GIOVANNI DOMENICO LOREO

(1694 – morto dopo 1741)

 

Figlio di GIOVANNI ANTONIO e Ludovica Sillano. Si sposò con Giovanna Cristina Lampone nel 1736 da cui ebbe un figlio nel 1737, GIOVANNI ANTONIO. Aveva 4 fratelli, GEROLAMO MATTIA (1692), LEONORA (1693), ANGELA MARIA (1697), VERONICA (1698).

Il 31 maggio 1737 Domenico ebbe in prestito dalle sorelle  Iuditta e Buona Fortuna Treves Luzzati ebree di Vercelli una somma di 800 lire all’interesse annuo del 6% da restituire in occasione del loro matrimonio; quale garanzia fu posta un’ipoteca sulla casa che Domenico possedeva a Vercelli comunemente detta il Torrone degli ebrei nella parrocchia di San Salvatore nella contrada del Leon d’oro, affittata agli ebrei che la utilizzavano come scuola.

Nell’ottobre 1738 Iuditta si sposò e Domenico venne interpellato per il pagamento delle  400 lire che le spettavano: egli promise di restituire la cifra entro un anno.

Nel mese di dicembre la sorella Buona Fortuna morì in condizione nubile e, come previsto nel testamento del padre, la sua parte passò alla madre Perla Treves Luzzati; Domenico venne condannato a pagare la somma entro 50 giorni.

Nella successiva convocazione Domenico chiese di poter offrire in  pagamento il Torrone; il 27 agosto 1740 il tribunale richiese la stima della casa e nominò perito l’architetto Giorgio Caro. La casa consisteva al piano terra di una sala, cucina e scanziotto oltre ad un ingresso, crotta inferiormente alla scala, al piano superiore

una stanza grande e una piccola e un secondo piano, il tutto coperto a coppi con pozzo d’aqua viva nella corte ad uso esclusivo della casa.

Esperito l’incarico affidatogli il perito stimò il fabbricato in 900 lire, essendo lo stesso in cattivo stato di conservazione, ma gli ebrei ritennero che il valore dell’edificio poteva essere al massimo di 700 lire e che loro sarebbero stati disposti a rinunciare a 100 lire.

Domenico cercò un altro acquirente disposto ad acquistare l’edificio alla giusta cifra e trovò la vedova Margherita Fassina che gli offrì le 900 lire ma richiese anche alcune riparazioni, in particolare ribassare il soffitto del salone dove c’era l’oratorio degli ebrei e la riduzione “in pristino” delle opere da essi fatte, il tutto stimato in 50 lire. Nel frattempo però la vedova Fassina rinunciò alla proposta. Il fatto giunse alle orecchie del conte Antonio Francesco Cipelli della Motta che si offrì “a motivo anche di carità di accomprare egli detta casa al prezzo suddetto di lire nouecento”.

 

 

 

ASV, Insinuazione di Vercelli,anno 1741, libro 216, pag.1