Progetti per oggi e per
domani
di Frederick Gutheim
Fra gli argomenti che un gruppo
ben informato
di urbanisti farebbe bene a prendere in considerazione, nelle rare
occasioni
in cui si incontrano, vi sono quelli dei loro obiettivi e della loro
tecnica.
Poiché negli Stati Uniti si sta svolgendo un nuovo tipo di
pianificazione,
diverso da quello che noi abbiamo conosciuto in passato e senza un
evidente
parallelo in altre parti del mondo, vale la pena di prenderlo
specificatamente
in considerazione. Il riferimento storico aiuterà a procurare la
cornice analitica che rapporterà questa nuova tecnica alle
relative
condizioni esistenti negli Stati Uniti.
La maggior parte degli urbanisti
americani
sarà concorde nel dire che noi ci interessiamo meno ai progetti
che alla pianificazione; che tutti gli elementi che ne sono coinvolti
devono
partecipare al processo della pianificazione; e che la prova del valore
e del successo di un progetto è solo se esso viene messo in
opera
ed attuato. Non si è abbastanza considerato quanto nuove siano
queste
idee, e quanto diverse da quelle di altri pianificatori. Questa
prospettiva,
essenzialmente prammatica, non è stata ben compresa, ed oggi si
sta evolvendo. Prima di considerare questi cambiamenti sarà
utile
discutere più estesamente sull’ideale del progettista.
Attraverso
molte vie ci siamo resi conto che nel fare un progetto noi dobbiamo
tener
presenti tutti i fattori necessari alla sua esecuzione. Molto di
recente
Norbert Wiener ha espresso tutto ciò nel concetto del “feedback”
(ri-alimentazione) dove il piano strategico è confermato dalle
notizie
concernenti il successo o l’insuccesso della sua attuazione. Ciò
è stato enunciato in forma più umana da Mary Parker
Follet,
studiosa delle relazioni umane nella industria e nella grande
organizzazione.
Nella vita politica noi diciamo che quando deve essere determinata una
linea di condotta o devono essere prese delle decisioni, tutti coloro
che
hanno intenzione di porvi il loro veto devono essere presenti al tavolo
della conferenza, nel momento in cui tali decisioni vengono prese.
Allorché
il progettista fa suo questo punto di vista, egli si interessa di
vedere
se il suo progetto funzionerà, se verrà eseguito, se
potrà
avere un successo in questi termini. Ma è anche interessato in
un
obiettivo più specificamente democratico: di assicurarsi che il
suo progetto risponda a ciò che il popolo desidera. A differenza
di un genere più limitato di pianificazione che potrebbe essere
effettuato dai funzionari responsabili per le scuole, strade o altri
pubblici
servizi, o anche da uomini di affari in determinate fabbriche e centri
commerciali, il nostro sistema di pianificazione è completo.
Esso
è caratterizzato dall’equilibrio. Non solo vi sono inclusi tutti
gli elementi ma vi è una dovuta proporzione fra di loro. Vi
è
anche un equilibrio fra le necessità immediatamente espresse, e
le richieste che noi possiamo anticipare. In un vasto progetto
regionale
può essere anche necessario bilanciare l’interesse nazionale con
gli interessi puramente locali. Nell’assicurare questo equilibrio, il
progettista
si rende conto del suo carattere dinamico, ma egli esprime questo
dinamismo
in modo da non produrre ulteriori squilibri ma da aumentare la
complessiva
forza del progetto.
Queste caratteristiche di un
progetto
equilibrato e completo, in cui tutti i maggiori interessi sono
rappresentati
ed a cui il pubblico partecipa attivamente, sono nuove. Esse non si
trovano
affatto negli uffici della pianificazione delle città americane.
Infatti nella mia città di Washington, il piano cittadino
è
stato pesantemente sbilanciato dal tradizionale interesse per i parchi
e abbellimenti architettonici. Il parere del Governo Federale supera
tutti
gli altri; ed il pubblico non solo non partecipa all’attuazione del
piano,
ma neanche dà la sua approvazione. Ma questa è un
eccezione
estrema.
Per contrasto la pianificazione
anteriore
al 1935 avvenne d’autorità. Gli urbanisti come Fredrick Law
Olmsted
o Daniel Burnhan si interessavano ai progetti non ai piani generali. I
loro progetti potevano essere limitati ad un centro civico, alla riva
di
un lago, ad un complesso di parchi, o la loro progettazione abbracciava
una intera città, come fece Burnham con i suoi piani per
Chicago,
Washington, San Francisco o Manila. Gli urbanisti di quel periodo erano
generalmente architetti, architetti del paesaggio o certi tipi di
ingegneri.
Essi possono essere individuati attraverso le successive mode nella
pianificazione,
attraverso l’interesse nei parchi e nella “città bella”,
attraverso
gli anni della riforma municipale nel periodo 1905-1915, fino al
più
recente predominio dell’ingegnere del traffico e dello specialista
delle
pubbliche amministrazioni. I progettisti educati architettonicamente
erano
spariti da circa il 1925 in poi, ed ad un periodo di oscuri rapporti
ciclostilati
seguì la reazione contro la “città bella”. Oggi noi ci
troviamo
in un periodo in cui rinascono i valori architettonici nella
pianificazione,
e gli storici dell’architettura stanno attivamente riabilitando la
precedente
generazione, lodando le loro opere e raschiando, per così dire,
dalle sue statue il deposito che i piccioni vi hanno lasciato in un
terzo
di secolo (1).
Il vero pericolo è che con il rinato interesse per le forme
architettoniche
nelle pianificazioni, rinascano gli usi che sono tanto fuori di moda
quanto
una volta erano screditati. La pianificazione di oggi è in
relazione
non solo con la organizzazione su vasta scala ma anche con la tecnica
creatasi
in tali organizzazioni che può essere pure applicata nelle
organizzazioni
minori. Il problema architettonico che la pianificazione affronta nel
suo
presente rinascere, è quello di assimilare questi vantaggi senza
compromettere la sua efficienza e di assicurarsi che esso sia veramente
nuovo. L’urbanista di questa vecchia generazione trovò come
cliente
una commissione di pianificazione cittadina indipendente, come quella
di
Chicago, un sindaco forte come Tom Johnson di Cleveland, o capi
politici
come Shepherd o Tweed. I cambiamenti che dovevano essere apportati al
suo
progetto erano apertamente concordati fra il progettista ed il singolo
forte cliente, non prudentemente adattati alla pubblica opinione, alle
necessità sociali o alla capacità di pagare. I liberi
venti
della ispirazione creativa che portarono alla rinascita della
pianificazione
cittadina di Washington nel 1900-1904, spirarono dalla Casa Bianca dove
Teodoro Roosevelt, alla maniera degli industriali o dei presidenti di
società
ferroviarie contemporanei, creò un patronato delle arti che
ricordava
i tempi del Rinascimento. I clienti di Charles Eliot, probabilmente il
migliore degli urbanisti di questo periodo, tendevano ad essere
costruttori
di ferrovie, industriali, banchieri o forti capi politici. Il
più
breve incontro biografico conferma il tipo: una figura di grande
statura,
temperamento collerico, dogmatica inclinazione ad essere perentorio,
erano
caratteristiche comuni al progettista e al suo cliente. Ciò che
è degno di nota non appena spingiamo l’occhio un po’ oltre,
è
la scomparsa di questo autocrate, di questo Atlante
dell’organizzazione,
dai ranghi degli affari e del governo, come pure da quelli dei
progettisti
e degli architetti. Il nuovo tipo di pianificazione oggi certamente
riflette
un nuovo orientamento professionale, un controllo dei fatti piuttosto
che
un controllo personale, ed una idea diversa su chi veramente comanda.
Se qualcuno si propone di far luce
sul
genere di pragmatismo che oggi si trova nella pianificazione delle
città
negli U.S.A., sarà necessario andare un po’ più a fondo
nel
passato ed esporre i problemi urbanistici che si sono incontrati.
L’area
di circa 3.000.000 di miglia quadrate (7,7 milioni di Km) in cui
vivevano
845.000 indiani quando arrivarono i primi coloni bianchi, aveva una
popolazione
che difficilmente raggiungeva i 4.000.000 quando gli Stati Uniti nel
1789
divennero Nazione. Oggi questa area ha una popolazione di circa
165.000.000
abitanti. Venti città centrali con popolazioni eccedenti i
500.000
abitanti (e con aree metropolitane di estensione quasi doppia) sono
state
create in un periodo che non supera i 150 anni. Ha avuto luogo uno
sviluppo
massiccio. L’immigrazione di vaste parti di popolazione dalla campagna
alla città e dalla città al sobborgo ancora continua.
Emigrazioni
interregionali dall’est all’ovest, dal sud al nord hanno aumentato la
pressione
urbana. Nel secolo scorso circa 35.000.000 di emigranti (di cui il 12%
italiani) hanno aumentato il numero della popolazione. La
civiltà
industriale che è stata creata è oggi prevalentemente
urbana.
Due terzi della popolazione vive in 168 aree metropolitane. La forte
tendenza
è verso un’ulteriore concentrazione in un limitato numero di
aree
e verso l’espansione di queste aree alla periferia. È stata data
una maggiore importanza al tentativo del progettista di trattare questo
sviluppo dinamico al fine di completare l’opera. In un caso tipico
quest’opera
era un ponte. Il luogo dove era situato, la sua influenza sul traffico,
com’era, quanto costava, o anche se era veramente necessario, divennero
questioni secondarie, molte di esse neppure sorsero. Vi è un
fondato
sospetto sia da noi che all’estero, che noi ci preoccupiamo più
di avere le cose fatte che di come sono fatte. Abbiamo sviluppato una
speciale
abilità di realizzazione. Commissioni per l’urbanistica hanno un
personale specializzato chiamato “realizzatori” che hanno il compito di
controllare che le varie parti del progetto vengano realizzate. La
critica
più severa da fare a qualsiasi piano cittadino negli U.S.A., non
è che esso sia sbagliato, ma che non sia stato portato a
termine.
Ciò che uccise la “città bella” fu l’accusa della
impraticità
dei piani che “raccoglievano polvere negli uffici municipali” (2).
Questa tendenza verso il pratico, questo timore che i nostri progetti
non
siano realizzati, è, naturalmente irrazionale. Tutti noi
sappiamo
che i progetti sono rapidamente ritardati da cambiamenti di
circostanze,
come pure dall’evoluzione insita nella stessa pianificazione e debbono
essere riveduti ad intervalli periodici; che ogni accettazione o
rifiuto
di un progetto nel suo complesso, o di suoi elementi, hanno conseguenze
spesso più importanti della sua realizzazione (3).
E siamo a conoscenza, se vogliamo essere onesti con noi stessi, di
piani
che furono rifiutati da un pubblico più saggio del progettista e
di altri messi da parte da una generazione che non vedeva riflesso in
essi
le proprie aspirazioni.
Come utopie i nostri progetti
hanno un
valore, qualunque cosa possa accader loro (4).
Eppure malgrado ciò, il pragmatismo ci governa. Nella nuova
pianificazione
(che sto descrivendo), la nostra azione è generalmente motivata
dal desiderio di realizzare progettazioni di valore pratico, che
abbiano
il consenso degli uomini politici e che possano essere finanziariamente
realizzabili, in luogo di voler migliorare tecnicamente la
pianificazione,
di renderla più democratica oppure anche di usarla come
strumento
liberale per una vita urbanistica più umana (5).
Così abbiamo visto
l’emancipazione
della pianificazione dalla tradizione artistica la quale, almeno negli
Stati Uniti è irrevocabilmente legata ad un concetto reazionario
ed autocratico di società; e più recentemente
l’emancipazione
dalla tradizione dell’ingegneria della specializzazione e del sistema
strumentale
che precludono qualsiasi riesame del futuro ed una indispensabile
filantropia.
Ma la nuova pianificazione, con il suo interesse per un piano esteso,
il
complesso di organizzazioni su vasta scala, la partecipazione al
processo
di pianificazione e la equipe di progettazione sono ancora impantanati
nella tradizione prammatica. Dobbiamo trovare una soluzione, se
dobbiamo
affrontare la grande potenzialità che si presenta nella seconda
metà di questo secolo in termini suoi propri e non nei termini
ormai
fuori di moda di questi ultimi 50 anni (6).
La più fruttuosa fonte di esperienza che può essere
applicata
per adottare la pianificazione alle nuove condizioni che si presentano
negli Stati Uniti è quella raggiunta nell’organizzazione
amministrativa
e nella pianificazione della produzione di grandi industrie odi
organizzazioni
governative (7).
Da circa il 1850 in poi l’organizzazione su vasta scala ha sviluppato
un
suo proprio tipo di pianificazione. Amorale, senza nessuna relazione
con
programma specifico, tale pianificazione appare nella nostra storia in
campì così diversi fra loro come l’organizzazione delle
costruzioni
ferroviarie, lo sviluppo del concetto di stato maggiore generale
dell’esercito
del Nord durante la guerra civile del 1861-65, la direzione di un circo
equestre, il progetto di costruzioni su larga scala, o la creazione di
esposizioni internazionali (8).
Nei suoi aspetti organizzativi ed umani, esso sembra essere congiunto
più
strettamente alla scala dell’organizzazione che al tipo di lavoro
eseguito.
Negli Stati Uniti, dove più della metà del valore della
produzione
nazionale totale rappresenta il risultato degli sforzi di grandi
corporazioni,
vi è un considerevole numero di imprese i cui servizi (bilancio,
ricerche, programma, personale etc.), un certo grado di
complessità
amministrativa, e i problemi inerenti ad una organizzazione sono
distribuiti
geograficamente (9).
In queste si possono sempre più trovare comitati di
pianificazione
o funzionari addetti alla programmazione la cui responsabilità
comprende
una lunga preparazione, integrazione di una linea di condotta generale,
studi sui salari e sui prezzi ecc. (10)
Le unità corporative della
pianificazione
si occupano anche dei metodi di espansione, della posizione degli
impianti
e di altri argomenti più strettamente connessi alla
pianificazione
materiale. L’influenza dei loro giudizi sugli aspetti di autocontrollo
e di mercato del sistema capitalista hanno richiamato su di loro molto
interesse in questi ultimi anni, ma non possono essere presi in esame
qui.
L’importanza dell’esperienza della pianificazione nelle vaste
organizzazioni
private economiche è quella di aver corrisposto ovunque agli
stessi
concetti organizzativi della pianificazione (11).
Ne consegue che l’unità e l’integrazione che costituiscono la
maggiore
preoccupazione delle organizzazioni in grande scala, sono sotto la
costante
minaccia del campanilismo, delle divisioni ideologiche, ed egoismi
funzionali.
Tale pianificazione non è un fenomeno autocratico nelle mani di
qualche “direttore” ma un effettivo controllo nelle mani degli
specialisti
i quali sono scelti perché essi sanno come servirsi della
tecnica
o perché posseggono un certo carattere rappresentativo. Come
altrove,
vi è una forte convinzione che i progetti sono validi solo
quando
considerano tutti i dati ed interessi rilevanti, che coloro i quali li
hanno fatti devono anche partecipare alla loro attuazione e che la
pianificazione
è un processo dinamico, non un atto statico. Il superuomo della
pianificazione è stato sostituito da gruppi di studio, e la
pianificazione
serve non solamente al forte dirigente municipale o il proprietario
della
fabbrica che abita in una bella casa sulla collina ma alla nuova
generazione
di direttori e di realizzatori con idee più sofisticate sulle
loro
responsabilità organizzative, uomini capaci di liberarsi del
proprio
“ego”, o di vedere che ciò che il pianificatore individuale
propone
è spesso tutto, tranne il frutto della fantasia. Sembra che noi
abbiamo raggiunto il punto in cui la espressione della pianificazione
potrebbe
essere un progetto fisico simile a quello degli architetti o degli
ingegneri;
oppure una proposta di bilancio, una lista o un programma di
produzioni;
o un ordine di esecuzione o un memorandum.
Tali strumenti della
pianificazione sono
comunicazioni che armonizzano molti distinti interessi e punti di vista
entro una organizzazione, concentrati in una decisione e destinati a
controllare
l’attività e l’influenza delle decisioni su una estesa area- Non
sono un ordine che deve essere firmato da un singolo dirigente. I
fondamentali
elementi che lo compongono sono la inevitabilità o la
tradizione.
Una delle scoperte essenziali, naturalmente, è che il progetto
è
efficace non perché emana dalla autorità ma perché
è in sé stesso decisivo. Il suo valore è simile a
quello di un’opera d’arte.
Che il popolo debba partecipare al
processo
della pianificazione per assicurarne la sua realizzazione, non è
così importante come il fatto che egli deve assicurare che
ciò
che è progettato vada incontro alle sue reali necessità
come
sono viste da qualche tecnico. Gli sforzi tesi a stabilire le
aspirazioni
del pubblico per mezzo della pubblica opinione sono caduti per
l’incapacità
della gente di desiderare ciò che essa non può immaginare
come possibile, o per l’impossibilità di valutare ciò che
non ha provato. Ciò rimane ancora un dilemma per la
pianificazione.
Come ha detto Norbert Wiener: come può il popolo accettare se
non
conosce, e come può agire se non crede? Si è fatto molto
per descrivere le forme di questa partecipazione, ed ancora molto
rimane
da apprendere. Da questi sforzi noi abbiamo una nuova concezione della
funzione del tecnico della pianificazione. Vediamo come egli possa
chiarire
i problemi, le conclusioni, le decisioni: vediamo quanto il ruolo del
tecnico
sia separato da quello del pubblico, ma constatiamo anche quanto
confusi
ed informi siano gli sforzi del pubblico per arrivare ad una decisione
senza l’aiuto del tecnico della pianificazione (12).
E ciò accade specialmente nella fase decisiva di tutta la
pianificazione
che è basata sui fatti: fase in cui noi ci muoviamo dall’analisi
alla proposta di pianificazione, in cui tentiamo di dimostrare come uno
deriva dall’altro, e non è realmente così arbitraria come
spesso sembra essere. In questo stadio l’urbanista deve esprimere ed
offrire
delle ipotesi, delle proposte creative che deve poi valutare alla luce
delle informazioni che gli vengono date. In questa attività,
l’antica
mistica dell’architetto, le risorse della persuasione e la convinzione
dell’arte si trasformano nella pianificazione. Ecco perché la
partecipazione
del pubblico si presenta spesso in termini di un progetto locale. La
nostra
pianificazione è sempre più sulla scala del vasto
progetto
edilizio, del progetto del nuovo sviluppo, del centro sub-urbano dei
negozi,
del complesso industriale, del complesso educativo delle ricerche.
Queste
sono le basi della futura città (13).
Essi coinvolgono valori di progettazione e problemi d’interesse
pubblico
molto più vasti che nei giorni in cui la città veniva
costruita
e progettata sulla base di un lotto alla volta.
Come azione verso il
ristabilimento del
progetto fisico, come mezzo per permettere al pubblico di partecipare
al
processo della pianificazione in maniera più significativa, io
penso
che ciò rappresenti un passo avanti verso la giusta direzione.
Tutti
i problemi della pianificazione che noi stiamo affrontando negli Stati
Uniti: l’invasione sub-urbana, i quartieri malsani delle città,
i sobborghi medioevali, richiedono questo genere di azione. Ciò
diventa difficile solo quando si dà di piglio ai più
vasti
e tecnici problemi della regione metropolitana, per l’immediata
impossibilità
di formulare i problemi in maniera che essi permettano tale
partecipazione.
La pianificazione non può
essere
indifferente alle sue responsabilità politiche in questi tempi
di
crisi mondiale. Bisogna riconoscere la necessità di offrire alle
masse che si elevano, un programma dinamico orientato verso futuri
livelli
di produzione e di impiego per tutti: importa poco se noi pensiamo alla
immediata prospettiva di un aumento della produttività del 200%,
di una settimana lavorativa di quattro giorni (ambedue prospettive
immediate
negli Stati Uniti) o di altri relativi vantaggi che sono possibili
ovunque
nel mondo. Oggi noi affrontiamo questo problema con metodi superati da
tempo. I nostri progetti, ovunque, non prevedono un genere di vita
urbanistica
commensurato alle nostre possibilità. Ciò che la famiglia
americana sta oggi ciecamente cercando nelle malsane zone dei sobborghi
metropolitani è di sfuggire le limitazioni, la stratificazione e
l’attività limitata della città del secolo 19°.
Questo
rifiutare il modo di vita precedentemente offerto dall’industrialismo,
non distruggerà solamente le città che furono costruite
nel
XIX secolo; se non saranno create dalle altre mete positive esso
distruggerà
tutto ciò che ci rimane della civiltà stessa. È la
nostra visione limitata a creare solo una nuova classe media del
proletariato
che sorge (e che sparisce)? Dobbiamo pensare che è sufficiente
offrir
loro i modelli di vita che ci sono stati tramandati da un secolo,
così
come ci attendiamo che essi vivano in case avute per eredità?
Usiamo
noi le materie prime che la nostra alta tecnica ci procura, per
compiere
delle opere di civilizzazione? Questo è il valore definitivo
della
pianificazione e la sfida alla nostra arte e intelligenza; per
districare
l’umanità dalle strette rotaie di un modo di vivere che noi
sappiamo
di aver superato, e di dipingere in tinte convincenti un nuovo e
realizzabile
mondo futuro che la nostra gente, lavorando insieme, si sforzerà
di creare. Se la pianificazione ha una alternativa creativa da
proporre,
se essa può opporre un impulso storico, ciò deve essere
fatto
appellandosi a questi profondissimi istinti ed aspirazioni.
Se mi si concedesse di ritornare
sulla
descrizione, precedentemente da me tratteggiata, degli Stati Uniti,
considerati
quale un agglomeramento di diversi gruppi che cercano di mettersi
d’accordo,
a che punto ci troveremmo? Noi abbiamo una tecnica che, aggiunta al
processo
politico, sembra adatta al problema. Ovviamente vi sono ancora
difficoltà;
e in particolar modo il rovesciamento dei valori di molta parte della
pianificazione
americana, il predominio della sanità pubblica e dei fattori
della
ingegneria, la mancanza di tempo disponibile, mancanza di istruzione,
ecc.
Ma la più importante è certo la difficoltà che
abbiamo
esposto di accordare tutti i fattori necessari per la cultura che noi
vogliamo
instaurare. Le presenti divergenze ostacolano questo sforzo. Ma
dobbiamo
tener presente che è assolutamente possibile dirigere gli
obiettivi
della cultura che oggi sono tanto poco desiderati quanto poco
conosciuti.
È inconcepibile per me pensare , che questo giorno possa essere
così lontano. In questa convinzione non vi è da dubitare
che i nostri progetti di pianificazione siano troppo limitati, timidi e
miopi. Né vi può esser dubbio che nella nuova tecnica di
pianificazione, che ho cercato di descrivere, vi siano essenzialmente
delle
tendenze progressive che rivelino e superino queste limitazioni dei
nostri
attuali progetti.
Dal momento che c’incontriamo, 11
americani
ed 11 italiani, attivi partecipanti della pianificazione, dobbiamo
prendere
in considerazione i nostri rispettivi ruoli. Ovviamente nessuno parla
come
rappresentante della sua rispettiva professione quanto come
rappresentante
del proprio Paese. Quando io dico “noi” di chi intendo parlare? Il
nostro
carattere è sufficientemente rappresentativo, io penso, per
poter
collegare il presente gruppo di americani ad altri che come loro
abbiano
gli stessi orientamenti sui problemi della pianificazione. Questo “noi”
funzionale è un complesso numeroso in continuo aumento. Noi
siamo
uniti nei nostri particolari interessi e manifestazioni e con il vostro
aiuto, ne son sicuro, riusciremo a sviluppare un valido punto di vista
che finirà per prevalere.
Forse il primo passo verso questa
meta
è quello di allargare il limitato significato di “noi”
così
da potervi includere, almeno, tutti i partecipanti a questa riunione.