L. E.
White, “Belle cucine e pessime città”, Town and Country Planning,
settembre 1951, pp. 396-400 (traduzione di Fabrizio
Bottini)
PremessaUn
testo curioso, che riprende brevemente e in modo "leggero", ma con notevole
competenza e significato storico, uno spunto emerso dalla presentazione
di Armando Martino al tema "Territorio e società nella storia",
oggetto della sua esercitazione.
In
particolare, si tratta di un articolo scritto nel pieno delle polemiche
sul decentramento pianificato di grandi masse di popolazione, nella Gran
Bretagna del secondo dopoguerra, che individua due temi caratteristici
del corso:
a)
l'urbanistica come disciplina sociale, e solo in seconda battuta tecnica
di progettazione spaziale;
b)
la questione del "consenso", ovvero dell'accettazione del piano urbanistico
da parte dei principali destinatari, i cittadini.
Il
ruolo della donna e l'immagine che emerge da questo scritto, ovviamente,
deve essere collocato nell'ambiente dei ceti popolari degli anni Quaranta-Cinquanta,
che sono l'oggetto del saggio.
Fabrizio
Bottini
***
Ora che i piani regolatori
vengono presentati al Ministero per il Governo Locale e l’Urbanistica,
sapremo finalmente se siano ben riposte le speranze di quanti credono che
l’urbanistica possa essere un processo realmente democratico, basato sulla
comprensione e approvazione dei cittadini, oppure se la pianificazione
prenderà una svolta burocratica, con gli esperti a pianificare,
per quanto espertamente, nel vuoto dell’indifferenza e apatia generale.
Molti di noi, a
parole, sostengono l’ideale secondo cui l’urbanistica può essere
democratica: la Conferenza nazionale della Town and Country Planning Association
da tenersi più avanti quest’anno, col suo titolo “Pianificare per
la gente”, è una dichiarazione di questa fede. L’attivazione di
gruppi di pianificazione locali, in collaborazione con il Servizio Sociale
Nazionale è un’altra prova della volontà e del desiderio
di creare una comprensione diffusa dei problemi relativi.
Ma anche quelli
tra noi che sono più impegnati nel legare pianificazione e cittadini,
non sono del tutto certi di come lo si possa fare nel migliore dei modi.
Siamo sin troppo consapevoli delle difficoltà che ci stanno davanti:
l’ostilità di coloro i cui piani privati sono probabilmente destinati
ad essere subordinati all’interesse generale, l’apatia e l’indifferenza
di coloro che pur potrebbero guadagnare enormemente da una buona urbanistica.
C’è da dubitare, se costoro si considerino come vittime di un sistema
di potere lontano, sul quale non hanno controllo. Per la maggior parte
essi sono sublimemente inconsapevoli dell’esistenza di qualunque sistema:
un pensiero che ci riporta alla realtà, se riflettiamo sulle parole
del Rapporto Schuster sulla formazione degli urbanisti: “Il controllo che
le autorità di piano possono esercitare sull’ambiente fisico è,
per quanto fisicamente praticabile, quasi assoluto”.
Anche se i gruppi
di pianificazione locali, sui quali sono appuntate almeno alcune delle
nostre speranze, riuscissero oltre tutte le aspettative, dobbiamo ricordare
che al meglio saranno in grado di influenzare direttamente una piccola
porzione del pubblico. Possiamo, naturalmente, consolarci con la speranza
di attirare una minoranza riflessiva e motivata, che possa avere un’influenza
fuor di proporzione rispetto alla forza numerica.
Possiamo, anche,
chiederci perché abbiamo mancato tanto vistosamente di rendere popolare
l’urbanistica. Qui, posso solo suggerire un ambito importante dove abbiamo
sinora fallito, ma dove potremmo ancora fare notevoli progressi se affrontassimo
la questione nel modo giusto.
Le donne influenzano
l’abitazione ...
L’influenza dell’urbanistica
sul pensiero e l’opinione delle donne, sia come singole nelle proprie case
che collettivamente nelle loro organizzazioni, è stata irrilevante.
È strano, se pensiamo a quanto esse hanno influenzato lo housing,
come entità distinta dal planning. In quest’ultimo campo il maschio
predomina; nelle questioni direttamente legate all’abitazione, visto che
il posto della donna è la casa, la sua influenza è stata
incalcolabile. Mai, le donne hanno manifestato tanto attivo interesse nell’organizzazione
della propria casa, quanto oggi. Le nostre cucine sono la testimonianza
dei comitati che hanno studiato la distanza percorsa a piedi dalla donna
di casa; la loro attrezzatura evidenzia il lavoro di donne che sono state
davanti a lavandini, vasche da bucato, tavoli, fino a farsi venire il mal
di schiena, per scoprire la migliore altezza utile di questi oggetti. Giustamente,
anche, la donna di casa ha deciso che, potendo trascorrere anche qualcosa
come una settimana di quaranta ore nella sua cucina, essa dovesse essere
luminosa, piacevole e aerata, come le fabbriche moderne, e che in più
dovesse essere una “stanza con vista”. Come semplice maschio, a cui capita
non infrequentemente di entrare in cucina come “mano in più”, posso
apprezzare questo miglioramento nelle condizioni di lavoro e la rivoluzione
che le donne hanno compiuto nelle loro case, anche se ho il vago sospetto
che tutto questo possa essere stato in qualche modo accelerato dal fatto
che negli anni recenti i nostri architetti maschi hanno appreso la “pianificazione
domestica” nel modo più difficile: con le maniche rimboccate!
... Ma non l’urbanistica
Ora, proprio questa
preoccupazione per la cucina, e l’accettare che il posto della donna sia
la casa, è in larga parte responsabile per il fallimento nel coinvolgere
vaste e importanti sezioni del pubblico nell’urbanistica. Dobbiamo ricordarci
sempre che le donne costituiscono la maggioranza degli elettori. Questo
ci ha aiutato a produrre la cucina che risparmia fatica, ma ha fatto poco
per eliminare la città che produce fatica.
La verità
di tutto ciò mi è apparsa grazie ad una visita alla Mostra
delle Case Ideali, dove mi sono fatto largo tra la folla, che si accodava
per ore, a vedere una “casa da esposizione”. Esausto per la lotta, ho trovato
infine il rifugio di un piccolo paradiso dove la folla non arrivava e potevo
stare da solo coi miei pensieri. Era il padiglione del Ministero per l’Urbanistica,
dedicato ai piani regolatori! Via dalla pazza folla ho potuto riflettere
sull’ironia della situazione. Tutta questa preoccupazione per un progetto
dettagliato della casa, e a malapena un pensiero dedicato a considerare
in modo più ampio dove quella casa dovrebbe stare in relazione al
lavoro, alla spesa, alla scuola, al tempo libero, e alle altre cose che
vanno a costruire la vita.
Le donne contano
poco in campo urbanistico
Città che
non risparmiano fatica
Le nostre case moderne
sono progettate per la comodità e l’efficienza; lo stesso non si
può certo dire per la somma totale di queste case, che chiamiamo
città. Le donne si sono emancipate dalla schiavitù del fornello:
il tempo risparmiato lo passano in defatiganti viaggi per la spesa, o nell’accompagnare
i bambini a scuole dove sarebbe troppo pericoloso per loro andare da soli.
Quelle che possono scegliere, non degnerebbero di uno sguardo una casa
con una cucina mal progettata; ma non sollevano nemmeno un mormorio di
disapprovazione contro una città che manca di soddisfare i più
elementari bisogni del vivere civile. Le madri non esporrebbero mai volontariamente
i propri figli a pericoli dentro la propria abitazione; ma quante di loro
hanno mai tentato di influenzare la localizzazione delle scuole, per evitare
ai bambini il rischio di attraversare strade di traffico?
Con quanto più
amore guardano alle proprie case, ai propri giardini, tanto meno sembrano
interessate a guardare oltre la cucina, l’abitazione, il giardino, e vedere
come le case sono sistemate riguardo ai servizi essenziali. È giusto
e comprensibile che i pensieri delle donne abbiano al centro le proprie
case; ma è riprovevole che i loro orizzonti non si amplino oltre
questi angusti confini.
I piani si possono
capire
L’urbanista deve
solo incolpare sé stesso se, sapendo come le donne siano interessate
al progetto della casa ma non alla pianificazione della città, non
ha capito che a metà fra le due – e a collegarle l’una all’altra
– sta il quartiere, la più piccola ma forse più importante
entità della nostra urbanistica. È nel quartiere, dove le
cose sono a scala umana e le questioni a scala locale, che l’urbanistica
prende vita per la gente comune. È qui che le donne possono entrare
a pieno titolo nel quadro generale, perché sono loro che passano
tanta parte della vita nel quartiere. Sono loro che devono scortare i bambini
a scuola, e poi andare nella direzione opposta per la loro spesa. Sono
loro, che soffrono quando l’unico spazio da gioco dei bambini è
la strada. Sono quelle che spingono il passeggino e portano pesanti borse
per la spesa, che sanno quanto lontano stanno i negozi (un fatto pietosamente
ignorato dai funzionari, che a quanto pare sembrano avere tutti l’automobile).
Sono le donne ad essere le peggiori vittime della solitudine, della noia,
della frustrazione dei grandi quartieri dormitorio dove tanto tristemente
manca vita sociale.
La casa e il quartiere
Per tutte queste
ragioni, quindi, non c’è compito più urgente per tutti coloro
che sono impegnati negli aspetti sociali della pianificazione, che allontanarsi
dagli astrusi misteri delle statistiche e trovare nuovi modi di interpretare
l’urbanistica per la gente comune, secondo linguaggio e termini che essi
possano capire. Non c’è niente di buono nel “prendere la gente da
dove non sta, per portarla dove non vuole andare” (una presa in giro giornalistica
dell’urbanistica britannica del tempo, n.d.t). Ma a partire dalla donna
in casa, non dovrebbe essere impossibile portarla a vedere come essa sia
portatrice di “interessi consolidati” (dizione letterale nella legge urbanistica
inglese, n.d.t.) nella pianificazione del quartiere: un lavoro che non
può essere interamente delegato agli esperti.
Ovviamente, sarà
più facile in alcuni casi che in altri. Non è semplice parlare
di urbanistica a coloro che abitano i più squallidi e degradati
quartieri delle zone interne di tante nostre grandi città, dove
qualunque prospettiva di ricostruzione può apparire ora remota e
irreale come un sogno. Ma anche qui potrebbe rappresentare un potente stimolo
al decentramento e a un migliore considerazione della città nuova,
o della piccola città, come risposta a tanti nostri problemi. E
visto che ora molte donne di Londra sembrano mostrare una resistenza inaspettata
a muoversi verso le città nuove, è chiaro come ci sia lavoro
in abbondanza da fare in questo campo. Forse sarebbero interessate a sapere
qualcosa di più sulla new town di Aycliffe, di cui gli urbanisti
vogliono fare una “città per la famiglia”, con “in primo piano la
felicità di donne e bambini”, e il cui scopo, nelle parole di Lord
Beveridge, è di aumentare “il tempo libero dei più importanti
lavoratori senza salario del nostro popolo, le casalinghe”.