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insegnanti ed educatori della scuola media di via Maffucci, del Distretto Scolastico 80, del quartiere Bovisa di Milano

 

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EDUCAZIONE E GLOBALIZZAZIONE

Resoconto della conversazione del 12 dicembre.

Sono presenti all’incontro: Giovanna O., Giovanna P., Giovanna G., Anna D.C., Ferruccio D., Irene, Felice S., Natasha A., Rosanna F., Luciana T., Luisa G.

L’incontro si apre con una introduzione – stimolo alla conversazione:

Felice:

A testimonianza di un campo di indagine per molti versi ancora poco studiato, pochi sono gli autori che hanno analizzato il rapporto tra l'educazione e la globalizzazione. Mi permetto di citare qualche riferimento bibliografico. Segnalo il bel libro di Noam Chomsky e Heinz Dieterich "La società globale - Educazione Mercato Democrazia", La Piccola Editrice, 1997, in cui si descrivono le conseguenze pesanti della globalizzazione per il lavoro, l'educazione e la democrazia alle soglie del XXI secolo. Il testo di Milena Canterini, "Educare alla cittadinanza - La pedagogia e le sfide della globalizzazione", Carocci ed., 2001, offre un punto di vista educativo interessante per educare ad essere cittadini in un mondo caratterizzato sempre più dall'individualismo civico e dal multiculturalismo. Segnalo anche il recente testo di Edgar Morin "I sette saperi necessari all'educazione del futuro", Cortina ed., 2001, nel quale viene evidenziata l'educazione all'identità terrestre, ovvero la necessità di educare le nuove generazioni alla presa di coscienza di appartenere tutti ad un unico destino, quello planetario. Inoltre è interessante il colloquio tra Vittorio Foa e Andrea Ranieri intorno ai mutamenti del lavoro e ai nuovi saperi (per molti versi anche non condivisibili ma suscettibili di domande feconde), descritto nel libro "Il tempo del sapere - Domande e risposte sul lavoro che cambia", Einaudi ed., 2000. Poi segnalo un articolo comparso sul settimanale Carta del 6/12 dicembre 2001, a cura dell'associazione Attac Francia in cui si descrive l'offensiva liberista contro la scuola pubblica e le possibili risposte a tale disegno. Sempre su Carta, aprile 2001, mi sembra importante il contributo di Riccardo Petrella, "Le cinque trappole dell'educazione", sul mercato mondiale dell'istruzione e la scuola come merce. Poco prima della sua morte Luigi Mazzari mi aveva fornito l'indicazione del numero monografico della rivista Inchiesta, ed. Dedalo n.129, luglio-settembre 2000, "Globalizzazione - Lavoro Cultura Educazione Violenze" che contiene contributi importanti di vari autori, in particolare in relazione all'educazione degli adulti in un mondo globalizzato. Per ultimo vi sottopongo il documento Bertagna sulla riforma (meglio sarebbe dire controriforma) dei cicli scolastici che sarà presentato nei prossimi giorni a Foligno nei cosiddetti Stati Generali della Scuola. Questo documento si pone come ottimo spunto per attivare considerazioni attorno alla globalizzazione e al mercato della scuola.

Faccio ora qualche considerazione personale sul rapporto tra educazione e globalizzazione, convinto in ogni caso che il discorso può anche essere ampio, importante è però capire ciò che questo può significare per la nostra azione concreta di educatori qui ed ora.

Le definizioni di globalizzazione possono essere semplici o molto articolate, tutte comunque giungono alla considerazione più banale, cioè che la globalizzazione è tutto ciò che riguarda il pianeta. E in quanto tale, cioè fenomeno planetario, la globalizzazione si è verificata storicamente anche nei secoli passati. Le differenze sostanziali sono oggi le tecnologie telematiche che mettono in comunicazione ogni punto del globo e la conquista del mercato mondiale da parte di poche multinazionali. La dimensione di questo fenomeno è così ampio da rendere uniformi le economie e le culture ed è talmente forte e pervasivo da renderlo modello unico. Nel mondo interconnesso tutto ciò che accade in un dato luogo è allo stesso tempo causa e conseguenza di altri fatti in altri posti, in un intreccio sempre più stretto e inestricabile. Per queste ragioni è uso dire che la globalizzazione è ineliminabile, si possono introdurre freni e correttivi ma in quanto tale il fenomeno è inarrestabile. Della globalizzazione si può dire bene o si può dire male. I cosiddetti noglobal o newglobal ad esempio ritengono che bisogna globalizzare i diritti ( il diritto alla salute, alla cultura, all'acqua, al cibo, …) piuttosto che le merci. Il discorso della globalizzazione va dunque visto nel duplice senso degli aspetti negativi che questa comporta ( ad esempio depauperamento di zone del pianeta a vantaggio di altre che invece si arricchiscono sempre più) e degli aspetti positivi potenziali che potrebbero svilupparsi ( la conquista di diritti fondamentali per tutti gli abitanti della terra).

Ora cosa c'entra tutto questo con l'educazione?

Leggendo qui e là si scopre che c'è una stretta relazione tra la globalizzazione e l'educazione. Si scopre ad esempio (vedi Chomsky) che l'America Latina ha innestato negli ultimi anni, in modo sempre più diffuso, un processo di privatizzazione del sapere e della cultura attraverso il meccanismo perverso di distogliere parte del servizio pubblico offerto dalla scuola statale per devolverlo ai privati, i quali lo mettono a disposizione dietro pagamento. Un veicolo con cui avviene questo meccanismo di privatizzazione della scuola è l'uso delle nuove tecnologie informatiche. Questo è il cavallo di Troia attraverso cui anche paesi a basso tasso di tecnologia subiscono l'invasività delle agenzie formative nordamericane che offrono "pacchetti formativi" a pagamento su Internet. L' E-Learning o apprendimento a distanza è un fenomeno sempre più diffuso a livello universitario in questi paesi e sta allargando la sua sfera di influenza anche ai livelli scolastici inferiori, accompagnato da varie forme di sponsorizzazione del sapere come merce da comprare. In un articolo che vi ho dato si parla perfino della Coca Cola come logo per sponsorizzare la formazione. Ora se si pensa che la voce "istruzione" nei bilanci degli stati è un numero percentuale molto consistente, si può intuire quanto interesse economico abbia la "merce scuola". E dislocare anche solo una piccola parte di questo bene pubblico sul mercato privato assume un enorme significato, sollecita grandi golosità affaristiche e nutre interessi di grande portata. Ora, per ciò che riguarda la situazione italiana, è del tutto evidente che il cosiddetto buono scuola ( la regione Lombardia insegna), le scelte adottate per la scuola dal governo attuale in finanziaria, lo stesso documento Bertagna, mirano a distogliere quanta più quota possibile dalla voce scuola pubblica per spostarla sul privato. E per convincerci della bontà di queste scelte si usa a man bassa il pensiero unico liberista dominante e globalizzato: "il privato è bello", "il pubblico è spreco". Sempre più il pensiero unico liberista autorizza ad aprire fronti di depauperamento della scuola pubblica per finanziare la scuola privata.

Cosa comporta tutto questo sul nostro fare scuola concreto?

Quali conseguenze crea nel nostro rapporto educativo quotidiano con i nostri alunni?

Ha senso riflettere sulle necessità didattiche ed educative che la globalizzazione porta con sé?

Può essere utile considerare nuove modalità attraverso cui educare le nuove generazioni ad essere cittadini del mondo e ad essere persone dotate dello spirito critico necessario a capire la nuova realtà globalizzata?

A queste domande non so dare risposte certe, ne vorrei parlare con voi. Mi pongo il problema di vivere in un mondo sempre più globalizzato e allo stesso tempo di spendere il mio essere educatore in un quotidiano fortemente localizzato, pensando a come si può contribuire ad essere cittadini del mondo il più consapevole possibile.

Giovanna P.:

Hai fatto un discorso molto ampio. C'è un aspetto che è quello della nostra categoria, di come noi insegnanti, che crediamo nella scuola pubblica, possiamo dare in questo periodo risposte di lotta a livello tale da essere capite e conosciute. Sappiamo che la stampa non tratta bene gli insegnanti, tanto meno adesso, e il motivo degli scioperi che stiamo facendo credo che alle famiglie dei nostri alunni sia sconosciuto. E questo è un nostro limite, è un limite del sindacato. Qui non si tratta di dei pochi fondi stanziati in finanziaria ma di un attacco alle fondamenta della scuola pubblica. Bisogna chiarirci bene il significato di questo attacco per capire dove si vuole arrivare, cosa significa questo investimento di risorse non solo economiche, ma anche intellettuali per la qualificazione della scuola privata. La scuola privata sta assumendo in questo disegno una autonomia didattica che fino a qualche tempo fa non aveva, ad esempio la scuola privata si confondeva sempre più spesso con la scuola confessionale. Oggi si comincia a vedere il fiorire di scuole private, anche laiche, che tendono ad occupare, come dicevi tu, il mercato.

C'è poi un altro aspetto che è quello di essere educatori, di cosa possiamo fare per contribuire ad educare i nostri alunni dai 6 ai 14 anni a non pensare che il liberismo economico sia l'unica soluzione per tutti i problemi, che l'importante sia l'arrivismo, che il lavoro sia avere quattro soldi in tasca, che le persone vengano giudicate addirittura razzisticamente non più per il colore della loro pelle ma per il loro stato sociale. Ecco questo è un discorso difficile perché sempre più spesso ti scontri con i problemi che derivano dall'integrazione dei bambini provenienti da altre culture. Difficile perché nella scuola elementare i bambini riportano pochissimo della loro realtà e non si riesce a far circolare le loro esperienze con la conseguente disinformazione quasi assoluta sui ceppi culturali presenti. Io ho, da 12 anni, cinesi a scuola e ho scoperto solo l'anno scorso casualmente che i bambini cinesi non sanno come si chiamano e non sanno come si chiamano i loro genitori semplicemente perché tra loro non si chiamano, ma hanno rapporti parentali per cui uno è il figlio, l'altra è la madre, l'altra ancora è la moglie. E noi chiediamo "come ti chiami?" Oppure, altro esempio, un bambino cinese che tiene gli occhi bassi e noi, per cultura, pensiamo che sia quasi uno sgarbo e invece è il massimo rispetto verso l'adulto.. faccio questi esempi per dire che abbiamo realtà culturali diverse per lo più sconosciute, che non padroneggiamo e che non possiamo usare per uno scambio. Penso che per i nostri alunni lo scambio e il confronto tra culture diverse nel rispetto reciproco sia l'unica speranza affinché la prossima generazione sia meno egoista e berlusconiana.

Quindi penso che siano due le questioni: una di categoria, che riguarda la minaccia alla scuola pubblica e l'altra di tipo educativa.

Alla tua domanda "cosa possiamo fare?" rispondo dicendo che nella mia scuola, , come Commissione Scuola-Famiglia, stiamo tentando di fare degli incontri con genitori ed esponenti di culture diverse. Li abbiamo programmati da marzo prossimo in poi, per vedere di mettere in circolazione questi discorsi assieme ai genitori. Un argomento sarà, ad esempio, "Il bambino nelle varie società". Manderemo gli inviti anche a voi, ai genitori della vostra scuola, perché penso che siano argomenti interessanti per tutti. La Commissione Scuola-Famiglia è un organo del Collegio Docenti che quest'anno si sta occupando della realizzazione di un progetto interculturale rivolto agli adulti, in particolare ai genitori e agli insegnanti. Dove è possibile chiameremo ad intervenire genitori dei nostri alunni, se padroneggiano la lingua e sono in grado di gestire il discorso, altrimenti inviteremo rappresentanti delle comunità (cinese, filippina, sudamericana, …). Si terranno almeno tre incontri e concluderemo con una festa della scuola al Parco Bassi in spirito interculturale.

Felice:

Se ho ben capito quello che tu dici Giovanna è che, per far fronte a questi fenomeni così grandiosi come la globalizzazione di cui stiamo parlando, occorre far interagire culturalmente le varie diversità dei cittadini del mondo.

Giovanna P.:

Certo, visto che abbiamo nelle nostre classi, nella scuola pubblica, questa risorsa di bambini stranieri e ciò è ancor più necessario perché il governo supporta economicamente la scuola privata senza condizionane il finanziamento all'inserimento di alunni ad esempio stranieri o handicappati. Il rischio è di finire veramente come la scuola pubblica americana che raccoglie tutto il disagio, tutte le difficoltà (compresi gli stranieri di recente immigrazione), mentre la scuola privata fa una scuola di élite.

Ferruccio:

A proposito del discorso interculturale ho visto alla televisione svizzera un'insegnante che spiegava come aveva realizzato una lezione sul razzismo in una terza elementare col problema dei bambini neri. Il servizio era fatto molto bene e mi piacerebbe recuperarlo per farlo vedere nelle nostre classi. Ovviamente il problema dei neri, come viene presentato nel servizio, nelle nostre classi non è presente; ad esempio il nero è sempre chiamato "ragazzo" anche quando ha sessant'anni.

Più in generale avere una scuola privata sempre più forte vuol dire mettere la scuola pubblica in condizioni sempre più disperate. Con il rischio di concentrare nella scuola pubblica i problemi e in tal modo favorire il trasferimento nella scuola privata anche di persone che non ne condividono l'ideologia. Anni fa avevo letto con raccapriccio come funzionava la scuola negli Stati Uniti: addirittura le stesse classi sociali privilegiate non avevano una buona scuola pubblica perché questa viene pagata dal Consiglio di Zona (lì c'è un forte decentramento). Ad esempio può succedere che, in una zona del centro città dove ci sono forti finanziamenti perché magari ci sono gli sponsor e dove il Consiglio di Zona ha soldi, venga fatta una buona scuola con classi limitate, con laboratori, con insegnanti pagati bene. Succede però che l'obiettivo dell'insegnante di questa scuola è di evitare di essere licenziato visto che il preside ha questo potere. Allora perché ciò non accada bisogna far sì che i genitori non protestino, che i loro bambini siano contenti e abbiano buoni risultati. Alla fine si danno ottimi voti a tutti, anche a coloro che non sanno niente ( tenendo magari verifiche di basso livello), così tutti sono contenti e nessuno protesta. Il risultato è che i ragazzi non sono affatto preparati.

Nelle scuole di periferia poi è un disastro: gli insegnanti sono pagati poco, le classi sono numerose e con ragazzi difficili, senza laboratori. A parte qualche "missionario", appena possono gli insegnanti si trasferiscono nelle scuole del centro città.

Noi, la nostra scuola, stiamo andando purtroppo verso questa direzione disperante. Ciò si verifica anche per ciò che riguarda la fornitura dei cosiddetti "pacchetti formativi" su Internet, e per l'offerta di pezzi di programma didattico, venduti da ditte private. Potrà avvenire ad esempio che gli insegnanti di sostegno siano dipendenti di cooperative esterne alla scuola. E potrà accadere che gli insegnanti siano espropriati del loro programma curricolare attraverso l'offerta a pagamento di agenzie esterne di itinerari didattici di vario genere, usando il discorso che così i costi si abbassano e si risparmia sul personale interno. La questione Internet mi sembra gravissima per ciò che riguarda il rapporto educativo perché viene a mancare il contributo della discussione collettiva di classe, che non può avvenire quando sei da solo davanti allo schermo del computer, anche in presenza di un buon CD didattico.

Giovanna P.:

Non ho letto bene la proposta Bertagna, ma mi sembra molto grave per la scuola superiore tutto quello che dici tu Ferruccio. Ed è tanto più grave per la formazione dei ragazzi perché si toglie la dimensione sociale dell'apprendimento. Si scambia per adeguamento ai livelli internazionali ed europei l'abbassamento tecnicistico della conoscenza. Ho due figli usciti dalla scuola superiore e per esperienza concreta attribuisco responsabilità anche ai colleghi di questo ciclo scolastico i quali hanno incapacità ad affrontare le situazioni problematiche e a modificare il modello secondo cui loro sono là solo per trasmettere conoscenze disciplinari e basta. Noi siamo quasi obbligati a scontrarci con i problemi esistenziali e psicologici dei bambini, loro invece se li trovano già grandi, non sono più nella scuola dell'obbligo, e "chi riesce bene, chi non riesce fa niente, ha solo sbagliato indirizzo scolastico". Per questo si dice che la scuola elementare è la scuola migliore. Non certo perché gli insegnanti sono più bravi, vista anche la loro formazione di non laureati. Avendo bambini piccoli, noi siamo obbligati a tenere conto delle loro difficoltà nell'apprendimento non come problema, che si può scaricare su altri, ma come impegno da assumere e di cui farsi carico per migliorare la didattica. La riforma della scuola superiore va nella direzione di un appiattimento dei contenuti, i quali, proprio perché pensati solo come questione tecnica, possono essere svolti di fronte a un computer. Si dimentica però che per un inserimento nel mondo del lavoro non bastano solo le conoscenze tecniche, occorre la formazione della persona. Ciò che dicevi tu Ferruccio per la scuola statunitense sta già avvenendo da noi con la Moratti: siccome pochi alunni arrivano al diploma, allora abbassiamo i contenuti così tanti potranno conseguire quel pezzo di carta da spendere in un mondo global.

Ferruccio:

Ho visto un'altra cosa grave a proposito del progetto qualità venuto avanti in questi anni nella scuola come emanazione della Confindustria. L'aspetto critico dei progetti è stato cancellato. Ciò è terribile non solo dal punto di vista umano (la critica è fondamentale nella società) ma anche dal punto di vista economico (la critica è una necessità nell'impresa). La mancanza di formazione critica vuol dire che le persone entreranno in azienda per eseguire solo ordini venuti dall'alto, con grande contentezza del padrone. Contentezza solo relativa perché questi dipendenti saranno tanti yesman incapaci di criticare anche di fronte ad errori evidenti, con conseguenze che possono anche essere distruttive. Ad esempio la crisi coreana probabilmente sta dentro questo discorso:è mai possibile che nessuno si sia accorto di dove stesse andando quella economia? Le critiche erano considerate non funzionali al cambiamento, anche quando affermavano cose giuste. E' così che bisogna concepire il progresso?

Un alunno dotato di senso critico è invece una persona in grado di ragionare, di metterci del suo, di impegnare energie proprie, ma al capitalismo tutto questo non interessa. E' una grande miopia. Non so se tutto questo c'entra con la globalizzazione, ma sento che sta venendo avanti e lo rilevo.

Giovanna O.:

L'argomento "globalizzazione" è per me molto complesso. Rifletto sul fatto di avere quest'anno una buona classe prima di alunni. Ho trovato questi ragazzi undicenni, rispetto a quelli che avevo tre anni fa, molto più competitivi (sono attentissimi ai più o ai meno che si danno nei giudizi di valutazione), molto più aggressivi, molto più sicuri, molto più egoisti e senza alcun rispetto dell'altro (parlo di persone "educate" e con famiglie "presenti"), molto più tecnologici (sanno già tutto del computer, hanno TV e cellulari). Fanno volentieri laboratorio di informatica e ritengono un po' vecchio l'uso della parola (e quindi della critica). Ho un'idea forse un po' antica dell'essere insegnante perché penso che sia colui il quale deve sviluppare il pensiero attraverso la parola, il senso critico. Allo stesso tempo voglio fare i conti, mediare, con la tecnologia e mi trovo molto spiazzata. Il mio problema è essenzialmente questo.

Irene:

Ieri sera nel Consiglio di Classe della mia scuola (un'altra scuola media, vicino a Corso Sempione, non una scuola di periferia) sono state dette le stesse parole che ho sentito adesso: i ragazzi sempre più arroganti, sempre più sicuri di sé, sempre più rivendicativi. Penso che il discorso non sia isolato e circoscritto a qualche situazione ma è generale; ci troviamo di fronte a una generazione di ragazzi che sta cambiando sotto i nostri occhi e che è sempre più asociale.

Felice:

La cifra più importante e pericolosa della globalizzazione è dare un valore assolutamente positivo al mercato. Siccome nel mercato ci si sta solo se si è competitivi, aggressivi e vincitori, passa a livello globale il fatto che gli individui sono tanto più validi quanto più agiscono questi comportamenti. Io penso che questo fenomeno globale influenzi fortemente l'educazione. Quanto più il servizio pubblico perde la sua importanza, quanto più l'esercizio della socialità e del produrre cultura col colloquio e la parola diventa marginale, tanto più si sviluppa una società di egoisti, di persone che utilizzano come unica modalità di approccio all'altro la forza sotto i suoi vari aspetti di superiorità e di aggressività distruttiva. Tutto questo noi lo vediamo nelle nostre classi con i nostri alunni e lo vediamo con i nostri figli, lo vediamo in TV, lo vediamo ovunque.

Un altro aspetto importantissimo di cui parlava prima Giovanna è il rapporto tra globalizzazione e intercultura, la relazione tra globalismo e nuove conoscenze. Il sapere più affermato negli ultimi decenni, a qualunque livello e latitudine, è il sapere prodotto dalla contaminazione. La cultura contemporanea è il risultato di contaminazioni; le nuove conoscenze sono gli esiti di "saperi di frontiera". Le nuove scienze, i nuovi approcci culturali segnalano che è la frontiera il margine attraverso cui si travasa, si contamina, si forma una nuova conoscenza. Ciò vale per l'informatica, le scienze biologiche, le scienze umane interdisciplinari, ecc. Ora succede che le attuali scelte di politica governativa e scolastica vanno in una direzione opposta a questo paradigma culturale del moderno. Da questo punto di vista la politica leghista appare un fenomeno sottoculturale in cui si concepisce l'autonomia non come apertura di prospettive ma esclusivamente come arretramento culturale. Ciò deve far riflettere la scuola militante; ci deve far preoccupare questo vento che soffia in campo educativo perché è perfino fuori dalla modernità. Dovremmo cercare di assecondare un processo positivo di mondializzazione del sapere, intrecciare culture , mettere a confronto frontiere facendole interagire, contaminandole, creando nuova socialità. Oggi assistiamo ad interpretazioni regressive dell'idea di autonomia. Che altro è lo slogan "padrone a casa mia"?. Proviamo per un attimo a pensare cosa succede se esco sul pianerottolo, in strada, nella piazza o a scuola e a fare i conti col rapporto con gli altri. Qui sta la relazione tra pubblico e privato, tra individuo e collettività ed è qui che si pone la necessità di sviluppare socialità.

Anna D.C.:

Volevo dire due cose. Una sull'attacco alla scuola pubblica, la privatizzazione e i problemi economici. Una persona che conosco, non un insegnante ma lavoratore nel sociale, criticava il fatto che noi insegnanti vogliamo un adeguamento degli stipendi a quelli europei e che nessuno in Italia lo ha. Così non ci andava bene il "concorsone" di Berlinguer, non ci va bene la Moratti, cioè non ci va bene nessuna riforma. A queste critiche non sappiamo cosa rispondere, ci siamo chiusi nel nostro mondo, dovremmo aprirci, informare per non essere perdenti. Un'altra cosa la noto nei miei ragazzi. Fanno fatica a capire le cose cattive del mondo, non le capiscono oppure non le vogliono accettare (vedi la guerra in Afghanistan).

Luciana:

I ragazzi e le ragazze si aspettano persone adulte positive in grado di mediare e di risolvere i conflitti. Io credo che nella scuola bisogna dare questo senso di persona adulta capace di mediare e di mettere in gioco la sua autorità. Se sono riuscita ad ottenere un minimo di civiltà nella mia classe è perché continuo a giocarmi giorno per giorno, e pensare quali scelte fare ad esempio nella punizione o non punizione, tenendo conto della personalità di ciascuno. Non eravamo d’accordo con la riforma Berlinguer perché era tecnicista e la Moratti ne accentua i caratteri. Si dividono gli insegnanti tra bravi e meno bravi. Si fanno gli esami finali di scuola superiore con i test che è un modo per dire che un insegnante può essere sostituibile a piacimento. Anche i moduli strutturati a pacchetti vanno in questa direzione. La Moratti non fa altro, senza pudori, che portare alle estreme conseguenze le proposte Berlinguer. Non è vero che non ci sono state iniziative di produzione di idee contro questo disegno perché c'è il Movimento di Autoriforma della Scuola (http://members.xoom.it/autoriforma) che da tre, quattro anni fa convegni. Anche se questo non è un movimento di massa, discute per una scuola basata sull'oralità, sul colloquio, sulla mediazione attraverso la parola.

Io non sono contraria a Internet o cose del genere. Ad esempio mio figlio, alunno in una terza classe di scuola superiore, assieme a compagni e adulti, sta scambiando email sul tema della guerra. Le email sono positive perché c'è scambio di parola. Mio figlio che ha diciassette anni ha scambiato email con una ragazza di Cracovia e adesso andrà a trovarla. Questa estate è andato in Marocco e, attraverso telefonini e email, ha tenuto contatti con noi. Questi sono fenomeni positivi della globalizzazione. Telefonini, computer, nuove tecnologie permettono un contatto a distanza e consentono di sentirsi cittadini del mondo. Mia figlia va con gli scuots dove devono fare le selezioni per il "jamboree", che si terrà in Thainlandia a gennaio l'anno prossimo. Lei che ha quattordici anni mi diceva che era assurdo che lì facessero l'alza bandiera gridando "Italia", perché lei si sente cittadina del mondo.

Nella mia classe ho tre ragazzini stranieri e mi piace pensare che non siamo solo noi quelli che hanno tutto da dare ma che anche l'alunna straniera mi può dare qualcosa, se mi metto in condizione di ascolto. Questo vuol dire che non dovrò farla scrivere solo in italiano, ma farla scrivere prima in cinese per poi farmi tradurre magari in un italiano stentatissimo ciò che ha scritto. Io successivamente glielo scriverò in italiano più corretto e, se lei vorrà, potrà copiarlo. Suo cuginetto non dice una parola in italiano e dovrò quindi inventarmi qualcos'altro. Voglio dire che l'integrazione non è "ti prendi la mia cultura e basta" perché "hai una tua lingua madre, hai una tua ricchezza che io ti riconosco". Ho imparato questo facendo laboratorio teatrale nel quale se hai qualcosa nell'anima da dire lo puoi fare solo attraverso la lingua madre. Un'altra cosa che voglio dire è sulla mercificazione dei giudizi di valutazione di cui parlavi tu Giovanna O. Io cerco di spiegare ai ragazzi e alle ragazze le motivazioni che portano al giudizio. Faccio prima tutto un lavoro in cui mi confronto in una relazione evitando di cadere nel mercato dei giudizi.

Irene:

Anche spiegando le motivazioni delle valutazioni mi è capitato in classi prime di assistere al mercato che dici tu.

Luciana:

Se si fanno test, se si mettono in atto meccanismi tecnicisti, il problema si ripresenta e ci frega. E' la linea americana giocata al ribasso. Mia nipote che è stata in Islanda mi ha detto che lì a scuola tutti ci vanno volentieri. Da noi in Italia non ci si va volentieri, si va a scuola perché si deve e su questo dovremmo riflettere.

Giovanna P.:

Mi chiedo perché i bambini sono così. Penso che non sia solo a causa della TV, la famiglia, la globalizzazione, eccetera, ma perché non sperimentano su di sé più nulla. Trovo negativo il fatto che un ragazzo di quattordici anni non sia in grado di capire le brutture del mondo perché non è capace di riconoscerle su di sé. Soprattutto nelle grandi città i bambini non hanno più la possibilità di sperimentare il loro personale, di mettersi in gioco in particolare con i coetanei che è una scuola di vita che non può essere sostituita da nulla. E poi di interagire con più adulti. Trovano genitori distratti, insegnanti spesso presi dalla programmazione e intenti a mediare e a problematizzare qualunque situazione collettiva tra bambini. I bambini si sperimentano poco vuoi perché sono spesso davanti a una macchina o a un televisore, vuoi perché sono sempre in presenza di adulti che li valutano. Dovremmo lasciarli più liberi di sbagliare ed educarli ad accettare la diversità di ciascuno.

Felice:

Come concili tu Giovanna l'accettazione della propria diversità, che implica la propria individualità, con i processi massificanti e conformistici della globalizzazione?

Vorrei citarti un modello educativo che propone obiettivi necessari a formare cittadini del mondo più consapevoli (il modello è ripreso dal libro citato prima "Educare alla cittadinanza - La pedagogia e le sfide della globalizzazione"): - assunzione di responsabilità - comprensione e apprezzamento delle differenze culturali - pensiero critico - disponibilità alla soluzione non violenta dei conflitti - cambiamento di stile di vita per la difesa dell'ambiente - sensibilità verso la difesa dei diritti umani.

Se è vero che bisogna apprezzare e valorizzare le diversità è altresì vero che bisogna allo stesso tempo sviluppare elementi di mondialità, di relazione con gli altri, di comprensione multidimensionale. Saremo educatori non al passo con i tempi se non facciamo questo e lo dico anche considerando il fatto che da sempre l'educazione è un fatto collettivo.

Luciana:

La differenza non è tra individuo e collettivo ma tra un individuo che si mette in relazione con un altro. E' la relazione che cambia.

Felice:

La relazione non è solo biunivoca ma complessa e multidimensionale.

Luciana:

Io non vado a dire educazione alla mondialità o altre cose del genere. Per me mondialità è la bambina cinese che ho in classe, attraverso lei conosco la sua immagine della Cina. Parto sempre dal discorso che "si nasce due prima di essere uno" e solo se si è coscienti di questo si diventa persone consapevoli di non poter esistere da soli. L'individualismo così crolla.

Giovanna P.:

Il problema è che oggi abbiamo persone di sei anni che non hanno sviluppato un'individualità adatta alla loro età e questo per le ragioni che dicevo prima: non hanno permesso di sperimentarsi con i coetanei o con adulti diversi dalla mamma e papà. E' questo per me il compito più importante che abbiamo da svolgere, favorire la loro crescita individuale e specifica.

Felice:

Non so se ho capito bene. Tu Giovanna dici che occorre far comprendere la propria individualità ai bambini perché così sono in grado di comprendere il mondo.

Giovanna P.:

Le proprie forze, cosa sono loro, i loro rapporti con i compagni, come si pongono, rendersi conto dei propri limiti.

Rosanna:

Io non sono convinta di questo discorso. Se penso a come vivevo io da bambina registro che c'erano meno relazioni tra mondo adulto e mondo del bambino. C'era piuttosto una cultura di separazione, di allontanamento col mondo del bambino. Adesso in generale c'è più attenzione per il bambino anche se si magari si pensa solo a come vestirlo o a quale merendina dargli. Però con i genitori più intelligenti c'è più colloquio e discussione. Quello che noto tra i bambini, ormai da più generazioni, è la loro superficialità, il loro individualismo sempre più spinto. Penso che questo sia legato ad un mondo sempre più tecnologico e ai massmedia sempre più imperanti ed invadenti. Vedo bambini che hanno una considerazione di sé altissima, tale da mettere in dubbio la figura adulta fin dalla prima elementare. E vedo i genitori che vogliono interferire nella vita scolastica del bambino in modo assurdo e deformante. Pur parlando molto con i bambini sono delusa dal mondo che ci circonda e che opera contro quello che faccio. Mi sento impotente rispetto all'efficacia dei valori che propongo perché vengo continuamente rinnegata in ogni momento da TV o altro. E i ragazzi che vogliono cambiare in meglio il mondo sono pochi e vengono derisi dalla massa che pensa solo a divertirsi e a studiare il meno possibile. A proposito degli scioperi dovremmo trovare noi dei canali efficaci di informazione dei genitori perché i massmedia non aiutano affatto, anzi.

Felice:

Sebbene la situazione generale non sia delle migliori per la conquista di nuovi diritti e sebbene si sia spesso in condizioni minoritarie occorre rappresentare il mondo attraverso una diversa narrazione della realtà. La narrazione prevalente oggi è l'iperliberismo, però se anche si in pochi a fornire modelli diversi si può contribuire a descrivere un'altra narrazione del mondo e a sollecitare nuove per un altro mondo possibile.

Giovanna G.:

Io sono preoccupata del fatto che manca una nostra elaborazione culturale. E' vero che la scuola privata per definizione fa per sé e non si pone compiti culturali, ma la scuola pubblica non può non porsi questo compito.

La discussione è continuata ma non è stato possibile registrare gli interventi.

Milano 12 dicembre 2001

Resoconto a cura di Felice Soldano