INTRODUZIONE ALLA CONFERENZA DI PRESENTAZIONE DELLA RICERCA SULLE AREE A RISCHIO AMBIENTALE - ROMA  9 GENNAIO 2002 - I DATI DELL'ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITA' (sintesi a cura di Legambiente nazionale, compartecipe alla presentazione)

4.167 morti ogni cinque anni. Oltre 800 decessi in più ogni anno con un trend che non accenna a diminuire. E' questo il tragico bilancio delle aree a rischio di crisi ambientale. Hanno ucciso e continuano ad uccidere, hanno contaminato in maniera estremamente grave il territorio, hanno creato eccezionali rischi sanitari per le popolazioni.

I dati dell'Organizzazione Mondiale della Sanità su 15 aree ad elevato rischio di crisi ambientale non lasciano spazio a dubbi. Le aziende chimiche, petrolifere, minerarie e siderurgiche hanno provocato e continuano a provocare danni enormi.

Un quadro completo della situazione delle aree a rischio e dei siti contaminati ed una serie di proposte per uscire dall'emergenza sono state presentate oggi a Roma, nel corso di una conferenza stampa che ha visto la partecipazione del ministro dell'Ambiente Altero Matteoli, del presidente nazionale di Legambiente Ermete Realacci e del direttore del Centro Europeo Ambiente e Salute dell'Oms, Roberto Bertollini.

Andando subito ad esaminare nel dettaglio i risultati della ricerca dell'OMS si nota che, tra le popolazioni residenti nelle aree a rischio, è stata rilevata una mortalità generale nel quinquennio 1990 - 1994 superiore alla media regionale nella misura di almeno 4.167 decessi rispetto all’atteso (2 639 maschi e 1 527 femmine), pari al 2,64% dei 157. 787 totali. In definitiva il valore corrisponde a oltre 800 morti in eccesso l’anno. Ciò rappresenta un importante problema di sanità pubblica nelle aree a rischio che suggerisce l’opportunità di interventi di risanamento ambientale e programmi di monitoraggio sanitario per la popolazione affetta.

Ecco dunque la proposta di Legambiente. Una nuova normativa ispirata al "Superfund" americano, per far pagare alle aziende inquinanti gli interi costi di bonifica delle aree contaminate da produzioni nocive o da rifiuti tossici; la definizione di una lista di priorità che scadenzi gli interventi di risanamento delle aree a rischio e crei le premesse per l'immediata chiusura degli impianti per i quali è ormai accertata la pericolosità sanitaria, la  delocalizzazione o la riconversione di quelli che hanno comunque un elevato grado di inquinamento e impatto ambientale. La creazione di nuove figure professionali, che offra anche una opportunità di riqualificazione per gli addetti del settore impiegandoli nei lavori di messa in sicurezza e di recupero delle aree recuperate per la messa in sicurezza e il risanamento delle aree contaminate.

Torniamo all'esame dei dati dell'Oms. Il periodo preso in esame è il quinquennio '90-'94, ma in considerazione della durata del periodo di incubazione nell’organismo umano delle malattie causa dei decessi aggiuntivi (principalmente malattie circolatorie, ma non l’infarto, e cerebrovascolari (circa 240 casi l’anno), malattie dell’apparato digerente (120 casi) e respiratorio (130 casi), cirrosi (90 casi) e diabete (80 casi), tumori in genere (130 casi)) e della persistenza nell’ambiente di molte sostanze inquinanti, è ragionevole concludere che le cifre relative agli eccessi di mortalità nelle aree a rischio siano riscontrabili anche in anni seguenti.

Con tutte le limitazioni del caso, l’OMS ha condotto le sue analisi con una metodologia che consente di ottimizzare l’uso dei dati. Il valore cumulativo finale ottenuto di 4.167 decessi in più in 5 anni nelle aree a rischio è la risultante delle somme algebriche tra eccessi e difetti di mortalità per ogni causa di morte, calcolata in base alla differenza tra il numero di decessi osservati nelle aree a rischio rispetto a quanti si sarebbero dovuti verificare (“attesi”) se la mortalità avesse la stessa intensità di quella dell’area di riferimento (SMR, Rapporto Standardizzato di Mortalità). Oltre all’età e al sesso, nell’analisi è stata presa in considerazione la condizione socio-economica (DI, Indice di Deprivazione), la quale è in forte relazione con la mortalità e determina un aggiustamento delle stime di rischio, a ulteriore dimostrazione che i fattori sociali (scolarizzazione, disoccupazione, case non di proprietà, genitori soli con figli, superficie media delle abitazioni) giocano un ruolo rilevante tra i determinanti della salute (Tabelle 4 e 5). Nel calcolo totale, sono state incluse le sole aree in cui gli SMR, aggiustati per DI, sono statisticamente significativi, escludendo invece le aree di Napoli e Lambro-Olona-Seveso (quest’ultima comprendente il comune di Milano) in quanto, l’entità della popolazione che contengono rende sproporzionatamente grande il loro contributo in cifre assolute al calcolo della differenza tra decessi osservati e attesi.

La metodologia illustrata e i risultati ottenuti trovano sostegno nella letteratura scientifica che in più di un’occasione è coerente con le osservazioni dell’OMS. E’ il caso di Brindisi dove sono presenti poli chimici e petrolchimici: qui il nostro studio ha riscontrato una frequenza di patologie tumorali tra le cause di morte, in particolare tumore polmonare e del sistema linfoematopoietico, con un eccesso già rilevato dalla monografia dello IARC (Agenzia Internazionale per le Ricerche sul Cancro) che ha classificato le esposizioni professionali nel settore chimico e petrolchimico come possibilmente cancerogene.

L’esempio di Taranto, anch’esso coerente con le indicazioni riportate in letteratura, è considerevole per un ulteriore fattore di rischio. Nell’area nota per la massiccia esposizione all’amianto, sono stati riscontrati casi di tumore alla pleura in un numero di 4 volte superiore all’atteso negli uomini: è questo una delle poche circostanze in cui si può parlare di un rapporto specifico e diretto di causa effetto tra inquinante e patologia, in quanto il tumore alla pleura non esiste in natura se non in rarissimi casi. Inoltre siamo alla presenza di un’esposizione ambientale della popolazione generale, non in dipendenza dunque dall’ambiente di lavoro: la contaminazione dell’amianto è dovuta infatti anche ai residui sulle tute dei lavoratori, sui capelli, e alla dispersione nell’aria, tanto che anche le donne sono colpite da tumore alla pleura con una frequenza di 2,5 volte superiore all’atteso.

In conclusione, lo studio effettuato dall’OMS e commissionato dal Ministero dell’Ambiente, illustra una situazione preoccupante per quanto riguarda la mortalità rilevata nelle 15 aree a rischio esaminate. Se anche non è possibile sostenere con certezza scientifica che esiste un rapporto causa effetto tra esposizione ad inquinanti ambientali e conseguenze sanitarie, è pur vero che lo stato di salute delle popolazioni ivi residenti, misurato attraverso la mortalità per causa nel quinquennio 1990-94, appare risentire di effetti avversi nel loro insieme più marcati rispetto alle regioni di appartenenza segnalando dunque la presenza di esiti negativi legati a possibili esposizioni ambientali e professionali.

Come dunque uscire dalla stagione dei veleni che ha lasciato in eredità aree minerarie, centri siderurgici, complessi chimici e petrolchimici con un carico ad elevatissimo rischio di contaminazione? Legambiente mette in campo le sue proposte che prendono in parte spunto proprio da una delle nazioni che fanno del libero mercato la caratteristica principe della loro economia, dove però, a differenza dell'Italia, l'onere della riqualificazione ambientale e del recupero dei siti contaminati è totale carico dei privati.

Proprio partendo dall'esempio statunitense Legambiente propone infatti un adattamento italiano del Superfund, ossia dell'insieme di norme che fissano le responsabilità dell'imprese in caso di contaminazione ambientale, definiscono le procedure per la valutazione del rischio, individuano una lista di priorità nazionali degli interventi di bonifica. In particolare, il Superfund ha tre livelli di intervento che riveduti e corretti potrebbero trovare applicazione anche in Italia. Il primo, un fund trust, ossia un fondo di sicurezza finanziato dalla tassazione principalmente di prodotti chimici e petroliferi ma anche di altre sostanze inquinanti, vincolato alla bonifica dei cosiddetti siti orfani (per i quali non è più possibile riconoscere un proprietario responsabile). In secondo luogo, un'attività capillare di analisi sui siti inquinati che consenta di stabilire la loro pericolosità e l'urgenza della bonifica con la definizione appunto di una lista nazionale di priorità. In terzo luogo, l'obbligo inderogabile per le aziende che gestiscono impianti ancora in attività, una volta accertata l'eventuale pericolosità della produzione o delle scorie prodotte sia per l'ambiente che per la salute della popolazione, di disporre immediati interventi di bonifica.

Una traduzione italiana di questo modello è possibile, a detta di Legambiente, se la nostra normativa acquisisse proprio alcuni principi ispiratori del superfund che hanno reso possibili in 15 anni la bonifica completa (nel 50% dei casi) o parziale delle emergenze più gravi su tutto il territorio nazionale. Un esempio virtuoso, soprattutto se raffrontato alla realtà italiana dove colossi inquinanti hanno fatto, e purtroppo continuano a fare, danni in attesa di interventi di messa in sicurezza di cui si parla da anni ma che da anni tardano ad arrivare.

Prendendo, ad esempio, la necessità di un fondo di sicurezza pagato dai settori produttivi inquinanti, si potrebbero avviare anche da noi gli interventi su quella percentuale di siti italiani (discariche abusive, terreni contaminati, depositi di rifiuti tossici e nocivi) per i quali non è possibile riconoscere la responsabilità del danno, ma soprattutto pensando, ad esempio, di destinare una percentuale analoga a quanto oggi le aziende chimiche destinano alle politiche ambientali (ossia l'1,6% del fatturato pari a 1.611,2 miliardi di lire nel 2000) si avrebbe una disponibilità annuale superiore rispetto a quanto la finanziaria ha stanziato per le bonifiche (960miliardi) ma per un triennio. Nello stesso tempo, lo stesso fondo potrebbe contribuire ad un capillare accertamento e ad un censimento completo di tutte le aree a rischio. Una base fondamentale anche per la definizione di una lista di priorità e per stabilire temporalmente l'inizio e la fine degli interventi. Infine, ma sicuramente prioritaria, è anche l'idea che ha trovato spazio negli Usa ma che tarda a trovare applicazione da noi, che debbano essere i privati responsabili dell'inquinamento e non già questi con il concorso dello stato a pagare i danni provocati al territorio, all'ambiente, alle popolazioni.

Negli Stati Uniti, responsabile della gestione del Superfund, è l'Epa, l'agenzia per la protezione dell'ambiente, che si occupa di identificare e selezionare i siti da bonificare, e che nel 1985 ha segnalato 1500 siti. Siti che in 15 anni hanno visto conclusa l'opera di bonifica ben nel 50% dei casi (750 zone), mentre altri 600 (il 40%) sono prossimi al completamento delle operazioni di risanamento. Nello stesso periodo, sono stati pagati dalle aziende inquinanti per la bonifica di aree contaminate su cui insistono impianti ancora in attività, ben 32mila miliardi, mentre le attente indagini condotte hanno portato all'identificazione di 41mila siti a rischio. Ovvio che , pur con le dovute proporzioni tra il caso Italia e quello statunitense, il ritardo  e l'inadeguatezza normativa del nostro paese appare evidente.

Gli stanziamenti previsti dall'ultima legge finanziaria prevedono infatti fondi insufficienti ma comunque onerosi per le casse dello Stato (550 miliardi nel 2001, 150 nel 2002 e 200 nel 2003), poiché la responsabilità del danno dovrebbe ricadere sulle aziende.

L'attuazione del principio del "chi inquina paga", secondo Legambiente, dovrebbe insomma diventare, anche in Italia, uno dei vincoli cui far riferimento per avviare finalmente il piano delle bonifiche che dovrebbe interessare ben 15mila siti inquinati in Italia con l'impiego stabile di 5mila nuovi supertecnici. E' questa infatti, la stima approssimativa realizzata da Legambiente (manca peraltro sul tema un quadro di riferimento "istituzionale" preciso) tra aree identificate dal piano nazionale di bonifica redatto alla fine del 2001 (40 siti), i circa 6.000 serbatoi di carburante sparsi per il paese, i 4.500 siti identificati nelle regioni del Nord e in Toscana (tra discariche autorizzate, siti industriali e sversamenti) a diversa priorità di intervento, le circa 2.500 discariche abusive della criminalità organizzata nel Centro-Sud (il cui rischio reale è sconosciuto); le 1.000 o 2.000 zone potenzialmente inquinate dagli insediamenti industriali e artigianali del centro-sud; le tante discariche utilizzate o autorizzate prima della metà degli anni ’80 (ossia prima dell'approvazione del DPR 915/82, prima legge sui rifiuti in Italia) che in alcuni piani regionali sono già inserite e in generale presentano problemi di un certo rilievo per la bonifica. Pur se ogni paese classifica i siti contaminati in maniera diversa, o censendo (ed è il caso della Germania) anche un solo bidone di rifiuti nocivi come area a rischio o, ed è il caso di altri paesi, prendendo in considerazione solo le emergenze più gravi, c'è un numero che può dare l'idea della gravità del problema anche a livello europeo: secondo il programma nazionale di bonifica e ripristino ambientale dei siti inquinati, sono 150mila in Europa i siti sospetti di inquinamento e oltre 100 milioni gli ettari definiti contaminati (pari a un miliardo di metri cubi di terreni e rifiuti). Tornando in Italia invece, va anche sottolineato come nel 1995 la spesa calcolata per le bonifiche fosse pari a  30mila miliardi e dovesse interessare almeno 330mila ettari ossia un'estensione pari alle intere provincie di Milano e Napoli messe insieme. Del resto, se il piano delle bonifiche riuscisse finalmente a partire, la ricaduta su occupazione e professionalità tecniche sarebbe estremamente positiva: in un settore peraltro afflitto da una costante emorragia di posti di lavoro (meno 70mila operai impiegati in 20 anni), vecchie e nuove competenze sarebbero infatti richieste da tutte le attività di bonifica e ripristino con un'offerta di lavoro specializzato pari a oltre 5.000 posti, senza considerare l'indotto e le attività di contorno che potrebbero garantire altre migliaia di occupati.