravvediti re Lello-peppe’. Voglio capire! Voglio sapere cosa diceva la profezia di tre mesi fa!” gridò d’un sol fiato il sovrano che divenne rosso paonazzo, gli spuntarono altri due bozzi dietro le orecchie che sembravano quelle del principe Carlo d’Inghilterra da giovane, poi si sedette su di una cassapanca, sfinito. Mago Merluzzo versò un po' di brodo nella scodella per controllare come fosse di sale. Fece una lunga pausa, mentre il re riprendeva fiato.
“C’è un malcontento generale nel paese,” disse paziente “mitigato solo dall’impresa del contadino Flauco. Egli è riuscito a portare a termine il suo lavoro, tra breve il vino che ha prodotto sarà pronto. Questo per loro è un segno di speranza e motivo di coesione”. “Già, il contadino Flauco, con la sua vigna,” disse sarcastico Arnoldo, “ma ride bene chi ride ultimo!”
“Quanto al significato della profezia,” proseguì il mago, “è presto detto: si tributu crisci/ qui nova bella expandere/ cives disciscitur significa: se aumenti le tasse per finanziare una nuova guerra il popolo si ribellerà. “Non è la prima e nemmeno l’ultima, e poi questa è per una giusta causa, non rompessero,” commentò re Arnoldo.
“Si terra rubra urere temptis,” continuò il mago, “deprehensus futuri es/ nec faucis sanare habitur vuol dire: se tenti di bruciare la terra rossa, scoperto sarai e la gola guarire non potrai.” “Cosa vorresti dire con questo?” replicò il re alzandosi in piedi e accendendosi come una lampadina. “Mi stai forse incolpando di qualcosa che non è neppure accaduta? O forse mi accusi per degli incendi passati?! E poi da quando il vino guarisce le malattie? In ogni caso non fui io a bruciare la vigna di quel contadino! Ciò che hai detto è molto grave, quando avrò tempo farò i conti con te!” voltò le spalle e andò verso l’uscio. “Il vino allenta le tensioni e lenisce il dolore,” stava pacatamente spiegando mago Merluzzo, ma oramai il re era uscito sbattendo la porta.
Non finì neanche di ascoltare il resto della profezia che suonava pressappoco così: chi ti è molto vicino svelerà il segreto a chi ti è molto lontano; chi infine mentirà l’urlo della gola, come un forte vento, volare via farà.

Mattino seguente, centro del villaggio, squillo di tromba e rullo di tamburo prima della lettura in pubblico del nuovo editto:

“Il Re Arnoldo Raffaello Giuseppe di Terranova
del regno di Castelbruciato, Signore di Vigogna e Pratorosso

PROMULGA
che ogni sostanza alcolica, birra vino e affini, siano posti fuori legge.
Chiunque verrà trovato in possesso di tali bevande sarà punito con la detenzione da dieci giorni a tre mesi nelle galere reali e sarà tenuto a pagare un’ammenda da 5 a 35 monete d’oro. Non ci sono eccezioni per sesso, età o dose minima.”

“Questo è davvero troppo!” gridò qualcuno della folla.
“È la goccia che fa traboccare il vaso!” disse qualcun altro.
Il popolo questa volta era decisamente pronto a ribellarsi. Si formarono capanni di gente che discuteva sul da farsi: “Impicchiamolo!”, “Bruciamogli il castello!” le prime proposte. Formarono cortei, fecero sit-in e scioperi della fame per giorni. Era da parecchio che non si vedeva una reazione così unanime tra i cittadini di Terranova. Ai primi cartelli contro le tasse se ne aggiunsero altri del tipo: “Legalizzate il vino!”, “Vino libero”. Sana politica dal basso per un insano regno dall’alto. Re Arnoldo fece approntare il suo esercito. Si prevedevano scontri per sedare la rivolta. Mandò perfino un corriere da suo cugino Romualdo, per chiedere rinforzi.

In una di quelle sere di malessere esasperato, Flauco ricevette una visita inaspettata. Era Gasparro il maggiordomo del re.
“Cosa ci fai tu qui?” chiese il contadino appena l’ebbe di fronte.
“Ti devo parlare,” rispose Gasparro, “mi fai entrare?”
I due si sedettero.
“Che hai da dirmi?” disse Flauco freddamente.
“Sono molto preoccupato per la situazione.”
“Era di questo che volevi parlarmi?” ora Flauco era anche un po' duro.
“Capisco che tu possa avere dei sospetti su di me. Pensi che mi abbia mandato il re. Ma non è così. Voglio prima ricordarti che la mia famiglia lavora al castello nella servitù da quattro generazioni e anch’io devo pur mangiare. Ma Gasparro sa cosa è giusto e cosa è sbagliato. Il motivo della visita è presto detto: è necessario che tu sappia ciò che io già so. Una sera di qualche mese fa, il re tornò al castello adirato perché qualcuno, lungo il tragitto, aveva sottratto lui tre barili di pece. Quando chiesi a cosa sarebbero serviti, il re non rispose, ma oramai ho la certezza che sia stato lui ad incendiare il tuo campo. Negli anni passati infatti, sempre sul finire di agosto, l’ho visto tornare con lo stesso carico e qualche notte dopo la vigna andava a fuoco. Troppe coincidenze per credere alla sua innocenza”. Flauco ascoltò tutto con estrema attenzione. Fece una lunga pausa prima di parlare.
“La persona che ha gettato via i barili dal carro ero io”.
“Lo immaginavo, e mi fa piacere che tu melo abbia detto,” rispose Gasparro. “C’è un’altra cosa che ti devo dire,” fece una breve pausa, “re Arnoldo... è tuo padre!” “Non ci credo” ribattè subito Flauco, come per dire: lascia queste trovate alla sceneggiata napoletana.
“Invece devi credermi. Vedi questa cicatrice,” indicò il suo sopracciglio destro, “è ciò che resta di quella sera di 27 anni fa. Fui mandato dalla regina madre di Arnoldo a cercare il principe nel bosco. Quando fui lì, sentii dei rumori, mi avvicinai e vidi. Vidi tua madre, giovane e bellissima, amoreggiare col principe Arnoldo. Ma scivolai su una pietra e caddi procurandomi questa cicatrice. I due avvertirono la mia presenza. Si rivestirono in fretta. Furono attimi concitati. Cominciarono a correre. Dalle mani del principe la lampada scivolò, ma egli non arrestò la sua corsa verso il castello. Tua madre raccolse quel lume e se ne tornò a casa. Qualcosa si era rotto. Dopo nove mesi nascesti tu.” “Non posso crederti, lo capisci. Puoi aver fatto quella cicatrice ovunque e in qualsiasi momento.”
(Giustamente Flauco si appellava all’insufficienza di prove).
“Perché dovrei mentirti?”
“E perché non dovresti farlo?”
“Tua madre sapeva che quel prode e superbo cavaliere apparteneva a un mondo diverso dal suo e, anche se c’era vero amore, questo si spense presto. Mai una semplice popolana e un guerriero di sangue blu si sarebbero potuti sposare. Svelare il segreto di questa paternità non avrebbe giovato a nessuno e così tua madre lo ha portato con se nella tomba.” Gasparro fece una lunga pausa, poi tirò qualcosa fuori dalla tasca.
“Questo è il frammento di alabastro che manca a quella lampada sul davanzale.”
Flauco lentamente si alzò. Afferrò l’ormai nota lampada a olio dal davanzale. La appoggiò sul tavolo. Si risedette, poi prese quel frammento: i suoi contorni combaciavano perfettamente col foro. Il giovane contadino rimase in silenzio per un po', ma per lui sembrò un’eternità. Era intontito, estasiato, confuso. Aveva mille pensieri in testa. passarono iminuti, e Gasparro rimase immobile. “Perché hai deciso di dirmelo? E perché proprio oggi?” riuscì a chiedere il contadino.
“Ho pensato che nel bene o nel male fosse giusto che tu sapessi la verità. Viviamo un periodo difficile e la situazione potrebbe precipitare da un momento all’altro. Ognuno di noi ha il diritto di conoscere le proprie origini.” Lo sguardo di Gasparro era comprensivo e paterno.
“Ora devo andare,” disse infine, “buona fortuna.” Chiuse la porta dietro le sue spalle e sparì nel buio.
Poco dopo anche Flauco uscì, andò nella sua vigna per riflettere.
Dunque il re era suo padre, senza ombra di dubbio. Ma allora perché gli aveva riservato questo trattamento? Flauco non avrebbe mai chiesto nulla. Ne di essere legittimato, ne di andare a vivere al castello, ma perlomeno chiedeva che gli fossero offerte le stesse opportunità degli altri sudditi. Perché, si chiedeva Flauco, il re gli andava contro? Aveva bruciato per ben sette volte la sua vigna. Sembrava quasi non volesse il bene per il proprio figlio, sebbene fosse lontano, che questi non dovesse migliorare. Ma che padre era? Un padre assente nell’affetto come nell’esempio. Che sorta di re toccava alla bella città di Terranova? Un uomo innamorato del denaro e del potere, noncurante dei bisogni e delle aspirazioni del suo popolo. Triste e affranto rientrò in casa e andò a dormire.


Il mattino seguente erano tutti riuniti sotto al castello. Il re faceva avanti e indietro nell’ ampio salone di rappresentanza. Nella sala attigua uno stuolo di vassalli attendeva i suoi ordini. La tensione salì alle stelle. Tutto sembrò per un momento quasi ingovernabile, quando furono aperti i portoni della fortezza. L’esercito di re Arnoldo si trovò di fronte una folla omogenea e compatta di popolani, decisi a scontrarsi con forconi, falci e zappe gli uomini, scope e battipanni le donne e gli anziani. Fu a quel punto che il re scese tra la gente, seguito dai cortigiani e dall’inseparabile Gasparro. Si fece il silenzio.
“Cosa fate qui?! Tornate al vostro lavoro!” disse il re con voce potente.
“A che serve lavorare se ci togliete tutto?” si sentì provenire dalla folla.
“Re Arnoldo ha preso dai suoi sudditi il necessario per rendere più grande questo regno! Per vivere bisogna crescere!” urlò il re come se fosse a un comizio. In quel momento Flauco uscì dalla mischia e si trovò faccia a faccia con Arnoldo. Questi fece prima un sussulto, poi accigliato gli chiese:
“E tu chi sei?”
“Sono Flauco, il contadino della vigna,” disse con voce ferma. “Non vogliamo più che tu ci tolga il pane dalle mani.”
“Da quando un vil marrano del par tuo prende sì confidenza col suo re?!”
“Da quando il re fa lo stesso con lui.”
Il re cominciò ad alterarsi e di nuovo sbucò un pedicellone sulla guancia neanche fosse un ascesso al molare.
“Ma non siamo qui per discutere di buone maniere,” continuò Flauco. “Le nostre richieste sono chiare e semplici: non vogliamo altre guerre, non ci servono confini più larghi. Niente aumento delle tasse e soprattutto niente divieto di consumare vino!” Flauco avrebbe voluto proseguire chiedendo elezioni democratiche, la tripartizione dei poteri, un sistema sanitario e pensionistico efficiente e così via, ma sapeva che ciò era prematuro. Il re cominciò a gonfiarsi e si tinse di uno strano verdastro.
“Ciò che chiedi è semplicemente assurdo!” riuscì a dire ostentando sicurezza.
“Assurdo?!” incalzò Flauco. “È più scorretto difendere i propri diritti o invadere quelli degli altri?”
“Cosa vorresti insinuare?” esibendo ulteriore fermezza, le piaghe di Arnoldo intanto devastavano il collo.
“Non sto insinuando. Eri tu, una notte di fine agosto, a girare con un carro carico di pece per bruciare la mia vigna?”
Si sentì un “oooooohh!!” tipo curva sud da parte di un pubblico che era tutto per Flauco.
“Certo che no!” fu la risposta del nobile capo, esibendo una baldanza ai limiti della credibilità, ma soprattutto mostrando un gonfiore che dal collo invadeva tutto il torace fino alle spalle. Flauco lanciò uno sguardo a Gasparro che lo ricambiò. Ci fu un attimo di pausa, il maggiordomo fece cenno di si con gli occhi. quindi il contadino riprese. “Tu stai mentendo! Io ti ho visto quella sera perché fui io a gettare i barili di pece giù dal carro. Il tuo maggiordomo mi ha dato conferma la notte scorsa ed ora non ho più dubbi: sei stato tu a bruciare il mio campo in tutti questi anni!” Altro “ooooooohh!!” dalla curva sud, mancava solo una ‘ola’. Il re si gonfiò di brutto, braccia e gambe comprese.
“Sebbene già questo sia inspiegabile, la cosa più ignobile e incomprensibile è che lo hai fatto a tuo figlio, per quanto tale tu mi possa considerare!” La platea fece un silenzio da attimo prima del rigore. “E va bene!!” urlò il re. “Ti dirò un paio di cose, piccolo moccioso. Ho bruciato io la tua piantagione perché è un pericolo per l’intero regno. Non posso e non voglio mettere a rischio ciò che ho creato fino ad ora. Prova tu a combattere contro invasori e assassini. Ciò che ho fatto è per il bene dei miei sudditi!” Sembrò sgonfiarsi e rigonfiarsi come un mantice, dando fiato a ciò in cui credeva. “Non voglio un popolo di ubriachi e fannulloni, e soprattutto non voglio un figlio che semini disordine dove io ho costruito l’ordine. Che ti serva di lezione...” la voce gli si spezzò in gola. Riuscì solo a sussurrare due parole, trasalendo: “una lezione paterna.” “L’ordine non si costruisce con la violenza,” ribattè il contadino. “L’ordine come la volontà sono dentro di noi. Nessuno desidera il caos.....!”
Ma oramai il re era letteralmente fuori controllo. Si ingrossò come una enorme zampogna. Perse l’equilibrio e cominciò a rotolare giù dalla montagna. Un vento fortissimo si alzò dal nulla e lo trascinò a valle. Gridò, imprecò, chiese aiuto, ma chi poteva dargliene oramai? Fu visto rimbalzare e planare fino alle gole del Vento Urlante da cui, a mo’ di mazzafionda, partì a razzo e scomparve all’orizzonte. La folla applaudì e urlò felice in segno di tributo verso un contadino come loro, che era riuscito ad alzare la voce. Lo presero e lo alzarono come si fa col matador quando esce dall’arena. Qualcuno inneggiò al nuovo re. Flauco potè solo dire che quella sera ci sarebbe stata una grande festa da lui. Erano tutti invitati a bere finalmente l’agoniato vino. Quel momento poco. Da lontano videro arrivare un esercito di fanteria con tanto di nuvolone di polvere al seguito, stile cavalleria rusticana.
A capo era re Romualdo. Inchiodò il suo destriero alle porte del castello facendosi largo tra la gente.
“Che succede qui? Dov’è mio cugino il re Arnoldo?”
Si rifece il silenzio.
“Arrivando ho visto un cumulo di nuvola che si spostava a velocità mai vista, e sentito strani rumori di tuono che da quella provenivano. Qualcuno dunque mi spieghi!” Flauco si fece spazio tra i presenti ritrovandosi davanti al blasonato.
“Era il re... ha dovuto lasciarci.”
“Bene,” rispose re Romualdo. “Non farò altre domande. Vorrà dire che da oggi sarò io il vostro nuovo re, in nome del vincolo di sangue che legava ma a re Arnoldo e in virtù del testamento spirituale che mi ha lasciato.” “Ooooooohh!!” di delusione dalla curva. Non c’era più nulla da fare. Spada canta e chi la possiede vince.
“Tornate a casa!” tuonò il re con voce non nuova ai sudditi. “È tutto finito!”
Già, era tutto finito, sogni e speranze compresi.
In compenso però quella sera ci fu una grande festa a cui parteciparono tutti i villani della contea. Anche Fabrianus venne. Furono finalmente aperte le botti. Il vino sgorgò tutta la notte. Balli e canti, giochi e risate, e nuovi amori nacquero. Ma un piccolo passo fu fatto in avanti: ottennero di essere liberi almeno nella loro intimità, e non era poco.


Flauco tornò a lavorare la sua terra senza più pericolo di incendi. Non smise mai di amare le donne e continuò a raccontare storie per chiunque volesse ascoltarle, convinto com’era che ciò potesse far ridere o almeno sorridere e distrarre o divertire e a volte addirittura pensare. Gasparro continuò a lavorare al castello perché era il miglior maggiordomo che re Romualdo potesse avere.
Di guerre ce ne furono ancora. Il nuovo sovrano non era molto diverso dal suo predecessore.
Fabrianus non so quanto ancora rimase a Villanova, ma aveva trovato nuovi amici.
In quanto al re Arnoldo si ebbero sue notizie diversi anni più tardi: il gonfiore rimase su tutto il corpo e visse come un orso girovagando nei boschi a molte miglia da lì.


Nell’anno del Signore 1998.
Mille anni son passati
da questa strana storia,
e di nuovo ci troviamo
alla fine di un millennio.
Molte cose son cambiate
rimanendo sempre uguali.
Quante storie quindi ancora
si potranno raccontare.
Ma non c’è il due senza un tre,
che il millennio buono...venga da se!


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