Appendice 1

Venezuela e Argentina:
storia di due colpi di Stato

New Internationalist Magazine
(7 luglio 2002)
di Greg Palast

Il colpo di stato condotto dal padronato venezuelano è fallito, mentre quello organizzato dalla finanza internazionale è riuscito. Greg Palast* (giornalista inglese, lavora per The Guardian, New internationalist Magazine e BBC) racconta la storia di due prese del potere completamente diverse.

La rivolta delle bionde

Caracas - Il primo maggio, partendo dall'hotel Hilton, 200.000 bionde hanno marciato verso l'est della città seguendo Casanova Avenue, la principale arteria commerciale di Caracas. Nello stesso tempo un mezzo milione di brunette convergevano verso di loro da ovest. Tutto questo avrebbe potuto sembrare nient'altro che un Carnevale delle parrucchiere se due settimane prima 16 persone non fossero state abbattute quando i due gruppi si erano incrociati.

Le piccole donne brune del primo maggio sono sostenitrici del presidente venezuelano Hugo Chavez. Scendono dai ranchos, vere e proprie concrezioni di bungalow di mattoni rossi, impilati uno sull'altro lungo i pendii ripidi e instabili che circondano questa città di cinque milioni di abitanti. I muri di alcune casupole sono nuovi, realizzati di recente, con un miglioramento notevole rispetto a quelli di prima, lerci, delle baracche costruite in fretta con pezzi di cartone. "Chavez gli dà i mattoni e il latte", mi ha spiegato un giornalista di una televisione locale, "e loro votano per lui".

Chavez è scuro e tutto tondo, come una noce di cola. Come i suoi sostenitori è "un indio". Ma le bionde, "le spagnole", sono le proprietarie del Venezuela. Vicino a me un gruppetto di manifestanti della marcia bionda grida "out, out!", in inglese, come per imporre la revoca del presidente. Una dirigente aziendale del settore oli alimentari, dall' alto dei suoi tacchi, con occhiali di marca e reggiseno finforzato, si distacca un po' dal corteo e dice: "bisogna battersi per la democrazia", prima di aggiungere: "cercheremo di farlo istituzionalmente". Una frase che non aveva alcun senso per me fino a quando una bancaria dal rossetto rosa pallido mi spiega che, per sbarazzarsi di Chavez, "non possiamo attendere le prossime elezioni".

Per gli antichavisti democrazia non fa rima con voto. Dal momento che l' 80% della popolazione venezuelana vive al di sotto della soglia di povertà, gli uomini della finanza non si battono certo per le elezioni. Chavez ha vinto quelle del 1998 in maniera sacrosanta, col 58% del voto popolare, e non è possibile che il dato cambi, a meno di non usare la forza. Il 12 aprile i padroni del Venezuela, con l' aiuto di qualche generale "spagnolo", hanno rivolto le loro armi contro il palazzo presidenziale e sequestrato Chavez.

Pedro Carmona, il capo di Federcamaras - la confederazione nazionale di industria e finanza -, si è autoproclamato presidente. Questo golpe era solo l'ultimo atto della catena di pressioni ingaggiata dalle imprese. Nelle ore che sono seguite Carmona ha abrogato 49 leggi promulgate da Chavez, in particolare quelle che dispiacevano ai grandi capitani d'industria, ai quadri delle compagnie petrolifere straniere e ai grandi proprietari terrieri.

L'abbraccio dei banchieri

Carmona si è vestito con i suoi più bei lustrini per la cerimonia organizzata in occasione della sua presa del potere. Nella sala da ballo di Miraflores, affollata dall'elite venezuelana, Ignacio Salvatierra, presidente dell'Associazione dei banchieri, ha controfirmato l'autoproclamazione di Cardona assicurandogli i suoi migliori auguri di prosperità. Tutti e due si sono abbracciati emozionati mentre l'auditorio applaudiva.

Mentre gli ambienti degli affari applaudivano e cantavano "Democrazia! Democrazia!", Carmona ha decretato lo scioglimento dell'Assemblea nazionale e della Corte suprema. Ho saputo più tardi che il cardinale di Caracas aveva accompagnato Cardona attraverso tutto il Palazzo presidenziale, aggiungendo così un'ultimo tocco di derisione degno di Genet a questo dramma della disillusione. Il sipario cadrà "al canto del gallo", mi aveva detto Chavez nella sua maniera così poetica.

Il ministro di Chavez Migeul Mustamante-Madriz, che era sfuggito al colpo di stato, aveva portato 60.000 manifestanti dal Barrio Petare a Miraflores. Mentre migliaia di persone manifestavano contro il colpo di stato, le stazioni televisive di Caracas, di proprietà dei baroni dei media che avevano sostenuto (e probabilmente organizzato) il golpe trasmettevano feuilleton melodrammatici. I padroni speravano che l'assenza di copertura mediatica avrebbe impedito alla folla di crescere. Ma essa era raddoppiata e poi ancora raddoppiata, e ancora. Il 13 aprile erano pronti a morire per Chavez.

Non ebbero bisogno di farlo. Carmona, appena rimessosi dalle sue fantasie, aveva ricevuto una chiamata dal comandante di un reggimento di parà pro-Chavez di stanza a Maracay, alla periferia della capitale. Per evitare una carneficina Chavez aveva accettato di essere arrestato e di seguire i golpisti, ma non li aveva avvertiti i congiurati che varie centinaia di militari fedeli si trovavano nel palazzo, in cui erano arrivati attraverso dei passaggi segreti. Carmona, preso di sorpresa, poteva solo decidere in quale maniera morire: per le pallottole dall'interno del palazzo, per le bombe dal cielo oppure fatto a pezzi dalla folla dei "mattoni e latte" che lo circondava. Si tolse i lustrini dal vestito e si arrese.

Contro i giganti del petrolio

Ho intervistato Carmona sporgendomi da una finestra al quarto piano di un appartamento nell'Alombra, un complesso immobiliare molto chic. Mi ero rivolto a lui nel mio cattivo spagnolo. Lui stava sul suo balcone, a una decina di metri di distanza. Il vecchio nababbo della petrolchimica era agli arresti domiciliari, per sua fortuna. Se avesse cercato di rovesciare il presidente del Kazakhistan (o anche quello Usa), a quest'ora avrebbe una pallottola in testa. Chavez, con una graziosa riverenza resa all'autorità suprema dei privilegiati si è accontentato di chiudere Carmona nel suo appartamento tanto costoso.

In risposta a una mia domanda su chi gli avesse dato l'autorità per autoproclamarsi presidente, il leader dei congiurati mi rispose: "la società civile". Che per lui voleva dire i banchieri, i padroni delle compagnie petrolifere e tutti quelli che lo avevano sostenuto.

Niente è più rivelatore quanto vedere quali leggi sono state abrogate da Carmona e dagli altri congiurati. Una per tutte la Ley de Tierras, la nuova riforma agraria che punta a dare la terra incoltivata ai senza terra, soprattutto i possedimenti non sfruttati dai latifondisti per più di due anni.

Ma probabilmente non sarebbe stato minacciato il mandato di Chavez se egli non avesse pestato i piedi ai giganti internazionali del petrolio. I crimini di Chavez contro gli interessi dell'industria petrolifera comprendono anche una legge che ha raddoppiato le royalties pagate dalla Exxon e dagli altri operatori del petrolio su ogni giacimento sfruttato, facendole salire dal 16% a circa il 30%. E poi lo scontro per il controllo della compagnia petrolifera nazionale PDVSA. L'azienda appartiene nominalmente al governo, ma di fatto si trova sotto la spada di Damocle degli operatori stranieri.

Chavez aveva praticamente rilanciato da solo l'Opec (l' Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio) impegnando il Venezuela a rispettare le quote di vendita decise dall'organizzazione. Il corso mondiale del petrolio era così raddoppiato raggiungendo i 20 $ al barile. È questo danaro del petrolio che gli ha permesso di finanziare il programma "mattoni e latte" e che lo ha spinto a sfidare la Exxon , primo produttore del petrolio venezuelano.

Non era poco per gli Usa. Il segretario generale dell'Opec, Ali Rodriguez, lo riconosce: "la dipendenza degli Usa dal petrolio aumenta progressivamente. Il Venezuela è uno dei principali fornitori degli Usa e la stabilità del Venezuela conta molto per loro".

Nel 1973 era stato questo paese sudamericano che aveva contribuito a spezzare l'embargo petrolifero arabo aumentando la sua produzione al di là delle quote dell'Opec e potenziando le sue enormi riserve. Ho appreso da Ali Rodriguez che il golpe del 12 aprile contro Chavez è stato innescato dai timori americani di un nuovo embargo petrolifero arabo. L'Iraq e la Libia facevano pressioni sull'Opec per bloccare l'export di petrolio negli Usa per protestare contro l'appoggio americano a Israele. L'accesso americano al petrolio del Venezuela è così diventato vitale.

Nel corso di una intervista Chavez mi ha detto: "ho la prova scritta, ho l'ora dell'entrata e dell'uscita di due ufficiali degli Stati Uniti nel quartiere generale dei congiurati; ho i loro nomi, so chi hanno incontrato, quello che si sono detti di persona e in più ho anche delle fotografie". Aggiungendo nuovi dettagli: "ho nelle mani l'immagine radar di una nave militare penetrata nelle acque venezuelana il 13 aprile. Ho le immagini radar di un elicottero che decolla dalla nave e vola verso il Venezuela, così come quelle di altri aerei che hanno violato lo spazio aereo venezuelano".

Con nemici così potenti è poco probabile che i tentativi di sbarazzarsi di Chavez si fermino là.

Eccezione al nuovo ordine mondiale

Le mosse dell'amministrazione Bush non si spiegano però soltanto col panico generato dalla prospettiva di un embargo petrolifero. Le radici sono molto più profonde. Miguel Bustamante-Madriz, membro del governo Chavez, descrive un conflitto più ampio con l'agenda della golabilizzazione: "L' America non può lasciarci al potere. Siamo l'eccezione al nuovo ordine della globalizzazione. Se riusciamo saremo un esempio per tutte le Americhe".

Ben al di là del preteso "Chavez ha 'rovinato' l' economia del Venezuela", sbandierato dai media europei e americano, infatti, l'anno scorso il Pil è salito del 2,8%. Un aumento che non era dovuto solo all'aumento del prezzo del petrolio. Se si toglie il grezzo, l'attività economica ha fatto un balzo del 4%. Paragonate l'economia venezuelana "in rovina" a quella dell' Argentina... La testa di cuoio del neoliberalismo è finita l'anno scorso in una profonda depressione, che si è poi trasformata in una spirale economica mortale.

Chavez è un riformista socialdemocratico all'antica: terra per i senza terra, aumento degli investimenti nell'edilizia e nelle infrastrutture, controllo dei prezzi di esportazione delle merci. Ma poiché il marxismo è stato screditato come la filosofia di chi ha "perduto" la Guerra fredda, il Chavismo sembra quindi pericolosamente radicale. Il suo riformismo fondato sulla ridistribuzione rappresenta malgrado tutto una alternativa credibile e possibile alle ricette liberiste imposte dalle imprese che dicono di preoccuparsi del bene comune. Basta ricordare le conseguenze della loro applicazione in Argentina da parte della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale (Fmi).

A partire dal 1980 la Banca mondiale e il Fondo hanno impostato l'agenda del liberismo su quattro capitoli: libero scambio, flessibilizzazione, riduzione del budget statale e deregulation. Chavez respinge tutto in blocco, a cominciare dall' agenda del commercio mondiale promossa dal Wto e dall' Accordo di libero scambio nord-americano (che gli Usa vorrebbero estendere al sudamerica sotto l' egida dell' Acla - Accordo di libero scambio delle Americhe).

Stando ai termini di questi accordi, per i popoli dell'emisfero sud il commercio ha di libero solo il nome. Chavez fa appello al contrario a un cambiamento nei termini del rapporto commerciale fra il nord e il sud, invitando ad aumentare il valore delle materie prime esportate in Europa e Nordamerica. La politica di rilancio dell'Opec e di imposizione di tariffe più alte sul petrolio condotta da Chavez deve essere vista a lungo termine come la volontà di spezzare il cerchio delle relazioni di scambio ineguali incarnate dal WTO.

La Banca mondiale e le regole del WTO hanno così spinto nazioni come l'Argentina a vendere le proprie banche pubbliche e le loro società di assicurazioni locali a giganti finanziari stranieri come Citibank o Banco Santander (Spagna). Queste ultime si sono affrettate a svuotare le riserve in divise forti del paese, esponendolo alla bancarotta ai primi sospetti di panico monetario scatenato dagli speculatori.

L' anti-Argentina

L'Argentina ha ingoiato i rimedi economici in quattro fasi proposti dalla Banca mondiale con un fatale rassegnazione. Non è che, riconosciamolo, avesse molte altre scelte. Sono riuscito ad avere nel giugno 2001 il resoconto segreto del rapporto della Banca mondiale sulla "Strategia di aiuto ai Paesi", che imponeva all'Argentina di uscire dalla sua depressione economica aumentando "la flessibilità della manodopera". Cosa che significava tagliare nei programmi di aiuto al lavoro, spezzare le regole sindacali e diminuire i salari reali. Esattamente il contrario di quello che ha fatto Chavez dopo la sconfitta dei cospiratori annunciando un aumento del 20% del salario minimo. Il suo modo di sostenere l'economia aumentando il potere d'acquisto degli operai meno pagati, piuttosto che ridurre i salari è votata agli anatemi da parte dei mondialisti.

Il suo Venezuela è un'anti-Argentina, che prende una direzione opposta a quella delle raccomandazioni ricevute - e in fine dei conti imposte - all'Argentina dalla Banca mondiale e dal Fmi.

Così, in un documento datato giugno 2001, il presidente della Banca mondiale James Wolfenshon esprime la sua grande fierezza per aver ottenuto che il governo dell'Argentina facesse "un taglio di 3 miliardi di dollari nelle spese primarie". Che un governo riduca la spesa nel pieno di una recessione mentre sarebbe più che necessario il sostegno della domanda, equivale a un vero e proprio suicidio economico. E allora chi ha spinto le banche a esigere un programma di tagli così disastroso?

La risposta si trova nello stesso documento. Quei 3 miliardi di dollari di tagli "serviranno a regolare un aumento dei tassi di interesse" applicato dalle banche straniere - Citybank, Chase Manhattan Bank, Bank of America, Crédit Suisse e Lloyds Bank. Queste ultime, dopo aver succhiato i capitali del paese, prestano all'Argentina quello stesso danaro a tassi da usura. Le banche straniere che lavorano col Fmi hanno in effetti imposto all'Argentina di pagare un enorme premio di rischio, superiore del 16% al tasso concesso dal Tesoro americano.

Chavez farebbe esattamente il contrario: fronteggiare la minaccia di un indebolimento della congiuntura provocata da un embargo sugli investimenti da parte delle imprese, tassando le compagnie petrolifere e aumentando la spesa pubblica: appunto "mattoni e latte". La soluzione non può essere più keynesiana. Mentre Chavez vuole nazionalizzare il petrolio e rifiuta la vendita della rete idrica, l' Argentina ha venduto tutto, compresi i suoi rubinetti. La Banca mondiale è raggiante: "i principali servizi pubblici sono stati privatizzati". Incluse le reti idrografiche cedute a Enron (Texas) e a Vivendi (Parigi), società che hanno immediatamente licenziato operai in massa, lasciato che la rete degli acquedotti cadessero a pezzi e aumentato le tariffe fino. a volte, al 400%. Wolfenshon, sorprendentemente, si sorprende a constatare che dopo quelle privatizzazioni i poveri non hanno più nemmeno un proprio accesso all' acqua.

Il nuovo colpo di stato

G. W. Bush è uomo di petrolio. Possedeva una compagnia petrolifera e ora sembra che siano le compagnie petrolifere che lo posseggono.

Non si può dubitare del fatto che il complotto organizzato contro Chavez dal complesso militar-industriale del Venezuela fosse al servizio degli interessi dei grandi petrolieri. Ma era un complotto all'antica, che aveva molte possibilità di fallire. I colpi di stato del 21° secolo seguiranno il modello argentino: alcune banche internazionali si impadroniranno del cuore finanziario di una nazione, facendo del possessore del titolo presidenziale un funzionario che avrà importanza solo in quanto factotum dell'ordine del giorno delle imprese.

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Dossier FNSI a cura di Pino Rea | Impaginazione e grafica Filippo Cioni