Il
sangue dei ragazzi venuti dal sud
di R. SAVIANO
IL RACCONTO. Nel momento della tragedia non possiamo non
chiederci perché a morire sono sempre, o quasi sempre, soldati
del Meridione.
Vengo da una terra di reduci e combattenti. E l'ennesima strage
di soldati non l'accolgo con la sorpresa di chi, davanti a una
notizia particolarmente dolorosa e grave, torna a includere una
terra lontana come l'Afghanistan nella propria geografia
mentale. Per me quel territorio ha sempre fatto parte della mia
geografia, geografia di luoghi dove non c'è pace. Gli italiani
partiti per laggiù e quelli che restano in Sicilia, in Calabria
o in Campania per me fanno in qualche modo parte di una mappa
unica, diversa da quella che abbraccia pure Firenze, Torino o
Bolzano.
Dei ventun soldati italiani caduti in Afghanistan la parte
maggiore sono meridionali. Meridionali arruolati nelle loro
regioni d'origine, o trasferiti altrove o persino figli di
meridionali emigrati. A chi in questi anni dal Nord Italia
blaterava sul Sud come di un'appendice necrotizzata di cui
liberarsi, oggi, nel silenzio che cade sulle città d'origine di
questi uomini dilaniati dai Taliban, troverà quella risposta
pesantissima che nessuna invocazione del valore nazionale è
stato in grado di dargli. Oggi siamo dinanzi all'ennesimo
tributo di sangue che le regioni meridionali, le regioni più
povere d'Italia, versano all'intero paese.
Indipendentemente da dove abitiamo, indipendente da come la
pensiamo sulle missioni e sulla guerra, nel momento della
tragedia non possiamo non considerare l'origine di questi
soldati, la loro storia, porci la domanda perché a morire sono
sempre o quasi sempre soldati del Sud. L'esercito oggi è fatto
in gran parte da questi ragazzi, ragazzi giovani, giovanissimi
in molti casi. Anche stavolta è così. Non può che essere così. E
a sgoccioli, coi loro nomi diramati dal ministro della Difesa ne
arriva la conferma ufficiale. Antonio Fortunato, trentacinque
anni, tenente, nato a Lagonegro in Basilicata. Roberto Valente,
trentasette anni, sergente maggiore, di Napoli. Davide Ricchiuto,
ventisei anni, primo caporalmaggiore, nato a Glarus in Svizzera,
ma residente a Tiggiano, in provincia di Lecce. Giandomenico
Pistonami, ventisei anni, primo caporalmaggiore, nato ad
Orvieto, ma residente a Lubriano in provincia di Viterbo.
Massimiliano Randino, trentadue anni, caporalmaggiore, di
Pagani, provincia di Salerno. Matteo Mureddu, ventisei anni,
caporalmaggiore, di Solarussa, un paesino in provincia di
Oristano, figlio di un allevatore di pecore. Due giorni fa
Roberto Valente stava ancora a casa sua vicino allo stadio San
Paolo, a Piedigrotta, a godersi le ultime ore di licenza con sua
moglie e il suo bambino, come pure Massimiliano Radino, sposato
da cinque anni, non ancora padre.
Erano appena sbarcati a Kabul, appena saliti sulle auto
blindate, quei grossi gipponi "Lince" che hanno fama di essere
fra i più sicuri e resistenti, però non reggono alla
combinazione di chi dispone di tanto danaro per imbottire
un'auto di 150 chili di tritolo e di tanti uomini disposti a
farsi esplodere. Andando addosso a un convoglio, aprendo un
cratere lunare profondo un metro nella strada, sventrando case,
macchine, accartocciando biciclette, uccidendo quindici civili
afgani, ferendone un numero non ancora precisato di altri, una
sessantina almeno, bambini e donne inclusi.
E dilaniando, bruciando vivi, cuocendo nel loro involucro di
metallo inutilmente rafforzato i nostri sei paracadutisti, due
dei quali appena arrivati. Partiti dalla mia terra, sbarcati,
sventrati sulla strada dell'aeroporto di Kabul, all'altezza di
una rotonda intitolata alla memoria del comandante Ahmad Shah
Massoud, il leone del Panjshir, il grande nemico dell'ultimo
esercito che provò ad occupare quell'impervia terra di montagne,
sopravvissuto alla guerra sovietica, ma assassinato dai Taliban.
Niente può dirla meglio, la strana geografia dei territori di
guerra in cui oggi ci siamo svegliati tutti per la deflagrazione
di un'autobomba più potente delle altre, ma che giorno dopo
giorno, quando non ce ne accorgiamo, continua a disegnare i suoi
confini incerti, mobili, slabbrati. Non è solo la scia di sangue
che unisce la mia terra a un luogo che dalle mie parti si sente
nominare storpiato in Affanìstan, Afgrànistan, Afgà. E' anche
altro. Quell'altro che era arrivato prima che dai paesini della
Campania partissero i soldati: l'afgano, l'hashish migliore in
assoluto che qui passava in lingotti e riempiva i garage ed è
stato per anni il vero richiamo che attirava chiunque nelle
piazze di spaccio locali. L'hashish e prima ancora l'eroina e
oggi di nuovo l'eroina afgana. Quella che permette ai Taliban di
abbondare con l'esplosivo da lanciare contro ai nostri soldati
coi loro detonatori umani.
E' anche questo che rende simili queste terre, che fa sembrare
l'Afganistan una provincia dell'Italia meridionale. Qui come là
i signori della guerra sono forti perché sono signori di altro,
delle cose, della droga, del mercato che non conosce né confini
né conflitti. Delle armi, del potere, delle vite che con quel
che ne ricavano, riescono a comprare. L'eroina che gestiscono i
Taliban è praticamente il 90% dell'eroina che si consuma nel
mondo. I ragazzi che partono spesso da realtà devastate dai
cartelli criminali hanno trovato la morte per mano di chi con
quei cartelli criminali ci fa affari. L'eroina afgana inonda il
mondo e finanzia la guerra dei Taliban. Questa è una delle
verità che meno vengono dette in Italia. Le merci partono e
arrivano, gli uomini invece partono sempre senza garanzia di
tornare. Quegli uomini, quei ragazzi possono essere nati nella
Svizzera tedesca o trasferiti in Toscana, ma il loro baricentro
rimane al paese di cui sono originari. È a partire da quei
paesini che matura la decisione di andarsene, di arruolarsi, di
partire volontari. Per sfuggire alla noia delle serate sempre
uguali, sempre le stesse facce, sempre lo stesso bar di cui
conosci persino la seduta delle sedie usurate. Per avere uno
stipendio decente con cui mettere su famiglia, sostenere un
mutuo per la casa, pagarsi un matrimonio come si deve, come
aveva già organizzato prima di essere dilaniato in un convoglio
simile a quello odierno, Vincenzo Cardella, di San Prisco,
pugile dilettante alla stessa palestra di Marcianise che ha
appena ricevuto il titolo mondiale dei pesi leggeri grazie a
Mirko Valentino. Anche lui uno dei ragazzi della mia terra
arruolati: nella polizia, non nell'esercito. Arruolarsi, anche,
per non dover partire verso il Nord, alla ricerca di un lavoro
forse meno stabile, dove sono meno certe le licenze e quindi i
ritorni a casa, dove la solitudine è maggiore che fra i
compagni, ragazzi dello stesso paese, della stessa regione,
della stessa parte d'Italia. E poi anche per il rifiuto di
finire nell'altro esercito, quello della camorra e delle altre
organizzazioni criminali, quello che si gonfia e si ingrossa dei
ragazzi che non vogliono finire lontani.
E sembra strano, ma per questi ragazzi morti oggi come per molti
di quelli caduti negli anni precedenti, fare il soldato sembra
una decisione dettata al tempo stesso da un buon senso che
rasenta la saggezza perché comunque il calcolo fra rischi e
benefici sembra vantaggioso, e dalla voglia di misurarsi, di
dimostrare il proprio valore e il proprio coraggio. Di
dimostrare, loro cresciuti fra la noia e la guerra che passa o
può passare davanti al loro bar abituale fra le strade dei loro
paesini addormentati, che "un'altra guerra è possibile". Che
combattere con una divisa per una guerra lontana può avere molta
più dignità che lamentarsi della disoccupazione quasi fosse una
sventura naturale e del mondo che non gira come dovrebbe, come
di una condizione immutabile.
Sapendo che i molti italiani che li chiameranno invasori e
assassini, ma pure gli altri che li chiameranno eroi, non hanno
entrambi idea di che cosa significhi davvero fare il mestiere
del soldato. E sapendo pure che, se entrambi non ne hanno idea e
non avrebbero mai potuto intraprendere la stessa strada, è
perché qualcuno gliene ne ha regalate di molto più comode, certo
non al rischio di finire sventrati da un'autobomba. Infatti
loro, le destinazioni per cui partono, non le chiamano "missione
di pace".
Forse non lo sanno sino in fondo che nelle caserme
dell'Afghanistan possono trovare la stessa noia o la stessa
morte che a casa. Ma scelgono di arruolarsi nell'esercito che
porta la bandiera di uno Stato, in una forza che non dispone
della vita e della morte grazie al denaro dei signori della
guerra e della droga. Per questo, mi augurerei che anche chi
odia la guerra e ritiene ipocrita la sua ridefinizione in
"missione di pace", possa fermarsi un attimo a ricordare questi
ragazzi. A provare non solo dolore per degli uomini strappati
alla vita in modo atroce, ma commemorarli come sarebbe piaciuto
a loro. A onorarli come soldati e come uomini morti per il loro
lavoro. Quando è arrivata la notizia dell'attentato, un amico
pugliese mi ha chiamato immediatamente e mi ha detto: "Tutti i
ragazzi morti sono nostri". Sono nostri è come per dire sono
delle nostre zone. Come per Nassiriya, come per il Libano ora
anche per Kabul. E che siano nostri lo dimostriamo non nella
retorica delle condoglianze ma raccontando cosa significa
nascere in certe terre, cosa significa partire per una missione
militare, e che le loro morti non portino una sorta di pietra
tombale sulla voglia di cambiare le cose. Come se sui loro
cadaveri possa celebrarsi una presunta pacificazione nazionale
nata dal cordoglio. No, al contrario, dobbiamo continuare a
porre e porci domande, a capire perché si parte per la guerra,
perché il paese decide di subire sempre tutto come se fosse
indifferente a ogni dolore, assuefatto ad ogni tragedia.
Queste morti ci chiedono perché tutto in Italia è sempre
valutato con cinismo, sospetto, indifferenza, e persino decine e
decine di morti non svegliano nessun tipo di reazione, ma solo
ancora una volta apatia, sofferenza passiva, tristezza inattiva,
il solito "è sempre andata così". Questi uomini del Sud, questi
soldati caduti urlano alle coscienze, se ancora ne abbiamo, che
le cose in questo paese non vanno bene, dicono che non va più
bene che ci si accorga del Sud e di cosa vive una parte del
paese solo quando paga un alto tributo di sangue come hanno
fatto oggi questi sei soldati. Perché a Sud si è in guerra.
Sempre.
Published by arrangement with Roberto Santachiara Literary
Agency
(18 settembre 2009)
fonte: la
repubblica.it
commento di Tersite
I SOLDATINI DI CARTONE
ciao Roberto,
Il
prof. Stefano Rodotà, al festival della filosofia, a Modena, ha
affermato che la democrazia alimenta se stessa e nutre il suo
valore se lascia alle persone di essere soggetti e cioè di
accettare che non ci sia un pensiero unico che espelle tutto ciò
si configuri come espressione fuori dall'idea dominante (dominus
culturale). E' nel rispetto di questo principio che ho la
sovranità di poter "liberamente" fare la mia narrazione della
politica estera delle classi politiche del Paese in cui vivo. La
democrazia è tale se ha potere di accoglienza e non di
esclusione, quindi. Ed eccomi a Te: ho
letto il tuo bello e doloroso articolo; in una cosa non sono
d'accordo: non sono morti per la patria, e non sono
"eroi". le condoglianze vanno fatte solo alle famiglie.
Questo Stato usa l'arma degli incentivi economici per mandare a
morire dei giovani in terra straniera per difendere delle
raffinerie di greggio e per partecipare alla ricostruzione con
imprese italiane. Non si va in "missione di pace" con i carri
armati.
i soldatini di cartone li definirei: noi siamo emigrati al nord
con le valigie di cartone, loro in Iraq Afghanistan, Kossovo,
Beirut, Libano ect... per racimolare un gruzzoletto di euro per
"costruire" anche loro, in qualche modo, il futuro: comprare una casa e
mettere su famiglia: cosa ci tocca fare per campare!! I governi ipocritamente adesso, come
ogni volta che i "figli del Sud" tornano a casa nelle bare, fan finta di piangere dichiarando beffardamente
che la "missione continua" e che i soldati non "torneranno a
casa".
A questo macabro gioco dei sentimenti mi rifiuto di partecipare.
chi invece vuole unirsi allo spettacolo del dolore si accomodi
pure. Tu nel best seller "Gomorra" parlavi di un Sud lasciato in
mano alle mafie. io ti dico che è lasciato in uno stato di
depressione economica e sociale perché il capitalismo ha bisogno
di avere manodopera a basso costo per le imprese del nord (noi
con la valigia di cartone) e giovani figli di povera gente
meridionale pronti a entrare nelle forze dell'ordine (soldatini
di cartone) per darsi un futuro, costretti così a proteggere i
privilegi e i capitali del potere economico.
Questa è la situazione: la maggioranza dei giovani di leva è
meridionale, i carabinieri sono meridionali, i poliziotti sono
meridionali, gli operai che lavorano nelle fabbriche del nord sono meridionali e
extracomunitari: avere nel proprio Stato sacche di forte
depressione e povertà è volontà del sistema in quando si
garantisce se stesso.
Poveri genitori, povere madri che dovranno piangere i loro figli
affianco di cinici politici che per mettere a posto la sporca
coscienza celebreranno ancora una volta, in diretta
televisiva, i pomposi quanto strumentali funerali di Stato.
Nel salutarti, "fraternamente", porgo sentite condoglianze alle famiglie dei caduti,
un saluto vito feninno |