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Organo Italiano (2)




Abbiamo già, e per più fiate, affrontato i temi riguardanti la "nazionalità" dell'organo nei diversi ambiti nazionali, sia a proposito del restauro degli organi antichi che riguardo alla presenza di organi "stranieri" sull'italico suolo.
Ma mentre il problema del restauro filologico pare sia approdato, a parte alcuni spinosi casi eccezionali che confermano la regola, ormai ad una definitiva e ragionevole soluzione, da qualche anno si presenta con sempre maggiore frequenza un dilemma che fino a qualche decennio fa sarebbe stato improponibile e riguardante la possibilità, in Italia, di costruire organi di fattura, ispirazione e/o derivazione straniera.
A dover giudicare dal sempre maggiore numero di strumenti "esteri" che popolano le nostre chiese si dovrebbe proprio concludere affermativamente. Ciononostante, se pensiamo che dai tempi della Riforma, che aveva assestato diversi brutti colpi alla tradizione organaria italiana, ci sono voluti quasi cento anni per riprendere pienamente una coscienza storica e filologica dell'organo italiano, vedere che questa recuperata tradizione viene sempre più spesso tradita per privilegiare tradizioni e scuole organarie che poco o nulla hanno a che spartire con gli Antegnati, i Serassi ed i Lingiardi può, sinceramente, dispiacere e dare origine a problemi e dispute.
Fondamentalmente, le motivazioni di coloro che preferiscono dotare una chiesa di un organo tedesco o francese sono due. C'è chi pone alla base della scelta l'ormai imperante globalizzazione, che comporta inevitabilmente l'abbattimento delle barriere non solo territoriali ed economiche, ma anche culturali tra i vari Paesi, e questa è principalmente una scelta dei committenti, cioè delle Fabbricerie o di chi deve sborsare i soldi, poichè, si sa, la liberalizzazione dei mercati -e quello degli organi non sfugge a questa regola- consente di poter scegliere le offerte più convenienti.
C'è poi una seconda motivazione, di carattere più spiccatamente musicale. In questo caso chi fa la differenza sono gli organisti e spesso succede che un organista che prediliga una scuola organistica specifica, nel caso della costruzione di un nuovo strumento cerchi di orientare la scelta su di un organo che meglio risponda alle sue esigenze di rispetto filologico della prassi esecutiva. E' d'altra parte più che comprensibile che un organista che prediliga la musica del Kantor di Lipsia tenda a procurarsi uno strumento più adatto all'esecuzione di questa musica piuttosto che un altro, ad esempio, più adatto all'esecuzione della musica romantica.
Diciamo subito che entrambe le motivazioni hanno una loro specifica valenza, non fosse altro che per il fatto che, alla fine, chi decide che tipo di organo acquistare sono proprio chi lo deve suonare e chi lo deve pagare. Quella che invece ci pare una motivazione abbastanza tirata per i capelli è quando si tira in ballo la rispondenza di un organo alle necessità liturgiche. Stanti le attuali norme in materia di liturgia, possiamo tranquillamente affermare che per le necessità di servizio liturgico il tipo di organo non fa alcuna differenza poichè per accompagnare un coro sono sufficienti tre registri di fondo e qualche fila di Ripieno; che siano italiani, francesi o tedeschi non importa.
A questo punto dobbiamo mettere sul piatto più che altro una questione di coerenza con una tradizione musicale ed organaria che affonda le sue radici nel passato remoto dell'organo e che solamente da pochi decenni ha ripreso a vivere di vita propria grazie all'opera di organisti, organari, studiosi, ricercatori ed appassionati che anno dopo anno stanno rivalutando le musiche e gli strumenti di un passato onusto di glorie e di splendori.
Sicuramente l'argomento farà discutere e, secondo le italiche usanze, schiere di sostenitori ed oppositori delle varie tesi si affronteranno senza esclusione di colpi, andando ad appesantire una situazione che non gioverà all'organo ed alla musica organistica italiana, già abbastanza provati dalla Riforma prima e da cento anni poi di un non meglio definito "organo eclettico", che invece di rivalorizzare le caratteristiche timbriche e foniche della tradizione italiana le hanno "congelate" in un limbo da cui solo da poco stanno faticosamente riemergendo.
Personalmente, ribadiremo qui posizioni e concetti già esposti, che possono essere opinabili ma che crediamo abbiano e mantengano una loro valenza. Secondo chi scrive, infatti, la tradizione dell'organo italiano va salvaguardata a tutti i costi e, cosa più importante, non va vista come un reperto da museo da mettere sotto vetro per i posteri, bensì deve essere portata avanti ed adeguatamente rivalorizzata, senza mai venire meno ai principi base su cui si fonda e che hanno fatto grande nei secoli la scuola organaria italiana. E, secondo noi, questo deve essere fatto sotto due specifici aspetti. Il primo è quello del restauro, che deve seguire regole filologiche ben precise, definite ed inderogabili poichè solo in questo modo non si perderanno le testimonianze del passato dell'organo italiano. Sotto questo punto di vista riteniamo anche che sia sempre preferibile, a meno di oggettiva impossibilità materiale, recuperare un organo antico, seppur di modesto valore, piuttosto che sostituirlo con uno strumento nuovo.
Il secondo aspetto riguarda gli organi nuovi. Secondo noi nulla vieta ad una parrocchia sprovvista di organo di dotarsi di uno strumento di costruzione, ispirazione o fattura inglese, francese o tedesca. Questo, secondo noi, deve però costituire l'eccezione che conferma la regola e non viceversa, poichè non è consentito a nessuno, foss'anche il più grande organista vivente, rinnegare e dimenticare, come se non fossero mai esistiti, duemila anni di cultura organaria ed organistica italiana.



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