Gli scrittori e i poeti

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Mens sana in còrpore sano

           Che cosa hanno scritto? Come hanno immortalato fatti, sensazioni, dolori, gioie, piaceri,  personaggi e luoghi di Bafia e dintorni ?  

        Tutto questo ed altro in una pagina dedicata agli scrittori e ai poeti di Bafia o originari di Bafia.

Letteratura - Storia - Scienze ambientali - etc.

Indice :   Carmelo Aliberti  -  Giovanni Barresi   - Edoardo Bavastrelli  - Mico Bello  -  Antonino Bilardo  -  Antonio Borzì -  Giuseppe Burgio  -   Paolo Faranda  - Venera Fazio (Novità) -  Melo Freni  (Novità) - Filippo Imbesi  (Novità) -  Natale Mirabile  -  Santi Puglisi  -  Nino Quattrocchi - Francesco Piccolo.

      



 untitled-1.jpg (270447 byte)      Nota biografica e opere letterarie.

     Carmelo Aliberti risiede a  Bafia di Castroreale (Messina), dove è nato. Insegna materie letterarie e latino nel Liceo scientifico di Barcellona P.G. . Collabora a diversi giornali e riviste con articoli di critica letteraria ed è stato insignito del titolo di Benemerito della scuola, della cultura e dell'arte da parte del Presidente della Repubblica.  Ha pubblicato numerosi volumi di poesia, tra cui: Una spirale d'amore (1967); Una topografia (1968); Il giusto senso (1970); C'è una terra (1972); Teorema di poesia (1974); Il limbo e la vertigine (1980); Caro dolce poeta (1981; '91 - poemetto); Aiamotomea (1986); Nei luoghi del tempo (1987); Suavis filia dulcissima (1998); Le tue soavi sillabe (1999).    

                   

     Inoltre ha pubblicato vari libri di critica letteraria, tra cui Come leggere "Fontamara" di Ignazio Silone (1977-1989); Come leggere "La famiglia Ceraolo" di Melo Freni (1988); Guida alla lettura di Lucio Mastronardi (1986); Ignazio Silone (1990)Michele Prisco (1993); Poeti a Castroreale (1995); La questione meridionale in letteratura (1995); La narrativa di Michele Prisco (1997); Studi, testi e interviste (1997); Sul sentiero con ... Bartolo Cattafi (2000); Fulvio Tomizza (2001); Carlo Sgorlon (2002);  I Siciliani del secondo novecento (2003).  

             Ha curato per le scuole i racconti di prigionia Stalag 307 del senatore - scrittore Carmelo Santalco (1996).   

     Ha vinto numerosi premi, tra cui il "Rhegium Julii", il "Nuovo Friuli"Nuovo Friuli", il "Ciclope d'argento", "Brogliaccio d'amore"Ciclope d'argento", "Brogliaccio d'amore", e, per la critica letteraria, il Premio "Terza pagina - Domenico Cicciò"Terza pagina - Domenico Cicciò" e due volte il Premio della Presidenza del Consiglio. Il Circolo "Rhegium Julii" gli ha assegnato, nel 1998, il premio  "Una vita per la cultura". E' stato promotore, con la collaborazione di un vasto numero di poeti siciliani e calabresi, aderenti al Circolo Rhegium Julii, e del poeta editore Angelo Manuali, della "Carta poetica '94", che si va arricchendo del contributo ideale di molti poeti nazionali ed esteri.   E' Cultore di Letteratura Italiana presso l'Università di Messina.    Nell'estate 2001  ha vinto il "Medis Terrae". 

 

      Nel mese di agosto del 2003 a Terme Vigliatore, nel corso del premio di poesia intitolato  quest'anno al poeta in vernacolo Giovanni Foti, Carmelo Aliberti ha ricevuto  il  "Premio alla carriera".                              

       

     Da "la Città di Barcellona" del mese di novembre del 2002:   << La poesia del poeta Carmelo Aliberti varca i confini nazionali. E' recente l'uscita del volume "Il pianto del poeta" in traduzione in inglese con testo italiano a fronte, arricchito con numerose testimonianze critiche di docenti universitari, di scrittori e critici italiani, come Michele Prisco, Carlo Sgorlon, Giorgio Barberi Squarotti.  Inoltre, una selezione delle migliori poesie di Aliberti è stata pubblicata dalla "Tribuna Culturalà" di Bucarest, in Romania, nella sezione della poesia universale. L'antologia è accompagnata da una nota critica del prof. Ioan Cosma e dal curriculum del poeta >>. 

 

             A sinistra:  Il poeta Aliberti con Santo Mirabile -

 

 

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                 Della prima produzione poetica di Carmelo Aliberti si propone la poesia "C'è una terra" (tratta dal volume  "C'è una terra"  - Todariana Ed., Milano 1972) 

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"C'è una terra"

          I

     C'è una terra tra l'Etna e il mare/ un filo di case sull'unghia/  di monti che s'avventano scheggiati/sulla lastra del cielo

     Le mura sbarrano/ umide ciglia sulla strada/ Bobby sulla sabbia acciambellato/nel sonno abbaia il suo dolore/ per l'esilio del padrone-schiavo

     Il Canonico sul  trapezio del bastone/ nell'astuccio di stoffa militare/ addita ai passanti le ferite/ della guerra che non vogliono guarire/ ogni giorno sul corso fuma il tempo/ in un ruvido fornello d'ironia

      II

     Nel bar si gioca a carte si discute/ del salario dell'anemico lavoro/ si contano i giorni necessari/ per la mutua gli assegni familiari/ si spera nel cantiere forestale/ per la dote dei figli per la casa/ per le cambiali del televisore

     Nei petti tatuati dalle pene/ don Santo tenace giocatore/ rinserra la speranza della vincita/ per felpare sorsate di miseria/ - Fate come me tentate la schedina/ pregate i trapassati/ che vi dettino nel sogno la cinquina/ in questo paese lazzarone/ non c'è altro rimedio salutare -

    III

     Fuori il vento torce il noce depilato/ slitta sui cristalli impomatati/ tu ingolfato nella sedia/ uomo - rana con la lama dentro i denti/ varchi la palude tra mandibole/ spianate di caimani/ in agguato nei gomitoli di nebbia/ sciamata da cannoni di cartone/ puntati su cuoi parassiti

     Se guardi dietro i vetri innaffiati/ oltre i cespugli del pantano/larve agonizzano spettrali/ che contendono ai topi/ cartocci arrugginiti di escrementi/ se apri le braccia balza al cuor/ Valle del Belice dove/ i congiunti sotto le rovine/ chiamano un popolo che attende/ col tufo sul viso ancora l'alba

    IV 

    Ora ruoti/ attorno alla bilancia dell'ingiusto/ cerchi Cerbero nello specchio trovi/ il barista gigante con gli occhiali/ il caffè singhiozza nella tazza/ ti tuffi nel pozzo delle tasche/ sei della razza che vive l'ergastolo/ con poche lire libero/ di spaccarti l'unghia pneumatica/ sulle azzurre pareti della cella/ se hai il coraggio di resistere o partire

     V 

     Anche tuo padre partigiano/ stritolato dal neo - cannibalismo - capitale/ partì per nuove guerre uomo-rana

     Ora che la guerriglia crepita/ attorno alla catena di montaggio/ c'è chi dice che egli è già tornato

     VI 

     Nella pupilla del televisore/ Mike accartoccia ansie preziose/ su obiettivi di cronaca e denaro/ nella giungla nel deserto il mitra brucia

     Dal sottosuolo dell'esistenza tu coi versi ancora incidi/ negative nel rotocalco della vita/ e attendi/ il boato di una nuova libertà

 



         Giovanni Barresi, nato a Messina il 01.12.1962, è figlio di Antonino Barresi (nato a Bafia il 30.03.1928), figlio di Mariano Barresi. Giovanni Barresi è padre di Antonio e di Francesco, nati a Messina rispettivamente il 12.08.1991 e il 15.02.94. Giovanni Barresi ha un fratello che si chiama Mario nato a Messina il 29.01.1959, gli sono figli Emi e Antonio, rispettivamente di dieci e quattro anni.

        Giovanni è laureato in odontoiatria e protesi dentaria con il massimo dei voti ed esercita brillantemente la professione. E' anche laureato in medicina e chirurgia, con specializzazione in chirurgia e medicina generale. Dalle proprie esperienze mediche e da una viva passione per l'arte e la letteratura nascono le pagine "Storie d'armi e d'amore", dove convergono anche gli interessi culturali per la storia, le tradizioni popolari, l'educazione classica e l'amore per la natura. Suoi scritti appaiono periodicamente su giornali, riviste e antologie letterarie come "Pagine da Cefalù" (Ilapalma, 2004). E' anche autore di alcuni testi teatrali.

        Di Giovanni Barresi pubblichiamo su queste pagine web "L'ultima partita", il racconto presente nel libro "Storie d'armi e d'amore", che si svolge a Bafia, premiato in due concorsi letterari, di cui uno internazionale nel 2003. 

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L’ultima partita

    La strada che da Barcellona porta a Terme Vigliatore, subito prima della strettoia del ponte Termini, presenta un incrocio a monte, da dove ci si reca a Castroreale e a Bafia passando per Protonotaro. 

    Augusto era titolare di Guardia Medica a Novara di Sicilia, per cui dalle sedici alle venti volte al mese era costretto a passare da quel ponte, e ogni qualvolta vi transitava il suo pensiero correva al nonno Paolo, sepolto nel cimitero di Bafia da circa venticinque anni. 

    Augusto, quarantenne, non andava a far visita al nonno da quando era ragazzo, ma ora, da che aveva assunto la titolarità , il passare da quell'incrocio lo riempiva di malinconia. Era come se il nonno lo chiamasse,gli chiedesse di far qualcosa che solo Augusto potesse fare. Ed Augusto ogni volta si diceva che doveva andare a Bafia per compiere quanto voleva nonno Paolo,così una mattina,tornando da una notte di guardia, arrivato all'incrocio, anziché tirare dritto come sempre, mise la freccia e iniziò la salita verso il paese degli antenati. Tutto, la strada, le curve, l'erba lungo i cigli, gli ulivi contorti, ogni sasso gli sembrava familiare.  

    Augusto respirò quell'aria di campagna , un odore misto di pecore e fieno gli innescò un processo chimico nei neuroni del centro della memoria, per cui si rivide bambino ruzzolare dietro una palla assieme ai suoi cugini, con le gambette magre, i pantaloncini color coloniale e i calzini bianchi, con l'elastico allentato. 

    "Attenti, c'è una torta di vacca, senti com'è profumata?", "le vedo, sono li sotto, le mucche di "mpari Ninu". 

    A mezzogiorno finiva il gioco, s'udiva il lamento del cessalavori e il campanile che voleva imporsi sulla sirena operaia, ché Don Giuseppe vegliava affinché Mariano, segretario di sezione del P.C.I. di Bafia, facesse meno proseliti della parrocchia. 

    L'automobile effettuò l'ultima curva ed Augusto si trovò senza accorgersene di fronte alle scale in pietra che conducevano alla casa dei nonni. 

    Quanti pranzi domenicali in quella casa... Augusto sentiva gli odori della cucina, la pasta margherita con il sugo e la ricotta , l'arrosto di vitello macellato da nonno Paolo, i dolci preparati da nonna Caterina, che con l'aiuto della poderosa zia Lina, sfornava pagnotte di pane , eccezionale ,da mangiare caldo, con l'olio, il sale e il pepe. E la mostarda?quella fatta con la cenere che Augusto assaggiava dopo averla annusata, ché gli piaceva tanto sia il sapore che l'odore;sentiva ancora gli urli della vecchietta:"non la mangiare,non la respirare ché ti fa male", ed il nonno rideva e diceva:"lascialo stare,tanto la cenere è senza microbi". Era la cenere dei bracieri, quelli attorno cui si riunivano le sere di autunno, quando al primo freddo si spillava la botte. 

    “Ohè, ma tu sei Augusto"... Era Franco, il cugino più piccolo, che continuava a tirare avanti l'azienda agricola dei nonni, nonostante una laurea in Economia e Commercio. 

    "Franco, ciao, che piacere che ho nel rivederti" . 

    I due si abbracciarono e si parlarono come se fosse passato un sol giorno. 

    "Porca miseria Augusto, chi ti porta quassù ?"

    " Sai Franco, è il nonno, sento che mi ha chiamato, devo vederlo." Augusto sentiva la voce del nonno molto più chiara, sentiva il bisogno di fare quella cosa per la quale veniva chiamato. 

    Franco accettò di buon grado di accompagnare il cugino al cimitero. Per giungervi occorreva percorrere un pezzo di strada che si inerpicava tra uliveti e noccioleti, ma a dispetto di quello che pensava Augusto,più si avvicinavano al cimitero, meno forte era la voce, tanto che arrivati in cospetto della tomba era appena percettibile, ma la cosa ancora più strana era che man mano tornavano indietro, Augusto udiva il nonno più distintamente, e tale voce divenne chiarissima appena appoggiò il piede sullo scalone di pietra della casa padronale. 

    La casa era ancora abitata dalla zia Lina. Quando Augusto mise piede dentro l'uscio,vide in fondo la scala con i gradini di legno stretti, che tanto gli faceva paura quand'era piccolo, eppure la voce proveniva da sopra,salì, e ,come orientato da una forza oscura, si diresse verso una stanza che celava un ammasso di ciarpame,mobili, quadri,libri ,cappelli, quanto di meglio non avrebbe desiderato un rigattiere ; Augusto si diresse verso i libri, la sua passione non segreta. L'idea che le pagine celassero il sapere dell'uomo, passioni, turbamenti, ore trascorse ad elaborare pensieri,suoni,colori,cifre, lo affascinava, ne faceva un irriducibile, melanconico lettore, tutto l'opposto del suo sanguigno carattere mediterraneo. 

    La voce era sempre presente, ma si faceva meno insistente, più pacata, sembrava essere contenta che il nipote fosse lì a leggere quei libri. 

    D'un tratto l'attenzione di Augusto si orientò verso una pila di quaderni neri. Pensò che dovevano essere i quaderni di scuola degli zii, o magari dei suoi genitori. C'erano appunti, tracciati con il pennino, su fogli di carta ingiallita tedesca, con stampati i caratteri gotici che usavano negli anni '30 e '40. In un quaderno a quadretti, listato di rosso, trovò degli schemi di gioco degli scacchi. Si ricordava vagamente il nonno giocare con un suo amico interminabili partite. 

    Evidentemente Paolo studiava gli schemi e si preparava per le sfide. Su ogni foglio c'era la data, l'ultima partita s'interrompeva giusto il giorno precedente la sua morte. Augusto ne ricordava la data perché il padre lo aveva abituato a pregare quel giorno ogni anniversario. Lo aveva fatto per diversi anni, poi, non sapeva né come né perché, non aveva rinnovato quella tradizione, ma il giorno gli era rimasto impresso nella memoria. 

    Augusto continuò a salire a Bafia per tutta l'estate. Zia Lina ne era contenta. Ad Augusto piaceva parlare con la zia ché gli raccontava tante cose sui nonni, così scoprì che don Mario, l'avversario a scacchi di Paolo, era ancora vivo, centenario, ma in buona salute . Augusto andò a trovarlo e quegli fu felice di parlargli del nonno:- "E' vero, giocavamo spesso, ma sai, io a scacchi sono un vero campione. Tuo nonno era il più bravo del paese, ma con me perdeva sempre. Scommettevamo un bicchiere di vino, sai, era solo per il piacere di giocare, pensa, giocammo pure fino al giorno prima della sua morte". 

    Augusto colse la palla al balzo per parlargli dell'ultima partita e don Mario si fece per un attimo bianco in faccia, poi si riprese e continuò:- "A tuo nonno piaceva giocare con il nero, ovviamente si alternava, ma ricordo che in quell'ultima partita giocò con il nero, non arrivammo a finirla purtroppo....". Augusto chiese al vecchio se sapesse che Paolo si studiava le partite a casa, nel quaderno, ma don Mario rispose che non lo sapeva, il nonno era uno studioso, prendeva un sacco di appunti, osservava i fenomeni fisici, certo, avrebbe anche potuto farlo, e per un altro attimo la pelle grigia del suo volto si schiarì ancora. Augusto si commiatò, ma si sentiva turbato. 

    Una sera zia Lina preparò la schiacciata. A cena c'erano i figli della zia con le loro mogli e i nipoti. C'era pure Franco con la sua fidanzata. L'aveva conosciuta a Messina all'università, si erano laureati tutti e due in Economia e Commercio, ma Franco non ne voleva sapere di sposarsi. Eleonora era una donna bellissima ed Augusto si chiedeva come potesse stare con Franco, in quel paese, senza che il cugino si decidesse a sposarla. A sentirla parlare non era nemmeno stupida, tutt'altro, era intelligente ed affascinante. Non era alta, ma aveva un corpo modellato, da non sfigurare in una passerella di moda. I capelli erano di un biondo rossiccio che ad Augusto ricordavano quelli di una bambina ; ma sì, certo, Eleonora era quella bambina con cui giocava fanciullo a Bafia, lei gli diceva sempre "antipatico", e lui le faceva un sacco di scherzi, gli piaceva vederla ridere, e in quel momento Augusto si rese conto che da piccolo era innamorato di Eleonora. Capì che la donna restava a Bafia perché qualcosa la legava lì, qualcosa che non era Franco. 

    Augusto ed Eleonora si incontrarono di nuovo, e lui le rivelò il perché saliva a Bafia. La voce del nonno lo chiamava per compiere qualcosa, ma ogni qualvolta andava al cimitero per chiedergli cosa dovesse fare, la voce non si sentiva quasi più. Eleonora era la figlia del "casciamuttaro", l'impresario di pompe funebri e quando Augusto le svelò il suo segreto, lei si sentì come liberata. 

    "Augusto, -gli disse- io so perché non senti la voce al cimitero, mio padre in punto di morte mi svelò che aveva un peso, tuo nonno gli aveva chiesto di cremarlo e di spandere le ceneri al vento, nella campagna, perché diceva che i suoi atomi dovevano continuare a partecipare al ciclo della natura. Mio padre lo cremò, ma non se la senti di spargere le ceneri. Le conservò in un' urna, che non ebbe il coraggio di dare a tua nonna. Quell'urna ce l'ho io, sono dieci anni che tento di darla a Franco, ma sento la voce di mio padre che mi dice di non farlo. Ora so perché, dovevo darla a te." 

    Quando Augusto ebbe l'urna nelle mani, queste gli tremavano, gli occhi erano rossi e la voce del nonno era tale e quale lo avesse di fronte in persona. Augusto aprì l'urna con la chiave che gli porse Eleonora, dentro c'era una fiala di cenere e un foglio imbrunito dal tempo. Lo lesse : " I nostri corpi sono un insieme di materia ed energia. Ho fatto un sogno ad occhi aperti, ho sognato di tornare indietro, fino a diventare piccino, di nuovo dentro la pancia di mia madre, e poi piccolo, ancora più piccolo, diviso tra l'uovo materno e il seme di mio padre, e poi ancora più piccolo, materia trasportata dal sangue, e ancora più piccolo, molecola digerita dall'intestino, e quindi un atomo, che faceva parte della carne di pecora mangiata a cena dai miei genitori, e quindi quest'atomo, che faceva parte dell'erba concimata dalla sterco di una vacca, e quest'atomo proveniente dall'aria respirata dall'animale, un atomo di ossigeno prodotto dalle foglie di un castagno. Cenere fummo e cenere ritorneremo. Cenere voglio ritornare e partecipare ancora al ciclo della natura !!" Allora Augusto capì tutto. 

    Una mattina, tornando da Novara, portò con sé il quadernetto nero listato di rosso con tracciato lo schema dell'ultima partita. Si recò da don Mario e lo sfidò chiedendogli di continuare da dove erano rimasti con il nonno 25 anni prima. 

    Il vecchio annuì e disse : " Me lo aspettavo, sapevo che prima o poi sarebbe accaduto." Chiese alla nipote di portare un bicchiere di vino. "E' la ricompensa del vincitore, lo so, quella partita tuo nonno Paolo finalmente l'avrebbe vinta, poveraccio, non ebbe il piacere di dirmi <<scacco matto>>, che la morte se lo colse, ma è giusto che tu continui la partita". 

    Augusto in tre mosse liquidò la faccenda,poi estrasse dalla tasca del giubbotto la fiala con la cenere del nonno, l'aprì, l'aspirò, sfiorò appena la cenere con il polpastrello dell'indice, lo intinse quindi nel bicchiere di vino, che poi mandò giù in un sol fiato.

“Avevi ragione nonno, questa cosa la potevo fare solo io."



     Edoardo Bavastrelli è nato a Barcellona Pozzo di Gotto nel 1951. Laureato in Giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Messina con una tesi in Diritto Internazionale sull'istituto della rappresaglia armata nei paesi mediorientali, è giornalista pubblicista. 

    Ha collaborato al quotidiano di Messina il  "Corriere del Mezzogiorno", non più in edicola da ottobre del 2001, e con La Città di Barcellona. Attualmente collabora con Artemisia News e con Comunità.

    Ha pubblicato quattro volumi di poesia: "Pensieri, parole ... 20 Studi poetici" (Messina, 1975); "Tra la gente aggrappati"  (Castelvetrano, 1982);  "Tre poesie inedite"   (Barcellona, 1984); "Microcosmi"  (Foggia,1996).

     Sue poesie sono inserite in alcune antologie di poesia del Novecento italiano.

     Ha esordito nella narrativa con il racconto lungo "Cose di tonnara" (Milazzo, 1989) e nel 1999 ha edito, per Legambiente Barcellona, la favola ecologica in forma di "cialoma" "In signo thynni".

     Ha curato, inoltre, "La tua città" guida ai beni culturali noti e meno noti di Barcellona Pozzo di Gotto (Barcellona, 1997), che ha riscosso notevole successo tra gli ambienti culturali e scolastici del comprensorio.

     Di Bavastrelli si riporta una poesia scritta a Pietro Pallio il  29 novembre del 1998  e dedicata  "Ai lupi dell’Aquila  Bafia".

 

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Partita    a  novembre     

     Il  rettangolo, uno specchio / di cristallo rilucente / riflette nebbia, / trepidazioni,  ansie, / errori e gioie. / E lo “sport”, / eterno sfogo domenicale, / si perpetua / su quel rettangolo / di periferia.  

 



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Reminiscenze

    All’alba / il vento spense / ogni sogno. / Intorno / casolari / coperti di erbe, / felce alta / fino a coprire / l’intero corpo. / Sul picco di roccia /un corvo solitario / spiccò il volo / fra le nubi in tempesta. / E noi incamminati / sul sentiero di pietre, / duro dopo la fatica / di lavoro malpagato. / Il mulo carico di masserizie / sembrava precipitare / nel dirupo. / Alla voce del padrone / proseguiva passo dopo passo.

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Al mio paese

    Le ginestre tagliate /a fasci da ardere, / cintati da corda a boccola,/ mentre la nebbia ci nascondeva, / rendendoci quasi invisibili, / e la grandine ci inseguiva / ad ogni passo: / i denti battevano / per il freddo.

   



                Grazie ad una vita di studi e di ricerche di uno dei suoi figli più insigni, Antonino Bilardo, Castroreale, oggi, può vantare una lunga serie di  pubblicazioni indispensabili per  conoscere  il suo vasto patrimonio architettonico, artistico e culturale. 

                Antonino Bilardo, nato e residente in Castroreale, ha conseguito la Laurea in Lettere classiche presso la Facoltà di Lettere dell'Università di Messina nell'anno accademico 1961-'62, discutendo una tesi su "Opere ed oggetti d'Arte di Castroreale" (relatore chiarissimo prof. Alessandro Marabottini). Già docente di lettere latine e greche nei Licei, è stato direttore onorario del Museo Civico e dell'Archivio Storico Comunale di Castroreale dal 26 maggio 1989 (deliberazione del Consiglio Comunale n. 37) al 13 dicembre 2001 (dimissioni). Si occupa da molti anni di problemi di arte siciliana, tradizioni religiose e iconografia sacra ed ha pubblicato su tali argomenti saggi in "Commentari", "Rassegna d'Arte", "Archivio Storico Messinese", "Santini et similia", "Kalos", "Paleokastro", e negli Atti di vari convegni culturali. Ha collaborato a varie pubblicazioni, tra le quali "Museo Italia", "Musei della Sicilia", "Feste, fiere e mercati", "Dizionario degli artisti siciliani" di L. Sarullo, vol. IV, "Scritti in onore di Alessandro Marabottini".

                 Suoi lavori monografici sono:  "Taccuino d'Arte Messinese", Messina, 1967; "Castroreale: cenni storici sul patrimonio culturale", Messina, 1983;  "Il Museo Civico di Castroreale", Messina, s.d. 1985;  "Il culto dell'Assunta e del "Cristo Lungo" a Castroreale", Messina, 1986;  "Scultura, pittura, arti decorative a Naso dal XV al XIX secolo", S. Agata Militello, 1990;  "I segni della devozione a S. Antonio da Padova in Castroreale", Messina, 1995;  "Giuseppe, l'artigiano di Nazaret (esempi di iconografia colta e popolare in Sicilia)", Spadafora, 1996;  "Iconografia del Crocefisso e dell'Assunta fra Arte e Devozione (Santini in mostra)", Spadafora, 1997.

                 Ha curato inoltre le seguenti pubblicazioni: "Quaderni del Museo Civico di Castroreale, n. 1", Messina, 1995;  "Quaderni del Museo Civico di Castroreale, n. 2", Spadafora, 1997;  Il volume "Il mosaico della memoria. Pittura e scultura a Barcellona tra Quattrocento e Seicento", Messina, 1998;  Le piccole guide  "Castroreale" (1997 e ristampa 2000) e  "Milazzo" (1999) per le Edizioni Ariete di Palermo.

                  Dalla  "Giuliana delle chiese di Castroreale e  sue borgate del 1731 di Cutrupia Giovanni" (Introduzione, trascrizione e note di Antonino Bilardo in  Quaderni del Museo Civico di Castroreale - N. 2)  si riporta la descrizione della  "Chiesa vecchia" di Bafia:  " Chiesa sacramentale e filiale di S. Carlo del casale di Bafia. Tiene questa chiesa sette altari, tre nel frontespizio: nel maggiore vi è la custodia del SS.mo Sacramento, col quatro di S. Carlo Borromeo, e nell’altri dui altari in uno vi è la statua di legno di S. Michel’Arcangelo, e nell’altro la Beatissima Vergine del Rosario. E l’altri quattro altari sono nella nave: in uno vi è la Beatissima Vergine del Bosco con l’Anime del Purgatorio, in un altro l’immagine del SS.mo Crocefisso, in un altro la Beatissima Vergine della Itria, e nell’altro il quatro di S. Barbara, con due porte, sacristia e casa del cappellano (nota n. 127).   In detta chiesa vi sono tenuissimi legati, et altri tenui legati vennero aggregati doppo  che non vi fu abitazione nel casale di S. Micaele (128), quali legati non pigliano la somma d’onze cinque, e da quell’abitanti si fa contributione di frumento e funicello, e si mantiene il cappellano con la messa cotidiana, et il sotto cappellano per le feste. Il cappellano è D. Giovanni Fugazzotto, il sotto cappellano è D. Antonino Sofia. Il mobile, stabile, et altro si vede al fol. (pag. 160) del libro dell’Inventario, e la chiesa l’amministra per maggior accerto la Signora Baronessa di Muleti, mentre il casale e la chiesa stan situate in un suo feudo”.

 



             "Botanico (Castroreale, Messina 1852 - Lucca, 1921). Professore dapprima all'Istituto forestale di Vallombrosa (1869-1880), poi all'Università di Messina e finalmente a quella di Palermo (dal 1893 in poi), fondò il Giardino coloniale annesso all'Orto Botanico Panormitano. Avendo studiato con il Delpino ne adotto l'indirizzo nelle sue indagini scientifiche e, pur coltivando le varie parti della botanica, predilesse l'algologia e la biologia generale vegetale con indirizzo ecologico. La sua opera "Studi algologici" (due volumi - 1983-'95), venne onorata dal Premio internazionale per gli studi crittogamici dell'Istituto di Francia (Fondazione Desmanzières). Tra le altre sue pubblicazioni ricordiamo: "Vita, forme, evoluzione del regno vegetale"  (1915) e "Problemi di filosofia botanica" (1920)." (Enciclopedia Utet - Torino)

 



          (Estratto dal volume Poeti Italiani - a cura di Flavia Leprè - Peloro Editrice 1987)

         Da "Dissonanze", una raccolta di poesie di Giuseppe Burgio, si propone:

 

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"Bafia"

    Timida e schiva gemma del Peloro, / pudicamente ascosa, / tra gelosi clivi / e verdeggianti conche, / simile appari a pensator sagace, / che il profano rumor fugge sdegnoso; / né l'ignoranza altrui / ti punge in cuor, cui superbia e onor paiono larve; / donde l'incanto tuo vergine e pio, / che di  remoti splendor / per certo luce; / la natura ti dié regal diadema / di verzura e di ciel aureolato: / un'aura gentil,  / acqua di rocca, / color cangianti d'armonie celesti, / leggiadre forme / di modestia cinte, / cui esotici odor veston vezzose; / ma più ancor ti dona / la pietosa quiete, / di supreme alchimie nobil retaggio, / che tutt'intorno soavemente effondi, distillando nei cuor / filtri d'amore.

 



Biografia e bibliografia

       Paolo Faranda è nato ad Agrigento il  9 marzo del 1943. Ha studiato a Messina presso i Salesiani e presso i Gesuiti dove ha conseguito la maturità scientifica. Trasferitosi negli anni sessanta a Genova, dove attualmente vive, si è laureato in ingegneria elettrotecnica. Ha lavorato presso varie società multinazionali, ha insegnato elettrotecnica ed impianti elettrici fino al 1998 ed attualmente è dipendente dell'Ufficio Tecnico della Sede Regionale INPS della Liguria. Soggiorna spesso a Castroreale, paese di origine della sua famiglia, dove trascorre parte delle sue vacanze nella sua vecchia cinquecentesca casa.

      La prima volta, all'età di circa otto anni, notò la traccia di una linea con a fianco dei numeri tracciati sul pavimento della Chiesa Madre di Castroreale e, mosso dalla curiosità, chiese a suo padre cosa fossero. Ma né il padre né altri gli seppero dare una risposta.  Solo qualche anno fa, dopo quasi mezzo secolo, decise di saperne di più e incominciò ad occuparsi di gnomonica. 

      Il frutto delle sue ricerche è il libro "Le ore antiche di Castroreale"  che non ha e non vuole avere - dice con molta modestia l'autore - nessuna pretesa di rigore scientifico, ma solo quella di aver recuperato alla memoria l'opera di un illustre castrense e, spera, quella di far crescere nei giovani, con i quali ha trascorso molti anni della sua vita, l'interesse per la storia della propria terra e per le scienze  in generale.  



Novità

Biografia e bibliografia

        "Venera Fazio  ( vp@aicw.ca ) nacque a Bafia in Sicilia, ed emigrò in Canada quando era bambina. Ha conseguito un Master Degree in   Social Work e per 15 anni ha lavorato nel campo della Salute Mentale.

        È co-curatrice dell’antologia Sweet Lemons: Writing with a Sicilian accent  (Dolci Limoni: Scritti con un accento siciliano) (Legas, 2004).

        I suoi scritti sono stati letti alla radio, pubblicati nelle antologie The Many Faces of Women (Le molte facce delle donne) (River City Press, 2001) and The Dynamics of Cultural Exchange (Le dinamiche dello  scambio culturale) (Cusimano, 2002) e in diverse riviste letterarie in Canada e in USA incluse Accenti, Whetstone, The Nashwaak Review, Pyramid Magazine, and VIA-Voices in Italian Americana.

        È membro attivo dell’Associazione degli Scrittori Italocanadesi e attualmente è volontaria vice-presidente. Venera vive a Bright’s Grove in Ontario con il marito e due figli". 

(Fonte: - www.bibliosofia.net/CANADA.html -

  www.bibliosofia.net/files/S.L.___Fazio___Introduction_and_The_Cotor.htm)

 

 

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            Di Venera Fazio, di seguito, riportiamo i tre seguenti scritti: 

<<"Introduzione" e "Il colore dell’amore di Maria" di Venera Fazio è stato pubblicato in  Sweet Lemons: Writings with a Sicilian Accent (Dolci Limoni: Scritti con un accento siciliano). Mineola, NY, Ottawa: Legas, 2004, pp. 15-18 e  236-239, ed è qui riprodotto col suo CV per gentile concessione>> (Fonte: - www.bibliosofia.net/CANADA.html)

 

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Novità

"Dolci Limoni: scritti con un accento siciliano"

"Introduzione" di Venera Fazio

( Traduzione di Egidio Marchese )

            "Sweet Lemons: Writings with a Sicilian Accent (Dolci Limoni: Scritti con un accento siciliano) è una celebrazione degli scrittori, della cultura e le esperienze d’immigrazione della Sicilia. L’idea di un’antologia è nata da una conversazione che ho avuto con un’altra scrittrice siciliana, Francesca Schembri, alla conferenza dell’Associazione degli Scrittori Italocanadesi del 2000 a Montreal. Durante il pranzo d’intervallo, Francesca ed io ci siamo scambiati i nomi degli autori siciliani del Nord America da noi preferiti. Fra tutt’e due siamo riuscite a menzionarne solo una dozzina circa. Abbiamo protestato: “La maggioranza degli immigrati italiani è costituita da siciliani, eppure sembra che non abbiano la rappresentanza che spetta loro nella letteratura italiana del Nord America.” Allora siamo venute fuori simultaneamente con la stessa idea: “Occorre un’antologia.”

Nei mesi successivi alla conferenza, fui dominata dall’idea di comporre un’antologia. Più ci pensavo e più mi convincevo che c’era il bisogno di mettere in mostra gli scrittori siciliani del Nord America. Contestavo la solita rappresentazione negativa dei siciliani: l’antologia sarebbe stata il mezzo perfetto per mettere in luce i loro tratti positivi. Di solito i siciliani vengono presentati generalmente con la tinta di mafiosi. Proprio mentre scrivevo questa introduzione, menzionai il mio luogo di nascita a un conoscente. Per tutta risposta, i suoi occhi si oscurarono con disapprovazione e poi mormorò la parola “mafia.” D’altra parte, l’esistenza della mafia non si può negare né si può ignorare. In questa antologia è menzionata brevemente nel racconto “Everlasting Life” (“La vita eterna”) di Caterina Edwards e nel saggio “A Stone’s Throw Away” (“A un tiro di sasso distante”).

In Italia e nel Nordamerica molti, inclusi gli italiani del continente, considerano i siciliani inferiori e retrogradi. Nei primi anni della loro immigrazione gli italiani di ogni regione erano discriminati, ma i siciliani hanno sofferto di un doppio stigma: erano guardati dall’alto in basso dai loro stessi compatrioti e dalla comunità in generale.

Mentre contemplavo l’idea di comporre un’antologia, la passione per il mio retaggio s’intensificò. Discendo da una famiglia che ha sempre stimato la propria eredità siciliana. Emigrammo da Bafia, un piccolo villaggio rintanato come il nido di un uccello nei Monti Peloritani, non lontano da Messina. Avevo cinque anni quando ci stabilimmo in Canada. Non ci volle molto per me adattarmi alla nuova vita. Invece mio padre, i suoi fratelli e le sue sorelle ebbero difficoltà ad accettare la nuova cultura. Potevano risiedere col corpo a Dundas in Ontario, ma il loro cuore apparteneva alla Sicilia. “La vita al paese...” era il loro principale soggetto di conversazione. Io li ascoltavo estasiata, mentre ricordavano i loro parenti lasciati indietro e mentre ripetevano racconti, storie, favole e leggende. La loro nostalgia e la loro devozione divennero anche le mie.

            Cominciai a raccogliere manoscritti nella primavera del 2000. In seguito si unì a me Delia De Santis, una scrittrice di talento, curatrice di testi e mia buona amica. Ci divertivamo a lavorare insieme e ci sostenevamo a vicenda nel difficile compito di organizzare il materiale del libro.

            Questa antologia è la prima del suo genere. Vi hanno contribuito più di cinquanta scrittori di origine siciliana del Nord America. Due terzi cittadini degli Stati Uniti e un terzo residenti in Canada. Gli autori  variano, da scrittori inediti a scrittori ben noti, vincitori di premi. La maggior parte dei collaboratori sono scrittori affermati. Sono inclusi tradotti alcuni dei più famosi autori della Sicilia, come Salvatore Quasimodo, Bartolo Cattafi, Giuseppe Pitrè e Fortunato Pasqualino. Un piccolo numero di scrittori non siciliani sono inclusi per il contenuto siciliano dei loro scritti.

            Per mettere in luce la diversità di talenti e la complessità della cultura siciliana e le esperienze degli immigrati, Delia ed io abbiamo incluso una varietà di generi letterari: racconti, poesie, saggi, biografie, leggende, racconti popolari, commedie, estratti di libri e anche il testo di un film (“The Bagage” di Susan Caperna Lloud’s). Gran parte degli scritti, direttamente o indirettamente, sono pertinenti alla Sicilia o all’“essere siciliano.” Il libro contiene pure poesie di diversi soggetti, semplicemente perché l’autore è siciliano. La squisita poesia di Salvatore Ala “The Chinese Masters” (“I maestri cinesi”), per esempio,  è un tributo agli antichi poeti della Cina.

Un’antologia probabilmente non potrà mai rendere giustizia ai molteplici aspetti della storia della Sicilia, o delle esperienze migratorie dei siciliani. Riguardo alla Sicilia abbiamo messo in rilievo feste religiose, storie e racconti popolari tante volte narrati, leggende e miti. La tenera storia d’amore di Carmen Ziolkowski, “The Gift” (“Il regalo”) offre una magica spiegazione della celebrazione del Festival del Mandorlo. Il popolare briccone Giufà appare in una di queste storie. C’è pure un passo della commovente biografia di Fortunato Pasqualino, The Little Jesus of Sicily (Il piccolo Gesù della Sicilia), in cui l’autore racconta i fatti di una speciale giornata della festa di San Giuseppe, quando fu scelto a impersonare il bambino Gesù.

            Avremmo desiderato ricevere più contributi di carattere storico, ma nel libro ne abbiamo solo due: un divertente racconto di Eugenio Mirabelli, “The First Time Ava Saw Angelo” (“La prima volta che Ada vive Angelo”), che si svolge ai tempi della prima battaglia di Garibaldi per l’unificazione della Sicilia al resto dell’Italia, e l’altro ch’è un memorabile brano “This Moment of Departure” (“Il momento della partenza”) di Gianna Petrarca, che ha luogo durante la seconda guerra mondiale.

Molti collaboratori hanno scritto del loro viaggio in Sicilia. Licia Canton, nel suo affascinante racconto “Almond Wine and Fertility” (“Vino di mandorla e fertilità”), ci conduce al famoso Bar Turrisi a Castelmola, dove l’ambiente del bar, congiunto al vino di mandorla sorseggiato nel locale, lancia un inaspettato incantesimo su di lei e suo marito. Dina Gerasia (“Il Giorno delle Nonne”) visita Sciacca, per avere riposo dall’assistenza al marito, sopraffatta dai suoi bisogni. La cura termale non la rinvigorisce tanto quanto un gruppo di nonne che incontra in un cortile. Edvige Giunta trova pure conforto quando torna in Sicilia (“Aci Trezza”) a piangere la morte della madre.

Non tutte le ferite possono essere rimarginate. “Non vivono i siciliani con le cicatrici?” proclama Philippe Poloni nel suo comico, imprevedibile romanzo Olivo Oliva. Alcuni degli autori menzionano i mali inflitti alla Sicilia dai numerosi invasori e le cicatrici di povertà e di ingiustizia che hanno spinto i loro ancestri a fuggire dall’isola. Nel suo saggio “My New Hometown,” vincitore di un premio,  Joseph Farina racconta come sua madre abbia abbracciato di tutto cuore il suo nuovo paese di Sarnia in Ontario. Per lei Sarnia è il paese dove i suoi sogni si sono avverati.

            Altri fanno riferimento alle ferite psicologiche sofferte dagli immigrati. In “BAGAGE,” di Susan Caperna Lloyd, troviamo suo padre che soffre della malinconia e del malessere, da cui a volte gli immigrati possono essere afflitti come persone sradicate. Michele Alfano nel suo commovente saggio “A Stone Trown Away,” (“A un tiro di sasso distante”) descrive come a un certo periodo della sua vita la scrittrice abbia voltato le spalle alle sue origini. Kenneth Scambray e Maria Famà nelle loro rispettive poesie “Palimpsest” (“Palinsesto”) e “I AM NOT WHITE” (“Non sono un bianco”) fanno riferimento al penoso periodo della storia dell’immigrazione, quando gli italiani e più spesso i siciliani in particolare erano registrati come “negri.”

Ancora, ci sono quelli come Lillyrose Veneziano Broccia (“Hyphenated Identity: Sicily in the Body of an American Poet” / “Doppia Identità: la Sicilia nel corpo di un poeta americano”) che si rallegrano della loro eredità etnica. “La mia doppia esistenza,” scrive Lillyrose, “mi ha dato la capacità di estendermi attraverso il tempo, nuotare attraverso mari, e capire oltre la lingua. Il mio trattino che mi congiunge [italo-americana] non è una barriera, ma una finestra aperta su me stessa – come il finestrino di un treno – che mi mostra il mio potenziale e il mio passato connessi al presente.” (“My hyphenated existence,” Lillyrose writes, “has given me the ability to stretch across time, swim through seas, and understand beyond language. My hyphen is not a barrier but a window to myself--like the train’s window--showing me my potential, and my past in the now that connects them.”) (19) 

In molta parte della raccolta c’è infuso il caustico umorismo siciliano. Delia ed io abbiamo riso forte quando i membri della famiglia di Charly Chiarelli cercavano di dare un senso ai costumi canadesi in “The Welfare Scene” (“Scena all’ufficio di assistenza”) e in “The Hospital Scene” (“Scena all’ospedale”). La parabola di “Noah and the Invention of Wine” (“Noè e l’invenzione del vino”) che risentiamo raccontata da Sam Migliore, ha una divertente battuta finale. Rita Ciresi ha uno scherzoso approccio alla tradizione, come quella che considera i primogeniti “hot shits” (importanti, viziati) nel suo racconto  “Number One Son” (“Il  figlio numero uno”).

La ragione per cui abbiamo scelto “SWEET LEMONS” (“Dolci Limoni”) come titolo di questo libro è veramente significativa. Su un livello pragmatico, la Sicilia è famosa per la sua coltura di agrumi, e i limoni siciliani sono generalmente più dolci di quelli che si trovano in Nord America. Infatti, certi tipi di limoni sono così dolci che sono usati come un principale ingrediente dell’insalata. In Sicilia non è raro vedere qualcuno cogliere un limone dall’albero, sbucciarlo e mangiarlo lì sul posto. A livello simbolico, le due sensazioni di “dolce” e “agro” insieme alludono al superamento dei pregiudizi contro i siciliani, la cui cultura è spesso considerata “agra” o negativa, mentre in effetti è “dolce” e “positiva.”

Delia ed io speriamo che leggendo questo libro, i siciliani di ogni parte siano maggiormente orgogliosi della loro cultura e della qualità e le aspirazioni degli scrittori siciliani del Nord America. Allo stesso tempo, invitiamo i lettori che non conoscono la Sicilia a scoprire un’isola unica per la sua complessa cultura, la sua gente e la potente influenza che essa esercita sui suoi figli".

 

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Novità

Il colore dell’amore di Maria

di Venera Fazio

( Traduzione di Egidio Marchese )

            Maria, la madre di Gesù, è inconsolabile dopo la morte del figlio. Vuole essere coraggiosa, accettare la sua morte come l’accettò lui, ma è incapace di scacciare i dolorosi ricordi. Di notte piange finché s’addormenta e al mattino nuove lacrime inzuppano il cuscino. Spesso non può alzarsi dal letto. Una mattina presto il suono di una debole, familiare voce la sveglia di soprassalto. Figghui, Figghui mio? Mio benamato figlio, sei tu? chiama nella stanza vuota.

            “Sì madre,” Gesù risponde. “Madre . . . aiuto . . . ti prego . . . le mani e i piedi . . . rigonfi . . . le mie ferite . . . Madre, ho bisogno di te.

Il cuore di Maria si contrae. “Gesù,” chiama, col cuore che vibra di gioia. “Dimmi cosa posso fare.” Aspetta la risposta, ma non c’è.

           Quella notte Maria sogna di volare attraverso il deserto di color miele, il corpo senza peso come una brezza estiva. Discende entro un’oasi. In basso l’apertura di una caverna l’attrae. Si fa strada attraverso un tunnel, seguendo lo scintillìo emesso da iridescenti conchiglie marine. Presto le conchiglie spariscono, ma lei non ha paura. Una mano si stende a lei e la guida attraverso l’oscurità. Sente col tatto uno sfregio nel palmo della mano e sa che è suo figlio.

All’improvviso, è immersa in una brillante luce del sole e vede Gesù. Seduta accanto a lui, stende la mano all’orlo della veste e con delicatezza asciuga il  sudore misto al sangue sulla sua fronte. Poi, lo adagia sulle sue ginocchia, estrae le spine confitte nella fronte, e spalma sulle sue ferite un analgesico fatto di acuto origano appena tritato.

“Stai con me, madre,” egli mormora.

“Starò con te tutto il tempo che hai bisogno di me,”  lo rassicura Maria.

Un giorno, dopo che ebbe recuperato le forze, Gesù decide di dare un’occhiata giù e vede cosa succede sulla terra. “Guarda là, madre, guarda,” grida indicando. Sotto, vedono dei soldati predatori che violentano e mutilano delle donne. Nei campi di battaglia, opposte forze armate si sgozzano a vicenda. Uomini ricchi sorridono con maliziosa soddisfazione mentre derubano i poveri. Adulti ben pasciuti spingono i propri vecchi moribondi genitori sulle strade, a provvedere a se stessi.

Maria avvolge col braccio la vita del figlio e lo tiene vicino a sé. Aspetta una risposta di conforto. Invece Gesù si stacca da lei e cammina avanti e indietro.

“Inutile,” borbotta. “La mia morte è stata inutile.”

Figghui,”  lei replica con dolce voce. “Occorre tempo per i cambiamenti.”

Gesù  si allontana da lei e dà un’altra occhiata giù. “Gliela farò vedere,” impreca. “La pagheranno.”

Maria si accosta pian pian più vicina a lui e afferra la sua tonaca. “Figlio,” grida. “Ciò sarebbe vendetta. Ti prego. Ricorda le tue stesse parole. Hai predicato lezioni di amore e perdono.”

“Madre, ho deciso. Non posso lasciare andare. Ho sofferto e sacrificato la mia vita. Sono risoluto a far che la mia morte significhi qualcosa.”  

Maria guarda la faccia di Gesù che si oscura del colore di una forte, nera tempesta di nuvole. Il suono assordante di un tuono scoppia dalla sua gola. Dal suo profondo interiore tira un fiato di vento vulcanico. Maria, atterrita ch’egli stia per ripulire la terra annegando tutti gli abitanti, decide di doverlo fermare. Mentre egli comincia ad esalare gli si mette davanti, apre la bocca spalancata, inghiotte la tempesta, e poi stramazza inconscia.

Gesù s’inginocchia per stendere il corpo della madre in una posizione più comoda e la bacia teneramente. “Madre, guarda come sei... la tua faccia... il colore della tua pelle, guarda cos’ha fatto la tempesta. È colpa mia. Perdonami. Madre, perdonami...”

Dopo alcuni minuti, Maria si riprende abbastanza da poter parlare. “Amore, non puoi trasformare il mondo tutto da solo... Voglio che tu faccia qualcosa per me...”

“Qualsiasi cosa, madre. Solo dimmi cosa vuoi.”

“Quello che voglio che tu faccia è di scolpire una sosia di me, indonderle una parte del mio spirito, e mandarla giù sulla terra. Dammi lo stesso potere che tu hai di fare miracoli. Posso aiutare i tuoi figli, e attraverso me, sarai venerato.”

Gesù accondiscende subito. Non molto tempo dopo, una immagine di Maria finemente scolpita e colorata, animata del suo stesso spirito, viene posta in fondo ad una piccola nave da carico in rotta verso la Sicilia. Maria, debole dopo aver inghiottito la tempesta, cade in un profondo sonno.

            Un giorno, diversi mesi dopo, lo scoppio di un tuono ed il violento scotimento della nave la svegliano di soprassalto. Aiuta a guidare la nave in un porto riparato e poco profondo, nella costa nord-orientale della Sicilia. Appena passata la tempesta, i marinai si preparano a riprendere il viaggio, ma la nave non si muove. Pezzo per pezzo, i marinai sollevano e trasportano a riva il carico. Tuttavia, non riescono a salpare. Alla fine, diversi uomini rimuovono la cassa di legno che conteneva la statua di Maria. Appena essa è posta al sicuro sulla spiaggia, i due marinai sentono i loro compagni gridare con trionfo: “La nave è libera. Presto potremo ripartire.”

            I marinai a riva forzano la cassa con una leva e poi chiamano indietro: “Aspettate. Ci deve essere qualcosa di speciale in questa statua. Non possiamo lasciarla sulla spiaggia. Andiamo a metterla in un posto al sicuro.”  Trasportano con cura la cassa su per il clivo e collocano la statua in un esistente santuario di pietra.

Dal suo isolato luogo panoramico sul mare, Maria aspetta con ansia i visitatori. Desidera la compagnia di altre donne, donne madri come lei che si accollano la sofferenza dei loro figli. Ma per mezzo secolo Maria deve accontentarsi di condurre in salvo sulla riva vascelli sbattuti dalla tempesta.

In seguito una donna col suo bambino in braccio, passeggiando una volta per la campagna, s’imbatte in un sentiero inconsueto. Aveva sentito delle voci circa un antico tempio nelle vicinanze dedicato a una dea. Curiosa di sapere dove il sentiero menasse, lo percorre fino in fondo. Maria esulta ad avere una visita. La donna che la visita è membro di un clan dei nuovi conquistatori della Sicilia, i Normanni. Ha gli occhi di un liquido blu e i capelli color del fuoco. Alla vista di Maria, gli occhi della giovane madre si spalancano dallo shock. “Chi... chi sei?” balbetta. “Non ho mai visto nessuno così... scuro.” Con ripugnanza, fa qualche passo avanti per dare un’occhiata più da vicino. I suoi occhi si ristringono. “Sono venuta fin qui... e per cosa? Per pregare ad una che sembra una rozza pagana? Mai.” La giovane donna sputa a terra, vicino ai piedi di Maria. Stringendo forte il figlio, se ne va impettita.

“Aspetta un po’,” Maria grida alla donna. “Ti auguro che tu non abbia ad inghiottire un uragano, che fa diventare la tua pelle nera, com’è successo a me; ma un giorno pure la tua faccia mostrerà i segni delle avversità e del dolore.” Lo sguardo di Maria segue la donna che l’aveva visitata fino all’orlo della scogliera, da dove ammira la veduta panoramica del mare turchese del Tirreno. Maria si sente sopraffatta dai pensieri di decenni di solitudine, dal rigetto della giovane madre che la ferisce, e dal pensiero che probabilmente anche futuri visitatori reagiranno con pregiudizio. Decide di dare una lezione a quella donna. Dirige un accecante raggio di sole alla superficie del mare e ipnotizza la donna, facendole perdere la presa del suo figlioletto. Maria aspetta, sapendo quel che seguirà.

Un momento dopo, la giovane donna esce dalla catalessi ipnotica. Quando vede il figlio ruzzolare giù per il burrone, si irrigidisce dal panico. All’istante è sopraffatta dal dolore e comincia a singhiozzare istericamente. Si volta e guarda verso Maria. “Madre, Madre, perdono,” prega dal profondo dell’anima. “Ti ho giudicato male. Non avrei dovuto dire quello che ho detto. Madre, perdonami. Non avevo mai visto prima una Madonna Nera. Ti prego, salva il mio prezioso figlio...”

Benché la giovane donna dubiti che Maria esaudisca la sua preghiera, non può resistere a dare un’occhiata furtiva piena di speranza alla spiaggia di sotto. Emette un grido di giubilo quando vede che l’orlo del mare si era ritirato di una certa distanza dal burrone e che il bambino gioca sano e salvo sulla spiaggia. Corre giù per il clivo, raccoglie il figlio al sicuro nelle sue braccia e lo soffoca di baci. Di ritorno su al santuario di Maria, bacia i suoi piedi con gratitudine.

Ora la gente da ogni parte del mondo accorre in massa a pregare la Nera Madonna di Tìndari. Coloro che ricevono miracoli manifestano gratitudine con la loro venerazione sia a Madonna che a Gesù. Molti sono ispirati a esternare amore e gentilezza agli altri. La Madre e il Figlio sono contenti del successo del loro piano. E Maria è radiosa di dividere con Gesù un vincolo che è al di là della vita e della morte.

 

 

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Un appello alla simpatia

di Venera Fazio

( Traduzione di Elettra Bedon )

nessuno@videotron.ca     http://www.aicw.ca/membership.htm#ElettraBedon

 

N

ella sera del 2 dicembre 1922 Filomena (Florence) Losandro, stanca ed esausta per le sedute del processo, cercava di controllare il tremito mentre il capo dei giurati decretava il suo destino. Nelle sale del tribunale di Calgary e traboccando nel freddo nella notte invernale centinaia di albertani curiosi erano raggruppati in attesa. Avevano seguito con attenzione i dettagli del caso sui giornali, e volevano essere i primi a sapere il risultato di uno dei più sensazionali processi per omicidio del giorno. Due accusati, Filomena Losandro ed Emilio Picariello, erano ritenuti colpevoli dell’uccisione di Steven Lawson, un poliziotto.

Filomena era nata nel 1900 a Cosenza (Calabria), in Italia. Aveva nove anni quando la sua famiglia era arrivata a Fernie, nella British Columbia. Più tardi la sua famiglia e gli amici l’avrebbero descritta come una ragazza italiana modello, gentile, silenziosa e obbediente. Con i suoi genitori, Angela e Vincenzo Costanzo, era rispettosa e obbediente. Suo padre, senza saperlo, suggellò il suo tragico futuro quando la promise in sposa a Carlo Sanfidele.

Durante un pranzo in occasione di un battesimo, in cui gli uomini avevano bevuto troppo, Carlo approfittò dello stato di ubriachezza di Vincenzo e ottenne il permesso di sposarne la figlia quattordicenne. A Filomena Carlo non era mai piaciuto, e supplicò suo padre di cambiare idea. Il suo pretendente di piccola statura, tarchiato, di nove anni maggiore di lei, era troppo vecchio e fisicamente repellente, si lamentò. Avendo notato una luce di cattiveria nei suoi occhi, istintivamente lo temeva. Ma Vincenzo aveva dato la sua parola in presenza dei suoi amici e non voleva rimangiarsela.

I Costanzo facevano parte della compatta comunità italiana di Fernie. In famiglia, e nella comunità, i valori tradizionali erano osservati strettamente: la parola del padre era legge; era dovere della figlia obbedire e – soprattutto – un figlio non doveva mai disonorare i genitori facendogli perdere la faccia in pubblico. Vincenzo, oppresso dallo sforzo finanziario di mantenere la numerosa famiglia con il suo magro salario di minatore, credette di aver garantito alla figlia maggiore un avvenire economicamente sicuro. Dopo tutto, il suo futuro genero lavorava per un intraprendente uomo d’affari, Emilio Picariello. In seguito Filomena sarebbe diventata ricca, ma non per le ragioni che suo padre prevedeva.

La fotografia del matrimonio mostra un’adolescente snella, dai capelli e dagli occhi scuri, dall’espressione rassegnata. La notte delle nozze suo marito rivelò la sua natura autoritaria e violenta. La picchiò quando lei si oppose all’idea di lasciare Fernie per andare in Pennsylvania.

Negli Stati Uniti andarono ad abitare in una pensione che aveva camere riservate alla prostituzione. Filomena era scandalizzata e impaurita dalla dissolutezza che la circondava. Uomini ubriachi le mettevano le mani addosso e le facevano proposte indecenti. Si sentiva vulnerabile, senza protezione. Carlo la lasciava sola per giorni interi e spesso anche durante la notte, senza dirle dove andasse o che cosa facesse. Alla fine lei si rese conto che i loro bei vestiti e i gioielli erano il frutto dei suoi guadagni al gioco.

Ogni volta che lei lo supplicava di riportarla a Fernie, di sistemarsi in una “normale” vita di famiglia, lui veniva preso dalla rabbia. Secondo il biografo di Filomena, Jock Carpenter, l’infelice sposa continuava a obbedire al marito e a rimanere con lui perché ne aveva paura. “Dispiacere a Carlo le dava un senso di agitazione nello stomaco; un suo sguardo sprezzante le faceva venire i brividi lungo la schiena.” (1)

Poi un giorno, dopo mesi alla pensione, la giovane donna poté soddisfare il suo desiderio di tornare a casa. I creditori di Carlo vennero a cercarlo e così la coppia partì. Per impedire che in seguito venisse scoperto il loro ritorno in Canada, suo marito cambiò il proprio nome in Charles Losandro. (2) Come fuggitivi attraversarono illegalmente  il confine tra gli Stati Uniti e il Canada. A Fernie Carlo riprese a lavorare per il suo vecchio datore di lavoro, Emilio Picariello. Da quel momento in poi Emilio controllò la loro vita, e Carlo sarebbe stato sempre più devoto al suo capo che a sua moglie.

Emilio ispirava lealtà. Uomo carismatico, era espansivo e generoso, specialmente verso i membri della comunità italiana. L’anno prima del processo per omicidio, in un raro spettacolo di solidarietà, i suoi compaesani si misero insieme e aiutarono a farlo eleggere membro del Consiglio comunale di Blairmore (Alberta). Emilio era ambizioso e pronto a correre rischi. Era immigrato a Toronto (Ontario) da Capriglia, in provincia di Avellino, in Italia, appena prima dell’inizio del secolo. Dopo solo pochi anni divenne proprietario di una fiorente drogheria.

Nel 1911, tre anni prima che Carlo e Filomena si sposassero, Emilio trasferì moglie e  figli da Toronto a Fernie. Aveva sentito dire che l’ovest offriva migliori prospettive. Quando i Losandro tornarono dagli Stati Uniti, Emilio faceva affari in campi diversi, compresa la vendita di sigari e di gelati, e il riciclaggio di bottiglie di vetro. Presto il suo traffico con le bottiglie mise in ombra ogni altra attività, e lui si arricchì.

Durante la calda estate del 1916, in risposta a una vigorosa campagna anti-alcoolici della National Women’s Temperance Union, il governo dell’Alberta dichiarò il proibizionismo. Emilio viaggiava spesso per le città del Crownest Pass dalla British Columbia all’Alberta, raccogliendo bottiglie. Sempre alla ricerca di affari fruttuosi, vendeva whiskey agli albertani assetati. In quel periodo il Prohibition Act permetteva ai residenti dell’Alberta di acquistare alcoolici fuori provincia.

Per parecchi anni Emilio si accontentò di stare ai margini del commercio illegale degli alcoolici. Nel 1917 il proibizionismo arrivò anche nella British Columbia, e la possibilità di guadagni da un altro mercato promettente si fece troppo allettante. Per ospitare i suoi affari in crescita trasferì il suo quartier generale da Fernie all’Alberta Hotel nella vicina Blairmore. Emilio prosperava sui rischi del contrabbando di bevande alcooliche. Quando era necessario, sapeva essere furbo e calcolatore. Alla fine i tentacoli dei suoi affari arrivarono fino allo stato del Montana, guadagnandogli i soprannomi di “Imperatore Pic” e di “Re dei contrabbandieri di bevande alcooliche.”

Dopo il 1918 far fluire gli alcoolici divenne sempre più pericoloso. Le clausole del Prohibition Act cambiarono e i loro provvedimenti, più severi, resero clandestino il traffico degli alcoolici. La polizia provinciale dell’Alberta (3) raddoppiò gli sforzi per sradicare i distillatori clandestini di alcoolici e i contrabbandieri, ricorrendo a volte a sparatorie, durante gli inseguimenti,  contro le macchine di sospetti contrabbandieri.

Emilio decise che i suoi carichi di bevande alcooliche avevano maggiori possibilità di non essere scoperti se c’era Filomena in macchina. Con il suo aspetto giovane e innocente era perfetta per sviare i sospetti. Inoltre, la polizia non avrebbe sparato a una macchina con una donna a bordo. Jock Carpenter riferisce che “Attraverso il tavolo (Filomena) cercò gli occhi del marito. Voleva che lui l’aiutasse, che rifiutasse di lasciarla andare. Carlo evitò il suo sguardo … Lei sapeva che sarebbe stata costretta ad andare, specialmente se questo poteva valorizzarlo agli occhi dell’uomo più anziano…”. (4)

Filomena fece ciò che le dissero. Supplicò ancora una volta il marito, pregandolo di lasciare Blairmore e di cominciare una nuova vita. Come risposta lui la rimproverò, dicendo che era una ingrata nei confronti della generosità del loro datore di lavoro, cui dovevano gli abiti costosi, e il buon cibo di cui godevano. Filomena dovette darsi per vinta. Poco dopo trovò un modo innocuo per liberarsi di Carlo: quando uno dei figli di Emilio si ammalò, si trasferì in casa Picariello per aiutare, e fece in modo di restarci in modo stabile.

Da allora in poi la giovane donna accettò il suo ruolo di copertura. Benché disapprovasse il contrabbando, non aveva alternativa. Tornare dai suoi genitori era impossibile. Le promesse matrimoniali la legavano a Carlo, anche se non vivevano insieme. Aveva pochissimi amici cui potersi rivolgere, poiché molte donne in città la evitavano, deridendola per la sua attività illegale.

Nelle corse per il trasporto degli alcoolici godeva del paesaggio spettacoloso dell’Alberta meridionale e della compagnia degli autisti, specialmente quando l’uomo al volante era il figlio maggiore di Emilio, Steve. Lei e Steve avevano pressappoco la stessa età, e si divertivano insieme. Filomena aveva sentimenti romantici per Steve, ma non ci sono prove che lui sentisse la stessa cosa per lei.

Chiunque fosse alla guida, lei doveva sentirsi in salvo, al sicuro. Emilio aveva molti amici che tenevano gli occhi aperti per lui, e migliaia di dollari per corrompere specifici funzionari, o per pagare le multe quando era trovato colpevole. Una telefonata a Emilio, il 21 settembre 1922, fece scoppiare quella bolla in cui si sentiva protetta.

Un amico riferì che l’agente di polizia Lawson aveva sparato a Steve durante un inseguimento ad alta velocità. Chi chiamava disse a Emilio di non sapere quanto gravemente suo figlio fosse stato ferito. Emilio, temendo il peggio, credette che Steve fosse morto e fu colto dal panico. Malgrado le proteste della sua famiglia, decise di affrontare il poliziotto. Filomena si offrì di accomopagnarlo. Sulla via verso la casa del poliziotto a Coleman (Alberta) l’uomo infuriato tirò fuori una rivoltella e ne diede a lei una seconda, dicendo che era per proteggersi.

Steven Lawson uscì dalla porta di casa e si avvicinò alla macchina per parlare con Emilio. I due uomini si misero a discutere. Quando l’agente vide la rivoltella di Emilio si gettò in avanti e cercò di strozzare l’italiano, nel tentativo di disarmarlo. Testimoni dissero in seguito di aver udito quattro o cinque spari. L’ultima pallottola sparata colpì il poliziotto al cuore. Quella notte, in luoghi diversi, Filomena ed Emilio si nascosero, ma il giorno dopo la polizia li trovò e accusò entrambi di omicidio. Durante il loro arresto vennero a sapere che il giovane Picariello era stato soltanto ferito leggermente a una mano.

Il sergente Scott fu sorpreso quando Filomena, di sua spontanea volontà, fece una completa confessione, una decisione che in seguito avrebbe rimpianto. “Non ho sparato finché non ho visto una rivoltella puntata contro di me” (5), disse ai poliziotti. Due colpi erano stati sparati contro lei ed Emilio, e poi era stata lei a sparare due colpi. Più tardi, nella stessa conversazione, lei cambiò la dichiarazione dicendo che aveva sparato lei tutti i colpi.

Gli albertani guardavano gli accusati con occhi furibondi. Steven Lawson era il terzo poliziotto, nel giro di tre anni, a essere ucciso nel tentativo di arrestare il flusso delle bevande alcooliche illegali. Il suo assassinio diede ai proibizionisti una splendida occasione di diffamare i contrabbandieri. “Questo esimio farabutto si vantava delle sue imprese fuorilegge”, scrisse di Emilio un cittadino. (6)

Voci morbose circolarono su Filomena e sul suo coinvolgimento con i due Picariello; alcuni pensavano che fosse l’amante o di Emilio o di Steve, altri la schernivano dicendo che se la faceva con tutti e due.

Molti albertani giudicarono Filomena ed Emilio colpevoli soltanto per la loro origine etnica. “Il livello di moralità degli stranieri è inferiore a quello degli animali di questa terra” (7), fu scritto in un editoriale che apparve in parecchi giornali. Durante il processo una potenziale testimone chiave, la donna che aveva ospitato Filomena la notte della sparatoria, non fu chiamata al banco dei testimoni. Quando l’avvocato della difesa interrogò il Pubblico Ministero A.A.Mc Gillivary su questo punto, questi rispose: “Dopo tutto, che peso può avere, in questo caso, la testimonianza di una donna italiana?” (8) L’avvocato difensore, J. Mc Kinley Cameron, conscio del diffuso razzismo contro gli italiani, pronunciò un’appassionata supplica in favore dell’obiettività durante le sue ultime raccomandazioni alla giuria.

Gli albertani riversarono la loro compassione sulla vedova e sui figli del poliziotto, specialmente sulle due figlie, Pearl e Peggy, di nove e tredici anni. Entrambe erano testimoni importanti dell’accusa. Nelle città lungo il Crownest Pass molti piansero a lungo la morte di Steven Lawson. Costui aveva avuto una personalità accattivante, amichevole, ed era stato un agente di polizia coscienzioso. Prima di far parte della polizia provinciale dell’Alberta era stato commissario di polizia nelle città di MacLeod (Alberta) e Fernie. Il suo funerale attirò il maggior numero di persone che si fosse mai visto a MacLeod.

Con una speditezza impensabile oggi, il sistema giudiziario chiuse ogni via d’uscita per Emilio e per Filomena. L’inchiesta ebbe luogo il 23 settembre, due giorni dopo la sparatoria, e l’udienza preliminare il 2 ottobre; il processo iniziò il 27 novembre. La prima mattinata del processo fu occupata nel difficile compito di selezionare una giuria. Gli avvocati respinsero quarantotto persone prima di selezionare sei uomini che – ritennero – non avevano pregiudizi nei confronti degli accusati.

Una volta iniziato il processo, la pubblica accusa fornì notevoli prove che collegavano entrambi gli accusati all’omicidio del poliziotto. Filomena sedeva pallida e sottomessa, stropicciando nervosamente il fazzoletto mentre ascoltava le risposte di oltre trenta testimoni. Tre uomini avevano udito Emilio minacciare vendetta contro la polizia per aver sparato al figlio.

Parecchi cittadini avevano riconosciuto gli accusati mentre passavano in città. Peggy Lawson dichiarò di aver visto Emilio dare “qualcosa” a Filomena, presumibilmente la rivoltella. I vicini di Lawson identificarono la macchina di Emilio e i due occupanti. La signora Lawson confermò che il marito aveva lasciato le sue rivoltelle in casa. Perl Lawson, stando dietro la macchina di Emilio, aveva visto Filomena sparare. Non era sicura di aver visto l’uomo farlo.

Gli investigatori coinvolsero Emilio; avevano trovato i bossoli di due rivoltelle diverse sia all’interno che all’esterno della macchina. All’interno di questa c’erano prove di colpi sparati a casaccio. Essi trovarono due fori di proiettile, uno a destra del tachimetro e l’altro nel parabrezza. C’era anche una cartuccia vuota sotto il sedile di Filomena.

L’avvocato Cameron non chiamò alcun testimone; fece invece del suo meglio per screditare i testimoni dell’accusa. Fece notare che la polizia era stata trascurata nell’investigazione. Quando il sergente Scott aveva arrestato Filomena, non aveva preso nota per iscritto della sua confessione, o preteso una dichiarazione firmata.

Gli accusati non intendevano uccidere Steven Lawson, continuò l’avvocato della difesa. Filomena aveva sparato per legittima difesa. “Se Picariello fosse stato infuriato e avesse voluto uccidere Lawson, non credete che gli avrebbe sparato a bruciapelo quando era apparso sulla porta di casa?” (9), domandò. Suggerì che il poliziotto era riuscito a prendere la rivoltella di Emilio e non aveva smesso di sparare finché lui stesso non era stato colpito. Non esisteva prova diretta che Emilio avesse fatto fuoco con la sua rivoltella, ripeté.

La giuria non si mostrò d’accordo con la difesa. Il giudice Walsh pronunciò la sentenza più severa – morte per impiccagione di entrambi gli accusati. C’era un briciolo di speranza per Filomena: forse per lei poteva esserci un po’ di clemenza, poiché era una donna. Prima dell’inizio della procedura legale, Filomena ed Emilio avevano contato su quella stessa indulgenza, ma prima della sentenza, piuttosto che dopo.

La giovane donna sussultò alle parole del giudice. Fu allontanata dal tribunale “pallida e piangente” (10), una donna senza futuro, una donna tradita.

Chiusi in celle separate nella prigione di Fort Saskatchewan, Emilio e Filomena pregarono per la grazia, mentre il loro avvocato faceva appello chiedendo un nuovo processo e, in seguito, una sentenza meno drastica. Durante l’attesa, Filomena confidò al suo consigliere spirituale, Padre Fidelis Chicoine, che Emilio l’aveva ingannata. Era stato per lei come un padre, eppure si era messo contro di lei, le aveva detto di addossarsi la colpa, benché fosse lui il responsabile dell’uccisione di Steven Lawson. Emilio le aveva assicurato di avere i soldi per pagare i migliori avvocati, e che la legge sarebbe stata clemente. L’aveva convinta che lei sarebbe stata rilasciata, o che le sarebbe stata comminata una pena leggera.

La strategia di Emilio avrebbe potuto funzionare; in Alberta il sistema giudiziario era solito commutare la pena capitale inflitta a donne. Ma non aveva considerato che molti albertani ritenevano Filomena diversa dalle altre donne: era una immigrante italiana.

J. Mc Kinley Cameron fallì in tutti i suoi appelli. All’alba del 2 maggio 1923 prima Emilio, e poi una calma Filomena, salirono sul patibolo. “Lui (Emilio) ha mentito e mentito e mentito”, protestò prima che il boia le mettesse il cappio al collo.  (11) Poi domandò: “Ah, non c’è nessuno di voi che abbia un po’ di simpatia per me?” (12)

 

         Ora, ottant’anni dopo la sua morte, con la consapevolezza acquisita dalla società sulla “Sindrome della moglie picchiata”, lei riceve l’empatia che allora le fu negata. Oltre alla biografia di Jock Carpenter del 1992, The Bootlegger’s Bride (13), il compositore John Estacio e il librettista John Murrell nel 2002 hanno prodotto l’opera Filumena. Sia l’opera acclamata dalla critica che la biografia fanno di Filomena una figura tragica, vittimizzata dalle circostanze e dagli uomini della sua vita. Meritava compassione sia che avesse ucciso Steven Lawson o no, e aveva diritto alla stessa clemenza estesa ad altre donne albertane accusate di omicidio.

In una crudele nota a pie’ di pagina della storia, l’anno dopo la morte di Emilio e di Filomena gli albertani posero fine al proibizionismo (14). La morte di tre poliziotti e l’aumentato livello di violenza dimostrarono che il prezzo da pagare per un bicchiere di alcoolici illegali era troppo alto. Filomena fu la sola donna giustiziata nella provincia dell’Alberta.

   

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Notes

1.     Jock Carpenter, The Bootlegger’s Bride (Calgary: Gorman & Gorman, 1993) 42.

2.     The spelling of the name Losandro varies in the reference material. Discrepancies include Lossandro, Lassandra, or Lasandro. I chose to use “Losandro,” the spelling Jock Carpenter believes is the most accurate.

3.     In 1917, The Royal Canadian Mounted Police withdrew their services as a provincial police force and the Alberta Provincial Police (A.P. P.) was formed. The A.P. P. served until 1932.

4.     Carpenter 103.

5.     Carpenter 206.

6.     Garnett Clay Porter, “The Bootlegger in the West,” The Christian Guarddian [ Toronto ] 18 Oct. 1922 .

7 .    L.H. Putnam, letter, “The Responsibilities of Citizenship,” The Blairmore Enterprise 14 Oct. 1922 .

8.     Carpenter 268.

9.     Carpenter 27.

10.   “Piccarillo and Mrs. Lassandra, Guilty: Sentenced to Death,” T h e Morning Albertan, Calgary 4 Dec. 1922: 10.

1 1. “Lassandra and ‘Pic’ Claimed Innocence When Facing Death,” Edmonton Journal 2 May 1923: 13.

12.   Edmonton Journal 2 May 1923 : 13.

13.   Jock Carpenter spent ten years researching and writing The Bootlegger’s Bride. She collected information from newspapers, court records, the McKinley Cameron papers in the Glenbow Alberta Institute and researched the Alberta Archives in Edmonton . Charles Costanzo, brother of Vincenzo, provided her with background information on the life of Filomena. Carpenter also interviewed Father Fidelis Chicoine. In her book, she chose not to include detailed footnotes and a bibliography. In order to reference her work, I have drawn on original newspaper articles of all the legal proceedings and the deaths of Filomena and Emilio.

14.   In a November 1923 plebiscite, Albertans repealed Prohibition. However, the repeal was not proclaimed in the Alberta Legislature until May 1924.

 

Works Cited

Carpenter, Jock. The Bootlegger’s Bride. Calgary : Gorman & Gorman, 1993.

Clark, Bob. “A life the size of storms.” Calgary Herald 26 Jan. 2003 , C1+.

Gray, James H. Bacchanalia Revisited: Western Canada’s Boozy Skid to Social Skid to Social          Disaster. Saskattoon: Western Producer Prairie Books, 1982.

Delong, Kenneth. “Filumina’s tragedy finds its voice.” Calgary Herald 3 Feb. 2003            <http://www.canada.com/calgary/calgaryherlad/story>.

Lee, Valeria Sestieri. “Italians and the Law in Alberta.” Italian Canadiana 15 (2001), 47-60.

Porter, Garnett Clay. “The Bootlegger in the West.” The Christian Guardian [Toronto] 18 Oct. 1922.

Putnam, L. H. Letter. “The Responsibilities of Citizenship.” The Blairmore Enterprise, 14 Oct   19922.

Morrow, Martin. “A Rocky Mountain tragedy.” The Globe and Mail [Toronto] 30 Jan. 2003, R1+.

Wittmeier, Carmen. “The Hangman and the high C.” The Report 9 July 2001, 54.

“Alberta’s bootlegger king.” Alberta Report 30 Oct.1981, 50-51.

“Piccarillo and Mrs. Lassandra Guilty; Sentenced to Death,” The Morning Albertan. Calgary              Dec.1922.

“Lassandra and ‘Pic’ Claimed Innocence When Facing Death.” Edmonton Journal 2 May 1923.

“Report of Preliminary Trial.” The Blairmore Enterprise 5 Oct.1922.

“Picariello Case Jury.” Calgary Herald 27 Nov. 1922.

“13-Year Old Peggy Gives Evidence Clearly, but Breaks Down and Sobs When Describing Tragic Scene—J.A. McAlpine, Who Was Picariello’s Mechanic, A. Dorenzo, Who found Deserted Car, and Others Also Among the Witnesses Tuesday Morning.” Calgary Herald    28 Nov. 1922.

“Eye-witness of Lawson Murder Tells Her Story.” Calgary Herald 29 Nov. 1922 .

“Several witnesses in Evidence Indicate That Struggle May Have Taken Place at Car—Star Witness Expected to Take Stand on Thursday.” Calgary Herald 30 Nov. 1922 .

“Resistance When Police Took Him Into Custody.” Calgary Herald, 30 Nov. 1922 .

“Sergeant Scott on Stand More than Four Hours In Picariello Murder Trial.” Calgary Herald                Dec.1922.

“Both Accused Guilty of Lawson’s Murder Crown Council Says.” The Morning Albertan, Calgary 2 Dec.1922.

“Mr. Justice Walsh Concurs In Decision of Trial Jury.” Calgary Herald 4 Dec. 1922 .

“Incident Shows Efficiency of Alberta Police, He Believes.” Calgary Herald 4 Dec.1922.

“Piccarillo and Mrs. Lassandra Guilty; Sentenced to Death.” The Morning Albertan, Calgary               Dec.1922.

“Lassandra and ‘Pic’ Claimed Innocence When Facing Death.” Edmonton Journal 2 May 1923.

The Bootlegger and the Stuff of Legends. Ed. Christine W. 1999. 18 Oct. 2004             <http://www.telusplanet.net/public/wilsonc/bootlegging-m.htm>.

History of Elk Point & District: The Alberta Provincial Police. Elk Point Historical Society. 1999. Eighteen Oct.2004 <http://www.telusplanet.net/public/mtoll/abpropvp.htm>.

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* “A Plea for Sympathy” was published in Writing Beyond History, eds. Licia Canton, Delia De Santis and Venera Fazio. Montreal : Cusmano, 2006, pp. 24-33 and it is online in Bibliosofia by kind permission of the author and the editor.

* “A Plea for Sympathy” (Un appello alla simpatia) è stato pubblicato in Writing Beyond History, a cura di Licia Canton, Delia De Santis e Venera Fazio. Montreal: Cusmano, 2006, pp. 24-33, ed è online in Bibliosofia, anche nella versione italiana di Elettra Bedon, per gentile concessione dell’autore e dell’editore.

  1 febbraio 2 007

 



Novità

      

Melo Freni - noto giornalista, poeta e scrittore - nel 1997 ha scritto "La Valle della luna" (Ed. Tascabili La Spiga, collana Libri di una sera). 

        Si tratta di interessante libro di narrativa le cui vicende raccontate ruotano attorno al famoso eccidio di Fantina. Gli avvenimenti romanzati di quei tragici fatti si svolgono su un palcoscenico a noi noto: la valle del Patrì  ovvero "la valle della luna". E alcune scene sono state "girate" addirittura a Bafia.

        "L'amore sbocciato tra Rosina, una dolce ragazza e semplice ragazza siciliana, e Giovanni, ex soldato sabaudo schieratosi con Garibaldi, è stroncato da una violenta scarica di fucileria.

Giovanni, come altri suoi compagni, viene giustiziati per la sua diserzione. Un gesto crudele e inutile che sortisce l'effetto di soffocare sul nascere una bellissima storia d'amore, descritta con estrema sensibilità da Freni (1934), una delle presenze più significative e discrete del nostro attuale panorama letterario" (Fonte: - ultima di copertina)

 



Novità

Biografia e bibliografia

       Filippo Imbesi è un architetto barcellonese ed è l'autore del libro "Terre, casali e feudi del comprensorio barcellonese. Dal privilegio di Adelasia alla fine del Feudalesimo", Editrice Uni Service, Trento, 2008, pag. 353.  

    Nel libro di Imbesi vi sono numerosi riferimenti a Bafia.

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    Il libro di Imbesi è stato presentato a Barcellona presso l'Auditorium della vecchia stazione sabato 13 dicembre 2008 da Padre Alessio Mandanikiotis, Archimandrita di rito ortodosso della provincia di Messina, e dal prof. Daniele Macris della Comunità Ellenica dello Stretto.

    I moderatori dell'incontro culturale sono stati Nino Quattrocchi ed Andrea Italiano.

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"Terre, casali e feudi del comprensorio barcellonese. Dal privilegio di Adelasia alla fine del Feudalesimo" si può acquistare alla libreria Guteburg di via Roma a Barcellona oppure on line su www.uni-service.it

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Per una anteprima limitata su "Google libri"

  http://books.google.it/books?id=R-vMTs4JzuEC&printsec=frontcover&dq=imbesi+filippo

 

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Filippo Imbesi  

Terre, casali e feudi nel comprensorio barcellonese  

Dal privilegio di Adelasia alla fine del Feudalesimo

 

"È convinzione pressoché generale che il territorio dell’attuale comune di Barcellona Pozzo di Gotto sia rimasto estraneo alle principali vicende storiche che in Sicilia hanno caratterizzato sia il medioevo che le epoche più recenti. Nonostante la carenza di materiale documentario, invece, le fonti sopravvissute rivelano che, fin dall’avvento della dominazione normanna e per tutti i secoli seguenti, le caratteristiche orografiche del territorio barcellonese assunsero un’importanza fondamentale nell’ampio contesto gravitante, dapprima attorno all’antica Mylae (Milazzo), ed in seguito attorno alla cittadella fortificata di Castroreale, con la conseguente nascita e con il consolidamento di numerosi casali, di cui alcuni già abitati fin da epoche più remote. Questa pubblicazione raccoglie cinque ricerche storiche, supportate da documenti in gran parte inediti, che consentono di confermare l’importanza dei vasti territori oggi ricadenti nel comune di Barcellona Pozzo di Gotto, a partire dal periodo normanno". ( Filippo Imbesi)

"Cinque importantissime gemme storiche sul territorio dell’attuale comune di Barcellona Pozzo di Gotto, tra cui la trascrizione del diploma di rifondazione del monastero di Gala contenuto nel Liber Prelatiarum (non interamente pubblicato da Rocco Pirri nella sua Sicilia Sacra), che rivela chiaramente il ruolo svolto nella ricostruzione del monastero dal camerario Nicola di Mesa, figura di enorme prestigio presso la corte normanna di Ruggero I e poi di suo figlio Simone". (Archimandrita Alessio Mandanikiotis, jeromonaco Parroco ortodosso di Messina)

Fonte: Editrice Uni Service (Trento) - www.uni-service.it - ISBN 9788861782631 - Pag. 353 - € 25,00

 (http://www.uni-service.it/terre-casali-e-feudi-nel-comprensorio-barcellonese.html)

Rassegna stampa sulle imprese storiche ed archeologiche di Filippo Imbesi:

VISITA IL SITO WEB: - www.barcellonaricerchestoriche.it  - (Rivista storica on line edita da Filippo Imbesi)  

 



  Dal volume "Falò"  proponiamo  "Frammenti inediti"   

a G., alla sua grazia

a Marcel, dolce fanciullo in fiore

e a chi non c'è più

A R I A N N A

FRAMMENTI DALLA GUERRA  

     E poi domani chissà forse qualcuno aprirà / e l'occhio solleverà le ciglia verso altri lumi, / la  mano  impigrita s'affaccerà sulla soglia / tremante annoderà le dita, mi ricondurrà a te.

     Catullo bisbiglia intanto amorevoli cadenze, / m'aiuta ad affrontare l'ozio con animo rapito, / Arianna è un frutto un vetro accalorato / che racconta il risveglio delle onde, / ma i labbri sfiorano il bicchiere / ed il parlare ha il suono del mistero / fra avventori taciturni limati / dal vapore dello svampo.  

     Una ragazza dalla treccia bruna assorta / consuma il tempo dell'attesa roteando / l'indice attorno alla fiammella: / le pagine si aprono su languidi golfi e seni / dove la marea arriva per riporre i sogni: /l'uva e il melograno offrono sapori e colori / e dorate succose melodie, nuvole anche / ma guizzanti su veli d'acqua, / dove il girino e il serpentello son nomi /da soppesare con lo sguardo.  

    Non aspettare più i sorsi del domani /ferma sotto la pioggia, in riva ad un mare / che non dà ostacoli alla vista ma al passo, / inutile scrutare un segno o un messaggio: 

   il cuore si scioglie in mille rivoli / che al mare vanno / che il mare porta sotto mille forme.

    Arianna, non aggiungere acqua / ad altra acqua, è deserto l'orizzonte, / le sillabe  traghettano sospese dal nulla al nulla. / Solo una margheritina sempreviva si dondola / forse fra Scilla e Cariddi, dove l'occhio / dell'airone fuori rotta si sofferma un istante / e passa oltre, verso una terra che vide / gli avi intrecciare nidi nell'alito / sciroccoso della notte che sa cullare / il sonno con l'ausilio delle foglie, / sotto una ciclopica luna.

 

     Ricordare è un fulmineo trasumanare / quando il sole ricama riflessi / vibranti sulla tua pelle asprigna / ai baci ed il vento che scende / dalla Torre ti scompagina i capelli, / li avvolge in spirali e fiamme. 

     Ancora odo ripetersi il canto / dell'usignolo, che arpeggia / i passetti fra le linee del Corso / sonnacchioso al compitare delle / maestrine: al mattino, scostare / qui le imposte è come aprirsi / al mondo, sfiorare le tue / labbra che sanno di pane.

    Offrirti vorrei un volo / oltre i fumi d'Eolo e le nuvole: / ah se disegnare sapessi un ghirigoro / sulla tua guancia, dove un sospiro / è un on'onda, una carezza / un infinito ritrovarsi.

 

     Portami qualcosa, celeste aria marzolina / non solo un soffio di rada nostalgia, / un canto magari che dalla corona di colline / scenda per le scoscese stradine, pieghi / le vette degli abeti più alti, / si raccolga sul lunare Longano: / il sole qui è più paziente, / la lucertola si attarda / sulla pietraia.

     In basso, sotto il tufo d'Aragona, / è tutto un fermento di formiche e apine,  / di abbozzi per i pionieri del volo.

    Di sera il vento sale dietro le finestre, / agita confonde i colori / spinge una banderuola dove vuole / (l'ombra sui tetti e sul solario / memore dell'Aquila dura ancora) / ma agli occhi non appare.

    Cerco le ore e i giorni / in un manto di stelle / recluse nel loro firmamento, / sospese sul dolidoli dei grilli. 

     Non chiamarmi per le asciutte stoppie / della piana, dove i fanciulli s'acquattano / e aspettano i treni, sto più in là / dove il mulino diroccato accoglie / rovi e ortiche, e l'arancio selvatico / mi copre con un mantello d'aromi. 

     Mi nascondo e non rispondo: / passa un carro, una donna lo guida / (il mulo ha la testa china) porta / grembiule e stivali, ha un fazzoletto / bianco sul capo: guarda e sorride, / non ha denti e mastica un'oliva.

 

     Il viottolo s'inerpica ancora, / dietro ogni angolo c'è una fessura, / qui la collina franò per una bufera / assassina trascinando alberi e case; / puoi vedere un'imposta svetrata / uno scarpone un lume sbilenco.

     C'è una casupola adesso / su un morso di terra in mezzo / al fiume: qualche volta fuma / il camino, ma l'ingresso è serrato / chiuso col filo spinato.

 

     Vedo bene ed ogni cosa distinguo, / il labirinto il cielo e le sue stelle, / a Cnosso cresce un'erba sempreverde / incollata al muro si apre al vento: / ne colgo due o tre zolle, le fascio / con le stringhe, le appendo sul balcone / a seccare per ore e ore,  / al mercato le vendo.

     Chi acquista i miei capelli? 

     Guarda pure più avanti, / fra le tante ampolle e cristalli / sull'aerea tavola imbandita / per il baccanale dell'anno, / oltre il limite dell'angolo, / hai lasciato occhiali e coturni / ad ingigantire il numero / dei commensali.

     Qualcuno lo immagini / aspettare i satiri e la tibia, / gli altri non sono mai venuti / anche se li hai visti andare via.

 

     Lasciandosi andare lungo la china / (dall'alto scorgi per intiero l'ultimo / tratto della fiumara ricco d'oleandri / e terrazze d'agrumi) si avverte / sempre meno la distanza, la fatica. /Ma riposare comunque bisogna / sedendo sulla cupola saracena, / segmento di profonde geometrie.

    Suona il vespro la campana / insabbiata, ti ricorda / che sei del mondo emerso, / del mandorlo non vedi le radici.

 

     Il collo s'è ingrossato, Arianna, / la collana non ti adorna più, / la nutrice fatica ma comprende. 

    Da piccola coglievi fragoline / e more, gioivi nel guardare / con gli occhietti attenti come / spilli: la primavera è sempre / prodiga da queste parti, / colora ogni foglia, l'aria si bea.

     Sai cosa sarà la vita / (parli anche il francese) / e che la biscia dorme / sul portale dopo / i pomeriggi solatii.

     L'orizzonte si stupisce si ampliano / i rintocchi mischiandosi al libero / falò della campagna: ti commuovi / spesso, sul tuo orecchio / sanguina una rosa.

 

     Doppiato il promontorio, Teseo, / fu certa la tua assenza, / il filo porta adesso la tua voce / eco lontana da una cabina / elvetica o lombarda.

     La prua taglia l'onda / la apre e la ferisce / la risacca suona ancora / un valzer commovente, / tutte bianche le vestali / battono le mani liberano / fiori, si mesce il vino / si fa lago scuro nei boccali / trabocca e tutto avvolge / (nessuno ascolta le sirene / nella nebbia?).

     La scialuppa si confonde / con i rottami, il naufrago / illividito racconta la sete / e la paura: parla ora Enea / mentre tutti tacciono. /Didone ascolta e s'innamora. 

     Le cose rimangono, non vanno via, / ti lasciano segni da decifrare / le auree foglie di Sibilla.

 

     Il rettilineo s'affonda / a perdita d'occhio / fra filari di faggi e canneti:   

     bisogna pure superarlo e senza soste.

     Immobili, aspettiamo il tuo arrivo: / la mamma dietro il telaio immagina / l'inverno e la fame, sa che dopo / è la tua stagione.

 

     La sera arriva con passo di volpe, / si spandono le voci per la valle / i bimbi disertano il cortile.

     Sale la luna sul querceto, / passa da un falò all'altro: / perla appesa al naso / d'un soldato di colore.

 

     Ad origliare dietro le porte / odi la rugiada sugli orti / gusti la brezza che ravviva / i carboni e muove la cenere.

     Se ti affacci qualcuno ti regala / patate calde bollenti a toccarle, / non t'accorgi che nel calderone / le nuvole s'incrociano rapide: / l'inverno s'approssima e la neve / coprirà il pagliaio una mattina / il fiato vaporerà nelle mani. 

      Le Ore approntano spesse maglie / sul petto disegnano una ciliegia.  

 

     Il talamo stanotte sarà una distesa / di tigli, vi correranno le tue mani, / il silenzio sarà colmo di sospiri / il cielo avrà l'ambra della tua pelle.

     Sulla biga passeranno Teseo e Arianna / e si alzerà una leggera ombra di polvere, / sul sentiero sarà facile seguirne il segno / nell'aria le linee dei sorrisi.

     Accoglili pure o sera levantina / e accogli i loro destrieri, / non manca molto all'arrivo / (ma s'attardano ancora nel racconto / i passeggeri, sagome brune dietro i finestrini): / ti accompagno ogni mattina,  / ti aspetto con una foglia / piena di fragoline.

 

     All'improvviso, dopo l'ultima curva, / sull'ameno poggio rasato / aperto ai venti serali o dicembrini  / su cui vegliano ruderi saraceni / e un perimetro di casale,  / t'abbraccia l'azzurro del golfo / che è un tutt'uno col cielo.

     Affrontala a perdifiato questa discesa, / tuffati nell'equilibrio dell'orizzontale / cibati di spuma e fili d'erba:

     i compagni sono pronti a salpare / issano le vele, muovono i remi / soffiano corni e percuotono tamburi.

     Alza una mano, tendila bene, / irrobustisci il respiro, aggrappati / allo scafo in qualche modo / non perdere la vita, tienila.

 

     Quando l'ultimo svampo scende / dietro la collina e il fiume / è un pò inchiostro un pò favola, / bisogna orientarsi seguendo i contorni / o trovare un riparo sotto una pietraia / o un albero robusto:

     usa l'archibugio, spara / sulla coda al bombardiere.

 

     Sotto la volta, al riparo dalla pioggia / in mezzo alla campagna povera e incolta, / la soldataglia riottosa e in fuga / mastica pane duro e biscotti secchi / baratta coperte di lana grezza.

     Qualcuno dimentica l'elmetto / il giorno dopo è un secchio, / una nuvola si bagna dentro.

 

     Lunghe, fredde le notti / trascorse a consumare / gli occhi su Virgilio / e Catullo, alimentando / con fascine di ginestra / la fiamma per economizzare / l'olio della lampada.

     Se pensi a quei giorni / ricordi le scarpe chiodate / più resistenti al consumo, / la coperta di grezza lana / militare e le materne mani / aperte ad una bontà senza fine.   

     Sei fatto di creta forte / quando canti del pelide Achille / o del vecchio Anchise, / hai l'occhio del Ciclope / se segui Odisseo l'errabondo / e sei pane e frumento, di Enea / possiedi l'essenza.

     Ogni pagina è rossa e blu.

     Attendo il convoglio da tempo / sotto l'erbosa pensilina. / Non lontano gli operai in pausa / sono scure sagome nello scintillìo / dell'improvvisato falò; / si scaldano fumano saporitamente / parlottano accompagnati dallo / scoppiettìo del castagno.

     Ho un gomitolo nuovo nel pugno, / di lana lilla, per farne un elegante / maglione. Da questa panchina in disuso / penso a quando lo indosserai, rapita / da quest'unico binario in disarmo. 

     Avverto già lo sbuffo della / locomotiva, ti vedo chiudermi / gli occhi con le mani / di miele lucente.

     Gli abbandonati randagi vanno / in inverno rasenti ai muri, umili / francescani, percorrono l'aperta / campagna e la boscaglia,  / annusano il vento con l'occhio lucido.

     A volte un bianco bastardino / m'appare dietro il vetro,  / gli sguardi s'incrociano e cerco / i miei occhi, il senso delle cose / il giorno che guazza / nella lacrima immobile.

     Com'è difficile decodificare segni / e significati senza una nominazione / certa, come tutto scorre sul filo / di un'unica labirintica storia.

 

     Foglie come pagine affiorano / fra le righe che il falò traccia / da un promontorio all'altro.  

     Ogni curva si apre su golfi / diversi: qui un sasso schiantato / e il frizzo del glicine, là / una barca si riflette baciando / l'una e l'altra sponda.

     A camminare sul bordo e a testa / china avanzi con certa direzione, / sull'opposta riva l'ombra oblunga / lancia un saluto frettoloso: / com'è tutto tuo quel passo, / quell'incauto dondolarsi.

     Le tue fatate mani fanno / splendidi origami, accolgono / le ali dei passeri e le aprono / al volo per una mattutina / ricognizione sul nevoso paesaggio / di gennaio cotonato da rari / comignoli, dall'incenso della nebbia / dal vapore delle parole.

     Le maestrine attendono, / liberando sospiri che cadono / sui bracieri vivi,  / il passaggio dei reduci  / o di qualche disertore. / Arianna siede silenziosa / sul limite della seggiola, / pensa agli ampi svolazzi / che s'intravedono dalle / appannate finestre, ne fa / un disegno sul rugoso / sillabario d'anteguerra:

     è una casetta con un albero  /  e un lago, uno steccato cinge / l'orto, il sole infiamma le nubi,  / dal tetto fila fumo, / gli uccelletti / tornano ai nidi.

 

     Di te mi ricordo a stento, padre / tornato appena dalla guerra, / nemmeno il tempo di assaporare / le compresse di chinino dal tuo / taschino, appisolata e ammaliata / sulla ruvida scala di casa, / annebbiata dalla tua apparizione / (la strada di rado recava / una tua fotografia giallo seppia / piena del grigio della divisa, / una cartolina sbiadita e la firma, / la grafia fors'anche illeggibile, / pulsava della tua vita) /sentivo l'ampia sicurezza / delle tue mani.

     Ma già ripartivi / per altri patimenti da scontare / in luoghi dai nomi gelidi, / alto fante mulattiere / costretto a cibarsi di neve / e carne cruda, assente / alla mia crescita, acceso papavero / dei miei notturni silenzi, quando / tagliavo il pane con le dita / perché più lancinante bussava / il peso della carestia, l'orrore / del rilucente vuoto. 

     Un guizzo nella memoria / avvampa le gote / agli orfani educati alla pazienza / del digiuno e dell'assenza / che a fatica distinguono / paesaggi oltre la curva, / dove, nell'anonimo ritorno del tramonto, / nell'immutato equilibrio del cosmo, / pascolano lapidi o epitaffi: / la storia ribolle in ciò che non è detto.

 

     E' ancora nuvolo,  / la bella stagione tarda, / non mi soccorre il suono / basso delle crocerossine, / non ho ancora notizie tue / solo allarmanti avvisi e / bollettini: muore la speranza / d'abbracciarti presto, anche / i bimbi sono rubati dalla bufera / della guerra, hanno fiori tra le mani.

     Mentre tutto tace, nel tenace / singulto di un'altra rotazione, / lacrimatemi addosso una pioggia  / di elettriche stelle, di balocchi  / e ammennicoli del secondo millennio / assiepati nel sottotetto  / pulsanti sotto un velo  / di fosforescenti ricordi.

     Dal fondo, dall’abisso / dal profondo limbo / delle cose in disuso / balugina la caparbia essenza  / d’una vecchia bottiglia. 

 

     Che sia necessario perdere le cose / per riscoprirne il senso?

     Mi asciugo l'umore freddo / patinato sulla fronte, / mi consuma l'attesa forzata /di un evento che si presume / imminente: sarà questo un esilio, / o una fuga perenne verso / rotte che la bussola non indica?

     Intanto corrodo le unghie / mi alleno giorno dopo giorno / a non usare le ciabatte / a sentirmi un tutt'uno con l'erba.

 

     Ma adesso non parlate più dei fiori / ubertosi occhi accesi / al tramonto, non parlate / dell’amore che s’innerva / sul ruscello del cuore e si dilegua, / non parlate dei colori / del cielo e del mare / non della nuvola ebbra / né delle onde peregrine / intorno al nodo dell’isola / maliosa. Non parlate / dei poeti né della materia / che li rapisce nell’incanto / delle notti lunari fra svolazzi / volute e acrobatici galoppi. / Non parlate.

 

     Termina qui il mio viaggio? / Chi mi aspetta, / reiterando passi / senza meta,  / saggiando l’asprezza / dell’infinito nello / spugnoso / alito autunnale?

     Abbandono i remi, / non leggo più il finale / lascio che la corrente mi trascini, / il cielo è acqua o viceversa / una sola l’ombra, uno solo il luogo / dove dormo cercando / la cenere e la grazia, / mentre l’oracolo tenta di svelare / il rapido svanire nella nebbia / dell’ultimo postale.

     Giovani, troppo giovani / quei fiocchi che fanno esplodere / il mandorlo; precocemente / forieri di un’altra primavera / tutta da contemplare, / ma con lieve parsimonia.

     La vita a volte sfiorisce / nel suo manifestarsi, / anche se il giorno sembra / un intatto fuoco / riflesso / dal vigore dei limoni / che allagano la campagna, / colorano una finestra / che più non si apre.

 

     ...sono questi i moderni falò, / i falò della follia, della disperazione, / della miseria, tanto diversi da quelli  /  degli antichi./                                                                                                                                      (C. P.)

     La carne, l’albero / il giorno che annuncia / la pazienza dei gerani / il vuoto frullare dei motori / lo squarcio di un sorriso fra i mattoni.

     Poi la luce s’ingarbuglia / fioretta lame rugginose, / le schegge della corteccia / sbrindellata sulla carriola, / la pelle, l’anima / senza più radici.

     Smemorate impazzano le foglie / e i vezzosi aghi all’unisono / spazzolano gli uccelli in fuga.

     Arriva anche l’inverno, / suona tamburi e cornamuse / accenna passi di valzer / per le strade e le pianure desolate.

     Le colline fanno una sosta / s’abbarbicano alle nuvole / senza colore. 

     In fondo, lontano,  / forse nel mare ondeggia / un lampione: / fa che non sia soltanto / un semplice / soffio di vento.

 



                Santi Puglisi, nato nel 1959, è un cultore della memoria, del sapere letterario e dei valori umani delle nostre contrade e della nostra Comunità. Con affetto e con amore vuole perpetuare la memoria dei fratelli che ci hanno preceduto.

          Appassionato di studi umanistici. 

          Bafia e Rodì, luoghi di origine dei genitori, sono i due paesi dove Santi Puglisi  ama vivere.

 

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"Nella tua terra di luce come fratelli"

     Vengo a trovarti padre / nella terra che tu hai amato / e che ti ha amato. / Nella casa della tua giovinezza / nella dimora calvario / respiro tremante nella tempesta / rifugio di innocenza e mitezza / cuore indifeso sospeso sopra l'abisso. /  L'immenso torrente precipita ancora / alle pendici di giorni e di vite / hai conosciuto e amato le loro voci / hai ascoltato i loro canti di gioia / svaniti ormai i loro nomi / sono il canto della corrente. / La sua  violenza di acque e  furore / implacabile urlava ferite e rovine / nelle lunghe notti di gelo e  abbandono / attesa e fatica / di un interminabile inverno.

     Ed eravate voi con la vostra innocenza  / a salvare l'umano nell'uomo / in quel mondo di violenta ferocia feudale / testimoni di fraternità / Eravamo tutti come fratelli. / Vengo a trovarti padre / in una terra  di luce.

 

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"Canto sul fiume" 

     Innocente la sua mano /   anche quando il dolore feriva  / era preghiera e silenzio / desiderio di quiete e abbandono.

     Pietre vive, respiro di neve / mani nude per affrontare l'inverno / piedi scalzi, ma era dolce la terra / fraterno il rovo, l'acqua e le pietre. 

     Oleandro era canto sul fiume / era il sorriso di Anna / a illuminare il sentiero / le sue mani aperte sul cuore degli altri.

     E la ferita struggente / di quell'addio / è il silenzio che ha chiuso / e donato parole all'amore / ora svela una luce soave / che dura da sempre.

     Padre, padre hai aperto la porta / e un fiume di vita attraversa / le mie radici. 

     Ho aperto la porta / sul tuo tavolo dolce di pazienza e di dolore / ed è un abbraccio di vita / di luce soave.

     Adesso alla riva tu guardi / anch'io ti seguo. / Seguo il cammino di te umile eroe / le tue strade di fatica e di amore. / Hai sconfitto il male / con la grazie dell'innocenza.

     La tua giovinezza / mite e pura povertà / fioriva dolce / di ricchezza e di vita / di forza, di volti, di sguardi / di mani aperte sul cuore degli altri. / Siamo ancora tutti come fratelli.

     Verrò a te / e tu mi ascolterai stupito / che la vita sia ancora / una vigna di frutti, di sguardi / un giardino fiorito / di volti fraterni.

     E proprio ora / che tutto mi è dato / guardo anch'io la riva / giungo anch'io alla riva.

     La riva e l'attesa / sono mani aperte sul cuore dell'altro. / Siamo ancora tutti come fratelli.

 

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"Oltre il silenzio" 

     Terra di baroni e campieri / di padri padroni e lupi rapaci / di volpi folli di sangue e di odio. / Regno dell'ingiustizia / dove il bravo ragazzo / è una fanciulla da marito / conformista e abbrutita / dalle leggi feroci del branco / dalla sua omertà spietata / ottusa e di pietra. / Il servo felice è un servo feroce / che uccide il fratello / è un servo obbediente / alla furia, all'arbitrio demente / alle bramosie insaziabili / di un potere feudale / avido di sangue e dolore. / Nei feudi dei baroni di queste contrade / le tue mafie hanno piantato le loro radici / e con esse l'omertà e il silenzio della storia. / L'omertà della cultura ufficiale / tace sulle case / di questi uomini oppressi. Le case di questi uomini oppressi / erano canili di fango e di pietra / dove il mite, l'innocente, il puro / è rimasto inchiodato / alla croce del nulla. / Auschwitz regnava con il suo male assoluto / in mezzo a noi. / Secoli di catene, di tenebre / di atroci ferite e oppressioni / che un'arcadia di ebbrezze e di sangue / imbavaglia e nasconde / con un folclore insensato / di pastorelli e deliri di zufoli. / E il kapò era un oppresso / divenuto un oppressore / campiere o padre padrone. / L'innocente chiedeva giustizia / ma è rimasto inchiodato / alla croce del nulla / la croce dell'omertà / del silenzio di morte / della storia e della cultura ufficiale.

     Anche in mezzo ai poveri / si annida il male / e alligna l'ingiustizia.  / Vi è sempre uno più povero / da offendere, da tormentare / e uccidere. / L'ignoranza non assolve / non ti assolve / è la colpa capitale / il male assoluto. / Hai il dovere di capire / di chiedere perché. / Hai il dovere / di  spezzare le prigioni della mente / la servitù della morte / che rende l'oppresso / complice dell'aggressore / che rende l'oppresso / oppressore lui stesso. / Capire è gridare / finalmente in piena luce: Me ne importa fratello ! / La mia vita è legata / al destino della vita dell'altro. / Ogni offesa, ogni ferita / ogni insulto alla tua vita / è una ferita alla mia vita.

 



       -  "Guida alla natura del Comune di Castroreale"  -  Febbraio 2000.

       - "La magia del fare. Oggetti e forme della memoria" . Museo Etnostorico "Nello Cassata" Edizioni Oikos (Istituto Europeo di Etnostoria) - Novembre 2003 - (Coautore) - 

      "Castroreale: storia, arte, tradizioni religiose, gastronomia"  - Comune di Castroreale - Luglio 2004 - (Coautore con il prof. Antonino Bilardo) - 

 



Tesi di laurea

               L'intendimento di questa sezione  del sito è quello di segnalare tutte le  ricerche di varia natura eseguite sul territorio comunale. Sarà così possibile così  creare un archivio di dati, utile per  conoscere le nostre risorse umane, naturali, etc. .

               Sono molto gradite ulteriori segnalazioni.         

             Franco Piccolo è nato il 25 giugno 1976. Si è laureato il 26 luglio 2000 presso l'Università degli Studi di Messina - Facoltà di Scienze Matematiche Fisiche e Naturali - Corso di Laurea in Scienze Naturali -  discutendo  una tesi sull'interessante tema: "Raccolte entomologiche nel territorio del comune di Castroreale". Relatore il professore Guglielmo Cavallaro.  

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