Seminario Italia/USA sulla pianificazione urbana e regionale
Ischia, giugno 1955

 
 

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Progetti per oggi e per domani
di Frederick Gutheim

Fra gli argomenti che un gruppo ben informato di urbanisti farebbe bene a prendere in considerazione, nelle rare occasioni in cui si incontrano, vi sono quelli dei loro obiettivi e della loro tecnica. Poiché negli Stati Uniti si sta svolgendo un nuovo tipo di pianificazione, diverso da quello che noi abbiamo conosciuto in passato e senza un evidente parallelo in altre parti del mondo, vale la pena di prenderlo specificatamente in considerazione. Il riferimento storico aiuterà a procurare la cornice analitica che rapporterà questa nuova tecnica alle relative condizioni esistenti negli Stati Uniti.
La maggior parte degli urbanisti americani sarà concorde nel dire che noi ci interessiamo meno ai progetti che alla pianificazione; che tutti gli elementi che ne sono coinvolti devono partecipare al processo della pianificazione; e che la prova del valore e del successo di un progetto è solo se esso viene messo in opera ed attuato. Non si è abbastanza considerato quanto nuove siano queste idee, e quanto diverse da quelle di altri pianificatori. Questa prospettiva, essenzialmente prammatica, non è stata ben compresa, ed oggi si sta evolvendo. Prima di considerare questi cambiamenti sarà utile discutere più estesamente sull’ideale del progettista. Attraverso molte vie ci siamo resi conto che nel fare un progetto noi dobbiamo tener presenti tutti i fattori necessari alla sua esecuzione. Molto di recente Norbert Wiener ha espresso tutto ciò nel concetto del “feedback” (ri-alimentazione) dove il piano strategico è confermato dalle notizie concernenti il successo o l’insuccesso della sua attuazione. Ciò è stato enunciato in forma più umana da Mary Parker Follet, studiosa delle relazioni umane nella industria e nella grande organizzazione. Nella vita politica noi diciamo che quando deve essere determinata una linea di condotta o devono essere prese delle decisioni, tutti coloro che hanno intenzione di porvi il loro veto devono essere presenti al tavolo della conferenza, nel momento in cui tali decisioni vengono prese. Allorché il progettista fa suo questo punto di vista, egli si interessa di vedere se il suo progetto funzionerà, se verrà eseguito, se potrà avere un successo in questi termini. Ma è anche interessato in un obiettivo più specificamente democratico: di assicurarsi che il suo progetto risponda a ciò che il popolo desidera. A differenza di un genere più limitato di pianificazione che potrebbe essere effettuato dai funzionari responsabili per le scuole, strade o altri pubblici servizi, o anche da uomini di affari in determinate fabbriche e centri commerciali, il nostro sistema di pianificazione è completo. Esso è caratterizzato dall’equilibrio. Non solo vi sono inclusi tutti gli elementi ma vi è una dovuta proporzione fra di loro. Vi è anche un equilibrio fra le necessità immediatamente espresse, e le richieste che noi possiamo anticipare. In un vasto progetto regionale può essere anche necessario bilanciare l’interesse nazionale con gli interessi puramente locali. Nell’assicurare questo equilibrio, il progettista si rende conto del suo carattere dinamico, ma egli esprime questo dinamismo in modo da non produrre ulteriori squilibri ma da aumentare la complessiva forza del progetto.
Queste caratteristiche di un progetto equilibrato e completo, in cui tutti i maggiori interessi sono rappresentati ed a cui il pubblico partecipa attivamente, sono nuove. Esse non si trovano affatto negli uffici della pianificazione delle città americane. Infatti nella mia città di Washington, il piano cittadino è stato pesantemente sbilanciato dal tradizionale interesse per i parchi e abbellimenti architettonici. Il parere del Governo Federale supera tutti gli altri; ed il pubblico non solo non partecipa all’attuazione del piano, ma neanche dà la sua approvazione. Ma questa è un eccezione estrema.
Per contrasto la pianificazione anteriore al 1935 avvenne d’autorità. Gli urbanisti come Fredrick Law Olmsted o Daniel Burnhan si interessavano ai progetti non ai piani generali. I loro progetti potevano essere limitati ad un centro civico, alla riva di un lago, ad un complesso di parchi, o la loro progettazione abbracciava una intera città, come fece Burnham con i suoi piani per Chicago, Washington, San Francisco o Manila. Gli urbanisti di quel periodo erano generalmente architetti, architetti del paesaggio o certi tipi di ingegneri. Essi possono essere individuati attraverso le successive mode nella pianificazione, attraverso l’interesse nei parchi e nella “città bella”, attraverso gli anni della riforma municipale nel periodo 1905-1915, fino al più recente predominio dell’ingegnere del traffico e dello specialista delle pubbliche amministrazioni. I progettisti educati architettonicamente erano spariti da circa il 1925 in poi, ed ad un periodo di oscuri rapporti ciclostilati seguì la reazione contro la “città bella”. Oggi noi ci troviamo in un periodo in cui rinascono i valori architettonici nella pianificazione, e gli storici dell’architettura stanno attivamente riabilitando la precedente generazione, lodando le loro opere e raschiando, per così dire, dalle sue statue il deposito che i piccioni vi hanno lasciato in un terzo di secolo (1). Il vero pericolo è che con il rinato interesse per le forme architettoniche nelle pianificazioni, rinascano gli usi che sono tanto fuori di moda quanto una volta erano screditati. La pianificazione di oggi è in relazione non solo con la organizzazione su vasta scala ma anche con la tecnica creatasi in tali organizzazioni che può essere pure applicata nelle organizzazioni minori. Il problema architettonico che la pianificazione affronta nel suo presente rinascere, è quello di assimilare questi vantaggi senza compromettere la sua efficienza e di assicurarsi che esso sia veramente nuovo. L’urbanista di questa vecchia generazione trovò come cliente una commissione di pianificazione cittadina indipendente, come quella di Chicago, un sindaco forte come Tom Johnson di Cleveland, o capi politici come Shepherd o Tweed. I cambiamenti che dovevano essere apportati al suo progetto erano apertamente concordati fra il progettista ed il singolo forte cliente, non prudentemente adattati alla pubblica opinione, alle necessità sociali o alla capacità di pagare. I liberi venti della ispirazione creativa che portarono alla rinascita della pianificazione cittadina di Washington nel 1900-1904, spirarono dalla Casa Bianca dove Teodoro Roosevelt, alla maniera degli industriali o dei presidenti di società ferroviarie contemporanei, creò un patronato delle arti che ricordava i tempi del Rinascimento. I clienti di Charles Eliot, probabilmente il migliore degli urbanisti di questo periodo, tendevano ad essere costruttori di ferrovie, industriali, banchieri o forti capi politici. Il più breve incontro biografico conferma il tipo: una figura di grande statura, temperamento collerico, dogmatica inclinazione ad essere perentorio, erano caratteristiche comuni al progettista e al suo cliente. Ciò che è degno di nota non appena spingiamo l’occhio un po’ oltre, è la scomparsa di questo autocrate, di questo Atlante dell’organizzazione, dai ranghi degli affari e del governo, come pure da quelli dei progettisti e degli architetti. Il nuovo tipo di pianificazione oggi certamente riflette un nuovo orientamento professionale, un controllo dei fatti piuttosto che un controllo personale, ed una idea diversa su chi veramente comanda.
Se qualcuno si propone di far luce sul genere di pragmatismo che oggi si trova nella pianificazione delle città negli U.S.A., sarà necessario andare un po’ più a fondo nel passato ed esporre i problemi urbanistici che si sono incontrati. L’area di circa 3.000.000 di miglia quadrate (7,7 milioni di Km) in cui vivevano 845.000 indiani quando arrivarono i primi coloni bianchi, aveva una popolazione che difficilmente raggiungeva i 4.000.000 quando gli Stati Uniti nel 1789 divennero Nazione. Oggi questa area ha una popolazione di circa 165.000.000 abitanti. Venti città centrali con popolazioni eccedenti i 500.000 abitanti (e con aree metropolitane di estensione quasi doppia) sono state create in un periodo che non supera i 150 anni. Ha avuto luogo uno sviluppo massiccio. L’immigrazione di vaste parti di popolazione dalla campagna alla città e dalla città al sobborgo ancora continua. Emigrazioni interregionali dall’est all’ovest, dal sud al nord hanno aumentato la pressione urbana. Nel secolo scorso circa 35.000.000 di emigranti (di cui il 12% italiani) hanno aumentato il numero della popolazione. La civiltà industriale che è stata creata è oggi prevalentemente urbana. Due terzi della popolazione vive in 168 aree metropolitane. La forte tendenza è verso un’ulteriore concentrazione in un limitato numero di aree e verso l’espansione di queste aree alla periferia. È stata data una maggiore importanza al tentativo del progettista di trattare questo sviluppo dinamico al fine di completare l’opera. In un caso tipico quest’opera era un ponte. Il luogo dove era situato, la sua influenza sul traffico, com’era, quanto costava, o anche se era veramente necessario, divennero questioni secondarie, molte di esse neppure sorsero. Vi è un fondato sospetto sia da noi che all’estero, che noi ci preoccupiamo più di avere le cose fatte che di come sono fatte. Abbiamo sviluppato una speciale abilità di realizzazione. Commissioni per l’urbanistica hanno un personale specializzato chiamato “realizzatori” che hanno il compito di controllare che le varie parti del progetto vengano realizzate. La critica più severa da fare a qualsiasi piano cittadino negli U.S.A., non è che esso sia sbagliato, ma che non sia stato portato a termine. Ciò che uccise la “città bella” fu l’accusa della impraticità dei piani che “raccoglievano polvere negli uffici municipali” (2). Questa tendenza verso il pratico, questo timore che i nostri progetti non siano realizzati, è, naturalmente irrazionale. Tutti noi sappiamo che i progetti sono rapidamente ritardati da cambiamenti di circostanze, come pure dall’evoluzione insita nella stessa pianificazione e debbono essere riveduti ad intervalli periodici; che ogni accettazione o rifiuto di un progetto nel suo complesso, o di suoi elementi, hanno conseguenze spesso più importanti della sua realizzazione (3). E siamo a conoscenza, se vogliamo essere onesti con noi stessi, di piani che furono rifiutati da un pubblico più saggio del progettista e di altri messi da parte da una generazione che non vedeva riflesso in essi le proprie aspirazioni.
Come utopie i nostri progetti hanno un valore, qualunque cosa possa accader loro (4). Eppure malgrado ciò, il pragmatismo ci governa. Nella nuova pianificazione (che sto descrivendo), la nostra azione è generalmente motivata dal desiderio di realizzare progettazioni di valore pratico, che abbiano il consenso degli uomini politici e che possano essere finanziariamente realizzabili, in luogo di voler migliorare tecnicamente la pianificazione, di renderla più democratica oppure anche di usarla come strumento liberale per una vita urbanistica più umana (5).
Così abbiamo visto l’emancipazione della pianificazione dalla tradizione artistica la quale, almeno negli Stati Uniti è irrevocabilmente legata ad un concetto reazionario ed autocratico di società; e più recentemente l’emancipazione dalla tradizione dell’ingegneria della specializzazione e del sistema strumentale che precludono qualsiasi riesame del futuro ed una indispensabile filantropia. Ma la nuova pianificazione, con il suo interesse per un piano esteso, il complesso di organizzazioni su vasta scala, la partecipazione al processo di pianificazione e la equipe di progettazione sono ancora impantanati nella tradizione prammatica. Dobbiamo trovare una soluzione, se dobbiamo affrontare la grande potenzialità che si presenta nella seconda metà di questo secolo in termini suoi propri e non nei termini ormai fuori di moda di questi ultimi 50 anni (6). La più fruttuosa fonte di esperienza che può essere applicata per adottare la pianificazione alle nuove condizioni che si presentano negli Stati Uniti è quella raggiunta nell’organizzazione amministrativa e nella pianificazione della produzione di grandi industrie odi organizzazioni governative (7). Da circa il 1850 in poi l’organizzazione su vasta scala ha sviluppato un suo proprio tipo di pianificazione. Amorale, senza nessuna relazione con programma specifico, tale pianificazione appare nella nostra storia in campì così diversi fra loro come l’organizzazione delle costruzioni ferroviarie, lo sviluppo del concetto di stato maggiore generale dell’esercito del Nord durante la guerra civile del 1861-65, la direzione di un circo equestre, il progetto di costruzioni su larga scala, o la creazione di esposizioni internazionali (8). Nei suoi aspetti organizzativi ed umani, esso sembra essere congiunto più strettamente alla scala dell’organizzazione che al tipo di lavoro eseguito. Negli Stati Uniti, dove più della metà del valore della produzione nazionale totale rappresenta il risultato degli sforzi di grandi corporazioni, vi è un considerevole numero di imprese i cui servizi (bilancio, ricerche, programma, personale etc.), un certo grado di complessità amministrativa, e i problemi inerenti ad una organizzazione sono distribuiti geograficamente (9). In queste si possono sempre più trovare comitati di pianificazione o funzionari addetti alla programmazione la cui responsabilità comprende una lunga preparazione, integrazione di una linea di condotta generale, studi sui salari e sui prezzi ecc. (10)
Le unità corporative della pianificazione si occupano anche dei metodi di espansione, della posizione degli impianti e di altri argomenti più strettamente connessi alla pianificazione materiale. L’influenza dei loro giudizi sugli aspetti di autocontrollo e di mercato del sistema capitalista hanno richiamato su di loro molto interesse in questi ultimi anni, ma non possono essere presi in esame qui. L’importanza dell’esperienza della pianificazione nelle vaste organizzazioni private economiche è quella di aver corrisposto ovunque agli stessi concetti organizzativi della pianificazione (11). Ne consegue che l’unità e l’integrazione che costituiscono la maggiore preoccupazione delle organizzazioni in grande scala, sono sotto la costante minaccia del campanilismo, delle divisioni ideologiche, ed egoismi funzionali. Tale pianificazione non è un fenomeno autocratico nelle mani di qualche “direttore” ma un effettivo controllo nelle mani degli specialisti i quali sono scelti perché essi sanno come servirsi della tecnica o perché posseggono un certo carattere rappresentativo. Come altrove, vi è una forte convinzione che i progetti sono validi solo quando considerano tutti i dati ed interessi rilevanti, che coloro i quali li hanno fatti devono anche partecipare alla loro attuazione e che la pianificazione è un processo dinamico, non un atto statico. Il superuomo della pianificazione è stato sostituito da gruppi di studio, e la pianificazione serve non solamente al forte dirigente municipale o il proprietario della fabbrica che abita in una bella casa sulla collina ma alla nuova generazione di direttori e di realizzatori con idee più sofisticate sulle loro responsabilità organizzative, uomini capaci di liberarsi del proprio “ego”, o di vedere che ciò che il pianificatore individuale propone è spesso tutto, tranne il frutto della fantasia. Sembra che noi abbiamo raggiunto il punto in cui la espressione della pianificazione potrebbe essere un progetto fisico simile a quello degli architetti o degli ingegneri; oppure una proposta di bilancio, una lista o un programma di produzioni; o un ordine di esecuzione o un memorandum.
Tali strumenti della pianificazione sono comunicazioni che armonizzano molti distinti interessi e punti di vista entro una organizzazione, concentrati in una decisione e destinati a controllare l’attività e l’influenza delle decisioni su una estesa area- Non sono un ordine che deve essere firmato da un singolo dirigente. I fondamentali elementi che lo compongono sono la inevitabilità o la tradizione. Una delle scoperte essenziali, naturalmente, è che il progetto è efficace non perché emana dalla autorità ma perché è in sé stesso decisivo. Il suo valore è simile a quello di un’opera d’arte.
Che il popolo debba partecipare al processo della pianificazione per assicurarne la sua realizzazione, non è così importante come il fatto che egli deve assicurare che ciò che è progettato vada incontro alle sue reali necessità come sono viste da qualche tecnico. Gli sforzi tesi a stabilire le aspirazioni del pubblico per mezzo della pubblica opinione sono caduti per l’incapacità della gente di desiderare ciò che essa non può immaginare come possibile, o per l’impossibilità di valutare ciò che non ha provato. Ciò rimane ancora un dilemma per la pianificazione. Come ha detto Norbert Wiener: come può il popolo accettare se non conosce, e come può agire se non crede? Si è fatto molto per descrivere le forme di questa partecipazione, ed ancora molto rimane da apprendere. Da questi sforzi noi abbiamo una nuova concezione della funzione del tecnico della pianificazione. Vediamo come egli possa chiarire i problemi, le conclusioni, le decisioni: vediamo quanto il ruolo del tecnico sia separato da quello del pubblico, ma constatiamo anche quanto confusi ed informi siano gli sforzi del pubblico per arrivare ad una decisione senza l’aiuto del tecnico della pianificazione (12). E ciò accade specialmente nella fase decisiva di tutta la pianificazione che è basata sui fatti: fase in cui noi ci muoviamo dall’analisi alla proposta di pianificazione, in cui tentiamo di dimostrare come uno deriva dall’altro, e non è realmente così arbitraria come spesso sembra essere. In questo stadio l’urbanista deve esprimere ed offrire delle ipotesi, delle proposte creative che deve poi valutare alla luce delle informazioni che gli vengono date. In questa attività, l’antica mistica dell’architetto, le risorse della persuasione e la convinzione dell’arte si trasformano nella pianificazione. Ecco perché la partecipazione del pubblico si presenta spesso in termini di un progetto locale. La nostra pianificazione è sempre più sulla scala del vasto progetto edilizio, del progetto del nuovo sviluppo, del centro sub-urbano dei negozi, del complesso industriale, del complesso educativo delle ricerche. Queste sono le basi della futura città (13). Essi coinvolgono valori di progettazione e problemi d’interesse pubblico molto più vasti che nei giorni in cui la città veniva costruita e progettata sulla base di un lotto alla volta.
Come azione verso il ristabilimento del progetto fisico, come mezzo per permettere al pubblico di partecipare al processo della pianificazione in maniera più significativa, io penso che ciò rappresenti un passo avanti verso la giusta direzione. Tutti i problemi della pianificazione che noi stiamo affrontando negli Stati Uniti: l’invasione sub-urbana, i quartieri malsani delle città, i sobborghi medioevali, richiedono questo genere di azione. Ciò diventa difficile solo quando si dà di piglio ai più vasti e tecnici problemi della regione metropolitana, per l’immediata impossibilità di formulare i problemi in maniera che essi permettano tale partecipazione.
La pianificazione non può essere indifferente alle sue responsabilità politiche in questi tempi di crisi mondiale. Bisogna riconoscere la necessità di offrire alle masse che si elevano, un programma dinamico orientato verso futuri livelli di produzione e di impiego per tutti: importa poco se noi pensiamo alla immediata prospettiva di un aumento della produttività del 200%, di una settimana lavorativa di quattro giorni (ambedue prospettive immediate negli Stati Uniti) o di altri relativi vantaggi che sono possibili ovunque nel mondo. Oggi noi affrontiamo questo problema con metodi superati da tempo. I nostri progetti, ovunque, non prevedono un genere di vita urbanistica commensurato alle nostre possibilità. Ciò che la famiglia americana sta oggi ciecamente cercando nelle malsane zone dei sobborghi metropolitani è di sfuggire le limitazioni, la stratificazione e l’attività limitata della città del secolo 19°. Questo rifiutare il modo di vita precedentemente offerto dall’industrialismo, non distruggerà solamente le città che furono costruite nel XIX secolo; se non saranno create dalle altre mete positive esso distruggerà tutto ciò che ci rimane della civiltà stessa. È la nostra visione limitata a creare solo una nuova classe media del proletariato che sorge (e che sparisce)? Dobbiamo pensare che è sufficiente offrir loro i modelli di vita che ci sono stati tramandati da un secolo, così come ci attendiamo che essi vivano in case avute per eredità? Usiamo noi le materie prime che la nostra alta tecnica ci procura, per compiere delle opere di civilizzazione? Questo è il valore definitivo della pianificazione e la sfida alla nostra arte e intelligenza; per districare l’umanità dalle strette rotaie di un modo di vivere che noi sappiamo di aver superato, e di dipingere in tinte convincenti un nuovo e realizzabile mondo futuro che la nostra gente, lavorando insieme, si sforzerà di creare. Se la pianificazione ha una alternativa creativa da proporre, se essa può opporre un impulso storico, ciò deve essere fatto appellandosi a questi profondissimi istinti ed aspirazioni.
Se mi si concedesse di ritornare sulla descrizione, precedentemente da me tratteggiata, degli Stati Uniti, considerati quale un agglomeramento di diversi gruppi che cercano di mettersi d’accordo, a che punto ci troveremmo? Noi abbiamo una tecnica che, aggiunta al processo politico, sembra adatta al problema. Ovviamente vi sono ancora difficoltà; e in particolar modo il rovesciamento dei valori di molta parte della pianificazione americana, il predominio della sanità pubblica e dei fattori della ingegneria, la mancanza di tempo disponibile, mancanza di istruzione, ecc. Ma la più importante è certo la difficoltà che abbiamo esposto di accordare tutti i fattori necessari per la cultura che noi vogliamo instaurare. Le presenti divergenze ostacolano questo sforzo. Ma dobbiamo tener presente che è assolutamente possibile dirigere gli obiettivi della cultura che oggi sono tanto poco desiderati quanto poco conosciuti. È inconcepibile per me pensare , che questo giorno possa essere così lontano. In questa convinzione non vi è da dubitare che i nostri progetti di pianificazione siano troppo limitati, timidi e miopi. Né vi può esser dubbio che nella nuova tecnica di pianificazione, che ho cercato di descrivere, vi siano essenzialmente delle tendenze progressive che rivelino e superino queste limitazioni dei nostri attuali progetti.
Dal momento che c’incontriamo, 11 americani ed 11 italiani, attivi partecipanti della pianificazione, dobbiamo prendere in considerazione i nostri rispettivi ruoli. Ovviamente nessuno parla come rappresentante della sua rispettiva professione quanto come rappresentante del proprio Paese. Quando io dico “noi” di chi intendo parlare? Il nostro carattere è sufficientemente rappresentativo, io penso, per poter collegare il presente gruppo di americani ad altri che come loro abbiano gli stessi orientamenti sui problemi della pianificazione. Questo “noi” funzionale è un complesso numeroso in continuo aumento. Noi siamo uniti nei nostri particolari interessi e manifestazioni e con il vostro aiuto, ne son sicuro, riusciremo a sviluppare un valido punto di vista che finirà per prevalere.
Forse il primo passo verso questa meta è quello di allargare il limitato significato di “noi” così da potervi includere, almeno, tutti i partecipanti a questa riunione.