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Il Supermarket della Musica




Nel numero di Aprile del mensile Amadeus, alla pagina 55, abbiamo potuto leggere un interessante articolo di Debora Mo dedicato al "Marketing Culturale" in cui l'autrice espone con dovizia di analisi e di riferimenti la situazione culturale italiana, con particolare riguardo alla musica, sposando in toto le nuove tesi che, dopo essersi affermate negli Stati Uniti ed in Inghilterra, stanno prendendo campo anche qui da noi e che vedono nel marketing l'unica soluzione per i mali della musica.
L'articolo parte dall'esempio della Tate Gallery di Londra, che da qualche tempo ha promosso l'idea di "fare un fischio ai ragazzi e a invitarli a bere qualcosa, ad ascoltare musica dal vivo e ad aggirarsi per le sue sale in libertà per un paio d'ore."
Ora, a noi non pare che questo esempio costituisca il miglior modo di "creare cultura". Abbiamo forti dubbi che quei ragazzi, bevuta la loro birra e strascicati i loro passi stanchi tra le sale in attesa dell'ora di apertura delle discoteche, escano dalla Tate Gallery più acculturati di quando vi erano entrati. Bisognerebbe, a questo punto, spiegare che una tale iniziativa -pensiamo noi- serva solo ai manager della Tate per aumentare il numero degli ingressi e degli incassi dimostrando in tal modo -falsamente- che il "marketing" è l'ideale per salvare la cultura e -realmente- per incentivare il loro già fin troppo lauto stipendio.
Più avanti nella trattazione, l'autrice si rammarica che in Italia il solo pronunciare la parola "marketing" nell'ambito della cultura faccia correre un brivido lungo la schiena tra gli artisti e gli operatori musicali e, ribadendo con forza che "laddove il marketing culturale si pratica da più tempo, la cultura non solo non è stata soffocata ma si è rivitalizzata" perchè "è il marketing ad essersi posto al servizio della cultura, non il contrario", sottolinea il fatto che, comunque, ormai non ci sono alternative, poichè nell'ambito di economie in crisi come la nostra i primi fondi a cadere sotto la scimitarra dei tagli sono proprio quelli destinati alla cultura.
Messa così l'argomentazione è impeccabile ed inconfutabile, ma parte da un presupposto sbagliato: che la cultura sia una merce. Ora, questo presupposto, che sintetizza l'antitesi della cultura stessa, è ormai stato messo in circolazione e viene inculcato nelle menti dei giovani che seguono i corsi di "economia e gestione dello spettacolo", i quali, imbottiti di teorie che li rendono schiavi di multinazionali, sponsor e quant'altra brutta gente non esita a servirsi della cultura per fare soldi, una volta muniti del loro "master", andranno a dettare legge e a spiegare come si fa spettacolo a gente che lo spettacolo e la musica la fanno davvero da un sacco di tempo per passione e non per soldi. La morale è che tra non molto per organizzare concerti non servirà conoscere la storia della musica od essere musicisti, ma solamente aver frequentato un corso di marketing.
Bene, noi diciamo e ripetiamo (poichè lo abbiamo già detto diverse volte in queste pagine) che rifiutiamo questo modo di concepire la cultura e, soprattutto, di gestirla.
Non serve a nulla attirare i giovani nella Tate Gallery mediante lo specchietto per le allodole di una bevuta gratis. Se questi giovani non hanno ricevuto un'educazione culturale di un certo livello, essi saranno solamente dei biglietti venduti in più ma il loro grado di cultura rimarrà sempre lo stesso. Per come la vediamo noi, chi sceglie di andare ad un concerto ci va per ascoltare quella musica, così come chi decide di andare alla Galleria d'Arte Moderna lo fa perchè gli piace l'arte moderna e non perchè nella sala accanto fanno un treperdue di T-shirt firmate da Guttuso. Insomma, fruitori di arte, musica e cultura a ragion veduta e non, come accade negli ipermercati, accalappiati con la filosofia dell'offerta scontata e conveniente.
Ma, ritornando al tema, il problema è che, in definitiva, si tratta esclusivamente di un fatto di educazione culturale. Purtroppo, oggi come oggi, il livello culturale di base della popolazione è abissalmente basso e la nostra classe dirigente fa di tutto per mantenerlo tale. Abbiamo già spiegato le motivazioni di questo, ma in definitiva si possono sintetizzare nel fatto che accompagnare un ragazzo già dalla scuola in un percorso di crescita culturale significa stimolarne le capacità di giudizio e discernimento, e ciò, in questo Mondo globalizzato dove tutti devono seguire ciecamente le indicazioni dei potenti di turno, non è bene.
In questo scenario, quindi, il considerare la cultura una merce e, come tale, poterne disporre a proprio piacimento utilizzando tutti i metodi di marketing, orientando i desideri dei "fruitori" e creando addirittura target predefiniti di "utenti della cultura" da manipolare come i clienti di un ipermercato per far loro "desiderare" un prodotto piuttosto che un altro, rappresenta solamente la più logica delle conseguenze.
Non ci stancheremo di ripeterlo. La cultura, di qualsiasi genere essa sia (arte, pittura, storia, musica, filosofia, ecc.), è la base su cui si fonda la coscienza collettiva di un popolo e di una nazione e rappresenta l'insieme di tante culture individuali che si confrontano e si rapportano giorno dopo giorno costruendo quella che generalmente si definisce "cultura condivisa" e che è, in fondo, il collante sociale che tiene insieme una società degna di questo nome. Per questo motivo la cultura, in ogni suo aspetto, dovrebbe essere al primo posto nella scala delle priorità sociali di uno Stato che veramente tale aspiri ed essere. La cultura dovrebbe essere una fondamentale ed una costante del percorso formativo dei giovani sia nell'ambito della scuola che al di fuori di essa e solo costruendo una cultura condivisa da tutti si potrà attuare quello che l'articolista di Amadeus auspica: che il marketing sia al servizio della Cultura (con la C maiuscola).
In mancanza di questo -e in Italia tutto questo manca- sarà la cultura (con la c minuscola) ad essere al servizio del marketing e di chi ci sta dietro, e non saranno certo i futuri managers laureati in economia e gestione dello spettacolo a cambiare le cose, con buona pace di tutti coloro che, come noi, nella Cultura (quella vera, non mercanteggiabile) ci credono davvero.



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